Carlo Bini


MANOSCRITTO DI UN PRIGIONIERO





You smile? t'is better thus than sigh.
Byron



V'è più ragione di ridere quando sei in fondo, che quando sei in cima; - almeno tu non temi più di dare la balta. Il riso dell'uomo felice può essere smentito da un punto all'altro. La Fortuna non fa con­tratti perpetui con nessuno. Il suo corso è a spirali, e non rettilineo. Oggi t'abbraccia, e ti mette sul capo un diadema; dimani ti taglia la testa, e la dà per balocco al­l'abietto, che faceva da sgabello ai tuoi piedi.


Epigrafe che va per conto mio



CAPITOLO PRIMO


Il cervello dell'uomo appena è in istato di eserci­tare le sue funzioni può rassegnarsi in tre scuole. Di queste una infallibilmente ne conoscete, - senz'altro le conoscerete anche tutte, perché non sono arcani di astronomia; - son cose semplici, e dappertutto si sentono dire. Io nondimeno, a scanso di equivoci, mi stimo in dovere di nominarvele tutte e tre, secondo l'ordine naturale in cui giacciono fino dal principio dei secoli. Elle pertanto son queste:


Scuola della Fede;

Scuola del Dubbio;

Scuola dell'Incredulità.

E in una di queste tre, suo malgrado o no, ha da rassegnarsi il cervello. La prima è più frequen­tata di tutte; - la seconda più della terza; quest'ultima ha un numero bene scarso di alunni. Il locale stesso è sì angusto che non potrebbe capirne una folla, e per entrarvi ci vogliono certi dati requi ­ siti, che non son comuni. Sic se res habet. V'è chi crede in tutto; v'è chi dubita di tutto; v'è chi non crede in nulla, V'è chi crede che il Sole abbia gli occhi, il naso e la bocca come abbiamo noi; - v'è chi dubita che il Sole non sia di fuoco, ma una massa enorme di ghiaccio; - vi sono certi pochi dispe­rati che non credono in nulla, - né anche nel sasso dove urtano, - né anche nell'acqua che li bagna. - La Verità dove siede? - Di grazia, vi prego, non fate a me questa dimanda, perché" non saprei di dove cominciare a rispondervi. Quello che è vero, scuola la pretende esclusivamente nel suo retto, - e le ha destinato un bel seggiolo e a brac­cioli, dove non ci si vede mai nessuno a sedere. Ma tutte le scuole vi spiegano il fenomeno in questa guisa: non sì può negare, voi non vedete nessuno, e noi non vediamo nessuno, ma v'è la sua propria ragione; - la Verità è un ente invisibile. Forse la Verità imita il Congresso degli Stati Uniti d'America, che tiene le sue sessioni ora in questa ora in quella città, regolandosi con una giusta vicenda.

Io per cominciare ab ovo, come dicono i retori, primamente entrai nella scuola della Fede, palpan­do l'ombre come cose sensibili, fino a che il tatto educato dall'uso non uscì d'inganno. Allora prote­stai nelle debito forme; - tolsi commiato il meglio che seppi, e mi diedi alla scuola del Dubbio. Non operò la stanchezza o il capriccio; furon la coscien­za e il puntiglio che mi fecero divorziare colla Fede. La Fede me ne aveva fatte troppe delle fusa torte, e troppo manifeste, Mi dava una cosa per bianca, e al riscontro era bigia; - e quanto spesso, per cagion sua, invece d'uno ho dovuto far due viaggi, ho dovuto fare un conto due volte!

Un tempo io mi dava a credere che un effetto solo e determinato fosse prodotto sempre da una causa sola, determinata, immutabile. Un tempo io lo credeva, - e la Logica anch'essa mi accennava col capo ad una certa distanza. A me pareva allora che volesse darmi ragione, - e forse invece voleva dirmi di no,

Oggi il mio credo è sensibilmente variato quasi in tutti i suoi articoli, e tale è il frutto degli anni. Ma son io più felice? siete voi più felici, voi, che spettaste con tanto anelito il benefizio del tempo? - Gli anni mi hanno guarito di certe poche malat­tie, che non mi facevano né bene né male, e mi hanno guarito di più altre malattie, che mi face­vano meglio della salute. Ora me ne accorgo, ma è tardi, - e poi quel che è stato doveva essere. Gli anni, non contenti che il pomo dell'Asfaltide fosse pieno di cenere, gli hanno voluto rapire la lusinga di una scorza lieta dì bellezza e di luce. Oh! la dot­trina degli anni! io la lascerei volentieri a chi la vuole, se il Fato non me l'avesse imposta come una camicia di forza. La dottrina degli anni smuove il cuore dal suo centro portandolo verso la testa. È una dottrina severa, geometrica, che cammina per terra colle mani e coi piedi, e dal tetto in su non vede altro che nuvole, e le stima buone solamente a far piovere.

Ma veniamo al dunque. - Io voleva dire che un effetto solo non dipende sempre da una causa sola:

anzi spesso può dipendere sempre da due cagioni diametralmente opposte fra loro. - Un fulmine può scoppiare a ciel sereno, - può scoppiare in burrasca. - Non so se in Fisica regga; ma l'ho detto così per dare un certo rilievo al mio disegno, - e in ogni caso sapete dove trovarmi; - io son qua per le debito scuse. - L'uomo può andare in prigione per i suoi meriti, exempli gratia per un furto, - etiam può andarvi per un qui pro quo. Un qui pro quo non è cosa da pigliarsi a gabbo; alle volte, è vero, può farvi ridere; - sovente an­cora può farvi corrugare la fronte. Un qui pro quo può mettervi ai fatto d'un segreto che non avreste mai sospettato; - può dare e toglier l'ale a una vittoria; - può mandarti in prigione, e viceversa può farti vescovo.




CAPITOLO SECONDO


Lo conoscete voi Sancio Pansa? quel tipo verace di buon senso greggio e originale, tale e quale co­me la natura se lo cava di manica? - Ma diamine! v'è mestieri di domandano? Prendete l'uomo il più idiota, e rammentategli Sancio Pansa, si mette su­bito a ridere. Sancio Pansa è conosciuto in Europa, è conosciuto in America e sarà pur conosciuto in Africa e in Asia, quando queste due parti del globo vorranno leggere nei nostri libri. Sancio Pansa è il buon umore incarnato, - grazioso nei suoi sali, grazioso nelle sue balordaggini, grazioso a piedi, grazioso sull'asino. - Sancio Pansa ha ormai la sua nicchia nella storia, e vi sta saldo, inchiodato, imperterrito; - potete scuotere a vostra posta, San­cio Pansa non si muove, non crolla. Egli e il suo asino occupano pacificamente tante miglia quadrate di fama, quanto Il primo conquistatore di prima classe: citate pure Alessandro, citate Cesare o Buo­naparte.

Eterne grazie a Cervantes che me lo diede a co­noscere! Io l'ho benedetto le mille volte Sancio Pansa, perché mi ha fatto del bene. L'ho benedetto co­me il maestro che ml ha insegnato tante cose, che l'accigliata filosofia non sapeva Insegnarmi; l'ho be­nedetto come il sogno allegro delle mie veglie, - come l'amico che nell'ora nera veniva di mezzo a mettermi in pace meco stesso e col prossimo. - Sia lieve la terra sulle sue ossa; sia lieve ancora su quelle del suo asino. - Quest'ultima prece con­solerà il suo spirito quanto la prima.

Sancio Pansa dunque era quell'uomo. che voi tutti ben conoscete. Aveva anch'egli una madre, perché Sancio Pansa fu una persona vera e viva di questo mondo, battezzata e sepolta in Ispagna. Ora non mi ricordo appunto in qual parte del libro Sancio Pansa racconta che sua madre, per arguzia di na­tura e per vecchiaia, era una donna pratica assai delle cose umane. Narra di più, che un giorno ra­gionando di nobiltà, di casate illustri, di origini an­tiche, sua madre chiuse il discorso affermando sin­ceramente di non aver conosciuto al mondo se non due sole famiglie: quella di coloro che hanno tutto, e quella di coloro che non hanno nulla. E la vecchia soggiungeva candidamente che, non so come, l'istin­to la portava a dirsela più volentieri colla famiglia dei possidenti.

Dunque nota bene: chi va in prigione è povero o ricco.



CAPITOLO TERZO


Quando va in prigione un Signore, è un avveni­mento che nessuno se lo aspettava. Tutti se ne fanno le maraviglie; tutti ne parlano in mille voci, in mille maniere. Chi bisbiglia, chi grida, chi dice di sì, chi dice di no.

La città è seminata di gruppi, e per mezza gior­nata almeno non fanno più nulla, se non ciarlare del caso, e da un gruppo cacciarsi in un altro: pre­cisamente come quando segue l'eclisse del Sole Un Signore in prigione pare alla plebe impossibile. - La plebe, che, somma fatta, in capo all'anno sta sei mesi in prigione e sei mesi in una soffitta, è inutile, non se ne persuade, perché non ce ne vede mai dei signori, o così di rado che non se ne rammenta. Crede le prigioni fabbricate unicamente per sé; e se v'entra alcuno che non sia de' suoi, è un fatto che la percuote, le sembra quasi un'usurpa­zione. - Tanta è la potenza dell'uso. - La plebe non crede che la colpa possa vestirsi di panno fine, e anche di porpora; - crede che la colpa vada so­lamente vestita di cenci, scalza, e col capo ignudo. - E sì che tutto giorno ha in bocca un proverbio pieno di verità che dice: L'abito non fa il monaco. Non giova: - quel proverbio erra per tradizione così sulla lingua, ma la mente non l'accorda. - La plebe crede pur troppo nell'abito, e cotesta persua­sione oggimai s'è ossificata con lei.

Tuttavia, volere o no, di rado, ma qualche volta un Signore va in prigione.

Egli, appena ha varcato di tre o quattro passi la soglia, si volta risoluto, - fa il viso più imperioso del solito, - squadra il carceriere dai capelli alle piante, - poi gli ficca gli occhi negli occhi. - La­sciatelo fare: il Signore legge qualche cosa in que­gli occhi. È una lettura rapida, che dura un attimo, ma basta, - e il Signore se ne trova contento.

Se ne trova contento, e mette mano alla borsa; - la dondola con due dita un momento per aria, - la fa suonare, - dice qualche cosa che non vuoi dir nulla, - e il soprastante che è un gran chierco in tutte le lingue, - anche in quella dei muti, - ri­sponde subito: comandi, comandi, - in quella stes­sa maniera, né più né meno, che rispondevano gli spiriti in quei secoli d'oro, quando un mago o una strega con un tocco di verga o con un ribobolo erano padroni dell'aria, della terra, e dell'inferno. Mal abbia l'Inquisizione che accese un così gran fuoco che distrusse questa ed altre meraviglie: di­strusse infine anche se stessa!

Voi l'avete sentito, il soprastante ha risposto: co­mandi, comandi. E di fatti la metamorfosi da un punto all'altro è così improvvisa, così universale, che sei tentato a giurare rinnovellato il regno degli incantesimi. In cinque minuti il Signore è stato in­trodotto in un nuovo quartiere; e il soprastante gli ha chiesto perdono, se, così preoccupato com'era, aveva sbagliato di numero. Il valentuomo aveva preso un tredici per un quindici; e il Signore per tutta risposta gli ha battuto due volte umanamente sulla spalla, non mi ricordo se destra o sinistra. Ora le stanze sono tre, e prima erano una. Sono larghe, ariose, imbiancate di nuovo, con qualche rabesco per maggior vaghezza, e le finestre arri­vano a mezza vita. Le finestre danno sur una buona strada, dove passano carrozze e pedoni, uomini e donne, dove il Signore può fare anche all'amore, -e senza scandalo.

Viva la metamorfosi quando va dal basso all'alto! - Fervet opus. - Le piume sottentrano al pagliericcio, - le sedie all'unica panca, - i cristalli all'unico orciuolo di terra cotta. I valletti sudano attenti e in silenzio. - << Fate piano con quello specchio, - badate al canterale, è nuovo di zecca; - ehi! quel Napoleone non è mica di piombo, è d'alabastro, voi lo maneggiate come una brocca, - sagratissi­mo diavolo! - ci vuoi maniera, - badate, ve lo dico, chi rompe paga; - dove sono i vasi dei fiori? >> Così grida affannata la voce chioccia del soprastante, e non si cheta più mai.

In questo mentre il Signore ha girato per tutti i versi la sua nuova abitazione: - ha veduto e ri­veduto minutamente; ha disposto dove far la tal cosa, dove far la tal altra: - dove dormire, - dove vegliare, dove pensare, - dove non pensare. ha fatto di quando in quando diverse dimande, e il so­prastante spesso gli ha risposto un no invece d'un sì, e viceversa. È un cattivo momento per discorrer con lui; - ha l'animo troppo internato nell'assetto delle tre camere, e cotesto pensiero gli ha rubato la mano. Ella è finita, - vuoi farsi onore, - nes­suno lo frastorni, - tanto non dà retta a nessuno.

Laudato Iddio! l'assetto è finito, - si può respi­rare, - respiro anch'io. Con un'occhiata i valletti son licenziati, e se ne vanno. Alla buon'ora. Adesso il soprastante è contento; - se lo guardate bene nella statura, vi pare un dito più alto. - Si asciuga il sudore della faccia, - si raffazzona i capelli, - compone io scompiglio delle vesti, - scuote d'in­dosso la polvere, - si mette insomma in buono stato di comparire come un galantuomo. Dopo si rivolge al Signore con un mezzo sorriso tra la com­piacenza e l'orgoglio, e il Signore gli corrisponde tentennando con bel garbo la testa. Ora è tempo che anch'ei se ne vada. E di fatti vedetelo là col cappello in mano, che se ne va all'indietro fino alla porta. E non crediate che se ne vada alla muta. Oh! il soprastante è un uomo di mondo. Sicura­mente, ha detto: servo devoto. Io l'ho sentito con queste orecchie, - e l'ha detto in tono di basso assoluto.

Ora manca null'altro? - Non saprei: - v'è la prigione, e il Signore v'è dentro. Oh! le belle pri­gioni che son quelle dove vanno i signori! La po­vera gente le scambierebbe volentieri con la sua libertà. Cosa manca al Signore là dentro? Il sopra­stante gli ha pur detto: comandi, comandi; - ed egli non ha inteso a sordo. Gli dà noia il divario, la novità del locale? Può immaginarsi finita la scrit­ta della casa abitata prima, e che gli sia convenuto tornare in un'altra; - può immaginarsi il suo pa­lazzo in mano alle maestranze per bisogno di certi restauri, e che per questo abbia condotto a pigione provvisoriamente una casa, come veniva veniva. Gli dà noia forse il non potere uscir fuori? - Bene, può mettersi- in capo che non ha voglia d'uscire, - che l'acqua vien giù a rovesci, - che si è stravolto un piede montando a cavallo, - che cerca la solitudine per comporre un'opera, per farsi an­che un bel nome. In somma a lui tocca a scegliere. - L'immaginazione è là come un merciaiuolo alla fiera, e gli va mostrando uno dopo l'altro i suoi mille fantasmi, e si protesta ai vendere a buon mercato.



CAPITOLO QUARTO



Fra bene e male una buona mezz'ora è passata. Cos'abbia fatto il Signore frattanto, io non ve lo posso dire. Io non sono Sant'Antonio, non posso trovarmi al tempo stesso In due luoghi. Ho lasciato il Signore, e sono uscito col soprastante andandogli dietro dietro ad una giusta lontananza. Il soprastante ha girato due strade, - poi è riuscito sur una piazza. Quivi a passi misurati s'è accostato a uno stabile di bella apparenza, che al primo piano portava una mostra dipinta nelle regole con certe parole cubitali, che dicevano Restaurateur. Come ha messo il piede sul primo scalino, ha cavato fuori una scatola, - ha preso tabacco, - ha fatto uno sternuto, - poi s'è infilato su per le scale. E io die­tro senza perder tempo. To son l'ombra del soprastante; - non mica per nulla, vedete, - ma son curioso anch'io, - forse troppo; - già sono stato sempre, - curioso forse come una femmina, o co­me un confessore.

Il soprastante ha aperta la bussola franco franco, come se fosse stato il padrone, o come un avven­tore dei buoni. Arrivato in mezzo ha dato il buon giorno, e del compare, a un cert'uomo, che stava chinato sopra una tavola a mettere in sesto non so quali vivande. Il compare s'è riscosso, - s'è rigirato in un fiat, e veduto il soprastante, ha fatto subito bocca da ridere, e gli ha reso bene e meglio il buon giorno. Egli ha compreso istantaneamente di che si trattava. Allora si sono strette le mani come due vecchie conoscenze, - hanno parlato forte, - si sono bisbigliati non so che nelle orecchie. Dopo di che il trattore ha lasciato quel che aveva da fare, - si è messo in ordine, e son venuti via di conserva. Eccoli insieme alle carceri; - già salgono una scala, - due scale, - tre scale; eccoli sul pianerottolo. Il soprastante avanti, il trattore dietro. Ecco che il primo mette adagio adagio la chiave, - la gira lentamente, quasi che la serratura fosse di vetro, - e prima di sospigner l'uscio ingentilisce la voce, e la manda dentro dicendo:

- É permesso? si può passare?

- Oh bella! se non passate voi, che avete le chiavi, chi deve passare?

- Vossignoria ha sempre ragione; ma io conosco con chi ho da trattare, e i miei doveri non li so d'oggi.

- Bene, bene. Che abbiamo di nuovo?

- Son venuto a sentire quel che occorre, conducendo meco quest'uomo.

- Avete fatto bene. Galantuomo, chi siete?

- Sono un trattore bello e buono ai servigi di Vossignoria.

- Ah! siete un trattore? siete una cosa più necessaria della prigione.

- Viva la faccia di Vossignoria! in questi luoghi vuoi essere borsa, e buon umore.

- Come vi chiamate?

- Marco Trappolanti, ai servigi di Vossignoria.

- Avete un nome curioso.

- Eh! Signore! Che vuole? tanto il nome che il grado son cose che bisogna portarle come Dio ce le mette addosso. Se stesse a noi scegliere, non an­drebbe così; - io mi sarei messo un nome lungo e liscio come una coda di cavallo, e invece di cu­cinare per gli altri farei cucinare per me. Non so se dico bene; sono un ignorante.

- Bisogna contentarsi. La Provvidenza ha sa­puto quello che ha fatto. Ma veniamo al pranzo. Come mi tratterete?

- Vossignoria di certo non vorrà stare all'ordi­nario, - mi parrebbe un'offesa a proporglielo. Del resto la tratterò come merita, come vuoi esser ser­vita. Non dubiti, l'arte la so fino in fondo; - com'ella vede, ci sono invecchiato. Scelga, che io son qua tutto per lei. Vuoi cucina alla Francese? alla Pie­montese? la vuole all'Inglese?

- Per non confondermi le assaggerò tutte. L'or­dinario non lo voglio; - mi appresterete un pranzo a parte secondo la nota, che vi darò. Pietanze sane, e in abbondanza. Vino sincero; - mi conten­to, che me lo diate come l'avete ricevuto. Voglio sperare che col fatto smentirete la cattiva impressione che produce il suono del vostro cognome. Scommetto che siete un galantuomo. Dite di no?

- Eh! non ho detto nulla, - e come vede io non sono in prigione.

- Bravo! è una risposta che vale un paolo. Pren­dete (gli dà un paolo). Andate, - spicciatevi, - ser­vitemi bene, - ed io penserò a voi.



CAPITOLO QUINTO



Voi potete rovesciare il quadro, se il carcerato appartiene alla famiglia dei poveri. Povero! - ma sentite che voce? - La combinazione stessa delle lettere che compongono un tal vocabolo è una cosa che dà addosso; - il nome stesso è così fiacco, che non si regge ritto,

No, - io non ci credo, - non ci credo neppure se me lo dicesse ella stessa. La Natura non ha fatto i poveri: - ella è buona, - ella è savia, - è madre, e non madrigna: siamo tutti suoi figliuoli, e vuoi bene tanto al primo che all'ultimo. E se la Natura avesse mai stampato questa moneta, bisogna pur dire che non avesse più credito, che avesse gli sbirri in casa, e dopo le prime mandate avrebbe fatto meglio a rompere il conio - avrebbe fatto meglio a fallire. Una moneta falsa è tuttavia di metallo, - ha un valore, benché minimo: - il povero è peggio, - è una moneta di fango.

I poveri, via, non ci volevano; - essi stessi ne vanno d'accordo. - Ma come mai son diluviati in questo mondo ad Ingombrare le strade, i vicoli, le piazze, in guisa che il signore per poter passare disperatamente è costretto di andare in carrozza? Ma come mai? Io mi ci sono stillato il cervello, e non son venuto a capo del come. L'ho dimandato perfi­no agli stessi poveri, e mi hanno risposto chieden­domi qualche cosa per amore di Dio.

Così è, - la storia è come io ve la narro. Le tradizioni, gli archivi, la stampa, non serbano traccia né del come né del quando fosse fondata la setta dei poveri; - non serbano neppure il nome del fondatore. L'antiquaria ha cercato dappertutto, - per terra, - per mare, - per aria, ma non ha tro­vato né pergamena, né medaglia, né altro docu­mento, che ne desse il minimo indizio. Per avventura la setta non fu mai in grado di rizzare né an­che un tronco d'albero in memoria della sua origine. Quel poco che ne sappiamo è che la setta ri­monta col suo principio verso un'epoca remota remota, le mille miglia lontana dal dominio della sto­ria, e conta un'antichità canuta tanto da dar gelosia a chi stima di attingere un merito a questa sor­gente. Un gentiluomo è sempre prudente, - ma tuttavia, per le buone regole, credo bene avvertirlo di non discender mai a cimento con un povero sulla primazia delle scambievoli origini. Bisognerebbe cercar nel passato e chi sa dove lo menerebbe l'in­dagine. Chi l'assicura che non trovasse uno degli avi suoi in cotai luogo da fargli salire i rossori sul viso? Quando Adamo zappava ed 'Eva filava, dove era allora il gentiluomo?

Povero! - Questo nome ha un tal prestigio per me, ch'io non me ne posso staccare. E quanti sono! Trovatemi chi li sappia contare, ed io ipso facto lo dichiaro matematico più valente di Galileo. I poeti, per dare un'idea delle cose che non si possono numerare, hanno tolta l'immagine dalle arene del mare, e dalle stelle del cielo; - potevano toglierla ancora dai poveri della terra, e così avrebbero avu­to un paragone di più. - Non v'è che dire, - è la più vasta setta di quante apparissero mai, - rima­sta sempre in seduta permanente, - e riceve gli adepti alla rinfusa, - senza chieder loro come si chiamino, - senza guardarli neppure in faccia. Non ha misteri, - non ha sotterranei, - cospira sotto la cappa del sole, non ha timore della Police. Ella non è una setta segreta, e qualsivoglia governo l'ammette.

O poveri! - Voi siete ricchi di pazienza più che altri non crede. Quando di sotto ai tetti delle vostre soffitte Voi vedete le stelle, chi non fosse povero bestemmierebbe, - penserebbe al freddo, - alla guazza, - alla pioggia, - al malore che gliene potrebbe incogliere. - E voi pensate invece che quegli astri scintillanti un dì saranno casa vostra, - che passerete dall'uno all'altro a vostro talento, - che avrete tutti i giorni domenica, - che le anime vostre potranno svoltolarsi a bell'agio sull'azzurro molle del firmamento come sopra un tappeto. Così sognate ad occhi aperti, e non sentite la durezza del letto, e l'inclemenza dell'aria. La speranza pietosa di tanti bisogni, di tanti dolori, coll'ambrosia del suo alito v'inebria, - vi affascina il cuore, - colle sue divine melodie vi culla i sensi in una calma profonda. - O poveri! Voi siete ricchi dl pazienza, e Dio, se non sa darvi di meglio, vi mantenga perenne quel dono. Che se un giorno la perdeste, se rompeste le dighe che al presente vi contengono, qual sarebbe allora la faccia del mondo? La gerarchia sociale resisterebbe al fiotto dei vostri milioni? la piramide starebbe, quando si scommo­vesse la base? Cosa sarà la superficie di questo suolo, quando il vulcano l'avrà lambita colle sue mille lingue di fuoco?



CAPITOLO SESTO



Ma ripigliamo il filo del nostro racconto. Dove siamo rimasti? Sarebbe bella che me ne fossi scordato! Lasciatemi pensare un momento: buoni, buoni, ho ritrovato il filo. - Ma, di grazia, stateci attenti ancor voi, - io sono avvezzo troppo a di vagare, tanto che non mi sembra neppure, Quando vedete ch'io prendo il largo per menarvi chi sa dove, - forse in un pantano, - forse sur un prato fiorito, - allora tentatemi per un braccio, - tira­temi una falda, - rimettetemi insomma sulla vera strada. Io n'ho bisogno, - voi lo vedete da voi;- non posso camminar diritto, - serpeggio sempre, - ormai è un vizio che s'è convertito in una se­conda natura. - Per questo ho stimato bene avvisarvene. - Uomo avvisato, mezzo salvato.

Sta tutto bene, ma un altro poco, s'io non me ne accorgo per tempo, il filo mi sfuggiva novamente di mano. - Su dunque, all'opera.

Ecco, il Povero viene. Vedetelo là in mezzo a quella massa di popolo, che lo preme e lo incalza nel suo tristo destino spensieratamente, come il Ca­vallone spinge sul lido una tavola del naufragio. L'avete veduto? Non si distingue se sia sciolto o le­gato, se gli sbirri sien quattro o sei, tanto è fitta quella massa di plebe. Che ronzio, che schiamazzo, che tempesta d'urli e di voci! - Cos'ha fatto? - Come si chiama? È del paese? - È forestiere? - È un ladro? - È un assassino? - Dove ha rubato? - Conoscete l'ammazzato? - Quante ferite? - E via discorrendo; e tutti dimandano, e tutti rispondono a un tempo. - Ma non potrebbe darsi che fosse, più che iniquo, infelice, che fosse innocente? - Po­trebbe darsi, ma nessuno l'ha pensato, nessuno l'ha detto. Ei, l'infelice, percorre le vie di fretta più che non vorrebbe; - il turbine popolare lo mena. E chi l'ha vestito in quel modo così pietosamente ridicolo? Se la Miseria non gridasse; io l'ho vestito, - tu diresti che il Capriccio ha mandato fuori la sua maschera più grottesca, il suo capo d'opera. Porta in capo una cosa, che tre anni sono era già un cappello vecchio, - ora è uno sgomento a definirla. - E la camicia non è di canapa, non è di lino, - né di cotone, - né di stoppa: - è d'una stoffa che non è stoffa, d'un colore che non è co­lore; una camicia che ha una manica e mezzo. Oh davvero è meglio contentarsi della pelle che ti die' tua madre, che avere una camicia come quella! - E i calzoni! che labirinto! - Non si sa se Sono a diritto o a rovescio, se il davanti è di dietro, o se il di dietro è davanti; - Se in principio furono fatti di toppe, o d'una materia unica, perché ora le toppe sono più grandi della materia primitiva. E quante Sono! e come affollate! e si montano addosso una sull'altra, come una turba di curiosi quando c'è da vedere uno spettacolo nuovo. E chi gli ha fatto quei calzoni? Giudicandoli al taglio, potrebbe averglieli fatti ancora un magnano. - Tutto questo non vuoi dir nulla; così vestito com'è, viene avanti; - un piede ha calzato di mota, - l'altro gli sta in una scarpa ; mezzo sì, mezzo no. Ei, l'infelice, è vicino a toccare la metà del suo viaggio. È un viaggio che i poveri fanno trequentemente, - di rado sciolti, più spesso legati, e non lo stampano, perché son modesti, né li rode la smania di farsi un nome à tout prix. È un viaggio che non fanno mai in vet­tura. È scritto che il povero vada sempre a piedi, - sia che vada a nozze, all'ospedale, o in prigione. E per questo il Povero va colle sue gambe in pri­gione; - e deve andarvi, fosse anche paralitico, stramazzato dalla febbre, fosse anche zoppo. - Il povero non ha diritto che a una vettura sola: a quella che dal carcere lo porta al patibolo, - dalla vita all'eternità.

Finalmente egli è giunto al portone d'ingresso, - all'arco trionfale della miseria, del delitto; dell'innocenza che la calunnia può convertire in delitto. E pur troppo vi sono trionfi di tutte le specie, e la plebe umana li accompagna tutti colla medesima calca, - col medesimo spirito, colla medesima furia, colle medesime grida. Basta che sia un alimento alla feroce curiosità della plebe! sia pure la testa mozza di Luigi XVI, o l'incoronazione di Buonaparte! Tra cibo e cibo non mette divario. - Il Povero ha passato il suo arco di trionfo, - trionfo di vergogna e di dolore. - La plebe è rimasta di fuori, e non sa neppur ella cos'altro più aspetti; ella non è sazia ancora.



CAPITOLO SETTIMO



Il Povero è avanti, e gli sbirri fanno il corteggio. Salgono e scendono più volte; - voltano a de­stra, voltano a manca; - è un intreccio che la mente alla prima non può raccogliere in ordine; - in fine danno in un corridone lugubre lugubre dove si può vedere l'oscurità, come disse Milton. Qui la vista non serve, conviene andare a tentoni. Giunti in fondo si fermano. Di lì a pochi minuti s'ode un rumor di passi che sempre più s'avvicina; - fi­nalmente, senza averlo veduto, comparisce un uomo con un mazzo di chiavi, - un uomo così per dire, con un viso duro, un viso cupo, che accresce le ombre del luogo. Gli sbirri non gli dicono che due parole, e poi se ne vanno.

Ora il Povero e il soprastante sono in presenza l'uno dell'altro. - Ma non ci segue una parola, non ci segue uno sguardo. Il povero non osa, il soprastante non se ne cura. Fra l'uno e l'altro giace un silenzio ineccitabile, una indifferenza letargica, come fra il beccamorti e il cadavere. Il soprastante tra la fretta e la rabbia apre un uscio basso più dell'uomo che deve passarvi, - poi si tira un passo indietro, come per dire al Povero: - entrate. Il pover'uomo curvandosi mette il piè sulla soglia, e il soprastante non crede opportuno di accompa­gnarlo, ma gli dà una spinta, e lo butta là come una cosa che non è più buona a nulla. E così come dico arriva in fondo in un attimo; la stanza non è troppo lunga, e con una spinta. s'andrebbe anche più là' se il muro non si opponesse. Ora a qual Santo ricorrere? I Santi anch'essi vogliono salmi e candele. Egli non è tentato di frugarsi le tasche, perché non ha tasche; - e, quand'anche le avesse, cosa dovrebbe cercarvi mai? Egli dispererebbe di trovarci un picciolo, posto ancora che li scudi belli e coniati piovessero giù dal cielo come le gocce dell'acqua. E in verità, io credo, ed egli crede, che non ci troverebbe un picciolo; - forse un conto, che non ha potuto pagare, e che lo manda in prigione, - forse un rosario, se pure la Miseria col suo flato ardente non gli ha cancellato dall'anima quel segno lieve di fede che l'amor di sua madre v'impresse quando egli era un fanciullo.

Arrivato in fondo si volta, ma come una macchi­na; sta un istante fra il sì e il no; poi cerca di con­durre sulle labbra un sorriso, e tenta di farlo, - ma il soprastante con un volto di pietra gli disfà quel sorriso cominciato appena a incresparsi. Egli allora si smarrisce, - tituba, - gli sembra che il suolo si avvalli; - era pallido pallido, e in un lampo si colorisce d'un rosso febbrile; - cerca una parola, e non la trova; - se avesse il cuore pacato la tro­verebbe di certo, ma un nodo di affetti gli scompi­glia la mente, gli chiude la gola. Quegli affetti sono troppi, e troppo forti; - si affacciano tutti in un gruppo, - non possono sboccare. Però, se tu guardi attento, su quella faccia v e un 'espressione di preghiera; - un senso profondo di supplica, - non per sé, - ma per altri. Vorrebbe dir mille cose, - alcune poi vorrebbe dirle pregando, dirle anche piangendo; vorrebbe che portassero a casa sua una parola di amore, una consolazione; e se invece dl un carceriere avesse un uomo d'innanzi, lo supplicherebbe di portare almeno un pane ai suoi figliuoli. Poveri suoi figliuoli! aspetteranno la sera, quando tornato a casa gli asciugavano il sudore della fronte, lo ricingevano di carezze, di baci, di mille dimande, - e mangiavano insieme il pane delle sue fatiche; - aspetteranno la sera, e non lo vedranno venire. Oh! concepite voi l'angoscia di aspettare indarno la creatura che vi ama, e che vi nodrisce? La sera è diventata notte, e non lo vedono venire; poveri suoi figliuoli! Lo vanno a cercare di su e di giù, ne dimandano a chi trovano, lo chiamano ad alta voce, ma vanamente; s'è fatto più tardi che mai, e il padre non viene. Santa Vergine! che sarà successo di lui? - Allora il dubbio “comincia le sue torture, - li fa sperare, e disperare, - piangere e ridere, - li rende insani col vortice della sua fantasmagoria, - vortice infernale, illuminato d'una luce livida, dove passano rapide mille figure diverse, dove or sì, or no, comparisce in fondo una bara. Poveri suoi figliuoli! pensano ancora, che possa esser morto! E quella sera non hanno mangiato, né mangeranno. - E la fame non è sola; - la fame ha fatto alleanza col crepacuore.



CAPITOLO OTTAVO



Il pover'uomo non ha potuto profferire una parola, e si è ricacciato nel cuore tutte le sue passioni come altrettante spine. Credeva di dir tutto col volto, ma un soprastante, fosse dotto ancora nelle lingue orientali, - fosse pure un Mezzofanti, - non sa leggere la sventura, o se la legge non le sa rispondere. Il soprastante non ha letto l'immenso volume di affetti che spiegava la tramutata faccia del carcerato; - o se l'ha letto, per tutta risposta gli fa sentire il cigolìo delle chiavi, e dei catenacci.

Il soprastante è partito. Va', va', miserabile! Tu sei più abietto dei rettili e degli insetti che albergano lo squallore delle tue case. Dio ti perdoni, se può: - Dio perdoni, se può, chi vien prima e dopo di te. Giudice, soprastante, carnefice! siete una trinità tenebrosa - siete un mostro a tre teste senza occhi, che gira una falce a destra e a sinistra. - Sapete voi dove sono gl'innocenti? Certamente sono a destra e a sinistra; - ma voi mietete spietatamente da una parte e dall'altra. - Piuttosto che esistere come voi è meglio essere scellerati: questi almeno trascorrono una carriera di delitto più breve. Il peccato, il bisogno, l'innocenza tradita sono il vostro patrimonio; se queste sciagure non fossero, voi morreste di fame. Il letto dove dormite è un fascio d'ossa umane indistinto, - l'armonia delle vostre sale è il gemito dei tormentati, - il pane che mangiate gronda di lagrime, - il vino che bevete, se aveste parlato d'uomo, sentireste che sa di sangue. Giudice, soprastante, carnefice, trinità spaventosa, che facesti gemere, che fai gemere, che farai gemere, se un dì la vendetta degli uomini non t'infrange, che dirai d'innanzi al trono dl Dio, quando sulla bilancia de' tuoi misfatti metterà il sangue innocente gridando: il sangue della virtù era quello delle mie vene? Vi dissi io di versano? Ora pensate a pagarmelo. -

E Dio per punirvi non aprirà i vostri codici ingegnosamente feroci; - non v'immergerà in un oceano di fuoco; - vi lascerà come siete; - voi meritate di rimaner tali. Dio non abbasserà l'ira sua sopra cose striscianti come voi. - Ei non vuole, ci non deve contaminarsi; - non calca le vipere. - Dio peserà le vostre iniquità, - poi ve la renderà; - ma voi non le porterete più come una piuma; - le porterete come un cilizio grave del giudizio di Dio, - come un peso che potrebbe schiacciare un gigante, un mondo, tutto, fuorché una cosa che non può perire. Dio desterà la vostra coscienza all'immortalità del rimorso. - E allora vi rotolerete per lo spazio infinito; - cercherete un perdono, un conforto, una stilla di rugiada, anche una maledizione, e non troverete che silenzio e deserto. Invocherete la morte, e questa fiera che un dì vi obbediva sommessa come una schiava, al vostro aspetto atterrita, fuggirà colle mani alle orecchie. Fulminati non d'altra pena, che della vostra stessa esistenza, abbandonati come la dispe­razione, la vostra eternità non sarà misurata che da due sensazioni; li rimorso e la solitudine.

E tu, pover'uomo, sei rimasto impietrito, soverchiato dalla foga delle tue passioni. Il peggio è che non puoi piangere ancora; ma piangerai più tardi, - non può mancare. - Una lacrima fu data alla gioia, una lacrima alla sciagura; - la prima rinfresca, l'altra arde come la lava. - Piangerai più tardi, e il tuo pianto sarà bello, perché non sarà tutto per te; - piangerai pei tuoi figli, per la madre, se l'hai, forse per un amore, forse ancora per una patria.

E perché vi stringete nelle spalle, come se il cuo­re del povero non potesse palpitare per un nobile affetto, come se l'intelligenza del povero non potesse valicare le regioni concedute alla mente umana? Sapete voi cosa racchiuda quel cranio? Quando meno vei pensate, potreste rinvenirvi gli elementi da farne un Michelangiolo, un Byron, un Bolivar. Conoscete voi la vita degli uomini grandi di tutti i tempi, e di tutte le nazioni? Plauto era schiavo, e girava il molino, - ma la sua Musa fu salutata da un popolo di eroi. E quando una povera donna alla sera cantava le sue canzoni di madre a un povero bambino, e sospirava guardandolo, e pensava che un giorno forse non avrebbe un cognome, - sarebbe un mendicante, - al più un lavoratore della campagna, avrebbe creduto mai di cullare Shakespeare, Rousseau, Franklin, di cullare il Correggio, e Masaniello? avrebbe creduto mai, che da quel verme, un dì sarebbe sorta la farfalla destinata a libare fiori immortali nei campi della Gloria e della Bellezza? - L'organismo umano rompe le leggi della gerarchia sociale, e quando l'Occasione bat­te sul vivo un popolo, allora si scorge quale delle classi possa dar più scintille. Allora la Storia non è più confinata in un gabinetto a sommare le partite di frodi che la Diplomazia ha segnato nei numerosi suoi protocolli; non è più stipendiata a descrivere una guerra querilmente sanguinosa, ove non li vedono in cozzo che due bastoni di maresciallo. La Storia si slancia da quelle angustie, e la superficie del mondo è la sua pagina, ed ogni linea che v'incide è un tratto di luce; - allora la Rivolu­zione francese sorge come una epopea magnifica, immensa sorge Mina e l'indipendenza spagnuola; sorge la lotta titanica della Grecia moderna. Oh gli ultimi eroi della Grecia non erano cavalieri dello spron d'oro!

Sì, pover'uomo; il tuo cuore può gemere per me, per la patria e per te. Dacché non posso sollevare le tue miserie, e quelle dei tuoi tanti fratelli, io non voglio toglierti un cuore, che forse avrai più buono e più generoso dei mio. Io non voglio toglierti quel­lo che non posso darti.

Certo, se tu fossi solo nel mondo, come alcuni sono, non so se per questo più o meno miseri di noi, a quest'ora avresti già preso il tuo partito; - avresti mostrato fronte ferma alla cattiva fortuna; - avresti cantato non so quante canzoni; perché il povero in mezzo agli stenti e alla sua nudità, quando ha il cuore franco, canta del continuo, - canta allegramente come un uccello, che si alimen­ta di quel che trova, e muta nido ogni sera.

Ma tu non sei solo; - e sei rimasto immobile, come tocco dalla folgore. Ora perché guardi le muraglie? perché crolli mestamente la testa? - Tu hai ragione: - non hai che due mani, e non son buone a fare una breccia; - tu guardi l'inferriata, ma è doppia, e ci vuole una scala a salirvi; - tu guardi la porta, ma è grossa, foderata di ferro, e sigillata in maniera che non dà l'adito neppure a un sospiro. Oh! il tuo sospiro non penetra di là nel mondo; e il mondo già non l'udrebbe, o penserebbe che fosse aria traverso uno spiraglio. E poi, cosa farebbe il mondo del tuo sospiro? Il mondo vuoi godere, e chiama breve la vita, breve tanto, che a mala pena dà tempo di pensare a sé. E poi, il mondo non ha inventato le carceri, le torture, i patiboli, non ha inventato mille delitti, che la Natura umana non riconosce? - Requiem aeternam. - Ti hanno deposto in un sepolcro, e non sei anche morto; - t'hanno deposto in un sepolcro, senza lumi e senza canti, come il suicida. E il mondo spensieratamente ti si agita dintorno col suo dramma pieno di rumore e di vita.

O pover'uomo ­potessi tu almeno dormire, potessi almeno posare su quella tavola le tue membra stanche, accasciate da tanti affanni! Ma il dolore non dorme mai; - veglia inesorabilmente, veglia come un marito geloso, perché il mondo è suo, perché addormentandosi teme d'allentare gli artigli, teme che la preda gli sfugga.



CAPITOLO NONO



- Uf! non è anche finita con quel vostro Pove­ro? Quasi quasi gli date più noia voi che la sua di­sgrazia. - Queste parole mi pare di sentirmele già arrivare alle spalle. E, se devo dire il vero, con quel mio Povero mi ci sono trattenuto un poco più del dovere. Ma che volete? Il solo Dio è senza di­fetti. Io l'ho questo vizio, preso fin dai primi anni; quando comincio, non la farei più finita. E non ho riguardo alla pazienza di quelli che mi stanno a sentire; - non serve che sbadiglino, che spurghino, che si dimenino, tutt'altro; - allora vado più che mai per le lunghe; direste ch'io lo faccio apposta; e può darsi: non lo sapete il proverbio? - Ogni vipera ha il suo veleno. - E tutto il male fos­se qui! lasciamo andare; - ci sarebbe da discorrer troppo. Ma veramente, se devo esser giusto, con quei mio Povero mi ci sono trattenuto un poco più del dovere; - quando è vero, è vero. Figuratevi! non ho neppur desinato! Non ho potuto veder desinare il Signore! E oramai chi sa se sono più in tempo! E' la verità che i signori vanno tardi a pran­zo, e durano un pezzo; ma non c'è rimedio; - ho fatto tardi; - l'orologio mi condanna. Questo poi mi dispiace. Son tanto curioso! vorrei veder tutte le cose, - anche quelle che mi facessero storcer la bocca. Non potete immaginarvi quanto pagherei a potere stare accanto, senza esser veduto, a un Bar­gello, a un direttor di coscienze! Dio sa quanto pa­gherei! Badate, non farei quei mestieri per cosa del mondo; - non mica che vi sia nulla di male, - ma per non entrare in intrighi, per non avere a rispondere, per non aver da far niente. Io sono il cri­stianello fuggifatica per eccellenza; - mi basta di sapere, e non vado più in là. - Ma che faresti di tante cose, quando tu l'avessi sapute? - Io lo so quel che ne farei. Farei tanti calcoli, tante figure, tirerei tante linee, che, se voi non conoscete appieno chi sono, mi pigliereste per un fattucchiere! Oh se potessi rubare quella bottiglia dove stava rinchiuso il diavolo zoppo! grave come voi mi vedete, mi metterei al repentaglio di andarla a rubare in cima a una cuccagna! Immaginate voi che piacere di fare un viaggio sui tetti col mio diavoletto a vedere tutti i fatti degli altri! Immaginate voi che sorpresa a trovare un amico la mattina, e raccontargli che dormiva all'insù, - che dormiva per parte, - che aveva in capo un berretto, o una cuffia! che faceva una tal faccenda buona a farsi e non a ridirsi, immaginate voi che sorpresa, che piacere! Quando io ci penso, vado in estasi! Altri sogna dì vincere un temo, altri d'esser fatto gonfaloniere, altri che i grani rincariscano; - io sogno sempre il diavolo zoppo, e se potessi averlo, anche un'ora sola del giorno, lo piglierei rovente come un ferro infuocato. Se poi volesse far meco vitalizio, io vi so dire che farei di tutto per averlo, che farei miracoli; mi adatterei a lavorare una parte della giornata, - mi adatterei, per averlo, anche a camminar lesto.

Ma vedete s'io dico il vero? Dianzi era tardi, - ora a forza di darle è più tardi che mai, ed io non mi sono anche mosso. È inutile, - io lo so, - il pelo si perde, ma non il vizio. Andiamo per quel che saremo in tempo. Chi vuoi venir meco? Su via, qualcheduno venite; - ho piacere che tutti godano. Ehi! là, galantuomo! voi che mi avete l'aria di esser sempre digiuno, che mi avete l'aria di voler arrivare così fino a dimani, volete venire a sentire e a vedere? Guardate! un cane è già sotto alle fi­nestre, - ha levato il muso da terra, - e guarda in su fiutando, aspettando la provvidenza. Ma voi ridete! Ah! io intendo bene quel riso amaro che avete fatto; - il supplizio di Tantalo non vi ag­grada. Il cane è corso per le sue buone ragioni; quella bestia è a miglior partito di voi. Un cane può mangiare un osso, se non gli danno la carne; - l'uomo pure mangerebbe un osso sovente, ma i denti non gli servono.

Amici, io ci sono: - Vedo il Signore che lavora, lavora con un coltello intorno a non so qual cosa, - par che tagli un non so che di duro: - in che diavolo si affanna il Signore? - di qui non ci scorgo troppo, - voglio farmi più appresso.

Pta! l'avete sentito? un tappo ha baciato i travi­celli; è sciampagna, per Dio!

Io lo sapeva, - la pigrizia è la mia rovina; - ella mi si è fitta nell'ossa, e per cagion sua non sarò mai un uomo comme il faut. Sono arrivato alla fin del banchetto, e potevo esser venuto al principio. Sono arrivato alle seconde mense volgarmente dette il dessert. Ci vuol pazienza, ma non posso dissimularmi la perdita enorme che ho fatto. È una perdita seria, effettiva, Io che son tanto cu­rioso non ho potuto vedere il desinare d'un signore dal cominciamento alla fine! io che ho veduto così di rado desinar dei signori, - che vedo sempre a mangiare dei poveri, - e che perfino quando man­gio io stesso ho di faccia alla tavola uno specchio antico, lungo lungo, che mi ridice tutto appuntito, e senza pietà! È una stizza maledetta che mi farebbe dare al diavolo; - non c'è maniera né anche di potersi illudere.

Io ve l'ho detto, - la pigrizia è la mia rovina; - che ci fareste voi, che non ci avete niente che fare? io stesso, io parte interessata, non ci faccio nulla. Ma zitti! zitti! ve lo chiedo In carità; - parmi di sentire aprir l'uscio pian piano; - ella è così; - l'orecchio non mi tradisce, - è lungo più del bisogno; - la mia vocazione era di farmi dottore, mio padre non ha voluto, - io non ci ho colpa.

Ella è così: - l'orecchio non mi tradisce; è stata schiusa la porta. Venite, venite; io non dico per ischerzo; il carceriere s'inoltra in punta di piedi, - non fa un rumore, - è leggiero come un alito; un gatto ne perderebbe al paragone; - è carico, che non ne può più. Cosa ha messo su quella ta­vola? - Ora ho visto bene: - è un bel lume al­l'inglese; - ora ha posato un calamaio, della carta, del libri; poffare! di dove se la cava tanta roba? zitti! zitti! vediamo che si leva di seno; - oh bella! sono i giornali! e perché no? - il Signore deve sapere come vanno gli affari, - anch'egli ha il suo partito in politica, -. e poi una somma sui fondi di Parigi, un'altra su quelli di Londra; - se non gli premono i Tories, o gli Whigs, se non gli preme il juste milieu, la gauche, o la droite, i consolidati gli premono: - premerebbero anche a voi, se ave­ste che fare coi fondi.

Il Signore guarda tranquillamente il soprastante in faccende, e tiene un bicchier di Porto vicino due dita alla bocca. Il Signore è tranquillo, beve, e lascia fare il soprastante.

- Or ora verrà il caffettiere. Vossignorla beverà un Moka stupendo, e bollente. Sentirà che Rum! Giammaica di nome e di fatti.

Il Signore gli risponde additandogli una bottiglia, e un bicchiere. Il soprastante riverisce, e butta giù stringendo gli occhi.

- Quegli avanzi li volete?

- Troppa grazia, Signore,

- Prendeteli, mi fate un piacere, mi levate il cattivo odore di camera.

- Con Vossignoria io non so che obbedire.

E la sua parola non manca. Gli avanzi del pasto son lauti; - prende, prende e riprende. Soprastan­te! soprastante! tu credi che nessuno ti veda, ma io ti vedo. Quando si tratta dl prendere, la gioia ti moltiplica le mani; - per pigliare tu sei Briareo. Vedete! piglia con tanta foga, che ha messo per infino una posata fra gli avanzi, e se n'è accorto per miracolo. Ora è così pieno zeppo di roba, che vuoi essere un brutto impaccio a licenziarsi col solito inchino; - nondimeno vuoi fare il suo inchino; - eh! soprastante! hai avuto propriamente un San­to dalla tua! la testa ti pesa più che non credi, e poco è mancato che tu non faccia un capitombolo.

Il Signore ha riso veramente di cuore, e si è le­vato da tavola.



CAPITOLO DECIMO



Che buon odor di caffè! Sentite, il profumo vien fino a noi; - come mi lusinga le nari! Questa volta il soprastante l'ha detta giusta; è un Levante legittimo, e carico per bene; oh! non si sbaglia; io non so come, ma me ne intendo.

Attenzione! Attenzione! Il Signore si fa inverso la finestra; ecco là fisso fisso; - ha dato uno sguardo verso di noi, e poi l'ha ritirato, come se noi non fossimo nessuno: - eh! ve l'ho detto sem­pre; saranno buoni, affabili come volete, ma, dàgli e ridàgli, il ticchio del Signore vien sempre a galla. Che bella pipa, eh! - bianca come il latte; - non è mica di gesso, che abbiate a credere! - è spuma di mare, e sarà costata le belle monete. E il ta­bacco? è Latakia pretto pretto, come voi siete un uomo. - E che foglio legge? - che disgrazia l'esser miope! - Maestro Santi, levatevi un po' di cavalcioni al naso quel vostro paio d'occhiali, ché voglio leg­gere il titolo del giornale; - tanto voi non sapete leggere; - ho capito: Journal des Débats; ho capito; il Signore è del partito ministeriale; - non può essere a meno: chi ha dei fondi cosa deve fare? Cosa fareste voi, che non ne avete? - Come legge attento! Si vede bene che vuole intendere. - E non è mica brutto il Signore! - colore bianco e rosso, carni fresche, un viso tondo, una testa tonda, un bell'occhio tondo: eh! ci si vede l'uomo, che se la gode, e lascia arrugginirsi chi vuole; - è nel suo giusto embonpoint; se non capite il Francese, andate a scuola io lo capisco. E quant'anni gli date? - Alto alto a vederlo io dico che passa la trentina; - come no? sentite, giù per lì dev'essere; sbaglio di rado in quanto a fisionomie. - E il Signore non ha moglie, Chi ve l'ha detto? l'ha presa non e anche un anno e di par suo; - e che buona dote! e che bella i ragazzina, se voi l'aveste veduta! poteva bersi in un bicchier d'acqua. - E le vuoi bene? Così così tra il freddo e il caldo; - badiamo veh' non la strapazza mica, non la ba­stona, che non aveste a crederlo voi altri, che mi­surate tutto sul vostro braccio, - non la cura troppo; - eh il Signore ha un affare vecchio! non lo può lasciare; ha provato, ha riprovato, - è stato impossibile; c'è una malìa di mezzo - forse qualche figliuolo; - ve ne fareste meraviglia? - Son cose di questo mondo; - chi non fa non falla.

E intanto che le ciarle piovono a fiocchi come la neve, il Signore ha finito di leggere, e chiude non solo le finestre, ma le imposte pur anche.

Caspita! quel chiudere ancora le imposte m e an­data giù male. Se avesse chiuso le finestre soltanto, col vedere metà dai vetri, e metà coll'indovinare, faute de mieux, mi sarei contentato. È agra davvero, e bisogna esser curiosi per convenirne. Vedete voi che stravaganze! Che il Signore faccia la siesta è nelle regole, lo vuole il bon ton, lo vuole il benes­sere del corpo; ma non lasciarsi veder dormire è una stravaganza: - lo dico e lo sostengo, ora e sempre, - ahora y siempre. - Come farò a ren­der conto del come dorma il Signore? Se dorma supino, o dalle due bande, se dorma vestito o spo­gliato? Poh! è una disgrazia, è una lacuna irrepa­rabile in questa istoria, che non saprei come riem­pire, se non coll'andare a dormire pur io. E badate che ci riesco, e son capace di farlo, Vedete voi, che stravaganze! quel chiudere le imposte mi ha fatto un danno del diavolo. Chi sa quanto tesoro d'osser­vazioni avrei potuto raccogliere dal sonno! Vedete, io sono così sottilmente curioso, che dalla faccia e dai moti del dormiente mi sarei studiato d'investigare i sogni che gli passeranno traverso il cervello. E poi, non poteva darsi che fosse un di coloro, che parlano fra il sonno? Chi sa cosa avrei potuto sa­pere? - cose, che il Signore non avrebbe dette all'unico suo amico, che non avrebbe dette né anche all'aria, che forse avrebbe stentato a dire al capez­zale del letto, quando il prete ti dà un passaporto in latino per l'altro mondo: Proficiscere, anima christiana; che significa: vattene, anima cristiana. Il tono è un poco assoluto, ma il tempo stringe, e non ne avanza pei complimenti; stringe tanto, che i morti non hanno tempo di provvedessi di nulla, e dalla fretta perfino partono ignudi. - Ve­dete voi, che stravaganze! sul più bello mi chiude in faccia le imposte! io ho perduto un tesoro! Per un curioso, credetelo, queste sono le pene dell'inferno.

Potessi almeno sentirlo russare! mi contenterei anche di questo. Ma che volete? I signori non russano Oibò! la bienséance non lo permette. Dormono leggieri leggieri, che non è cosa da credersi. Dormono con tanta disinvoltura, che io n'ho veduti di quelli, che tutti credevano desti, e pure dormivano. Come vada io non lo so, - ma il suo perché ci dev'esser sotto. Basta, quando io sarò signore, venite, e ve ne dirò la ragione.

Non v'è rimedio; - il meglio è darsi pace. Vuoi dormire il Signore senza che nessuno lo veda? Ebbene, ch'ei dorma; io non glielo posso proibire. Si­lenzio dunque; lasciatelo dormire.



CAPITOLO UNDICESIMO



Mi par mill'anni che passi quest'ora! Uh! le fi­nestre son sempre chiuse, - nessuno si fa vivo. Non so più quel che fare; - sono andato su e giù lungo la strada come un pendolo, e le gambe si protestano, non ne vogliono più sapere. Che dia­volo! quel Signore non ha discrezione; ora potrebbe alzarsi! - il sonno soverchio ingrossa il sangue, e, quel che è peggio, fa ottusa la testa. È vero ch'ei può farne di meno, - ha una buona borsa, - ha più del bisogno. Giova tanto poco la testa: per i più non la vedrei necessaria, se non fosse che la portassero per farsela tagliare. A me fin qui non ha reso che il dolor di capo, e Dio voglia che resti lì. - Ma le finestre son sempre chiuse! O pazienza! pazienza! è passato un carro, che ha fatto rintronare anche i tegoli, ma il Signore non l'ha sentito. Si vede bene che ha una buona coscienza! dormire di quella fatta! come farà stanotte? felice lui! non ha debiti, non ha inquietudini, e però fa tutta una tirata. Eh! non son bagattelle! son due ore buone che dorme! - il Sole è andato sotto, che non è poco; - già già si fa buio. Oh! si desti, mio bel Signore, che farà un'opera meritoria per me. Se potesse segnarsi ch'io son qua fuora, e mi struggo per lui, già si sarebbe levato. Sì, ho un bel dire; egli dorme, e lascia vegliar chi vuole.

Tanto tonò, che piovve. Ho sentito rumore, - qualche sedia rimossa dal luogo. Eccole finalmente riaperte quelle benedette finestre! Non entro più in me dall'allegrezza! Potrò novamente veder qualche cosa, - potrò raccontarla. Mi son sentito ri­nascere; - viva il mio buon Signore! egli ha dor­mito di pro, - si scorge agli occhi, alla faccia, alle membra che stira saporosamente. Ora beve un bel bicchier d'acqua; eh! ci vuole un bel bicchier d'acqua; - sta nelle regole di chi sa ben vivere. - La buona vita fa la buona morte, Ora si affaccia alla finestra canterellando un'arietta; - mi par della Gazza ladra, se non m'inganno; - e intanto si aggiusta sulla fronte una bella ciocca di capelli castani, e intanto respira l'aria fresca della sera, che finisce di risvegliarlo, e lo rimette nello stato di prima.

Appena il mio Signore è ben desto, scuote risolu­tamente la testa in atto di accingersi a qualche faccenda di rilievo. Staremo a vedere quello che saprà fare il Signore. Intanto dal movimento della bocca mi accorgo che ha dato un ordine a qualcheduno ch'io non posso vedere, perché rimane nel buio. Già me lo immagino; sarà il soprastante. Già ho capito il tenore dell'ordine; era di accendere il lume; - non pensate mica un lume solo; - tutt'al­tro! - questo non usa che in casa vostra, quando non è Luna piena, perché allora prendete quel della Luna, che non ha bisogno di essere smoccolato, e dura tutta la notte; - ma avranno acceso benis­simo la mezza dozzina di lumi, e più ancora. Guar­date che luce larga e brillante prorompe fuor delle stanze! Non vi sentite rallegrare a guardarla? È incontrastabile, - i lumi son sei, se non son otto; - vorreste negar la luce?

Ma stiamo attenti a quello che vuol fare il Si­gnore. Ecco, egli ha tolto in mano un bel mazzo di penne nuove; - ecco, ne tempera una, ne tem­pera due, - ne tempera tre. Badate là, - ora pren­de un quaderno di carta, e la esamina di contro al lume. Per Bacco! è fine davvero quella carta, e in­dorata sugli orli! Eh! non vuoi mica scrivere al fat­tore; - si vede chiaro, che scrive a dei pezzi grossi!

Non vi movete. Che ve ne andate di già? - ora viene il meglio. Ecco, il mio Signore s'è messo al tavolino; - ecco che ha già cominciato. Fin qui non v'è molto da raccapezzare, ma pur qualche piccola cosa. Per un curioso tutto è buono - il minimo che mena a delle scoperte importanti. Dall'ombra, che si disegna sul muro, vedo la sua testa via via inclinarsi e rilevarsi; - vedo tuffar la penna; - ora s'è grattato dietro all'orecchio destro; - ha stracciato un foglio; - la lettera non veniva a modo suo; - un foglio nuovo, e da capo. Ora sì che tira via, - ha trovato la strada, - non si ferma un istante, - la passione gli guida la ma­no. Oh! se la passione crescesse! se io impegnasse a profferire ad alta voce quello che pensa, e che mette in carta tacitamente! Dall'allegrezza farei un salto mortale. E badate, spesso succede; e quando la passione dice davvero, non v'è più ritegno. Dimandatene agli scrittori; - pare che quel dir forte l'idea, che vanno a scrivere, la faccia completa, come la mente la concepisce. E di fatti è così; la declamazione è il colorito del pensiero. Ma zitti! zitti! il Signore s'impegna; - sento un mormorio; - crescerà, se Dio vuole, - diventerà voce scol­pita; - diventa, diventa! - Oh! io son un uomo felice, io credo nella mia buona stella! - Ascoltiamo; - uh! se non fosse il vento, che me le man­gia mezze, sentirei tutte le parole; ma mi contento; - ascoltiamo: ... una nera calunnia... così non si tratta un gentiluomo... badare a ciò che si fa... sco­prire la cabala... guai a lui!... so maneggiare una spada... Siamo il più... sostegno dell'ordine.. la ca­naglia in prigione, sta bene; ha... d'un freno;... l'anarchia regnerebbe... le... classi vanno rispettate... riprese, ma non punite... la canaglia si crede qualche... e la Ragion di Stato è… principii son conosciuti... innocente... non deroga a se stesso... riparazione pubblica... conveniente alla mia condizio­ne.. servo - Cavaliere Scipione Frullanotti Marzocchi.

Oh! vediamo, se la metto insieme; - ho tanto in mano da ripromettermene bene.


<<Eccellenza!

<<Fino di stamane io sono stato tradotto nelle prigioni di questa città, senza poterne indovinare la vera cagione. Vado convinto che Vostra Eccellenza, appena saputo il caso, darà tutte le disposizioni necessarie, perché io sia quanto prima rimesso in libertà. Credo fermamente che una nera calunnia abbia motivata una tal misura. Però così non si tratta un gentiluomo. Conviene badare a ciò che si fa in materie tanto delicate. Impegno la giustizia di Vostra Eccellenza a scoprire la cabala, e l'uomo perfido che l'ha tramata. Guai a lui! se arrivo un giorno a conoscerlo; - so maneggiare una spada, e sul terreno vedremo a chi sta il buon diritto. Noi gentiluomini siamo il più saldo sostegno dell'ordine, e meritiamo assolutamente riguardo, Che vada la canaglia in prigione, sta bene; ha bisogno d'un freno, e senza questo l'anarchia regnerebbe. Vostra eccellenza conosce, e sente, che le alte classi vanno rispettate, e quando cadono in fallo vanno riprese, ma non punite così volgarmente. Se no, la cana­glia si erede qualche cosa, - l'ordine si confonde, e la Ragion di Stato è perduta. Io fortunatamente non sono nel caso di aver commesso nessun fallo. I miei principii son conosciuti abbastanza; - sono innocente; - e un gentiluomo par mio per nessuna bassezza non deroga a se stesso. Mi dirigo pertanto a Vostra Eccellenza, perché l'onor mio abbia una riparazione pubblica, immediata, e conveniente alla mia condizione. Al tempo stesso Vostra Eccellenza accolga le proteste della mia più alta considera­zione.

<<Di vostra Eccellenza

<<Umilissimo e Devotissimo Servo

<<Cav. Scipione Frullanotti Marzocchi>.


Ah! mi sento riavere. Mi è costata fatica, ma pure l'ho messa insieme. Eh! quando mi picco, mi picco. Ho fatto più d'un notomista quando da pochi fram­menti d'ossa ricompone in un insieme perfetto la struttura d'un corpo qualunque. Sì, ho fatto più d'un notomista; - il corpo è una cosa certa, e definita; - lo spirito è vario, incerto, e mobilissimo. Son contento come una pasqua, contento come un sonettista quando ha trovato una bella chiusa! Sì, ne son contento, ne vado superbo, - confrontiamo la mia coll'originale, e scommetto che non ci corre una sillaba.

Ma va, che l'ho fatta bella! Un po' col rimettere insieme la lettera, un po' col compiacermene, il tempo è trascorso, e il mio Signore ha scritto le rimanenti, ed ora v'è sopra a calcare il sigillo. Ma va, che l'ho fatta buona! e adesso come si stilla! è una rottura, che non si accomoda; - chi è che sappia leggere una lettera già sigillata? Potessi averla nelle mani, farei l'estremo di mia possa; - ma valle a toccare, se ti riesce! - Eccole là! io magari le toccherei! - ma il Signore non ci è per nulla in questo mondo? - Eh! non c'è rimedio! eccole là! - il morto è sulla bara; - quattro giuste giuste; - posso sfogarmi a leggere la sopraccarta, mercé delle lettere lunghe un mezzo dito: - basta! è meglio poco che nulla; - eccole là! son quattro in fila, né più né meno; si leggono come di giorno; - la pri­ma al Marchese, l'altra al Ministro, la terza all'Arciprete, la quarta alla Contessa. Poffare! si vede bene che al Signore è già venuta a noia la prigione, che vuole uscirne per fas e per nefas. Tutto vien messo in moto, tutto a contributo, per uscir di pri­gione; - la toga, e la spada; lo scrigno, la cantina e la donna. - In prigione ci hanno a stare i poveri e i matti. Voi parlate come un libro, mio bel Si­gnore. Sì, venite fuori, anch'io lo desidero; - così potrò vedere più da vicino i fatti vostri. Voi n'uscirete senz'altro, avete troppe ragioni dalla vo­stra; - solamente quei titoli, che a profferirli sol­tanto fanno tremare i chiavistelli! SI, mio bel Si­gnore, voi n'uscirete e presto; - io lo desidero an­ch'io, per voi, e per me.

Ma che sia quella carticina breve breve, elegante elegante, che il Signore guarda e riguarda, di sotto e di sopra, sì che a guardarla gli sfavillano gli occhi? Forse un biglietto da visita? Eh! giusto! è un billet doux, - è una cosa che mi passa l'anima per non averla sentita. Scrivermi un billet doux sotto gli occhi, e non poterlo sentire! Se ci penso un mo­mento di più, addio cervello, addio tutto. Un billet doux! non vi par di dir nulla, un billet doux? Io che per leggere un billet doux non avrei quasi scru­polo di portarlo! Io, che, se potessi leggerli tutti, non vorrei far più altro; lascerei tutto, il teatro, la taverna, la scienza, i crocchi, l'amore, i vizi e le virtù; - non mangerei, non dormirei, farei la vita di un martire, mi ridurrei magro come un Cristo di Cimabue! Oh! se ci penso dell'altro, voi ne vedrete delle belle! - una e una due; - ma questa è più agra dell'altra; - questa, e l'affar delle imposte mi fanno dubitare della mia buona stella.

Certo la mia buona stella in questi due casi si è portata male; una cometa non poteva farmi di peggio; - e poiché ella ha preso la mala piega, stimerei prudenziale di levar le tende da questa strada, onde non m'avesse a incogliere un qualche malanno più grave. Già l'ora è tarda; - saranno l'undici al tocco e non tocco, e non passa più un'anima. Tuttavia, se devo confessarmi giusto, me ne vado malvolentieri. Non so chi mi lega, ma ci starei tutta Ta notte. Ma zitto! sento salire una scala, - sento girar mollemente una chiave; - vedete cosa vuoi dire un minuto? Un minuto spesso decide tutto; spesso non ci è tesoro che possa pagare il valor d'un minuto, - E chi sarà in un'ora sì tarda? - Oh bella, è il solito soprastante, colla solita voce, e colla solita frase:

- È permesso? si può passare?

- Appunto voi; passate, passate.

- Ho forse tardato troppo?

- No, siete venuto in tempo; ho finito in questo momento. Eccovi un mazzo di lettere; dimani, a un'ora competente, che sieno tutte spedite. Non fate sbagli, vi raccomando, son cose che premono.

- Vossignoria non dubiti di nulla; conosco ad una ad una le persone a cui vanno, e senza adulazione posso dire che Vossignoria non potrebbe esser meglio appoggiata; - son persone che fanno e disfanno, e dopo non c'è nulla a ridire. Ella già non ha bisogno di tutto questo; si vede bene l'equivoco; si vede bene che hanno preso un granchio, e non vorrei esser nei piedi di chi s'è preso un simile arbitrio. Specialmente quando lo saprà la Contessa, è capace di sputar fuoco. Io son vecchio di queste cose, e so come vanno a finire. Alberghi come questi non sono per la gente par suo. Quando io la vidi arrivare, trasecolai, credetti di travedere. Si figuri, son quarant'anni che faccio il mestiere! si figuri, se non conosco un uomo alla cera; appena lo vedo, comprendo subito di quel che si tratta; di questo posso vantarmene. Stia allegra Vossignoria; - riposi bene; - se stanotte ha bisogno, non faccia che chiamare; io dormo qui vicino, e son sempre all'erta.

- Non andate anche via. Ho un'altra commissione da darvi. Vi siete già scordato l'affare di cui vi ho parlato stamani?

- Perdoni Vossignoria, sono uno smemoriato. Ora però mi ricordo di tutto. Il numero, mi pare, 1613?

- Certamente, e dev'essere un palazzo con due riuscite. Eccovi la letterina; fate che si recapiti con bel garbo. Già non ci andrete voi?

- Eh! diavolo! che mi crede ammattito affatto? Son uomo di mondo anch'io, e nessuno mi deve insegnare. Non pensi, si lasci servire Ci mando la mia Rosina, e la cosa vien fatta d'incanto. Ha null'altro da comandarmi?

- Null'altro per ora.

- Dunque la lascio in libertà; riposi bene; - buona notte.

- Buona notte.

Ed io Scrittore, che sono in. prigione anch'io, e non ho nessuno che me la dia, giacché la buona notte mi è capitata sotto la penna, me la do dà me stesso, e faccio conto di andarmene a letto.



CAPITOLO DODICESIMO



- Ma il Povero dov'è rimasto? - Che v'importa del Povero? Se, invece di essere freddamente cu­riosi, voi foste pietosi anche a mezzo, non mi avre­ste lasciato andare solo solo a cantargli l'esequie; ma mi sareste venuti dietro, vi sareste arrampicati l'uno sull'altro per arrivare alle sbarre della pri­gione, - avreste consolato quel misero colla vista d'un volto umano, - vista più cara del cielo in quella oscura solitudine; - lo avreste chiamato per nome, - gli avreste gittato un pane, una parola soave di compianto; - avreste infuso olio e vino nella ferita, come il Samaritano dell'Evangelo; - e invece avete fatto peggio del Fariseo, - non gli siete passati neppure d'accanto. Che v'importa del Povero? Non siete voi freddamente curiosi? Non siete voi egoisti? Non siete voi venuti meco a veder la vita del Signore in prigione per alimentare un cupo sentimento d'invidia? Non v'ho io veduti percossi da un brivido allo spettacolo degli ori e degli argenti, degli arredi preziosi, delle laute vivande? Non ho io sentito le vostre voci, le vostre esclamazioni, che la passione mandava fuori velocemente come dardi, e il calcolo non aveva tem­po neppure di coprir loro le vergogne? - Non ho io veduto passare sulle vostre fronti un nuvolo di pensieri diversi, ma tutti armati di artigli? Ecco perché veniste meco a vedere il Signore. Non siete voi egoisti? Il Povero non aveva nulla da farsi invidiare, - invece aveva bisogno d'una consolazione, e d'un tozzo di pane. - Ecco perché non siete venuti meco a visitare il Povero. Non siete voi egoisti? Ed io non sono un egoista? Io non mi fido della mia pietà; e, se l'ultima somma è più sicura della prima, parmi di aver trovata la vera chiave del motivo per cui mi son trattenuto tanto tempo con quel mio Povero. Sentite, se vi torna. Ho veduto che nessuno si curava dell'infelice, - e allora io mi son mosso, - gli sono andato d'intorno, per l'idea d'esser solo, per contradizione. - Ho fatto come Diogene, che andava al teatro quando tutti n'uscivano. Certo, per contradizione; - e, se la cosa è così come io la espongo, allora alla pietà tocca il secondo luogo, se pure un luogo le tocca. Non sono io pure un egoista? non è la contradizione un egoismo? - La beneficenza stessa non è sovente un egoismo? Perché in certi Stati si sviluppa più che altrove lo Spirito di associazione, lo spirito di sovvenimento? - Perché l'ambizione è palpata, perché l'indomani un giornale deduce a pubblica notizia il benefizio, e il nome di chi l'ha fatto. Gesù Cristo conobbe questo peccato dell'umana natura, e per questo inculcò come un dovere sacro, come un precetto di religione inviolabile, il fare l'elemosina quando nessuno vede; tentando così con un dogma di vincere una tendenza dell'anima, tentando di assuefare l'umanità a fare il bene sempre, e sinceramente, non a balzi, quando lo comanda l'ostentazione, la debolezza, o qualsivoglia altro interesse. Il tentativo fu fatto; ora a voi sta il giudicare se il buon successo l'abbia coronato. Mettetevi una mano al cuore, e giudicate,

Avete deciso? - Il primo prossimo è sé medesimo. - Questo grido fu infuso nel sangue, e circola per le vene di ogni mortale; - ponetelo pure in qualsivoglia grado di società; - prendetemi pure il selvaggio errante per le foreste, o l'uomo incivilito, pacifico, abbiente, dell'America settentrionale. E se i proverbi sono la traduzione sommaria di una lunga e costante esperienza, questo è il Vangelo di tutti i proverbi passati, presenti e futuri. La mag­gior parte vede l'egoismo sotto una faccia unica; e quando vuole personificarlo, per esempio, piglia per il collo un avaro, l'alza da terra, lo squassa mostrandolo, e grida: specchiatevi, ecco l'egoista. - La maggior parte non capisce nulla in questa materia. - Quel tale, che lapidasse il genere umano a furia di dobloni, sarebbe anch'egli un egoista. Il sacrifizio stesso, che vien citato come il contrapposto dell'egoismo, è pure un egoismo; e il generoso, che muore spontaneo per la difesa di un principio morale, o per la salute di un popolo, muore per l'amore dl un sentimento, che gli rappresenta più della vita; muore, perché, sopravvivendo alla sua idea, la vita gli sarebbe uno scherno, un peso, un dolore intollerabile; muore, perché nel suo speciale organismo in certi dati casi la vita è una perdita, la morte è un guadagno. L'egoismo è un poligono d'infiniti lati, una scala di tutti i toni, un'iride di tutti i colori primitivi, e composti. L'egoismo è l'uomo, o per dir meglio il moto dell'uomo. Togliete l'egoismo all'uomo, voi ne fate una pietra; non ha più ragione di operare né il bene né il male. L'egoismo è l'unico movente delle azioni umane. Distruggerlo non potete, a meno che non imponeste all'uomo una novella organizzazione; potete bensì modificarlo, se vi piace; potete modificarlo, sottomettendolo alla influenza potentissima della educazione. L'educazione è buona o cattiva, come sapete; - e dipartendosi da questi due limiti, l'egoismo può esprimere tutte le gradazioni della virtù, tutte quelle del vizio. La buona educazione lo modifica, educandolo a combinare il bene individuale col bene generale, Così l'uomo dovizioso, che altrimenti avrebbe mandato in fumo un milione, orna invece la sua città di utili istituzioni, e in capo all'anno riscatta centinaia d'anime dalla schiavitù del peccato e della ignoranza. E questo perché? Vuoi dire che la buona educazione con un'arte squisita ha modificato in lui l'Egoismo. Vanità, affascinandogli gli occhi con un bel fantasma, e trasportandogli l'ambizione da un oggetto in un altro. - La trista educazione lascia andare l'egoismo come un toro infuriato, e gli aggiunge stimoli sovente; allora ei non cerca che un bene personale, senza badare al sentiero che percorre; - e per avere una borsa d'oro, taglia anche una vita, purché la trovi di mezzo fra sé e la borsa. Così dipartendosi da questi due limiti, l'egoismo può rivestire la gioia serena dell'angiolo, o il riso funereo del demonio; - può essere la Ragione o il Fanatismo, la cicuta o la rosa, - può essere adorato o maledetto. Leonida, che si sacrifica alle Termopili, tocca l'apogeo dell'egoismo virtuoso, e merita un altare, e le ghirlande fresche, immortali, della storia. Nerone, che cerca un aumento di piacere nell'agonia della creatura umana, merita un rogo, e le stigmate della infamia.

L'egoismo è il Proteo del Bene e del Male.



CAPITOLO TREDICESIMO



Avete finito? volete fare una cosa da uomo? scendete di cattedra, e tornate al vostro proposito; - sarà meglio per tutti. Coteste cose, di cui avete preteso ragionare, sono state dette e ridette in prosa e in rima, - son cose vecchie quanto l'egoismo; e che per questo? - mostratemene il frutto; - coi discorsi si fa poco o nulla; col fiato solo non si può che spegnere un lume. Che importa a voi, se gli uomini sono piuttosto in un modo che in un altro? Li avete fatti voi? Lasciateci pensare a chi tocca. Che serve inquietarsi pei bianchi e pei neri? Gli uomini son padroni di stare come vogliono. Volete diventar sistematico? Vi troverete a de' begli scon­certi. Fino che son teorie, le cose camminano be­ne; - vincete sempre voi, - come quel giuocatore che giuocava da sé. Alla pratica poi s'impara a. di­stinguere i bufali dalle oche. Io lo so come vorreste gli uomini; - li vorreste tutti di tre braccia, - di struttura slanciata, - un bel viso color di rosa, - occhio ceruleo, - zazzera bionda, - vestiti di una tunica bianca, - calzati di verde, - e che proffe­rissero da mane a sera orazioni giaculatorie di amor fraterno. E vi dico che a prima giunta sarebbe un bel colpo d'occhio, - in seguito poi non so. Ma che volete? le stampe non l'avete voi, e il vo­stro desiderio non può avere sfogo; - e invece di vedere tanti uomini di getto secondo la vostra idea, voi vedete un miscuglio bizzarro oltremodo, un caos che non finisce più mai. Vedete nani e gigan­ti; uomini bianchi, rossi, neri, color di rame, di cento colori; - vestiti di mille stoffe, vestiti bene, vestiti male; uomini ignudi, - chi bestemmia, chi dice Messa, chi sta sempre zitto, - e via discorrendo. E per questo? perché una vostra idea non ha sfogo, vorreste andare a finire in un pozzo? Oibò, non vi fate tentare. Il mondo va preso come il vento, - va preso come viene. Volete contra­stare con la corrente? - pensateci prima due volte, - il minor rischio è quello di annegare. Tanto voi lo vedete; - non si sa chi abbia ragione, se il Torto, o il Diritto, Se l'uno vince oggi, l'altro vince domani; è un circolo vizioso, - è la serpe, che si piglia in bocca la coda... non ci si conosce né principio, né fine. Tant'è, dopo tante prediche e tante esperienze, a veder le cose come sono, mi vien fatto quasi di credere in una Provvidenza. Il Bene e il Male sono i due sproni del mondo, e lo tengono in carreggiata. Se pungesse soltanto il Male, il mondo perderebbe l'equilibrio e cadrebbe tutto da una parte, e così viceversa del Bene. Se poi voi persistete nella vostra idea, e questi patti non vi accomodano, allora sapete come fare; - voi che veniste a caso in questo mondo, siete però il padrone di uscirne quando volute, e di andare in un mondo migliore a perorare le vostre ragioni. Non dubitate, al confini della vita non ci son dogane. Ma forse non avete voi gli anni dell'esperienza, non conoscete le storie, non avete viaggiato e veduto le nazioni in faccia come elle sono? - Bon! cosa ne concludete? - Che l'Errore è un guanciale morbido a modo e a verso, come può esser la Verità, e che metà del mondo dorme i suoi sonni placidi sopra questo, come l'altra metà li dorme su quell'altro. Mi faccio intendere? parlate schietto, perché io amo di ragionare, Non avete osservato che i popoli tengono della natura degli uccelli? che altri ama il Sole, altri ama la notte? che due principi diversi possono descrivere insieme una parallela continua, indefinita, senza mai toccarsi? che la Libertà può affacciarsi al suo balcone, e dalla finestra accanto sentirsi dare il buon giorno dalla Inquisizione? Chi è convinto coscienziosamente d'un sistema cattivo, vive tranquillo come chi è convinto d'un buono; - non esiste fra loro che un divario metafisico. - L'uomo poi, che, per legge della sua organizzazione, è superiore o inferiore al sistema che lo circonda, - non può negarsi, - ei ci vive a disagio, - ebbene, vi è il suo rimedio, - scuota la polvere delle sue iscarpe, e se ne vada gridando come Scipione: ingrata Patria, non avrai le mie ossa. V'è il suo rimedio: il Francese Carlista può andare in Ispagna, - il Liberale Spagnulo può venirsene in Francia. La terra è larga abbastanza: - Nemo propheta in patria sua. - Lo vedo anch'io, che, senza sottoporre l'umanità all'archipendolo delle vostre geometrie, starebbero tiene tante belle cose! Per esempio, sarebbe bene che la Fortuna si levasse una volta la benda dagli occhi per vedere almeno chi piglia; - sarebbe bene che la Giustizia tenesse una stadera sola, e non una per il povero e una per il ricco; - sarebbe bene che il Giudice quando va in Tribunale appiccicasse al cappellinaio anche le sue passioni per riprendersele quando va a pranzo; poiché bere un fiasco di vino di più non è un terremoto, dell'altro vino si trova; ma una testa di più o di meno è una cosa seria, attesoché l'uomo non n'abbia che una; - vi ripeto, starebbero bene tante belle cose! starebbe bene anche ch'io non fossi in prigione; - e per questo, - se io vado sui mazzi, forse non sono sempre in prigione? Che serve ostinarsi, e dar di cozzo nel destino? Tornerete indietro colla testa infranta; e finché non giunga il tempo ad hoc, il vostro sangue non sarà considerato; - i contemporanei appena si prenderanno la briga di guardare se il vostro sangue era del solito colore, o no.

- E voi avete finito? Il vostro è un discorso diabolico, e si scorge bene, che siete di coscienza larga come i Gesuiti. Dovreste essere un gran partigiano del quieto vivere, - uno scettico. Lo scetticismo è il sistema degl'infingardi. Badate, non voglio mica dire che abbiate spropositato; anzi avete aggruppato con tal arte le figure del vostro quadro che ai più sembrerà plausibile. Avete esposto del fatti, avete detto delle verità, avete enunciato anche qualche sofisma, e stringendo poi non avete negato nulla, non avete conceduto nulla. Io ve l'ho detto, siete uno scettico. E credete che, a guardare minutamente da vicino, il buco nella calza si trova, e quel vostro discorso in parte potrebbe sfumare. Sicuro, bisognerebbe intraprendere una lunga polemica, e mettersi al largo, cosa che io non ho intenzione di fare, e specialmente con voi, - con voi che sareste uomo da addormentarvi a mezzo la disputa, che con una stretta di spalle non fate più differenza dal Sole d'Affrica a quel di Norvegia. Quanto poi al vostro pretendere che l'uomo si perda dietro ad un'idea che non può mandare ad effetto, avrete ragione nella massima, ma avete torto nel fatto, e senza' avvedervene avete dato nella rete, che volevate scansare; voi filosofo sperimentale questa vol­ta mi siete riuscito un idealista; - avete preteso che la mente umana si sottragga da un fatto, che spesso la incatena indissolubilmente. Non l'avete mai voi osservato questo fatto? o l'avete dissimulato per aver ragione? può darsi anche questo, perché siete malizioso la vostra parte. Non avete mai osservato, che in ogni tempo, e in ogni nazione, nascono uomini fatalmente avvinghiati a un'idea fissa, - un'idea talvolta capace anche a falciare la vita d'una generazione; - un'idea che amano col furore della gelosia; che non lasciano mai, benché la veggano confinar col patibolo? Questi uomini nell'epoca loro hanno due facce: una sublime, e l'altra grottesca; e la storia contemporanea li chiama pazzi od eroi, secondo da chi è scritta la storia. Al giudizio pacato, imperterrito, dei posteri spetta determinare una delle due facce, una delle due denominazioni.




CAPITOLO QUATTORDICESIMO


Ma il Povero dov'è rimasto? è morto di angoscia o di fame? Chi sa? tutto può darsi. - Le carceri vivono alla buona, non tengono storici al loro stipendio, non registrano né date, né nomi, né avvenimenti; le scene che si svolgono nel loro grembo sono scene d'un altro mondo, - d'un'esistenza sotterranea, - e temono la luce come cosa nemica; - pure così all'ingrosso le carceri si rammentano di alcune notti, - d'un viso truce, - d'un pugnale, o d'un laccio, - d'un gemito cordiale, - d'una caduta pesante; si rammentano ancora di certuni entrati sani e gagliardi, che diii a poco si fecer lentamente cadaveri per difetto d'acqua, e di pane. - Fu questa dimenticanza, o caso pensato? - Non precipitiamo nei nostri giudizi. - Dio è il revisore delle coscienze; e Dio, che può convertire in uno scherno il diadema e la testa del prepotente, un giorno vorrà conoscere il pro e il contra di queste ed altre bisogne.

Ma dunque è morto quel pover'uomo? E così solo, solo, e infelice, come avrà fatto a reggere il peso dell'agonia? - e se avrà chiesto un sorso di acqua per mitigare la febbre delle sue viscere, chi gli avrà bagnato la bocca? - e se l'asma lo soffocava, chi l'avrà sollevato a mezza vita? - Chi gli avrà asciugato la fronte, e scaldate l'estremità irrigidite? - Chi gli avrà dato una croce a baciare? - Chi avrà risposto amorosamente al delirio d'una testa che si sfascia, che vede il Diavolo, che vede i Santi, che vede un'ombra nera, un'ombra bianca, mille stranezze, che lacerano il cuore di chi sente, e per un tratto percuotono di smarrimento la ragione di chi le considera, fosse pure una ragione di ferro? Chi gli avrà aperte le finestre, perché beva un ultimo alito d'aria pura, perché veda il cielo e la speranza? Oh! la speranza è un letto di piume al moribondo, ove egli a quando a quando dimen­tica le spine sulle quali sì giace! è un'ala candidis­sima sulla quale l'anima del morente va a posarsi via via, provandosi così per tempo a slanciarsi alla vita degli angioli! - E i suoi figliuoli? perché Dio non rompe le porte della prigione, onde passino i suoi figliuoli? Poveri suoi figliuoli! non poterli be­nedire, non poterli vedere, non poterli palpare! Poveri suoi figliuoli! d'ora innanzi chi darà loro del pane? Misero padre! questo pensiero ti sta come una lastra infuocata sul cuore; - è l'unica striscia di ragione e di memoria che sia rimasta intatta nel naufragio della tua mente; questo pensiero è la tua vera agonia; - agonia di coscienza, e di sensibilità - questo pensiero ti fa dubitare di Dio, ti fa sorridere infernalmente. Misero padre! hai tu commesso un delitto infinito per meritarti un tormento infinito?

Ma dunque è morto quel pover'uomo? e chi gli ha asciugato l'ultima lacrima? chi gli ha chiuso gli occhi? chi l'ha baciato cadavere?

Il pover'uomo non è morto ancora, - almeno giova sperarlo. E s'ei fosse morto, chi l'avrebbe potuto sapere fin ora? Presso a poco è trascorsa una giornata, e il soprastante non ha anche aperto quell'uscio. Cosa importa al soprastante se il Povero sia morto o vivo, purché sia in prigione? Cosa importa al potente che esista un povero di più o di meno? Non è egli il padrone del carcere, dell'esilio, e della scure? l'arbitro della vita e della morte, del Torto e del Diritto? Il potente di rado è iniziato ai misteri della sciagura; e una volta che sia, non è più po­tente; - ma s'ei potesse sapere e sentire quanti dolori gemono, quante lacrime piangono sotto ai suoi piedi, forse gitterebbe lo scettro con quel ribrezzo come se avesse tenuto un aspide. Chi mai l'educa a simpatizzare coi suoi fratelli di carne? Chi gli insegna che il dolore solo è re della terra in eterno, e che la Sorte dona colla destra e toglie colla sinistra? Chi gli rammenta l'uguaglianza solenne, universale, del sepolcro? Chi lo consiglia a compa­tire le debolezze, le colpe, e gli affanni d'una schiat­ta dannata a travolgersi fra l'ignoranza e il bisogno? Chi gli fa sapere che l'errore è un elemento organico dell'umana natura, e che un uomo solo non è mai infallibile? Chi lo sospinge a chinar verso terra lo scettro a guisa di leva per suscitare i prostrati, e non a gravano come un flagello? - Invece i suoi cortigiani recidono qualunque legame fra lui e il popolo; - lo chiudono fuori dell'umanità; - lo chiudono in un palazzo assiepato di ferri appuntati contro il lamento e la preghiera dell'infe­lice; - gli fanno vedere il mondo traverso un pri­sma colorato d'oro e di porpora; - gli empiono l'aule di festa e d'armonia continua; - gl'intristiscono il cuore con un senso monotono di prosperità ottusa e solitaria, - talché se un sospiro per accidente gli ferisce l'orecchio, dimanda: - perché sospira quel miserabile? - è egli così fiacco? io non ho mai sospirato. - Lo persuadono a riguardare i precetti moderatori d'una santa filosofia come atti di ribellione; gli fanno credere ch'ei sia stato creato a calpestare uno strato di teste umane. - Gli comprano un poeta, gli comprano uno storico, per adularlo in prosa e in versi, - nel bene e nel male; lo posano sopra un 'ara; - gli mettono in mano il fulmine della legge assoluta, e poi l'adorano; - tanto che, se egli non si vedesse diffuso sul capo il manto infinito dei cieli, crederebbe d'essere Dio. E quando gli hanno pervertite tutte le facoltà del cuore e dello spirito, gl'insegnano a giuocare indifferentemente colla vita dei popoli come fa il matematico sulla sua lavagna, che trasporta a suo talento i numeri da una estremità all'altra, e per uno sbaglio o per bizza cancella talvolta la cifra d'un milione. Oh, la potenza senza freno d'umane simpatie è un dono funesto! Trista è la potenza che può emulare Dio nel distruggere, e non nel creare; e che può annientare una generazione, e non può risuscitare un verme quando l'ha spento!




CAPITOLO QUINDICESIMO


- Devo dirla come la penso? Per un tratto del vostro discorso mi avete fatto una paura dia­bolica; io credeva che voi voleste volare; - io tremava per voi, ma poi mi sono rassicurato; - vi ho guardato i piedi, e li ho veduti immobili e fissi come chiodi. - Per altro, avete fatto un gran fare; - sbracciavate, - sbuffavate; - gli occhi fuori dell'orbita, - il volto infiammato, - le vene della fronte rigonfie; - vi pare a voi? - è la maniera di farsi venir male, E che paroloni! sesquipedalia verba; e che voce avete fatto! ne ho sempre rintronate le orecchie! voi eravate in un accesso! mi avete fatto paura! io già pensava a una cavata di sangue.

Volete un consiglio da amico? Smettete cotesto stile, - non è per voi, - non ci guadagnerete che l'asma. Voi non siete un uomo esaltato, - non potete esserlo, - avete troppo umore. Io lo so; - vorreste esser poeta; - ognuno ambisce di esser quel che non può. Invece di un buon cappello di feltro vorreste una bella ghirlanda d'alloro, - per mille ragioni, e, non fosse altro, per campar la testa dalle saette. Ma datevi pace, l'alloro non è per voi; - se ve ne regalassero anche un albero, non sapreste mai trarne una corona di poeta; - gran mercé, se voi ne cavaste una frasca da osterie. - Io lo so; - vorreste esser poeta, e vorrei esserlo anch'io; - ma come fareste quando il filo non arriva? - Vi compatisco; - avete letto Dante, l'Ariosto, Byron, Schiller, Goethe; li avete gustati, - li avete sentiti; vi compatisco; vorreste anche voi avere un 'anima temprata come l'arpa eolia, che ad ogni minimo fiato rendesse armonia; - vorreste avere un'anima limpida, trasparente, in cui l'universo si rifiettesse come in uno specchio. Ma è tutt'uno, - non siete nato, - i poeti nascono belli e fatti: Vates nascuntur. Ditemi voi, - dove andarono a scuola Omero, Ossian, Burns? - E poi sentite questi due versi, che paiono fatti a posta per voi:


In cui Natura non lo volle cure

Non dirian mille Rome, e mille Ateni.


Avete capito? - e, badate, son versi di un classicista, che credeva nell'Arte forse più del dovere. - Smettete, - vi ripeto, - sarà meglio per voi. Consultate bene l'indole vostra, e quella seguite; - non farete mai male. Perché, se avete corta la vista, volete farmi l'astronomo? Fate il sartore piuttosto, che cucirete a punti piccoli e bene uniti, e così vi acquisterete una lode moderata, è vero, ma pure una certa lode. - Non fate l'astronomo; - potreste scambiare un fanale col mondo di Saturno, e allora - risum teneatis, amici? - Smettete lo stile eroico, - non è per voi; invece di fare della poesia, fate della rettorica, - cosa veramente insoffribile in un secolo come il nostro. Non ve l'ho detto io sempre? il cavalcare non è per voi; credete di fare la figura di un San Giorgio, e invece siete una balla a cavallo. Non ve ne abbiate a male, - andate a piedi, - è la vostra condanna. Cosa ci volete fare? Tanto, poeta non sarete mai; vi manca l'ispirazione. Se l'esser poeta consistesse nel tornir bene un verso, come usava nel cinquecento e nel settecento, - vada; avete l'orecchio abbastanza armonico, e, quando vi piace, sapete scegliere una frase elegante. Ma tutto questo non è poesia, - è un lavoro da monache. Avete bensì l'anima spruzzata di poesia, - ma quella vena larga, inesausta, - che costituiva Dante e compagni, - voi non l'avete. - Non bisogna pretendere di far tutto, - anche il Genio ha i suoi limiti. - Newton, che poteva leggere a suo beneplacito la facciata immensa dei firmamento, si smarrì nei pochi fogli dell'Apocalisse, e riuscì un infelice teologo. - Chi nasce artefice per tessere un drappo prezioso, - chi nasce tignuola per guastarlo. E la tignuola - è inutile, - non sa che rodere. Ve lo dica un Professor dal fiocco rosso, quando si propose anch'egli di fare una stoffa! - Fece una tal cosa che anch'egli ne avrebbe riso, se non fosse stato giudice e parte. Ma non fu così quando si trattò di rodere; - vero è bensì, che in ultimo torse la bocca, perché le tinte delle vesti corrose contenevano troppo d'acido. - Smettete, - non cesserò mai di ripetervelo, - lo stile poetico; - credete di suonare la tromba epica, e invece non fate che gonfiar le guance. Voi non siete veramente né poeta, né oratore, né storico, né filosofo, né tignuola; - siete un non so che, che non lo sappiamo né io né voi. - Quando la Natura vi architettava, invece di farvi la testa, sopra pensiero fece una gabbia da grilli; - poi si accorse del fallo, ma non volle tornare indietro, e lasciò il lavoro come stava; pure, perché la gabbia avesse uno scopo, una conveniente destinazione, la riempì liberamente di grilli, e così voi siete riuscito quel che siete. Dovete convenirne per maledetta forza, - l'enfasi, il far di Pindaro, a voi non si addice; - voi non potete aspirare che a una certa ironia, a una certa malizia, talvolta a un poco di grazia, a uno stile negligente giusto appunto come siete voi. Datemi ascolto: scrivete sempre alla buona; alla sans souci, e terminate la storia del Povero carcerato.




CAPITOLO SEDICESIMO


E così mandando al diavolo tutti i saccenti, e adoprando lo stile che meglio mi aggrada, ripiglio la mia storia tante volte interrotta.

Il pover'uomo non è morto ancora; - prova ne sia ch'io l'ho veduto. - Come mai? - mi direte. Ecco come; mentre quel ser saccente mi dava quei tanti consigli, che io non gli aveva chiesti, faceva­mo cammino, e questo era il meglio; a un terzo del discorso, siamo giunti dinanzi alla carcere, e di lì a minuti è stata aperta, ond'io ho potuto vedere agiatamente i fatti miei tali e quali come vado a dirveli. - Il pover'uomo, come sapete, non è morto ancora; e s'ei fosse morto (questo lo dico per rispondere a chi dianzi trepidava tanto per lui), s'ei fosse morto, certo sarebbe morto senza nessuno d'intorno, - solitario come una bestia del bosco. Chi volete che fosse passato per assisterlo in quel transito angoscioso? Fra il Povero e la Pietà sta di mezzo una prigione, e la Giustizia ne difende l'in­gresso come la spada del cherubino alle mura dell'Eden.

Il pover'uomo non era più stupido, come quan­do io lo lasciai; - mi pareva anzi irritato, - e forse troppo. Le sue passioni erano rimontate, - le passioni fanno come la marea. Allora sì mi pareva che più di prima egli avesse bisogno d'un amico, che con modi cordiali e con suoni di conforto si pro­vasse di acchetare quella tempesta che gli ruggiva dentro, e gli capovolgeva la ragione. Egli passeg­giava furiosamente per tutti i versi i cinque passi della sua stanza; - spesso si dava nella fronte con una palma, - spesso batteva coi piedi la terra; - ora fischiava turbinosamente, ora cantava in una lingua e in una musica affatto nuova; - ora s'incrociava le mani sul petto, nascondendosi le pupille terribilmente sotto le ciglia. Una volta si mise una mano sul cuore e fece atto di strapparselo, e di lanciarlo in aria con un grido disperatamente salvatico, - uno di quei gridi che atterriscono l'uomo e la fiera, - il grido della madre che fuga il leone, e gli cava il figlio di bocca, - uno di quei gridi che devono far pentire Dio di aver creato la sensibilità. Dipoi si riconcentrò, e fece pochi passi adagio adagio, e senza intenzione; - quindi sembrava stanco, e si pose a sedere sopra uno scalino col capo fra le ginocchia. - Col capo in quella maniera, io non potei vedere se pregasse, se bestemmiasse, se piangesse. Forse egli faceva queste tre cose confusamente insieme; - forse era assorto in una di quelle estasi, prodotte dall'ambascia profonda, in cui l'anima abbandona il corpo, e s'ingolfa in una nuova esistenza, in un mondo incognito, pieno di forme strane, non mai vedute, non mai pensate, - dove l'anima giace immemore di quello che fu, di quello che è; - e solamente, tra il sì e il no, sogna che in qualche parte le dolga, ma non sa dove, non saprebbe cercarvi, non è tentata a farlo.

A un tratto mi scosse un forte sospiro misto di singulto; - e vidi che il pover'uomo si era rialzato girando penosamente la testa verso l'inferriata. - E l'inferriata confina col palco, e la persona non può salirvi. - Gli sia contesa anche la vista del cielo: - così hanno detto, e così hanno fatto. - Un raggio scarso di Sole entrava malvolentieri tra mezzo alle sbarre, e sdrucciolava giù in fondo, lento, malinconico, scolorito, vestito anch'esso da po­vero. Forse quel raggio era pietoso, e tramutava così la sua pompa per mettersi d'accordo col Povero, - per non unirsi all'oltraggio degli uomini.

Arrivato a questo punto, io non vidi più nulla. Il soprastante chiuse e partì. - Io non vidi più nulla, e l'ebbi a caro. Quando il dolore percuote a gran masse l'anima umana, è una vista che si può reggere; - e talvolta è uno spettacolo dignitoso, quando l'anima sviluppa un vigore proporzionato alla forza delle percosse; e quel combattimento tra il mortale e il Destino, tra il signore e io schiavo, ha un non so che di sublime, che lusinga la nostra superbia. Ma quando il dolore prende lo scalpello del notomista, e comincia a incidere il cuore di dentro e di fuori con mille tagli diversi, e lo cincischia con mille disoneste ferite, quello spettacolo allora ha un non so che di fastidioso, e di crudele, che gli occhi non lo sopportano, e, offesi come sono volentieri si chiudono.

Io non vidi più nulla, e l'ebbi a caro. - Il Soprastante era venuto a visitare la carcere, e non il carcerato; solamente aveva portato seco un vaso d'acqua fresca, e l'aveva deposto per terra.

Dunque quel pover'uomo morrà di fame, - perché d'acqua, o fresca o calda che sia, non si vive; a mala pena si vive di pane. Anche Gesù la intendeva così: - Non de solo pane vivit homo.

- No, no; rassicuratevi; questa volta non morrà di fame; un pane gli sarà dato. Ridete? - io vi comprendo, - sarà un pane dato come un colpo a un nemico; sarà un pane duro, duro davvero; - ma che vuoi dire? - Ei l'ammollirà colle lacrime: - perché no? forse non è infelice? - la corda del pianto forse non è la prima corda del cuore, e non trema forse al soffio più lieve? - L'ammollirà colle lacrime, - non ne dubitate; - non v'ho io già detto che sa piangere? e, se l'alterezza gli vietasse di piangere per sé, non ha i suoi figliuoli, non ha forse una madre, non ha un amore, una patria?

Io piango, - voi piangete, - tutti piangono. Questo è tal verbo, che ognuno sa e deve coniugare senza bisogno di grammatica. La sventura è qua maestra per tutti,

O Sventura! perché sei? chi ti creava? quando nascesti? - sei una vendetta? - sei forse un errore? sfuggisti forse al pensiero di Dio in un'ora nera quando a Lui pure gemeva lo spirito addolorato? - La terra ne' suoi continui rivolgimenti ha veduto sparire tante nazioni, tante glorie, tante religioni, ma la tua è rimasta pur sempre? - Il tempo che coll'ala instancabile corre rovinando ciò che gli si para di fronte, quando giunge d'innanzi al tuo simulacro chiude l'ala, e oltrepassa adorando. Tu sei una pianta perenne, che non temi vicenda di stagione; il sereno e la procella egualmente ti ali­mentano. - Il Genio avvalorato dal grido delle plebi umane ha tentato sovente di atterrare il tuo Nume, ma indarno. La Fatalità ti protegge, - e i conati del Genio e delle moltitudini si sono spez­zati contro di te, come la spuma contro la rupe. - La terra è il tuo altare; - i potenti sono i tuoi pontefici, e ti cantano inni feroci, e ti danno in sa­crificio milioni di vittime; - ma tu sei implacabile - tu divori vittime e sacerdoti. - Il mondo è tuo retaggio assoluto; - e se il tuo spirito gode aggi­rarsi fra le rovine, - gode pure insinuarsi come il serpente fra l'erbe e i fiori. Tu puoi rivestire an­che l'aspetto dell'allegrezza; - e non v'e una razza stranamente infelice, che ha sempre il sorriso sul volto, e il pianto eterno nel cuore? - questi son più d'ogni altro infelici, appunto perché non sembrano. - La vita ti appartiene intera; - tuo è il primo vagito dell'infante, - tue le tradite speranze del giovane, - tuo il gemito estremo della vecchiaia; e vi è chi dice che tu perseguiti perfino il mortale in un'altra esistenza. - Non v'è nessuno, che trapassi da questo pellegrinaggio ai riposi della tomba senza avere offerto nel tuo santuario il suo obolo, - senza averti dato almeno una lacrima, - una lacrima spremuta dal più puro sangue del cuore. Tu non ammetti privilegi, e stampi il tuo marchio rovente tanto sulla fronte alla virtù quanto sulla fronte al delitto; - ogni condizione deve piegarsi sotto la tua verga, tanto il conquistatore, che stende la sua spada sui popoli come il raggio del Pianeta, quanto l'umile bifolco, che nasce e muore ignorato come l'eco della sua valle. Anche il povero matto, - che a spese della ragione si riparava in un mondo di larve e d'illusioni, e credeva francarsi dalle leggi della comune esistenza, - an­che il povero matto deve adorarti; - e quando la morte è vicina a rapirselo, tu gli doni un istante lucido d'intelletto, onde anch'egli senta la tua presenza, e ti paghi il suo tributo di dolore. O Sventura! tu non sei punto generosa, tu non hai coraggio di risparmiare né anche il povero matto.





CAPITOLO DICIASSETTESIMO


I primi giorni che l'uomo passa in prigione, sono per l'anima sua come giorni nebbiosi: - l'anima non ha peranche fatto l'occhio a quel clima; - vede confusamente, talvolta non vede gli oggetti, talvolta li vede doppi; - il suo palato non ha sapore; - un ronzìo continuo gli alberga le orecchie; - lo spirito giace stordito, e non sa pensare; - il cuore sente di star sotto a un fascio enorme di sensa­zioni, ma non sa darne ragione. Se la mente non gli crolla, è una prova sodisfacente della sua buo­na tempra; - se il corpo non gli si ammala, è una prova sodisfacente che il corpo fu tessuto cornme il faut. Sia come vuolsi, però in cotesta altera­zione dello stato normale dell'anima l'uomo ci gua­dagna qualche cosa; la noia non trova luogo di abbarbicassi così di leggieri; - il pensiero, che agisce eccentricamente, non è quell'avvoltoio insaziabile, come quando il senno si aggira sopra il suo pernio naturale; - e il dolore vibra il suo pungiglione so­pra una carne mortificata. Questo stato di esalta­zione, in cui tutte le nostre potenze superando il coperchio hanno dato dl fuori, ha prodotto per legge di reazione una pace stanca, un sopore, un dormiveglia nell'anima nostra, che volentieri ella afferrerebbe di nuovo quando si desta, e la pienezza del giorno le mostra a diritto e a rovescio la sua posizione. Ma la natura vive d'eccezione a controgenio, e quanto più presto può, gradatamente rien­tra nel suo letto.

Una volta, per altro, che il carcerato si è stro­picciati gli occhi, e li ha spalancati, ed è desto ben bene, e si accorge, e tocca con mano di esser in prigione, la prima cosa che sente è la sconvenienza di una simil dimora, e il primo pensiero che se gli affaccia è quello di andarsene. Io stesso, che sono un uomo tutto pace, che, se il vento mi porta via il cappello, aspetto che si fermi, e non gli corro dietro, io stesso, - Dio mel perdoni, e chi mi ci ha messo, - ho pensato, prima d'ogni altra cosa, di andarmene. E vi ho pensato così a lungo, e con tanta intensità, che mi meraviglio come questo pensiero nel chinarmi non mi sia caduto già dal cervello in forma di lima. E se qualche spirito maligno non mi ruba questo mio cranio, portandoselo in un altro mondo a farvi sopra le sue esperienze, o a giuocarvi alle bocce; ma invece verrà in potere del sistema di Gall, e di Spurzheim; quei signori notino bene, e cerchino fra le tante protuberanze buone e cattive, ché troveranno uno scavo fatto dall'idea della fuga, una figura tale e quale come l'ho descritta qui sopra.

Pertanto noi siamo d'accordo: il primo pen­siero del carcerato è quello di andarsene. I mezzi poi per andarsene sono due: uno naturalissimo, e di riuscita infallibile, ed è quello di andarsene quan­do ti metteranno fuori; - l'altro naturale pur egli, ma non al grado del primo, ed è quello di fuggire. - Tu puoi fuggire con due metodi: - o fuggire da te col rompere la porta, o col segare i ferri della finestra; - o corrompendo a furia d'oro i custodi. Il primo metodo costa assai meno del secondo; il secondo assai più del primo. E tutto questo per tua regola e governo.

Io, dopo molte considerazioni fatte colla coscien­za, e non a caso, ho meco stesso deliberato effettivamente di rimanermi, finché un qualcheduno non venga a cavarmi. Già, figuratevi voi, mi hanno messo in un Forte munito di soldati, e di cannoni, e sotto chiave d'un Profosso munito di 12 Articoli stabiliti contro di me, e contro di lui; il Forte poi l'hanno messo in un'isola. - Ora andate a fuggire, se vi riesce! - Io mi protesto da capo, che non ho voglia né modo di andarmene; e quando anche conseguissi la fuga, sarei costretto a tornarmene indietro, perché fuori è la stessa prigione; - avrei di più da pagare il fitto d'una stanza, mentre adesso me ne godo un paio, e di pigione non se ne discorre, a meno che non facessero all'ultimo tutto un conto, - Napoleone, è vero, fuggì, - ma voi sapete chi era costui; e se nol sapete voi, altri l'hanno saputo; - e poi, egli fuggiva per delle buone ragioni; - fuggiva per rimettersi in capo un berretto da impe­ratore, ed io non potrei mettermi in capo che un berretto da notte; fuggiva per riafferrane la coda della Fortuna, che novamente gli capricciava dinnanzi, e gli faceva le smorfie da innamorata; - e poi egli era padrone del Forte dove io son racchiu­so, e il Forte non era padrone di lui. - Ma io, che sono una cosa con un nome, e con un casato, e niente di più, faccio sapere a tutti una volta per sempre che ho meco stesso deliberato effettivamente di rimanermi, finché non mi diranno: - vattene. - Io sopporterò la mia prigione, come una escrescenza, che per un accidente mi sia venuta sulla persona, - come la paziente pizzuga sopporta quella casa d'osso che la Natura gli ha collocata sul dorso.

V'è ancora un altro mezzo d'evasione; ma io mi attento poco a proporvelo: e quando voi lo saprete, confesserete che non è da tutti. È un mezzo mirabilmente semplice; non ha d'uopo d'oro, o d'argento, o di compagni; non ha d'uopo dì schiudere una porta, né di rompere un ferro; tu rompi una vena, e tutto è finito. - E allora, se il nulla non ti assorbe, tu vai a vagare pei campi dell'infinito, da dove volgendoti indietro, o la terra non ti apparisce, o tu scorgi sull'estremo orizzonte un punto bruno, impercettibile come il capo d'una formica. E allora esclami: dov'è la mia prigione? dove sono quelli che gemevano, quelli che facevano gemere? Oh la terra è una cosa falsa, gli uomini una folla di larve, il potente una larva con uno scettro di fumo, una larva più alta delle altre, perché ha trovato uno sgabello a salire. - Tu rompi una vena, e tutto è finito. il magistrato può ripiegare la sua toga. - chi vuoi giudicare? L'infelice si è appellato dal giudizio del verme a quello di Dio. - La giustizia può ringuainare la sua spada. - Chi vuoi percuotere una gleba? percuota, se vuole. Il vinto con un poco di sangue ha trionfato del vincitore. - Il tiranno gli aveva posto un piede sul collo; - lo serbava vivo per legarselo dietro al carro della vittoria; - e poi per attaccarlo a un patibolo a sfogo delle sue vendette; - a pasto di una plebe matta e feroce; ma l'infelice ha fatto un moto, un moto solo; e il piede del tiranno più non calca una vittima; - non calca che una massa di fango. - L'infelice con un moto solo l'ha vinto e deriso: - allora ei lo maledice e l'ammira; - allora in un eccesso di pas­sione impotente grida come il Filippo di Schiller:


Rendetemi vivo quel morto; voglio che mi stimi,



CAPITOLO DICIOTTESIMO


Il suicidio è lecito o no? - I pareri non sono unanimi. Rousseau, da quell'ingegno completo che egli era, ha circondata la questione da tutti i lati, mettendo in rilievo con singolare eloquenza il pro ed il contra del suicidio; però il calore della convinzione, e la maggior potenza di raziocinio in lui si riscontrano in pro del suicidio. - Nell'antichità, in certe epoche e sotto l'influenza di certi sistemi, il suicidio era una massima e una pratica così generalmente consentita che l'uomo si ammazzava a suo beneplacito, senza che la società ponesse mente a quel fatto. - Il suicidio era allora considerato come un caso di morte naturale. - Oggi una discreta filosofia non impugna, né approva assolutamente la legalità del suicidio. - Si parte dai momenti che hanno prodotto l'azione, e secondo quelli si stabilisce il valore dell'azione, la maggiore o mi­nore legalità del suicidio. Un'altra filosofia, piuttosto proterva che no, concede il suicidio soltanto alla follia, e nega che in ogni altra situazione l'uomo abbia potere di gettare la vita, né quando gli pesa oltre le sue forze, né quando oscilla tra la morte e l'infamia. A sostegno dell'assunto loro si fondano sulla forza dei vincoli sociali, e sulla premessa che la vita sia un dono di Dio, per il che nessuno possa disporre del dono senza l'acquiescenza del donatore. Io comprendo poco la questione così come la basano. Io ho sempre pensato che un dono non sia veramente tale quando contiene delle condizioni che vincolano la volontà di chi lo riceve. Quando io ho fatto un dono, ho inteso di abbandonare qualunque minima idea di proprietà sulla cosa donata, Così io la intendo, e se fosse altrimenti, mi pare che il vocabolo non vada d'accordo coll'idea. Se avessero detto piuttosto che la vita è un imprestito fatto da Dio, allora forse la questione poserebbe sopra termini più esatti. Se la vita pertanto è una proprietà liberissima dell'individuo, come credo che sia, perché non potrà disporne a sua voglia anche per contraddizione a chi non vorrebbe? perché non potrà disfarsene specialmente quando questa proprietà ha cessato di rendergli un frutto, e gli sta invece a perdita continua? Non fate voi lo stesso di tutte le proprietà che vi nocciono, e non vi danno più un utile? Non siete voi padroni di amputare il mem­bro ammalato, che potrebbe corrompere il resto del corpo? E l'uomo a cui è cancrenato il cuore non è padrone, tagliando un filo ormai logoro, di finir le sue pene? La legge primaria del nostro organismo è di fuggire il dolore, e si può fuggire in mille modi: voi lo fuggite vivendo, altri lo fugge morendo. Pretendete che tutti godano in un modo unico, nel modo che godete voi? Voi potete più ra­gionevolmente impugnare la legalità della pena di morte, perché si tratta di agire sull'altrui proprietà, perché può esservi eccedenza di giustizia, perché stante la imbecillità degli umani giudizi, può esservi anche offesa manifesta. Ma l'individuo che aliena la cosa sua libera, separata, indipendente, commette un'azione le più volte utile a sé e indifferente sem­pre per gli altri. E se la vita fosse anche un dono di Dio, cosa può importargli, se l'uomo crede bene d'impiegarlo piuttosto in una maniera che in un'altra? Porse perché, uccidendosi, vive dieci anni meno di quello che poteva vivere? E che importano a Dio dieci anni più o meno, a lui che misura tutto coll'eternità, che ha destinato tutto a morire per rifar da capo? E perché l'uomo non potrà esercitare sopra questo dono il medesimo. diritto che è stato dato alla tisi, al colera, a una puntura di vipera, al pugnale dell'omicida?


Che se voi mi parlate di vincoli sociali, vi dirò io; dove sono questi vincoli, e chi li ha stabiliti? Se sono una cosa che emerge spontanea dalla na­tura umana, allora vi dirò che le cose naturali van­no da sé, non si contraddicono mai, e le loro leggi non hanno da temere infrazione. Ma se invece fossero un pregiudizio contro natura, una convenzione ideale sancita ne' tempi trascorsi, allora vi dirò che i posteri non son tenuti di stare alle decisioni di un errore, perché sia antico, e che possono annul­lare qualunque legge incompatibile coll'utile e colla ragione, e perché quello che stava bene cent'anni sono, oggi sta male. La società è un contratto ta­cito, regolato da una scambievole convenienza di condizioni fra le parti: se così non è, la società non regge più sulle basi approssimativamente eque di un contratto; - invece sta sopra un piede di vio­lenza; e allora somiglia più che altro il supplizio di Mezenzio, un corpo vivo legato a un cadavere. Se in società io godo, e voi soffrite, dov'è fra noi la forza dei vincoli? A qual fine voi dovete star meco? forse perché io vi veda soffrire? Perché quando non ho la potestà o la volontà di mettervi al pari mio dovrò anche torvi il diritto di andar­vene dove non vi sarà società, o ve ne sarà una più giusta? Come può immaginarsi società e mutua corrispondenza di doveri sociali fra l'uomo che spende un milione all'anno e l'uomo che non è sicuro di mangiare ogni giorno una scarsa misura di pane impastato di fiele e di lacrime? Donde il primo cava il diritto di dire al secondo: vivi; te lo impone il dovere? Dio stesso, se l'uomo, come ho detto, non fosse arbitro della sua proprietà, gli torrebbe per compassione la vita. Certo io ammiro la testa che porta fieramente la sventura, come un re la corona. Ma lo fa non per sommissione a un dovere che non esiste; lo fa perché ha sortito una tempra vigorosa d'anima, che lo rende capace a resistere. Ma l'infelice cui si son disseccate tutte le fonti del piacere, che vive dolorosamente per sé, e inutile per il prossimo, che trova a morire tutto l'interesse che gli altri trovano a vivere, perché un infelice siffatto deve rimanere al suo posto? Non vedete che la sua missione è finita? che l'equilibrio del patto sociale è stato alterato? Fareste voi meco un contratto in cui si stipulasse a me il riposo, a voi la fatica; a me le rose, a voi le spine? Perché vivete voi? perché la vita vi arride; perché considerandola anche come un male, se la mettete in bilancia colla morte, questa per voi è un male più grave, e fa traboccar la bilancia. - Spogliatevi di ogni ipocrisia; voi non vivete per un dovere; vivete per un calcolo. - L'infelice ha pesato l'esistenza e la morte; - l'esistenza era più grave; ed in senso inverso ha i medesimi diritti che voi; egli muore per un calcolo. - Ma voi direte: egli non deve cedere così per poco; deve combattere; deve tentar di vivere. - Se voi sapeste quanto lungamente ha combattuto, sareste men rigidi. - Egli ha combattuto a lungo, e con tutta l'energia dell'istinto, perché la vita non si getta via sbadigliando; e avanti di rodere la catena dell'istinto, ci vuoi tempo e dolore più che non credete. - lo ebbi un amico di ragione salda, d'ingegno capace, di cuore generoso; era amato e stimato da tutti e lo sentiva con riconoscenza; - ma non si sa come, fin dai primi anni, in cotesta pianta s'insinuasse il verme del suicidio che cominciò a minare, a minare tanto che all'ultimo la lasciò inaridita e nuda di qualunque fronda. Resisté molti anni, ma indarno; - egli doveva e voleva morire. - Vani furono i conforti delle persone a lui care: - vani i tentativi che faceva egli stesso per sottrarsi alla vocazione fatale. Provò i piaceri dello spirito, - provò quelli dei sensi, - non avevan sapore; - per lui non aveva sapore che la noia; - vedeva il mando di dietro a un vetro affumicato. - Gli amici gli si mettevano d'intorno con ogni sorta di argomenti per levano da quel proposito; ed egli non ricusava la disputa, anzi l'accettava di buon grado, e l'esauriva con un ordine di ragionamento maraviglioso, e gli amici tornavano via quasi convinti a far lo stesso. Egli non era disperato; - era freddo e determinato a morire, come noi siamo a vivere. - lo ed altri giungemmo più volte ad ottenere perfino da lui una tregua di qualche mese al suicidio; - 'ed egli accordava sorridendo la tregua: - ma finalmente la volle finire, e in una sera di state con un colpo di pistola sì uccise. - Sul primo mi spiacque vivamente; poi ripensandoci sopra, esclamai come Lutero: beatus quia quiescit.

Andate a rammentare a un uomo come questo il dovere sociale ed ei risponderà: rinverginatemi il cuore, ravvivate il raggio alla stella pallida del tramonto, ed io vivrò volentieri con voi. - Potete voi farlo? Sappiate che l'anima umana può essere affetta da una tisi incurabile come il corpo. E se voi non avete farmaci da risanarmi, perché volete che io viva così dolentemente ammalato? Il meglio è finir presto.

E il miserabile che si annega per estrema mise­ria, che ha cercato il lavoro per ogni officina e da per tutto l'hanno respinto, che ha bussato ad ogni porta, e tutti per soccorso gli hanno dato un Dio ve ne mandi (moneta che non si trova chi la baratti), che doveva far altro, se non gittare un fardello che le sue forze più non valevano a sopportare? Dio o la Filosofia possono prescrivere l'impossibile? Possono prescriverlo, purché non ne aspettino poi l'esecuzione. - Certo quell'infelice, tentati invano tutti i mezzi di sussistenza innocente, poteva farsi assassino; - rapire l'oro e la vita a quanti s'imbattevano in lui, e da ultimo incappare nel boia che avrebbe fatto giustizia. Il boia però collo stringergli la gola - fino a che morte ne segua - non avrebbe scemata una dramma del male già seguito. - O Filosofia, se tu fossi meno proterva e più umana, invece di gravare la fossa del suicida d'una maledizione, o del tuo disprezzo, daresti lode, o almeno compatiresti l'infelice, che, posto fra il delitto e la morte, sceglieva quest'ultima. - Volete restringere la sfera del suicidio, confinandola ai pochi casi di esso, commessi per debolezza, o per noia, ai casi rarissimi di questa azione commessa per eroismo? Spendete meno massime, spendete più fatti: - allargate le vie della vita, sgombratele di tante spine, che vi seminò l'errore e l'ingiustizia. Con che titolo l'ozioso opulento verrà a filosofare aspramente sul corpo del suicida per miseria, - egli, che giornalmente in una bottiglia di sciampagna­ beve almeno cinque giorni dell'esistenza di un povero?

Certe leggi barbare, perché inique e stolte, perché inutili, pretesero di percuotere il suicida con una pena. Le pene non hanno scopo ed esercizio che di fronte alla sensibilità. - Affliggete le cose insensibili, se vi riesce; e allora avrete ragione. Allora Serse quando flagellò l'Ellesponto fece un'azione de­gna di Socrate. - Il suicidio, sottraendolo alla speculazione e concedendolo alle sensazioni delle mas­se, è argomento di mille diversi giudizi. - Date a vedere sulle tavole del camposanto il corpo del suicida; - ecco la fama percorre le piazze e le strade e bandisce che un uomo si è ammazzato di proprio pugno. - Le turbe accorrono, fanno cerchio, fanno calca, fanno popolo; compongono l'opinione com­pleta, dal colore più saliente alla gradazione più sfumata..

Una ragazza tutta tremante d'ansia e di curiosi­tà come l'anima vergine allo spettacolo di una cosa non veduta mai, s'interna, s'affaccia, si curva un momento sul morto e poi si volta per partire, e sulla freschezza vivida della guancia è insorto un livido leggiero, leggiero; l'occhio è lucido più dell'usato, come quando è vicino a piangere; e facendosi strada frammezzo alla folla esclama: peccato! che bei giovane! - Un crocchio ben numeroso ragiona del nome e del cognome del morto; del come andava vestito; del dove stava di casa, delle sue abitudini, ecc. - Un popolano mette ruvidamente le mani sulla ferita per mostrarla al compagno e col suo grosso buon senso conchiude: a pagare e a morire c'è sempre tempo. - Uno scettico dice al vicino che gli domanda le cagioni del fatto: io non ne so nulla; era padrone di stare, è stato padrone di andare; - forse volevate rattenerlo? - E il vicino, mal soddisfatto, gli volta le spalle. - Un teologo lo mette all'inferno, e sigilla la sua decisione con una presa di tabacco. Una vecchiarella gli mormora addosso un de pro­fundis, pregando sua divina Maestà che lo mandi almeno al purgatorio. Un ciarlatano allunga la fisonomia e vi fa sopra una massima. Un uomo di cuore non apre bocca e vi versa una lagrima.

E come vedete l'opinione pubblica non offre dati da fondare un sistema sull'unità del principio. - Chi biasima in forza di un diritto ereditato; - chi approva per simpatia; - chi per raziocinio; - chi compatisce: - i più son curiosi, e lasciano il fatto com'è senza definirlo. Io, facendo un sistema per conto mio, ripeto quanto ho avanzato in addietro, che la vita è la prima proprietà dell'uomo, proprietà assoluta, indipendente e separata con distinzione si profonda dall'altrui proprietà che non v'è rischiò di liti sui confini; e da una proprietà di questa natura deriva inevitabilmente l'esercizio di un diritto illimitato sulla medesima. Che ponendo ancora la vita. come un dono di Dio, egli non ha prescritto il modo speciale con cui deve finirsi. - Non si trova in nessun libro che abbia vietato il suicidio; e se pure una volta ha parlato, ha detto: non uccidere: e qui va bene, perché si tratta della cosa altrui, ma non ha mai detto: non ti uccidere. Egli ha donata la vita e l'ha destinata a finire. Sul modo poi è affatto indifferente, e per lui il suicidio è un genere di morte come un altro. Se il resto degli uomini vivessero eterni, e il suicida morisse, allora il suicidio si potrebbe considerare come una contradizione al suo concetto: ma poiché tutti dobbia­mo morire, egli è indifferente sulla specie d'im­barco che noleggiamo per giungere a questo porto. - Dio ha donata la vita, ma non s'è riserbati i modi particolari per metterla a fine: ha lasciato questi modi alla nostra organizzazione e a quella rete di infiniti accidenti in cui siamo ravvolti. Credereste voi che egli occupi la sua eternità e i suoi attributi a scegliere per voi l'apoplessia, per me il mal di petto? Il pensarlo sarebbe forse una cosa empia e certamente ridicola. Lo spirito della sua legge è creazione e distruzione in perpetuo: - basta che l'uomo nasca e muoia, e la sua legge è adempita.

Affermata la legalità del suicidio, è facile fissarne i diversi gradi di stima. - Le azioni hanno un va­lore intrinseco che di rado può sfuggire all'aritmetica della morale. Voi potete compatire il suicida che si ammazza per debolezza; potete biasimare chi s'ammazza in conseguenza del giuoco o d'altre dissipazioni, approvate come un conto che torna il suicidio fatto per noia, o ratto dal tisico, che arrivato al terzo stadio, crede bene di risparmiarsi un qualche mese di agonia infallibile; - potrete ammi­rare il suicidio prodotto dall'eroismo. Potrete distinguerlo in tre calcoli, - fallace, giusto e sublime. Di tutti questi elementi potrete fare una piramide, dandole per base la debolezza e per comignolo la virtù.

Discendendo poi dalle teoriche al fatto, osser­viamo che più ordinariamente questo fenomeno si verifica o nell'estrema energia o nell'estrema spos­satezza dell'umana natura. Di rado tocca il grado intermedio; - di rado un uomo dotato di facoltà temperate mette le mani nel proprio sangue. Egli è buono a sopportare molti disastri, che fiaccano il debole; - egli, in forza delle sue misurate facoltà, non si trova mai avviluppato in quel nodo di eventi che sforzano l'uomo superiore a sparire dalla scena del mondo celandosi in un sepolcro. L'uomo moderato può convenientemente transigere con una lunga serie di fatti. L'uomo debole vive a caso, - e se i fatti gli passano rasente senza urtano di fronte, può invecchiare pacificamente, e morir nel suo letto. Ma se un fatto lo prende dì fronte, egli è perduto, egli non ha vigore bastante da sviarlo e rimetterlo sul suo cammino. Una cosa lieve, un nonnulla, anche una risata, in un cervello così fatto diventa un'idea fissa; e allora la follia compie la paralisi delle sue forze morali, ed egli è costretto a morire senza poterne dar conto a chi glielo dimandasse. Io ho conosciuto un giovane leggiadro di forme, d'indole mite, ma vuoto di testa, che si fucilò, perché i genitori, che l'amavano assai, non gli permisero di farsi dragone. - Ma l'anima atletica d'un eroe trascorre una scala lunghissima dì eventi, e nulla l'arresta; - la sua gagliardia rompe spesso la corrente, che strascinerebbe in rovina ogni altra forza fuorché la sua; - poi ad un tratto si trova di faccia una combinazione intricata, profonda, dove freme l'onnipotenza del Destino. Allora il Genio si conosce perduto, - ma non cede sul subito; si sviluppa una lotta da gigante a gigante, - e la lotta dura finché le forze da una parte resistono; - finalmente il Genio soccombe, - il Destino supera, perché il Destino è ciò che deve essere. Che deve fare allora l'eroe? - progredire è impossibile, perché una barriera di adamante gli chiude i passi; - rovinare in fondo è impossibile, perché la natura del Genio è di salire finché può. Allora l'eroe decide di morire, non già perché vuoi morire, ma perché non può più vivere. Non è il delirio, che spinge; è la coscienza, che sceglie. Il Genio si scava la fossa su quel gradino, dove la Fatalità gli ha reciso l'ale; - e si scava la fossa per insegnare che il sistema del Bene va portato innanzi finché si può, e non va rinnegato colla codardia del tornare indietro. Certo il suo concetto era di salire al som­mo della scala e piantarvi lo stendardo della vit­toria. Dio non ha voluto, - egli è morto. Egli non poteva vivere sospeso fra il cielo e la terra.

Catone sta per la repubblica, - e combatte all'usurpatore a palmo a palmo il terreno; ma questi, più felice di lui, lo incalza di provincia in provincia, - lo soffoca coll'alito ardente della vit­toria. Catone finalmente è in Utica, chiuso in cir­colo magico, donde gli sarà impossibile uscire come dalla tomba. - Già si sente fremere a tergo il delitto e la fortuna di Cesare. Ma i fati non sono per lui, - egli lo sa. Non v e più scampo, - non v'è più spazio, - non v'è battaglia più da tentare; - la Virtù contro il Fato è un vetro contro una massa di ferro. Catone deve morire, e morrà. Poteva rendersi a Cesare, - ed ci l'avrebbe perdonato, - l'avrebbe anche onorato, perché Cesare era un tiranno, ma un tiranno di genio. Catone era come quei metalli, che si spezzano, ma non si piegano. Doveva morire per dimostrare che la Virtù è un fatto sensibile, e non un nome vuoto; doveva morire, perché la sua ragione gl'insegnava pacatamente la morte come un dovere, la vita come un tradimento. Se non fosse morto, né i contemporanei né i posteri avrebbero saputo in che più credere. La sua morte fu una protesta eloquente contro l'usurpazione felice, - una guarentigia del diritto - un conforto, uno stimolo ai superstiti; e dal suo sangue usciva una voce, un insegnamento solenne a morire piuttosto che a disertare una causa santa.

E Bruto da quei sangue raccolse quella voce, e se la pose nel cuore. Quella voce gl'intimò primamente a non disperare della salute della patria, - a tentare la sorte incerta delle armi, e così fece; - poi quando a Filippi fu perduta l'ultima battaglia delle libertà latine, interrogò quella voce, e gli disse di morire, E Bruto moriva incontaminato, come devono morire le anime sublimi. - Comprese la san­tità della sua missione, - la grandezza dell'esempio che andava a dare, - il frutto immenso di cui questo sarebbe stato fecondo nell'avvenire. Il suicidio in lui non fu il consiglio d'uno stretto egoismo, fu un sacrifizio fatto alla dignità dell'umana morale. Se fosse vissuto, avrebbe commesso peggio che una viltà; - avrebbe messo in dubbio i diritti dell'uomo; - avrebbe sanzionata la scelleraggine trionfante; ne avrebbe in certo modo velate le vergogne: - così la lasciò nuda, - così col suo sangue si appellò pei diritti delle nazioni alla ven­detta dei posteri rigenerati; - così, piuttosto che concederla agli stupri della tirannide, volle condur seco la Virtù vergine nella tomba. Bruto, anima esaltata, e inflessibile nell'amore del grande e del giusto, era portato al suicidio dalla necessità e dal dovere. Non gli rimaneva a fare più nulla né di buono né di grande; - non gli rimaneva né anche di sedersi sulle rovine della patria, e sciogliervi un canto funereo; - le rovine della patria erano ormai lo scanno dei Cesari. - Doveva fuggire? Il pensiero solo è un sacrilegio; - ma e in qual parte di mondo fuggire? Il mondo era una provincia romana, e qualunque nazione avrebbe portato a gara la testa del Bruto in aggiunta ai consueti tributi. - Doveva ri­correre alla clemenza di Augusto? Oh! l'ultimo dei Romani non poteva ricorrere al primo dei tiranni. La Fatalità aveva incatenato lui alla Repubblica, e la Repubblica a lui, Erano due in un destino solo; - dovevano esistere insieme, perire insieme, e peri­rono. E poi conoscete voi la clemenza di Augusto? Ve lo dica Perugia. - Augusto non aveva che ta­lento e libidine d'imperio; - del resto ineccitabile come una pietra; un alito di passione non aveva mai increspato quel mare morto dell'anima sua. Un giorno fece un conto, e barattò la testa di Cicerone suo amico contro quella d'un uomo che appena conosceva, come farebbe un fanciullo dei suoi ba­locchi; e sotto manto d'amore carezzava Cleopatra per menarsela a Roma in catene in un giorno di festa e d'orgoglio. Augusto avrebbe messo la testa di suo padre per puntello a un piede del trono, se quel piede non avesse posato in piano.

Il suicidio di Catone, di Bruto e di mille martiri della verità, è un eroismo, - un fatto di natura trascendentale, che sfugge al compasso di una volgare filosofia. È il punto culminante dell'umana grandezza, è il sacrifizio. L'invidia sola può tentare d'impiccolire le proporzioni colossali d'un tanto fenomeno, ma la ragione sdegna l'analisi, e si contenta di venerare. Il suicidio è vero che in questi casi stacca un fiore dalla corona della Virtù; ma la Gloria raccoglie tosto quel fiore, - ne fa una stella, e l'aggiunge al suo serto immortale.




CAPITOLO DICIANNOVESIMO


Poffare Dio! ho scritto queste quattordici pagine tutte d'un fiato, e con tanto impeto che me ne trovo stordito. Ho lasciato fare il più al sentimento, e alla penna; - al cervello è toccata la minima parte. Non so se sia bene; - comunque siasi, è andata così. Mi son voluto lasciare andare, dove il flutto voleva portarmi, - ho lasciato le vele in balia del vento. Se invece di arrivare in porto ho dato in secco, non ve ne prema; - il danno è tutto mio. Quando me ne vada il peggio, vuoi dire che non avrò ragionato. Benissimo; - è una cosa che mi succede spesso, anche quando ho le più serie intenzioni di fare il contrario. - Per me è una baia. - Quandoque bonus dormitat Homerus. Non lo dico per superbia di paragone, - lo dico così per citare, e per far vedere che anch'io sono stato in collegio, dove in quattro anni m'insegnarono a non sapere il latino. Non lo dico per superbia di paragone. Omero era cieco, e poeta; io invece ho due begli occhi, e non sono né poeta né prosatore. Scrivo per capriccio - per far diventar nero un foglio bianco. Scrivo perché non ho da ciarlare con nessuno; ché se io potessi anche con una vecchia, anche con un bambino, non pensate, non toccherei la penna. An­date a leggere, se vi riesce, quello che ho scritto quando io non era in prigione! Certo potrei parlar meco stesso, - ma non voglio avvezzarmici, per. ché uscendo di prigione con questo vizio, e portan dolo meco in società, mi potrebbero prender per matto. Assai in fatto di giudizio non godo di un credito troppo esteso! - allora la storia sarebbe bella e finita, D'altronde, quando io scrissi le suddette quattordici pagine avevo il cuore pieno pieno - non so di che - ma veramente pieno, - e bi­sognava sfogarlo. Se fossi stato un romantico, avrei scritto una ballata malinconica; se un classicista, avrei scritto un'elegia; - se un musico, avrei can­tato qualche melodia del Bellini. Ma io non sono nulla di tutto questo, - non so che fischiare; - però lo faccio quando ho l'umor nero, o quando una coppia di grilli mi mettono in festa di ballo la fantasia. - Del resto, ve lo ripeto, ho scritto quel che io sentiva; - il calcolo ci è entrato per un mo­mento, e poi fuori. L'anima ha qualche quarto d'ora in cui se ne vuole star sola sola con le sue sensa­zioni, liete o dolorose che sieno, e guai se la mente vuoi venirne a parte! - guasta tutto, come qualche viso antipatico spesso mette il freddo e il silenzio in un crocchio cordiale d'amici. D'altra parte è impos­sibile star sempre sopra una nota, - e, quand'anche ti riuscisse, verresti noioso a tutti, e i casigliani ti caccerebbero dal casamento. La vita, a voler che sia bella, a voler che sia gaia, a voler che sia vita, dev'essere un arcobaleno, - una tavolozza con tutti i colori, - un sabato dove ballano tutte le streghe. Il sollazzo e la noia, il pianto e il riso, la ragione e il delirio, tutti devono avere un biglietto per questo festino. Che serve far della vita una riga diritta di­ritta, lunga lunga, sottile sottile, noiosa noiosa, e color della nebbia? E' un volersi reggere sopra un piede solo, - è un mettere l'anima umana nella stessa situazione in cui si pose lo Stilita, che stette quarant'anni in cima a una colonna. Vuoi essere un'orchestra piena, e non un piffero solo; - varietà vuoi essere. Viva la varietà! Per tutti questi motivi, io ho scritto quattordici pagine senza pensare, e non me ne pento. Giorgio Spugna mio dilettissima amico mi ha ripetuto sovente queste notabili pa­role: << L'uomo che è sempre savio vai poco più dell'uomo che è sempre pazzo; - est modus in rebus; - l'arte di pensare è un'arte che va stimata e riverita; è una fatica concessa all'uomo e negata alla bestia; - ma il farlo sempre si assomiglia all'avaro, che conta e riconta perpetuamente i suoi scudi; - qualche volta bisogna spendere; - il co­perchio rompe il coperchio; - qualche volta bi­sogna non pensare per riflessione; se no, all'ultimo, spesso invece di una scoperta psicologica ti trovi di aver pescato un'emicrania >>. Così mi diceva Giorgio Spugna, filosofo, che si è fatto da sé, senza bisogno di libri, senza bisogno di Pisa, di Bologna e di Padova. Non già che Giorgio Spugna sia ritroso al viaggiare, - anzi è questo un suo desiderio vivissimo, e giuoca sempre al lotto per vedere se un giorno o l'altro potesse mettersi in corso; e mi ha giurato più volte che se ottiene il suo intento, vuoi fare il giro del globo, componendo un trattato di pratica comparata sui migliori vini dell'uno e del­l'altro emisfero. Mi ha detto ancora che giro fa­cendo non avrebbe scrupolo di mettere in carta le sue osservazioni di qualunque altra maniera, dacché egli pure possiede un cannocchiale fatto da sé, col quale guarda tutti gli atti di questa umana tragicommedia. - Ma io noi farei, - soggiungeva Giorgio, - giusto appunto perché mi è venuto fatto di osservare che le opinioni, anche buttate là colla stessa insouciance colla quale soffio il fumo della mia pipa, possono cadere in frodo peggio del ta­bacco, e la multa non è lieve, ed è certa sempre la perdita della merce, e talvolta anche quella della persona; per questo io noi farei, e procurerei al summum di tenermele a mente per ridirtele poi testa testa nel giolito d'un simposio, nell'intervallo fra un bicchiere e l'altro. - E credete che Giorgio Spugna è più filosofo di quel che non pare, preci­samente perché non pare un filosofo. E ripeterò con lui: qualche volta bisogna spendere. Che direste d'un uomo che stesse da mattina a sera a guardar l'orologio per far buon uso del tempo? Per lo meno perderebbe il tempo a vederlo passare. Mettetevi in tasca l'orologio, e fate le Vostre faccende; l'oro­logio consultatelo di quando in quando secondo il bisogno. Bisogna fare tutti la sua parte; e se colti­vate una cosa sola, e l'altra trascurate, godete meno e le altre vi vanno a male. Così è come io ve la dico, e vi esorto a crederci, o almeno potete fidar più sul mio senno quand'io discorro alla buona, e senza pretensioni, che quando mi metto in aria di ragio­nare. Soprattutto rammentatevi il nome e le opi­nioni di Giorgio Spugna. Ei se lo merita, ed a me farete cosa cara.




CAPITOLO VENTESIMO


Io ho detto nel capitolo XVII che sono in pri­gione, e lo confermo nel capitolo XX. Oggi finiscono trentaquattro giorni, e non isbaglio; in mancanza del lunario li ho contati due volte sulle dita.

A chi me l'avesse detto il 2 di settembre io avrei riso in faccia di un cotal riso da venirne a duello. Eppure io ci sono!

Benedetti i primi giorni della mia prigionia! - Io era così sempre fresco del passato, che sovente mi riusciva d'illudermi. Sovente sopra pensiero chia­mava ad alta voce la serva, perché mi recasse una cosa o l'altra; e sentendo che nessuno mi rispon­deva, io mi accertava allora della prigione; ma ci rideva sopra, e non era più altro. Sovente sopra pensiero in un batter d'occhio m'indossava la giubba, mi calcava in capo il cappello, e tutto in­furiato andava per uscire; - ma giunto alla porta mi accorgeva che il chiavistello stava per di fuori, - segno evidente della prigione; - ed io al so­lito ci rideva sopra, e non era più altro. Benedetti i primi giorni della mia prigionia!

Oggi però è ben diversa la cosa. Io son mesto e spossato dalla noia - e così penetrato fino al mi­dollo dal convincimento di essere in prigione, che questo pensiero dinanzi agli occhi e alla mente mi brulica in infinite forme, come uno sciame di atomi innumerevoli traverso un raggio di luce; e così mi si è dentro inchiodato, che nei primi tempi della mia nuova libertà per avventura crederò sempre d'essere in prigione.

Io sono mesto, e spossato dalla noia. La noia taci­tamente ha tramato per me una così gran tela che io non vedo parte donde salvarmi. Io son la mosca di quella tela, e più che mi dibatto per uscirne, e più vi do dentro.

Oh! la noia è una parola sola, - una parola breve, che non conta più di quattro lettere, - ma il provarla è tal volume, che uomo al mondo non sfoglierebbe così per tempo, né così di leggieri. La noia è l'asma dell'anima, - è una ruggine che può consumare la meglio temperata lama, che si dia; - è una cosa, che dai capelli alle piante ti fascia la cute d'un senso umido, fastidioso, ti perverte l'oc­chio, e ti fa veder tutto in bigio; - toglie il sa­pore al gusto, - la fragranza ai fiori, - la dol­cezza all'armonia. Schiaccia l'acume dell'intelletto, e lo rende bestialmente stupido, - e insugherisce il cuore, mortificandone la squisita sensibilità, disseccandovi dentro la lacrima del piacere e del dolore. Oh! la noia è il più insopportabile dei nostri dolori, perché è il dolore della stanchezza; perché non ec­cita in noi una forza che valga a combatterlo. Essa non è un vulcano, ma copre di freddissime ceneri il sorriso della natura intera.

E le ho tentate tutte per medicarla, ma senza pro. - Il leggere non mi giova; - sto mezz'ora sopra un verso, - e poi gitto il libro. Non ho più coraggio né anche di scrivere i miei ghiribizzi; i miei grilli son morti d'inedia; - essi volevano l'erba fresca del prato, e l'alito dell'aria aperta. - Non mi giova il passeggiare; - vado in su e in giù per dodici passi della mia prigione, e di lì a poco torno a se­dermi colla vertigine. - Se mi affaccio, vedo, è vero, un bel cielo, ma le sbarre, che mi traversano l'occhio, me lo tingono di color di ferro; - vedo un cerchio di monti, e mi paion sepolcri; - vedo una mandra di soldati, che la disciplina militare ha sa­puto convertire in altrettanti arcolai. - Pallida mi apparisce la verdura degli orti, e dei vigneti, e il canto degli uccelli mi suona lamento.

Alas poor Yorick! Io mi curvo sotto un peso, che non posso più reggere, ho fatto di tutto per sollevarmene. Ho contato le battute del mio polso, e ho dovuto smettere; - ho fatto la guerra agl'insetti, che mi son compagni, e ho dovuto smettere, perché son troppi; - ho contato i travicelli delle mie due camerette, e sono diciotto e mezzo; - i travi grossi, e son otto; - ho contato perfino i mattoni, e son tre­cento novantuno. Io non ho più pace, e non so come averne. Non posso più pensare né al passato né all'avvenire, spazi così vasti, e così comodi per il diporto dello spirito. Son confinato nel presente, - e il presente di un carcerato non è già il Tempo coll'ali snelle velocissime, - è una figura di piom­bo sdraiata in un canto.

Eloi Eloi, lamma sabactani. E come fare per il resto di tempo, che dovrò starmi in prigione? Aves­sero almeno detto; - ci starai tre mesi, sei mesi, un anno, - manco male; - ogni sera con un so­spiro esclamerei: - v'è un giorno di meno! - Se io potessi avere dell'oppio, forse sarei felice, e certa­mente tranquillo; - l'anima mia dolcemente asso­pita passerebbe le sue giornate in un mondo aereo, multiforme, - un mondo così dovizioso d'illusioni, e d'immagini, che la più alta fantasia dell'uomo desto può concepirne appena una frazione ben minima. Ma non posso sperare nell'oppio; - i miei custodi l'hanno in concetto del veleno e non me lo farebbero vedere né anche dipinto. E per questo io ho desiderato le mille volte una febbre acuta, che mi levasse fuori di me fino al giorno della mia scarcerazione. Ma la febbre anch'essa, che pur non dipenderebbe dai miei custodi, non vuoi venire - non vi è rimedio; è un calice, che bisogna bere, e né anche Dio potrebbe rimuovermelo dalla bocca.

Ecco qui; tutti i giorni sono i medesimi, misu­rati dalle medesime vicende. Alle Otto la mattina il solito caffettiere colla solita colezione; - al tocco il solito pranzo portato dai due soliti selvaggi, che si son rubati il nome di camerieri. Il pranzo è com­posto sempre della solita zuppa, e di tre pietanze, che sembran tre morsi, presso a poco sempre uni­formi, e di rado una di quelle variata, in un uccello strano, - una specie d'uccello, che avrà che fare coll'ornitologia, ma non so se abbia diritto all'in­gresso d'una cucina; - una specie d'uccello, che a casa mia non ho mai veduto né per aria, né sullo spiedo. Io non so dove trovi quegli uccelli il trat­tore; - mi pare impossibile che un cacciatore li trovi, e, se li trova, che abbia il coraggio di spen­dervi sopra una botta. Ma io ho veduto spesso il trattore sur un campanile, e di certo ci vi andava per quegli uccelli, e per noi.

E il Profosso? Mutassero almeno il Profosso una volta la settimana, come avevano cominciato dapprima! Ma dopo una volta non l'hanno più fatto. Eccolo là, - è sempre il medesimo Profosso, - col medesimo viso - col medesimo passo, - col me­desimo vestito bianco mostreggiato di rosso, - colle medesime chiavi, coi medesimi 12 articoli, sta­biliti contro di me, e contro di lui, - col medesimo suono di voce. Fin qui il Profosso non è ancora in­freddato, per sentirgli fare almeno una voce diversa. L'unica mutazione, che segua in lui qualche volta, è quella da un casco a una berretta. E un uomo anche egli convinto della disciplina, - convinto dei suoi superiori, - persuaso che le basto­nate sieno un dovere a darle, e a riceverle, come voi siete persuaso a grattarvi in quella parte ove vuole il prurito. - Oh! le strane fantasie della noia! Quante volte non ho io desiderato, per non vedere sempre il medesimo Profosso, di vederlo un giorno con un occhio solo, un altro giorno con tre; un giorno con due nasi, un altro giorno colla bocca sulla fronte; una domenica, quando mi accompagna alla Messa, che camminasse colle mani e coi piedi; un lunedì di vedermelo vestito da donna; un gio­vedì colla testa voltata dalle spalle, un venerdì senza testa. Ma il Profosso non si muta mai, - è inesorabile; e ogni giorno viene a menarmi fuori per prendere un'ora d'aria, com'egli dice, e spesso mi tocca invece un'ora d'acqua. E sul primo anche questo era un conforto, - ora non è più. É sempre il medesimo Forte della Stella, - le medesime salite, - le medesime scese, - i medesimi sassi ri­belli, e pronti ad offenderti, - i medesimi cannoni, - i medesimi soldati; - non si trova un uomo, o una donna, se tu li pagassi a peso d'oro.

Il Profosso è una disperazione; - quando io gli chiedo se ci è nessuna nuova del mondo, mi ri­sponde sempre che non vi è nulla di nuovo. Possi­bile mai! - bisognerebbe che tutto il mondo fosse in prigione. - Eccolo là il Profosso! è inconverti­bile. - Viene tre volte al giorno nella mia stanza, uguale uguale, senza pendere un capello da quello che era la vigilia; e mi dice se può entrare, quando è già entrato; e, allorché se ne va, mi domanda se io voglio nulla. Egli lo fa per dovere, non ci mette ironia, - così voglio credere; - ma quella dimanda mi fa il sangue più agro. O Profosso! Profosso! Se tu sapessi quello che lo voglio, certamente non me lo dimanderesti due volte. D'ogni tre volte due almeno io voglio che tu vada al diavolo.

E la notte? - non me la rammentate, per l'amore che portate a voi stessi, La notte è per me l'eternità di un dannato. La notte con quel suo vasto si­lenzio, così propizia ai fantasmi poetici, al meditare profondo, per me non significa nulla; e mi scende sull'anima, fredda, piatta, e pesante come una la­pide. Invoco il sonno coi nomi più lusinghieri, ma vanamente. Disteso sopra un letto né cattivo né buono, mi volto a destra, mi volto a sinistra, mi giaccio supino, mi giaccio bocconi, mando fuori un Gesù mio, mando fuori una parola a rovescio, ma il sonno non viene. La notte la noia non è sola; - chiama sull'armi le zanzare, e mi fanno una guerra mortale da fedeli alleate. Finalmente prendo un poco di sonno, - ma torpido, vuoto, senza balsamo di riposo, senza sogni. Potessi almeno farmi de' sogni! ché la mattina di poi m'ingegnerei a farne la storia, e a metterli in bello stile.

Sul principio, quando veniva la notte io mi con­solava standomi alla finestra a godermi lo spirare dei venticelli, e lo spettacolo solenne d'un bel cielo italiano. Ma, dopo quello che avvenne una sera, ora appena cade il crepuscolo io chiudo le imposte, e disperatamente mi caccio nel letto. Sentite quello che mi accadde una sera. Io me ne stava, come v'ho detto, immergendomi lo spirito nella conside­razione d'una gloriosa natura, assorto in uno di quei momenti d'estasi e d'oblio, nei quali l'uomo non è più una povera creta, ma è pellegrino del­l'Infinito; e guardando sospeso sopra di me quel­l'azzurro immenso, sereno, gioioso, magnifico di stelle e di misteri, mi sentiva sollevare, mi sentiva intenerire: - a un tratto mi venne fissato l'occhio sulla Luna, che spuntava in un lato del firmamento, pallida amabilmente e modesta; - allora il mio sentimento cominciò a svilupparsi in una forma più precisa, più palpabile, ed io volli esprimerlo con un inno e cominciai:


È mesto il raggio della Luna e Dio

Lo temprò in armonia colla sventura.


Ma come fui a questo punto, una fata leggiera leggiera, coll'ali color dell'iride, mi trasvolò din­nanzi, mi fece un inchino, e mi diede la buona notte. - Era la Musa. - Io sul subito non me ne accorsi, e non seppi interpretare in buona parte quel suo consiglio. Quindi, per non dirvi le bugie, avrò ripe­tuto almeno un cento di volte quei due versi in ca­denza accademica, ma il terzo non venne mai. Alla fine ripensai più pacatamente alla figura veduta, e tra il dispetto e l'umiliazione mi coricai.

Io non conosco a prova il martello della gelosia, - ma, faccia pure l'estremo di sua possa, non può arrivare altra noia.

O Torquato Tasso! io non ti chiedo nulla che valga; - non ti chiedo quella corona di stelle, onde tu cingesti in Palestina la Musa italica; solo chiedo, reverentemente, che tu mi dica come facesti quando al magnanimo Alfonso piacque decretarti pazzo, e chiuderti per lunghi anni in un ospedale, come facesti in quei lunghi anni a pensare alle sette gior­nate del Alfonso Creato, mentre io in trentaquat­tro giorni, se qualche volta ho pensato al mondo, ho pensato dì disfarlo, non già per istizza, ma perché mi sembra mal fatto.

O Silvio Pellico! io non ti domando la tenera ispirazione, che sarà un palpitò del cuore finché l'Amore sarà una passione dell'uomo; ma ti domando soltanto d'insegnarmi donde traesti la tua decenne pazienza, a costo di fare un facsimile delle tue Prigioni che io non t'invidio punto né descritte, né in pratica.


N.B. - Questo capitolo naturalmente è fuori della giurisdizione della critica; egli non ha pretensioni; - è il capitolo della noia.





CAPITOLO VENTUNESIMO


- E del mondo che n'è stato? - Cosa volete ch'io ne sappia, io che son qua nel Limbo? Io ho lasciato il mondo con un segno a traverso; come si fa d'un libro, non finito di leggere. E chi sa se al­l'uscire troverò più il segno? Chi sa che cosa sia seguito del mondo? - potrebbe essere stato scosso da una sequenza di terremoti, - allagato da un nuovo diluvio, - potrebbe essere anche sparito, ed io non saperne nulla! Che cosa volete sapere, o sentire, quassù nel Limbo, dove si sta un piano almeno sopra le nuvole?

Chi sa che cosa possa esser seguito? Quando io lo lasciai, era una matassa arruffata davvero, - e tutti aguzzavano l'occhio a trovarne il bandolo; - e forse è il mio bene, che adesso io non ci sia dentro. Voi sapete come vanno le cose laggiù. Io non sono molto destro a girarmi, né posso allungare il passo un'oncia più dell'usato; - e quando il mondo è in baruffa, credete che una gamba lesta vale un diamante, e una testa leggiera si trasporta via più comodamente. Guardate Archimede, che vi­veva alla buona, pensando che gli uomini non fos­sero quello che sono, - che fidava nella sapienza, e non sapeva, quel vecchio dabbene, che due bestie son buone a mettere in prigione un filosofo, e a trattarlo anche peggio! Guardate Archimede, e specchiatevi in lui! Prendevano Siracusa d'assalto, ed ei non se ne accorgeva; - un soldato romano gli entrava nella camera, ed ei non se ne accorgeva; - il soldato romano d'una testa gliene faceva due, ed Archimede non ebbe tempo di accorgersene, perché invece di vivere nel mondo coi lombi precinti, e col bastone in mano, viveva alla buona nella Geometria. Oh! Il mondo è una mala cosa!


Tanto peggiora più quanto più invetera:


- diceva il Sannazzaro, or son trecento e più anni. Figuratevi oggi!

Chi sa che cosa è seguito del mondo? se vien sempre composto di cinque parti; se le.stagioni son sempre quelle che erano; - se i debiti son sempre debiti; - se i ganci son diventati diritti? - E chi mi dice se in fondo in fondo avesse ragione D. Mi­guel o D. Pedro? Se Ferdinando VII sia morto o vivo, e se in Ispagna sia prevalsa la legge salica o la successione della Infante? E come naviga Grey colla Riforma? E Wellington coi Tories e col suo Waterloo? E i radicali? E l'Irlanda? E Talleyrand è laico, o si è fatto vescovo? è sempre zoppo? si trova in grado di servire un nuovo padrone, se il caso glielo mandasse? Talleyrand vi parrà capric­cioso, incoerente; ma non è vero; - i suoi sistemi si rannodano tutti a un principio unico, incontrastabile; - girano tutti sopra un pernio solo, - la perpetuità della paga. - E che fa Lafayette, ottimo cittadino, se volete, ma infelice politico dagli anni venti agli ottanta? - E Luigi Filippo, quel bisticcio fe­licemente platonico di re e cittadino? - Che fa questo primo re dei Francesi e forse ultimo? E il naso di Argout è cresciuto, o scemato? e i forti di­staccati vanno avanti o sono rimasti alle fonda­menta? - manca la calce, mancan le pietre? parlino se ban bisogno; - in bocca chiusa non v'entran mosche. - E la repubblica è sempre nell'uovo? e quante uova si trovano vuote? domandatelo a una massaia. E la Berry non batte più la campagna? - vuoi come Annibale lasciarsi invilire dagli ozii di Capua? e il suo Dieudonné come cresce? E che fanno i Francesi tutti quanti; questo popolo di farfalle insanguinate? E i bollori dì Svizzera a che ter­mine sono? - e i Protocolli sul Belgio sono anche arrivati a duemila? E la Germania come procede? Non vi somiglia la pizzuga scolpita sulle porte del duomo di Pisa? Vi ricordate del motto latino che le sta sotto? A me è uscito di mente. - E il Con­gresso di Toeplitz aggiornato è trasportato non so dove, ha cominciato le sue sessioni? E Costantino­poli non è ancora la capitale della Russia calda? E il viceré d'Egitto quieta sinceramente coi suoi mammalucchi? E gli Stati Uniti d'America chi hanno surrogato al morto presidente Jackson Forever? e... e... non finirei mai più questa lunga inte­merata, se discretamente non mi frenassi. - Però da tutte queste domande vedete se io stava in giorno colla politica. - Ora che mi risponde? Eh! non si fa più vivo nessuno. - Io sono nei Limbo e non posso conversare nemmeno coi Patriarchi; poiché egli è un bei pezzo che se ne andarono in Paradiso. - E quassù non capita un giornale né anche a portarcelo. Io non pretenderei la Tribuna o il Nazionale, - olbò! costoro tuttavia son troppo roturiers, e non possono penetrare in certi luoghi de bonne facon: mi contenterei d'avere l'Ètoile o la Quotidienne, o se vuoi pure la Gazzetta di Firenze, gazzetta placida e innocente come un idillio di Gessner, e che Ferdinando III giudiziosamente chiamava la Gazzetta dei fattori. Ma a chi chie­derla? Io non parlo che col Profosso, ed egli è tale da dlinandarmi se la Gazzetta è un utensile buono per il giorno o per la notte, e se Firenze è uomo o donna; e schiarito che fosse, allora cava fuori i 12 articoli, e mi chiude la bocca. - Vedete voi quanti nodi ho fra le mani da sciogliere e non posso far nulla! - E son nodi gordiani, e forse a quest'ora la spada li scioglie.

Sia come vuolsi; però io non posso rimaner sospeso a questo punto; e quel lasciar la figura condotta a mezzo senza farle le gambe o torte, o diritte, è cosa che non mi fa dormire tutta la notte. In con­seguenza, poiché m'è conteso di vedere l'anda­mento proprio degli affari come va, li passerò tutti novamente in rivista e ad ogni punto farò una par­lata con l'intenzione che 'le cose sieno accomodate secondo i miei pensamenti.

E cominciando dal Portogallo dirò; Don Pedro e Don Miguel, meglio era per voi e per gli altri che non foste nati mai: che cosa avete fatto di buono nel tratto del viver vostro? Avete rinnovato le scene disoneste di Eteocle e Polinice; - avete riaperte a più riprese le piaghe Sempre fresche e non ancora ben rimarginate di un paese già troppo Sciagurato. - Invece di sottrarlo dai tanti mali, che l'igno­ranza, la guerra e la dominazione straniera gli avevano imposto, lo avete più che mai imbarbarito, in­sanguinato, inservilito. - Voi non siete l'uno meno peggio dell'altro; siete due veri fratelli; due lupi legittimi; né v'è divario, se non che l'uno è nato prima e l'altro è nato dopo, non v'è divario che nel pelame. Se il popolo infelice che voi lacerate colle vostre contese potesse afferrare un barlume istantaneo dì giudizio, metterebbe in un otre am­bedue, e poi darebbe l'otre all'Oceano per vedere dove i venti Sapessero portarvi.

E dirò a Ferdinando VII: o re, che se non coi piedi, colla testa almeno sei da gran tempo nella tomba, bada a quello che fai, bada al Sangue che per cagion tua è in procinto di Spargersi. Quando si abolisce una legge, conviene sostituirvene una migliore; altrimenti si commette un delitto in po­litica. Tu abolisci la legge salica; ma se non riempi quel vuoto con una cosa più savia, più solida, più giovevole all'universale, il meglio è che tu ti ri­manga. Se tu abolisci la legge per un meschino egoi­smo, per surrogare una donna soltanto a un'antica consuetudine, bada alle molte disgrazie che prepari alla Spagna, forse ormai troppo disastrata. Una donna merita un bacio, e non una guerra civile. - In questa terribile alternativa il meglio è che tu osservi un patto fondamentale giurato dai tuoi maggiori.

Dirò a lord Grey: voi, lord Grey, colla vostra ri­forma credete di aver fatto troppo, e a molti pare che abbiate fatto troppo poco. - Le riforme vanno fatte complete o non vanno mai tentate. Voi avete forse cominciata la rivoluzione, che credevate schi­vare, rivoluzione che riescirà sanguinosa, impla­cabile, giusto appunto perché le vostre riforme a mezzo non hanno contentato nessuno; - non hanno fatto che irritare i due partiti. - Se voi aveste fatto una riforma completa, e placato il parti­to più largo, avreste compressa definitivamente la mi­norità e assicurata la quiete dello Stato. Le rivo­luzioni stanno nella natura dell'umana società; ché se fosse altrimenti, noi saremmo sempre al secolo di Saturno a nutrirci d'acqua di ghiande; ma chi ha nelle mani il potere potrebbe prevenire qua­lunque rivoluzione di sangue, ove si applicasse in buona fede a osservare i bisogni e il moto indicato dalla maggiorità d'una nazione, e su questi dati re­golasse i pubblici provvedimenti. - Voi, lord Grey, credete d'essere l'aquila del liberalismo e siete qual­che cosa meno di Leopoldo I e di Giuseppe II, so­vrani assoluti. Questi, nati in un secolo ben diverso e circondati da ben altri popoli, precorrevano il voto e il bisogno comune, e davano spontanei tante e tali riforme che i contemporanei non osavano ne anche desiderare. E chi sa quanto sarebbero andati in avanti, se un precipizio d'eventi non veniva di mezzo a rompere i bei disegni.

E dirò a Wellington: e voi, signor Wellington cessate una volta di ristuccarci perpetuamente con quel vostro Waterloo. - Voi avete che fare in quella faccenda quanto l'ultimo dragone del vostri reggimenti. Non foste voi che vinceste colà; ma fu il braccio di tanti popoli suscitati colla lusinga di una generale indipendenza che fiaccò su quelle pia­nure il monarca europeo. Che che ne dicano i poeti laureati e i vostri commensali voi non avrete mai fama dì un gran guerriero. - Noi avevamo nell'ul­time guerre centinaia di sergenti italiani che, posti sul vostro teatro, avrebbero fatto meglio e più presto di voi. - La storia, se pur vi serba una linea, sarà per darvi una parola dì lode in occasione che vi faceste sostenitore di una giusta legge, quando concorreste caldamente all'emancipazione dei cat­tolici.

E dirò ai Francesi: popolo inquieto, popolo mer­curiale, tu scrivi e gridi d'esserti messo a capo dell'incivilimento moderno. Io non te lo nego e non te lo concedo; - è una questione che vuole troppo tempo e troppe testimonianze. Non pertanto, cono­scendo bastevolmente la tua storia domestica, non posso rattenermi dal consigliarti ad apprendere quel dettato di Cristo, perché cade veramente in acconcio alle tue condizioni: - medice, cura te ipsum. - Metti da una parte la propaganda, finché tu non abbia maggior diritto di assumerla, e sappi che le nazioni si muovono per necessità propria e non per ciancie altrui. Pensa invece più da vicino ai casi tuoi. Che ti sembra di quel tuo re cittadino che non è né cittadino né re? Certo tre giornate di sangue e diecimila cadaveri meritavano un miglior guiderdone. Ora che hai provato l'ipocrita, è egli più buono del Borbone della prima razza? Non ha egli violato i patti più volte e più vituperosamente che non fece quell'altro? Non rassomigli forse le rane della favola, che non contente di un travicello, a suon di schiamazzi ottennero alfine un serpente? L'altro almeno regnava in nome di Dio e della forza! Questi dice di regnare in nome del popolo che continuamente avvilisce, e un dì tradirà. Ma in nome di qual popolo? Il vero popolo non aveva anche avuto tempo di tergensi bene la fronte ab­brustolita dal fuoco della battaglia, che si trovò sul dorso, senza saperne il come, questo re che vuoi cavalcare e non sa cavalcare. L'altro per consentaneità di massime si teneva d'accordo coll'Europa: - questi senza fare un bene al di dentro, colle sue meno codarde e paralitiche al di fuori ti ha messo in odio di tutti, e quando la lega europea verrà contro di te, sarà il primo a fuggire, o stringerà le destro dei tuoi nemici, dividendo con essa le tue vestimenta. Non conoscevi l'ipocrita prima di co­ronarlo? Ebbene ora che tu l'hai conosciuto, ora che al di fuori ti ha reso ridicolo, e che al di dentro ha corrotto e violato tutto, che vuoi tu farne? Vuoi seguitare a tenerlo, perché seguitando egli a ingoiare furiosamente il tuo oro e il tuo argento, tu ti trovi ridotto a far le monete di cuoio? Egli non è re, né cittadino. Non ha la legittimità del lignaggio come Carlo X, né la legittimità del genio come Na­poleone. - Egli è un usurpatore. - Chi non sa governare è un usurpatore. - Fanne un canonico, perché la sua faccia lo destina a quello stato: o se no, rendilo alla fazione che l'ha creato; alla fazione che ha saputo dissimulare per 15 anni le sue turpitudini e da ultimo ha giuocato una partita di sangue umano per guadagnarsi una pensione o uno sgabello in Senato. - Poi prendi lui e la fa­zione e mettili ai confini: - e allora pensa naturalmente alle tue convenienze, e se puoi, fa' da te; se no, scegliti un capo col tuo voto intimo, inviolato, e da' sulla voce ai sofisti. - E, in questo caso, se ti piace, puoi richiamare il giovinetto che va ramin­gando in esilio senza una colpa. - Forse egli, edu­cato dall'infortunio, potrà battere uno scudo da cinque franchi di miglior lega d'un Luigi Filippo.

E dirò ai Belgi: popolo belga! fra male gatte è capitato il sorcio. - Tu sei veramente mal ridotto. - Tu fai compassione a vederti. - Se non l'hai, fatti prestare un Abbaco e somma, e vedrai che la protezione francese ti costa assai più della nimicizia olandese. Esci dallo stato provvisorio in che ti vai disfacendo. - Fa' che cessi quel visibilio di proto­colli compilati a tuo conto. Solamente le spese della carta bollata son così forti da far fallire una miniera. Rimanda a casa sua la signorina d'Orléans, e dacché hai fatto tanto, pagale magari la vettura. In quanto poi a quel tuo Leopoldo, a quel re di cartapesta, dagli un bel passaporto per Parigi, o per andare dove meglio gli piace: di poi Deus providebit. Da cosa nasce cosa, e il tempo la governa.

E dirò agli Svizzeri: popolo di pastori e di soldati, componete pacificamente le vostre discordie e fate ad ognuno la sua parte. - Non vi accecate nell'ira e non chiamate un arbitro nelle vostre contese. - L'arbitro potrebbe mangiarvi l'ostrica, donando il guscio a ciascuna delle parti: - questo è un fatto antico e moderno.

E alla Germania non dirò nulla, perché non so parlare in tedesco.

E dirò ai Russi: se voi prendete Costantinopoli, farete una cosa ottima. Surrogherete una civiltà nascente a una barbarie già putrida; - e piante­rete la croce ove già stava la luna. Cacciate la luna d'Europa! - La luna è una cosa matta. - Voi siete destinati dalla vostra posizione a padroneg­giare la Turchia europea; - forse a padroneggiare più in là. - Se i Turchi volevano mantenersi e re­sistere via via al fiotto degli eventi, dovevano fare come gli altri, - istruirsi progressivamente e mettersi al livello comune. - Invece hanno voluto ri­manersi a sedere; - hanno fissato l'ignoranza per precetto divino, ora ne raccolgono il frutto. - La conquista della Turchia europea è un fatto di natu­ra per voi, oltrediché è un disegno tracciato fino dai tempi di Pietro il Grande e successivamente sempre più colorito dagli altri czar. Il sultano, poi, cinque anni dopo una guerra dalla parte vostra che l'ebbe condotto quasi al finale esterminio, vi ha chiamato spontaneamente nella sua capitale, dandosi nelle vostre braccia con tutto lo stato. - Basta, la poetica del Divano è così gelosa di sé, che non s'è mai fatta vedere, ed io non ho mezzi di giudicarla. - Non pertanto vi dirò nuovamente: - o Russi, se voi non avete quest'anno preso Costantinopoli, lo prenderete quest'altro, ed io me ne congratulo con voi ora per allora.

E dirò all'America del Nord: salve in eterno, beata contrada; tu non hai bisogno di consigli; tu sei troppo superiore agli avvenimenti che pos­sono venir da noi: tu dai un esempio maraviglioso di sapienza e di virtù, che il vecchio mondo po­trebbe apprendere, se fosse men guasto e meno incredulo, - lo verrei volentieri sulla tua pacifica terra a riposare uno spirito travagliato, e un corpo stanco, se non amassi tanto questa povera Italia che mi die' i natali e una invincibile simpatia delle sue tante sciagure.

<< Riprendi il filo, ma o poco o assai, fa' che tutte queste considerazioni stieno attorno a un'ossatura di qualche cosa, sia una statua o un mostro. - Quando si ha un fine a conseguire, più di leggieri percorriamo la via. - Così decretato e sentenziato nelle carceri della nostra residenza alla Stella, oggi 10 ottobre 1833. - Francesco Domenico Guer­razzi >>.

Il consiglio dell'amico è sano, e si fonda sopra un precetto di arte che nessuno che abbia fior di. senno potrà mai impugnare; - ma l'uomo fa quello che può e non quello che deve, o vuole. Oltre a ciò dal 10 ottobre al dì d'oggi, che ne abbiamo 3 di no­vembre, io non ho più saputo scrivere una riga. In questo tratto di tempo il mio cuore e il mio spi­rito sono stati in tanto fermento, che io non saprei con qual mezzo significare. - Ora sono stanco, e di tanto travaglio mi è rimasto nell'anima il senso di una grave percossa e una romba prolungata e profonda. Perché non posso io narrare nella sua pienezza quello che ho sentito nei giorni trascorsi? Se l'industria degli uomini potesse trovare un'arte che lucidasse istantaneamente in tutta la loro efficacia i moti moltiplicati e veloci di una grande pas­sione, la scienza dei cuore sarebbe completa, e il velo di tanti misteri sarebbe squarciato. La parola è troppo scarsa e troppo semplice; appena basta per delineare gli svolgimenti pacati del pensiero umano. Perché l'uomo si rivelasse intero come esi­ste, bisognava assegnare la parola al calcolo; e alla passione dare un linguaggio complessivo, un linguaggio che con un segno solo esprimesse il suono, il gesto, il colore, in somma dirò così la ma­teria e lo spirito di una sensazione. - Invece al presente la più parte dei sentimenti fremono e muoiono isolati nel cuore dell'individuo senza che possano Sporgere in fuori alla vista di tutti, senza che possano in un attimo comunicarsi da uomo a uomo, come la favilla elettrica. - La parola è un bel dono; ma non rende la ricchezza del nostro in­terno; - è un riflesso smorto e tiepidissimo del sentimento, e sta alla sensazione come un sole di­pinto al sole della natura.



CAPITOLO VENTIDUESIMO


Io sono stato sempre tentato a credere che anima e corpo sieno una sola faccenda; che l'anima sia la risultanza sommaria delle nostre funzioni orga­niche; - e che scompigliato una volta l'ordine sim­metrico della nostra organizzazione vada tutto in fumo, numeri e somma. - Noi vediamo che l'uomo ha anima più o meno perfetta in proporzione che possiede un organismo più o meno perfetto. - Noi vediamo che quando il minimo accidente sconvolge il nostro tessuto fisico, l'anima seconda immediata­mente cotesta alterazione. Noi vediamo l'anima detirare nell'ebbrezza, nella febbre, nella pazzia; - os­serviamo sovente l'uomo prode nel fiore della forza e codardo nella vecchiaia; - osserviamo il talento che è l'effluvio il più puro dell'anima descrivere la sua curva a passo pari cogli anni. - Nei bambini noi vediamo un'anima in abbozzo, che si spiega gra­datamente collo sviluppo delle membra. - Noi ve­diamo che l'anima dell'uomo vinto dal sonno è un'anima diversa da quella dell'uomo che veglia. - Io sono stato assorto nel transito profondo di una morte imminente e non aveva più sentore di corpo né d'anima. - Io sono stato otto giorni di seguito immerso nel calore di una febbre maligna, e quegli otto giorni sono per me una lacuna, una parentesi in bianco nel tratto della mia esistenza, se pur l'esistenza vuolsi calcolare dal sentimento. E quantunque, stando a rigore di logica, in natura non esistano paragoni, perché due oggetti disparati non possono mai equivalere pienamente l'uno a l'altro, tuttavia io credo che l'ente complessivo di corpo e d'anima per via di approssimazione possa paragonarsi a un violino. - Il violino è il corpo, il suono è l'anima. - Spezzate il violino e non v'è più strumento né suono.

Ma dicono molti che l'anima attende appunto di liberarsi dai legami del corpo per riassumersi in­tera nella purezza della sua essenza e vivere in un altro mondo una vita immortale senza più essere sottoposta alle tante e diverse modificazioni della natura. Costoro però si dipartono da un'ipotesi e non hanno l'indizio di un fatto minimo sul quale basarla. Invece, chi crede nel sistema contrario si appoggia ad una serie di fatti apparentemente visibili e palpabili. - Se tu osservi com'è in realtà che con un colpo nella testa l'anima simultaneamen­te rimane percossa e per un tratto le sue facoltà ri­mangono sospese, ragion vuole che tu infierisca che quando la morte con un colpo finale distrugge le molle che tengono in giuoco la nostra macchina, l'anima pure rimanga simultaneamente distrutta. Quello che succede in parte, si può argomentare con una tal quale sicurezza che debba succedere nel tutto, - è una legge di proporzione. - D'altronde ripugna al calcolo dell'intendimento umano che l'anima, la quale in certo modo si ecclissa per un'emicrania, debba rimanersi intatta e più potente di prima, per esempio, al tocco dell'apoplessia, che spegne la vita colla rapidità del fulmine. - Oltre di che sapete voi in buona fede concepire l'anima fuori del corpo così nuda, nuda e priva di qua­lunque forma e sostanza? Per me questo è un ac­cozzo di parole che la lingua può mormorare, ma non è un'idea che la mente possa afferrare e defi­nire. - La mente nostra non ha potenza di conce­pire un numero, che non esprima nessuna quantità. L'uomo non può e non deve credere se non quello che entra nei limiti del suo intendimento, e deve rifiutare quello che sta al di fuori di questi limiti, perché non ha mezzi di verificarlo, perché se co­mincia a credere quello che non intende, non saprà più mai quando avrà dinnanzi l'errore e quando la verità..- Di là dall'orizzonte segnato all'intelligenza giace il mondo della fede, mondo di fantasmi e di tenebre, e chi procura sospingervi dentro l'umanità è un cervello malato, o è un impostore. E la fede non è il riposo dello spirito umano, ma è un'inerzia funesta che ne ferma il movimento e lo fa impu­tridire. - La fede è la verga magica del furbo colla quale si fa largo nel mondo, ed impone agli uomini di credere a sangue freddo sì fatte stranezze che un pazzo al punto culminante della sua frenesia mal saprebbe immaginare. - Socrate che più che filo­sofo era un ottimo cittadino e ricercava il vero fin dove poteva trovarlo, consigliava agli Ateniesi che non disputassero mai né di Dio, né dell'anima .

Oltre di ciò non osserviamo noi che, per legge generale costante, tutto quello che ha principio, ha pur fine? E l'anima che senza dubbio ebbe un prin­cipio, se continuasse immortale non sarebbe una manifesta contradizione alla legge osservata? Ma e non sarebbe possibile che riguardo all'anima fosse accaduto quello che è accaduto di tante altre nozioni semplicissime e naturali, le quali coll'andare del tempo avendo deviato dalla loro prima origine, si sono tramutate sensibilmente nella forma e nella sostanza e complicate dl errore e di elementi etero­genei affatto alla loro essenza? Per esempio, la voce latina - inferno - nella prima accezione, che era la più semplice e la più vera, significava - di sotto, - cioè morto, dacché i morti stanno di sotto. In seguito la furfanteria degli impostori reli­giosi agglomerò tante novelle e tante finzioni in­torno a quest'unica voce, che i tratti originali di­sparvero, e la voce si convertì in un sistema lugubre, informe, studiato per atterrire la niente e la co­scienza degli ignoranti. Io penso che lo studio delle lingue antiche serva mirabilmente a rintracciare l'origine di molte delle nostre nozioni. - Le lingue antiche esprimevano la sembianza delle cose con' una evidenza e con una verità di gran lunga superiore alle moderne, perché gli uomini di una so­cietà poco avanzata, non avendo mezzi di divagare nella metafisica che vuoi dire scienza oltre la na­tura, necessariamente si tenevano inviscerati nella natura fisica e sensibile che li circondava. Quindi ve­niva loro una lingua tutta di rilievo, - quindi i monumenti delle lingue antiche di rado o mai espon­gono pensieri ragionati in astratto, ma ogni loro parola dipinge sempre una cosa sentita profonda­mente perché le sensazioni degli uomini di una società primitiva sono più rigorose e congiunte per un anello immediato agli oggetti che le produ­cono. - A conferma di tutto questo potete leggere la Bibbia, Ossian, le poesie degli scandinavi e i documenti che si riferiscono ai selvaggi di America e a tutti i popoli di prima natura. La lingua latina non è di certo una lingua moderna, perché oltre alla sua antichità non indifferente, la maggior parte dei suoi vocaboli ebbero radice nella lingua vetu­stissima dei popoli italiani, che preesistevano tanto tempo avanti al dominio romano, - popoli che sono dei primi a figurare nel mondo storico. Ora tornando sull'anima osservo che in latino la voce - spiritus - che vuoi dire anima, nel suo proprio significato vuoi dire soffio. - E Plauto in una delle sue commedie usa un'espressione vera­mente singolare; volendo far dire ad uno dei suoi personaggi - ti puzza il fiato, - gli fa dire:- - ti puzza l'anima; espressione senz'altro poco conve­niente, ma caratteristica per i suoi tempi, signifi­cando che in allora comunemente intendevano per anima il fiato o il respiro. - E la Genesi anch'essa narra che Dio soffiò per le narici l'anima in Adamo, e difatti il naso è l'ordigno il più usitato e il più opportuno per respirare. - La cosa dev'essere an­data così: quegli uomini primitivi osservando che il corpo quand'era morto più non respirava, na­turalmente stabilirono che il fiato fosse l'anima. Questa opinione però non intendo che possa recarsi in buona fede come prova incontrastabile, dac­ché gli antichi in fatto di scienza hanno dovuto er­rare spesso e necessariamente, perché la scienza è l'esperienza, e l'esperienza è un manto che si trama a fila di secoli; e più il manto si distende e più la scienza è completa e sicura. Nondimeno io ho osservato che anche il volgo d'oggi crede come gli uomini dei tempi remoti, e quantunque in forza d'un dogma religioso dica di avere un'anima desti­nata a una vita futura, interrogato poi come com­prende quest'anima, non sa dove rifarsi a rispon­dere, e finisce col dire che l'anima è il fiato. - Del resto la scienza che confuta gli argomenti pei quali si asserisce l'anima peritura, non ha finora saputo gettare i fondamenti inconcussi della sua immor­talità, ed è veramente curioso che un numero d'uo­mini tanto ignoranti, quanto sapienti, i quali con­vengono nell'ammettere l'esistenza di un fenomeno, non riescano poi a circoscriverlo in una formula unica e precisa. Ma soggiungono i sostenitori del­l'anima immortale: la causa che noi difendiamo non va lasciata cadere così per poco, poiché ella è connessa ad una questione di più alta importanza; - ella è connessa all'esistenza dell'ordine morale. - Se si toglie di mezzo l'immortalità dell'anima, quest'ordine più non esiste, e tutto rimane in do­minio al cieco movimento della materia, tutto ri­mane preda del caso. E allora quale avranno riparo le tante ingiustizie che succedono in questo basso mondo, quale avrà premio la virtù perseguitata, e quale avrà pena il delitto trionfante, se dopo morte non concedete una vita futura in un mondo mi­gliore? Però io non vedo la ragione sufficiente che affinché sussista una cosa, s'abbia ad ammettere l'esistenza di una cosa precedente, la quale ha delle apparenze validissime di non esistere. - Confesso che l'argomento allegato non è dispregevole; per altro ha sembianza d'essere ricavato piuttosto dalle cose considerate come dovrebbero essere che dalle cose considerate come sono; - confesso che se non è un argomento giusto in fatto, egli è almeno giusto in diritto. Ma sapete voi positivamente se Dio esista, o se esista nel concetto che avete imma­ginato? Conoscete voi la sua natura intima, e se ella sia buona o cattiva o indolente? Conoscete voi la legge primaria e generale ond'egli governa que­st'opera incomprensibile da noi chiamata universo? Forse egli combinando il disegno di una immensa armonia vi ha intrecciato il dolore e la gioia come due elementi efficaci ad un vastissimo effetto, senza darsi briga di certi particolari che percuotono gra­vemente la nostra povera natura, e per lui sono im­percettibili. Chi ha fabbricato l'orologio non si tor­menta a pensare se le ruote si travaglian penosamente, e se la lancetta percorra a bell'agio il suo giro; - purché l'orologio nel suo tutto compia la sua destinazione, l'artefice è lieto del suo meccani­smo. - Forse Dio considera chi gode e chi geme come due suonatori di due diversi strumenti, e pur­ché vada l'orchestra, non cerca più in là. - Certo a dipartirsi dai dati che abbiamo sott'occhio pochi davvero avranno cagione di benedirlo: - ma sap­piamo noi se egli si curi d'essere benedetto o ma­ledetto? E se egli ha fatto male questo mondo, come voi stessi ne convenite, quali guarentigie avete che abbia fatto meglio quell'altro? Non po­trebbe darsi che l'avesse fatto anche peggio? Voi dite che i suoi fini sono imperscrutabili, e tanto basta per non affermare sul conto suo nulla di positivo sia nel presente che nell'avvenire. E nel vero egli non ha mai parlato; non ha mai rivelato né il suo modo d'esistere, né il suo modo di giudicare gli accidenti che risultano dall'immensa complicazione del suo lavoro. - E chi è fra noi che osi di farsi suo interprete? La cosa finita e caduca non può essere l'organo della cosa Infinita ed eterna. D'altra parte voi me lo distinguete per un ente giusto e be­nefico; - ed allora io non vedo ragionevolezza e coerenza in un ente sì fatto a tribolare l'uomo vir­tuoso in un mondo per ricompensarlo in un altro. Un fare come questo mi sa piuttosto di capriccio. - Io scorgerei più visibili le orme della sua giu­stizia, se facesse star bene il virtuoso in questo mondo e lo facesse star meglio In un altro. Almeno così è costretta a conchiudere la logica, quando il puntiglio d'un sistema non la spinge a fuorviare.

E chi dice a voi che riposate tanto sulla giustizia di un mondo avvenire, che le azioni da noi distinte col nome di bene e di male non sieno al cospetto di Dio due fatti diversi, ma indifferenti, come due colori, come agli occhi vostri il verde e l'azzurro? E poi la bontà e la malvagità dell'animo, principi sui quali ci appoggiamo tanto, io temo che, tranne rarissime eccezioni, invece d'essere qualità positive ed inerenti continuamente al medesimo individuo, sieno piuttosto un affare di situazione, e qualità nobilissime e dipendenti affatto dalle occasioni nelle quali ci troviamo avviluppati. - Oggi io sono in prigione e senza colpa, ma se un giorno sarò po­tente, chi sa quanti e senza colpa farò gemere nel carcere stesso nel quale gemo stasera? La storia dell'umanità osservata severamente nel suo vasto insieme e nelle sue singole parti, vi presunta un saliscendi di offese e di vendette; vi offre lo spei­tacolo di due partiti che or l'uno or l'altro si ten­gono un piede di ferro sul collo, e fin ora ha se­gnato mai nei suoi annali l'epoca della equità e della pace? La storia è una Sibilla, che consultata coscienziosamente ha dato fin ora questo responso: - Se voi non foste oppressi sareste oppressori. - I cristiani perseguitati, nei primi secoli predicavano pacificamente la dottrina dell'agnello di Dio; - poi, quando il Vento fresco della fortuna li levò in alto mare, conversero la croce in una spada a due tagli, gli altari in roghi e l'ostia incruenta in vittime umane. La strage dei septembriseurs, fatta a nome di un popolo e della filosofia, non fu meno atroce ed iniqua della S.te Barthélemy, fatta a nome di un re e del fanatismo. - La giustizia di un mondo avvenire sarebbe forse compatibile col dogma del libero arbitrio; ma potreste voi giurare che le azioni nostre dipendono effettualmente dal libero arbitrio? E che vale questo libero arbitrio, se le passioni e gli avvenimenti, come spesso accade, si scatenano più forti di lui? In un caso somigliante egli è peggio che inutile, dacché sottopone la Volontà umana a sostenere la fatica di una battaglia che deve perdere. E a che vale questo libero ar­bitrio, se tutti conveniamo che il giudizio umano è spesso infermo e agguatato continuamente dall'er­rore? Se voi foste Dio, qual gastigo assegnereste a colui che guidato da un'idea torta ha cancellato in buona fede dal libro della vita l'esistenza di cento­mila uomini?

Ma invece molti asseriscono dopo lunghe ricerche esercitate nell'indole delle azioni nostre che una fatalità onnipotente regge i freni del genere umano allora a che la giustizia di un mondo avvenire? Io per me credo che la razza umana sarà meno calpestata e infelice quando, invece di fantasticare sull'avvenire e giacere e farsi un guanciale della Provvidenza si terrà con più saviezza al presente, e tentando mille esperimenti, si studierà di trovare una forma di stato sociale in cui ad ogni individuo sia permesso senza danno del prossimo di muo­versi liberamente e con piena sicurezza nella sfera descritta dalla sua natura. Conviene stabilire in società una media proporzionale, una condizio­ne di cose, in virtù della quale le leggi, le opinioni, i costumi suppliscano a quello che manca al debole e contengano l'esuberanza del forte quand'ei la volge a detrimento de' suoi simili: - se no, il miglior partito è di spegnere i lumi e prendere la gra­gnuola o il sul di primavera quando lor piace di venire.

Che se voi mi dite: l'uomo è composto. di cuore e d'intelletto, e il cuore vive una vita a parte, ed ha bisogno di una speranza, di una illusione, di un. alimento, se no si corruga, s'inaridisce e muore prima del tempo, io vi risponderò che dite saviamente. - Ed io ancora spero e m'illudo, m'inebrio spesso di un sogno d'oro per tenere a bada la vita. Ed è per questo che sovente concorro nella opinione di co­loro che stimano la pazzia godere alcuni vantaggi sulla ragione. - La ragione di tatti può trascorrere certi gradi di certezza, - certi altri di probabilità; - ma se quindi passa le soglie, mette il piede in un mondo incognito, in un mondo di vertigini che la girano come un trastullo, allora la ragione o di­venta pazzia o torna indietro stanca e schernita. La pazzia, al contrario, dal bel principio si lancia per l'infinito, naviga a piene vele e fornisce il suo lungo viaggio con un senso profondo di sicurezza, con un'idea continuata di verità. Un pazzo può imma­ginare a vita di essere un'aquila, di volare verso il sole, e di farsene sua dimora; un uomo sano può immaginarlo per venti minuti; poi dà col piede in una fossa e cade, e si accorge a prova di essere incatenato alla terra sua genitrice; alla terra che fra breve dovrà divorano. Ed io ancora, lo ripeto, spero e m'illudo e sento il bisogno di stendere una coltre sulla realtà, perché essa è troppo dura e mi lascia le ossa indebolite. - E per questo lato, la re­ligione, quand'ella si cosa è buona. - volge a consolare, a qualche cosa è buona.

Parlando di religione che consola intendo la reli­gione naturale, sentimento puro, semplice e neces­sario che emerge dal cuore. Le religioni rivelate, tenendo conto almeno di quelle esistite ed esistenti finora, più o meno abbrutiscono l'intelletto, e se metti in bilancia il terrore e il conforto che danno all'anima, il terrore supera troppo, e se calcoli il bene e il male che hanno prodotto, il male si eleva ad una cifra troppo enorme. Le religioni rivelate sono il medesimo sentimento che costituisce la reli­gione naturale, ma trasfigurato oscenamente ed involto in mille accessori che non gli appartengono. - Qualsivoglia religione non è mai l'opera imma­ginata di pianta da un ardito imperatore; - l'indi­viduo ridotto ai soli suoi mezzi non può conseguire mai tanto effetto, ma via via la forza delle cose di­strugge una credenza paralitica per troppa vec­chiaia, e allora sorge un uomo potente, che osser­vando il sentimento religioso ingenito e perenne nel cuore umano, l'afferra, gli dà rilievo e lo cir­conda di quelle immagini e di quelle finzioni contemperate al grado d'ignoranza dell'epoca in cui vive; quindi la religione rivelata è sempre un'im­postura ne' suoi accessori, ma il suo primo germe è vero e permanente nel sentimento universale. - La religione naturale è un sentimento che sgorga dalla speciale organizzazione del cuore e dalle tante calamità che affliggono la vita dell'uomo; - è un sentimento presso che comune; nondimeno alcuni ne vanno esenti. Vi sono alcuni in forza d'orga­nismo privi del senso religioso, come vi sono alcuni privi del senso musicale, e a costoro quand'anche tu potessi dimostrare Dio, e l'avvenire colla preci­sione dell'algebra, hanno un cuore che non rende l'eco il più debole a questi suoni. Però la più parte degli uomini che ragionando non troverebbe altro che il nulla, o il dubbio, serba Dio e la speranza nell'anima. Tuttavia la religione naturale, o rivelata, non è un raziocinio. - L'analisi invece di corro­borarla tende direttamente a distruggerla. Ed è per questo che i capisètta esigono specialmente sui punti fondamentali un grado di fede. L'analisi negli ultimi tempi la tolse affatto di mezzo ad una grande nazione, e le conseguenze concatenate d'un impo­nente raziocinio giunsero a surrogare al culto di Dio il culto della ragione. Ma il culto della ragione era fuori di dubbio prematuro, era troppo solo e troppo arido, né bastava a colmare il vuoto lasciato. La religione sbandita dai domini della mente viveva pur sempre nel cuore, e forse più forte, perché meglio riconcentrata; quindi prorompeva da ogni parte; quindi mi piace Robespierre che, considerate le condizioni attuali del popolo, ridonava a Dio l'esistenza, in ciò dimostrandosi egregio politico e sagace conoscitore dell'umana natura. Il cuore e la sventura produssero la religione naturale, la re­ligione della speranza e dell'avvenire e la manter­ranno finché vi saranno deboli ed infelici. É indi­spensabile che 1' uomo conculcato e vissuto nel pianto speri nel futuro un vindice ed una ricom­pensa dei suoi dolori. E perché i deboli e gl'infelici formano il maggior numero, quindi è che moltis­simi sono i credenti e rarissimi gli atei. - Ma il sentimento solo è un pegno sufficiente della verità? Per risolvere adeguatamente il problema bisognerebbe determinare se i calcoli del cuore sieno più securi di quelli dell'intelletto.

Tutte queste cose però da me tracciate così fiac­camente e ristrette in uno spazio sì angusto sono state svolte da una moltitudine di nobili ingegni in tanta larghezza di sviluppo, e la 'noie dei volumi è cresciuta a tal grado che se la verità potesse ar­rampicarsi in cima, e sedervisi, avrebbe il trono più alto fra tutti i re della terra; se non che taluno teme che gema invece sepolta sotto tanta mole. - Così è - le son cose tutte controverse ab aeterno e per avventura non saranno mai consentite in una opinione uniforme. Tuttavia, concedendo ancora che dopo morte il corpo e l'anima si dividano, e il primo rimanga a far polvere, e l'altra se ne voli dove Dio, o il Diavolo la soffieranno, io giurerei che prima del corpo l'anima non è nulla affatto. Poiché se ella fosse una qualche cosa, io credo che. non consentirebbe mai a venire in questo mondo a quei patti coi quali ci si vive.

Se prima di nascere in Livorno il 1° dicembre 1806, e farmi battezzare in Duomo col nome di Carlo Anzano Ranieri, io fossi stato un'anima dav­vero, o avessi saputo il conto mio, non avrei mai dato il voto per entrare in un corpo come quello in cui mi trovo - ove mi sembra di star peggio che in una trappola.- Primieramente io non sarei en­trato in nessun corpo, all'incontro avrei voluto go­dere la libertà dello spazio percorrendo incessan­temente le strade dell'aria senza bisogno di passa­porti - di bauli - di andare alla locanda senza tema dei ladri - senza tema che il fango mi lor­dasse i calzari, cose tutte che di rado, o mai, si schivano in questo mondo. E perché avrei dovuto chiudermi in un corpo a menai - e una vita breve, trista, oscura, soffocata? a sentirmi stringere o pestare in una calca, a patire il caldo e il gelo? il dolor dei denti, le coliche, e mille altri malori che la Provvidenza costituiva al corpo in dote inaliena­bile? - E perché io anima, io spirito indefinito, io soffio eterno, io intelligenza libera, trasparente, veloce, io scintilla d'una fiamma immortale, avrei dovuto chiudermi in una cassa così mal fatta? E perché in cinque poveri sentimenti, e talvolta an­che in tre, poiché la creatura può nascere sorda e cieca nel medesimo tempo? a che fine avrei dovuto commettere contro di me tanto strazio? A che quid? dice un tale a Livorno, terribile latinista, e terribile cancelliere in un tempo. Se io anima avessi fatto di motu proprio un consimile errore, in verità dispererei trovare avvocato capace a difendermi, fosse pure l'avvocato del Diavolo che difende le cause più triste, perfino il peccato mortale.

Io dunque non sarei entrato giammai in un corpo di qualunque specie si fosse, e se la mala ventura così avesse voluto, e se una imperdona­bile curiosità mi avesse sospinto a cogliere il pomo amarissimo dall'albero della vita, avrei scelto bene altramente. Avanti di tutto invece di scendere in una casetta in via delle Galere (sinistro presagio se reggesse sempre la religione degli auguri), com­posta non so se di due stanze o di tre, sarei piut­tosto calato in un antico e magnifico palazzo. - E questo è un desiderio poco filosofico, poco giusto ancora - ed io sono amico dell'eguaglianza più che noi dimostro, e benché sia un povero, a petto dei milioni di poveri che mi ondeggiano intorno, non son tanto povero - e se si potesse sincera­mente conseguire, e compatire una discreta eguagliava nell'universale, consentirei di tutto cuore a scendere un gradino più giù; - almeno così la penso in questo momento. Ma dacché uno stretto individuale egoismo ha rubato la mano, e signo­reggia assoluto, mi risento anch'io di cotesti influssi, e dacché nei proponimenti del bene ho sentito dir sempre: - cominciate voi frattanto, io non sono ancor lesto; - anch'io mi ritrovo trasci­nato dal cattivo esempio, anch'io son tentato dì go­dere senza voltarmi indietro a vedere chi soffre; e se io scorgo un povero che trema di freddo, la più grande spesa di sensibilità che io faccia è quella di dire: poveretto, io compatisco; vorrei che tutti stessero bene, senza riflettere che dal lusso inutile dei vestimenti, non dirò miei, ma di tale e tal'altra persona, n'uscirebbe il vestito bastevole a coprire la nudità di due o tre poveri che nascendo ignudi come noi, sortivano il diritto di vestirsi come noi. Ma tale è il cuore umano: e poiché lo stato sociale di oggidì presenta fra il dare e l'avere uno sbilancio, che mette paura, poiché la società non è un ordine, un equilibrio, una giustizia, ma un vortice, un para­piglia, un conflitto, - è una palla giuocata da pochi giuocatori, natura vuole che ognuno aspiri ad es­sere il giuocatore piuttosto che la palla; e quando non v'è forza di associazione, assenso di voti uni­forme, anche l'uomo benefico è costretto a farsi crudele dal sistema sociale che lo avviluppa; o se si muove solo a rimediare un male immenso, comune, commette una stoltezza, buona se vuoi, ma pure una stoltezza; versa una stilla d'acqua sopra un in­cendio vastissimo e all'ultimo consumandosi nell'im­potenza aggiunge una unità al numero innumera­bile degl'infelici che voleva sollevare.

Io non predico il pessimismo, perché non l'ho nel cuore, e penso che non sia in natura. Bisogna sempre distinguere fra natura e società; la natura umana è la tela bianca di un quadro; su quella tela potete dipingere le figure angeliche di Raffaello, o i mostruosi grotteschi del Callotta. La società è un edificio innalzato dagli uomini. Io dico che adesso viviamo in epoca siffatta in cui la bontà o viene aggirata dal vortice, o rimane inerte. Nondimeno l'edifizio sociale è atto a sentire importanti restauri, è atto ancora ad esser crollato dai fon­damenti, e forse non è lontano il tempo nel quale la società di qualche parte del globo sarà confusa in un caos universale d'onde risorgerà un mondo or­dinato a più bella armonia. La società presente è falsa, ingiusta, putrida in ogni sua fibra; o deve perire, o deve rinascere sotto spoglie migliori. La luce non è più ferma sulle cime del monte come una volta, è penetrata nelle forre più chiuse e ha rivelato le molle più interne di questa macchina. La cieca fede è sbandita e con lei l'ignoranza; le sorgenti son passate purifican­dosi traverso il dubbio; e il dubbio, che da una parte è la tortura dell'intelletto, dall'altra è il padre della scienza e del diritto. La scienza è lo spirito vivificante delle moderne opinioni, e sembra che voglia assidersi regina dell'avvenire; la scienza di per sé sola non è un compenso sufficiente al disagio dei sistemi attuali; e se si rimanesse in astratto senza un'applicazione, senza produrre un frutto, sarebbe anzi una cosa' funesta. Allargando la co­scienza del male ne avrebbe allargata la sensibilità: ma la scienza scuopre i mali, e i rimedi, e addita le fonti d'onde attingere la forza necessaria a conseguire l'intento voluto. Oggi molto è stato discusso, - molto è stato conchiuso; - quello che un secolo innanzi era un'ipotesi, oggi è un assioma. La scienza dei diritti e dei doveri scambievoli è retag­gio comune; per altro i mali durano tuttavia e vanno ogni di più peggiorando. Ora con tanta ugua­glianza di. educazione morale, e in uno stato così vio­lento d'ineguaglianza materiale, come volete che le cose durino in pace e lungamente? In società vi è troppo ristagno di potere e di ricchezze; un tratto immenso di terreno è rimasto in secco; - oggi ha cominciato a screpolare; domani ognuna di quelle lievi fessure sarà una voragine. Bisogna che tutto sia fluido, che tutto circoli; la circolazione è la vita dell'uomo e dell'universo. - Il combattimento se­guirà non so quando, ma seguirà inevitabile e finale, - il combattimento dei diseredati contro gli usurpatori. Ognuno ormai vuoi partecipare, più o meno, al patrimonio che la natura largiva a tutti, e che pochi carpivano unicamente per sé. Così vuole la scienza, scienza prodotta dall'oppressione, dalla ne­cessità delle cose, e dal tempo, non dai sistemi di tale o tale altra scuola. - L'azione esercitata più là de' suoi limiti produce sempre la reazione. Le masse non sviluppano questa scienza con tanta sottigliezza di analisi, ma la sentono, ma l'hanno nel sangue, e l'enunciano col fremito, coll'impa­zienza, con un linguaggio profondo di passione. - L'uomo d'ingegno si vede d'intorno una siepe dì fatti imponenti, - ne indaga lo spirito e quindi fa una storia di cause e di effetti che nessuno può impugnare, ove non abbia voglia o interesse di travedere. I potenti poi s'adirano coll'uomo d'in­gegno, come se egli fosse la causa efficiente di quello stato di cose; e lo perseguitano, e lo impri­gionano, l'esiliano, spesso l'impiccano; e non sanno che l'individuo, grande o piccolo che sia, è il pro­dotto del secolo in cui nasce, non mai il produttore. - I potenti somigliano quei preti che volevano bru­ciar vivo Galileo, perché in virtù del suo genio aveva scoperto nel firmamento certe leggi eterne innegabili, che stavano in contrasto con certi passi della Bibbia, Quei preti non dovevano inirnicarsi con Galileo. - Galileo era innocente - leggeva la facciata del cielo come Dio l'aveva scritta. - Quei preti dovevano invece riconoscere la verità, o distruggere il firmamento perché la Bibbia avesse ragione. I potenti non possono ragionevolmente perseguitare l'uomo d'ingegno che osserva il suo secolo, e ne pone i dati e le conseguenze; - distrug­gano lo spirito del secolo, se hanno forza che valga, o pieghino spontaneamente all'imperio della neces­sità, o attendano la lotta, et rira bien qui rira le dernier.

Quando arrivano i tempi grossi in una nazione, i potenti, non so per quale fatalità, smarriscono immantinente il lume dell'intelletto, e spesso agitati dalle furie, vedono da per tutto una congiura, e danno mano agli arresti, agli esigli, ai supplizi tal­volta. - Il senno e le leggi tacciono; - regna il sospetto. - Io sono d'avviso che: abbiano torto e la faccenda potrebbe governarsi altramente colla cer­tezza di miglior successo. Ogni secolo ha un carat­tere inciso e distinto, che si rivela all'occhio di chi osserva gli eventi senza caligine di false passioni. - Ogni secolo chiude nelle sue viscere una parola d'ordine che invocata fedelmente risponde chiara e sonante. Da questi punti di partenza deve muovere la ragione di stato, scienza che non ha per fondamento una serie di fini aforismi, una serie di osservazioni già fatte, ma che ha per anima un'indagine continua, e progressiva dell'opinione sempre rinascente e volubile. La politica non è un'arte definita come l'arte del disegno, che proce­de da un subietto determinato: è un'arte mobilis­sima, perché procede da una materia mobilissima. La politica è il governo dell'opinione; può ret­tificare per il meglio il suo subietto, non alterano sensibilmente o distruggerlo. quando arrivano i tempi grossi non esistono congiure, o se alcuna ne esiste, è un pleonasmo, - è una bolla che produce l'intensità della febbre; - non è a quel segno effi­mero, isolato, che deve rivolgersi l'attenzione del governanti. - Quando avranno fatta svanire dalla cute la bolla, rimane pur sempre la febbre, che ogni dì più ingagliardisce. Che se poi i tempi son quieti e non accennano a novità, una congiura non dà timore, non significa nulla, anzi significa che l'opinione nel suo maximum è sempre intatta, e coloro che congiurano danno pegno d'impotenza assoluta; perché temendo da una parte la com­pressione del potere, e dall'altra l'inerzia e la resistenza dell'opinione pubblica, sono costretti a ce­larsi come il ladro fra le tenebre, ridotti in pochi, penetrati efficacemente di un dato principio. - Ora di che temere dl un pugno di individui, che in forza della loro posizione son condannati a non far nulla, che non hanno mezzi di propagare la loro idea, che non osano manifestarsi? Costoro con fa­tiche inaudite e un lungo tratto di tempo potranno raggranellare cento, duecento, se volete mille indi­vidui sparsi sopra una vasta superficie, e gran mercé se nel numero non trovano chi per imprudenza o per debolezza o per altro motivo in un attimo non mandi in fumo il lavoro di lunghi anni. - Ma ponete pure che il fatto rimanga nella sua integrità: e che può fare così celato, così ristretto, così incognito alla maggioranza del popolo? Non vi rende l'immagine di colui che con un trapano volesse perforare il San Bernardo? Se voi scoprite una congiura siffatta io non vi consiglierò di pre­miarla, perché sarebbe una pazza pretensione, ma il meglio che possiate fare è di renderla ridicola e di fiaccarla per sempre con una opportuna mode­razione. - Non date corpo alle ombre, non date valore effettivo a tal moneta, che lasciata per terra così com'è, pochi o punti troverete che la raccol­gano. Un supplizio o una pena esorbitante concilia non so quale interesse a favor del paziente, e lascia delle traccie indelebili nel cervello del popolo, traccie che lo conducono a investigare, a meditare, a sentire quello che fuori di questa circostanza non avrebbe mai meditato né sentito. Il terrore dà un certo effetto, un certo rilievo alle cose più Insi­gnificanti, quando queste hanno per fine o per pre­testo un'intenzione grande e lodevole; - e con questi mezzi una baia assume a poco a poco forme venerate di religione. La ragione di stato nella dominazione dispotica è un'arte troppo difficile, per­ché quasi sempre muove contro natura e segue l'in­dole di tutte le arti. - Bisogna contenerla in certi limiti, e se li trapassa, l'arte si dissolve e perisce. - Il despota bisogna che insegni a dormire; guai a lui se insegna a morire, è una lezione che ben tosto gli tornerà contro. Bisogna persuadere al po­polo che voi siete eternamente sicuri, che nulla vi può smuovere dalla base ove siete collocati; - guai se mostrate loro che avete tremato, se mostrate loro che v'è un'altra forza indipendente dalla vostra, la quale può sbalzarvi di seggio e mettervi in fran­tumi. - Che se poi gli elementi sociali di una data epoca vanno in dissoluzione, credetelo, allora non v'è chi congiuri, e se trovate una mano di cospira­tori, guardateli bene in taccia e vi accorgerete subito di quello che si tratta; se volete impiccarli siete padroni; la corda sta per voi; - ma tenete per fermo che è corda male spesa; - rimandateli a casa. - I vostri annali segneranno una volta un atto di senso comune. - In una aperta dissoluzione di elementi sociali nessuno cospira, - e tutti cospi­rano; - è una forza indipendente dall'individuo, che agisce in quel tempo; - l'uomo si sente me­nar via e non sa il come, e invano si sforzerebbe di dar col petto nella corrente. - È la coscienza umana che si desta da un lungo secolo di oblio e chiede i suoi diritti e li ottiene; - è l'elettricismo di una volontà unica, che invade tutta una nazione; è il tempo in cui l'uomo legge con uno sguardo nell'occhio dell'altr'uomo, che non ha mai visto, un pensiero simile al suo, - un consenso, - una promessa che sarà mantenuta. - E allora, o po­tenti, se versate del sangue, voi non toccate dalle mille miglia lo scopo voluto: - le moltitudini non vedono più un reo nel giustiziato; - esse dicono: noi tutti siamo rei come lui; quel sangue non fa che seminare la vendetta. - Poste le cose in questo modo, davvero io non so qual consiglio proporvi, perché siete materia intrattabile. - Io non oso confortarvi a rientrare pacificamente nel seno dell'umana famiglia, perché sdegnate di essere uomini, perché quantunque la forza delle cose vi chiami a morte inevitabile, volete morire dibattendovi in un odio feroce e impotente, perché volete che il trionfo dei comuni diritti costi lacrime e sangue, perché volete fino agli estremi obbedire al cattivo Dio che vi istituiva flagello degli uomini. - Io non oso dirvi: o potenti, voi siete troppo padroni della scelta; - avete sempre in mano i dadi della guerra e della pace; - tutto sta nel trarre. - Se volete, potete scendere i primi nell'ordine nuovo, - potete risparmiare una serie di grandi Sciagure; ma bi­sogna scendervi dì buona fede, e mantenere rigida­mente i patti giurati. - Non dubitate, gli uomini son meno cattivi di quello che si pensa e che si scrive: se non fosse così, come avrebbero tanta pa­zienza? Ma bisogna osservare i patti giurati: - è l'unico modo di affermare la pace, perché quando l'universale è tollerabilmente soddisfatto i partiti o non si muovono, o hanno poco spazio da muo­versi e poca durata. - Ma se io vi facessi questo bel discorso mi dareste retta? o piuttosto non mi fareste stare in prigione un anno più del tempo che intendete di farmici stare? Altre volte le nazioni parlarono così e i potenti accettarono, ma con re­strizione gesuitica, col pensiero e coll'opera sempre diretti a tornare indietro, e allora le dighe si rup­pero: la guerra subentrò alla pace, la forza al diritto; la vendetta scrisse le leggi e fu un dramma rapido e turbinoso di vittorie e di sconfitte; un dramma di sangue e di tenebre dove il boia sorse protago­nista terribile, il medesimo boia che tagliò per tutti; che tagliò la testa di Luigi, di Bailly, di Robespierre. E un ordine nuovo di cose dove ci menerà? Avanti di certo. - Contemplata la storia nei suoi risultati complessivi, un progresso di meglio nella vita sociale si verifica. La vita sociale d'oggi, presa ancora com'è, è ben diversa e migliore che non era quella dell'antica civiltà, quella del medio evo, quel­la ancora di un secolo innanzi. - Queste sono prove statistiche, e non pretensioni di sistemi. Un miglio­ramento materiale è penetrato anche a traverso gl'ingombri che g]i oppone lo stato di società, co­stituito com'è di presente, - e il desiderio e i ten­tativi di star meglio sono anch'essi in progresso. lo non affermo che l'uomo sarà pienamente felice; - il cuore umano ha certe leggi organiche che sussisteranno immutabili, finché egli si muova - certi dolori lo faranno gemere in qualunque età, in qua­lunque condizione. Ma la vita delle nazioni può e deve migliorare. Fino a qual punto è impossibile determinano; forse dopo un lungo trapassare di stadio a stadio, quando a forza di attrito tutti gli angoli acuti dell'umana famiglia si saranno appia­nati giungeremo ad uno stato di tolleranza univer­sale. - La tolleranza non so se sia totalmente un frutto della ragione o della stanchezza, probabil­mente dell'una e dell'altra. - Dopo lunghi cimenti fatti a prova di secoli, di ferro e di fuoco, per avven­tura un giorno faremo siffatto ragionamento: Uo­mini di tutte le contrade e di tutte le opinioni, perché ci diamo la caccia, perché c'insanguiniamo interminabilmente? La terra è larga abbastanza e tutti gli anni feconda, può pascerci tutti, può sep­peilirci tutti. - Se l'amore potesse essere il nostro Dio e avere il mondo per altare, la vita meriterebbe d'essere eterna, e l'uomo ben di rado avrebbe da piangere: ma dacché l'amore è così scarsa dote, e bisogna serbarne la più parte a noi stessi, met­tiamo in comune il poco che ne avanza e per il resto tolleriamoci; - l'umana sapienza consiste nel tol­lerare. - Lasciamo piegare a destra chi v'è incli­nato, a sinistra chi vuole andarvi, la terra è larga abbastanza: è un Pantheon capace a contenere tutti gl'idoli - Tu puoi adorare un Priapo, io una cipolla, e pacificamente. Ognuno sarà salvo secondo i suoi meriti. - Perché consumare un breve anelito di vita a dilaniarci per una larva? Siamo noi eterni perché almeno la vittoria abbia un premio corri­spondente a tanti misfatti? La stessa meta attende tutti, - chi calpesta e chi è calpestato; - e fra breve. Con un mezzo volger di secolo, vinti e vinci­tori formeranno uno strato di polvere indistinta, - un pavimento alle danze o alle battaglie dei nostri nepoti. Con un mezzo volger di secolo la terra non serba più sia un'orma innocente, sia un'orma di sangue. Prendete le ceneri del genio e quelle della follia, le ceneri del padrone e quelle del servitore, son quattro mucchi in fila uguali di quantità, di colore, di sapore; scegliete. - Dov'è l'occhio mortale che discerna Dante da Brandano, Napoleone dal suo cocchiere? Perché insanguinar­ci, perché darci la caccia? perché assottigliare in­fernalmente l'ingegno onde inscrivere nei nostri codici tanti delitti che non emergono dall'essenza delle cose, ma da un cuor depravato e feroce? - Consultiamo la natura nuda e vergine come ella si rivela alla mente del giusto, e saremo meno sven­turati. - Consultiamo la natura umana senza velo di disprezzo, di cupidigia, di prepotenza; consultia­mola anatomicamente nel suo stato originale e osserveremo che si può spogliare dal fango onde l'ha ricoperta un falso sistema sociale e rivestirla d'una certa luce, una luce che non dobbiamo rapire al sole, come Prometeo, perché ella ha sorgente nel­l'anima umana. - E l'arte sta nel trovarla e il genio la sa trovare, ma noi abbiamo finora croci­fisso il genio invece di coronare. - Intanto tolle­riamoci: v'è spazio per tutti, e permettiamo che ognuno vi si volga a suo grado. Il genio può trasfondere nei suoi quadri l'armonia e l'iride dell'universo; - la follia può ridere, e saltar per le piazze; - Il forte può andare a caccia al cinghiale, - il debole può recitare il suo rosario, e tutti pacifica­mente. - La terra è larga abbastanza; - L'umana sapienza sta nel tollerare.




MIA MADRE


Indovinate chi amo più di tutti sulla terra? Io amo mia Madre; - io l'amo più della Patria, cui dono il mio sangue se lo vuole, - più della mia T***, ch'io amo pur tanto. - Povera mia Madre! Se voi la conosceste, forse non ci capireste nulla. No, non è una donna elegante, - non sa di musica, - non sa il francese, - non ha cerimonie; - è una donna quieta come un ciel sereno, una donna alla buona, che crede in Dio, che va ogni giorno alla Messa, a pregare prima per me e poi per sé: è una donna alla buona, che crede in tutto; - crede che l'olio versato porti Sciagura; - crede che il vino versato porti fortuna. E' una povera donna, che ama il suo figliuolo come voi amate voi stessi. - Io mi confesso come davanti a Dio. Non amo tanto mio padre; è un buon uomo; - ma la mia povera Madre è bene altra cosa. - Io non amo mia Madre per il latte che mi ha dato, perché del latte non me ne rammento; - ma quando mio padre talvolta mi sgridava, ella mi consolava, - mi asciugava le la­crime, mi baciava, mi dava un trastullo, mi riconduceva alla gioia. Quand'io andava a scuola, e mi era innamorato dei libri, mia Madre mi dava Il denaro onde comprarmeli. - Mia Madre mi ama come il suo cuore, io sono il suo cuore. Mi guarda con una compiacenza, - s'inorgoglisce di me, come la giovane sposa della sua corona di rose nel dì delle nozze. Ed io l'amo ugualmente. Io ho un sembiante duro, - e quando sento dentro non sono punto espansivo; - ma gli occhi mi parlano, - e mia Madre guidata dall'istinto mi guarda sempre negli occhi, e ne riman consolata. Povera mia Madre! ora tu non puoi più guardarmi, e chi sa per quanto! - io aveva il vizio di addormentarmi col lume acceso, e mia Madre si levava di notte a levano, perché temeva un pericolo. E alla mattina entrava nella mia stanza a vedermi, in punta di piedi, e rattenendo il respiro per non rompermi il sonno. - E quando parlava di me alle vecchie sue conoscenti, diceva che io era un angiolo, - ed io risapendolo rideva di cuore, pensando che il mondo ml chiamava un diavolo. - Povera mia Madre! Dio ti renda quella mercede, che merita il tuo tanto amore!

Una sera io fui ferito di tre stilettate; - tutti credevano ch'io morissi; anch'io credeva. Fui por­tato a casa agonizzante; caddi in deliquio, e vi stetti più ore. Al risensarmi, chi trovai presso al letto? - Era mia Madre, e così vicina a me, che di certo intendeva col suo fiato caldo d'amore di vincere il gelo della morte. Mi parve l'Angiol custode. Mi ravvivai, - cominciai con lei un colloquio lungo, veloce, passionato, sublime; - mia Madre mi rispondeva interrottamente; - io nell'esaltazione non me ne accorsi: mia Madre era convulsa; - ella non può piangere. Se io me ne fossi avveduto, forse sarei morto. Mia madre dacché mi hanno strappato al suo seno è stata assalita da un palpito così violento di cuore, che è andata vicino a morte. O povera mia Madre! perdonami il tuo dolore! potessi avere almeno contato i tuoi palpiti per rammentarmene!



Qui finisce il Manoscritto di un Prigioniero; nella pagina interna della coperta si leggono questi due versi:


La prigione è una lima si sottile

Che aguzzando il pensier ne fa uno stile.



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