Francesco Guicciardini

STORIA D'ITALIA

Volume quarto





Cap. i

Diritti del nuovo re di Francia al ducato di Milano e suo desiderio di rivendicarli. Disposizione d'animo de' principi e de' governi italiani verso il nuovo re. I veneziani, il pontefice e i fiorentini mandano al re ambasciatori. Il re li accoglie lietamente ed inizia subito trattative con essi.

Liberò la morte di Carlo re di Francia Italia dal timore de' pericoli imminenti dalla potenza de' franzesi, perché non si credeva che Luigi duodecimo nuovo re avesse, nel principio del suo regno, a implicarsi in guerre di qua da' monti. Ma non rimasono già gli animi degli uomini consideratori delle cose future liberi dal sospetto che il male differito non diventasse, in progresso di tempo, piú importante e maggiore, essendo pervenuto a tanto imperio uno re maturo d'anni esperimentato in molte guerre ordinato nello spendere e, senza comparazione, piú dependente da se stesso che non era stato l'antecessore; e al quale non solo appartenevano, come a re di Francia, le medesime ragioni al regno di Napoli ma ancora pretendeva che per ragioni proprie se gli appartenesse il ducato di Milano, per la successione di madama Valentina sua avola, la quale da Giovan Galeazzo Visconte suo padre, nanzi che di vicario imperiale ottenesse il titolo di duca di Milano, era stata maritata a Luigi duca d'Orliens fratello di Carlo sesto re di Francia, aggiugnendo alla dote, che fu la città e contado d'Asti e quantità grandissima di danari, espressa convenzione che mancando in qualunque tempo la linea sua mascolina succedesse nel ducato di Milano Valentina o, morta lei, i discendenti piú prossimi. La quale convenzione, per se stessa invalida, fu, se è vero quello che asseriscono i franzesi, vacante allora la sedia imperiale, confermata con l'autorità pontificale: perché i pontefici romani, fondandosi in sulle leggi fatte da loro medesimi, pretendono appartenersi a sé l'amministrazione dello imperio vacante. E però, essendo poi per la morte di Filippo Maria Visconte mancati i discendenti maschi di Giovan Galeazzo, cominciò Carlo duca di Orliens, figliuolo di Valentina, a pretendere alla successione di quello ducato; al quale (come l'ambizione de' príncipi è pronta ad abbracciare ogni apparente colore) pretendevano nel tempo medesimo e Federigo imperadore, come a stato che, estinta la linea nominata nella investitura fatta da Vincislao re de' romani a Giovan Galeazzo, fusse ricaduto allo imperio, e Alfonso re di Aragona e di Napoli, stato instituito erede nel testamento di Filippo. Ma essendo state piú potenti l'armi l'arti e la felicità di Francesco Sforza, il quale, per accompagnare l'armi con qualche apparenza di ragione, allegava dovere succedere Bianca sua moglie, figliuola unica ma naturale di Filippo, Carlo d'Orliens il quale, nelle guerre tra gl'inghilesi e i franzesi fatto prigione nella giornata di Dangicort, era dimorato venticinque anni prigione in Inghilterra, non potette per la povertà e per la mala fortuna sua tentare da se medesimo di ottenerla, né da Luigi undecimo re di Francia, benché congiuntissimo di sangue, impetrare mai aiuto alcuno; perché quel re, essendo stato nel principio del suo regnare molto infestato da' signori grandi del reame di Francia, i quali sotto titolo del bene publico gli congiurorno contro per interessi e sdegni privati, riputò sempre che per la bassezza de' potenti la sicurtà e la grandezza sua si confermasse. Per la quale ragione Luigi d'Orliens figliuolo di Carlo non potette, con tutto che fusse suo genero, impetrare da lui favore alcuno; e morto il suocero, non volendo tollerare che nel governo di Carlo ottavo, allora pupillo, gli fusse anteposta Anna duchessa di Borbone, sorella del re, suscitate con piccola fortuna in Francia cose nuove, passò, con fortuna minore, in Brettagna; perché, congiunto a quegli che non volevano che Carlo, per mezzo del matrimonio di Anna, erede, per la morte di Francesco suo padre senza figliuoli maschi, di quel ducato, conseguisse la Brettagna, anzi aspirando occultamente al medesimo matrimonio, fu preso nella giornata che tra' franzesi e i brettoni fu commessa appresso a Santo Albino in Brettagna, e, condotto in Francia, stette incarcerato due anni: in modo che, mancandogli la facoltà e, poi che per grazia regia fu liberato di prigione, gli aiuti di Carlo, non tentò quella impresa se non quando, per l'occasione di essere per commissione del re rimaso in Asti, entrò con poco successo in Novara. Ma diventato re di Francia, niuno desiderio ebbe piú ardente che d'acquistare, come cosa ereditaria, il ducato di Milano: nel quale desiderio nutritosi insino da puerizia, vi si era acceso molto piú perché, per le cose succedute a Novara e per le dimostrazioni insolenti che quando era in Asti gli erano state usate, aveva odio non mediocre contro a Lodovico Sforza. Però, pochi dí dopo la morte del re Carlo, con deliberazione stabilita nel suo consiglio, si intitolò non solamente re di Francia e, per rispetto del reame di Napoli, re di Ierusalem e dell'una e l'altra Sicilia, ma ancora duca di Milano; e per fare noto a ciascuno quale fusse la inclinazione sua alle cose d'Italia scrisse subito lettere congratulatorie della sua assunzione al pontefice a' viniziani a' fiorentini, e mandò uomini propri a dare speranza di nuove imprese, dimostrando espressamente d'avere nell'animo d'acquistare il ducato di Milano.

Alla quale cosa se gli presentava opportunità non piccola, - avendo la morte di Carlo causate negli italiani inclinazioni molto diverse dalle passate: perché il pontefice, stimolato dagli interessi propri, i quali conosceva non potere saziare stando quieta Italia, desiderava che le cose di nuovo si turbassino; e i viniziani, cessato il timore che per le ingiurie fatte a Carlo avevano avuto di lui, non erano d'animo alieno da confidarsi del nuovo re. La quale disposizione era per augumentarsi ogni dí piú, perché Lodovico Sforza, se bene conoscesse dovere avere piú duro e piú implacabile inimico, nutrendosi con la speranza con la quale si nutriva similmente Federigo d'Aragona che e' non potesse cosí presto attendere alle cose di qua da' monti, e impedito dallo sdegno presente a discernere il pericolo futuro non era per astenersi da opporsi loro nelle cose di Pisa. Soli i fiorentini cominciavano a discostarsi con l'animo dell'amicizia franzese: perché se bene il nuovo re fusse stato prima loro fautore, ora, pervenuto alla corona, non aveva con essi vincolo alcuno, né per fede data né per benefici ricevuti, come aveva avuto l'antecessore, per le capitolazioni fatte in Firenze e in Asti, e per l'avere voluto piú presto sottoporsi a molti affanni e pericoli che abbandonare la sua congiunzione; e la discordia che continuamente cresceva tra i viniziani e il duca di Milano era cagione che, essendo cessato il timore avuto delle forze de' collegati, e sperando piú nel favore propinquo e certo di Lombardia che ne' soccorsi lontani e incerti di Francia, avevano cagione di stimare manco quella amicizia.

Nella quale diversa disposizione degli animi furono medesimamente diversi gli andamenti. Perché dal senato viniziano fu mandato subito a lui uno segretario che avevano appresso al duca di Savoia; e per gittare con questi princípi i fondamenti da stabilire seco quella amicizia che alla giornata ricercassino le occorrenze comuni, furono eletti tre oratori che andassino a rallegrarsi della sua successione, e a scusare che quello che avevano fatto contro a Carlo non era proceduto da altro che da sospetto, nato poiché per molti segni compresono che, non contento al regno di Napoli, distendeva già i pensieri suoi all'occupazione di tutta Italia: e il pontefice, disposto di trasferire Cesare suo figliuolo dal cardinalato a grandezza secolare, alzato l'animo a maggiori pensieri e mandatigli subito imbasciadori, disegnò di vendergli le grazie spirituali, ricevendone per prezzo stati temporali; perché sapeva il re desiderare ardentemente di ripudiare Giovanna sua moglie, sterile e mostruosa e che quasi violentemente gli era stata data da Luigi undecimo, suo padre, né avere minore desiderio di pigliare per moglie Anna restata vedova per la morte del re passato, non tanto per le reliquie dell'antica inclinazione che insino innanzi alla giornata di Santo Albino era stata tra loro, quanto per conseguire con questo matrimonio il ducato di Brettagna, ducato grande e molto opportuno al reame di Francia; le quali cose ottenere senza l'autorità pontificale non si potevano: né i fiorentini mancorono di mandargli imbasciadori, per l'antico instituto di quella città con la corona di Francia, e per riconfermare seco i meriti loro e le obligazioni del re passato; sollecitati molto a questo medesimo dal duca di Milano, acciocché per mezzo loro si difficultassino le pratiche de' viniziani, avendosi dall'una e dall'altra republica a trattare delle cose di Pisa, e perché acquistando fede o autorità alcuna potessino usarla, con qualche occasione, a trattare concordia tra lui e il re di Francia, il che egli sommamente desiderava. I quali tutti furono lietamente raccolti dal re, e dato subitamente principio a trattare con ciascuno: benché gli fusse fisso nell'animo di non muovere cosa alcuna in Italia se prima non avesse assicurato il regno di Francia, per mezzo di nuove congiunzioni co' príncipi vicini.

Cap. ii

Lodovico Sforza delibera d'aiutare con l'armi i fiorentini a ricuperare Pisa. Rotta de' fiorentini nella valle di S. Regolo. Richieste d'aiuto a Lodovico Sforza. Lotta in terra di Roma tra Colonnesi ed Orsini e sua composizione. Lodovico Sforza aiuta scopertamente i fiorentini ed invano incita ad agire similmente il pontefice. Il duca di Milano s'adopera ad allontanare da' pisani quanti li sostengono.

Ma era fatale che lo incendio di Pisa, stato suscitato e nutrito dal duca di Milano per appetito immoderato di dominare, avesse finalmente ad abbruciare l'autore. Perché egli, e per l'emulazione e per il pericolo che dalla troppa grandezza de' viniziani vedeva soprastare a sé e agli altri d'Italia, non poteva pazientemente comportare che 'l frutto delle sue arti e fatiche fusse ricolto da loro; e avendo l'occasione della disposizione de' fiorentini, ostinati a non cessare per qualunque accidente dalle offese de' pisani, e parendogli per la caduta del Savonarola, e per la morte di Francesco Valori, che aveva tenuto le parti contrarie a lui, potere piú confidare di quella città che non aveva fatto per il passato, deliberò d'aiutare i fiorentini alla recuperazione di Pisa con l'armi, poiché le pratiche e l'autorità sua e degli altri non era stata bastante: persuadendosi vanamente o che, innanzi che dal re di Francia potesse essere fatto movimento alcuno, Pisa sarebbe, o per forza o per concordia, ridotta in potestà de' fiorentini o veramente che il senato viniziano, ritenuto da quella prudenza che non aveva potuto in se medesimo, non avesse mai, per sdegni e per cagioni anco importanti, a desiderare che con pericolo comune ritornassino l'armi franzesi in Italia, le quali si era tanto affaticato per cacciarne.

La quale imprudentissima deliberazione uno disordine che contro a' fiorentini succedette nel contado di Pisa gli fece accelerare. Perché avendo avuto notizia le genti loro, che erano al Pontadera, che circa settecento cavalli e fanti usciti di Pisa ritornavano con una grossa preda, fatta nella Maremma di Volterra, andorono quasi tutti, guidati dal conte Renuccio e da Guglielmo de' Pazzi commissario fiorentino, a tagliare loro la strada per ricuperarla; e avendogli riscontrati nella valle di Santo Regolo gli avevano messi in disordine e riavuta la maggiore parte della preda, quando sopragiunsono centocinquanta uomini d'arme, che per soccorrere i suoi erano partiti di Pisa poi che avevano inteso la mossa delle genti de' fiorentini: i quali, trovatigli stracchi e parte disordinati nel rubare, non potendo l'autorità del conte Renuccio ridurre i suoi uomini d'arme a fare testa, dopo essere stata fatta da' fanti qualche difesa, gli messono in fuga, morti molti fanti, presi molti de' capi e la maggiore parte de' cavalli; in modo che non senza difficoltà il commissario e il conte si salvorono in Santo Regolo, dando, come si fa nelle cose avverse, imputazione l'uno all'altro del disordine seguito. Afflisse questa rotta i fiorentini, i quali, per provedere subito al pericolo, né potendo armarsi sí presto d'altri soldati, ed essendo in mala riputazione e con la compagnia svaligiata il conte Renuccio, che era governatore generale delle genti loro, deliberorno di voltare a Pisa i Vitelli che erano nel contado d'Arezzo: ma furno necessitati concedere a Paolo il titolo di capitano generale del loro esercito. Costrinsegli ancora questo caso a ricercare con grande instanza aiuto dal duca di Milano: e tanto piú che, subito dopo la rotta, avevano supplicato al re di Francia che, per rimuovere con le forze e con l'autorità i loro pericoli, mandasse trecento lancie in Toscana, ratificasse la condotta, fatta vivente Carlo, de' Vitelli, provedendo per la porzione sua al pagamento, e confortasse i viniziani ad astenersi da offendergli; delle quali cose, perché il re non voleva farsi odioso o sospetto a' viniziani né muovere in Italia cosa alcuna se non quando volesse cominciare la guerra contro allo stato di Milano, avevano riportato parole grate senza effetti. Ma il duca non fu lento in questo bisogno, dubitando che i viniziani non pigliassino, con l'occasione della vittoria, tanto campo che fusse poi troppo difficile a reprimergli: e però, data a' fiorentini ferma intenzione di soccorrergli, volle prima risolvere con loro che provisioni fussino necessarie non solo a difendersi ma a condurre a fine l'impresa di Pisa.

Alla quale, perché per quell'anno non si temeva di moto alcuno del re di Francia, erano volti gli occhi di tutta Italia, quieta allora da ogni altra perturbazione: conciossiacosaché, se bene in terra di Roma si fussino prese l'armi tra i Colonnesi e gli Orsini, era la prudenza di loro medesimi stata presto superiore agli odii e alle inimicizie. L'origine fu che i Colonnesi e i Savelli, mossi dalla occupazione, fatta da Iacopo Conte di Torremattia, avevano assaltate le terre della famiglia de' Conti; e da altra parte gli Orsini, per la congiunzione delle fazioni, aveano prese l'armi in favore loro: di maniera che, essendosi occupate per l'una parte e per l'altra piú castella, combatterono finalmente insieme con tutte le forze a piè di Monticelli nel contado di Tivoli; dove dopo lunga e valorosa battaglia, stimolandogli non meno la passione ardente delle parti che la gloria e l'interesse degli stati, gli Orsini, che aveano dumila fanti e ottocento cavalli, furono messi in fuga, perderono le bandiere e restò prigione Carlo Orsino; e dalla parte de' Colonnesi fu ferito Antonello Savello assai chiaro condottiere, che ne morí pochi dí poi. Dopo il quale successo, il pontefice, mostrando essergli molesta la turbazione del paese propinquo a Roma, si interpose alla concordia: la quale mentre che con non troppo buona fede si tratta da lui, secondo la sua duplicità, gli Orsini, raccolte nuove forze, andorono a campo a Palombara terra principale de' Savelli; e si preparavano per andare a soccorrerla i Colonnesi, che dopo la vittoria avevano occupate molte castella de' Conti. Ma accortasi l'una parte e l'altra che 'l pontefice, dando animo ora a' Colonnesi ora agli Orsini, nutriva la guerra, per potere alla fine quando fussino consumati opprimergli tutti, si ridussono senza interposizione d'altri a parlamento insieme a Tivoli, dove il dí medesimo conchiusono l'accordo: per il quale fu liberato Carlo Orsino, restituite a ciascuno le terre tolte in questa contenzione, e la differenza de' contadi d'Albi e di Tagliacozzo rimessa nel re Federigo, del quale erano soldati i Colonnesi.

Posato presto questo movimento, né mescolandosi altre armi in Italia che nel contado di Pisa, il duca di Milano, benché da principio avesse deliberato di non dare aiuto scopertamente a' fiorentini ma sovvenirgli occultamente con danari, traportato ogni dí piú dallo sdegno e dal dispiacere, né astenendosi da parole insolenti e minatorie contro a' viniziani, determinò di dimostrarsi senza rispetto. Però negò il passo alle genti loro, le quali per la via di Parma e di Pontriemoli andavano a Pisa, necessitandole a passare per il paese del duca di Ferrara, cammino piú lungo e piú difficile; operò che Cesare comandò a tutti gli oratori che erano appresso a lui, eccetto quello de' re di Spagna, che si partissino, e che dopo pochi dí gli richiamò tutti eccetto il viniziano; mandò a' fiorentini trecento balestrieri, e concorse con loro alla condotta di trecento uomini d'arme, parte sotto il signore di Piombino parte sotto Gian Paolo Baglione; e in piú volte prestò loro piú di trentamila ducati, offerendo continuamente, quando fusse di bisogno, maggiori aiuti. Fece oltre a queste cose instanza col pontefice che, ricercato da' fiorentini, porgesse qualche sussidio. Il quale, dimostrando di conoscere che lo stabilirsi in Pisa i viniziani era pernicioso allo stato della Chiesa, promesse mandare loro cento uomini d'arme e tre galee sottili, le quali sotto il capitano Villamarina erano a' soldi suoi, per impedire che per mare non entrassino in Pisa vettovaglie; nondimeno, poiché con varie scuse ebbe differito il mandargli, lo negò alla fine apertamente, perché ogni dí piú, rimovendosi dagli altri pensieri, si risolveva a ristrignersi col re di Francia, sperando di conseguire per mezzo suo non premi mediocri e usitati ma il reame di Napoli: essendo spesso proprio degli uomini farsi facile con la voglia e con la speranza quello che con la ragione conoscono essere difficile. Ed era quasi fatale che in lui fussino origine a cose nuove le repulse de' parentadi avute da' re d'Aragona. Perché, innanzi che totalmente deliberasse di unirsi col re di Francia, aveva dimandato che al cardinale di Valenza, parato a rinunziare alla prima occasione al cardinalato, il re Federigo concedesse per moglie la figliuola, e in dote il principato di Taranto; persuadendosi che se il figliuolo, grande d'ingegno e d'animo, si insignorisse di uno membro tanto importante di quel reame, potesse facilmente, avendo in matrimonio una figliuola regia, avere occasione, con le forze e con le ragioni della Chiesa, di spogliare del regno il suocero, debole di forze ed esausto di danari, e dal quale erano alieni gli animi di molti de' baroni. La qual cosa benché fusse caldamente favorita dal duca di Milano, dimostrando a Federigo, con ragioni efficaci e poi con parole aspre, per mezzo di Marchesino Stanga, il quale mandò per questo a Roma e a Napoli imbasciadore, con quanto suo pericolo il pontefice, escluso di tale desiderio, precipiterebbe a congiugnersi col re di Francia, e ricordandogli quanta imprudenza e pusillanimità fusse, dove si trattava della salute del tutto, avere in considerazione la indegnità e non sapere sforzare se medesimo ad anteporre la conservazione dello stato alla propria volontà, nondimeno Federigo ricusò sempre ostinatamente: confessando che la alienazione del papa era per mettere in pericolo il suo reame, ma che conosceva anche che 'l dare la figliuola, col principato di Taranto, al cardinale di Valenza lo metteva in pericolo; e però de' due pericoli volere piú presto sottoporsi a quello nel quale si incorrerebbe piú onorevolmente, e che non nascerebbe da alcuna sua azione. Donde il papa, avendo voltato in tutto l'animo a unirsi col re di Francia, e desiderando che il medesimo facessino i viniziani, s'astenne per non gli offendere da favorire con l'armi i fiorentini.

I quali, inanimiti per gli aiuti sí pronti del duca di Milano e per la fama della virtú di Paolo Vitelli, non erano per pretermettere cosa alcuna, se bene l'impresa fusse riputata difficile: perché, oltre al numero l'esperienza e l'animo de' cittadini e contadini pisani, aveano in Pisa i viniziani quattrocento uomini d'arme e ottocento stradiotti e piú di dumila fanti, ed erano disposti a mandarvi forze maggiori; non essendo manco pronti degli altri, per l'onore publico, a sostenere i pisani coloro che da principio avevano contradetto che si accettassino in protezione. La deliberazione fatta con consiglio comune di Lodovico Sforza e de' fiorentini fu di augumentare talmente l'esercito che e' fusse potente a espugnare le terre del contado di Pisa, e di fare ogni opera perché tutti i vicini desistessino da dare favore a' pisani o da molestare, per ordine de' viniziani, da altre parti i fiorentini. Però, avendo Lodovico, prima che deliberasse di scoprirsi, condotto con dugento uomini d'arme a comune co' viniziani Giovanni Bentivogli, operò tanto che l'obligò, con lo stato di Bologna, a sé solo; e per confermarlo tanto piú, i fiorentini condussono Alessandro suo figliuolo. E perché, se i viniziani, che avevano in protezione il signore di Faenza, facessino dalla parte di Romagna qualche insulto, vi trovassino resistenza, condussono i fiorentini con cento cinquanta uomini d'arme Ottaviano da Riario signore d'Imola e di Furlí, che si reggeva ad arbitrio di Caterina Sforza sua madre; la quale seguitava senza rispetto alcuno le parti di Lodovico e de' fiorentini, mossa da piú cagioni ma specialmente per essersi maritata occultamente a Giovanni de' Medici, il quale il duca di Milano, non contento del governo popolare, desiderava di fare, insieme col fratello, grande in Firenze. Procurò medesimamente Lodovico co' lucchesi, co' quali aveva grandissima autorità, che non favorissino piú i pisani come sempre avevano fatto; il che se bene non osservorono in tutto, se ne astenneno assai per suo rispetto. Restavano i genovesi e i sanesi, inimici antichi de' fiorentini e tra' quali militavano le cagioni delle controversie, con questi per Montepulciano, con quegli per le cose di Lunigiana; e de' sanesi era da temere che acciecati dall'odio non dessino, come in altri tempi molte volte con danno proprio avevano fatto, comodità a ciascuno di turbare, per il loro stato, i fiorentini; e con tutto che a' genovesi, per l'antiche inimicizie, fusse molesto che i viniziani si confermassino in Pisa, nondimeno (come in quella città suole essere piccola cura del beneficio publico) comportavano a' pisani e a' legni de' viniziani il commercio delle loro riviere, per l'utilità che ne perveniva in molti privati, onde i pisani ricevevano grandissime comodità: però, per consiglio di Lodovico, furono da' fiorentini mandati a Genova e a Siena imbasciadori, per trattare per mezzo suo di comporre le controversie. Ma le pratiche co' genovesi non partorirono frutto alcuno, perché domandavano la cessione libera delle ragioni di Serezana, senza dare altro ricompenso che una semplice promessa di vietare a' pisani le comodità del paese loro; e a' fiorentini pareva la perdita sí certa e, a rispetto di questa, il guadagno sí piccolo e sí dubbio che ricusorono di comperare con questo prezzo la loro amicizia.

Cap. iii

I fiorentini riprendono piú attivamente la guerra contro Pisa. Fallite trattative fra i fiorentini e i veneziani riguardo a Pisa. I veneziani tentano inutilmente d'avere l'appoggio di Siena. Siena s'accorda con Firenze. Vani tentativi delle milizie veneziane di passare dalla Romagna in Toscana.

Ma mentre che queste cose in vari luoghi si trattano, l'esercito fiorentino, potente piú di cavalli che di fanti, uscí alla campagna sotto il nuovo capitano; e perciò i pisani, i quali dopo la vittoria di Santo Regolo avevano a piacimento loro scorso con gli stradiotti tutto il paese, si levorno da Ponte di Sacco, dove ultimatamente si erano accampati; e Paolo Vitelli, presa Calcinaia, soprastando ad aspettare provisione di piú fanti, messe un dí uno aguato presso a Cascina, dove si erano ridotte le genti viniziane, che, governate da Marco da Martinengo, non avevano né ubbidienza né ordine, per il quale ammazzò molti stradiotti e Giovanni Gradanico condottiere di genti d'arme, e fu fatto prigione Franco capo di stradiotti con cento cavalli. Per questo accidente le genti de' viniziani, non si assicurando piú di stare a Cascina, si ritirorono nel borgo di San Marco, aspettando che da Vinegia venissino nuove genti. Ma Paolo Vitelli, poiché fu proveduto di fanti, avendo fatto con le spianate segno di volere assaltare Cascina, e cosí credendo i pisani, passato all'improviso il fiume d'Arno, pose il campo al castello di Buti; avendo prima mandato tremila fanti a occupare i poggi vicini, e condottevi con copia grande di guastatori l'artiglierie per la via del monte, con maravigliosa difficoltà per l'asprezza del cammino. Prese Buti per forza, il secondo dí poi che ebbe piantate l'artiglierie. Fu eletta da Paolo questa impresa perché, giudicando che Pisa, nella quale era ostinazione inestimabile cosí nel popolo come ne' contadini che vi si erano ridotti dentro, e che già tutti per il lungo uso erano diventati sufficienti nella guerra, fusse impossibile a pigliare per forza, essendovi potenti gli aiuti de' viniziani e la città per se stessa molto forte di muraglia, ebbe per migliore consiglio attendere a consumarla che a sforzarla e, trasferendo la guerra in quella parte del paese che è dalla mano destra del fiume d'Arno, cercare di pigliare quegli luoghi e farsi padrone di quegli siti da' quali potesse essere impedito il soccorso che vi andasse per terra di paese forestiero; e però fatto, dopo l'espugnazione di Buti, uno bastione in sui monti che sono sopra a San Giovanni della Vena, andò a campo al bastione che presso a Vico Pisano avevano fatto i pisani, conducendovi con la medesima difficoltà l'artiglierie; e preso nel medesimo tempo tutto il Valdicalci e fatto sopra Vico, in luogo detto Pietradolorosa, un altro bastione per impedire che non vi entrasse soccorso alcuno, teneva oltre a questo assediata la fortezza della Verrucola. E perché i pisani, dubitando non fusse assaltata Librafatta e Valdiserchio, fussino manco arditi a discostarsi da Pisa, era il conte Renuccio fermatosi con altre genti in Valdinievole. E nondimeno, quattrocento fanti usciti di Pisa roppeno i fanti che negligentemente alloggiavano nella chiesa di San Michele per l'assedio della Verrucola. Ma Paolo, acquistato che ebbe il bastione, il quale si arrendé con facoltà di ridurre l'artiglierie a Vico Pisano, pose il campo a Vico Pisano, non da quella parte dove, quando egli vi era alla difesa, l'avevano posto i fiorentini ma di verso San Giovanni della Vena, donde si impediva il venirvi soccorso da Pisa; e avendo gittato in terra con l'artiglierie non piccola parte delle mura, quegli di dentro, disperandosi d'essere soccorsi, si arrenderono, salvo l'avere e le persone: spaventati da perseverare ostinatamente insino all'ultimo perché Paolo, quando espugnò Buti, aveva, per mettere terrore negli altri, fatto tagliare le mani a tre bombardieri tedeschi che vi erano dentro e usata la vittoria crudelmente. Preso Vico, ebbe subito occasione di un'altra prosperità. Perché le genti che erano in Pisa, sperando essere facile l'espugnare allo improviso il bastione di Pietradolorosa, vi si presentorono innanzi giorno con dugento cavalli leggieri e molti fanti, ma trovandovi resistenza maggiore di quello che si erano persuasi, vi perderono piú tempo che non avevano disegnato; in modo che essendosi, mentre davano l'assalto, scoperto Paolo in su quegli monti, il quale con una parte dell'esercito andava a soccorrerlo, ritirandosi verso Pisa scontrorno nella pianura verso Calci Vitellozzo, venuto in quello luogo con un'altra parte delle genti per impedire loro il ritorno: col quale mentre combatteno, sopravenendo Paolo, si messono in fuga, perduti molti cavalli e la maggiore parte de' fanti.

Ma in questo mezzo i fiorentini, avendo qualche indizio dal duca di Ferrara e da altri che i viniziani avevano inclinazione alla concordia, ma che vi si indurrebbono piú facilmente se, come pareva convenirsi alla degnità di tanta republica, si procedesse con loro con le dimostrazioni non come con eguali ma come con maggiori, mandorono, per tentare la loro disposizione, imbasciadori a Vinegia Guidantonio Vespucci e Bernardo Rucellai, due de' piú onorati cittadini della loro republica: la qual cosa si erano astenuti di fare insino a questo tempo, parte per non offendere l'animo del re Carlo parte perché, mentre si conobbono impotenti a opprimere i pisani, avevano giudicato dovere essere inutili i prieghi non accompagnati né con la riputazione né con le forze; ma ora che l'armi loro erano potenti in campagna, e il duca di Milano scoperto totalmente contro a' viniziani, non erano senza speranza d'avere a trovare qualche modo di onesta composizione. Però gl'imbasciadori, ricevuti onoratamente, introdotti al doge e al collegio, poi che ebbono scusato il non vi essere andati prima imbasciadori, per diversi rispetti nati dalla qualità de' tempi e da' vari accidenti della loro città, dimandorono liberamente che si astenessino dalla difesa di Pisa; dimostrando confidarsi di ottenere questa dimanda, perché la republica fiorentina non aveva dato loro causa di offenderla, e perché avendo il senato viniziano avuto sempre fama di giustissimo non vedevano dovesse partirsi dalla giustizia, la quale, essendo la base e il fondamento di tutte le virtú, era conveniente che a ogni altro rispetto fusse anteposta. Alla quale proposta rispose il doge essere la verità che da' fiorentini non avevano ricevuta in questi tempi ingiuria alcuna, né essere il senato entrato alla difesa di Pisa per desiderio di offendergli ma perché, avendo i fiorentini soli in Italia seguitata la parte franzese, il rispetto dell'utilità comune aveva indotto tutti i potenti della lega a dare la fede a' pisani di aiutargli a difendere la libertà; e che se gli altri si dimenticavano della fede data non volevano essi, contro al costume della loro republica, imitargli in cosa tanto indegna: ma che se si proponesse qualche modo mediante il quale si conservasse a' pisani la libertà, dimostrerebbeno a tutto il mondo che né cupidità particolare né rispetto alcuno dello interesse proprio era cagione di fargli perseverare nella difesa di Pisa. Disputossi poi per qualche dí quale potesse essere il modo da sodisfare all'una parte e all'altra; né volendo o i viniziani o gli oratori fiorentini proporne alcuno, furno contenti che lo imbasciadore de' re di Spagna, che gli confortava alla concordia, si interponesse tra loro: il quale avendo proposto che i pisani ritornassino alla divozione de' fiorentini non come sudditi ma per raccomandati, e con quelle medesime capitolazioni che erano state concedute alla città di Pistoia, come cosa media tra la servitú e la libertà, risposeno i viniziani non conoscere parte alcuna di libertà in una città nella quale le fortezze e l'amministrazione della giustizia fussino in potestà d'altri. Donde gli oratori fiorentini, non sperando di ottenere cosa alcuna, si partirono da Vinegia assai certi che i viniziani non abbandonerebbono se non per necessità la difesa di Pisa, dove continuamente mandavano gente.

Perché né da principio erano stati con molto timore dell'impresa de' fiorentini, considerando che per non si essere cominciata al principio della primavera non potevano stare molto tempo in campagna, essendo il paese di Pisa per la bassezza sua molto sottoposto all'acque; e perché, avendo soldato di nuovo sotto il duca d'Urbino, al quale detteno il titolo di governatore, e sotto alcuni altri condottieri cinquecento uomini d'arme, e avendo diverse intelligenze, avevano determinato, per divertire i fiorentini dall'offese de' pisani, di rompere la guerra in altro luogo; disegnando dipoi di fare muovere Piero de' Medici: per conforto del quale soldorono con dugento uomini d'arme Carlo Orsino e Bartolomeo d'Alviano. Né furono senza speranza di indurre Giovanni Bentivogli a consentire che la guerra si rompesse a' fiorentini dalla parte di Bologna. Perché il duca di Milano, sdegnato che nella condotta di Annibale suo figliuolo gli avesse anteposti i viniziani, e ricordandosi, per questa offesa nuova, delle ingiurie vecchie ricevute, secondo diceva, da lui quando Ferdinando duca di Calavria passò in Romagna, aveva tolto certe castella possedute per causa dotale da Alessandro suo figliuolo nel ducato di Milano; né si asteneva da aspreggiarlo con ogni dimostrazione: ma avendo pure finalmente, per intercessione de' fiorentini, restituite quelle castella, fu interrotto il disegno fatto di rompere la guerra da quella parte. Però si sforzorono i viniziani di disporre i sanesi a concedere che e' movessino l'armi per il territorio loro; e dava speranza di ottenerlo, oltre all'ordinaria disposizione contro a' fiorentini, la divisione che era in Siena tra' cittadini. Perché avendosi Pandolfo Petrucci con lo ingegno e astuzia sua arrogata autorità grande, Niccolò Borghesi suo suocero e la famiglia de' Belanti, a' quali era molesta la sua potenza, desideravano si concedesse il passo al duca d'Urbino e agli Orsini, i quali con quattrocento uomini d'arme dumila fanti e quattrocento stradiotti si erano fermati, per commissione de' viniziani alla Fratta nel contado di Perugia; e allegavano che il fare tregua co' fiorentini, come faceva instanza il duca di Milano e come confortava Pandolfo, non era altro che dare loro comodità di espedire le cose di Pisa, le quali spedite, sarebbono tanto piú potenti a offendergli: però doversi, traendo frutto delle occasioni, come appartiene agli uomini prudenti, stare costanti in non fare con loro altro accordo che pace, ricevendo la cessione delle ragioni di Montepulciano; la quale cessione sapevano i fiorentini essere ostinati a non volere fare, donde di necessità si inferiva il consentire a' viniziani, appresso a' quali avendo essi occupato il primo luogo della grazia, speravano facilmente abbassare l'autorità di Pandolfo. Il quale, essendosi per i conforti del duca di Milano fatto autore della opinione contraria, non ebbe piccola difficoltà a sostenere il suo parere; perché nel popolo poteva naturalmente l'odio de' fiorentini, ed era molto apparente la persuasione di potere con questo terrore ottenere la cessione di Montepulciano: la quale cupidità accompagnata dall'odio aveva piú forza che la considerazione, allegata da Pandolfo, de' travagli che seguiterebbono la guerra accostandola alla casa propria, e de' pericoli ne' quali col tempo gli condurrebbe la grandezza de' viniziani in Toscana. Di che diceva non essere necessario cercare gli esempli di altri: perché era fresca la memoria che l'essersi, l'anno mille quattrocento settantotto, aderiti a Ferdinando re di Napoli contro a' fiorentini, gli conduceva totalmente in servitú se Ferdinando, per la occupazione che Maumeth ottomanno fece nel regno di Napoli della città di Otranto, non fusse stato costretto a rivocare la persona di Alfonso suo figliuolo e le sue genti da Siena; senza che, per l'istorie loro potevano avere notizia che la medesima cupidità di offendere i fiorentini per mezzo del conte di Virtú, e lo sdegno conceputo per conto del medesimo Montepulciano, era stato cagione che da se stessi gli avessino sottomessa la propria patria. Le quali ragioni, benché vere, non essendo bastanti a reprimere l'ardore e gli affetti loro, non stava senza pericolo che dagli avversari suoi non si suscitasse qualche tumulto. Se non che egli, prevenendo, tirò allo improviso in Siena molti amici suoi del contado, e operò che nel tempo medesimo i fiorentini mandorono al Poggio Imperiale trecento uomini d'arme e mille fanti; con la riputazione delle quali forze raffrenato l'ardire degli avversari, ottenne che si facesse tregua per cinque anni co' fiorentini: i quali, preponendo il timore de' pericoli presenti al rispetto della dignità, si obligorono a disfare una parte del ponte a Valiano e a fare gittare in terra il bastione tanto molesto a' sanesi; concedendo oltre a questo che i sanesi, fra certo tempo, potessino edificare qualunque fortezza volessino tra il letto delle Chiane e la terra di Montepulciano. Per il quale accordo diventato maggiore Pandolfo, poté poco poi fare ammazzare il suocero, che troppo arditamente attraversava i suoi disegni; e tolto via questo emulo e spaventati gli altri, confermarsi ogni dí piú nella tirannide.

Privati per questa concordia i viniziani della speranza di divertire, per la via di Siena, i fiorentini dalla impresa contro a' pisani, né avendo potuto ottenere da' perugini di muovere l'armi per il territorio loro, deliberorono di turbargli dalla parte di Romagna; sperando di occupare facilmente, col favore e aderenze vecchie che vi aveva Piero de' Medici, i luoghi tenuti da loro nello Apennino. Però, ottenuto dal piccolo signore di Faenza il passo per la valle di Lamone, con una parte delle genti che avevano in Romagna, con le quali si congiunseno Piero e Giuliano de' Medici, occuporono il borgo di Marradi posto in su lo Apennino, da quella parte che guarda verso Romagna; dove non ebbono resistenza perché Dionigi di Naldo, uomo della medesima valle, soldato con trecento fanti da' fiorentini perché insieme co' paesani lo difendesse, menò seco sí pochi fanti che non ebbe ardire di fermarvisi: e si accamporono alla rocca di Castiglione, che è in luogo eminente sopra al borgo predetto, sperando di ottenerla, se non per altro modo, per il mancamento che sapevano esservi di molte cose e specialmente d'acqua; e ottenendola rimaneva libera la facoltà di passare nel Mugello, paese vicino a Firenze. Ma alle piccole provisioni che vi erano dentro supplí la costanza del castellano, e al mancamento dell'acqua l'aiuto del cielo: perché una notte piovve tanto che, ripieni tutti i vasi e citerne, restorono liberi da questa difficoltà; e in questo mezzo il conte Renuccio, col signore di Piombino e alcuni piccoli condottieri, accostatosi per la via di Mugello in luogo propinquo agli inimici, gli costrinse a ritirarsi quasi fuggendo, perché facendo fondamento nella prestezza non erano andati a quella impresa molto potenti; e già il conte di Gaiazzo, mandato dal duca di Milano a Cotignuola con trecento uomini d'arme e mille fanti, e il Fracassa soldato del medesimo duca, che con cento uomini d'arme era a Furlí, si ordinavano per andare loro alle spalle. Però, volendo evitare questo pericolo, andorono a unirsi col duca d'Urbino, che si era partito del perugino, e con l'altre genti de' viniziani, le quali tutte insieme erano alloggiate tra Ravenna e Furlí, con poca speranza di alcuno progresso; essendo, oltre alle forze de' fiorentini, in Romagna cinquecento uomini d'arme cinquecento balestrieri e mille fanti del duca di Milano, e importando molto l'ostacolo d'Imola e di Furlí.

Cap. iv

Paolo Vitelli toglie nuove terre a' pisani. Il marchese di Mantova passa dagli stipendi di Lodovico Sforza a quelli dei veneziani, e quindi sdegnato per la lentezza di questi ritorna col duca di Milano. L'Alviano occupa Bibbiena. I fiorentini per difendere il Casentino ritirano milizie dal contado di Pisa. I fiorentini riconquistano terre del Casentino. Maggiore stanchezza a Venezia per la guerra di Pisa e tentativi di accordi.

Ma in questo mezzo Pagolo Vitelli, poiché dopo lo acquisto di Vico Pisano ebbe, per mancamento delle provisioni necessarie, soggiornato qualche dí, continuando nella medesima intenzione di impedire a' pisani la facilità del soccorso, si era indirizzato alla impresa di Librafatta; e per accostarvisi da quella parte della terra che era piú debole, e fuggire le molestie che potessino essere date allo esercito impedito da artiglierie e carriaggi, lasciata la via che per i monti scende nel piano di Pisa e quella che per il piano di Lucca gira alle radici del monte, fatta con moltitudine grande di guastatori una nuova via per i monti, ed espugnato per il cammino, il dí medesimo, il bastione di Montemaggiore fatto da' pisani in sulla sommità del monte, scese sicurissimamente nel piano di Librafatta. Alla quale accostatosi il dí seguente, e necessitati facilmente ad arrendersi i fanti messi a guardia di Potito e Castelvecchio, due torri distanti l'una dopo l'altra per piccolo spazio da Librafatta, piantò dalla seconda torre e da altri luoghi l'artiglierie contro alla terra, bene proveduta e guardata perché vi erano dugento fanti de' viniziani; da' quali luoghi battendo la muraglia da alto e da basso, sperò il primo dí di espugnarla: ma essendo per avventura ruinato uno arco della muraglia, quello ruinando, la notte, alzò quattro braccia il riparo cominciatovi; in modo che Paolo, avendo tentato invano tre dí di salirvi con le scale, cominciò del successo non mediocremente a dubitare, ricevendo l'esercito molti danni da una artiglieria di dentro che tirava per una bombardiera bassa. Ma fu la industria e virtú sua aiutata dal beneficio della fortuna, senza il favore della quale sono spesso fallaci i consigli de' capitani; perché da uno colpo d'artiglieria di quelle del campo fu rotta quella bombarda e ammazzato uno de' migliori bombardieri che fusse dentro, e passò la palla per tutta la terra. Dal qual caso spaventati, perché per l'artiglieria piantata alla seconda torre difficilmente potevano affacciarsi, si arrenderono il quarto dí, e poco poi la rocca, aspettati pochi colpi d'artiglieria, fece il medesimo. Acquistata Librafatta, attese a fare alcuni bastioni in sui monti vicini; ma sopra tutti uno forte e capace di molti uomini sopra Santa Maria in Castello, chiamato, dal monte in sul quale fu posto, il bastione della Ventura, il quale scorreva tutto il paese circostante, e dove è fama esserne anticamente stato fabricato un altro da Castruccio lucchese, capitano nobilissimo de' tempi suoi, acciocché, guardandosi questo e Librafatta, restassino impedite le comodità che, per la via di Lucca e di Pietrasanta, potessino andare a Pisa.

Ma non cessavano i viniziani di pensare a ogni rimedio per sollevare, ora per via di soccorso ora con diversione, quella città; della qual cosa potere fare accrebbono loro speranza le difficoltà che nacqueno tra il duca di Milano e il marchese di Mantova, condottosi di nuovo col duca. Il quale, per non privare del titolo di capitano generale delle sue genti Galeazzo da San Severino, maggiore appresso a lui per favore che per virtú, aveva promesso al marchese di dargli infra tre mesi titolo di capitano suo generale, a comune o con Cesare o col pontefice o col re Federigo o co' fiorentini; il che non avendo eseguito nel termine promesso, perché medesimamente a questo Galeazzo repugnava, e aggiugnendosi difficoltà per cagione de' pagamenti, il marchese voltò l'animo a ritornare agli stipendi de' viniziani, i quali trattavano di mandarlo con trecento uomini d'arme a soccorrere Pisa: il che presentendo Lodovico lo dichiarò, con consentimento di Galeazzo, capitano suo e di Cesare. Ma già il marchese andato a Vinegia, e dimostrata al senato grandissima confidenza di entrare in Pisa nonostante l'opposizione delle genti de' fiorentini, si era ricondotto con loro; e ricevuta parte de' denari e ritornato a Mantova attendeva a mettersi in ordine, e sarebbe entrato presto in cammino se i viniziani avessino usata la medesima celerità nello espedirlo che avevano usata nel condurlo: alla quale cosa cominciorno a procedere lentamente perché, essendo stata di nuovo data loro speranza di entrare, per mezzo di uno trattato tenuto da certi seguaci antichi de' Medici, in Bibbiena, castello del Casentino, giudicavano che, per la difficoltà del passare a Pisa, fusse piú utile attendere alla diversione che al soccorso. Dalla quale tardità il marchese sdegnato, di nuovo si ricondusse con Lodovico con trecento uomini d'arme e con cento cavalli leggieri, con titolo di capitano generale cesareo e suo; ritenendo a conto degli stipendi vecchi i danari avuti da loro.

Non era stata senza qualche sospetto de' fiorentini la pratica di questo trattato, anzi, oltre a molte notizie avutene generalmente, ne avevano non molti dí innanzi ricevuto avviso piú particolare da Bologna. Ma sono inutili i consigli diligenti e prudenti quando l'esecuzione procede con negligenza e imprudenza. Il commissario, il quale per assicurarsi da questo pericolo subito vi mandorono, poi che ebbe ritenuti quegli de' quali si aveva maggiore sospetto e che erano consci della cosa, prestata imprudentemente fede alle parole loro, gli rilasciò; e nell'altre azioni fu sí poco diligente che fece facile il disegno all'Alviano, deputato alla esecuzione di questo trattato. Perché avendo mandati innanzi alcuni cavalli in abito di viandanti, i quali, dopo avere cavalcato tutta la notte, giunti in sul fare del dí alla porta l'occuporono senza difficoltà, non avendo il commissario postavi guardia alcuna, né almeno proveduto che la si aprisse piú tardi che non era consueto aprirsi ne' tempi non sospetti, dietro a questi sopravenneno di mano in mano altri cavalli, che avevano per il cammino data voce di essere gente de' Vitelli; e levatisi in loro favore i congiurati, si insignorirno presto di tutta la terra. E il medesimo dí vi arrivò l'Alviano, il quale, benché con poca gente, come per sua natura spingeva con incredibile celerità sempre innanzi le occasioni, andò subito ad assaltare Poppi castello principale di tutta quella valle: ma trovatavi resistenza si fermò a occupare i luoghi vicini a Bibbiena, benché piccoli e di piccola importanza.

È il paese di Casentino, per mezzo del quale discorre il fiume d'Arno, paese stretto sterile e montuoso, situato a piè dell'alpi dell'Apennino, cariche allora, per essere il principio della vernata, di neve, ma passo opportuno ad andare verso Firenze, se all'Alviano fusse succeduto felicemente l'assalto di Poppi, né meno opportuno a entrare nel contado di Arezzo e nel Valdarno, paesi che per essere pieni di grosse terre e castella erano molto importanti allo stato de' fiorentini. I quali, non negligenti in tanto pericolo, fatta subito provisione in tutti i luoghi dove era di bisogno, oppressono uno trattato che si teneva in Arezzo; e stimando piú che altro lo impedire che i viniziani non mandassino nel Casentino nuove genti, levato di quel di Pisa il conte Renuccio lo mandorono subito a occupare i passi dell'Apennino, tra Valdibagno e la Pieve a Santo Stefano: e nondimeno non potettono proibire che il duca d'Urbino, Carlo Orsino e altri condottieri non passassino; i quali, avendo in quella valle settecento uomini d'arme e seimila fanti e tra questi qualche numero di fanti tedeschi, occuporono da pochi luoghi in fuora tutto il Casentino, e di nuovo tentorono, ma invano, di pigliare Poppi. Però furono necessitati i fiorentini, secondo che era stato lo intento proprio de' viniziani, a volgervi del contado di Pisa Pagolo Vitelli con le sue genti, lasciando con guardia sufficiente le terre importanti e il bastione della Ventura: per la giunta del quale nel Casentino i capitani viniziani, che si erano mossi per accamparsi il dí medesimo intorno a Pratovecchio, si ritirorono.

Venuto Pagolo Vitelli nel Casentino e unitosi seco il Fracassa, mandato dal duca di Milano con cinquecento uomini d'arme e cinquecento fanti in favore de' fiorentini, ridusse presto in molte difficoltà gli inimici, sparsi in molti luoghi per la strettezza degli alloggiamenti e perché, per lasciarsi aperta la strada dell'entrare e dell'uscire del Casentino, erano necessitati guardare i passi della Vernia di Chiusi, e di Montalone, luoghi alti in su l'alpi; e rinchiusi, in tempo asprissimo, in quella valle, non aveano speranza di fare piú, né quivi né in altra parte, progresso alcuno: perché in Arezzo si era fermato con dugento uomini d'arme il conte Renuccio; e nel Casentino, poiché non era riuscito da principio l'occupare Poppi, né faceva momento alcuno il nome de' Medici avendo inimici gli uomini del paese, nel quale si possono difficilmente adoperare i cavalli, avevano innanzi alla venuta de' Vitelli ricevuto già molti danni da' paesani. E però, intesa la venuta loro e del Fracassa, rimandata di là dall'alpi una parte de' carriaggi e dell'artiglierie, ristrinsono insieme, quanto comportava la natura de' luoghi, le genti loro. Contro a' quali il Vitello deliberò servare la sua consuetudine, che era piú tosto, per ottenere piú sicuramente la vittoria, non avere rispetto né a lunghezza di tempo né al pigliare molte fatiche, né volere, per risparmiare la spesa, procedere senza molte provisioni, che, per acquistare la gloria di vincere con facilità e acceleratamente, mettere in pericolo insieme col suo esercito l'evento della cosa. Perciò fu nel Casentino il consiglio suo non andare subito a ferire i luoghi piú forti ma sforzarsi di fare da principio abbandonare agli inimici i piú deboli, e chiudere i passi dell'alpi e gli altri passi del paese con guardie con bastioni con tagliate di strade e altre fortificazioni, acciocché non potessino essere soccorsi da nuove forze né avessino facoltà di aiutare da un luogo quegli che erano nell'altro; sperando, con questo procedere, avere occasione di opprimerne molti, e che 'l numero maggiore che era in Bibbiena, se non per altro, per le incomodità de' cavalli e per mancamento di vettovaglie si consumerebbe. Col quale consiglio avendo recuperato alcuni luoghi vicini a Bibbiena, poco importanti per se stessi ma opportuni alla intenzione con la quale aveva presupposto di vincere la guerra, e facendo ogni dí maggiore progresso, svaligiò molti uomini d'arme alloggiati in certe piccole terre vicine a Bibbiena; e per impedire il cammino alle genti de' viniziani che per soccorrere i suoi si congregavano di là dalle alpi, attese a occupare tutti i luoghi che sono attorno al monte della Vernia, e a fare tagliate a tutti i passi circostanti: di maniera che, crescendo continuamente le difficoltà degli inimici e la carestia del vivere, molti di loro alla sfilata si partivano; i quali quasi sempre, per l'asprezza de' passi, erano o da' paesani o da' soldati svaligiati.

Questi erano i progressi dell'armi tra i viniziani e i fiorentini: e in questo tempo medesimo, con tutto che gli imbasciadori fiorentini si fussino senza speranza alcuna di concordia partiti da Vinegia, nondimeno si teneva a Ferrara nuova pratica di composizione, proposta dal duca di Ferrara per opera de' viniziani; perché già molti e di maggiore autorità di quel senato, stracchi dalla guerra che si sostentava con gravi spese e con molte difficoltà, e perduta la speranza di avere maggiori successi nel Casentino, desideravano liberarsi dalle molestie della difesa di Pisa, pure che si trovasse modo che con onesto colore potessino rimuoversene.

Cap. v

Accordi fra il pontefice e il re di Francia. Il re di Francia fa e conferma trattati coi re di Spagna, d'Inghilterra, con Cesare e coll'arciduca e cerca l'alleanza de' veneziani e de' fiorentini.

Ma mentre che in Italia sono per le cose di Pisa questi travagli, non cessava il nuovo re di Francia di andarsi ordinando per assaltare l'anno seguente lo stato di Milano, con speranza d'avere seco congiunti i viniziani; i quali, infiammati da odio incredibile contro al duca di Milano, trattavano strettamente col re. Ma piú strettamente trattavano insieme il re e il pontefice. Il quale, escluso del parentado di Federigo, e continuando la medesima cupidità del regno di Napoli, voltato tutto l'animo alle speranze franzesi, cercava di ottenere da quel re per il cardinale di Valenza Ciarlotta figliuola di Federigo, che non ricevuto ancora marito continuava di nutrirsi nella corte di Francia. Di che avendogli data speranza il re, in arbitrio del quale pareva che fusse il maritarla, il cardinale entrato una mattina in concistorio supplicò al padre e agli altri cardinali che, atteso il non avere avuto mai l'animo inclinato alla professione sacerdotale, gli concedessino facoltà di lasciare la degnità e l'abito, per seguitare quello esercizio al quale era tirato da' fati. E cosí, preso l'abito secolare, si preparava ad andare presto in Francia; avendo già il pontefice promesso al re la facoltà di fare con l'autorità apostolica il divorzio con la moglie, e il re da altra parte obligatosi ad aiutarlo, come prima avesse acquistato lo stato di Milano, a ridurre alla ubbidienza della sedia apostolica le città possedute da' vicari di Romagna, e a pagargli di presente trentamila ducati, sotto colore di essere necessitato tenere per sua custodia maggiori forze, come se il congiugnersi col re fusse per muovere molti in Italia a cercare insidiosamente di opprimerlo: per esecuzione delle quali convenzioni, e il re cominciò a pagare i danari e il pontefice commesse la causa del divorzio al vescovo di Setta suo nunzio e a [gli arcivescovi di Parigi e di Roano]. Nel quale giudicio, per suoi procuratori, contradiceva da principio la moglie del re; ma finalmente, avendo non meno a sospetto i giudici che la potenza dello avversario, si convenne con lui di cedere alla lite, ricevendo per sostentazione della sua vita la ducea di Berrí con trentamila franchi di entrata: e cosí, confermato il divorzio per sentenza de' giudici, non si aspettava, per la dispensa e consumazione del nuovo matrimonio, altro che la venuta di Cesare Borgia; diventato già, di cardinale e di arcivescovo di Valenza, soldato e duca Valentino, perché il re gli aveva data la condotta di cento lancie e ventimila franchi di provisione, e concedutogli, con titolo di duca, Valenza città del Dalfinato con ventimila franchi di entrata. Il quale, imbarcatosi a Ostia in su' navili mandatigli dal re, si condusse alla fine dell'anno alla corte, dove entrò con pompa e con fasto incredibile, ricevuto dal re onoratissimamente; e portò seco il cappello del cardinalato a Giorgio di Ambuosa arcivescovo di Roano, il quale, stato primo partecipe de' pericoli e della mala fortuna del re, era appresso a lui di somma autorità. E nondimeno nel principio non era grato il procedere suo, perché, seguitando il consiglio paterno, negava d'avere portato seco la bolla della dispensa, sperando che il desiderio dell'ottenerla avesse a fare il re piú facile a' disegni suoi che non farebbe la memoria di averla ricevuta. Ma essendo al re rivelata secretissimamente dal vescovo di Setta la verità, egli, parendogli che in quanto a Dio bastasse l'essere stata espedita la bolla, senza piú domandarla, consumò apertamente il matrimonio con la nuova moglie: il che fu causa che il duca Valentino, non potendo piú ritenergli la bolla, e avendo poi risaputo essere stata manifestata questa cosa dal vescovo di Setta, lo fece in altro tempo morire occultamente di veleno.

Né era meno sollecito il re a quietarsi co' príncipi vicini. Però fece pace co' re di Spagna; i quali, deponendo i pensieri delle cose d'Italia, non solo richiamorono tutti gl'imbasciadori che vi tenevano, eccetto quello che risedeva appresso al pontefice, ma feceno ritornare Consalvo con tutte le genti loro in Ispagna, rilasciate a Federigo tutte le terre di Calavria che insino a quel dí aveva tenute. Maggiore difficoltà era nella concordia col re de' romani, il quale, con l'occasione di alcune sollevazioni nate nel paese, era entrato nella Borgogna, aiutato a questo effetto di non piccola somma di danari dal duca di Milano, che si persuadeva o che la guerra di Cesare divertirebbe il re di Francia dalle imprese d'Italia o che, facendosi concordia tra loro, vi sarebbe compreso, come da Cesare aveva certissime promesse; ma dopo lunghe pratiche e agitazioni il re fece nuova pace con l'arciduca rendendogli le terre del contado di Artois, la qual cosa perché avesse effetto, in beneficio del figliuolo, consentí il re de' romani di fare tregua con lui per piú mesi, senza menzione del duca di Milano, col quale pareva in questo tempo sdegnato, perché non aveva sempre sodisfatto alle domande sue infinite di danari. Aveva oltre a queste cose il re confermata la pace fatta dallo antecessore suo col re d'Inghilterra: e rifiutando tutte le pratiche che gli erano state proposte di ricevere a qualche composizione il duca di Milano, che con grandissime offerte e usando grandissime corruttele si sforzava di indurvelo, cercava di congiugnere seco in uno tempo medesimo i viniziani e i fiorentini; e però faceva grandissima instanza che, levate l'offese contro a' pisani, i viniziani dipositassino Pisa in sua mano, e perché i fiorentini vi consentissino offeriva secretamente di restituirla loro fra breve tempo. La quale pratica, piena di molte difficoltà e concorrendovi diversi fini e interessi, fu per molti mesi trattata variamente. Perché i fiorentini, essendo necessario che in tal caso si collegassino col re di Francia, e dubitando per la memoria delle promesse non osservate dal re Carlo che 'l medesimo non intervenisse al presente, non convenivano tra loro in uno medesimo parere; perché la città agitata tra l'ambizione de' cittadini maggiori e la licenza del governo popolare, e accostatasi per la guerra di Pisa al duca di Milano, era intra se medesima divisa in modo che con difficoltà le cose di momento si deliberavano concordemente, avendo massime alcuni de' principali cittadini desiderio della vittoria del re di Francia altri in contrario inclinando al duca di Milano: e i viniziani, quando bene fussino risolute tutte l'altre difficoltà dello accordarsi col re, erano deliberati di non consentire al diposito, sperando che, e nel ristoro delle spese fatte per sostenere Pisa e nel lasciare la difesa di Pisa con minore suo disonore, arebbono migliori condizioni nella pratica che si teneva a Ferrara; la quale da Lodovico Sforza era caldamente sollecitata, per timore che, conchiudendosi in Francia il diposito, non si unissino col re amendue queste republiche e per la speranza che, componendosi questa controversia in Italia, i viniziani avessino a deporre i pensieri di offenderlo. Per il quale rispetto e al re di Francia dispiaceva la pratica di Ferrara e il pontefice, per trarre profitto degli affanni d'altri, cercava indirettamente di perturbarla; perché essendo appresso al re in tutte le cose d'Italia in grandissima autorità, sperava in qualche modo, se il diposito nel re andava innanzi, avervi partecipazione.

cap.6

Discussione a Venezia nel consiglio de' pregati intorno all'invito d'alleanza del re di Francia contro Lodovico Sforza. Deliberazioni prese da' veneziani. Conclusione della confederazione fra il re di Francia ed i veneziani.

Ma a Vinegia, in questo tempo medesimo, si consultava se, rimovendosi il re dalla dimanda del diposito alla quale aveano deliberato non consentire, dovessino collegarsi seco a offesa del duca di Milano, come egli con grandissima instanza ricercava, offerendo di consentire che, in premio della vittoria, conseguissino la città di Cremona e tutta la Ghiaradadda: la quale cosa benché da tutti fusse sommamente desiderata, nondimeno a molti pareva deliberazione di tanto momento, e tanto pericolosa allo stato loro la potenza del re di Francia in Italia, che nel consiglio de' pregati, che appresso a loro ottiene il luogo del senato, se ne facevano varie disputazioni. Nel quale essendo uno giorno convocati per farne l'ultima determinazione [Antonio Grimanno], uomo di grande autorità, parlò in questa sentenza:

- Quando io considero, prestantissimi senatori, la grandezza de' benefizi fatti a Lodovico Sforza dalla nostra republica, la quale in questi anni prossimi gli ha conservato tante volte lo stato, e per contrario quanta sia la ingratitudine usata da lui, e le ingiurie gravissime che ci ha fatte per costrignerci ad abbandonare la difesa di Pisa, alla quale prima ci aveva confortati e stimolati, non posso persuadermi che non si conosca per ciascuno essere necessario fare ogni opera possibile per vendicarcene. Perché quale infamia potrebbe essere maggiore che, tollerando pazientemente tante ingiurie, mostrarci a tutto il mondo dissimili dalla generosità de' nostri maggiori? i quali, qualunque volta provocati da offese benché leggiere, non ricusorono mai di mettersi a pericolo per conservare la dignità del nome viniziano; e ragionevolmente, perché le deliberazioni delle republiche non ricercano rispetti abietti e privati, né che tutte le cose si riferischino all'utilità, ma fini eccelsi e magnanimi per i quali si augumenti lo splendore loro e si conservi la riputazione, la quale nessuna cosa piú spegne che il cadere nel concetto degli uomini di non avere animo o possanza di risentirsi delle ingiurie, né di essere pronto a vendicarsi: cosa sommamente necessaria, non tanto per il piacere della vendetta quanto perché la penitenza di chi ti ha offeso sia tale esempio agli altri che non ardischino provocarti. Cosí viene in conseguenza congiunta la gloria con l'utilità, e le deliberazioni generose e magnanime riescono anche piene di comodità e di profitto; cosí una molestia ne leva molte, e spesso una sola e breve fatica ti libera da molte e lunghissime. Benché se noi consideriamo lo stato delle cose d'Italia, la disposizione di molti príncipi contro a noi, e le insidie le quali continuamente si ordinano per Lodovico Sforza, conosceremo che non manco la necessità presente che gli altri rispetti ci conduce a questa deliberazione. Perché egli, stimolato dalla sua naturale ambizione e dall'odio che ha contro a questo eccellentissimo senato, non vegghia non attende ad altro che a disporre gli animi di tutti gli italiani, che a concitarci contro il re de' romani e la nazione tedesca: anzi già comincia per il medesimo effetto a tenere pratiche col turco. Già vedete per opera sua con quante difficoltà, e quasi senza speranza, si sostenga la difesa di Pisa e la guerra nel Casentino, la quale se si continua incorriamo in gravissimi disordini e pericoli, se si abbandona senza fare altro fondamento alle cose nostre è con tanta diminuzione di riputazione che si accresce troppo l'animo di chi ha volontà di opprimerci: e sapete quanto è piú facile opprimere chi ha già cominciato a declinare che chi ancora si mantiene nel colmo della sua riputazione. Delle quali cose apparirebbono chiarissimamente gli effetti, e si sentirebbe presto lo stato nostro essere pieno di tumulti e di strepiti di guerra, se il timore che noi non ci congiugniamo col re di Francia non tenesse sospeso Lodovico: timore che non può lungamente tenerlo sospeso. Perché chi è quello che non conosca che il re, escluso dalla speranza della nostra confederazione, o si implicherà in imprese di là da' monti o, vinto dalle arti di Lodovico dalle corruttele e mezzi potentissimi che ha nella sua corte, farà qualche composizione con lui? Strigneci adunque a unirci col re di Francia la necessità di mantenere l'antica degnità e gloria nostra, ma molto piú il pericolo imminente e gravissimo che non si può fuggire con altro modo. E in questo ci si dimostra molto propizia la fortuna, poiché ci fa ricercare da uno tanto re di quel che aremmo a ricercarlo noi; offerendoci piú oltre sí grandi e sí onorati premi della vittoria, per i quali può questo senato proporsi alla giornata grandissime speranze, fabbricare ne' suoi concetti grandissimi disegni, ottenendosi massime con tanta facilità; perché chi dubita che da Lodovico Sforza non potrà essere a due potenze sí grandi e sí vicine fatta alcuna resistenza? Dalla quale deliberazione, se io non mi inganno, non debbe già rimuoverci il timore che la vicinità del re di Francia, acquistato che arà il ducato di Milano, ci diventi pericolosa e formidabile. Perché chi considera bene conoscerà che molte cose che ora ci sono contrarie allora ci saranno favorevoli; conciossiaché uno augumento tale di quel re insospettirà gli animi di tutta Italia, irriterà il re de' romani e la nazione germanica per la emulazione e per lo sdegno che sia occupato da lui uno membro sí nobile dello imperio; in modo che quegli che noi temiamo che ora non siano congiunti con Lodovico a offenderci desidereranno allora, per l'interesse proprio, di conservarci e di essere congiunti con noi; ed essendo grande per tutto la riputazione del nostro dominio, grande la fama delle nostre ricchezze, e maggiore l'opinione, confermata con sí spessi e illustri esempli, della nostra unione e costanza alla conservazione del nostro stato, non ardirà il re di Francia di assaltarci se non congiunto con molti, o almeno col re de' romani: l'unione de' quali è per molte cagioni sottoposta a tante difficoltà che è cosa vana il prenderne o speranza o timore. Né la pace che ora spera d'ottenere da' príncipi vicini di là da' monti sarà perpetua, ma la invidia le inimicizie il timore del suo augumento desterà tutti quegli che hanno seco odio o emulazione. E è cosa notissima quanto i franzesi siano piú pronti ad acquistare che prudenti a conservare quanto per l'impeto e insolenza loro diventino presto esosi a' sudditi. Però, acquistato che aranno Milano, aranno piú tosto necessità di attendere a conservarlo che comodità di pensare a nuovi disegni; perché uno imperio nuovo non bene ordinato né prudentemente governato aggrava, piú presto che e' faccia piú potente, chi l'acquista: di che quale esempio è piú fresco e piú illustre che l'esempio della vittoria del re passato? contro al quale si convertí in sommo odio il desiderio incredibile con che era stato ricevuto nel reame di Napoli. Non è adunque né sí certo né tale il pericolo, che ci può dopo qualche tempo pervenire della vittoria del re di Francia, che per fuggirlo abbiamo a volere stare in uno pericolo presente e di grandissimo momento; e il rifiutare, per timore di pericoli futuri e incerti, sí ricca parte e sí opportuna del ducato di Milano non si potrebbe attribuire ad altro che a pusillanimità e abiezione di animo, vituperabile negli uomini privati non che in una republica piú potente e piú gloriosa che, dalla romana in fuora, sia stata giammai in parte alcuna del mondo. Sono rare e fallaci l'occasioni sí grandi, ed è prudenza e magnanimità, quando si offeriscono, l'accettarle e, per contrario, sommamente reprensibile il perderle; e la troppa curiosa sapienza e troppo consideratrice del futuro è spesso vituperabile, perché le cose del mondo sono sottoposte a tanti e sí vari accidenti che rare volte succede per l'avvenire quel che gli uomini eziandio savi si hanno immaginato avere a essere; e chi lascia il bene presente per timore del pericolo futuro, quando non sia pericolo molto certo e propinquo, si truova spesso, con dispiacere e infamia sua, avere perduto l'occasioni piene di utilità e di gloria, per paura di quegli pericoli che poi diventano vani. Per le quali ragioni il parere mio sarebbe che si accettasse la confederazione contro al duca di Milano, perché ci arreca sicurtà presente, estimazione appresso a tutti i potentati, e acquisto tanto grande che altre volte cercheremmo, e con travagli e spese intollerabili, di poterlo ottenere, sí per la importanza sua come perché sarà l'adito e la porta di augumentare maravigliosamente la gloria e lo imperio di questa potentissima republica. -

Fu udito con grande attenzione e con gli orecchi molto favorevoli l'autore di questa sentenza, e lodata da molti in lui la generosità dell'animo suo e lo amore verso la patria. Ma in contrario parlò [Marchionne Trivisano]:

- E' non si può negare, sapientissimi senatori, che le ingiurie fatte da Lodovico Sforza alla nostra republica non sieno gravissime, e con grande offesa della nostra degnità; nondimeno, quanto le sono maggiori e quanto piú ci commuovono tanto piú è proprio ufficio della prudenza moderare lo sdegno giusto con la maturità del giudicio e con la considerazione dell'utilità e interesse publico, perché il temperare se medesimo e vincere le proprie cupidità ha tanto piú laude quanto è piú raro il saperlo fare, e quanto sono piú giuste le cagioni dalle quali è concitato lo sdegno e l'appetito degli uomini. Però appartiene a questo senato, il quale appresso a tutte le nazioni ha nome sí chiaro di sapienza, e che prossimamente ha fatto professione di liberatore d'Italia da' franzesi, proporsi innanzi agli occhi la infamia che gli risulterà se ora sarà cagione di fargli ritornare; e molto piú il pericolo che del continuo ci sarà imminente se il ducato di Milano perverrà in potere del re di Francia: il quale pericolo chi non considera da se stesso si riduca in memoria quanto terrore ci dette l'acquisto che fece, il re Carlo, di Napoli, dal quale non ci riputammo mai sicuri se se non quando fummo congiurati contro a lui con quasi tutti i príncipi cristiani. E nondimeno, che comparazione dall'uno pericolo all'altro! Perché quello re, privato di quasi tutte le virtú regie, era principe quasi ridicolo, e il regno di Napoli tanto lontano dalla Francia teneva in modo divulse le forze sue che quasi indeboliva piú che accresceva la sua potenza, e quello acquisto, per il timore degli stati loro tanto contigui, gli faceva inimicissimi il papa e i re di Spagna; de' quali ora l'uno si sa che ha diversi fini e che gli altri, infastiditi delle cose d'Italia, non sono per implicarvisi senza grandissima necessità: ma questo nuovo re, per la virtú propria, è molto piú da temere che da sprezzare, e lo stato di Milano è tanto congiunto col reame di Francia che, per la comodità di soccorrerlo, non si potrà sperare di cacciarnelo se non commovendo tutto il mondo. E però noi, vicini a sí maravigliosa potenza, staremo nel tempo della pace in gravissima spesa e sospetto, e in tempo di guerra saremo tanto esposti alle offese sue che sarà difficillimo il difenderci. E certamente, io non udivo senza ammirazione che, chi ha parlato innanzi a me, da una parte non temeva di uno re di Francia signore del ducato di Milano, dall'altra si dimostrava in tanto spavento di Lodovico Sforza, principe molto inferiore di forze a noi, e che con la timidità e avarizia ha messo sempre in grave pericolo le imprese sue. Spaventavanlo gli aiuti che arebbe da altri, come se fusse facile il fare, in tante diversità di animi e di volontà e in tanta varietà di condizioni, tale unione, o come se non fusse da temere molto piú una potenza grande unita tutta insieme che la potenza di molti; la quale come ha i movimenti diversi cosí ha diverse e discordanti l'operazioni. Confidava che in coloro i quali, per odio e per varie cagioni, desiderano la nostra declinazione si troverebbe quella prudenza da vincere gli sdegni e le cupidità che noi non troviamo in noi medesimi a raffrenare questi ambiziosi pensieri. Né io so perché debbiamo prometterci che nel re de' romani e in quella nazione possa piú l'emulazione e lo sdegno antico e nuovo contro al re di Francia, se acquisterà Milano, che l'odio inveterato che hanno contro a noi che tegniamo tante terre appartenenti alla casa d'Austria e allo imperio; né so perché il re de' romani si congiugnerà piú volentieri con noi contro al re di Francia che con lui contro a noi: anzi è piú verisimile l'unione de' barbari, inimici eterni del nome italiano, e a una preda piú facile; perché unito con lui potrà piú sperare vittoria di noi che unito con noi non potrà sperare di lui. Senza che, l'azioni sue nella lega passata, e quando venne in Italia, furono tali che io non so per che causa s'abbia tanto a desiderare di averlo congiunto seco. Hacci ingiuriato Lodovico gravissimamente, nessuno lo nega, ma non è prudenza mettere, per fare vendetta, le cose proprie in pericolo sí grave, né è vergogna aspettare a vendicarsi gli accidenti e l'occasioni che può aspettare una republica; anzi è molto vituperoso lasciarsi innanzi al tempo traportare dallo sdegno, e nelle cose degli stati è somma infamia quando la imprudenza è accompagnata dal danno. Non si dirà che queste ragioni ci muovino a una impresa sí temeraria, ma si giudicherà per ciascuno che noi siamo tirati dalla cupidità d'avere Cremona; però da ciascuno sarà desiderata la sapienza e la gravità antica di questo senato, ciascuno si maraviglierà che noi incorriamo in quella medesima temerità nella quale ci maravigliammo tanto noi che fusse incorso Lodovico Sforza, di avere condotto il re di Francia in Italia. L'acquisto è grande e opportuno a molte cose, ma considerisi se sia maggiore perdita l'avere uno re di Francia signore dello stato di Milano: considerisi quanto sia maggiore la nostra potenza e riputazione, o quando siamo i principali d'Italia o quando in Italia è uno principe tanto maggiore e tanto vicino a noi. Con Lodovico Sforza abbiamo altre volte avuto e discordia e concordia, cosí può tra noi e lui accadere ogni dí, e la difficoltà di Pisa non è tale che non si possa trovare qualche rimedio, né merita che per questo ci mettiamo in tanto precipizio; ma co' franzesi vicini aremo sempre discordia perché regneranno sempre le medesime cagioni: la diversità degli animi tra barbari e italiani, la superbia de' franzesi, l'odio col quale i príncipi perseguitano sempre, per natura, le republiche e la ambizione che hanno i piú potenti di opprimere continuamente i meno potenti. E però non solo non mi invita l'acquisto di Cremona, anzi mi spaventa, perché arà tanto piú occasione e stimoli a offenderci, e sarà tanto piú concitato da' milanesi che non potranno tollerare l'alienazione di Cremona da quello ducato; e la medesima cagione irriterà la nazione tedesca e il re de' romani, perché medesimamente Cremona e la Ghiaradadda è membro della giurisdizione dello imperio. Non sarebbe almanco biasimata tanto la nostra ambizione, né cercheremmo con nuovi acquisti farci ogni dí nuovi inimici, e piú sospetti a ciascuno: per il che bisognerà finalmente o che noi diventiamo superiori a tutti o che noi siamo battuti da tutti; e quale sia piú per succedere è facile a considerare a chi non ha diletto di ingannarsi da se medesimo. La sapienza e la maturità di questo senato è stata conosciuta e predicata per tutta Italia e per tutto il mondo molte volte; non vogliate macularla con sí temeraria e sí pericolosa deliberazione. Lasciarsi traportare dagli sdegni contro all'utilità propria è leggerezza, stimare piú i pericoli piccoli che i grandissimi è imprudenza; le quali due cose essendo alienissime dalla sapienza e gravità di questo senato, io non posso se non persuadermi che la conclusione che si farà sarà moderata e circospetta, secondo la vostra consuetudine. -

Non potette tanto questa sentenza, sostentata da sí potenti ragioni e dalla autorità di molti che erano de' principali e de' piú savi del senato, che non potesse molto piú la sentenza contraria, concitata dall'odio e dalla cupidità del dominare, veementi autori di qualunque pericolosa deliberazione; perché era smisurato l'odio negli animi di ciascuno contro a Lodovico Sforza conceputo, né minore il desiderio di aggiugnere allo imperio veneto la città di Cremona col suo contado e con tutta la Ghiaradadda; aggiunta stimata assai, perché ciascuno anno se ne traevano di entrata almeno centomila ducati, e molto piú per l'opportunità; conciossiaché, abbracciando con questo augumento quasi tutto il fiume dell'Oglio, distendevano i loro confini insino in sul Po e ampliavangli per lungo spazio in sul fiume di Adda, e appressandosi a quindici miglia alla città di Milano e alquanto piú alle città di Piacenza e di Parma, pareva loro quasi aprirsi la strada a occupare tutto il ducato di Milano, qualunque volta il re di Francia avesse o nuovi pensieri o potenti difficoltà di là da' monti. Il che potere succedere, innanzi che passasse molto tempo, dava speranza la natura de' franzesi, piú atti ad acquistare che a mantenere; l'essere quasi perpetua la loro republica e nel regno di Francia accadere spesso, per la morte de' re, variazione di pensieri e di governi; la difficoltà di conservarsi la benivolenza de' sudditi, per la diversità del sangue e de' costumi franzesi con gl'italiani. Però, confermata col voto de' piú questa sentenza, commessono agli oratori loro che erano appresso al re che conchiudessino con le condizioni offerte questa confederazione, ogni volta che in essa delle cose di Pisa non si trattasse.

La quale eccezione turbò non mediocremente l'animo del re, perché sperava col mezzo del diposito unire alla impresa sua i viniziani e i fiorentini; e sapendo che già i viniziani erano inclinati a rimuoversi per accordo dalla difesa di Pisa, gli pareva conveniente che piú presto dovessino farlo in modo che si accrescesse facilità alla vittoria dello stato di Milano, poiché aveva a ridondare a beneficio comune, che, per avere alquanto migliori condizioni nella concordia, essere cagione che i fiorentini restassino congiunti con Lodovico Sforza: per il mezzo del quale sapendo tenersi la pratica di Ferrara, aveva non piccola dubitazione che, conchiudendosi per sua opera, né i viniziani né i fiorentini alla fine fussino con lui. Però, parendogli poco prudente quella deliberazione per la quale restasse in dubbio dell'una e dell'altra republica, e sdegnato della diffidenza che si dimostrava di lui, si inclinò a fare piú presto la pace, che continuamente si trattava, col re de' romani, con condizione che all'uno fusse libero fare la guerra contro a Lodovico Sforza, all'altro il farla contro a' viniziani. Fece adunque rispondere, da' deputati che trattavano in nome suo con gli oratori viniziani, non volere convenire con loro se insieme non si dava perfezione al diposito trattato di Pisa, e a quegli de' fiorentini disse egli medesimo che stessino sicuri che non concorderebbe mai co' viniziani in altra forma. Ma non lo lasciorono stare fermo in questo proposito il duca Valentino con gli altri agenti del pontefice, e il cardinale di San Piero a Vincola, Gianiacopo da Triulzi e tutti quegli italiani che per gli interessi propri lo incitavano alla guerra: i quali, con molte ed efficaci ragioni, gli persuaseno che, per la potenza de' viniziani e per l'opportunità che avevano a offendere il ducato di Milano, non poteva essere piú pernicioso consiglio che privarsi de' loro aiuti per timore di non perdere quegli de' fiorentini, i quali, per i travagli loro e perché erano lontani a quello stato, potevano essergli di poco profitto; e che questo facilmente causerebbe che Lodovico Sforza, rimovendosi, per riconciliarsi co' viniziani, dal favore de' fiorentini, il che era stato causa di tutte le discordie tra loro, si riunirebbe con essi. Donde che difficoltà fussino per nascere, essendo congiunti i viniziani e Lodovico, dimostrarsi, se non per altro, per la esperienza degli anni passati; perché se bene nella lega fatta contro a Carlo fusse concorso il nome di tanti re, nondimeno le forze solamente de' viniziani e di Lodovico avergli tolto Novara, e difeso sempre contro a lui il ducato di Milano. Ricordavangli essere fallace e pericoloso consiglio il fare fondamento in su l'unione con Massimiliano, nel quale si erano, insino a quel dí, veduti i disegni assai maggiori che la facoltà o la prudenza del colorirgli; e quando pure fusse per avere successi piú prosperi che per l'addietro, doversi considerare quanto fusse a proposito l'augumento di uno inimico perpetuo e sí acerbo alla corona di Francia. Con le quali ragioni commosseno in modo il re che, mutata sentenza, consentí che senza parlare piú delle cose di Pisa si conchiudesse la confederazione co' viniziani: nella quale fu convenuto che nel tempo medesimo che egli assaltasse con potente esercito il ducato di Milano essi, da altra banda, facessino, di verso i loro confini, il medesimo; e che guadagnandosi per lui tutto il resto del ducato, Cremona con tutta la Ghiaradadda, eccettuata però la riva di Adda per quaranta braccia, si acquistasse a' viniziani; e che acquistato che avesse il re il ducato di Milano, i viniziani fussino obligati, per certo tempo e con determinato numero di cavalli e di fanti, a difenderlo; e da altra parte il re fusse tenuto al medesimo per Cremona e quello possedevano in Lombardia e insino agli stagni viniziani. La quale convenzione fu contratta con tanto segreto che a Lodovico Sforza stette occulto per piú mesi se fusse fatta tra loro solo confederazione a difesa, come da principio era stato solennemente publicato nella corte di Francia e a Vinegia, o se pure vi fussino capitoli concernenti l'offesa sua; né il papa medesimo, che era tanto congiunto col re, potette se non tardi averne certezza.

Cap. vii

Vicende della guerra fra veneziani e fiorentini nel Casentino. Ercole d'Este in Venezia si pronunzia sul compromesso fra veneziani e fiorentini riguardo a Pisa. Malcontento pel compromesso in Venezia e lamentele degli oratori pisani. Aggiunte al compromesso all'insaputa de' fiorentini. Venezia delibera di ritirare le milizie da Pisa. A Pisa si delibera di tentare ogni cosa pur di non tornare soggetti a Firenze.

Fatta la lega co' viniziani, il re, senza fare piú menzione di Pisa, propose a' fiorentini condizioni molto diverse dalle prime: per la quale cagione e per le molestie che riceveano da' viniziani, erano tanto piú necessitati ad accostarsi al duca di Milano, con gli aiuti del quale le cose loro prosperavano continuamente nel Casentino. Dove gli inimici, danneggiati spesso da' soldati e da' paesani, e combattendo con la difficoltà delle vettovaglie e specialmente di sostentare i cavalli, si erano ristretti in Bibbiena e in alcun'altre piccole terre; non intermettendo però la diligenza di tenere i passi dello Apennino, per avere aperta la via del soccorso e la facoltà, quando pure fussino necessitati, di abbandonare con minore danno il Casentino: però a guardia del passo di Montalone si era fermato Carlo Orsino con le sue genti d'arme e con cento fanti; e piú basso, quello della Vernia si guardava dall'Alviano. E da altra parte Pagolo Vitelli, procedendo maturamente secondo il consueto suo, poiché gli ebbe ridotti in sí pochi luoghi, si sforzava di costrignergli a partirsi dal passo di Montalone, con intenzione di mettere poi in necessità di fare il medesimo coloro che guardavano il passo della Vernia; acciocché le genti viniziane, ristrette in Bibbiena sola e circondate per tutto dagl'inimici e da' monti, o fussino vinte facilmente o si consumassino per loro medesime; essendo massime molto diminuite, perché, oltre a quegli che erano stati ora qua ora là svaligiati, se ne erano, per la incomodità delle vettovaglie e difficoltà di sicuri alloggiamenti, partiti in piú volte piú di mille cinquecento cavalli e moltissimi fanti: de' quali, assaltati nel passare dell'alpi da' paesani, la maggiore parte aveva ricevuto gravissimo danno. Costrinseno alla fine queste difficoltà Carlo Orsino ad abbandonare co' suoi il passo di Montalone, non senza pericolo di essere rotti, perché, sapendosi non potervi piú dimorare, molti de' soldati de' fiorentini e degli uomini del paese, che stavano vigilanti a questa occasione, gli assaltorono nel cammino: ma essi, avendo già preso il vantaggio de' passi, benché perdessino parte de' carriaggi, si difeseno, e con danno non piccolo di quegli che disordinatamente gli seguitavano. L'esempio di Carlo Orsino fu, per le medesime necessità, seguitato da quegli che erano alla Vernia e a Chiusi, che abbandonati que' passi si ritirorono in Bibbiena, ove si fermorono il duca d'Urbino, l'Alviano, Astore Baglione, Piero Marcello proveditore viniziano e Giuliano de' Medici; riservatisi per guardia di quella terra, che sola tenevano in Casentino, sessanta cavalli e settecento fanti. Né gli sostentava altro che la speranza del soccorso, il quale i viniziani preparavano giudicando che, in quanto alla conservazione dell'onore e molto piú a farsi migliori le condizioni dell'accordo, importasse non poco il non abbandonare totalmente la impresa del Casentino: e però il conte di Pitigliano raccoglieva a Ravenna con gran prestezza le genti disegnate a soccorrerla, sollecitandolo le spesse querele del duca d'Urbino e degli altri; i quali, significando cominciare a mancare loro le vettovaglie, protestavano essere ridotti a mancamento tale di vivere che bisognerebbe che per salvarsi facessino presto patti con gli inimici. E per contrario, arebbono desiderato il duca di Milano e i capitani che erano nel Casentino prevenire il soccorso con la espugnazione di Bibbiena, e però dimandavano che si aggiugnessino quattromila fanti a quegli che erano nel campo; ma repugnavano al desiderio loro molte difficoltà, perché in paese freddo e alpestre i tempi che erano asprissimi impedivano assai l'azioni militari, e i fiorentini non erano molto pronti a questa provisione, parte per essere molto stracchi per le gravi e lunghe spese fatte e che continuamente facevano, parte perché nella città, per altre cagioni poco concorde, si era scoperta nuova dissensione; essendo alcuni de' cittadini fautori di Pagolo Vitelli, altri inclinati a esaltare il conte Renuccio, antico e fedele condottiere di quella republica e che aveva in Firenze parenti di autorità: il quale, caduto per l'avversità che ebbe a Santo Regolo della speranza del primo luogo, malvolentieri tollerava vederlo trasferito a Pagolo; e trovandosi con la compagnia sua in Casentino, non era pronto a quelle imprese dalle quali potesse accrescersi la riputazione di chi arebbe desiderato deprimere. Diventavano maggiori queste difficoltà per la natura di Pagolo, vantaggioso ne' pagamenti, difficile co' commissari fiorentini, e che spesso nella deliberazione ed espedizione delle cose si arrogava piú autorità che non parea conveniente. E, pure allora, avea senza saputa de' commissari conceduto al duca d'Urbino, ammalato, salvocondotto di partirsi sicuramente del Casentino; sotto la fidanza del quale salvocondotto si era partito oltre a lui Giuliano de' Medici, con grave dispiacere de' fiorentini, che si persuadevano che, se al duca si fusse difficultato il partirsi, che il desiderio di andare a ricuperare nello stato suo la sanità l'arebbe costretto a concordare di levare le genti di Bibbiena; e si dolevano similmente che a Giuliano, ribelle prima e che era venuto con l'armi contro alla patria, fusse stata fatta senza saputa loro tale abilità. Toglievano queste cose fede in Firenze a' consigli e alle dimande di Pagolo: e molto piú che la guerra non procedeva con molta sua riputazione appresso al popolo, perché e qualche fazione importante era stata fatta piú da' paesani che da' soldati e perché, per l'opinione grande che avevano del suo valore, si erano promessi molto prima la vittoria degli inimici; attribuendo, come è natura de' popoli, a non volere quello che si doveva attribuire piú presto a non potere, per l'asprezza de' tempi e per il mancamento delle provisioni. E però, tardandosi di fare l'augumento de' quattromila fanti, ebbe tempo il conte di Pitigliano di venire a Castello d'Elci, castello del ducato d'Urbino vicino a' confini de' fiorentini, ove prima erano Carlo Orsino e Piero de' Medici, e ove si faceva la massa di tutte le genti per passare l'Apennino; le quali si ordinavano, come piú atte alla fortezza e alla penuria del paese, piú copiose assai di fanteria che di uomini d'arme, e questi piú presto con leggiera che con grave armadura. Fu questo l'ultimo sforzo che feciono i viniziani per le cose del Casentino. Il quale per interrompere, Pagolo Vitelli, lasciato leggieri assedio intorno a Bibbiena e la guardia necessaria a' passi opportuni, andò col resto delle genti alla Pieve a Santo Stefano, terra de' fiorentini situata al piede dell'alpi, per opporsi agli inimici nello scendere di quelle. Ma il conte di Pitigliano, avendo innanzi a sé l'alpi cariche di neve, e a piè dell'alpi l'opposizione potente e la strettezza de' passi, difficili, quando si ha ostacolo, non che altro ne' tempi benigni, a superare, non ardí mai di tentare di passare; con tutto che con gravi querele ne fusse molto stimolato dal senato viniziano, piú veemente, secondo diceva egli, a morderlo che sollecito a provederlo: e se bene gli fussino proposti disegni di qualche diversione, e già in Valdibagno fusse data qualche molestia alle terre de' fiorentini, non fece, per questo, momento alcuno.

Ma quanto piú procedevano fredde l'opere della guerra tanto piú riscaldavano le pratiche dello accordo, desiderato per diversi rispetti dall'una parte e dall'altra, ma non meno desiderato e sollecitato dal duca di Milano; il quale, spaventato per la lega fatta tra il re di Francia e i viniziani, sperava che, succedendo questa concordia, i viniziani desidererebbono manco la passata de' franzesi, e persuadendosi di piú che, sodisfatti in questo caso della volontà e opere sue, avessino, almeno in qualche parte, a mitigare l'indegnazione conceputa contro a sé. Però, interponendosi tra loro appresso a Ercole da Esti suo suocero, costrigneva i fiorentini a cedere a qualche desiderio de' viniziani, non tanto con l'autorità, perché appresso a loro, accortisi del suo disegno, cominciava già a essere sospetta la sua interposizione, quanto con lo accennare che, non si facendo la concordia, sarebbe necessitato, per il timore che aveva del re di Francia, rimuovere se non tutte almeno parte delle sue genti da' loro favori. Trattossi molti mesi questa cosa a Ferrara, e interponendosi varie difficoltà, fu ricercato Ercole da' viniziani che per facilitare l'espedizione andasse personalmente a Vinegia: di che egli faceva qualche difficoltà, ma molto maggiore i fiorentini perché sapevano i viniziani desiderare che in Ercole si facesse compromesso, dalla qual cosa essi erano molto alieni; ma fu tanta la instanza di Lodovico Sforza che finalmente Ercole si dispose ad andarvi, e i fiorentini a mandare insieme con lui Giovambatista Ridolfi e Pagol'Antonio Soderini, due de' principali e de' piú prudenti cittadini della loro republica. A Vinegia fu la prima disputazione se Ercole avesse, con autorità d'arbitro, a finire la controversia o, come amico comune interponendosi tra le parti, a cercare di comporle, come insino allora si era proceduto a Ferrara e ridotti a non molta difficoltà gli articoli principali e piú importanti. Questo desideravano i fiorentini, conoscendo che Ercole, in quello che avesse a dipendere dall'arbitrio suo, terrebbe piú conto della grandezza de' viniziani che di loro, e che riducendosi a pronunziare il lodo in Vinegia sarebbe necessitato tanto piú ad avere loro maggiore rispetto, e quel che non facesse per se medesimo lo indurrebbe a fare il duca di Milano, poiché tanto desiderava che i viniziani conoscessino essere in questo negozio utili loro le sue operazioni; e se bene molte difficoltà fussino quasi risolute a Ferrara, pure, e nell'ultima loro perfezione e in molti particolari, non restava piccola la potestà dell'arbitro; senza che, compromettendosi in lui, era in sua facoltà partirsi da quello che prima era stato trattato. Da altra parte i viniziani aveano deliberato, se non si faceva il compromesso, di non procedere piú oltre: non tanto per promettersi piú dello arbitrio che non si promettevano i fiorentini, quanto perché questa materia aveva tra loro medesimi molte difficoltà. Conciossiaché tutti, stracchi dalle spese gravissime con piccola speranza di frutto, desiderassino la concordia, ma i piú giovani massime e i piú feroci del senato non la volessino se a' pisani non si conservava interamente la libertà, e se non rimaneva loro almeno quella parte del contado che e' possedevano quando furono ricevuti in protezione; per la quale opinione allegavano molte ragioni, ma quella principalmente che, essendosi con publico decreto promesso allora a' pisani di conservargli in libertà, non si poteva mancarne senza maculare sommamente lo splendore della republica: alcuni altri, rendendosi manco difficili nelle altre cose, erano immoderati nella quantità delle spese le quali ricercavano che, abbandonando Pisa, fussino loro rifatte da' fiorentini. Ma in contrario era il parere di quasi tutti i senatori piú savi e di maggiore autorità: i quali, stracchi di tante spese, e disperati totalmente della difesa di Bibbiena e di potere piú senza grandissimo travaglio sostenere le cose di Pisa, per le difficoltà che avevano trovate e nel mandarvi soccorso e nel fare diversione, essendo riuscita maggiore la resistenza de' fiorentini che da principio non si erano persuasi, considerando oltre a questo che, benché la impresa contro al duca di Milano fusse giudicata dovere essere facile, nondimeno che, non essendo il re di Francia pacificato col re de' romani e sottoposto a vari impedimenti che potevano sopravenirgli di là da' monti, potrebbe essere per molti casi ritardato a muovere la guerra e, quando pure la movesse, che nelle cose belliche possono nascere di dí in dí molte e inopinate difficoltà e pericoli, ma sopratutto spaventati dagli apparati grandi, terrestri e marittimi, che si diceva fare Baiseth ottomanno per assaltargli nella Grecia, si risolvevano essere necessario consentire piú presto, poi che altrimenti non si poteva, che l'onestà cedesse in qualche parte all'utilità che, per mantenere pertinacemente la fede data, perseverare in tante molestie. E perché erano certi che con grandissima difficoltà sarebbeno consentite ne' loro consigli quelle conclusioni alle quali, insino dal principio, conoscevano essere necessario declinare, avevano prudentemente, quando si cominciò a trattare a Ferrara, procurato che dal consiglio de' pregati fusse data amplissima autorità sopra le cose di Pisa e dello accordo co' fiorentini al consiglio de' dieci, nel quale consiglio, molto minore di numero, intervengono tutti gli uomini di piú gravità e autorità, che erano la maggiore parte di quegli medesimi che desideravano questa concordia: e ora, condotta la pratica a Vinegia, non si confidando di disporre il consiglio de' pregati a consentire agli articoli trattati a Ferrara, e conoscendo che il consentirgli da per sé il consiglio de' dieci sarebbe di molto carico a chi vi intervenisse, instavano che si facesse il compromesso, sperando che del giudicio che ne nascesse si risentirebbono piú gli uomini contro all'arbitro che contro a loro, e che piú facilmente avesse a essere ratificato quello che già fusse lodato che consentito quando si trattasse per via di concordia con la parte. Però, dopo disputa di qualche dí, minacciando il duca di Milano i fiorentini, che ricusavano di compromettere, di levare subito di Toscana tutte le genti sue, fu fatto il compromesso per otto dí, libero e assoluto, in Ercole duca di Ferrara. Il quale, dopo molta discussione, pronunziò, il sesto dí di aprile: che fra otto dí prossimi si levassino l'offese tra i viniziani e i fiorentini, e che il dí della festività prossima di santo Marco tutte le genti e aiuti di ciascuna delle parti si partissino e ritornassino agli stati propri, e che i viniziani il dí medesimo levassino di Pisa e del suo contado tutte le genti che v'avevano, e abbandonassino Bibbiena e tutti gli altri luoghi che occupavano de' fiorentini, i quali perdonassino agli uomini di Bibbiena i falli commessi; e che per ristoro delle spese fatte, quali affermavano i viniziani ascendere a ottocentomila ducati, fussino obligati i fiorentini a pagare loro, insino in dodici anni, quindicimila ducati per anno: che a' pisani fusse conceduta venia di tutti i delitti fatti, facoltà di esercitare per mare e per terra ogni qualità di arti e di mercatanzie: stessino in custodia loro le fortezze di Pisa e de' luoghi che il dí del lodo dato possedevano, ma con patto che de' pisani si eleggessino le guardie, o d'altronde, di persone non sospette a' fiorentini, e fussino pagate delle entrate che caverebbono di Pisa i fiorentini, non accrescendo né il numero degli uomini né la spesa consueta a tenersi innanzi alla rebellione: rovinassinsi, se cosí paresse a' pisani, tutte le fortezze del contado proprio di Pisa state ricuperate da' fiorentini mentre che i viniziani avevano la loro protezione: che in Pisa le prime instanze de' giudici civili fussino giudicate da uno podestà forestiere, eletto da' pisani di luogo non sospetto a' fiorentini; e il capitano eletto da' fiorentini non conoscesse se non delle cause delle appellazioni né potesse procedere, in caso alcuno criminale dove si trattasse di sangue d'esilio o di confiscazione, senza il consiglio di uno assessore, eletto da Ercole o da' suoi successori, di cinque dottori di legge che del dominio suo gli fussino proposti da' pisani: restituissinsi a' padroni i beni mobili e immobili occupati da ogni parte, intendendosi ciascuno assoluto da' frutti presi; e in tutte l'altre cose lasciate illese le ragioni de' fiorentini in Pisa e nel suo territorio, e proibito a' pisani che circa le fortezze e qualunque altra cosa non macchinassino contro alla republica fiorentina.

Publicato il lodo in Vinegia, si levorono per tutta la città e nella nobiltà, contro a Ercole e contro a' principali che avevano maneggiato questa pratica, molte querele; biasimandosi per la maggiore parte che a' pisani si mancasse, con grandissima infamia della republica, della fede promessa, e lamentandosi che delle spese fatte nella guerra non fusse stata avuta la considerazione conveniente. Le quali querele accendevano assai i loro oratori, che innanzi al lodo dato stati tenuti artificiosamente da' viniziani in speranza che indubitatamente resterebbono con piena libertà e che sarebbe aggiudicato loro non solo il resto del contado ma forse il porto di Livorno, si risentivano tanto piú quanto piú gli effetti riuscivano contrari a quello che si erano persuasi; lamentandosi che le promesse della conservazione della libertà fatte loro tante volte da quel senato, sotto la fede del quale avevano disprezzato l’amicizia di tutti gli altri potentati e rifiutato piú volte condizioni molto migliori offerte da' fiorentini, fussino sí indegnamente violate, né proveduto anche alla loro sicurtà se non con apparenze vane. Perché, come potevano essere sicuri che i fiorentini, rimettendo in Pisa i magistrati, e ritornandovi con la restituzione del commercio i mercatanti e sudditi loro, e da altra parte partendosene per andare alle proprie abitazioni e culture i contadini che erano stati membro grande della difesa di quella città, non pigliassino con qualche fraude il dominio assoluto? il che potrebbono fare con grandissima facilità, e massime restando in potere loro la guardia delle porte. E che sicurtà essere avere le fortezze in mano, se quegli che le guardavano avevano a essere pagati da' fiorentini, né fusse lecito in tanto sospetto tenervi guardia maggiore di quella che soleva tenersi ne' tempi tranquilli e sicuri? Essere medesimamente vana la perdonanza delle cose commesse, poi che si concedeva a' fiorentini facoltà di distruggergli per via della ragione e de' giudíci, perché le mercatanzie e gli altri beni mobili tolti nel tempo della ribellione ascendevano a tanta valuta che non solo occuperebbeno le loro sostanze ma né sarebbeno sicure dalle carceri le persone. Le quali querele per estinguere, i principali del senato operorno che il dí seguente, benché fusse spirato il termine del compromesso, Ercole, il quale intesa tanta indegnazione di quasi tutta la città temeva di se medesimo, aggiugnesse al lodo dato, senza saputa degli oratori fiorentini, dichiarazione che sotto nome delle fortezze si intendessino le porte della città di Pisa e dell'altre terre che avevano le fortezze, per la guardia delle quali, e per i salari del podestà e dell'assessore, fusse assegnata a' pisani certa parte delle entrate di Pisa; e che i luoghi non sospetti de' quali si faceva menzione nel lodo fussino lo stato della Chiesa, di Mantova, di Ferrara e di Bologna, esclusine però gli stipendiari di altri; e che alla restituzione de' beni mobili fusse imposto perpetuo silenzio: fusse in potestà de' pisani nominare l'assessore, di qualunque luogo non sospetto: non procedesse il capitano in alcuna causa criminale benché minima senza l'assessore: fussino i pisani trattati bene da' fiorentini, secondo l'uso delle altre città nobili d'Italia; né potessino essere poste loro nuove gravezze. La quale dichiarazione non fu procurata perché i viniziani desiderassino che la fusse osservata ma per raffreddare l'ardore degli oratori pisani, e per giustificarsi nel consiglio de' pregati che se non si era ottenuta la libertà de' pisani si era almanco proveduto tanto alla sicurtà e bene essere loro che non si potrebbe dire fussino dati in preda o abbandonati. Nel quale consiglio, dopo molte dispute, prevalendo pure la considerazione delle condizioni de' tempi e delle difficoltà del sostenere i pisani, e sopratutto il timore dell'armi del turco, fu deliberato che il lodo con espresso consentimento non si ratificasse ma, quel che è piú efficace in tutte le cose, si mettesse a esecuzione co' fatti, levando fra gli otto dí l'offese e rimovendo le genti di Toscana al tempo determinato, con intenzione di piú non intromettersene: piú tosto, per sospetto che Pisa non cadesse in potestà del duca di Milano, cominciavano molti del senato a desiderare che la ricuperassino i fiorentini.

Né in Firenze, inteso che fu il tenore del lodo dato, si dimostrò minore movimento di animi; aggravandosi di avere a rifare parte delle spese a chi gli aveva ingiustamente molestati, e molto piú non parendo loro conseguire altro che il nome nudo del dominio, poiché le fortezze avevano a essere guardate per i pisani e che l'amministrazione della giustizia criminale, uno de' membri principali alla conservazione degli stati, non aveva a essere libera de' loro magistrati: nondimeno, sforzandogli a ratificare i medesimi protesti del duca di Milano che gli avevano indotti a compromettere, e sperando di avere in progresso di breve tempo, con la industria e con l'usare umanità a' pisani, a ridurre le cose a migliore forma, ratificorno espressamente il lodo dato; ma non l'addizioni, non ancora pervenute a notizia loro. Maggiore fu la indegnazione e l'ambiguità de' pisani: i quali, concitati maravigliosamente contro al nome viniziano e insospettiti di maggiore fraude, subito che ebbono inteso quel che si conteneva nel lodo, rimossono le genti loro dalla guardia delle fortezze di Pisa e delle porte né vollono che piú alloggiassino nella città, e stetteno in dubitazione grande molti dí se accettavano le condizioni del lodo o no; piegandogli da una parte il timore, poiché si vedevano abbandonati da tutti, da altra tenendogli fermi l'odio de' fiorentini, e molto piú la disperazione di avere a trovare perdono per la grandezza delle offese fatte e per essere stati cagione di infinite spese e danni loro, e di avergli messo piú volte in pericolo della propria libertà. Nella quale ambiguità benché il duca di Milano gli confortasse a cedere, offerendo di essere mezzo co' fiorentini a vantaggiare le condizioni del lodo, nondimeno, per tentare se in lui fusse piú l'antica cupidità e disposti in tal caso a darsegli liberamente, gli mandorono imbasciadori; e finalmente, dopo lunghi pensieri e agitazioni, determinorono di tentare prima ogni cosa estrema che tornare sotto il dominio de' fiorentini: e a questo furono occultamente confortati da' genovesi da' lucchesi e da Pandolfo Petrucci. Né stettono i fiorentini senza sospetto che 'l duca di Milano, benché la verità fusse in contrario, non gli avesse confortati al medesimo: tanto poco si aspetta sincerità o opere fedeli da chi è venuto in concetto degli uomini di essere solito a governarsi con duplicità e con artifici. Ma a' fiorentini, esclusi dalla speranza di ottenere Pisa per accordo, parve avere occasione opportuna di espugnare quella città; però, fatto ritornare nel contado di Pisa Pagolo Vitelli, sollecitavano con diligenza grande le provisioni richieste da lui.

Cap. viii

Il re di Francia si prepara alla spedizione contro Lodovico Sforza. I fiorentini sollecitati dal re di Francia e da Lodovico deliberano di non aderire né all'una né all'altra parte e di attendere alla riconquista di Pisa. Milizie francesi si raccolgono in Asti e milizie veneziane a Brescia. Preparativi di difesa di Lodovico Sforza.

Le quali mentre che si sollecitano, crescevano continuamente i pericoli di Lodovico Sforza. Perché né la interposizione sua all'accordo aveva in parte alcuna placati gli animi de' viniziani, costanti nel desiderio della sua distruzione, per l'odio e per la speranza del guadagno; né Massimiliano era cosí pronto alla guerra contro al re di Francia come era sollecito a dimandargli spesso danari, anzi, contro alle promesse molte volte fattegli, prolungò la tregua sua col re per tutto il mese d'agosto prossimo, e togliendogli in uno tempo medesimo la speranza che gli avesse a giovare piú il soccorso suo di quello che gli avesse giovato la diversione, unito con la lega de' svevi, roppe guerra a' svizzeri, dichiaratigli ribelli dello imperio, per varie differenze che erano tra loro: la quale, continuata da ogni banda con grande impeto, ebbe vari progressi e grande uccisione dall'una parte e dall'altra; in modo che Lodovico era certo non potere piú, in caso gli bisognasse, ottenere aiuto da lui se non terminasse prima questa guerra o con vittoria o con accordo; e nondimeno, promettendogli Massimiliano che mai converrebbe né col re di Francia né co' svizzeri senza includervi lui, era costretto, per non se lo alienare, porgergli spesso nuovi danari. La quale occasione conoscendo il re di Francia, e quanto importasse l'avere congiunti seco i viniziani e il pontefice, disprezzati i conforti di molti, che lo consigliavano che, per essere re nuovo e poco abbondante di pecunia, differisse all'anno seguente la guerra contro al ducato di Milano, e sperando dovere ottenere in spazio di pochi mesi la vittoria e però non essergli necessaria quantità grande di danari, apertamente si preparava; porgendo secretamente, per tenere occupato Massimiliano, qualche somma di danari a' svizzeri. E perciò il duca di Milano, vedendo manifestamente approssimarsi la guerra, si sforzava con grandissima diligenza e sollecitudine di non rimanere solo in tanti pericoli; perché e di trovare mezzo di concordia col re e di convenire piú co' viniziani totalmente si diffidava, né trovava ne' re di Spagna, ricercati instantemente da lui, pensiero alcuno della sua salute. Però, tentando in un tempo medesimo gli animi di tutti gli altri, mandò Galeazzo Visconte a Massimiliano e a' svizzeri per interporsi a ridurgli a concordia; e sapendo che al pontefice non riusciva il pensiero del matrimonio di Ciarlotta per Cesare Borgia suo figliuolo, perché la fanciulla, o mossa dall'amore e dalla autorità paterna o vero confortatane occultamente dal re di Francia, benché esso dimostrasse di affaticarsi in contrario, ricusava ostinatamente di volerlo per marito se insieme non si componevano le cose di Federigo suo padre, il quale offeriva al re di Francia tributo annuo e ampie condizioni, ebbe speranza Lodovico di alienarlo dalle cose oltramontane, e gli fece grandissima instanza di tirarlo in confederazione seco, nella quale prometteva che oltre al re Federico entrerebbono i fiorentini: offerendo che da lui e dagli altri confederati gli sarebbe dato aiuto contro a' vicari della Chiesa, e donata quantità grande di danari per comprare qualche stato onorato per il figliuolo. Le quali offerte, benché da principio fussino udite simulatamente da Alessandro, si scoperseno presto vane; perché egli, sperando dalla compagnia del re di Francia premi molto maggiori che quegli era per conseguire se Italia di nuovo non si empieva di eserciti oltramontani, consentí che il figliuolo, escluso già del matrimonio di Ciarlotta, si congiugnesse con una figliuola di monsignore di Alibret, il quale per essere del sangue reale e per la grandezza de' suoi stati non era inferiore ad alcuno de' signori di tutto il reame di Francia. Né cessò Lodovico, certificato ogni dí piú della mala disposizione de' viniziani, di stimolare secretamente contro a loro con uomini propri, concorrendo al medesimo il re Federigo, il principe de' turchi, il quale già per se medesimo faceva potentissimi apparati; persuadendosi che assaltati da lui non darebbeno molestia allo stato di Milano. Ed essendogli note le preparazioni che facevano i fiorentini per espugnare Pisa, si sforzò, con offerire loro quello aiuto sapessino desiderare, di obligargli alla difesa sua con trecento uomini d'arme e dumila fanti, espugnata che avessino Pisa. E da altra parte, il re di Francia gli ricercava che gli promettessino di accomodarlo di cinquecento uomini d'arme per uno anno; obligandosi, acquistato che avesse lo stato di Milano, aiutargli per uno anno con mille lancie alle imprese loro, e promettendo non fare accordo alcuno con Lodovico se nel medesimo tempo non fussino reintegrati di Pisa e dell'altre terre, e che il pontefice e i viniziani prometterebbono difendergli se innanzi all'acquisto di Milano fussino molestati da alcuno.

Nelle quali contrarie dimande era ne' fiorentini molta irresoluzione, cosí per la difficoltà della materia come per la divisione degli animi. Perché non ricercando Lodovico gli aiuti loro se non in caso che avessino ricuperato Pisa, era molto piú presente e piú certo il soccorso suo che quello che prometteva il re di Francia, riputato in quanto alle cose di Pisa di poco frutto; perché, per l'occasione di essere allora quella città abbandonata da ciascuno, erano voltati tutti i pensieri loro a conseguirla in quella state: e moveva oltre a questo non poco gli animi di molti la memoria che l'avergli ne' loro pericoli aiutato Lodovico fusse stato cagione che 'l senato viniziano si fusse confederato col re di Francia alle offese sue; e molto piú gli moveva il timore che per lo sdegno di essere negate le sue dimande non impedisse loro l'espugnare Pisa, il che con non molta difficoltà arebbe potuto fare. Ma in contrario, giudicandosi che egli non potesse resistere al re di Francia e a' viniziani, pareva pericolosa deliberazione inimicarsi con uno re le cui armi si dubitava che dopo non molti mesi avessino a correre per tutta Italia; e la memoria de' benefici ricevuti da Lodovico nella guerra contro a' viniziani, per i quali diceva con verità avere avuta origine i suoi pericoli, era facilmente cancellata dalla memoria che per opera sua fusse prima proceduta la ribellione di Pisa, che egli, desideroso di insignorirsene, gli avesse sostentati e fatto sostentare da altri per molti mesi e perseguitato in quel tempo i fiorentini con molte ingiurie, in modo che maggiori erano state l'offese che i favori: a' quali non era anche condisceso se non per non potere tollerare che i viniziani gli avessino tolto quello che già con la speranza e con l'ambizione riputava proprio ne' concetti suoi. E veniva in considerazione che, dichiarandosi per Lodovico, il re potrebbe similmente, per mezzo del pontefice e de' viniziani confederati suoi, impedire la recuperazione di Pisa. Però deliberorno in ultimo di non muoversi in favore né del re di Francia né del duca di Milano, e in questo mezzo fare la impresa di Pisa, alla quale pensavano bastare le forze proprie; e nondimeno, per non dare a Lodovico cagione di interromperla, usando seco le sue arti, tenerlo in piú speranza potessino. E però, dopo avere differito molti dí a dargli risposta, mandorno uno segretario publico a fargli intendere che la intenzione della republica era, in quanto all'effetto, la medesima che la sua, ma essere qualche discrepanza nel modo: perché erano determinati, recuperato che avessino Pisa, di non gli mancare degli aiuti dimandati, ma conoscere molto pernicioso il farne seco espressa convenzione, perché non si potendo nelle città libere tali cose espedire senza consentimento di molti non potevano essere segrete, e palesandosi darebbeno occasione al re di Francia di fare che il pontefice e i viniziani soccorressino i pisani; donde la promessa sarebbe nociva a loro e a lui inutile, perché non espugnando Pisa non sarebbono obligati né potrebbono aiutarlo. Però giudicare che e' bastasse la fede che si dava a parole col consentimento de' cittadini principali, dall'autorità de' quali tutte le deliberazioni publiche dependevano; né recusare per altra cagione il convenirne seco per scrittura; offerendo finalmente, per maggiore dichiarazione dell'animo loro, che se da lui si dimostrasse qualche modo da potere, fuggendo tanto danno, sodisfare al desiderio suo sarebbeno parati a eseguirlo. Per la quale risposta, benché acuta e piena di artificio, e perché non accettavano l'offerte degli aiuti suoi, conobbe Lodovico non potere avere speranza certa delle genti loro: accorgendosi che da ogni parte gli mancavano le speranze. Perché il soccorso promessogli continuamente dal re de' romani era incerto molto per la varietà della natura sua e per lo impedimento della guerra co' svizzeri; e se bene Federigo prometteva mandargli quattrocento uomini d'arme e mille cinquecento fanti sotto Prospero Colonna, dubitava non tanto della volontà, perché la difesa del ducato di Milano era anche a beneficio suo, quanto della impotenza e lentezza sua; ed Ercole da Esti suo suocero, ricercato di aiuto da lui, gli aveva, rimproverandogli quasi l'antica ingiuria che per opera sua fusse rimasto a' viniziani il Pulesine di Rovigo, risposto dispiacergli l'essere impedito ad aiutarlo, perché essendo i confini de' viniziani tanto vicini alle porte di Ferrara era necessitato attendere a guardare la casa propria.

Perdute adunque tutte le speranze che non dependevano da se medesimo, attendeva sollecitamente a fortificare, Anon, Novara e Alessandria della Paglia, terre esposte a primi movimenti del re di Francia; con deliberazione d'opporre all'impeto suo Galeazzo da San Severino con la maggiore parte delle sue forze, e il resto sotto il marchese di Mantova opporre a' viniziani: benché non molto poi, o per imprudenza o per avarizia o perché a' consigli celesti non si possa resistere, disordinò da sé proprio questo sussidio. Perché, avendosi cominciato vanamente a persuadere che i viniziani, a' quali Baiseth ottomanno avea per terra e per mare con apparato stupendo rotta la guerra, necessitati a difendere contro a tanto inimico le cose proprie, non l'avessino a molestare, e desiderando sodisfare a Galeazzo da San Severino, impaziente che 'l marchese lo precedesse di titolo, cominciò a muovergli difficoltà ricusando di pagargli certo residuo di stipendi vecchi e ricercando da lui giuramenti e cauzioni insolite dell'osservanza della fede; e benché poi, vedendo che i viniziani mandavano continuamente gente nel bresciano, per essere parati a muovere la guerra nel tempo medesimo che i franzesi la movessino, cercasse per mezzo del duca di Ferrara, suocero comune di riconciliarselo, le difficoltà non si risolverono sí presto che piú presto non sopravenissino i pericoli. I quali apparivano ogni dí maggiori: perché nel Piemonte, ove il duca di Savoia si era di nuovo congiunto al re, passavano continuamente genti che si fermavano intorno ad Asti; e le speranze del duca sempre diminuivano perché il re Federico, o per impossibilità o per negligenza, tardava a mandare gli aiuti promessi, e qualche speranza che gli restava che i fiorentini, espugnata che avessino Pisa, gli manderebbono in soccorso Pagolo Vitelli, della virtú del quale teneva tutta Italia grandissimo conto, fu dalla diligenza del re di Francia interrotta; perché, con aspre parole e quasi minaccie usate agli oratori loro, ottenne che la republica secretamente gli promesse per scrittura di non dare al duca aiuto alcuno, senza ricevere di questo in ricompenso da sé promessa alcuna. Però Lodovico, lasciata a' confini de' viniziani sotto il conte di Gaiazzo leggiera difesa, mandò Galeazzo da San Severino di là dal fiume del Po, con mille seicento uomini d'arme mille cinquecento cavalli leggieri diecimila fanti italiani e cinquecento fanti tedeschi; ma piú con intenzione di attendere alla difesa delle terre che di resistere nella campagna, perché giudicava che l'allungare gli fusse utile per molte cagioni, e specialmente perché di dí in dí sperava la conclusione dell'accordo trattato in nome suo dal Visconte tra Massimiliano e le leghe de' svizzeri, il quale subito che avesse avuto perfezione gli erano promessi aiuti potenti da lui, ma altrimenti non solo non ne poteva sperare ma gli era difficile il soldare fanti in quelle parti, perché i moti che vi erano grandissimi tiravano gli uomini del paese a quella guerra.

Cap. ix

Conquista di diverse terre del ducato di Milano da parte dei francesi. Lodovico Sforza incita i sudditi alla resistenza. La perdita di Alessandria. Pavia s'accorda coi francesi e i veneziani fanno scorrerie fino a Lodi. Tumulti in Milano. Lodovico si rifugia in Germania. Il re di Francia a Milano.

Né si fece da parte alcuna altro effetto di guerra che leggiere correrie, insino a tanto che ebbono passato i monti le genti destinate alla guerra, sotto Luigi di Ligní, Eberardo di Obigní e Gianiacopo da Triulzi: perché il re, se bene veniva a Lione spargendo fama di volere, quando cosí ricercasse il bisogno, passare in Italia, intendeva di governarla per mezzo de' capitani. Ma unito che fu insieme tutto l'esercito de' franzesi, nel quale furono mille seicento lancie cinquemila svizzeri quattromila fanti guasconi e quattromila d'altre parti di Francia, i capitani il terzodecimo dí di agosto posono il campo alla rocca di Arazzo posta in su la ripa del Tanaro; nella quale benché fussino cinquecento fanti la preseno in brevissimo spazio, dandosi causa di tanta prestezza allo impeto dell'artiglierie, ma non meno alla viltà de' difensori. Presa la rocca di Arazzo, andorno a campo ad Anon, castello in su la strada maestra tra Asti e Alessandria e in su la ripa del Tanaro opposita ad Arazzo, forte di sito, e che era stato per qualche mese innanzi molto fortificato dal duca di Milano; e benché il Sanseverino, che alloggiava appresso ad Alessandria in campagna, intesa la perdita di Arazzo, avesse desiderato mandarvi nuovi fanti e migliori, perché settecento che ve ne aveva messi prima erano di gente nuova e non esperta alla guerra, non potette metterlo a esecuzione perché i franzesi, per impedire che non vi andasse soccorso, aveano, di consentimento del marchese di Monferrato signore di quel luogo, messa gente nella terra di Filizano posta tra Alessandria e Anon. Però, non facendo quegli che erano in Anon migliore esperienza di quello che si aspettava, i franzesi, battuto prima il borgo e poi la terra da quattro parti, la espugnorono in due dí; e dipoi espugnorono la fortezza, ammazzando tutti i fanti che vi erano rifuggiti. Dal quale successo, piú repentino di quello che si era creduto, spaventato il Sanseverino si ritirò con tutte le genti in Alessandria; scusando il suo timore col dire di avere fanteria inutile, e che i popoli dimostravano animo poco stabile nella divozione di Lodovico. Da che i franzesi tanto piú inanimiti si accostorno a quattro miglia ad Alessandria, e nel tempo medesimo presono Valenza, dove erano molti soldati e artiglierie, per opera di Donato Raffagnino milanese, castellano, corrotto dalle promesse del Triulzio, dal quale introdotti per la fortezza nella terra, presono e ammazzorono tutti i soldati, e tra questi restò prigione Ottaviano fratello naturale del Sanseverino; e fu cosa notabile che questo medesimo castellano aveva, venti anni innanzi, mancando di fede a madonna Bona e al piccolo duca Giovanni Galeazzo, dato a Lodovico Sforza una porta di Tortona, in quel medesimo dí che introdusse i franzesi in Valenza. E discorrendo dipoi per il paese come uno folgore, si arrendé loro senza difficoltà Basignano, Voghiera, Castelnuovo e Ponte Corone, e il medesimo fece, pochi dí poi, la città e la rocca di Tortona; dalla quale si ritirò di là da Po, senza aspettare assalto alcuno, Antonmaria Palavicino che vi era a guardia.

L'avviso delle quali cose andato a Milano, Lodovico Sforza, vedendosi ridotto in tante angustie e che tanto impetuosamente andava in precipizio lo stato suo, perduto, come si fa nelle avversità sí súbite, non meno l'animo che il consiglio, ricorreva a quegli rimedi a' quali solendo ricorrere gli uomini nelle cose afflitte e quasi ridotte a ultima disperazione, fanno piú presto palese a ciascuno la grandezza del pericolo che ne conseguitino frutto alcuno. Fece descrivere nella città di Milano tutti gli uomini abili a portare arme; e convocato il popolo, al quale era in odio grande il nome suo per molte esazioni che aveva fatte, lo liberò da una parte delle gravezze, soggiugnendo con caldissime parole che se pareva che qualche volta fussino stati troppo aggravati, non l'attribuisseno gli uomini alla natura sua, né a cupidità che avesse mai avuto di accumulare tesoro; ma i tempi e i pericoli d'Italia, prima per la grandezza de' viniziani dipoi per la passata del re Carlo, averlo costretto a fare questo, per potere tenere in pace e in sicurtà quello stato e potere resistere a chi volesse assaltarlo: avendo giudicato non potere fare maggiore beneficio alla patria e a' popoli suoi che provedere non fussino molestati dalle guerre. E che questo fusse stato consiglio di inestimabile utilità averlo i frutti che se ne erano ricolti chiarissimamente dimostrato, perché tanti anni sotto il governo suo erano stati in somma pace e tranquillità, per la quale si era grandemente augumentata la magnificenza le ricchezze e lo splendore di quella città: di che fare fede manifestissima gli edifici le pompe e tanti ornamenti, e la moltiplicazione quasi infinita dell'arti e degli abitatori, nelle quali cose la città e il ducato di Milano non solo non cedevano ma erano superiori a qualunque altra città e regione d'Italia. Ricordassinsi di essere stati governati da sé senza alcuna crudeltà, e con quanta mansuetudine e benignità avesse udito sempre ciascuno, e che solo tra tutti i príncipi di quella età, senza perdonare a fatica o travaglio del corpo, aveva per se medesimo, ne' dí deputati all'udienze publiche, amministrato a tutti giustizia sommaria e indifferente. Ricordassinsi de' meriti e della benivolenza del suo padre, che gli aveva governati piú presto come figliuoli che come sudditi; e proponessinsi innanzi agli occhi quanto sarebbe acerbo lo imperio superbo e insolente de' franzesi, i quali per la vicinità di quello stato al reame di Francia ne farebbono, se lo occupassino, come altre volte aveva di tutta Lombardia fatto quella nazione, sedia ferma e perpetua de' popoli suoi, cacciatine gli antichi abitatori. Però pregargli che, alienando l'animo da i costumi barbari e inumani, si disponessino a difendere insieme la patria e la propria salute. Né doversi dubitare che, se si sforzassino di sostenere per brevissimo tempo i primi pericoli, sarebbe facile il resistere, essendo i franzesi piú impetuosi nello assaltare che costanti nel perseverare; e perché egli senza dilazione aspettava potenti aiuti dal re de' romani, il quale, già composte le cose co' svizzeri, si preparava per soccorrerlo in persona; e che erano in cammino le genti le quali il re di Napoli gli mandava con Prospero Colonna; e credere che il marchese di Mantova, essendo risolute seco tutte le difficoltà, fusse già con trecento uomini d'arme entrato nel cremonese: alle quali cose aggiugnendosi la prontezza e la fede del popolo suo, si renderebbe sicurissimo degli inimici, quando bene oltre a quello esercito fusse congiunta insieme tutta la possanza di Francia. Le quali parole, udite con maggiore attenzione che frutto, non giovorono piú che si giovassino l'armi opposte a' franzesi.

Per il timore de' quali, stimando manco il pericolo imminente da' viniziani, che avevano mossa la guerra in Ghiaradadda e presa la terra di Caravaggio e le altre vicine a Adda, rivocò il conte di Gaiazzo con la piú parte delle genti mandate a quella difesa, e le fece andare a Pavia, perché si unissino con Galeazzo per la difesa di Alessandria. Ma già da ogni banda si accelerava la sua ruina, perché il conte di Gaiazzo si era accordato prima secretamente col re di Francia; potendo piú in lui lo sdegno che Galeazzo, fratello minore di età e minore eziandio nello esercizio militare, gli fusse anteposto nel capitanato dello esercito e in tutti gli onori e favori che la memoria di innumerabili benefici ricevuti, egli e i fratelli, da Lodovico. Affermano alcuni che qualche mese innanzi era penetrato agli orecchi suoi avviso di questa fraude, in sul quale, stato alquanto tacito sopra di sé, avere finalmente sospirando risposto a chi gliene aveva significato, non potersi persuadere una tanta ingratitudine; e se pure era vero, non sapere finalmente come avere a provedervi, né di chi piú si avesse a confidare poiché i piú intrinsechi e piú beneficati lo tradivano: affermando non riputare minore o manco perniciosa calamità privarsi per sospetto vano, della opera delle persone fedeli ché, per incauta credulità, commettersi alla fede di quegli i quali meritavano di essere sospetti. Ma mentre che 'l conte di Gaiazzo fa il ponte su 'l Po per unirsi col fratello e artificiosamente ne manda in lungo l'esecuzione, mentre che fatto il ponte differisce di passare, essendo già l'esercito franzese stato due giorni intorno ad Alessandria e battendola con l'artiglierie, Galeazzo, con cui erano mille dugento uomini d'arme mille dugento cavalli leggieri e tremila fanti, la notte del terzo dí, non conferiti i suoi pensieri ad alcuno degli altri capitani eccetto che a Lucio Malvezzo, accompagnato da una parte de' cavalli leggieri, fuggí occultamente di Alessandria, dimostrando, con grandissimo suo vituperio ma non con minore infamia della prudenza di Lodovico, a tutto il mondo quanta differenza sia da maneggiare uno corsiere e correre nelle giostre e ne' torniamenti grosse lancie, ne' quali esercizi avanzava ogn'altro italiano, a essere capitano di uno esercito; e con quanto danno proprio si ingannano i príncipi che, nel fare elezione delle persone alle quali commettono le faccende grandi, hanno piú in considerazione il favore di chi eleggono che la virtú. Ma come la partita di Galeazzo fu nota per Alessandria, tutto il resto della gente cominciò tumultuosamente chi a fuggire chi ad ascondersi; con la quale occasione entratovi in sul fare del dí l'esercito franzese, non solo messe in preda i soldati che vi restavano ma con la licenza militare saccheggiò tutta la città. È fama che Galeazzo avea ricevuto lettere, scritte col nome e col suggello di Lodovico Sforza, che gli comandavano che per essere nato certo movimento in Milano si ritirasse là subito con tutte le genti; e alcuno dubitò poi che non fussino state fabricate falsamente dal conte di Gaiazzo, per facilitare con questa arte la vittoria de' franzesi: le quali lettere Galeazzo era poi solito a mostrare per sua giustificazione, come se per quelle gli fusse stato commesso, non che conducesse lo esercito salvo e in caso conoscesse poterlo fare, ma che temerariamente l'abbandonasse. Ma questo non è tanto certo quanto è certo a ciascuno che, se in Galeazzo fusse stato o consiglio di capitano o animo militare, arebbe potuto facilmente difendere Alessandria e la maggiore parte delle cose di là da Po, con le genti che aveva, anzi arebbe forse avuto qualche prospero successo: perché avendo, pochi dí innanzi, passato il fiume della Bornia una parte dello esercito franzese e, per essere sopravenute grosse pioggie, trovandosi rinchiusa tra i fiumi della Bornia e del Tanaro, non bastò l'animo a Galeazzo di assaltargli, se bene gli fusse significato che alcuni de' suoi cavalli leggieri, usciti di Alessandria per il ponte che in sul Tanaro congiugne il borgo alla città e andati inverso di loro, avessino quasi messo in fuga la prima squadra.

La perdita di Alessandria spaventò tutto il resto del ducato di Milano, oppresso a ogn'ora di nuove calamità: perché e i franzesi passato Po erano andati a campo a Mortara, donde Pavia si era accordata con loro, e le genti de' viniziani, presa la rocca di Caravaggio e passato in su uno ponte di barche il fiume di Adda, avevano corso insino a Lodi; e già quasi tutte l'altre terre tumultuavano. Né in Milano era minore confusione o terrore che altrove, perché tutta la città sollevata aveva preso l'armi: e con tanto poca riverenza verso il suo signore che, uscendo da lui del castello, nel mezzo del dí, Antonio da Landriano generale suo tesoriere, fu nella strada publica, o per inimicizie particolari o per ordine di chi desiderava cose nuove, ammazzato. Per il qual caso, Lodovico entrato in gravissimo spavento della sua persona, e privato d'ogni speranza di resistere, deliberò, lasciando bene guardato il castello di Milano, di andarsene co' figliuoli in Germania, per fuggire il pericolo presente e per sollecitare, secondo diceva, Massimiliano a venire a' suoi favori; il quale o aveva già conchiuso o aveva per ferma la concordia co' svizzeri. Fatta questa deliberazione, fece subito partire i figliuoli accompagnati dal cardinale Ascanio, che pochi dí innanzi era venuto da Roma per soccorrere quanto poteva le cose del fratello, e dal cardinale di San Severino: e insieme con loro mandò il tesoro, diminuito molto da quello che soleva essere: perché è manifesto che otto anni innanzi, avendo Lodovico per ostentare la sua potenza mostratolo agli imbasciadori e a molti altri, si era trovato ascendere tra danari e vasi di argento e di oro, senza le gioie che erano molte, alla quantità di uno milione e mezzo di ducati; ma in questo tempo, secondo l'opinione degli uomini, passava di poco dugentomila. Partiti i figliuoli, deputò, benché ne fusse sconfortato da tutti i suoi, alla guardia del castello di Milano Bernardino da Corte pavese, che allora ne era castellano, antico allievo suo, anteponendo la fede di costui a quella del fratello Ascanio che se gli era offerto di pigliarne la cura, e vi lasciò tremila fanti sotto capitani fidati, e provisione di vettovaglie di munizione e di danari bastante a difenderlo per molti mesi: e risoluto nelle cose di Genova fidarsi d'Agostino Adorno, allora governatore, e di Giovanni suo fratello, a cui era congiunta in matrimonio una sorella de' Sanseverini, mandò loro i contrasegni del castelletto. A' Buonromei gentiluomini di Milano restituí Anghiera, Arona e altre terre in sul Lago Maggiore, che aveva loro occupate, e a Isabella di Aragona, moglie già del duca Giovan Galeazzo, fece a conto delle sue doti donazione del ducato di Bari e del principato di Rossano per trentamila ducati, ancora che ella non gli avesse voluto concedere il piccolo figliuolo di Giovan Galeazzo, il quale egli desiderava che co' figliuoli suoi andasse in Germania. E poiché, ordinate queste cose, fu dimorato quanto gli parve potere dimorare sicuramente, reggendosi già la terra per se stessa, partí con molte lagrime, il secondo dí di settembre, per andare in Germania, accompagnato dal cardinale da Esti e da Galeazzo Sanseverino e, per assicurarsi il cammino, da Lucio Malvezzo e da non piccolo numero di uomini d'arme e di fanti. Né era appena uscito del castello che il conte di Gaiazzo, sforzandosi di coprire con qualche colore la sua perfidia, fattosegli incontro gli disse che, poiché egli abbandonava lo stato suo, pretendeva restare libero della condotta che aveva da lui, e potere prendere di sé qualunque partito gli piacesse; e immediate poi scoperse il nome e l'insegne di soldato del re di Francia, andando a' soldi suoi con la medesima compagnia che aveva messa insieme e conservata co' danari di Lodovico. Il quale da Como, dove lasciò la fortezza in potestà del popolo, se ne andò per il lago insino a Bellagio; e di poi smontato in terra passò da Bormio e per quegli luoghi dove già, nel tempo che era collocato in tanta gloria e felicità, aveva ricevuto Massimiliano, quando piú presto come capitano suo e de' viniziani che come re de' romani passò in Italia. Fu perseguitato tra Como e Bormio dalle genti franzesi e dalla compagnia del conte di Gaiazzo; da' quali luoghi, lasciata guardia nella fortezza di Tiranno, che fu pochi dí poi occupata da' grigioni, si indirizzò verso Spruch, dove intendeva essere la persona di Cesare.

Dopo la partita di Lodovico i milanesi, mandati subitamente imbasciadori a' capitani approssimatisi già con l'esercito a sei miglia alla città, consentirono di ricevergli liberamente; riservando il capitolare alla venuta del re, dal quale, procedendo solamente con la misura dell'utilità propria, speravano immoderate grazie ed esenzioni; e il medesimo feceno senza dilazione tutte l'altre terre del ducato di Milano. Volle e la città di Cremona, essendo circondata dalle genti de' viniziani, lo imperio de' quali abborriva, fare il medesimo; ma non volendo il re rompere la capitolazione fatta co' viniziani, fu necessitata arrendersi a loro. Seguitò Genova la medesima inclinazione, facendo a gara il popolo gli Adorni e Gianluigi dal Fiesco di essere gli autori principali di darla al re. E perché contro a Lodovico si dimostrasse non solo una rovina sí repentina e sí grande, avendo in venti dí perduto sí nobile e sí potente stato, ma ancora tutti gli esempli di ingratitudine, il castellano di Milano, eletto da lui per il piú confidato tra tutti i suoi, senza aspettare né uno colpo di artiglieria né alcuna specie di assalto, dette, il duodecimo dí dalla partita sua, al re di Francia il castello che era tenuto inespugnabile, ricevuta in premio di tanta perfidia quantità grande di danari la condotta di cento lancie provisione perpetua e molte altre grazie e privilegi, ma con tanta infamia e con tanto odio, eziandio appresso a' franzesi, che, rifiutato da ognuno come di fiera pestifera e abominevole il suo commercio, e schernito per tutto dove arrivava con obbrobriose parole, tormentato dalla vergogna e dalla coscienza (potentissimo e certissimo flagello di chi fa male), passò non molto poi per dolore all'altra vita. Parteciporno di questa infamia i capitani che con lui erano rimasti nel castello, e sopra gli altri Filippino dal Fiesco; il quale, allievo del duca e lasciatovi da lui per molto fedele, in cambio di confortare il castellano a tenersi, acciecato da grandissime promesse lo confortò al contrario, e insieme con Antonio Maria Palavicino, che interveniva in nome del re, trattò la dedizione. Ma come il re ebbe a Lione le nuove di tanta vittoria, succeduta molto piú presto di quello aveva sperato, passò subito con celerità grande a Milano; dove ricevuto con grandissima letizia concedé la esenzione di molti dazi: benché il popolo, intemperante ne' desideri suoi, avendo fatto concetto di avere a essere esente in tutto, non rimanesse con molta sodisfazione. Fece molte donazioni di entrate a molti gentiluomini dello stato di Milano; tra' quali riconoscendo i meriti di Gianiacopo da Triulzi, gli concedette Vigevano e molte altre cose.

Cap. x

I fiorentini padroni di tutto il contado di Pisa. I fiorentini danno l'assalto alla città che si trova in grave pericolo d'esser presa, senonché Paolo Vitelli fa sospendere l'azione. Malattie fra le milizie fiorentine. Il Vitelli leva il campo da Pisa; fatto prigione e condotto a Firenze è decapitato. Capi principali di condanna del Vitelli.

Ma nel tempo medesimo che dal re di Francia si movevano l'armi contro al ducato di Milano, Pagolo Vitelli, raccolte le genti e le provisioni de' fiorentini, per potere piú facilmente attendere alla espugnazione di Pisa, pose il campo alla terra di Cascina; la quale, se bene fusse proveduta sufficientemente di difensori e delle altre cose necessarie, e similmente munita di fossi e di ripari, ottenne, dappoi che furono piantate l'artiglierie, in ventisei ore: perché essendo cominciati a impaurire gli uomini della terra, per il progresso grande che per l'essere le mura deboli aveano fatto l'artiglierie, i soldati forestieri che vi erano dentro, prevenendogli, si arrenderono, patteggiata solamente la salvezza delle persone e robe proprie, e lasciati loro e i commissari e soldati pisani in arbitrio libero de' vincitori. Arrenderonsi dipoi, alla richiesta di uno trombetto solo, la torre edificata per la guardia della foce di Arno, e il bastione dello Stagno abbandonato da' pisani, in modo che per i pisani non si teneva altro in tutto il contado che la fortezza della Verrucola e la piccola torre d'Asciano, non molestate dagli inimici per la incomodità d'avere, volendo espugnarle, a passare Arno, e perché, essendo contigue a Pisa, potevano facilmente essere soccorse, e perché non importava alla somma delle cose il perdervi tempo.

Rimaneva adunque sola l'espugnazione di Pisa, impresa, da coloro che discorrevano prudentemente, non reputata se non difficile per la fortezza della città e per il numero virtú e ostinazione degli uomini che vi erano dentro: perché se bene in Pisa non erano soldati forestieri, eccetto Gurlino da Ravenna e pochi altri, i quali, venutivi agli stipendi de' viniziani, vi erano volontariamente rimasti dopo la partita delle loro genti, vi era copioso il numero de' cittadini e de' contadini, né minore di qualità che di quantità; perché per l'esperienza continua di cinque anni erano quasi tutti divenuti atti alla guerra, e con proposito sí ostinato di non ritornare sotto il dominio de' fiorentini che arebbono riputata minore qualunque altra gravissima avversità. Non aveano le mura della città fossi innanzi a sé, ma [erano] molto grosse e di pietra di antica struttura, talmente conglutinata, per la proprietà delle calcine che si fanno in quel paese, che per la loro solidità resistendo piú che comunemente non fanno l'altre muraglie alle artiglierie, davano, innanzi che le fussino gittate in terra, molto spazio, a coloro che erano dentro, di riparare. E nondimeno i fiorentini deliberorno d'assaltarla, confortati al medesimo da Pagolo Vitelli e da Rinuccio da Marciano, i quali davano speranza grande di espugnarla in quindici giorni. E perciò, avendo messi insieme diecimila fanti e molti cavalli, e fatti secondo la richiesta del capitano abbondantissimi provedimenti, egli, l'ultimo dí di luglio, vi pose il campo, non, come era ricordato da molti e come faceano instanza i fiorentini, da quella parte d'Arno che proibiva il soccorso che vi venisse di verso Lucca ma dall'altra parte del fiume, di riscontro alla fortezza di Stampace; o perché gli paresse facilitarsi assai la vittoria se espugnava quella fortezza, o per maggiore comodità delle vettovaglie che si conducevano dalle castella delle colline, o perché avesse avuto notizia che i pisani, non credendo che mai s'accampasse da quella parte, non v'aveano cominciato, come dall'altra parte facevano, riparo alcuno. Cominciossi a battere la rocca di Stampace e la muraglia, dalla mano destra e sinistra per lunghissimo tratto, con venti pezzi grossi d'artiglieria, cioè da Santo Antonio a Stampace e dipoi insino alla porta che si dice a mare, posta in sulla riva d'Arno. E per contrario i pisani, non intermettendo dí e notte di lavorare, e insieme con loro le donne non meno pertinaci e animose a questo che gli uomini, feciono in pochissimi dí all'opposito della muraglia che si batteva, uno riparo di grossezza e altezza notabile e uno fosso molto profondo; non gli spaventando che mentre che lavoravano ne erano feriti e morti molti dalle artiglierie, o per proprio colpo o per reverberazione, la quale peste offendeva similmente i soldati del campo, percossi talmente dalle artiglierie di dentro, massime da una passavolante piantata in sulla torre di San Marco, che erano necessitati, per tutto il campo, o di alzare il terreno per ripararsi o alloggiare nelle fosse. Procedessi piú dí con questi modi; e benché fusse già gittato in terra grande spazio di muraglia da Santo Antonio a Stampace, e ridotta quella fortezza in termini che il capitano sperava di potere senza molta difficoltà ottenerla, nondimeno per farsi la vittoria piú facile si continuava il battere da Stampace insino alla porta a mare, scaramucciandosi in questo mezzo spesso tra la muraglia battuta e il riparo, tanto lontano dalle mura che Stampace restava tutta fuora del riparo: in una delle quali scaramuccie fu ferito il conte Renuccio di uno archibuso. Ed era il consiglio del capitano, come avesse occupata Stampace, piantare l'artiglierie in su quella e in sulla muraglia battuta, donde offendendosi per fianco tutta quella parte che difendevano i pisani, sperava quasi certa la vittoria; e nel tempo medesimo fare cadere verso il riparo, acciocché riempiendosi il fosso fusse piú facile a' soldati la salita, una alia di muro tra Stampace e il riparo, la quale, tagliata prima con gli scarpelli, si sosteneva co' puntelli di legname. Da altra parte i pisani, che si governavano nella difesa secondo il consiglio di Gurlino, aveano fatte di verso Santo Antonio alcune case matte nel fosso per impedire agli inimici, in caso vi scendessino, il riempierlo, e distese su per i ripari verso Santo Antonio molte artiglierie, e alloggiati i fanti loro a piè del riparo, acciocché, riducendosi le cose allo stretto, si opponessino con le proprie persone agli inimici. Finalmente Pagolo Vitelli, il decimo dí poi che si era accampato, non volendo differire piú a pigliare Stampace, presentatavi la mattina in sull'alba la battaglia, benché i soldati fussino offesi dalle artiglierie della cittadella vecchia, la prese piú prestamente e con maggiore facilità che non aveva sperato e con tanto spavento de' pisani che abbandonati i ripari si mettevano per tutta la città in fuga; e molti, tra' quali Piero Gambacorta cittadino nobile, con quaranta balestrieri a cavallo che militavano sotto lui, si fuggirono di Pisa; e se ne sarebbono fuggiti molti piú se da' magistrati non fusse stata fatta resistenza alle porte: in modo che è manifesto che se si procedeva innanzi si otteneva quella mattina la vittoria, con grandissima gloria del capitano; al quale sarebbe stato felicissimo quel dí che fu origine delle sue calamità. Perché, non conoscendo egli, secondo che poi si scusava, l'occasione che insperatamente se gli presentò, né avendo ordinato di dare quel dí la battaglia con tutto il campo, né ad altro che a quella torre, non solo non mandò le genti ad assaltare il riparo, ove non arebbeno trovato resistenza, ma fece ritornare indietro la maggiore parte de' fanti, che inteso l'acquisto di Stampace, desiderosi di saccheggiare la città, correvano tumultuosamente per entrarvi; e in quel tanto i pisani, volando la fama per la città che gli inimici non seguitavano la vittoria, e concitati da' pianti e dalle grida miserabili delle donne, che gli confortavano a eleggere piú presto la morte che la conservazione della vita sotto il giogo de' fiorentini, cominciarono a ritornare alla guardia de' ripari. A' quali essendo ritornato Gurlino, e considerando che dal rivellino che aveva Stampace verso la terra era una via che andava verso la porta a mare, la quale aveano prima ripiena di terra e di legname e fortificata verso il campo, ma non proveduto all'altra via verso Stampace, fece subito riparare e riempiere da quel lato; e fatto uno terrato, con artiglierie che tiravano per fianco, impediva l'entrare da quella parte. Acquistata Stampace, Paolo vi fece tirare in alto falconetti e passavolanti, i quali tiravano per tutta Pisa ma non offendevano i ripari, i quali, benché fussino offesi dalle artiglierie piantate da basso, non però gli abbandonavano i pisani, e nel tempo medesimo si batteva la casa matta verso Santo Antonio e la porta a mare e le difese: né cessava Pagolo Vitelli di sforzarsi di riempiere il fosso con fascine, per facilitarsi il pigliare il riparo. Contro alle quali cose i pisani, in sussidio de' quali erano la notte seguente stati mandati da Lucca trecento fanti, cresciuti di animo, gittavano fuochi lavorati nel fosso; e ponendo sommo studio di necessitare quegli del campo ad abbandonare la torre di Stampace, vi voltorono uno grossissimo passavolante detto il bufolo, a pochi colpi del quale ottennono che si levasse l'artiglieria piantata in alto: contro al quale benché Pagolo voltasse alcuni passavolanti, da' quali fu sboccato, non cessando però di trarre, lacerò di maniera in piú dí la torre che Pagolo fu alla fine costretto di levare l'artiglieria e abbandonarla. Né fu altro il successo del muro tagliato: perché, avendo similmente i pisani puntellato dalla parte di dentro per farlo cadere di verso il fosso, quando Pagolo volle farlo cadere stette immobile. Non privò questo caso il capitano della speranza di avere a ottenere finalmente la vittoria; la quale cercando, secondo la natura sua, di acquistare piú sicuramente e con minore danno dell'esercito che si poteva, con tutto che in piú luoghi fussino in terra già piú di cinquecento braccia di muraglia, attendeva continuamente ad ampliare la batteria, a sforzarsi di riempiere i fossi della terra e a fortificare la torre di Stampace, per piantarvi di nuovo artiglieria e potere battere per fianco i ripari grandi che avevano fatto i pisani: sforzandosi, con tutta la perizia e arte sua, d'acquistare al continuo maggiore opportunità per dare piú sicuramente la battaglia generale e ordinata. La quale, benché già avesse condotto le cose in grado che qualunque volta si desse sperasse molto la vittoria, differiva volentieri di dare, perché tanto piú si diminuisse il danno dello esercito e si avesse maggiore certezza di ottenerla: con tutto che i commissari de' fiorentini, a' quali ogni minima dilazione era molestissima, e riscaldati con lettere e messi continui da Firenze, non cessasseno di stimolarlo che con l'accelerare prevenisse agl'impedimenti che a ogn'ora potrebbeno nascere. Il quale consiglio di Pagolo, forse piú prudente e piú secondo la disciplina militare, ebbe contraria la fortuna. Perché essendo il paese di Pisa, che è pieno di stagni e di paludi tra la marina vicina e la città, sottoposto in quella stagione dell'anno a pestiferi venti, e specialmente da quella parte onde era alloggiato il campo, sopravenneno in due dí nello esercito infinite infermità; per le quali, quando Pagolo volle dare la battaglia, che fu il vigesimo quarto dí di agosto, si accorse essere fatto inutile tanto numero di genti, ché quegli che erano sani non bastavano a darla: il quale disordine benché i fiorentini ed egli, oppresso come gli altri da infermità, si ingegnassino di ristorare col soldare nuovi fanti, nondimeno la influenza prevaleva talmente che era ogni dí molto maggiore la diminuzione che il supplemento. Però, disperato in ultimo di potere piú conseguire la vittoria e dubitando di qualche danno, deliberò levare il campo; contradicendo molto i fiorentini, perché desideravano che, messa nella fortezza di Stampace sufficiente guardia, si fermasse con l'esercito appresso a Pisa. La qual cosa disprezzata da lui, perché la rocca di Stampace, conquassata prima molto dalle artiglierie sue e poi da quelle de' pisani, non si poteva difendere, abbandonatala, ridusse il quarto dí di settembre tutto il campo alla via della marina; e diffidandosi di potere condurre per terra l'artiglieria a Cascina, perché dalle pioggie erano soffocate le strade, la imbarcò alla foce d'Arno perché si conducesse a Livorno: ma mostrandosi in ogni cosa avversa la fortuna, se ne sommerse una parte, che fu non molto dipoi ricuperata da' pisani, che nel tempo medesimo ripreseno la torre che è a guardia della foce. Per i quali accidenti si augumentò tanto la sinistra opinione che il popolo fiorentino aveva già conceputa di Pagolo che, pochi dí poi, chiamato in Cascina da' commissari, sotto specie di ordinare la distribuzione delle genti alle stanze, fu da loro, per comandamento del magistrato supremo della città, fatto prigione; donde mandato a Firenze e, la notte medesima che vi arrivò, esaminato aspramente con tormenti, fu il seguente dí per comandamento del medesimo magistrato decapitato. E mancò poco che nel medesimo infortunio non incorresse insieme con lui il fratello, il quale i commissari mandorono in quello istante a pigliare: ma Vitellozzo, cosí ammalato come era di infermità contratta intorno a Pisa, mentre che simulando volere ubbidire esce del letto, mentre che mette tempo in mezzo per vestirsi, salito, per l'aiuto di alcuno de' suoi che vi concorseno, in su uno cavallo, si rifuggí in Pisa, ricevuto con grandissima letizia da' pisani.

Furono i capi principali della condannazione contro a Pagolo: che dalla volontà sua fusse proceduto il non acquistare Pisa, avendo avuto facoltà di pigliarla il dí che fu presa la rocca di Stampace; che per la medesima cagione avesse differito tanto il dare la battaglia; avere udito piú volte uomini venuti a lui di Pisa, né mai comunicato co' commissari le imbasciate loro; e levato da campo contro al comandamento publico, e abbandonata Stampace, avere invitato qualcuno degli altri condottieri a occupare in compagnia sua Cascina, Vico Pisano e l'artiglierie, per potere ne' pagamenti e nelle altre condizioni maneggiare come gli paresse i fiorentini: che in Casentino avesse tenuto pratiche occulte co' Medici, e nel tempo medesimo trattato e quasi conchiuso di condursi co' viniziani (benché per cominciare a servirgli subito che fusse finita la condotta sua co' fiorentini, la quale era già quasi alla fine), il che non avere avuto perfezione perché i viniziani, fatto l'accordo co' fiorentini, recusorono di condurlo; e che per queste cagioni avesse dato il salvo condotto al duca di Urbino e a Giuliano de' Medici. Sopra le quali cose esaminato non confessò particolare alcuno che l'aggravasse; e nondimeno non fu esaminato piú lungamente, perché per timore che il re di Francia, già venuto a Milano, non dimandasse la sua liberazione, fu accelerato il supplizio. Né alcuni de' suoi ministri, che dopo la morte sua furono con maggiore comodità esaminati, confessorono altro che essere in lui molto mala sodisfazione de' fiorentini, per il favore dato in concorrenza sua al conte Renuccio, per la difficoltà di spedire le provisioni che dimandava e qualche volta le cose sue particolari, e per quello che volgarmente si parlava in Firenze in carico suo. Donde, benché in alcuni restasse opinione che e' non fusse proceduto sinceramente, come se aspirasse a farsi signore di Pisa e a occupare qualche altra parte del dominio fiorentino, nel quale nutriva molte intelligenze e amicizie, nondimeno nella maggiore parte è stata opinione contraria, persuadendosi che egli desiderasse sommamente la espugnazione di Pisa, per l'interesse della gloria, primo capitale de' capitani di guerra, che ottenendo quella impresa gli perveniva grandissima.

Cap. xi

Omaggi di príncipi italiani al re di Francia in Milano. Patti conclusi non senza difficoltà tra il re di Francia e i fiorentini.

Ma al re venuto a Milano erano concorsi, parte in persona parte per imbasciadori, dal re Federigo in fuori, tutti i potentati d'Italia; chi per congratularsi solamente della vittoria, chi per giustificare le imputazioni avute di essere stato piú inclinato a Lodovico Sforza che a lui, chi per stabilire seco in futuro le cose sue; i quali tutti raccolse benignamente, e con tutti fece composizioni ma diverse secondo la diversità delle condizioni e secondo quello che poteva disegnare di profittarsene. Accettò in protezione il marchese di Mantova, al quale dette la condotta di cento lancie, l'ordine di San Michele e onorata provisione: accettò similmente in protezione il duca di Ferrara; l'uno e l'altro de' quali era andato a lui personalmente, ma questo non senza spesa e difficoltà, perché, poi che ebbe consegnato a Lodovico Sforza il castelletto di Genova, era sempre stato tenuto d'animo alieno dalle cose franzesi: accettò oltre a questi in protezione, ma ricevuti danari da lui, Giovanni Bentivogli, che v'avea mandato Annibale suo figliuolo.

Ma con maggiore spesa e difficoltà si composeno le cose de' fiorentini. A' quali, dimenticati i meriti loro e quello che per seguitare l'amicizia franzese avevano patito a tempo del re passato, era avversa quasi tutta la corte, non si accettando le ragioni che, per non si provocare contro nelle cose di Pisa Lodovico Sforza, gli aveano necessitati a stare neutrali: perché ne' petti de' franzesi poteva ancora la impressione fatta quando il re Carlo concedé la libertà a' pisani; anzi appresso a' capitani e agli uomini militari era cresciuta l'affezione, per la fama ampliata per tutto che e' fussino uomini valorosi nell'armi. Noceva oltre a questo a' fiorentini l'autorità di Gianiacopo da Triulzio il quale, aspirando al dominio di Pisa, favoriva la causa de' pisani, desiderosi di ricevere per signore lui e ogn'altro che avesse potuto difendergli da' fiorentini. I quali erano lacerati medesimamente, per tutta la corte, della morte di Pagolo Vitelli, come se senza cagione avessino decapitato uno capitano di tanto valore e al quale la corona di Francia aveva obligazione, perché il fratello era stato ammazzato ed egli fatto prigione mentre che erano nel regno di Napoli agli stipendi del re Carlo. Ma potendo finalmente piú nell'animo del re l'utilità propria che le cose vane, fu fatta composizione per la quale il re, ricevutigli in protezione, si obligò a difendergli contro a ciascuno con seicento lancie e quattromila fanti; e i fiorentini, reciprocamente, alla difesa degli stati suoi d'Italia con quattrocento uomini d'arme e tremila fanti: che il re fusse obligato servirgli, a loro richiesta, di quelle lancie e artiglierie bisognassino per la ricuperazione di Pisa e delle terre occupate da' sanesi e da' lucchesi, ma non già di quelle che tenevano i genovesi; e non essendogli richieste prima queste genti, fusse obligato, quando mandasse esercito alla impresa di Napoli, voltarle tutte o parte a questa espedizione; e che ricuperato che avessino Pisa, e non altrimenti, fussino tenuti dargli, per l'acquisto di Napoli, cinquecento uomini d'arme e cinquantamila ducati per pagarne cinquemila svizzeri per tre mesi; e che a lui restituissino trentaseimila ducati che aveva loro prestati Lodovico Sforza, defalcandone a dichiarazione di Gianiacopo da Triulzi quel che avessino pagato o speso per lui: conducessino per capitano generale delle loro genti il prefetto di Roma fratello del cardinale di San Piero a Vincola, a instanza del quale fu fatta questa dimanda.

 

Cap. xii

Aiuti dati dal re di Francia al Valentino per rivendicare i diritti della Chiesa sulle terre di Romagna. Come la Chiesa istituita da principio meramente per l'amministrazione spirituale sia pervenuta agli stati e agli imperi mondani. Condizioni delle terre di Romagna e inizi dell'impresa del Valentino. Il Valentino ottiene Imola. Vicende della guerra fra i veneziani e i turchi.

Né dormiva in tanta opportunità l'ambizione del pontefice; il quale instando per l'osservazione delle promesse, il re concedette contro a' vicari di Romagna al duca Valentino, venuto con lui di Francia, trecento lancie sotto Ivo d'Allegri a spese proprie e quattromila svizzeri, ma questi a spese del pontefice, sotto il baglí di Digiuno. Per la dichiarazione della qual cosa, e di molt'altre succedute ne' tempi seguenti, ricerca la materia che si faccia menzione che ragioni abbia la Chiesa sopra le terre di Romagna e sopra molte altre, le quali o ha in vari tempi possedute o ora possiede: e in che modo, instituita da principio meramente per la amministrazione spirituale, sia pervenuta agli stati e agli imperi mondani; e similmente che si narri, come cosa connessa, che congiunzioni e contenzioni sieno state, per queste e altre cagioni, in diversi tempi tra i pontefici e gli imperadori.

I pontefici romani, de' quali il primo fu l'apostolo Piero, fondata da Giesú Cristo l'autorità loro nelle cose spirituali, grandi di carità d'umiltà di pazienza di spirito e di miracoli, furono ne' loro princípi non solo al tutto spogliati di potenza temporale ma, perseguitati da quella, stettono per molti anni oscuri e quasi incogniti; non si manifestando il nome loro per alcuna cosa piú che per i supplici, i quali, insieme con quegli che gli seguivano, quasi quotidianamente sostenevano: perché se bene, per la moltitudine innumerabile e per le diverse nazioni e professioni che erano in Roma, fussino qualche volta poco attesi i progressi loro, e alcuni degli imperadori non gli perseguitassino se non quanto pareva che l'azioni loro publiche non potessino essere con silenzio trapassate, nondimeno alcuni altri, o per crudeltà o per l'amore agli dii propri, gli perseguitorono atrocemente, come introduttori di nuove superstizioni e distruttori della vera religione. Nel quale stato, chiarissimi per la volontaria povertà, per la santità della vita e per i martiri, continuorono insino a Silvestro pontefice; a tempo del quale essendo venuto alla fede cristiana Costantino imperadore, mosso da' costumi santissimi e da' miracoli che in quegli che il nome di Cristo seguitavano continuamente si vedevano, rimasono i pontefici sicuri de' pericoli ne' quali erano stati circa a trecento anni, e liberi di esercitare publicamente il culto divino e i riti cristiani: onde per la riverenza de' costumi loro, per i precetti santi che contiene in sé la nostra religione, e per la prontezza che è negli uomini a seguitare, o per ambizione, il piú delle volte, o per timore, l'esempio del suo principe, cominciò ad ampliarsi per tutto maravigliosamente il nome cristiano, e insieme a diminuire la povertà de' cherici. Perché Costantino avendo edificato a Roma la chiesa di San Giovanni in Laterano, la chiesa di San Piero in Vaticano, quella di San Paolo e molte altre in diversi luoghi, le dotò non solo di ricchi vasi e ornamenti ma ancora (perché si potessino conservare e rinnovare, e per le fabriche e sostentazione di quegli che vi esercitavano il culto divino) di possessioni e di altre entrate; e successivamente molti, ne' tempi che seguitorono, persuadendosi con le elemosine e co' legati alle chiese farsi facile l'acquisto del regno celeste, o fabricavano e dotavano altre chiese o alle già edificate dispensavano parte delle ricchezze loro. Anzi, o per legge o per inveterata consuetudine, seguitando l'esempio del Testamento vecchio, ciascuno, de' frutti de' beni propri, pagava alle chiese la decima parte: eccitandosi a queste cose gli uomini con grande ardore, perché da principio i cherici, da quello in fuora che era necessario per il moderatissimo vitto loro, tutto il rimanente, parte nelle fabriche e paramenti delle chiese parte in opere pietose e caritative, distribuivano. Né essendo entrata ancora ne' petti loro la superbia e l'ambizione, era riconosciuto universalmente da' cristiani per superiore di tutte le chiese e di tutta l'amministrazione spirituale il vescovo di Roma, come successore dello apostolo Piero, e perché quella città, per la sua antica degnità e grandezza, riteneva, come capo dell'altre, il nome e la maestà dello imperio, e perché da quella si era diffusa la fede cristiana nella maggiore parte della Europa, e perché Costantino, battezzato da Silvestro, tale autorità volentieri in lui e ne' suoi successori avea riconosciuta. È fama, oltre a queste cose, che Costantino, costretto dagli accidenti delle provincie orientali a trasferire la sedia dello imperio nella città di Bisanzio, chiamata dal suo nome Costantinopoli, donò a' pontefici il dominio di Roma e di molte altre città e regioni d'Italia: la quale fama, benché diligentemente nutricata da' pontefici che succederono e per l'autorità loro creduta da molti, è dagli autori piú probabili riprovata, e molto piú dalle cose stesse; perché è manifestissimo che allora, e lungo tempo dipoi, fu amministrata Roma e tutta Italia come suddita allo imperio, e dai magistrati deputati dagli imperadori. Né manca chi redarguisca (sí profonda è spesso nelle cose tanto antiche la oscurità) tutto quello che si dice di Costantino e di Silvestro, affermando essi essere stati in diversi tempi. Ma niuno nega che la traslazione della sedia dello imperio a Costantinopoli fu la prima origine della potenza de' pontefici, perché indebolendo in progresso di tempo l'autorità degli imperadori in Italia, per la continua assenza loro e per le difficoltà che ebbono nello Oriente, il popolo romano, discostandosi dagli imperadori e però tanto piú deferendo a' pontefici, cominciò a prestare loro non subiezione ma spontaneamente uno certo ossequio: benché queste cose non si dimostrorono se non lentamente, per le inondazioni dei goti de' vandali e di altre barbare nazioni che sopravennono in Italia; dalle quali presa e saccheggiata piú volte Roma, era in quanto alle cose temporali oscuro e abietto il nome de' pontefici, e piccolissima in Italia l'autorità degli imperadori, poiché con tanta ignominia la lasciavano in preda de' barbari. Tra le quali nazioni, essendo stato l'impeto dell'altre quasi come uno torrente, continuò per settanta anni la potenza de' goti, gente di nome e di professione cristiana e uscita dalla prima origine sua delle parti di Dacia e di Tartaria. La quale essendo finalmente stata cacciata d'Italia dall'armi degli imperadori, cominciò di nuovo Italia a governarsi per magistrati greci, de' quali quello che era superiore a tutti, detto con greco vocabolo esarco, risedeva a Ravenna, città antichissima e allora molto ricca e molto frequente per la fertilità del paese e perché, dopo l'augumento grande che ebbe per l'armata potente tenuta continuamente da Cesare Augusto e da altri imperadori nel porto quasi congiuntogli, e che ora non apparisce, di Classe, era stata abitata da molti capitani, e poi per lungo tempo da Teoderico re de' goti e da i suoi successori; i quali, avendo a sospetto la potenza degli imperadori, aveano eletta quella piú tosto che Roma per sedia del regno loro, per l'opportunità del suo mare piú propinquo a Costantinopoli: la quale opportunità, benché per contraria ragione, seguitando gli esarchi, fermatisi quivi, deputavano al governo di Roma e delle altre città d'Italia magistrati particolari, sotto titolo di duchi. Da questo ebbe origine il nome dello esarcato di Ravenna sotto il quale nome si comprendeva tutto quello che, non avendo duchi particolari, ubbidiva immediatamente allo esarco. Nel quale tempo i pontefici romani, privati in tutto di potenza temporale, e allentata, per la dissimilitudine de' costumi loro già cominciati a trascorrere, la reverenza spirituale, stavano quasi come subietti agli imperadori; senza la confermazione de' quali o de' loro esarchi, benché eletti dal clero e dal popolo romano, non ardivano di esercitare o di accettare il pontificato: anzi gli episcopi costantinopolitano e ravennate (perché comunemente la sedia della religione séguita la potenza dello imperio e delle armi) disputavano spesso della superiorità con l'episcopo romano. Ma si mutò non molto poi lo stato delle cose, perché i longobardi, gente ferocissima, entrati in Italia, occuporono la Gallia Cisalpina, la quale dallo imperio loro prese il nome di Lombardia, Ravenna con tutto l'esarcato e molte altre parti d'Italia; e si disteseno l'armi loro insino nella marca anconitana e a Spuleto e a Benevento, ne' quali due luoghi creorono duchi particolari: non provedendo a queste cose, parte per la ignavia loro parte per le difficoltà che avevano in Asia, gli imperadori. Dagli aiuti de' quali Roma abbandonata, né essendo piú il magistrato degli esarchi in Italia, cominciò a reggersi co' consigli e con l'autorità de' pontefici. I quali, dopo molto tempo, essendo insieme co' romani oppressati da' longobardi, ricorsono finalmente agli aiuti di Pipino re di Francia; il quale, passato con potente esercito in Italia, avendovi i longobardi dominato già piú di dugento anni, cacciatigli di una parte del loro imperio, donò, come diventate sue per ragione di guerra, al pontefice e alla Chiesa romana non solo Urbino, Fano, Agobbio e molte terre vicine a Roma ma eziandio Ravenna col suo esarcato, sotto il quale dicono includersi tutto quello che si contiene da' confini di Piacenza, contigui al territorio di Pavia, insino ad Arimini, tra il fiume del Po il monte Apennino gli stagni, ovvero palude de' viniziani, e il mare Adriatico, e di piú Arimini insino al fiume della Foglia, detto allora Isauro. Ma dopo la morte di Pipino, molestando di nuovo i longobardi i pontefici e quel che era stato donato loro, Carlo suo figliuolo, quello che poi per le vittorie grandissime che ebbe fu meritamente cognominato magno, distrutto del tutto lo imperio loro, confermò la donazione fatta alla Chiesa romana dal padre; e approvò l'essersi, mentre guerreggiava co' longobardi, date al pontefice la marca di Ancona e il ducato di Spuleto, il quale comprendeva la città dell'Aquila e una parte dello Abruzzi. Affermansi queste cose per certe: alle quali aggiungono alcuni scrittori ecclesiastici Carlo avere donato alla Chiesa la Liguria insino al fiume del Varo, ultimo confine d'Italia, Mantova e tutto quello che i Longobardi possedevano nel Friuli e in Istria; e il medesimo scrive alcuno altro, dell'isola di Corsica e di tutto il territorio che si contiene tra le città di Luni e di Parma. Per i quali meriti i re di Francia, celebrati ed esaltati da' pontefici conseguitorono il titolo di re cristianissimi; e dipoi, l'anno ottocentesimo della nostra salute, Leone pontefice insieme col popolo romano, non con altra autorità il pontefice che come capo di quello popolo, elessono il medesimo Carlo per imperadore romano, separando eziandio nel nome questa parte dello imperio dagli imperadori che abitavano a Costantinopoli, come se Roma e le provincie occidentali, non difese da loro, avessino bisogno di essere difese da proprio principe. Per la quale divisione non furno privati gli imperadori costantinopolitani né dell'isola di Sicilia né di quella parte d'Italia la quale, discorrendo da Napoli a Manfredonia, è terminata dal mare; perché erano state continuamente sotto quegli imperadori. Né si derogò per queste cose alla consuetudine che la elezione de' pontefici fusse confermata dagli imperadori romani, in nome de' quali si governava la città di Roma; anzi i pontefici nelle bolle ne' privilegi e nelle concessioni loro esprimevano con queste parole formali il tempo della scrittura: "Imperante il tale imperadore signore nostro". Nella quale, non grave, o soggezione o dependenza continuorono insino a tanto che i successi delle cose non dettono loro animo a reggersi per se stessi. Ma essendo cominciata a indebolire la potenza degli imperadori, prima per le discordie nate tra i discendenti medesimi di Carlo magno, mentre che in loro risedeva la degnità imperiale e dipoi per l'essere stata trasportata ne' príncipi tedeschi, non potenti come erano stati, per la grandezza del regno di Francia, i successori di Carlo, i pontefici e il popolo romano, da' magistrati del quale cominciò Roma, benché tumultuosamente, a governarsi, derogando in tutte le cose quanto potevano alla giurisdizione degli imperadori, statuirono per legge che non piú la elezione de' pontefici avesse a essere confermata da loro; il che per molti anni si osservò diversamente, secondo che per la variazione delle cose sorgeva o declinava piú la potenza imperiale. La quale essendo accresciuta poiché lo imperio pervenne negli Ottoni di Sassonia, Gregorio, medesimamente di Sassonia, eletto pontefice per favore di Ottone terzo, che era presente, mosso dall'amore della propria nazione e sdegnato per le persecuzioni ricevute da' romani, trasferí per suo decreto nella nazione germanica la facoltà di eleggere gli imperadori romani, in quella forma che insino alla età nostra si osserva; vietando agli eletti, per riservare a' pontefici qualche preeminenza, di non usare il titolo di imperadori o di Augusti se prima non ricevevano da' pontefici la corona dello imperio (donde è introdotto il venire a Roma a incoronarsi), e di non usare prima altro titolo che di re de' romani e di Cesari. Ma mancati poi gli Ottoni, e diminuita la potenza degli imperadori perché lo imperio non si continuava ereditario in re grandi, Roma apertamente si sottrasse dalla obedienza loro, e molte città, quando imperava Corrado svevo, si ribellorono; e i pontefici, attendendo ad ampliare la propria autorità, dominavano quasi Roma, benché spesso per la insolenza e per le discordie del popolo vi avessino molte difficoltà: il quale per reprimere avevano già, per favore di Enrico secondo imperadore che era a Roma, trasferito per legge ne' cardinali soli l'autorità di creare il pontefice. Alla grandezza de' quali succedette nuovo augumento, perché avendo i normanni, de' quali il primo fu Guglielmo cognominato Ferrabracchio, usurpata allo imperio costantinopolitano la Puglia e la Calavria, Ruberto Guiscardo, uno di essi, o per fortificarsi con questo colore di ragione o per essere piú potente a difendersi contro a quegli imperadori o per altra cagione, restituito Benevento come di ragione ecclesiastica, riconobbe il ducato di Puglia e di Calavria in feudo della Chiesa romana; il cui esempio seguitando Ruggieri, uno de' suoi successori, e avendo scacciato del ducato di Puglia e di Calavria Guglielmo della medesima famiglia e occupata poi la Sicilia, riconobbe, circa l'anno mille cento trenta, queste provincie in feudo dalla Chiesa sotto titolo di re di ambedue le Sicilie, l'una di là l'altra di qua dal Faro: non ricusando i pontefici di fomentare, per la ambizione e utilità propria, l'altrui usurpazione e violenza. Con le quali ragioni pretendendo sempre piú oltre (come non mai si ferma la cupidità umana) cominciorono i pontefici a privare di quegli regni alcuni de' re contumaci a' loro comandamenti e a concedergli ad altri; nel quale modo pervennono in Enrico figliuolo di Federigo Barbarossa e da Enrico in Federico secondo suo figliuolo, tutt'a tre successivamente imperadori romani.

Ma essendo Federigo diventato acerrimo persecutore della Chiesa, e suscitate a' tempi suoi in Italia le fazioni guelfa e ghibellina, dell'una delle quali era capo il pontefice dell'altra lo imperadore, il pontefice, morto Federigo, concedette la investitura di questi regni a Carlo conte d'Angiò e di Provenza, del quale di sopra è stata fatta menzione, con censo di oncie seimila d'oro per ciascuno anno, e con condizione che per l'avvenire alcuno di quegli re non potesse accettare lo imperio romano; la quale condizione è stata poi sempre specificata nelle investiture; benché il regno dell'isola di Sicilia, occupato dai re di Aragona, si separò, dopo pochi anni, nel censo e nella recognizione del feudo, dalla ubbidienza della Chiesa. Ha anche ottenuto la fama, benché non tanto certa quanto sono le cose precedenti, che molto prima la contessa Matelda, principessa in Italia molto potente, donò alla Chiesa quella parte della Toscana la quale, terminata dal torrente di Pescia e dal castello di San Quirico nel contado di Siena da una parte, e dall'altra dal mare di sotto e dal fiume del Tevere, è oggi detta il patrimonio di San Piero; e aggiungono altri che dalla medesima contessa fu donata alla Chiesa la città di Ferrara. Non sono certe queste ultime cose: ma è ancora piú dubbio quello che è stato scritto da qualcuno, che Aritperto re de' longobardi, fiorendo il regno loro, gli donò l'Alpi Coccie, nelle quali dicono includersi Genova e tutto quello che si contiene da Genova insino a' confini della Provenza; e che Liutprando, re della medesima nazione, gli donò la Sabina, paese propinquo a Roma, Narni e Ancona con certe altre terre. Cosí variando lo stato delle cose, furono similmente varie le condizioni de' pontefici con gli imperadori, perché, essendo stati perseguitati per molte età dagli imperadori e dipoi liberati, per la conversione di Costantino, da questo terrore, si riposorono, ma attendendo solamente alle cose spirituali, e poco meno che interamente sudditi, per molti anni, sotto l'ombra loro; vissono dipoi lunghissimo tempo in basso stato e separati totalmente dal commercio loro, per la grandezza de' longobardi in Italia. Ma dipoi, pervenuti per beneficio de' re di Francia a potenza temporale, stettono congiuntissimi con gli imperadori e dependendo con allegro animo dalla loro autorità, mentre che la degnità imperiale si continuò ne' discendenti di Carlo magno, e per la memoria de' benefici dati e ricevuti e per rispetto della grandezza imperiale. La quale poi declinando, separatisi in tutto dalla amicizia loro, cominciorono a fare professione che la degnità pontificale avesse piú tosto a ricevere che a dare le leggi alla imperiale: e perciò, avendo sopra tutte l'altre cose in orrore il ritornare nell'antica subiezione, e che essi non tentassino di riconoscere in Roma e altrove le antiche ragioni dello imperio, come alcuni di loro o di maggiore potenza o di spirito piú elevato si sforzavano di fare, si opponevano scopertamente con le armi alla potenza loro; accompagnati da quegli tiranni che, sotto nome di príncipi, e da quelle città che, vendicatesi in libertà, non riconoscevano piú l'autorità dello imperio. Da questo nacque che i pontefici, attribuendosi ogni dí piú, e convertendo il terrore dell'armi spirituali alle cose temporali, e interpretando che come vicari di Cristo in terra erano superiori agli imperadori, e che a loro in molti casi apparteneva la cura dello stato terreno, privavano alcuna volta gli imperadori della degnità imperiale, suscitando gli elettori a eleggere degli altri in luogo de' privati; e da altra parte gli imperadori o eleggevano o procuravano che si eleggessino nuovi pontefici. Da queste controversie nacque, essendo indebolito molto lo stato della Chiesa, né meno per la dimora della corte romana per settanta anni nella città di Avignone, e per lo scisma che al ritorno de' pontefici succedette in Italia, che nelle città sottoposte alla Chiesa, e specialmente in quelle di Romagna, molti cittadini potenti occuporno nelle patrie proprie la tirannide; i quali i pontefici o perseguitavano o, non essendo potenti a opprimergli, le concedevano in feudo a quegli medesimi, o suscitando altri capi gli investivano. Cosí cominciorono le città di Romagna ad avere signori particolari, sotto titolo, la maggiore parte, di vicari ecclesiastici. Cosí Ferrara, data dal pontefice in governo ad Azzo da Esti, fu conceduta poi in titolo di vicariato, ed esaltata in progresso di tempo quella famiglia a titoli piú illustri; cosí Bologna, occupata da Giovanni Visconte arcivescovo di Milano, gli fu poi conceduta in vicariato dal pontefice: e per le medesime cagioni, in molte terre della marca di Ancona, del patrimonio di San Piero e della Umbria, ora detta il ducato, sorsono, o contro alla volontà o con consentimento quasi sforzato de' pontefici, molti signori particolari. Le quali variazioni essendo similmente sopravenute in Lombardia alle città dello imperio, accadde talvolta che, secondo la varietà delle cose, i vicari di Romagna e di altre terre ecclesiastiche, allontanatisi apertamente dal nome della Chiesa, riconoscevano in feudo quelle città dagli imperadori; come, qualche volta, riconoscevano in feudo da' pontefici quegli che occupavano, in Lombardia, Milano Mantova e altre terre imperiali. E in questi tempi Roma, benché ritenendo in nome il dominio della Chiesa, si reggeva quasi per se stessa. E ancora che, nel principio che i pontefici romani ritornorno di Avignone in Italia, fussino ubbiditi come signori, nondimeno poco poi i romani, creato il magistrato de' banderesi, ricaddono nella antica contumacia; donde ritenendovi i pontefici piccolissima autorità cominciorono a non vi abitare, insino a tanto che i romani, impoveriti e caduti in gravissimi disordini per l'assenza della corte, e approssimandosi l'anno del mille quattrocento, nel quale speravano, se a Roma fusse il pontefice, dovervi essere per il giubileo grandissimo concorso di tutta la cristianità, supplicorono con umilissimi prieghi a Bonifazio pontefice che vi ritornasse, offerendo di levare via il magistrato de' banderesi e di sottomettersi in tutto alla ubbidienza sua. Con le quali condizioni tornato a Roma, intenti i romani a' guadagni di quello anno, preso assolutamente lo imperio della città, fortificò e messe la guardia in Castel Sant'Angelo: i successori del quale, insino a Eugenio, benché v'avessino spesso molte difficoltà, nondimeno, fermato poi pienamente il dominio loro, i pontefici seguenti hanno senza alcuna controversia signoreggiata ad arbitrio suo quella città. Con questi fondamenti e con questi mezzi esaltati alla potenza terrena, deposta a poco a poco la memoria della salute dell'anime e de' precetti divini, e voltati tutti i pensieri loro alla grandezza mondana, né usando piú l'autorità spirituale se non per instrumento e ministerio della temporale, cominciorono a parere piú tosto príncipi secolari che pontefici. Cominciorono a essere le cure e i negozi loro non piú la santità della vita, non piú l'augumento della religione, non piú il zelo e la carità verso il prossimo, ma eserciti, ma guerre contro a' cristiani, trattando co' pensieri e con le mani sanguinose i sacrifici, ma accumulazione di tesoro, nuove leggi nuove arti nuove insidie per raccorre da ogni parte danari; usare a questo fine senza rispetto l'armi spirituali, vendere a questo fine senza vergogna le cose sacre e le profane. Le ricchezze diffuse in loro e in tutta la corte seguitorono le pompe il lusso e i costumi inonesti, le libidini e i piaceri abominevoli; nessuna cura a' successori, nessuno pensiero della maestà perpetua del pontificato, ma, in luogo di questo, desiderio ambizioso e pestifero di esaltare non solamente a ricchezze immoderate ma a principati, a regni, i figliuoli i nipoti e congiunti loro; non distribuendo piú le degnità e gli emolumenti negli uomini benemeriti e virtuosi, ma, quasi sempre, o vendendosi al prezzo maggiore o dissipandosi in persone opportune all'ambizione all'avarizia o alle vergognose voluttà. Per le quali operazioni perduta del tutto ne' cuori degli uomini la riverenza pontificale, si sostenta nondimeno in parte l'autorità per il nome e per la maestà, tanto potente ed efficace, della religione, e aiutata molto dalla facoltà che hanno di gratificare a' príncipi grandi e a quegli che sono potenti appresso a loro, per mezzo delle degnità e delle altre concessioni ecclesiastiche. Donde, conoscendosi essere in sommo rispetto degli uomini, e che a chi piglia l'armi contro a loro risulta grave infamia e spesso opposizione di altri príncipi e, in ogni evento, piccolo guadagno, e che vincitori esercitano la vittoria ad arbitrio loro, vinti conseguiscono che condizione vogliono, e stimolandogli la cupidità di sollevare i congiunti suoi di gradi privati a principati, sono stati da molto tempo in qua spessissime volte lo instrumento di suscitare guerre e incendi nuovi in Italia.

Ma ritornando al principale proposito nostro, dal quale il dolore giustissimo del danno publico m'aveva, piú ardentemente che non conviene alla legge dell'istoria, traportato, le città di Romagna, vessate come l'altre suddite alla Chiesa da questi accidenti, si reggevano, già molti anni, in quanto all'effetto, quasi come separate dal dominio ecclesiastico; perché alcuni de' vicari non pagavano il censo debito in recognizione della superiorità, altri lo pagavano con difficoltà e spesso fuora di tempo, ma tutti indistintamente senza licenza de' pontefici si conducevano agli stipendi di altri príncipi, non eccettuando di non essere tenuti a servirgli contro alla Chiesa, e ricevendo obligazione da loro di difendergli eziandio contro all'autorità e l'armi de' pontefici: da' quali erano ricevuti cupidamente, per potersi valere delle armi e delle opportunità degli stati loro, né meno per impedire che non si accrescesse la potenza de' pontefici. Ma in questo tempo erano possedute da' viniziani in Romagna le città di Ravenna e di Cervia, delle quali avevano molti anni innanzi spogliati quegli della famiglia da Polenta, divenuti prima, di cittadini privati di Ravenna, tiranni della loro patria e poi vicari; Faenza Furlí Imola e Rimini erano dominate da vicari particolari; Cesena, signoreggiata lungamente dalla famiglia de' Malatesti, morendo non molti anni innanzi senza figliuoli Domenico ultimo vicario di quella città, era ritornata sotto l'imperio della Chiesa. Perciò il pontefice, pretendendo che quelle città fussino per diverse cause devolute alla sedia apostolica e volere reintegrarla nelle sue antiche giurisdizioni, ma con intenzione veramente di attribuirle a Cesare suo figliuolo, avea convenuto col re di Francia che, acquistato che avesse il ducato di Milano, gli desse aiuto a ottenere solamente quelle che erano possedute da' vicari, e oltre a queste la città di Pesero della quale era vicario Giovanni Sforza già suo genero; perché la grandezza de' viniziani non permetteva che contro a loro si distendessino questi pensieri: i quali né si distendevano, per allora, a quelle piccole terre che, contigue al fiume del Po, erano tenute dal duca di Ferrara. Ottenute adunque il Valentino le genti dal re, e aggiunte a quelle le genti della Chiesa, entrato in Romagna, ottenne subito la città d'Imola per accordo, negli ultimi dí dell'anno mille quattrocento novantanove.

Nel quale anno Italia, conquassata da tanti movimenti, aveva similmente sentite le armi de' turchi; perché, avendo Baiseth ottomanno assaltato per mare con potente armata i luoghi che in Grecia tenevano i viniziani, mandò per terra seimila cavalli a predare la regione del Frioli; i quali, trovato il paese non guardato né sospettando di tale accidente, corsono predando e ardendo insino a Liquenza; e avendo fatto quantità innumerabile di prigioni, quando, ritornandosene, giunsono alla ripa del fiume del Tigliavento, per camminare piú espediti, riserbatasi quella parte quale stimorono potere condurre seco, ammazzorono crudelissimamente tutti gli altri. Né procedendo anche prosperamente le cose in Grecia, Antonio Grimanno, capitano generale dell'armata opposta da' viniziani alla armata del turco, accusato che non avesse usata l'occasione di vincere gli inimici che uscivano del porto della Sapienza, e un'altra volta alla bocca del golfo di Lepanto, datogli il successore, fu citato a Vinegia, e commessa la cognizione al consiglio de' pregati; nel quale fu trattata molti mesi con grandissima espettazione, difendendolo da una parte l'autorità e grandezza sua, dall'altra perseguitandolo con molti argomenti e testimoni gli accusatori. Finalmente, parendo che fusse per prevalere la causa sua, o per l'autorità dell'uomo e moltitudine de' parenti o perché in quello consiglio, nel quale intervengono molti uomini prudenti, non si considerassino tanto i romori publici e le calunnie non bene provate quanto si desiderasse di intendere maturamente la verità della cosa, fu questa cognizione per il magistrato degli avocadori del comune trasferita al giudicio del consiglio maggiore: dove, o cessando i favori o avendovi piú luogo la leggerezza della moltitudine che la maturità senatoria, fu, non però prima che nell'anno seguente, alla fine rilegato a esilio perpetuo nell'isola di Ossaro.

Cap. xiii

Il giubileo. Il Valentino prende Forlí. Ritorno del re in Francia: cause di malcontento in Milano. Lodovico Sforza riconquista il ducato e cerca con scarsa fortuna alleati ed aiuti. Lodovico Sforza ottiene Novara.

Ebbe movimenti cosí grandi l'anno mille quattrocento novantanove, ma non fu meno vario e memorabile l'anno mille cinquecento; nobile ancora per la remissione plenaria del giubileo. Il quale, instituito da principio da' pontefici che si celebrasse, secondo l'esempio del Testamento vecchio, ogni cento anni, non per delettazione o per pompa, come erano appresso a' romani i giuochi secolari, ma per salute dell'anime (perché in esso, secondo la pietosa credenza del popolo cristiano, si aboliscono pienamente tutti i delitti a coloro che, riconoscendo con vera penitenza i falli commessi, visitano le chiese dedicate in Roma a' príncipi degli apostoli), fu poi instituito che si celebrasse ogni cinquanta anni, e in ultimo ridotto a venticinque anni; e nondimeno, per la memoria della sua prima origine, è celebrato con molto maggiore frequenza nell'anno centesimo che negli altri.

Nel principio di questo anno il Valentino ottenne senza resistenza la città di Furlí; perché quella madonna, mandati i figliuoli e la roba piú preziosa a Firenze, abbandonate l'altre cose le quali era impotente a sostenere, si ridusse solamente a difendere la cittadella e la rocca di Furlí, provedute copiosamente d'uomini e d'artiglierie. Ma essendo tra tanti difensori ripieni d'animo femminile ella sola di animo virile, furono presto, per la viltà de' capitani che v'erano dentro, espugnate dal Valentino. Il quale, considerando piú in lei il valore che il sesso, la mandò prigione a Roma, dove fu custodita in Castel Santo Angelo: benché passato di poco uno anno, per intercessione di Ivo di Allegri, ottenne la liberazione.

Ottenuto che ebbe il Valentino Imola e Furlí, procedeva all'espedizione dell'altre terre; ma l'interroppono nuovi accidenti che improvisamente sopravennono. Perché il re, poiché ebbe dato alle cose acquistate quello ordine che piú gli parve opportuno, lasciatovi sufficiente presidio, e prorogata, con inclusione eziandio del ducato di Milano e di tutto quello teneva in Italia, per insino a maggio prossimo, la tregua col re de' romani, se ne ritornò in Francia; ove condusse il piccolo figliuolo di Giovan Galeazzo, datogli imprudentemente dalla madre, il quale dedicò a vita monastica; e nel ducato di Milano lasciò governatore generale Gianiacopo da Triulzi, in cui per il valore e per i meriti suoi, e per l'inimicizia con Lodovico Sforza, sommamente confidava. Ma non rimase già fedele disposizione ne' popoli di quello stato; parte perché a molti dispiacevano le maniere e i costumi de' franzesi, parte perché nel re non avevano trovato quella liberalità, né ottenuta l'esenzione di tutti i dazi, come la moltitudine si era imprudentemente persuasa. E importava molto che a tutta la fazione ghibellina, potentissima nella città di Milano e nell'altre terre, era molto molesto che al governo fusse preposto Gianiacopo capo della fazione guelfa; la quale mala disposizione era molto accresciuta da lui, che di natura fazioso e di animo altiero e inquieto favoreggiava con l'autorità del magistrato, molto piú che non era conveniente, quegli della sua parte; e alienò, oltre a questo, molto da lui gli animi della plebe, che nella piazza del macello ammazzò di sua mano alcuni beccai, che con la temerità degli altri plebei, ricusando di pagare i dazi da' quali non erano esenti, si opponevano con l'armi a' ministri deputati alle esazioni delle entrate. Per le quali cagioni dalla maggiore parte della nobiltà e da tutta la plebe, cupidissima per sua natura di cose nuove, era desiderato il ritorno di Lodovico, e chiamato già con parole e voci non occulte il suo nome.

Il quale essendosi insieme col cardinale Ascanio presentato a Cesare, e con grande umanità veduti e raccolti, avevano trovato in lui ottimo animo e dispiacere grandissimo delle loro calamità, promettendo a ogni ora di muoversi in persona con forze potenti alla recuperazione del loro stato, perché aveva composto in tutto la guerra co' svizzeri: ma queste speranze, per la varietà della natura sua e per essere consueto a confondere l'uno con l'altro de' suoi concetti mal fondati, si scoprivano ogni dí piú vane; anzi oppressato dalle sue solite necessità non cessava di richiedergli spesso di danari. Però Lodovico e Ascanio, non sperando piú negli aiuti suoi ed essendo continuamente sollecitati da molti gentiluomini di Milano, soldati ottomila svizzeri e cinquecento uomini d'arme borgognoni, si risolverono di fare la impresa da loro medesimi. Il quale moto presentendo il Triulzio, ricercò subito il senato viniziano che accostasse le genti sue al fiume dell'Adda, e a Ivo d'Allegri significò essere necessario che, partendosi dal Valentino, ritornasse con le genti d'arme franzesi e co' svizzeri con grandissima celerità a Milano; e per reprimere il primo impeto degli inimici mandò una parte delle genti a Como, non lo lasciando il sospetto che aveva del popolo milanese voltarvi tutte le forze sue. Ma la sollecitudine de' fratelli Sforzeschi superò tutta la diligenza degli altri; perché, non aspettate tutte le genti che aveano soldate ma dato ordine che di mano in mano gli seguitassino, passorno con somma prestezza i monti, e saliti in sulle barche che erano nel lago di Como si accostorno a quella città: la quale, ritirandosi i franzesi per avere conosciuta la disposizione de' comaschi, subito gli ricevette. La perdita di Como significata a Milano generò tale sollevazione nel popolo, e quasi in tutti i principali della fazione ghibellina, che già non si astenevano da tumultuare; in modo che il Triulzio, non vedendo alle cose del re rimedio alcuno, si ridusse subitamente nel castello, e la notte seguente, insieme con le genti d'arme che si erano ritirate nel barco che è contiguo al castello, se ne andò verso Noara, seguitandogli nel ritirarsi i popoli tumultuosamente insino al fiume del Tesino; e lasciate in Novara quattrocento lancie si fermò con l'altre a Mortara, pensando lui e gli altri capitani piú a recuperare il ducato, venendo di Francia nuovo soccorso, che a difenderlo. Entrò dopo la partita de' franzesi in Milano prima il cardinale Ascanio e di poi Lodovico; avendolo, dal castello in fuora, ricuperato con la medesima facilità con la quale l'aveano perduto, e dimostrandosi maggiore desiderio e letizia del popolo milanese nel suo ritorno che non si era dimostrato nella partita. La quale disposizione essendo similmente negli altri popoli, le città di Pavia e di Parma richiamorono senza dilazione il nome di Lodovico; e arebbono Lodi e Piacenza fatto il medesimo se le genti viniziane, venute prima in sul fiume di Adda, non vi fussino entrate subitamente. Alessandria e quasi tutte le terre di là da Po, essendo piú lontane a Milano e piú vicine ad Asti, città del re, non feceno mutazione, aspettando di consigliarsi piú maturamente secondo i progressi delle cose.

Recuperato che ebbe Lodovico Milano non perdé tempo alcuno a soldare quantità grande di fanti italiani e quanti piú uomini d'arme poteva avere, e a stimolare con prieghi con offerte e con varie speranze tutti quegli da' quali sperava di essere aiutato in tanta necessità. Perciò mandò a Cesare, a significare il principio prospero, il cardinale di San Severino, supplicandolo che gli mandasse genti e artiglierie; e desiderando di non avere inimico il senato viniziano, ordinò che il cardinale Ascanio mandasse subito a Vinegia il vescovo di [Cremona], a offerire la volontà pronta del fratello ad accettare qualunque condizione sapessino desiderare: ma vanamente, perché il senato deliberò non si partire dalla confederazione che aveano col re. Ricusorono i genovesi, benché pregati instantemente da Lodovico, di ritornare sotto il dominio suo; né i fiorentini vollono udire la sua richiesta della restituzione de' danari ricevuti in prestanza da lui. Solo il marchese di Mantova mandò in aiuto suo il fratello con certa quantità di gente d'arme, e vi concorsono i signori della Mirandola di Carpi e di Coreggio, e i sanesi gli mandorono piccola somma di danari; sussidi quasi disprezzabili in tanti pericoli: come similmente furno di piccolo momento quegli di Filippo Rosso e de' Vermineschi, i padri de' quali benché fussino stati spogliati da lui dell'antico dominio loro, i Rossi di San Secondo di Torchiara e di molte altre castella del parmigiano, quegli dal Verme della città di Bobio e d'altri luoghi circostanti nella montagna di Piacenza, nondimeno Filippo, partendosi senza licenza dagli stipendi veneti, andò a recuperare le terre sue, e ottenutele si uní con l'esercito di Lodovico; il medesimo feceno quei dal Verme, per ricuperare l'uno e gli altri con questa occasione la grazia sua.

Ma Lodovico, avendo raccolti oltre a' cavalli borgognoni mille cinquecento uomini d'arme e aggiunti a' svizzeri moltissimi fanti italiani, lasciato il cardinale Ascanio a Milano all'assedio del castello, passato il Tesino e ottenuta per accordo la terra e la fortezza di Vigevano, pose il campo a Novara; eletta piú tosto questa impresa che il tentare la oppugnazione di Mortara, o perché i franzesi si erano in Mortara molto fortificati o perché stimasse appartenere piú alla riputazione e alla somma della guerra l'acquisto di Novara, città celebre e molto abbondante, o perché, recuperata Novara, la penuria delle vettovaglie avesse a mettere in necessità i franzesi che erano a Mortara di abbandonarla, o per impedire che non venisse a Noara Ivo d'Allegri, ritornato di Romagna. Perché avendo, mentre che col duca Valentino andava alla impresa di Pesero, ricevuto gli avvisi del Triulzio, partitosi subitamente con tutta la cavalleria e co' svizzeri, e intesa appresso a Parma la ribellione di Milano, seguitando con grandissima velocità il cammino, e convenuto co' parmigiani e co' piacentini di non gli offendere e che non si opponessino al passare suo, giunto a Tortona, incitato da' guelfi di quella città ardenti di cupidità di vendicarsi de' ghibellini, i quali ritornati alla divozione di Lodovico gli aveano cacciati, entratovi dentro la saccheggiò tutta; lamentandosi e chiamando invano i guelfi la fede sua che, fedelissimi e servidori del re, fussino non altrimenti trattati che i perfidi inimici. Da Tortona si fermò in Alessandria, perché i svizzeri venuti seco, mossi o dal non essere pagati o da altra fraude, passorno nell'esercito del duca di Milano. Il quale, trovandosi piú potente che gli inimici, accelerava con sommo studio di battere con l'artiglierie Novara, per espugnarla innanzi che i franzesi, i quali aspettavano soccorso dal re, fussino potenti a opporsegli in sulla campagna: la quale cosa gli riuscí felicemente, perché i franzesi che erano in Novara, perduta la speranza del difendersi, convennono di dargli la città, avuta la fede da lui di potersene andare salvi con tutte le robe sue; la quale osservando costantemente, gli fece accompagnare insino a Vercelli, ancora che, per importare molto alla vittoria la uccisione di quelle genti, fusse confortato a romperla da molti, che allegavano che, se era lecito, secondo l'autorità e gli esempli d'uomini grandi, violare la fede per acquistare stato, doveva essere molto piú lecito il violarla per conservarlo. Acquistata la terra di Novara si fermò alla espugnazione della fortezza; ma si crede che se andava verso Mortara, che le genti franzesi, non essendo molto concordi il Triulzio e Ligní, si sarebbono ritirate di là dal Po.

Cap. xiv

Solleciti preparativi del re di Francia per riprendere il ducato di Milano. Gli svizzeri al soldo di Lodovico Sforza s'accordano con quelli del re di Francia e consegnano Novara. Lodovico Sforza prigione dei francesi. Anche il card. Ascanio tradito da un parente ed amico cade prigione. Gli svizzeri occupano la terra di Bellinzona. Fine di Lodovico Sforza e giudizio dell'autore su di lui. Il card. Ascanio nella torre di Borges.

Ma mentre che Lodovico attendeva sollecitamente a queste cose non era stata minore la diligenza e la sollecitudine del re. Il quale, come ebbe sentita la ribellione di Milano, ardente di sdegno e di vergogna, mandò subito in Italia la Tramoglia con secento lancie, mandò a soldare quantità grande di svizzeri; e perché con maggiore prestezza si provedesse alle cose necessarie, deputato il cardinale di Roano luogotenente suo di qua da' monti, lo fece incontinente passare in Asti; di modo che, espedite queste cose con maravigliosa celerità, si trovorono al principio di aprile insieme in Italia mille cinquecento lancie diecimila fanti svizzeri e semila de' sudditi del re sotto la Tramoglia il Triulzio e Ligní. Le quali genti, unite insieme a Mortara, si appressorono a Novara, confidandosi non meno nella fraude che nelle forze; perché i capitani svizzeri che erano con Lodovico, benché nella espugnazione di Novara avessino dimostrata fede e virtú, si erano, per mezzo de' capitani svizzeri che erano nell'esercito de' franzesi, convenuti occultamente con loro: della qual cosa cominciando per alcune congetture Lodovico a sospettare, sollecitava che quattrocento cavalli e ottomila fanti che si ordinavano a Milano si unissino seco. Cominciorono a tumultuare in Novara i svizzeri, istigati da' capitani, pigliando per occasione che 'l dí destinato al pagamento non si numeravano i danari per l'impotenza del duca: il quale, correndo subito al tumulto, con benignissime parole e con tali prieghi che generavano non mediocre compassione, donati ancora loro tutti i suoi argenti, gli fece stare pazienti ad aspettare che da Milano venissino i danari. Ma i capitani loro temerno che, se col duca si univano le genti che si preparavano a Milano, si impedisse il mettere a esecuzione il tradimento disegnato; e perciò l'esercito franzese, secondo l'ordine dato, messosi in arme, si accostò innanzi dí alle mura di Novara, attorniandone una gran parte, e mandati alcuni cavalli tra la città e il fiume del Tesino, per tôrre al duca e agli altri la facoltà di fuggirsi verso Milano. Il quale, sospettando ogn'ora piú del suo male, volle uscire coll'esercito di Novara per combattere con gli inimici, avendo già mandati fuora i cavalli leggieri e i borgognoni a cominciare la battaglia; alla quale cosa gli fu apertamente contradetto da' capitani de' svizzeri, allegando che senza licenza de' suoi signori non volevano venire alle mani co' parenti e co' fratelli propri e con gli altri della sua nazione: co' quali poco dipoi mescolatisi, come se fussino di uno esercito medesimo, dissono volersi partire subito per andarsene alle loro case. Né potendo il duca, né co' prieghi né con le lacrime né con infinite promesse, piegare la barbara perfidia, si raccomandò loro efficacemente che almeno conducessino lui in luogo sicuro; ma perché erano convenuti co' capitani franzesi di partirsi e non menarlo seco, negato di concedergli la sua dimanda, consentirno si mescolasse tra essi in abito di uno de' loro fanti, per stare alla fortuna, se non fusse riconosciuto, di salvarsi. La quale condizione accettata da lui per ultima necessità non fu sufficiente alla sua salute, perché, camminando essi in ordinanza per mezzo dell'esercito franzese, fu, per la diligente investigazione di coloro che erano preposti a questa cura, o insegnato dai medesimi svizzeri, riconosciuto, mentre che mescolato nello squadrone camminava a piede, vestito e armato come svizzero, e subitamente ritenuto per prigione: spettacolo sí miserabile che commosse le lagrime insino a molti degli inimici. Furono oltre a lui fatti prigioni Galeazzo da San Severino, e il Fracassa e Antonio Maria suoi fratelli, mescolati nell'abito medesimo tra' svizzeri; e i soldati italiani svaligiati e presi, parte in Novara parte fuggendo verso il Tesino; perché i franzesi, per non irritare quelle nazioni, lasciorno partire a salvamento i cavalli borgognoni e i fanti tedeschi.

Preso il duca e dissipato l'esercito, non vi essendo piú alcuno ostacolo, e piena ogni cosa di fuga e di terrore, il cardinale Ascanio, il quale avea già inviate le genti raccolte a Milano verso il campo, sentita tanta rovina, si partí subito da Milano per ridursi in luogo sicuro, seguitandolo molti della nobiltà ghibellina che, essendosi scoperti immoderatamente per Lodovico, disperavano d'ottenere venia da' franzesi. Ma essendo destinato che nelle calamità de' due fratelli si mescolasse con la mala fortuna la fraude, si fermò la notte prossima, per ricrearsi alquanto della fatica ricevuta per la celerità del camminare, a Rivolta nel piacentino, castello di Currado Lando gentiluomo di quella città, congiuntogli di parentado e di lunga amicizia; il quale, mutato l'animo con la fortuna, mandati subito a Piacenza a chiamare Carlo Orsino e Sonzino Benzone soldati de' viniziani, lo dette loro nelle mani, e insieme Ermes Sforza fratello del duca Giovan Galeazzo morto, e una parte de' gentiluomini venuti con lui; perché gli altri, con piú utile consiglio, non vi si essendo voluti fermare la notte, erano passati piú avanti. Fu condotto subitamente Ascanio prigione a Vinegia; ma il re, stimando per la sicurtà del ducato di Milano quanto era conveniente l'averlo in sua potestà, ricercò senza indugio il senato viniziano, usando eziandio, come lo vedde stare sospeso, protesti e minaccie, che gliene desse, allegando appartenersegli per essere stato preso nel paese sottoposto a sé: la quale richiesta benché paresse molto acerba e indegnissima del nome viniziano, nondimeno per fuggire il furore dell'armi sue lo consentí, e insieme di tutti i milanesi che erano stati presi con lui. Anzi, essendosi fermati nelle terre di Ghiaradadda Batista Visconte e altri nobili milanesi fuggiti da Milano per la medesima cagione, e avendo ottenuto salvocondotto di potervi stare sicuri, con espressione nominatamente de' franzesi, furono per il medesimo timore necessitati a dargli in potestà del re: tanto in questo tempo potette piú nel senato viniziano il terrore dell'armi de' franzesi che il rispetto della degnità della republica.

Ma la città di Milano, abbandonata d'ogni speranza, mandò subito imbasciadori al cardinale di Roano a supplicare venia, il quale la ricevé in grazia e perdonò in nome del re la ribellione, ma componendogli a pagare trecentomila ducati; benché il re ne rimesse poi loro la maggiore parte: e col medesimo esempio perdonò Roano all'altre città che si erano ribellate, e le compose in danari secondo la possibilità e qualità loro. Cosí finita felicemente la impresa e licenziate le genti, i fanti di quattro cantoni de' svizzeri che sono piú vicini che gli altri alla terra di Bellinzone, posta nelle montagne, nel ritornare a casa l'occuporono furtivamente. Il qual luogo il re arebbe potuto da principio riavere da loro con non molta quantità di danari; ma come spesso per sua natura perdeva, per risparmiare piccola quantità di danari, occasioni di cose grandi, ricusando di farlo, succederono poi tempi e accidenti che, molte volte, l'arebbe volentieri, pagandone grandissima quantità, ricomperato da loro: perché è passo molto importante a proibire a' svizzeri lo scendere nello stato di Milano.

Fu Lodovico Sforza condotto a Lione, dove allora era il re, e introdotto in quella città in sul mezzodí, concorrendo infinita moltitudine a vedere uno principe, poco fa di tanta grandezza e maestà e per la sua felicità invidiato da molti, ora caduto in tanta miseria; donde, non ottenuta grazia di essere, come sommamente desiderava, intromesso al cospetto del re, fu dopo due dí menato nella torre di Locces, nella quale stette circa dieci anni, e insino alla fine della vita, prigione: rinchiudendosi in una angusta carcere i pensieri e l'ambizione di colui che prima appena capivano i termini di tutta Italia. Principe certamente eccellentissimo per eloquenza per ingegno e per molti ornamenti dell'animo e della natura, e degno di ottenere nome di mansueto e di clemente, se non avesse imbrattata questa laude la infamia per la morte del nipote; ma da altra parte di ingegno vano e pieno di pensieri inquieti e ambiziosi, e disprezzatore delle sue promesse e della sua fede; e tanto presumendo del sapere di se medesimo che, ricevendo somma molestia che e' fusse celebrata la prudenza e il consiglio degli altri, si persuadesse di potere con la industria e arti sue volgere dovunque gli paresse i concetti di ciascuno.

Seguitollo non molto poi il cardinale Ascanio; il quale, ricevuto con maggiore umanità e onore, e visitato benignamente dal cardinale di Roano, fu mandato in carcere piú onorata, perché fu messo nella torre di Borges, stata prigione pochi anni innanzi del medesimo re che ora lo incarcerava: tanto è varia e miserabile la sorte umana, e tanto incerte a ognuno ne' tempi futuri le proprie condizioni.

Indice Libri - Freenfo.net