Giuseppe Giacosa

UNA PARTITA A SCACCHI

Leggenda drammatica in un atto



PROLOGO

Di questa fiaba in versi ho tolto l'argomento

Da una romanza scritta circa il mille e trecento.

A dire il vero, in calce la data non ci sta,

Epperò nei cent'anni spaziate in libertà.

Mezzo secolo prima, mezzo secolo poi,

A me non giova nulla, e poco importa a voi.

La romanza era scritta in lingua provenzale,

In quel metro monotono, cadenzato ed eguale,

Che infastidisce i nervi qual tocco di campana:

Ma in quella cantilena, per dissonanza strana,

C'era un fare spigliato, un'andatura snella,

Che mi costrinse a leggerla ed a trovarla bella.

Qui calza una parentesi. - Non vorrei che il lettore

Avesse per sua grazia a credermi impostore,

Pensando che allo scopo di accrescere l'effetto,

Accollassi ad un altro le mende del soggetto. -

Benché un poeta in genere a nessun sia secondo

Nel mestiere invidiabile di fare il gabbamondo,

E benché di siffatti artifizi dolosi

Anche Manzoni adopri là nei Promessi Sposi,

E benché se allo scritto mi tornasse efficace,

Io pure vi confessi che ne sarei capace,

Tuttavia questa volta vi prego, e son sincero,

Di credere che quanto v'ho raccontato, è vero.

Era un giorno d'autunno. - Singolare stagione

Che v'annebbia il cervello in barba alla ragione,

Sia vapor di vendemmia che impregna l'atmosfera,

Siano i fumi che i prati esalano alla sera,

Sia la pioggia imminente che vi serpe nell'ossa,

O sia un presentimento lontano della fossa:

Fatto sta che i pensieri mutano di colore

A sembianza di foglie sovra il ramo che muore. -

Ero solo, adagiato, - ma che dico: adagiato!

Nella lunga poltrona stavo lungo sdraiato

Cogli occhi semichiusi e con un libro in mano,

Semichiuso ancor esso. - Mi giungeva di lontano

Grida, canti e clamori di villici. - Imbruniva. -

Pei fessi delle imposte filtrava un'aria viva

Che pareva dicesse: L'inverno è qui che viene. -

Io non muovevo palpebra, quantunque nelle vene

Mi serpeggiasse il freddo, ma, sia pigrizia o grillo,

Sopportavo quei brividi, pure di star tranquillo.

La stanza parea enorme, tanto era vuota e bruna. -

Di tratto in tratto, a sbalzi, una mosca importuna

Borbottava per l'aria misteriosi metri,

Poi dava scioccamente della testa nei vetri -

Le tende alla finestra frusciavano inquiete...

Racconto queste cose, perché, se nol sapete,

Noi poeti, sovente, non siam noi che scriviamo,

È il vento che fa un fremito correr di ramo in ramo,

È una canzon perduta che pel capo ci frulla,

È il fumo di un sigaro, è un'ombra, è tutto, è nulla,

È un lembo della veste di persona sottile,

È la pioggia monotona che scroscia nel cortile,

È una poltrona morbida come sera d'estate,

È il sole che festevole picchia alle vetriate,

È delle cose esterne la varia litania,

Che fe' rider Ariosto e pianger Geremia. -

Stavo dunque soletto, cogli occhi semichiusi

E la mente perduta in fantasmi confusi,

Aveo smesso di leggere per sonnecchiare, ed era

L'autunno, ve l'ho detto, e per giunta, la sera.

Il libro raccontava storie vecchie e infantili

Di castelli, di fate, di valletti gentili.

Talora licenzioso nei motti, ma coll'aria

Di un nonno che sorrida con malizia bonaria.

È strano come in quelle pagine polverose

L'amor sia schietto, e tutte le vicende festose. -

Si direbbe che il tempo, inflessibile a noi,

Abbia corso a ritroso per tutti quegli eroi.

Le mura dei castelli son corrose e infrante,

E suvvi ci si abbarbica l'edera serpeggiante.

Son mozzate le torri, i merli son caduti,

Le sale spaziose i bei freschi han perduti;

I camini giganti dall'ali protettrici

Son colmi di macerie, stridon sulle cornici

I più grotteschi uccelli: ma sereni, sicuri,

Più forti che le torri e più saldi che i muri.

Quelli uomini di ferro d'ogni mollezza schivi

Si parano alla mente baldi, parlanti e vivi. -

Son là, coll'armi al fianco, col grifalco in mano,

Ieri: leon di guerra, ed oggi: castellano.

Ignoranti di patria, di libertà: capaci

Di morire per un nome od un paio di baci.

Con tre motti stampati nel cuore e nella mente:

Il Re, la Dama, Iddio; e su questi, lucente

Come un sole a meriggio, una grande chimera,

Legge informe, malcerta, prepotente, severa,

Assoluta giustizia o generoso errore,

Inflessibile al pari del cristallo: L'onore. -

Allora tu dell'armi infra i disagi grevi

Santa della famiglia religion splendevi.

Allor, scoperto il capo e muti i circostanti,

Il Padre, il vecchio, il sire, colle mani tremanti

Benediceva al figlio, padre a sua volta, ed era

Quell'atto più solenne di qualunque altra preghiera.

E sapeva il vegliardo, chiudendo a morte il ciglio,

Che presso alla sua tomba c'era un marmo pel figlio,

E che il figlio del figlio, lattante bambinello,

Dell'avo un dì sarebbe sceso anch'ei nell'avello;

E pareva dicesse con sorriso estremo:

Non sospiri, non lacrime, un dì ci rivedremo.

E che vivi racconti nelle sere invernali!

Fanciulle dai capegli d'oro, draghi coll'ali,

Visioni, fantasmi, amori sventurati

Che chiamavano le lacrime su quei volti abbronzati.

O storie di battaglie, d'amor, di cortesie,

Nuvolette vaganti per quelle fantasie,

O sereni riposi dopo l'aspre fatiche,

O cortili ingombrati dai cardi e dalle ortiche,

O gotici leggii, o vetri istoriati,

O figlie flessuose di padri incappucciati,

O sciarpe ricamate fra l'ansie dell'attesa,

O preludi dell'arpa, o nenie della chiesa,

O mura dei conventi malinconici e queti,

Celle di sognatori, di santi di poeti,

Voi dell'arte e dei sogni siete i lucenti fuochi,

Voi vivi solamente nel rimpianto dei pochi.

Il tempo onde nessuna umana opera dura,

Ammorbidì i profili della vostra figura,

Ma il secolo correndo nella prefissa via,

Voi, soavi memorie, voi, caste fedi, oblia.

A poco, a poco intorno la notte era discesa.

Scossi via la pigrizia. - Dalla lampada accesa

Piovve un raccolto lume sulle pagine mute

Che aspettavano il frutto di tante ore perdute,

Ed io dalla romanza scritta il mille e trecento

Di questa fiaba in versi ho tolto l'argomento.

ATTO UNICO

La scena succede nel castello di Renato, in una valle delle Alpi piemontesi. - Gran sala, stile Trecento. - Al levarsi della tela Renato e Iolanda stanno presso una finestra come per interrogare il tempo. - Le finestre mettono una luce fredda e grigia, che è vinta da quella rossiccia dell'ampio camino. - Durante la prima scena i servi recano lunghe torcie, che raccomandano ad anelli di ferro fissi nelle pareti.



SCENA I

RENATO e IOLANDA

Iolanda:

E la pioggia continua, fredda, incessante e greve!

Renato:

Oggi pioggia, Iolanda, domani avrem la neve,

Essa è già nell'aria che turbina; io la sento.

La Becca era coperta stamane.

Iolanda:

E sempre il vento!

Renato:

L'ora?

Iolanda:

La sedicesima, padre.

Renato:

È già notte oscura!

Povera mia fanciulla, va, la tua sorte è dura,

Vivere prigioniera con un bianco guardiano

In questa tetra valle, dimora all'uragano!

Che nebbia fitta! Senti che fischi! La montagna

Rompe il vecchio nemico e nell'urto si lagna.

Che crepiti d'abeti! Quanti son stesi al suolo!

Iolanda:

Una buona giornata doman pel boscaiuolo:

Li vedrem cigolando solversi in fumo. - È bella

Sul tizzo che s'imbruna quell'azzurra fiammella.

Le buone piante! Quando ardono sull'alare,

Io le guardo, le guardo, le ascolto sospirare

Con quei lunghi sospiri e penso alla foresta,

Dove un giorno levarono fieramente la testa.

Quanti urti coll'aspre valanghe han sostenuti!

Quante rigide nevi sovra i rami barbuti!

Ne verranno dell'altre.

Renato:

Figlia, è freddo.

Iolanda:

Venite,

Padre, a sciogliere al fuoco le membra intirizzite.

Mi direte le vostre gesta di cavaliero,

Oppur la bella fiaba di Aroldo e il suo corsiero.

Chiameremo compagni Cristoforo e Martino.

Renato:

(seduto accanto al fuoco, nelle pareti del camino, e guardando la fiammata)

Ne ho visti dei folletti su pel camino!

No, non chiamar nessuno, figlia, voglio te sola.

Siedi, fatti più accosto, così; la mia parola

Cerca la via più breve per arrivarti al cuore.

Tu sei la mia figliuola, Iolanda, il solo amore

Ch'io mi abbia in questa terra, il solo, e tu lo sai.

Quando mi sei vicina, figlia, non penso mai

Alle mie rughe antiche e ai miei capelli bianchi.

Iolanda, io sono vecchio, solo se tu mi manchi.

Una volta, perdonami, ti bramavo un fratello,

Che, come tu lo sei, fosse nobile e bello,

Che tramandasse ai figli, pura e intatta, come

Io la tenni dai padri, la gloria del mio nome.

Iddio non mel concesse. Savie leggi le sue!

Nel mio cuore, Iolanda, non c'è posto per due.

Ora se ci ripenso, sono meco adirato

Per quel tanto di affetto che ti avrebbe rubato.

Vieni qui, figlia, senti, tu sei bella, e sei buona,

E sei casta, il tuo nome val più che una corona.

Avrai dieci castella, e possenti domini,

Sarai donna e signora ne' miei vasti confini,

Ma...

Iolanda:

Padre, ch'io continui? Se mi state a sentire,

Io v'indovino tutto quello che vorreste dire.

Renato:

Ebbene?...

Iolanda:

A vostra figlia manca ancora uno sposo.

Renato:

È vero. Un cavaliere nobile e generoso

Che facendoti lieta faccia me pur felice.

Io son presso al tramonto. Qualche cosa mi dice

Che...

Iolanda:

Non voglio sentirle queste brutte parole.

Ritornerete giovane coll'anno e colle viole.

Renato:

E poi questo castello ha troppi echi; le sale

Così vuote e sonore mi fanno tanto male!

Le vecchie travi han d'uopo di nidi e di canzoni,

Han bisogno di strilli i monotoni androni.

Mi mancano bambocci che mi turbino il sonno,

Sai? Si diventa padre, per diventar poi nonno.

I vecchi rimbambiscono ed amano i trastulli.

Non fosse che a sgridarli, mi ci voglion fanciulli.

Iolanda:

Voglio essere io sola ad amarvi.

Renato:

Perché?

Ne' tuoi figli, Iolanda, non amerei che te.

Tu sei già troppo vecchia; tu sei seria e pensosa,

Tu rifletti al da farsi, una gran brutta cosa!

Ti sorprendo talvolta cogli occhi al cielo intenti,

Tu non pensi a tuo padre, figliuola, in quei momenti.

Insomma, tu sei donna; io, vecchio paladino,

Anche quando ti abbraccio mi curvo ad un inchino;

E poi, in questa valle maestosa ed oscura,

C'è troppa solitudine, e c'è troppa paura.

Tu non conosci i cieli aperti della piana,

Né i rasati orizzonti dalla curva lontana.

V'han paesi, ove i fiori ridono sempre ai miti

Zefiri. I miei castelli sono tetri e romiti!

La vastità del cielo allo sguardo è contesa,

Questa brutta montagna più che gli anni ci pesa;

Qui s'invecchia anzi tempo, se il soave liquore

Degli affetti non mesci nella coppa d'amore.

Io son mortale, o figlia, via provvedi a te stessa.

Iolanda: (sorridendo)

Sì, fonderò un convento per farmene badessa.

Renato:

Tu ridi, folle.

Iolanda:

Ebbene, veniamo al serio. Anch'io,

Quando mi trovo sola meco stessa e con Dio,

Sogno talora i gaudi dell'amore, e mi sento

Addormentarsi l'anima tutta in un rapimento,

E fingo che il mio fato conduca un forte e bello

A superar la fossa del mio patrio castello.

Lo ascolto in ton sommesso mormorarmi parole

Più ardenti e più feconde che la luce del sole;

E lo guardo negli occhi, che divampano fuoco,

E mi cullo in visioni celesti, e a poco a poco

Mi risveglio, e le sale del mio patrio castello

Non suonan mai dei passi di questo forte e bello.

Renato:

Al marchese d'Andrate opponesti un rifiuto:

Era un bel maritaggio.

Iolanda:

Non l'avevo veduto!

Renato:

Il duca di Rosalba...

Iolanda:

Oh! Il duca... in fede mia

E' sarà stato un forte, padre, ma bello, via!

Renato:

L'animo generoso ogni bellezza avanza.

Iolanda:

Sì, ma non veggo l'animo e veggo la sembianza.

Se io mi fossi quale, voi dite, ch'io non sono,

Avessi pure il cuore divinamente buono,

Non troverei nessuno di virtù così sante

Da sceverar dall'animo la causa del sembiante.

La bellezza è l'impresa che i nostri sguardi arresta,

Si cerca poi se al motto corrispondon le gesta.

Renato:

E vuoi condur la vita in codesta maniera,

Fra i trapunti ed il fuso, fra l'ago e la scacchiera?

Iolanda:

Oh! La scacchiera, giusto men fate sovvenire,

Vi debbo una rivincita.

Renato:

No, lasciami finire,

Tanto non ci riesco; con te non sono destro,

L'allieva ha superato di gran lunga il maestro.

Tu sei come la rocca di Bard, la non si piglia:

Aggiungo questa gloria a quelle di famiglia.

Dunque, il duca di Rosalba?...

Iolanda:

Ah! Torniamo al soggetto?

Se mal non mi sovviene, un dì mi avete detto,

Che m'avreste lasciata assoluta padrona

Nel dispor del mio cuore e della mia persona.

Renato:

È vero, e, contro gli usi de' miei padri, ti voglio

Signora più assoluta che una regina in soglio.

So che più d'un mi biasima sommessamente, ed io,

Che chiamo di mie gesta solo giudice Iddio,

Pensa che la tua scelta sarebbe arra sicura

Di nome senza macchia, di cuor senza paura.

Ma fra tutt'i signori che alle mie corti aduno,

Io non t'ho fatta libera di non sceglier nessuno.

Ami forse in secreto?

Iolanda:

No.

Renato:

Tel credo; dal cuore

Altero sulla fronte salirebbe il tuo amore.

Tu non sapresti infingerti.

Iolanda:

Voglio farvi contento:

Sceglietemi uno sposo voi stesso, io v'acconsento.

La libertà vi rendo che m'avete largita,

E aspetto la mia sorte.

Renato:

Grazie, figlia.

Iolanda:

Ho sentita

La squilla della torre.

Renato:

Un Landmanno, venuto

A rendermi d'omaggio il debito tributo.

Iolanda: (dalla finestra)

Son parecchi cavalli.

Un servo:

Il conte di Fombrone

Sollecita la vista del mio nobil padrone.

Renato: (premuroso)

Il conte di Fombrone? Fategli tutti onore

E sia sulle mie terre, più che ospite, signore.



SCENA II

OLIVIERO conte di Fombrone, FERNANDO e detti.

Renato: (a Fombrone)

Oliviero, ben giunto, nobile e vecchio amico,

Questo è un giorno di festa pel mio castello antico.

Oliviero:

L'amicizia è l'altrice delle gioie più sante

E non l'ho mai provata siccome in questo istante.

Renato:

La mia figlia Iolanda.

Oliviero:

Dio lega opposte cose,

Il rigor delle nevi, la beltà delle rose.

Renato: (a Iolanda, indicando Fombrone)

Tu conosci il suo nome, fummo compagni, quando

Le braccia eran robuste ed era aguzzo il brando,

Corremmo insiem le corti e guerreggiammo allato,

E se lo seppe il vinto signor di Monferrato.

Oliviero: (indicando Fernando)

Il mio paggio Fernando.

Renato:

Cresciuto alla tua scuola

Avrà pronta la mano e lenta la parola.

Il sangue assiderato vivo al fuoco discorra,

Son pungenti le brezze che soffia questa forra.

Mescete il Mommeliano.

(I servi eseguono)

Oliviero: (sedendo accanto al fuoco)

Per Dio, ti giuro il vero,

La tua figliuola è bella, e forte è il tuo maniero.

Renato:

Dimmi di te, Oliviero, rechi in fronte dipinto

Che lottasti cogli anni e, sempre, hai vinto.

Oliviero:

È passato il bel tempo.

Renato:

La quercia il gel non teme.

Chi direbbe a vederci che siam cresciuti insieme!

Non ti dieder disagio queste brevi giornate?

Le strade sono lunghe, Fombrone, e mal fidate;

Odo narrar sovente di violenze e rapine.

Non t'insorse disgrazia?

Oliviero:

Per poco in sul confine

Della montagna, dove la valle si disfalda

Non uscivo malconcio.

Renato:

Come! Narra.

Oliviero:

La salda

Spada, e l'animo ardito del mio paggio Fernando

Mi tolsero di briga. Venivam cavalcando

Il mio paggio e due bravi, quando dalla foresta

Uscì un sibilo acuto: sollevammo la testa,

E ci apparve sbucata sul margin della strada

Di dieci malandrini armati una masnada;

Stemmo, e il maggior di quelli fattosi a noi dinante

C'impose di seguirlo con un piglio arrogante.

Fernando a lenti passi gli si mosse vicino:

- Forse ti seguiremo, ma insegnane il cammino: -

Gli disse, e con un colpo lo stese a terra. Tosto

Minacciosi i rimasi ci furono daccosto,

Meno per trar vendetta del capo insanguinato

Che per far bella ruba del bottino agognato.

Eran nove gagliardi, armati e risoluti,

Noi quattro, io vecchio, i luoghi minacciosi e sconosciuti.

Il mio paggio mi guarda, poi mi s'accosta, in atto

Di chi voglia ricevere qualcosa di soppiatto,

Indi a furia di spronate, lancia il cavallo a volo.

Subito alle calcagna gli si muove uno stuolo

Di cinque masnadieri; e a noi priva di gloria,

Ma sicura ed agevole rimase la vittoria.

Iolanda:

Fu raggiunto dai cinque?

Oliviero:

Poco tratto di via

Percorso egli si volse, e al branco che venia,

Sorridendo con volto nobilmente sdegnoso,

Volse dell'armi audaci lo slancio impetuoso.

Era solo, piantato come un Centauro antico,

Sul dorso flessuoso del corsiero. Il nemico

Gli facea ressa intorno urlando a tutta possa.

Ei pronto alla parata, tremendo alla percossa,

Tenea con lenti giri quanto è larga la strada.

Già nei cozzi continui aveva rotta la spada,

Quando sbrigati i quattro che ci stavano di fronte

Noi giungemmo ed i ladri preser la via del monte

Lasciando di tre morti le spoglie il sul terreno.

Iolanda.

E non foste ferito?

Oliviero:

Io no, Fernando al seno

Ebbe una scalfitura ch'oggi è saldata, è vero?

Fernando:

Sì, conte.

Renato:

La tua mano, o giovine guerriero.

Sei un prode, in te il senno è pari all'ardimento.

Tuo padre nel ritorno t'abbraccerà contento.

Fernando:

Non ho padre, signore.

Renato:

Così giovane? Avrai

Una madre.

Fernando:

Neppure, e non li ebbi mai.

Renato:

Il tuo nome?

Fernando:

Fernando. La mia sorte è severa.

Se mi farò uno stemma, avrà la sbarra nera.

Renato:

Tu sei sangue di principi!

Fernando:

Se mi dà vita Iddio,

Farò diventi gloria l'esser sangue mio.

Renato:

Fiere parole!

Fernando:

Il vanto vuol essermi concesso,

Dacché tutto che sono, nol debbo che a me stesso.

Renato:

Sei giovane e fidente, l'anima hai franca e ardita,

Apprenderai cogli anni la scienza della vita;

Ma ti darò un consiglio, io che ho vissuto tanto:

L'opera è più gloriosa scompagnata dal vanto.

Fernando:

Io penso che su giovane bocca il vanto non convenga,

Se il labbro non promette più che il braccio mantenga.

Renato:

Non ti dolga, Fombrone, s'io biasimo le sue mende,

Amo in lui la prodezza, ma l'orgoglio m'offende.

Fernando:

Rispetto in voi l'antico coraggio e il nome antico,

E del mio buon signore il più fidato amico;

Ma portare dimessa la fronte io mai non soglio,

È fra le mie virtudi, prima virtù, l'orgoglio.

Renato:

Che sai tu della vita, fanciul, chi te l'apprese?

Perché la guancia hai bella e le pupille accese,

Perché il vigor degli anni ai perigli t'indura,

Perché tutta al tuo sguardo sorride la natura,

Perché fissando intrepido il destin che s'avanza,

Senti un nervo nel braccio, nel cuore una speranza,

Perché non ha che stelle la tua notte serena.

Perché se il labbro ha sete sempre la coppa hai piena,

Perfin contro il futuro spingi il folle ardimento?

E gridi alla tua sorte: Io voglio e non pavento?

Ma non lo sai, fanciullo, non te l'han detto ancora

Che assai lungo è il cammino, che la vita è di un'ora?

E che prima di giungere al culmine agognato

Avrai le mani lacere e il viso insanguinato?

Che dovrai divorarti il sopruso e l'affronto?

Che oggi ti chiami aurora, e domani tramonto?

Ero ancor piena l'anima di splendide chiemere,

Se volavano al vento le guerresche bandiere,

Sentivo ancora i fremiti generosi e la sete

Dei perigli, e correvano le mani irrequiete,

Correvano a brandir l'asta; al nome di gloria

Mi luceva negli occhi l'ardor della vittoria;

E un giorno all'opra usata cesse il vigor, mi parve

Un peso insopportabile la mia spada. Le larve

Svaniron tutte, i moti del mio cuor furon muti,

E i miei sogni di gloria, non erano compiuti!

Fernando:

Vecchio, sei grande e nobile, come nessun fu mai;

Dirò superbo un giorno: lo vidi e gli parlai.

La tua grave parola fu quella di un veggente.

Sì, le tue sagge norme le terrò fisse in mente.

Però la mia fortuna alla tua non somiglia,

Tu avesti in sorte un nome, un tetto, una famiglia.

Fu la scuola di un padre che t'educò alla vita,

E sprone alle grandi opere fu la grandezza avita.

L'armi pria che un cimento ti furono un trastullo.

Io crebbi solo, un orfano no, non è mai fanciullo.

Nell'età dei sorrisi, dei baci e degli incanti

Non conobbi che l'ire, non conobbi che i pianti.

Io non avevo un nome, che per sacro legato

Dovessi far più illustre o serbare onorato,

Io non avevo un padre, che premio al mio valore,

Baciasse in sulla fronte il giovin vincitore.

Di ritorno dal campo, triste conforto m'era

La venale larghezza di una soglia straniera.

Quanto le glorie illustri di tanti avi ti fenno,

Guadagnarlo dovetti coll'opera e col senno;

Nessun l'onor m'apprese, nessun m'apprese Iddio;

L'onor, l'armi, la fede sono retaggio mio.

Lasciai lembi di carne in più di una tenzone,

Lasciai lembi di cuore al piè d'ogni blasone.

Fidente nel mio fato, invido mai non fui,

Sotto l'acerbo insulto della grandezza altrui.

Superando gli ostacoli che incontravo per via,

M'era fonte di orgoglio la solitudin mia

Ed or che, me volente, s'appiana il mio sentiero,

Or che son fatto paggio e diverrò scudiero,

Or che, mercé maggiore d'ogni maggior tesoro,

Son presso al battesimo degli speroni d'oro,

Vuoi ch'io sappia frenarmi e rimanermi muto?

No, no, no, nol posso, per tanti anni ho taciuto!

Son forte, la mia spada nessuno al mondo agguaglia,

E non è lieve impresa lo sfidarmi a battaglia.

Freccia non esce invano mai dalla mia faretra,

E nella più minuta delle mire pènetra.

S'io gli imposi il cappello, il falco mai non erra,

E torna colla preda vittorioso a terra.

Né dell'arti gentili la scienza obliai

E so dal mio liuto trarre sirvente e lai;

Di sonanti ballate so far velo al pensiero,

So raccontar d'amore al par d'ogni troviero;

Spezzai più d'una lancia correndo la gualdana,

Più d'uno sguardo ottenni di bella castellana.

Renato:

Per Dio, soverchio ardire sopportar non mi giova.

Bada non mi sovvenga di metterti alla prova,

Ché se falli!...

Fernando:

Signore, fate a vostro talento,

Accetterò con gioia qualunque esperimento:

Ma lasciate ch'io noveri tutte le mie virtù,

E poi venga la prova, non vi chieggo di più.

Per studiare a tentarli ed a schermir gli attacchi,

Appresi le difficili movenze degli scacchi,

E nessuno mi supera...

Renato:

Dacché ne porgi il destro,

Noi ti vedremo all'opera, o d'ogni arte maestro.

A te, figliuola, insegnagli, né sarà poca gloria,

Come si faccia a vincere, senza gridar vittoria.

Qui si porrà all'aperto la tua scienza nascosta.

Perderai, tel predico.

Fernando:

Lo vedremo... E la posta?

Renato:

La posta? Se tu vinci, io ti do per consorte

La mia figlia Iolanda.

Fernando:

E se perdo?

Renato: (traendolo in disparte, sommesso)

La morte.

Fernando:

L'offerta è troppo bella per opporvi un rifiuto.

Renato:

Accetti?

Fernando:

Accetto, conte.

Renato:

Se perdi...

Fernando:

Avrò perduto.

E non mi sentirete lagnarmi o maledire;

Se non appresi a vivere, ho imparato a morire.

Renato:

A te, figlia.

(I due si apprestano a giuocare)

Fernando: (a Renato)

Scusate il soverchio ardimento,

Ma un giuoco tal richiede un giuocatore attento.

Il conte di Fombrone presso il fuoco vi aspetta,

Direte insiem le gioie dell'età prediletta.

Qui si vuol esser soli.

(Il tavolino a cui stanno seduti i due che giuocano è vicino al proscenio, mentre invece il camino è in fondo alla scena. Olivero è presso il camino).

Oliviero:

Il mio paggio ha ragione.

Renato:

Ed eccomi a' suoi cenni. Mesci ancora, Fombrone.

Oliviero:

Fosti con lui severo.

Renato:

Troppo?

Olivero:

No. Anch'io soventi,

Ebbi a fargli rimbrotto, e con acerbi accenti;

Ma è così bello il roseo confidar nel futuro,

Chi ignora i disinganni! Renato, è così puro!

La gioia è così piena dentro quell'occhio nero!

Così lucente, sotto quel crin folto, il pensiero!

Ed io lo vidi all'opera, e lo so forte ed audace.

Quel suo animo baldo e leale mi piace,

E mi ricorda i giorni della mia giovinezza.

Renato: (fra sé)

Come sfida la morte con eroica fermezza!

Oliviero:

Tu pensi?...

Renato:

Nulla.

Oliviero:

Eppur ti leggo nelle ciglia...

Renato:

Vorrei che avesse a vincere.

Oliviero:

Per sposare tua figlia.

Renato:

È vero!

Oliviero:

Convien dire ch'ella giuochi a pennello,

Se offristi al vincitore un premio come quello!

E tu che avrai, se perde, in cambio alla fanciulla?

Renato: (esitando)

Nulla.

Oliviero:

Nulla? Davvero?

Renato: (quasi parlando a sé stesso)

No, non voglio aver nulla,

Un tal patto non regge.

Oliviero:

E Renato pretende

Riprender la sua fede?

Renato:

E se egli me la rende?

(I due continuano a parlare sommesso).

Iolanda:

Che hai, paggio Fernando? Non giuochi e non favelli.

Fernando:

Ti guardavo negli occhi, che sono tanto belli.

Iolanda:

Ed io senza periglio decimo le tue schiere;

Già perdesti una Torre, e do scacco all'Alfiere,

Se non provvedi tosto a metterlo da banda.

Attento ai mali passi.

Fernando:

Grazie, bella Iolanda.

Pensavo a mille cose lontane, e stavo muto

Per la triste certezza che tanto avrei perduto.

Eccomi a tal ridotto che un sol passo non feci.

Iolanda:

Vuoi tu, paggio Fernando, che mutiamo le veci?

Fernando:

No, tienti la tua sorte e lasciami la mia.

Iolanda:

A te, non trovi nulla che t'ingombri la via?

Oh la sventata! Vedi che ho messo il piede in fallo.

Ti do scacco all'alfiere, e disarmo il Cavallo.

Fernando: (prende il cavallo)

Non ardirei di prenderlo, l'accetto come un dono.

Iolanda:

Vedi l'avventurata giocatrice ch'io sono!

Neppur credi all'errore.

Renato: (avvicinandosi)

Come sta la partita?

Fernando:

Io perdo.

Renato: (contento)

Sì? Fanciullo, facciamola finita,

Smetti il giuoco, fu scherzo la scommessa.

Fernando:

Vi pare!

Con voi, nobil signore, non ardirei scherzare,

Né con veruno al mondo, intorno a un argomento...

Renato:

Tu perdi, me l'hai detto tu stesso.

Fernando:

E non consento

Perdente a grazia alcuna, ché vincitore, avrei

Altamente vantati tutti i diritti miei.

Renato:

Bada a tentar la sorte, paggio, bada!

Fernando:

La tento.

E data una parola, signor, non mi ripento.

Renato:

E tal sia

(s'allontana e poi ritorna).

No, sei giovane, fanciullo, e ardimentoso

E d'una tua disgrazia non mi darei riposo.

Smetti quella fierezza, renditi al buon consiglio,

Io te ne prego, come si pregherebbe un figlio.

Sei in tempo, ritraggiti, tu sai quanto t'aspetta...

Iolanda, te ne prego, digli che mi dia retta.

Iolanda:

Perché mi dovrò esporre io pure ad un rifiuto?

Un istante può rendergli il terreno perduto.

Renato:

La vanità di vincere ti fa di questo avviso.

Iolanda:

O padre!

Renato:

Ma tu ignori che s'ei perde, è deciso.

Fernando: (interrompendolo)

Conte... Fate opra inutile, nessuno mi cancella

Dal cuore una promessa.

Renato:

Ti lascio alla tua stella.

(Renato va di nuovo presso Fombrone, con cui conversa a bassa voce. Iolanda e Fernando giocano per alcuni istanti senza far motto).

Iolanda:

Che volle dir mio padre con quelle sue parole:

Se egli perde è deciso?...

Fernando:

Nulla ch'io sappia - fole...

Iolanda:

Eppure mi pareva che parlasse assennato,

E tu l'interrompesti tutto quanto turbato.

Che perdi tu, se perdi?

Fernando:

Nulla che mi stia a cuore.

Iolanda:

Mio padre più ti teme vinto che vincitore.

Non so perché, Fernando, son pensosa e afflitta.

Fernando:

Bella Iolanda, allegrati, sarà mia la sconfitta.

Iolanda:

Oh! Perché con sì tristi presagi ti martelli?

Fernando:

Io? Ti guardo negli occhi, che sono tanto belli!

Iolanda:

Sei mesto nel sembiante, perché? La tua ferita

Ti duole forse?

Fernando:

Punto... Com'è bella la vita!

Iolanda:

(Pausa).

Paggio Fernando, è molto lontano il tuo paese?

Fernando:

Io nacqui dove l'aria è tepida e cortese;

Dove la terra è piena di cantici e di fiori.

Dove in grembo alle Muse sorridono gli amori.

Dove nel mari si specchiano i pallidi oliveti,

Dove i colli son ricchi d'aranci e di palmeti,

Dove tutto è profumo, dove tutto è sorriso,

Dove non si vagheggia più bello il Paradiso,

Dove spiran le brezze del sonante Oceàno,

E quel vago paese è lontano, lontano.

Iolanda:

Le donne vi saranno leggiadre e amorose.

Fernando:

Sì, facili all'amore, ma folli e obliose;

Sì, il mio sole di fuoco nutre beltà procaci;

Sì, Quelle labbra ardenti sono fatte pei baci;

Ma noi cresciuti ai torridi meriggi, e in mezzo ai fiori

Inebrianti e pinti dei più vivi colori,

Amiamo i molli petali flessuosi e pallenti,

Amiamo le corolle bianche dei cieli algenti,

Ed una treccia bionda, e un occhio azzurro, e un bianco

Viso ed un abbandono soavemente stanco,

Ci suscitano le accese fantasie del pensiero

Più che una chioma bruna e più che un occhio nero.

Il mio mare lontano è azzurro, azzurri i monti

Che si veggon da lungi e son d'oro i tramonti.

(Pausa).

Tu sei bella, Iolanda.

Iolanda:

Com'è dolce il tuo dire!

Fernando:

Senti, hai tu mai pensato che si possa morire

Prima d'aver provato che cosa sia l'amore?

Prima che un sol fiorisca dei germogli del cuore?

Prima di bisbigliarsi le più ardenti parole?

Prima d'aver goduta la tua parte di sole?

Iolanda:

Oh no!

Fernando:

No, non è vero? Se non fosse che un'ora,

Un'ora dell'ebbrezza che ogni ebbrezza scolora,

Le mie pupille un'ora fissate nelle tue,

E poi venga il destino.

Iolanda:

Si morirebbe in due.

Fernando:

Che morbidi capelli!

Iolanda:

Perché parli di morte

Quasi che ti volessi doler della tua sorte?

Fernando:

Come hai dolce il sorriso!

Iolanda:

Perché, paggio Fernando,

Mi guardi così mesto mesto?

Fernando: (ricomponendosi d'un tratto)

Nulla, andavo pensando

A speranze impossibili, a confusi desiri;

Giochiamo, ho fatto un sogno d'oro...

Iolanda:

Perché sospiri?

Fernando:

Sospiro... la mia pace, le mie terre lontane.

Iolanda:

E gli sguardi ottenuti di belle castellane.

Fernando:

Bada, or sei tu che perdi (indicandole il giuoco).

Iolanda:

Me ne dai con premura

L'avviso, la vittoria par ti metta paura.

Fernando:

Oh! Ma non sai, Iolanda, che ho giocato la vita?

Non lo sai che se perdo questa volta è finita?

Non lo sai che sei bella, come nessuna al mondo?

Che amo il tuo fronte bianco ed il tuo crine biondo?

Che di mio non ho nulla che il sangue delle vene?

Che sono solo al mondo se tu non mi vuoi bene?

Iolanda:

E tu, cieco, non vedi che m'affanno da un'ora

Per goder quest'ebbrezza che ogni ebbrezza scolora?

Oliviero: (a Renato)

Guarda com'è pensoso, colla testa china...

Renato:

Come va la partita?

Fernando:

Do scacco alla Regina.

Iolanda

Ascoltami, Fernando, questa è la prima volta

Che mi giunge una voce d'amore a me rivolta.

Se tu sapessi come li ho sognati soventi,

La tua maschia sembianza, i tuoi nobili accenti!

Quante volte, seduta sul verone, alla sera,

Invece del monotono ritmo della preghiera

Mormoravo parole febbrili ed interrotte,

Chiedendo al ciel benigno un raggio alla mia notte.

Se tu sapessi, come dietro le vetriate

Passavan lunghe e fredde le vedove giornate!

Se vedevo una donna con in braccio un bambino,

Se mi giungean le note di un nunzial festino,

Guardavo alle mie vesti, ai monili, alle anella,

E mi sentivo povera più che un'umile ancella.

Sentivo qui nel cuore uno sgomento arcano,

E nel paterno petto mi rifugiavo invano,

Venner marchesi e conti a cercarmi in isposa,

Ma tutti li respinsi per ripugnanza ascosa.

Tu giungesti, Fernando, tu che sei forte, e bello,

E una voce nell'anima mi gridò tosto: è quello.

Fernando:

La tua mano, Iolanda. Mano bianca, sottile,

Non avrai tu la sorte di un umil paggio a vile?

Iolanda: (sorridendo)

È il destin che ci unisce nella sapienza sua;

Guarda, due mosse ancora e la vittoria è tua.

Renato: (avvicinandosi)

A che ne siamo?

Iolanda: (sorridendo)

Padre, la vostra figlia invitta

Medita il disonore di una prima sconfitta.

Renato:

Perdesti?

Iolanda:

Non ancora, ma perderò.

Renato:

Fernando,

Ascoltami, sospendi, io vaneggiavo quando

T'offersi quella sfida. Scegli fra i miei castelli

Il più forte, il più ricco, è tuo; ma si cancelli

Questo patto impossibile, rendimi la mia fede,

Ti farò ricco e nobile... è un padre che tel chiede.

Fernando:

Signore, a tanta offerta una risposta sola:

Amo la figlia vostra - Conte, ho la tua parola.

Renato:

La terrò, se lo imponi, ma se onor ti consiglia,

Se in cuore un po' d'affetto tu nutri per mia figlia,

Pensa, e s'io ti rammento tristi cose, perdona,

Pensa che già respinse una ducal corona,

Ch'essa è quanto rimane di un antico lignaggio,

Pensa che più d'un principe invidia il suo retaggio.

(Fernando esita; Iolanda se n'avvede e lo spinge con gesti a giuocare).

Iolanda: (a bassa voce)

Giuoca, Fernando.

Renato:

Un giorno, paggio, tu pure, è vero,

Sarai forse possente e ricco cavaliero,

Ma finor...

Iolanda: (a bassa voce)

Giuoca, giuoca, un passo sol.

Renato:

Finora

Di tua vita, Fernando, tu non sei che l'aurora;

Iolanda è bella, è ricca, e... suo padre tel dice,

A lungo non potrebbe con teco esser felice.

(Mentre Fernando esita, Iolanda di soppiatto lo piglia dolcemente per mano, e fa lei una mossa per lui).

Iolanda:

Padre, è tardo il consiglio, quello che è fatto è fatto,

L'onor vostro è impegnato.

Renato:

Che dici?

Iolanda: (alzandosi e con lei tutti)

Scacco matto.

Oliviero:

Fernando ebbe il demonio o l'amor dalle sue.

Iolanda: (a Renato)

M'offrivate uno sposo e lo scegliemmo in due.

Renato:

E così mi ti mostri vergognosa ed afflitta?

Iolanda: (abbracciando suo padre e porgendo una mano a Fernando)

Chi vince è di famiglia, quindi non c'è sconfitta.

Renato: (a Fernando)

Dacché il fasto di un nome non ti concesse Iddio,

Ti sembra a sufficienza degno ed illustre il mio?

Fernando:

Signor...

Renato:

Sei prode all'opera e assennato al consiglio,

Ed io ringrazio il cielo che m'ha donato un figlio.

(Fernando, dopo di essersi inginocchiato ai piedi di Renato il quale gli pone le mani sul capo, s'alza e si volge a Iolanda senza dire parola).

Iolanda:

E ancor, paggio Fernando, mi affisi e non favelli?

Fernando:

Io ti guardo negli occhi, che sono tanto belli.



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