Giovanni Prati


DUE POESIE




Mamma


Mamma,

Or passeggi solinga.


Ti veggo, o madre; per i conscii lochi

dove teco scherzava io fanciulletto

or passeggi solinga, e il caro aspetto

del tuo lontano lacrimando invochi.


Parmi d'udire i tuoi gemiti fiochi

quando mesta riguardi il vacuo letto,

e tuo figlio mancar vedi al banchetto,

e il cerchi indarno ai consueti giochi.


Sì, vederti mi par, parmi d'udirti

povera madre! e rimaner lontano,

tal rimorso è per me ch'io non so dirti.


Conosco il fallo e m'addoloro e piango!

Ahi! Com'è questo cor misero e strano!

Conosco il fallo, eppur lontan rimango.




Incantesimo


La maga entro l'arena

girò, cantando, l'orma:

con frasca di vermena

mi ha tocco in sull'occipite,

ed io mi veggio appena in questa forma.


Sì picciolo mi fei

per arte della maga,

che in verità potrei

nuotar sopra diàfane

ali di scarabei per l'aura vaga.


O fili d'erba, io provo

un'allegria superba

d'esser altrui sì novo,

sì strano a me. Deh fatemi,

fatemi un po' di covo, o fili d'erba.


Minuscola formica

o ruchetta d'argento

sarà mia dolce amica

nell'odoroso e picciolo

nido che il sol nutrica e sfiora il vento.


E della curva luna

al freddo raggio, quando

nella selvetta bruna

le mille frasche armoniche

si vanno ad una ad una addormentando;


e dentro gli arboscelli

si smorza la confusa

canzon de' filunguelli,

e sotto i muschi e l'eriche

l'anima dei ruscelli in sonno è chiusa;


noi, cinta in bianca veste

la piccioletta fata

vedrem dalla foresta

venir nei verdi ombracoli,

di bianchi fior la testa incoronata.


E dormirem congiunti

sotto l'erbetta molle;

mentre alla luna i punti

toglie l'attento astrologo,

e danzano i defunti in cima al colle.


I magi d'Asia han detto

che quanto il corpo è meno,

più vasto è l'intelletto,

e il mondo degli spiriti

gli raggia più perfetto e più sereno.


Infatti, io sento l'onde

cantar di là dal mare,

odo stormir le fronde

di là dal bosco; e un transito

d'anime vagabonde il ciel mi pare.


Da un calamo di veccia

qua un satirin germoglia,

da un pruno, o mo' di freccia,

la sbalza un'amadriade

è in parto ogni corteccia ed ogni foglia.


Lampane graziose

giran la verde stanza:

e, strani amanti e spose,

i gnomi e le mandragore

coi gigli e con le rose escono in danza.


Del mondo ameno e tetro

com'è che ai sensi tardi

mi piove il raggio e il metro?

E né cornetta acustica

mi soccorre né vetro orecchi e sguardi?


Com'è che le mie colpe

non anco all'olmo e al pino

latra la iniqua volpe?

Né il truculento martoro

mi succhiella le polpe a mattutino?


Sono un granel di pepe

non visto: ecco il mistero.

L'erba sul crin mi repe,

ed è minor che lucciola

nell'ombra d'una siepe il mio pensiero.


Oh fata bianca, come

un nevicato ramo,

dagli occhi e dalle chiome

più bruni della tenebra,

e dal soave nome in che io ti chiamo.


Oh Azzarelina! in pegno

dell'amor mio, ricevi

questo morente ingegno,

tu che puoi far continovi

nel tuo magico regno i miei dì brevi.


L'erbetta ov'io m'ascondo

so che è incanata anch'ella;

né vampa o furibondo

refolo o gel mortifica

lo smeraldo giocando in che è sì bella.


So che, d'amor rapita,

in un perpetuo ballo

mi puoi mutar la vita

o su fra gli astri, o in nitide

case di margherita e di corallo.


sien acque, o stelle, o venti,

ove abitar degg'io,

per primo don m'assenti

il bacio tuo: per ultimo,

dei rissosi viventi il pieno oblìo.


Ascolta, Azzarelina:

la scienza è dolore,

la speranza è ruina

la gloria è roseo nugolo,

la bellezza è divina ombra d'un fiore.


Così la vita è un forte

licor che ebbri ci rende,

un sonno alto è la morte

e il mondo un gran Fantasima

che danza con la Sorte e il fine attende.


Vieni ed amiam. L'aurora

non spunta ancor; gli steli

ancor son curvi; ancora

il focherel di Venere

malinconico infiora i glauchi cieli.


Vieni ed amiam. Chi vive,

naturalmente guada

alle tenarie rive:

ma chi è prigion nel circolo

che la tua man descrive a ciò non bada.



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