Terza parte
Quinta parte
Indice

Gioganni Verga - Novelle Rusticane
Parte quarta





Fra le scene della vita


Quante volte, nei drammi della vita, la finzione si mescola talmente alla realtà da confondersi insieme a questa, e diventar tragica, e l'uomo che è costretto a rappresentare una parte, giunge ad investirsene sinceramente, come i grandi attori! - Quante altre amare commedie e quanti tristi commedianti!

Ho visto la commedia del dolore al letto di un'agonizzante. Un caso di corte d'Assise, se era vero, come dicevano i vicini, che Matteo Sbarra non moriva, no, di un calcio di mulo; ma fosse stato il compare Niscima che l'aveva ucciso a tradimento, con una badilata nella testa, quando seppe di quell'altro tradimento che Matteo Sbarra gli faceva con la moglie - un compare, un amicone che spartiva con loro il pane e il lavoro, e si sarebbe fatto ammazzare per tutt'e due! - Niscima piangeva, sua moglie piangeva, strappandosi i capelli, fosse amore, o fosse timore della giustizia. - O compare, che giornata spuntò oggi per tutti noi! - O che fuoco ci ho qui dentro, compare bello! - E il giudice istruttore era presente; e la stanza era piena di vicini che sapevano e non sapevano; e il mulo, legato lì fuori, non poteva parlare.


Matteo Sbarra, col singhiozzo alla gola, stava zitto anche lui, dinanzi al giudice, dinanzi ai testimoni, dinanzi al prete che gli dava l'assoluzione dei suoi peccati. Guardava la comare, guardava il compare, cogli occhi torbidi, dove forse passava già la visione della vita eterna. Ah! le mani di lei, che gli asciugavano adesso col fazzoletto il sangue e il sudore della morte! E le mani dell'amico che gli rassettavano il guanciale sotto il capo, lì, nello stesso letto matrimoniaie dove l'aveva tratto in agguato - a colpo sicuro, se era vero che la donna ve l'aveva stretto altre volte fra le braccia, poiché Niscima sapeva bene che il maschio della selvaggina vi torna di nuovo sotto il fucile, al richiamo della femmina, fosse ferito e grondante sangue. - La vicina Anna aveva udito dietro l'uscio il rumore della lotta brusca e violenta, appena il marito era arrivato a casa: le grida soffocate, il rantolo della donna, e l'anelito furioso di lui.


Cosa doveva fare, poveretta, se era vero che fosse colpevole? se è vero che Dio non paga il sabato, e ci castiga col nostro stesso peccato? - Perché l'hai fatto scappare, buona donna? Digli che torni. Dovete averci un segnale fra di voi. Fagli segno di venire, pel nome di Dio! - Ella mise il segnale: un fazzoletto rosso color di sangue: la videro altri vicini, più morta che viva, alla finestra. Avevano ben ragione di strillare adesso tutti e due:
- O compare mio, che fuoco mi lasciate qui dentro nel mio cuore! - Signor giudice, signori miei, uccidetemi qui stesso, dinanzi a lui, se fui io il traditore! - E la giustizia oscura che era nella coscienza dei testimoni muti, pensava forse:
- Il morto è morto.


Bisogna salvare il vivo. - Quest'altra da tribunale correzionale invece: lui buttandosi fra le fiamme che aveva appiccato di nascosto al magazzino, dicevasi, onde salvarsi dal fallimento, e cercando di spegnerle colle sue stesse mani: le mani arse, i panni che gli fumigavano addosso, i capelli irti, il viso stravolto e terreo di un disperato o di un delinquente - e la moglie seminuda, i figliuoli atterriti che si avvinghiavano a lui. - Lasciatemi!... perdio!... È la rovina!...


Meglio la morte! - Il vocìo della folla, il crepitare dell'incendio, il getto delle pompe, lo squillare delle cornette dei pompieri. - E dei visi arrossati, delle ombre nere che formicolavano nel chiarore ardente, le placche dei carabinieri che l'abbacinavano. - Che vedeva egli, che sentiva in quel momento torbido? Le mani convulse che si stendevano verso di lui, fra il luccicare delle baionette; la fanciulla brancicata senza riguardo da cento sconosciuti, il figliuolo dibattendosi furioso fra i soldati:
- Papà! papà mio! - E i sogghigni dei malevoli, il sussurro avverso della voce pubblica:
- Trecentomila lire d'assicurazione!... Si capisce!... Tanto più che la barca faceva acqua da tutte le parti! - Due volte il forsennato tentò di rompere il cordone di truppa che isolava l'incendio, e due volte fu respinto urlante e traballante sul marciapiedi:
- È la mia roba, vi dico!... La mia roba!... Lasciatemi morire! - E noi, papà? Siamo noi! Ascolta - Ah, figli miei! Poveri figli miei! - E il piangere che faceva, lì in mezzo alla strada, le lagrime che gli rigavano il viso sporco di fumo e di polvere - le lagrime della moglie e dei figli! Erano finte anche quelle? Erano complici pietosi ancor essi della turpe commedia? Piangevano sulla colpa del padre, o sulla loro rovina? Avevano letto prima in quel volto venerato ed amato le angustie segrete, le ansie, le lotte che il negoziante onorato e stimato fino a quel giorno aveva dovuto dissimulare fra loro, a tavola, in teatro, nell'intimità della famiglia e al cospetto del pubblico che bisognava illudere colle apparenze di una costante prosperità? Era la disperata necessità della menzogna istessa che li contaminava tutti adesso per la comune salvezza? Sino a qual punto erano finte le lagrime del colpevole, lì, sotto gli occhi della moglie e dei figli, la sua tenerezza, il suo orgoglio, le sue vittime, i suoi giudici primi e più inesorabili nel segreto della coscienza? Chi avrebbe potuto dirlo? - Voi uomo di banca, che giuocate alla Borsa col sigaro in bocca delle partite di vita o di morte, e di rovina per altri mille che hanno fede soltanto nella vostra bella indifferenza? - O voi uomo di toga, che avete fatto piangere i giudici per salvare l'omicida? - Tutt'a un tratto la folla, i soldati, gli stessi pompieri indietreggiarono atterriti, dinanzi all'orror dell'incendio, fra un urlo immenso. Egli solo, il disgraziato, si strappò dalle braccia dei figli per slanciarsi nella voragine ardente, rovesciando quanti gli si opponevano, lottando come un forsennato contro tutti, respinto, percosso, tornando a cacciarsi avanti a testa bassa, grondante sangue, colla schiuma alla bocca, la bocca da cui usciva un grido che non aveva più nulla d'umano:
- La cassa! I libri! - Lo portarono a casa su di una barella, tutto una piaga e mezzo asfissiato. Stette un mese fra morte e vita, coll'aspettativa del giudizio infame in quell'agonia, e gli occhi dei figli che lo interrogavano. - Povera Lia, come sei pallida! E anche tu, Arturo!

Anche tu! Vedete, sono tranquillo adesso, tra voi. Vedete come sorrido, povere creature? - E poi ancora dinanzi ai giudici, seduto al posto dei malfattori, sotto l'interrogatorio e le testimonianze contrarie, e la difesa dell'avvocato che invocava in suo favore quarant'anni di probità intemerata, e il viso pallido del figliuolo che ascoltava fra l'uditorio, e le braccia tremanti delle sue donne che l'avvinsero all'uscita del tribunale. - Assolto! Assolto! - Senza dir altro, un'altra parola, che rimase muta e gelida fra di loro, sempre!

E la commedia di tutti i giorni, nella casa patrizia, sotto lo stesso tetto, alla stessa tavola, al cospetto dei figli e dei domestici, rappresentata per vent'anni, colla disinvoltura del gran mondo, tra il marito offeso e la moglie colpevole, se il triste segreto era realmente fra di loro. - La moglie di Cesare non deve essere neppure sospettata, - ed entrambi, legati alla medesima catena da un casato illustre, osservavano perfettamente il codice speciale della loro società. Né il mondo ci aveva nulla da vedere. Forse qualche capello bianco di più sulle tempie delicate di lei; ma non un riguardo, né un'attenzione di meno della cortesia implacabile del marito. Se la dama, moglie e madre onorata e insospettata sino al declinare della giovinezza, era caduta tutt'a un tratto, e caduta male, giacché il pleonasmo è ammesso nel 'suo mondo', come una povera creatura delicata e fiera, avvezza soltanto a camminar a testa alta sui tappeti e che non sappia mettere le mani avanti, il marito la sorresse tosto con braccio fermo, perché continuasse a portare degnamente il nome suo e quello dei figli. Certo è che essa non gridò né pianse, né fece piangere le anime caritatevoli sulla pietà del caso. - E anche il marito ebbe gran parte di merito nel tenere la cosa 'in famiglia'; poiché l''altro' era un uomo di mondo lui pure, della stessa casta e quasi dello stesso casato, bel cavaliere e bel giuocatore alle carte e in amore, che correva alla rovina e alla morte col sorriso alle labbra e il fiore all'occhiello, e 'sapeva vivere' - e morire, al bisogno, evitando ogni scandalo. Egli non le aveva scritto che due o tre lettere, nei casi più urgenti, quando si era trovato proprio coll'acqua alla gola o colla rivoltella sotto il mento. Il male fu che una di quelle lettere, la più breve e grave, l'ultima, cadde in mano del marito, mentre stavano per recarsi a una gran festa, e la carrozza aspettava a piè dello scalone, e la povera donna già pettinata e vestita, pallida come una morta, seduta dinanzi a un gran fuoco, aspettava i gioielli che aveva impegnati per l'amante, e che questi le aveva promesso di restituirle per quella sera 'a ogni costo'. - A ogni costo. - Perciò le chiedeva scusa, scrivendole, se per la prima volta, e l'ultima, mancava alla sua parola. La poveretta ne aveva già il triste presentimento, giacché aveva il cuore stretto da quella immensa angoscia ed era così pallida dinanzi a quel gran fuoco? Aveva visto balenare l'idea del suicidio, ed era stata la pietosa attrattiva che l'avea data a lui, quando lo aveva visto perdere tutto, calmo e impenetrabile, in una terribile partita? - Una terribile partita che faceva disertare il ballo e attirava anche le dame nella sala da giuoco.


Egli, incontrando gli occhi di lei, tristi e pietosi, le aveva detto allora con un pallido sorriso:
- Perché viene a vedere queste brutte cose, duchessa? - E lei... - Perché?... Perché fa questo, Maurizio? - balbettò essa con un filo di voce. Egli si strinse nelle spalle, chinandosi a baciarle la mano, e non rispose altro, fissandola in viso con gli occhi chiari e fermi, e decisi a tutto.


La notizia del suicidio correva già per i trivi sulla bocca dei venditori di giornali, allorché il duca entrò nello spogliatoio della moglie colla fatale lettera in mano. Era fermo anche lui, e impenetrabile come quell'altro, nella rovina improvvisa di tutto ciò che aveva formato il suo orgoglio e la sua fede. - Scusatemi, - le disse - se l'ho letta prima di accorgermi che non era diretta a me. Ma riflettete che poteva capitare in mani peggiori.


Bruciatela insieme a tutte le altre che dovete avere, e datevi un po' di rosso, giacché non posso condurvi al ballo con quella faccia, senza renderci ridicoli voi ed io -.


Il ridicolo fu evitato. Se pure i cacciatori di scandali si affollarono all'uscio, quando fu annunziata l'illustre coppia, e le amiche indulgenti si rivolsero a lei, allorché la notizia del suicidio cominciò a circolare nella festa, videro lei diritta e forte, senza battere palpebra sotto il colpo mortale che le picchiava alla testa, e gli sguardi dei curiosi, e le parole del marito che compiangeva «quel povero Maurizio» colla discrezione mondana che attutisce ogni stridere molesto. Essa fu malata, e il duca non lasciò un sol giorno la stanza di lei. Ricomparve ai teatri, ai ricevimenti, ammirata, inchinata, al braccio di quell'uomo di cui sentiva l'intima repulsione, accanto alla vergine candida e pura e al giovinetto di cui era l'orgoglio e la tenerezza. Quando essi andarono sposi, il padre aveva detto loro:

- Serbatevi degni del vostro nome, e dell'esempio che vi hanno dato i vostri -. Dinanzi a loro, dinanzi a tutti, egli non dimenticò giammai, un giorno solo, per anni ed anni, di dare lo stesso esempio di devozione e di stima alla compagna della sua vita e della sua catena, rimasta sola con lui, nel palazzo immenso, sonoro e vuoto come una tomba. Se mai il volgare sospetto fosse durato ancora nella mente di qualche domestico o di un familiare, egli volle smentirlo sino all'ultimo momento, sino al punto di morte, stringendo la mano della moglie singhiozzante, prostrata dinanzi a lui, dinanzi ai figli, dinanzi ai congiunti, mentre il prete gli dava la estrema unzione. Soltanto nell'ultima convulsione di spasimo, respinse quella mano colla mano di ghiaccio. Nel testamento lasciò un ricco legato «alla sua fedele compagna».


Quante altre! Quante! - Il sorriso procace della disgraziata che deve guadagnarsi il pranzo. - Le lagrime dello scroccone che viene a chiedervi venti lire «in prestito». - L'eleganza dello spiantato che cena colle paste del the. - Gli occhi bassi della ragazza che cerca un marito. - E la più desolante, infine, la commedia dell'amore, quando l'amore è morto, e resta la catena. O braccia delicate che vi allacciaste all'amplesso stanche e illividite!

Quando Alberto strinse in quella festa da ballo la piccola mano che doveva avvincergli così tenacemente la catena al collo, non sapeva che essa se ne sarebbe svincolata così presto. E anche lui allora non sapeva di lasciarsi prendere all'ardore che simulava e alla lusinga delle proprie frasi galanti. - Il sorriso trionfante di lei che si inebbriava all'omaggio di quel bell'avventuriero d'amore disputato e ammirato - il sottile eccitamento della danza - la carezza della musica che accompagnava la carezza delle parole - gli occhi bramosi che cercavano i suoi, e il fulgore che essa vi scorse allorché chinò il capo biondo ad assentire:
- Sì! Sì! - con qual altra ebrezza e qual smarrimento negli occhi ella ascese la prima volta quella scala e spinse quell'uscio, premendosi forte il manicotto sul seno ansante! Con qual altro sbigottimento vi ritornò poi, guardandosi intorno e buttandosi a sedere appena entrata, col viso pallido e una ruga sottile fra le sopracciglia.


- Mi son fatta aspettare, non è vero? - No... non importa ormai...


Sei qui!... - Ah, son mezzo morta... Sapeste!... Mio marito!...


Quel portinaio che mi vede passare! - Insomma tutte quelle cose che non vedeva prima, quando aveva gli occhi abbacinati dal sogno d'oro. - Lasciatemi, Alberto!... Ve ne prego! Vi prego!...


- Vi lascio. Scusatemi!

- Che vi piglia adesso? Vedete in che stato sono!... Che faccio per voi!...


Gli occhi negli occhi, le mani nelle mani, e la bocca rosea che sorrideva stanca e si offriva sotto la veletta. Ah, non era quella la bocca che una volta sfuggiva tremante e si era abbandonata avida al primo bacio! Gli si offriva anche adesso, pietosa menzogna, perché vedeva gli occhi ardenti dell'innamorato cercare in quelli di lei l'amore che non c'era più. Egli non raccolse quel bacio, guardandola fiso:
- O povera Maria! - disse tristamente.


Ella si era fatta rossa, fissandolo anche lei con gli occhi già inquieti. Scorgeva forse il dubbio e l'incredulità atroce negli occhi di lui? - Povero amore! Povera Maria! - Non le disse altro, e l'accarezzò sui capelli, sorridendo anche lui. Ma era bianco bianco, e il sorriso era amaro. Allora essa avvinse nelle sue carezze quel pallore e quegli occhi, e vi si smarrì un istante ella pure, forse sinceramente, o volle smarrirvisi per compassione di lui. O povero amore, che hai bisogno di batterti i fianchi colle ali! Povera amante discesa a rappresentare l'ignobile commedia! - No! No! - Egli indietreggiò barcollante, come se avesse ricevuto un urto al petto, fece qualche passo per la stanza, e tornò a sederlesi allato, cercando di sorriderle ancora, cercando le parole che non venivano.


- È tardi - dissi ella alzandosi. - Saranno quasi le cinque. Devo andarmene -.


Si alzò egli pure senza dir nulla.


Essa cercò il manicotto ed i guanti, si aggiustò il velo sul viso serio e freddo, senza una parola, senza guardarlo, e si avviò all'uscio. Egli l'apriva già.


- Fatemi il favore. Se ci fosse qualcheduno per la scala...


- Aspettate -.


Uscì a spiare dal pianerottolo e rientrò tosto. - Nessuno -.


L'amata esitò un istante e rialzò la veletta al di sopra della bocca. L'amante finse di non vederla, e le strinse la mano.


- Addio dunque.


- Addio -.


Udì sino all'ultimo scalino il rumore dei passi di lei che altra volta si dileguavano furtivi, e dalla finestra la vide ferma e tranquilla sul marciapiedi, come una che non ci abbia più nulla da nascondere adesso, accennando a un cocchiere d'accostarsi, con un gesto grazioso della destra infilata nel manicotto.






I galantuomini


Sanno scrivere - qui sta il guaio. La brinata dell'alba scura, e il sollione della messe, se li pigliano come tutti gli altri poveri diavoli, giacché son fatti di carne e d'ossa come il prossimo, per andare a sorvegliare che il prossimo non rubi loro il tempo e il denaro della giornata. Ma se avete a far con essi, vi uncinano nome e cognome, e chi vi ha fatto, col beccuccio di quella penna, e non ve ne districate più dai loro libracci, inchiodati nel debito.


- Tu devi ancora due tumoli di grano dell'anno scorso.


- Signore, la raccolta fu scarsa!

- È colpa mia se non piovve? Dovevo forse abbeverare i seminati col bicchiere?

- Signore, gli ho dato il sangue mio alla vostra terra!

- Per questo ti pago, birbante! Ti pago a sangue d'uomo! Io mi dissanguo in spese di cultura, e poi se viene la malannata, mi piantate la mezzeria, e ve ne andate colla falce sotto l'ascella!

- E dicono pure:
- Val più un pezzente di un potente -; che non si può cavargli la pelle pel suo debito. Per ciò chi non ha nulla deve pagar la terra più cara degli altri, - il padrone ci arrischia di più - e se la raccolta viene magra, il mezzadro è certo di non perder nulla, e andarsene via con la falce sotto l'ascella. Ma l'andarsene in tal modo è anche una brutta cosa, dopo un anno di fatiche, e colla prospettiva dell'inverno lungo senza pane.


È che la malannata caccia ad ognuno il diavolo in corpo. Una volta, alla messe, che pareva scomunicata da Dio, il frate della cerca arrivò verso mezzogiorno nel podere di don Piddu, spronando cogli zoccoli nella pancia della bella mula baia, e gridando da lontano:

- Viva Gesù e Maria! - Don Piddu era seduto su di un cestone sfondato, guardando tristamente l'aia magra, in mezzo alle stoppie riarse, sotto quel cielo di fuoco che non lo sentiva nemmeno sul capo nudo, dalla disperazione.


- Oh! la bella mula che avete, fra Giuseppe! La val meglio di quelle quattro rozze magre, che non hanno nulla da trebbiare né da mangiare!

- È la mula della questua - rispose fra Giuseppe. - Sia lodata la carità del prossimo. Vengo per la cerca.


- Beato voi che senza seminare raccogliete, e al tocco di campana scendete in refettorio, e vi mangiate la carità del prossimo! Io ho cinque figli, e devo pensare al pane per tutti loro. Guardate che bella raccolta! L'anno scorso mi avete acchiappato mezza salma di grano perché S. Francesco mi mandasse la buonannata, e in compenso da tre mesi non piovve dal cielo altro che fuoco -.


Fra Giuseppe si asciugava il sudore anche lui col fazzoletto da naso. - Avete caldo, fra Giuseppe? Ora vi faccio dare un rinfresco! - E glielo fece dare per forza da quattro contadini arrabbiati come lui, che gli arrovesciarono il saio sul capo, e gli buttavano addosso a secchi l'acqua verdastra del guazzatoio.


- Santo diavolone! - gridava don Piddu. - Poiché non giova nemmeno far la limosina a Cristo, voglio farla al diavolo un'altra volta!

- E d'allora non volle più cappuccini per l'aia, e si contentò che per la questua venissero piuttosto quelli di San Francesco di Paola.


Fra Giuseppe se la legò al dito. - Ah! avete voluto veder le mie mutande, don Piddu? Io vi ridurrò senza mutande e senza camicia! - Era un pezzo di fratacchione con tanto di barba, e la collottola nera e larga come un bue di Modica, perciò nei vicoli e in tutti i cortili era l'oracolo delle comari e dei contadini.


- Con don Piddu non dovete averci che fare. Guardate che è scomunicato da Dio, e la sua terra ha la maledizione addosso! - Quando venivano i missionari, negli ultimi giorni di carnevale, per gli esercizi spirituali della quaresima, e se c'era un peccatore o una mala femmina, od anche gente allegra, andavano a predicargli dietro l'uscio, in processione e colla disciplina al collo pei peccati altrui, fra Giuseppe additava la casa di don Piddu, che non gliene andava bene più una: le malannate, la mortalità nel bestiame, la moglie inferma, le figliuole da maritare, tutte già belle e pronte. Donna Saridda, la maggiore, aveva quasi trent'anni, e si chiamava ancora donna Saridda perché non crescesse tanto presto. Al festino del sindaco, il martedì grasso, aveva acchiappato finalmente uno sposo, ché Pietro Macca dal tinello li aveva visti stringersi la mano con don Giovannino, mentre andavano annaspando nella contraddanza. Don Piddu si era levato il pan di bocca per condurre la figliuola al festino colla veste di seta aperta a cuore sul petto. Chissà mai! In quella i missionari predicavano contro le tentazioni davanti il portone del sindaco, per tutti quei peccati che si facevano là dentro, e dal sindaco dovettero chiudere le finestre, se no la gente dalla strada rompeva a sassate tutti i vetri.


Donna Saridda se ne tornò a casa tutta contenta, come se ci avesse in tasca il terno al lotto; e non dormì quella notte, pensando a don Giovannino, senza sapere che fra Giuseppe avesse a dirgli:

- Siete pazzo, vossignoria, ad entrare nella casata di don Piddu, che fra poco ci fanno il pignoramento? - Don Giovannino non badava alla dote. Ma il disonore del pignoramento poi era un altro par di maniche! La gente si affollava dinanzi al portone di don Piddu, a vedergli portar via gli armadi e i cassettoni, che lasciavano il segno bianco nel muro dove erano stati tanto tempo, e le figliuole, pallide come cera, avevano un gran da fare per nascondere alla mamma, in fondo a un letto, quel che succedeva. Lei, poveretta, fingeva di non accorgersene. Prima era andata col marito a pregare, a scongiurare, dal notaio, dal giudice: - Pagheremo domani - pagheremo doman l'altro -. E tornavano a casa rasente al muro, lei colla faccia nascosta dentro il manto - ed era sangue di baroni!

Il dì del pignoramento donna Saridda, colle lagrime agli occhi, era andata a chiudere tutte le finestre, perché quelli che son nati col 'don' vanno soggetti anche alla vergogna. Don Piddu, quando per carità l'avevano preso sorvegliante alle chiuse del Fiumegrande, nel tempo delle messe, che la malaria si mangiava i cristiani, non gli rincresceva della malaria; gli doleva solo che i contadini, allorché questionavano con lui, mettevano da parte il 'don', e lo trattavano a tu per tu.


Almeno un povero diavolo, sinché ha le braccia e la salute, trova da buscarsi il pane. - Quello che diceva don Marcantonio Malerba, quando cadde in povertà, carico di figliuoli, la moglie sempre gravida, che doveva fare il pane, preparare la minestra, la biancheria e scopar le stanze. I galantuomini hanno bisogno di tante altre cose, e sono avvezzi in altro modo. I ragazzi di don Marcantonio, quando stavano a ventre vuoto tutto un giorno, non dicevano nulla, ed il più grandicello, se il babbo lo mandava a comprare un pane a credenza, o un fascio di lattughe, ci andava di sera, a viso basso, nascondendolo sotto il mantello rattoppato.


Il papà si dava le mani attorno per buscare qualche cosa, pigliando un pezzo di terra in affitto, o a mezzeria. Tornava a piedi dalla campagna, più tardi di ogni altro, con quello straccio di scialle di sua moglie che chiamava 'pled', e la sua brava giornata di zappare se la faceva anche lui, quando nella viottola non passava nessuno.


Poi la domenica andava a fare il galantuomo insieme agli altri nel casino di conversazione, ciaramellando in crocchio fra di loro, colle mani in tasca e il naso dentro il bavero del cappotto; o giuocavano a tressette colla mazza fra le gambe e il cappello in testa. Al tocco di mezzogiorno sgattaiolavano in furia chi di qua chi di là, ed egli se ne andava a casa, come se ci avesse sempre pronto il desinare anche lui. - Che posso farci? - diceva. - A giornata non posso andarci coi miei figli! - Anche i ragazzi, allorché il padre li mandava a chiedere in prestito mezza salma di farro per la semina, o qualche tumulo di fave per la minestra, dallo zio Masi, o da massaro Pinu, si facevano rossi, e balbettavano come fossero già grandi.


Quando venne il fuoco da Mongibello, e distrusse vigne e oliveti, chi aveva braccia da lavorare almeno non moriva di fame. Ma i galantuomini che possedevano le loro terre da quelle parti, sarebbe stato meglio che la lava li avesse seppelliti coi poderi, loro, i figliuoli e ogni cosa. La gente che non ci aveva interesse andava a vedere il fuoco fuori del paese, colle mani in tasca. - Oggi aveva preso la vigna del tale, domani sarebbe entrato nel campo del tal altro; ora minacciava il ponte della strada, più tardi circondava la casetta a mano destra. Chi non stava a guardare si affaccendava a levar tegole, imposte, mobili, a sgombrar le camere, e salvar quello che si poteva, perdendo la testa nella fretta e nella disperazione, come un formicaio in scompiglio.


A don Marco gli portarono la notizia mentre era a tavola colla famiglia, dinanzi al piatto dei maccheroni. - Signor don Marco, la lava ha deviato dalla vostra parte, e più tardi avrete il fuoco nella vostra vigna -. Allo sventurato gli cadde di mano la forchetta. Il custode della vigna stava portando via gli attrezzi del palmento, le doghe delle botti, tutto quello che si poteva salvare, e sua moglie andava a piantare al limite della vigna le cannucce colle immagini dei santi che dovevano proteggerla, biascicando avemarie.


Don Marco arrivò trafelato, cacciandosi innanzi l'asinello, in mezzo al nuvolone scuro che pioveva cenere. Dal cortiletto davanti al palmento si vedeva la montagna nera che si accatastava attorno alla vigna, fumando, franando qua e là, con un acciottolìo come se si fracassasse un monte di stoviglie, spaccandosi per lasciar vedere il fuoco rosso che bolliva dentro. Da lontano, prima ancora che fossero raggiunti, gli alberi più alti si agitavano e stormivano nell'aria queta; poi fumavano e scricchiolavano; ad un tratto avvampavano e facevano una fiammata sola. Sembravano delle torce che si accendessero ad una ad una nel tenebrore della campagna silenziosa, lungo il corso della lava. La moglie del custode della vigna andava sostituendo più in qua le cannucce colle immagini benedette, man mano che si accendevano come fiammiferi; e piangeva, spaventata, davanti a quella rovina, pensando che il padrone non aveva più bisogno di custode, e li avrebbe licenziati. E il cane di guardia uggiolava anche esso dinanzi alla vigna che bruciava. Il palmento, spalancato, senza tetto, con tutta quella roba buttata nel cortile, in mezzo alla campagna spaventata, sembrava tremasse di paura, mentre lo spogliavano prima di abbandonarlo.


- Che cosa state facendo? - chiese don Marco al custode che voleva salvare le botti e gli attrezzi del palmento. - Lasciate stare.


Ormai non ho più nulla, e non ho che metterci nelle botti -.


Baciò il rastrello della vigna un'ultima volta prima di abbandonarla e se ne tornò indietro, tirandosi per la cavezza l'asinello.


Al nome di Dio! Anche i galantuomini hanno i loro guai, e son fatti di carne e di ossa come il prossimo. Prova donna Marina, l'altra figlia di don Piddu che si era buttata al ragazzo della stalla, dacché aveva persa la speranza di maritarsi, e stavano in campagna pel bisogno, fra i guai; i genitori la tenevano priva di uno straccio di veste nuova, senza un cane che gli abbaiasse dietro. Nel meriggio di una calda giornata di luglio, mentre i mosconi ronzavano nell'aia deserta, e i genitori cercavano di dormire col naso contro il muro, andò a trovare dietro il pagliaio il ragazzo, il quale si faceva rosso e balbettava ogni volta che ella gli ficcava gli occhi addosso, e l'afferrò pei capelli onde farsi dare un bacio.


Don Piddu sarebbe morto di vergogna. Dopo il pignoramento, dopo la miseria, non avrebbe creduto di poter cascare più giù. La povera madre lo seppe nel comunicarsi a Pasqua. Una santa, colei! Don Piddu era chiuso, insieme a tutti gli altri galantuomini, nel convento dei cappuccini per fare gli esercizi spirituali. I galantuomini si riunivano coi loro contadini a confessarsi e sentir le prediche; anzi, faceva loro le spese del mantenimento, nella speranza che i garzoni si convertissero, se avevano rubato, e restituissero il mal tolto. Quegli otto giorni degli esercizi spirituali, galantuomini e villani tornavano fratelli come al tempo di Adamo ed Eva; e i padroni per umiltà servivano a tavola i garzoni colle loro mani, ché a costoro quella grazia di Dio andava giù di traverso per la soggezione; e nel refettorio, al rumore di tutte quelle mascelle in moto, sembrava che ci fosse una stalla di bestiame, mentre i missionari predicavano l'inferno e il purgatorio. Quell'anno don Piddu non avrebbe voluto andarci, perché non aveva di che pagare la sua parte, e poi non potevano rubargli più nulla i suoi garzoni. Ma lo fece chiamare il giudice, e lo mandò a farsi santo per forza, onde non desse il cattivo esempio. Quegli otto giorni erano una manna per chi ci avesse da fare nella casa di un povero diavolo, senza timore che il marito arrivasse improvviso di campagna a guastar la festa. La porta del convento era chiusa per tutti, ma i giovanotti che avevano da spendere, appena era notte, sgusciavano fuori e non tornavano prima dell'alba.


Ora don Piddu, dopo che gli giunsero all'orecchio certe chiacchiere che si era lasciato scappare fra Giuseppe, una notte sgattaiolò fuori di nascosto, come se avesse avuto vent'anni, o l'innamorata che l'aspettasse, e non si sa quel che andò a sorprendere a casa sua. Certo quando rincasò prima dell'alba era pallido come un morto, e sembrava invecchiato di cent'anni. Questa volta il contrabbando era stato sorpreso, e come i donnaiuoli tornavano in convento, trovavano il padre missionario inginocchiato dietro l'uscio, a pregare pei peccati che gli altri erano andati a fare. Don Piddu si buttò ginocchioni anche lui, per confessarsi all'orecchio del missionario, piangendo tutte le lagrime che ci aveva negli occhi.


Ah! quel che aveva trovato! lì, a casa sua! in quel camerino di sua figlia che nemmeno c'entrava il sole!... Il ragazzo di stalla, che scappava dalla finestra; e Marina pallida come una morta che pure osava guardarlo in faccia, e si afferrava colle braccia disperate allo stipite dell'uscio per difendere l'amante. Allora gli passarono dinanzi agli occhi le altre figliuole, e la moglie inferma, e i giudici e i gendarmi, in un mare di sangue. - Tu! tu!

- balbettava. Ella tremava tutta, la scellerata, ma non rispondeva. Poi cadde sui ginocchi, colle mani giunte come se gli leggesse in faccia il parricidio. Allora egli fuggì via colle mani nei capelli.


Ma il confessore che gli consigliava di offrire a Dio quell'angustia, avrebbe dovuto dirgli:

- Vedete, vossignoria, anche gli altri poveretti, quando gli succede la stessa disgrazia... stanno zitti perché son poveri, e non sanno di lettera, e non sanno sfogarsi altrimenti che coll'andare in galera!








Gelosia


Il Bobbia disse fra di sé:
- Voglio vedere se è vero, o no! - E si mise in agguato sul canto di San Damiano. Crescioni stava là di faccia: c'era il lume alla finestra. Verso le nove, come gli avevano detto, eccoti la Carlotta che passava il ponte, colle sottane in mano, e infilava la porta di Crescioni. Vi andava proprio in gala, quella sfacciata! Allora - sangue di Diana!... In quattro salti la raggiunse in cima al pianerottolo, ché lei volava su per le scale; e Crescioni se li vide capitar dentro in mazzo, Carlotta e il suo uomo, acciuffati pei capelli.


Successe un terremoto! Lui a scansar le bòtte; il Bobbia, colla schiuma alla bocca, che aveva tirato fuori di tasca qualche accidente; la Carlotta poi strillava per tutti e tre. Crescioni, svelto, ti agguanta la coperta del letto, già bello e preparato, e te l'insacca sul Bobbia, che se no, guai! Il sor Gostino, un pezzo d'uomo che avrebbe potuto fare il portinaio in un palazzo, menava giù nel mucchio, col manico della scopa, per chetarli.


Accorsero le guardie e li condussero in questura. Là, colle ossa peste, cominciarono a ragionare. Carlotta sbraitava che non era vero niente, in coscienza sua! Ma con quell'omaccio non voleva più starci, ora che l'aveva sospettata! Tanto non erano marito e moglie.


- Se non siete marito e moglie... - disse il Delegato.


- Dopo cinque mesi che si stava insieme come se lo fossimo! - rinfacciava il Bobbia. - Cosa gli è mancato in cinque mesi, dica, sor Delegato? E vestiti, e stivaletti, e scampagnate, le feste e le domeniche! Allora avrei dovuto aprire gli occhi, quando si perdeva nei boschetti a Gorla, con questo e con quello, sotto pretesto di cogliere i pamporcini. E lasciavo fare come fossimo marito e moglie!

- Io non ne sapevo nulla! - borbottò Crescioni, asciugandosi il sangue dal naso.


- Giacché non ne sapeva nulla, stia tranquillo che non pretendo restare a carico suo, se non mi vuole! - strillò Carlotta, inviperita nel passare in rassegna gli strappi del vestito nuovo.


Il sor Gostino, testimonio, metteva buone parole. - Via, non è nulla! Dev'essere un malinteso -. Ma il Bobbia si era cacciato per forza in casa altrui, a fare il prepotente; e fu miracolo a cavarsela con un po' di carcere. - Tanto, non era vostra moglie! - profferì il Delegato. E il Bobbia rispose:

- Per me gliela lascio volentieri, quella gioia! Oramai ne sono stufo -.


L'amante si grattava il capo. Però Carlotta gli buttò le braccia al collo, dinanzi al sor Delegato, e gli giurò che d'ora innanzi voleva esser sua o di nessun altro.


Il sor Gostino l'aiutò a portar la roba dal Crescioni; ma intanto andava predicando che bisognava far la pace col Bobbia, appena usciva di prigione; se no, un giorno o l'altro, andava a finir male.


- Col Crescioni? - gridò poi il Bobbia. - Con quel traditore che mi faceva l'amico?...


- Bè! ora che si è presa la Carlotta! Faccia conto che siano marito e moglie, e il torto glielo abbia fatto lei pel primo -.


Con questi discorsi non la finivano più, passo passo, dall'osteria di San Damiano alla porta del sor Gostino, sino a dopo mezzanotte, ciangottando colla lingua grossa. Una sera incontrarono la Carlotta a braccetto del Crescioni, e leticavano nel buio.


Un'altra volta il Bobbia la vide che comprava della verdura dinanzi alla porta, e frugava nel carro dell'ortolano, colle braccia nude e spettinata. Talché pareva che gli fosse rimasto attaccato il cuore da quelle parti. Quando incontrava il Crescioni, aggobbito, colla barba di otto giorni che gli faceva il viso d'ammalato, si fregava le mani.


- Ci vuol altro che quel biondino per la Carlotta, ci vuole!

- Ogni giorno e' sono liti e bòtte da orbi, - narrava il sor Gostino. - Ieri ancora la è scappata nel mio casotto seminuda, ché il Crescioni voleva accopparla. Dice che lo fa per levarsela dattorno -.


La vigilia di Natale, come Dio volle, riescì a farli bere insieme.


- Volete incominciare l'anno nuovo colla ruggine in corpo? - La Carlotta stava sulla sua, in fronzoli, e arricciando il naso a ogni bicchiere, perché c'era il Bobbia presente. Carina, con quella frangia di capelli sul naso! Ma Crescioni aveva il vino cattivo, stava ingrugnato, colle spalle al muro, e tossiva di malumore. - Gli avete portato via l'amante, al Bobbia! O cosa volete d'altro? - gli sussurrò all'orecchio il sor Gostino. Il Bobbia, invece, si sentiva tutto rammollire, e pagava una bottiglia dopo l'altra, senza batter ciglio.


- Mi rammento - disse alla Carlotta nell'orecchio, - mi rammento quando siamo andati insieme a casa mia, la prima volta -. E Crescioni, con tanto d'occhiacci, cavò fuori il mento dalla sciarpa. Poi la comitiva andò via insieme. Crescioni avanti, colle mani in tasca e annuvolato. Aprì lo sportello e fece passare prima la Carlotta, borbottando:

- Sto a vedere che mi vuoi fare col Bobbia quel servizio che gli ho fatto io! - Il sor Gostino sogghignava pensando:
- Questa notte la mi capita in camicia di certo -.


Al Bobbia raccontava in confidenza come la Carlotta gli piacesse anche a lui, per quel suo fare allegro. - Senza ombra di malizia, veh! - Fortuna che sua moglie stava sempre al primo piano, dal padrone, il quale non gliela lasciava un minuto solo. Se no, gelosa com'era, guai! - Il sor Gostino aveva una paura maledetta della sora Bettina, che l'aveva sposato e innalzato a portinaio perché da quarant'anni lei era tutta una cosa col padrone. Tanto che costui, quando leticavano fra marito e moglie, e si udivano nella corte gli improperi e le parolacce della sora Bettina, si affacciava al balcone, in pantofole, e strillava colla voce catarrosa:
- Ohè, Gostino! Cosa l'è sta storia? - Ma torniamo agli altri due. Crescioni voleva sposare la Carlotta sul serio, perché essa gli andava dicendo che stavolta era proprio necessario. - Almeno, - pensava lui, - sarò certo che il bambino è roba mia! - Il sor Gostino strizzava l'occhio furbo: - E se cercate un padrino, ve l'ho già bello e trovato!

- Che discorsi! - gridava la sora Carlotta tentando di arrossire.


Il Bobbia era arrabbiato come un cane. Da un pezzo non la vedeva; e la Gigia, tabaccaia, dopo averlo menato pel naso una settimana o due, gli aveva risposto picche, sulla guancia. - Ah! di lui non voleva più saperne, la sora Carlotta, onde farsi sposare dal Crescioni? - Si sentiva la febbre addosso ogni volta che la vedeva, dal bugigattolo del sor Gostino, a menar la tromba, dimenando i fianchi, o a portar su l'acqua, colla pancia in fuori.


- Mi lasci andare ad aiutarla, sor Gostino. No, non ho più sete.


Il resto lo beva lei per amor mio -. Ma la Carlotta scappava via appena lo vedeva.


- Andatevene! C'è lui in casa. Poi, tutto è finito fra di noi -.


Avrebbe voluto batterla e afferrarla per quella collottola grassa che gli faceva bollire il sangue. - Ah! tu c'ingrassi con quel tisico! tu vuoi farmi morir tisico come lui! Che son fatto di stucco, ti pare?...


- Dovevate pensarci prima. To', questa vi calmerà i bollori -.


E Bobbia se ne andava scuotendo l'acqua dal vestito e bestemmiando.


Si fece il matrimonio. Nacque un bambino, due mesi prima del solito, e fu una femmina. Crescioni era sulle furie, perché almeno avrebbe voluto un maschio, e non dover pensare alla dote e a tante altre seccature.


- Quanto a ciò non si dia pena per sua figlia - lo confortava il sor Gostino - la farà come sua madre -.


Sua madre aveva fatto quello che sapevano tutti. Si era lasciata prendere dalle belle parole di un signorino, e dopo era scappata via di casa, per nascondere il marrone, accorgendosi che la mamma le ficcava gli occhi addosso senza dir nulla, e si sentiva salire le fiamme al viso. Fu un sabato grasso; giusto la Luisina era andata ad impegnare roba per fare il carnevale, e disse alla figliuola:
- Cosi hai che non mangi? - con cert'occhi! Il giorno dopo trovarono l'uscio aperto; e il babbo, poveraccio, si era dato al bere dal crepacuore. Che colpa ne aveva lei? Da fanciulletta era andata attorno per le strade e nei caffè, vendendo paralumi. - Come chi dicesse andare a scuola per apprendere il mestiere. - Poi la miseria, l'uggia di tornare a casa colla mercanzia tale e quale, via della Commenda, che era tutta una pozzanghera, la tentazione delle vetrine, i discorsi dei monelli, le paroline degli avventori che contrattavano soltanto... Insomma, era destinata!

Allorché il suo amante l'aveva piantata in via San Vincenzino, con quattro cenci nel baule e diciassette lire in tasca, era stata costretta a mettersi col Bobbia, il quale la teneva allegra, quando ne aveva da spendere, e la picchiava dopo, per via della bolletta. Crescioni, invece, non beveva, non bestemmiava, ed era sempre malinconico pensando alla sua poca salute. Ella era andata da lui a sfogarsi dei cattivi trattamenti, e poi c'era rimasta pel piacer suo. Quel giovanotto era preciso come lo voleva lei. Egli predicava:
- Vieni di sera. - Vieni di nascosto. - Bada che lui non se ne accorga! - Tale e quale a un ragazzo pauroso dell'ombra sua. Sicché quando il Bobbia capitò a fare quel baccano, Carlotta non gliela perdonò mai più. Infine, cosi era stato? Suo padre stesso, quand'era scappata via di casa, non aveva fatto tanto chiasso. Eppure il danno era più grosso! - Per quel Crescioni, poi, che era quasi un ragazzo! - Sentite! - finiva lo sfogo col sor Gostino. - Fosse stato geloso di voi, o di qualche altro pezzo d'uomo, pazienza! Ma del Crescioni?... Veh! Tutta una birbonata del Bobbia per avere il pretesto di piantarmi... - Il sor Gostino si fregava le mani. Non che ci avesse pel capo certe idee!... Poi con quell'accidente di sua moglie sempre sulla testa, alla finestra del padrone!... Perciò aveva preso l'abitudine di spazzar la scala sino in cima, allo scopo di non dar nell'occhio. - O che non leticate più con vostro marito? È un pezzetto che non vi vedo arrivare in sottanina -.


Appoggiava la scopa contro l'uscio, e si fregava le mani un'altra volta.


- No! Stia cheto con le mani! Adesso è finito il tempo delle sciocchezze!

- Non sono sciocchezze, sora Carlotta! Sembro un Sansone, direte.


Ma non è vero! Pel cuore sono un ragazzo. E sempre disgraziato, veh! Perfino mia moglie, è otto giorni che non la vedo, dacché il padrone è a letto. Anche lei, povera sora Carlotta, le si vede in faccia; suo marito la lascia per correre chissa dove! O pensa tuttora al Bobbia?

- A me non me ne importa. E poi non è vero niente -.


Il sor Gostino stava a guardare mentre ella aveva la bambina al petto, grattandosi la barba.


- Non gliene importa?... Dica un po!... E quella bambina che lui dice che è figlia sua? - Carlotta faceva una spalluccia. Il sor Gostino si metteva a ridere anche lui, e ripigliava la scopa, ciondolando per un pezzo prima di decidersi ad andare; oppure si chinava a fare il discorsetto alla bimba, accarezzandola sul seno della mamma colle manacce sudice. - In coscienza, non somiglia a nessuno di loro due -.


Crescioni era geloso della bambina, che veniva su bionda e color di rosa. - Se ti vedo ancora dattorno il Bobbia - le diceva - ti fo come la donna tagliata a pezzi! - E si faceva brutto che non pareva vero, con quella faccia dabbene di tisico. Non che fosse geloso della Carlotta, - ormai l'aveva sempre là, davanti agli occhi, sciatta, spettinata, colla figlia al petto. Per altro non gliene importava più dell'amore. Era malato, e aveva altro per il capo. Ma tant'è, poiché era stato lui a sposarla! E ci aveva sciupati i denari e la salute. Il principale gli riduceva il salario di un terzo, adesso che non era più in gamba come prima. E se non era in gamba e non aveva denari, lo sapeva di che cosa era capace la Carlotta! Perfino di viziargli la figliuola, a suo tempo. La malattia gli aveva sconvolta la testa, e gli sembrava di veder la ragazza, già grandicella, lasciarsi baciare da questo e da quello, come sua madre. Perciò arrivava a leticare colla moglie se accarezzava la bambina quasi fosse cosa sua. Anche il sor Gostino con quell'aria di minchione... Insomma, non ce lo voleva più a bazzicare in casa sua! - Oh Dio, quel povero diavolo! - esclamava la Carlotta. Ma lui, testardo, non si muoveva di casa la domenica a far la guardia, se udiva la scopa per le scale, seduto accanto alla finestra, torvo, col naso nella sciarpa e le mani in tasca, senza dir nulla. Poi, ogni volta che tossiva, saettava delle occhiatacce sulla moglie, e se la bambina strillava, era una casa del diavolo.


- Non toccare mia figlia, o per la Madonna!... Lascia stare d'insegnarle le tue moine piuttosto! - I dispiaceri gli minavano la salute, diceva. A poco a poco anche il principale si stancò, e Crescioni non si mosse più dal letto.


Sua moglie, in quei quaranta giorni, impegnò sino le lenzuola.


Egli brontolava che si era ridotto in quello stato per causa sua.


All'ospedale però non voleva andarci, perché quando sarebbe stato via, chissà cosa succedeva!

Sino all'ultimo! Se ella usciva un momento a far qualche compera, se scendeva ad attinger l'acqua:
- D'onde vieni così scalmanata?

T'ho detto che mia figlia non devi condurla attorno! - La tosse lo soffocava sotto le coperte. Allorché lo portarono all'ospedale infine, accusò la moglie di averlo tradito - come Giuda fece a Cristo - per scialarla in libertà. - Non vedi come son ridotta? - si scolpava lei. - Non vedi che non ho più neppur latte per la bambina?

- Almeno verrai a trovarmi colla piccina! - Ci andava spesso infatti. Ma erano altri bocconi amari. La bimba aveva paura di suo padre, al vederlo con quel berrettino in mezzo a tanti visi nuovi. Lui si sfogava a brontolare tutti i guai della settimana.


- Una vitaccia da cani! - lamentavasi la Carlotta col sor Gostino.


- Affaticarsi da mattina a sera, e la festa poi quel divertimento!

- Il sor Gostino l'accompagnava, per bontà sua, e le comprava qualche regaluccio da portare al malato. - Che volete farci?

Bisogna aver pazienza finché campa -. Il poveretto aveva il cuoio duro, e non finiva più di penare. La Carlotta si stancò prima di lui d'andare e venire, e di trovarlo sempre lo stesso, con quel berrettino bianco ritto sul guanciale. Si fermava appena due minuti, il tempo di vedere a che punto era, e di portargli qualche cosuccia, senza dire che gliela aveva regalata il portinaio. Ma ei glielò leggeva in faccia, e le guardava le mani, sospettoso, tirandosi la coperta sino al naso, senza dir nulla, e le ficcava in faccia gli occhi neri di febbre, e domandava:

- Hai visto il Bobbia? - T'ha detto nulla il portinaio? - Si capiva che ne aveva tante nello stomaco; ma non parlava perché era confinato in quel letto, e se Carlotta non veniva più restava solo come un cane. Sovente almanaccava dei progetti per quando sarebbe guarito. - Faremo questo. Faremo quest'altro -. Ma ella rimaneva zitta e guardava altrove. Allora disse lui:
- Se guarisco, voglio ammazzar qualcuno, dammi retta! - E la bambina si aggrappava al collo della madre, strillando di paura.


Glielo diceva il cuore, al poveraccio. Il sor Gostino era tutto il giorno su e giù per la scala colla granata in mano. Davvero, pel cuore era un ragazzo! Si divertiva a far quattro chiacchiere con lei, o ad accendere il fuoco, nel fornello, e farle andar la macchina - gira, gira, gira; - nello stesso tempo dalla finestra, dietro la tendina, teneva d'occhio la porta, e quando cominciava a farsi scuro, che gli vedeva quella testa china sulla macchina, si sentiva dentro lo stesso rimenìo. Gli bastava che dicesse:
- Grazie, sor Gostino.


- Non lo faccio per questo, sora Carlotta. Sono un galantuomo e non fo le cose per secondo fine -. Chi era andato a cercarle del cucito? Chi gli faceva prestar la macchina al bisogno? Chi andava a parlare col padron di casa se tardava la mesata?

La sora Bettina infuriava per queste condiscendenze. Un altro po' la casa diventava un luogo pubblico! E se la pigliava anche col padrone che faceva il comodino per sbarazzarsi del marito. Tutto a riguardo suo!

Il sor Gostino non si dava pace. - O dunque cosa gliene importa a lei? - La Carlotta invece si lagnava:
- Signore Iddio! Com'è cattivo il mondo, a pensare il male che non facciamo né voi né io!

- Il sor Gostino allora non sapeva che dire, e ruminava cosa dovesse fare onde non sembrare un minchione, o prendeva il partito di posarsi la mano aperta sul costato:
- Sono un galantugmo, ve l'ho detto. Vi voglio bene, ma sono un galantuomo! - Però non voleva che il Bobbia tornasse a fare il moscone da quelle parti. Glielo aveva predicato:
- Adesso quella poveraccia è come se fosse vedova -.


Appunto! Bobbia ci aveva diritto lui perché era l'amore antico! Il portinaio faceva come il cane dell'ortolano per invidia e per gelosia. Ma se adesso l'aveva lui, voleva averla anche il Bobbia, che era stato il primo. Si vedeva chiaro: il sor Gostino la teneva sempre in casa pel comodo suo. Il Bobbia dovette aspettarla dieci volte prima di vederla uscire un momento.


- Senti! Se non vieni con me oggi stesso, vi ammazzo tutti, te e il tuo amante -.


La poveretta si era sentito un tuffo nel sangue al vederlo, e affrettava il passo, smorta come un cencio. Egli la raggiunse in via Ciossetto, furibondo, e l'afferrò pel braccio. - Per carità!

Non mi fate male! Che amante! Ti giuro! Non ne ho! - Tanto meglio.


Allora, se non ne hai, perché non vieni? - E ci andò per la paura. Dopo il Bobbia, appena se ne accorse, montò in furia:
- Tu vuoi sempre bene a tuo marito, dì! - Oh, quel poveretto!... - Allora hai per amante il sor Gostino! - No, non è il mio amante. - Ma gli vuoi bene, dì! - Ella tremava e supplicava:
- Non son venuta qui? Non ho fatto quel che tu dicevi?

Cosa vuoi ancora? - Voleva... voleva... E prima voleva mandarla via di casa a calci, voleva! Poi col sor Gostino avrebbe fatto i conti a tu per tu, e non per gelosia della Carlotta veh... ormai era carne vecchia! Ma il sor Gostino era un ragazzo soltanto colle donne. Al primo pugno l`accecò mezzo, e se lo mise sotto, giusto nella corte, da pestarlo come l'uva. La sora Bettina, di sopra, buttava acqua, porcherie e male parole, e il padrone, dietro, a strillare:
- Ohè, Gostino! Gostino! - Carlotta fu licenziata su due piedi, e dovette sgomberare in otto giorni. La sora Bettina, il padrone lo stesso, sor Gostino, volevano un po' di pace alfine.


Il Bobbia, col muso pesto, andava dicendo:
- Non me ne importa di colei. Ma mosche sul naso non me le lascio posare! - La Carlotta finalmente andò a vedere cosa n`era di suo marito che non moriva mai. Lo trovò sempre nello stesso letto, cogli occhi spalancati, più sfatto, non si lamentava più, e stava immobile colla faccia color di terra. Quegli occhi di fantasma le si ficcavano addosso come chiodi; e pareva che la sua voce uscisse dalla sepoltura:
- Dove sei stata tutto questo tempo? - Di', cosa hai fatto?





Giuramenti di marinaio


- Giuratemi!... giurami! - Chi non avrebbe giurato, al vederla così pallida sotto i nastri rossi del cappellino, al vedere i begli occhi lucenti e il sorriso triste che mi cercava come un bacio? - povera e cara Ginevra, innamorata sino ai capelli, in un 'fiat', da un momento all'altro, dacché le avevo confessato d'amarla, in segreto, senza speranza, da circa due mesi! - Anch'essa! anch'essa! Peccato che avessimo aspettato l'ultimo momento a dircelo! - Almeno voleva lasciarmi negli occhi, nel sangue, nell'anima, la sua immagine, il suo profumo, le ultime sue parole. - Lì, lì, e lì! in tutto voi, fin nel vostro vestito, dovunque sarete, sempre! - Era venuta per questo alla Villa, a quell'ora. - Non sapete quel che ci è voluto!

- In ogni suo accento, nel suono della voce, nel muovere delle labbra, c'erano tali carezze che penetravano in me come una gran dolcezza, e come altrettante punture anche, di tratto in tratto, allorché pensavo ad Alvise che dicevano suo amante. - È gelosa, sapete!... di tutte!... di tutte le donne che avete conosciuto...


La Seraffini, dite?... o la Maio... a costei le facevate la corte!

Non negate. V'ho conosciuto in casa sua. Il guaio è che l'avrete compagna di viaggio sino a Genova! Giuratemi!... Neanche una parola!... almeno a lei... almeno a quelle che conosco!... Pensate a me, d'Arce! Pensate che vi veggo, laggiù, dovunque sarete, che vi seguo col pensiero, dal momento che metterete il piede sul battello, nella cabina, a tavola... Colei ci verrà pure, a tavola, dovesse rendere l'anima a Dio, per farvi ammirare le sue smorfie e il suo vestito da viaggio... - Ella guardava tristamente il bel mare azzurro che doveva separarci per tanto tempo, fra poche ore, e aveva gli occhi gonfi di lagrime, e mi abbandonava la mano, senza curarsi della gente che poteva vederci - per altro erano delle coppie mattutine che venivano a cercare le ombre discrete della Villa, e avevano altro pel capo anche loro - senza pensare al pericolo che correva, senza pensare a quell'orco di suo marito... senza pensare ad altri. E mi si abbandonava tutta, con quella manina tremante di cui parevami di sentire le carezze e la febbre attraverso il guanto di Svezia; e intrecciava le sue dita alle mie, e si attaccava a me, voleva legarsi a me, per sempre - l'una dell'altro - col cuore gonfio ambedue di amore eterno, di costanza e di fedeltà - io a dispetto dei miei venticinque anni - ella col marito sulle spalle... ed Alvise, e tutti gli spergiuri latenti in una bella donna che ride volentieri, e ama sentirsi dire che il suo sorriso fa perdere la testa al prossimo... Allora balbettai:

- Anche voi!... anche tu... giurami!... - Ella non rispose, colle mani nelle mie, gli occhi negli occhi, e una fiamma rapida le salì al viso:
- Che posso farci? che posso farci? - voleva dirmi, povera donna. Ma a un tratto mi lesse in viso il nome di un altro, l'immagine odiosa del mio amico Alvise che tornava a mettersi fra di noi. - Oh! - mormorò, scolorandosi rapidamente. - Oh, d'Arce! - Chinò il capo, passandosi le mani sul volto, e non disse altro.


Aveva una peluria bionda che moriva dolcemente sulla bianchezza immacolata della nuca. Le dolci parole, il delirio, la frenesia che mi si gonfiarono in cuore allora per chiederle perdono! Come avrei voluto buttarmi a' suoi piedi e abbracciare i suoi ginocchi, i ginocchi che si accennavano vagamente fra le molli pieghe del vestito bigio!... Essa continuava a scuotere il capo, con un sorriso dolce e malinconico, e riprese:

- Quanti orrori vi avranno narrato sul conto mio... le mie buone amiche... lui stesso, fors'anche! Non negate... è inutile. Voglio che sappiate tutto... oramai, sul punto di lasciarci forse per sempre!... Come a un fratello... come in punto di morte... Mi crederete, d'Arce? mi crederete?... Sono stata un po' leggiera...


un po' civetta anche, mettiamo... Ecco, vi dico tutto! In casa mia poi, bisogna sapere quante noie! Che scene e che musi lunghi per un misero ballonzolo, fra quattro gatti... per andare una sera a teatro... Non sono né vecchia né gobba infine. Mio marito invece vorrebbe tenermi sotto chiave nella santabarbara della sua nave.


Pedante, sospettoso, uggioso! Una cosa tremenda, caro mio! Allora, capite bene... se bisogna nascondergli le cose più innocenti... la colpa è tutta sua... E una povera donna... a meno di finir tisica... Sì, parola d'onore, tante volte ho sputato sangue. Chi sa se mi troverete ancora quando tornerete in Italia, povero d'Arce!... Vi ricorderete sempre di me, dite? Verrete a trovarmi al camposanto? - Trasse pure il fazzolettino dalla tasca del petto, e se lo recò alla bocca, tossendo un po', con certe piccole scosse che facevano sollevare gli omeri delicati sotto la giacchetta attillata, e le inumidivano gli occhi di un languore sorridente, e le facevano il viso tutto color di rosa. No, no, non volevo sentirla parlare così! L'avrei difesa da quelle malinconie, fra le mie braccia, stretta stretta. Ella schermivasi gaiamente; minacciava pure col fazzolettino... - Badate!... Che matto!... Siamo due matti!...


Avete sempre quel brutto sospetto? No, sentite, voglio dirvi tutto. È meglio che sappiate tutto da me stessa... pel caso che egli vi abbia fatto le sue confidenze... 'quell'altro'...


giacché siete suo amico... Sì, lo so... voialtri uomini siete discreti... Lasciamola lì! È vero che mi ha fatto un po' di corte... come tanti altri... più degli altri anche... E me la son lasciata fare. Mio marito... me lo ha messo fra i piedi lui stesso, il vostro amico, col pretesto di farne il suo ufficiale d'ordinanza... E gli ha attaccato il suo male pure... le sue esigenze e le sue gelosie. Dite la verità, vi avrà fatto delle scene anche a voi, Alvise? Un bel divertimento, quei musi lunghi!

E senza averne il diritto, vi giuro! Mi credete, d'Arce! mi credete? Vedete adesso come sono venuta a voi!... Lo sapete... da due mesi... i miei occhi che vi dicevano... - Poi, a voce più bassa, accostando il viso al mio, figgendomi gli occhi nell'anima, con un sospiro:
- Tua! Soltanto tua!... Mi credi? - Li avessi visti ai suoi piedi, in quel momento, il marito, e 'quell'altro', mi avessero detto che anche loro... Avrei giurato che mentivano. Mi turbava però il rimorso delle infedeltà che le avevo fatto... prima di conoscerla... e anche dopo... Sì, delle vertigini... qualche momento di oblio... Ero arrivato a farle di queste confessioni, in quel punto, nel caldo della passione... Volevo dirle tutto, per ispirarle la mia fede, perché non avesse a dubitare anch'essa, mentre saremmo stati tanto lontani!... - Ah, sentite, è una cosa terribile! Volersi tanto bene... proprio all'ultimo momento... volersi così!... E neanche la punta di un dito!... Non mi guardate a quel modo, per l'amor di Dio!... Proprio un amore senza macchia e senza paura, questo nostro!... Ah! quel sorriso che mi fiorirà sempre in cuore! Quella fossetta che fate sulla guancia, ridendo!... Un amore siffatto non deve aver paura di nulla... e di nessuno... del tempo che passa...


- Che ora sarà adesso? - chiese a un tratto lei.


Erano circa le due. Essa s'alzò in piedi sgomenta.


- Dio mio! così tardi! Ah, povera me! - Poi mi stese la mano e volle pure cavarsi un po' il guanto, buona e cara Ginevra, perché le baciassi il polso sulla nuda carne, lì, dove la piccola vena azzurra avrebbe voluto portarmi su su pel braccio, e le labbra volevano struggersi. - Addio! addio! - Per ricordo strappò una foglia dal cespuglio, dandomene la metà; l'altra se la nascose dentro il guanto, proprio dove si era posata la mia bocca. E nel viso affilato, negli occhi, nella voce, la poveretta aveva il medesimo struggimento che sentiva, pareva che non potesse staccarsi da me. Dovette fare uno sforzo - come uno strappo, nell'ultima stretta di mano - e se ne andò frettolosa, pensando ch'era tardi. Ho ancora nelle orecchie il fruscìo della sua sottana di raso. Povera Ginevra, come doveva avere il cuore gonfio anche lei! E le sarebbe toccato dissimulare poi col marito e con tutti gli altri! Almeno io... Io mi posi a sedere dove essa era stata, andai a rintracciare il ramoscello dal quale aveva strappato la fogliolina. Feci insomma tutto ciò che fanno gl'innamorati in casi simili. Infine dovetti accorgermi che si faceva tardi e che avevo ancora la valigia da terminare.


La prima persona che vidi sul battello, al momento d'imbarcarmi, fu Alvise, il buon Alvise che era venuto a salutarmi, e mi stendeva la mano, a mia confusione. Gliela strinsi con un po' di rossore al viso, ma grato e commosso, quasi mi avesse recato qualcosa della donna che amavamo entrambi. Non c'era nulla di male, se l'amava anch'esso, giacché lei non poteva soffrirlo, e mi preferiva a lui, e si lasciava rubare a lui. Per nascondere il mio imbarazzo gli domandai se ci fossero già dei passeggeri a bordo. - No, non molti - rispose lui. - La signora Maio, una simpatica compagna di viaggio -.


La signora Maio risaliva sul ponte in quel momento; c'incontrammo insieme alla scaletta. - Oh, d'Arce! - Colei è un vero demonio, poiché al vedermi quella faccia i suoi occhi si misero a ridere da soli sotto il velo blu; e non la finiva più colle domande:
- Dove andavo - se mi era toccata una buona destinazione - se sarei stato un pezzo laggiù - se mi rincresceva di lasciare l'Italia - il bel cielo di Napoli - gli amici...


- Ah, Ginevra! Buona Ginevra! Che pensiero gentile!... che piacere mi hai fatto!... - Era proprio lei, la buona Ginevra, che inaspettatamente veniva a dare il buon viaggio alla cara amica che odiava, come Alvise era venuto per me. - Per voi! per vedervi ancora un'ultima volta! - dicevano i suoi occhi nel rapido sguardo che mi rivolse. E bastò per farmi rizzare le orecchie sul vero motivo che aveva condotto Alvise a bordo, e farmi allungare tanto di muso. Però essa era meno imbarazzata di me, che dovevo esser pallido in modo ridicolo.


Filava imperturbabile il cinguettìo delle donne che non vogliono dir nulla, con la sua amica, con Alvise - a me rivolse appena qualche parola. - Ah, va via anche lei? Partono tutti! Cosa hanno al Ministero che vi mandano tutti via? - Poi fu colta d'ammirazione pel berrettino da viaggio della signora Maio, un cosino di stoffa eguale al vestito, ch'era un amore, posato bravamente sui bei capelli castani, avvolti nella garza che dava una straordinaria finezza al bel visetto ardito e al mento spiritoso. Si mise ad accomodare le pieghe con un buffetto che sembrava una carezza, dietro le spalle della sua amica, e intanto mi lanciò pure un'occhiata tremenda. - L'amica prestavasi discretamente alla manovra, col tatto di una donna che sa vivere e lasciar vivere, tutta per lei, affabilissima anche con Alvise, dimenticando quasi che io fossi lì, come un intruso in quel terzetto spensierato che lasciava suonare la campana della partenza senza badarci.


Infine la ragazza che andava in giro col piattello a raccogliere i soldi pei virtuosi che ci avevano strimpellato l'augurio di buon viaggio, il cameriere che spingeva verso la scaletta i venditori di cannocchiali e di pettini di tartaruga, fecero capire ch'era il momento di separarci.


Le due amiche si buttarono le braccia al collo. Alvise s'ebbe pure la sua stretta di mano all'inglese dalla signora Maio, la quale trovò un mondo di saluti da lasciargli, per lui, pei suoi amici, per tutto il genere umano, occupandolo, impadronendosene, pigliandoselo tutto per sé, tenendolo sempre per mano, mentre Ginevra stringeva la mia forte forte - fu l'unico segno - e le labbra che tremavano, il sorriso che spasimava, e l'occhiata lunga... Poi la rivolse sull'amica, scintillante, e quasi minacciosa.


- Buona Ginevra! - osservò la Maio, rispondendo al saluto che essa continuava a mandare dalla barchetta, mentre si allontanava in compagnia di Alvise. - E pensare che le toccherà pigliarsi delle osservazioni da quell'orso del Comandante, se egli arriva a sapere... - La gentile signora volle ancora restar lì, appoggiata al parapetto, perché la nostra amica potesse continuare a salutarci, rispondendo al saluto col fazzoletto anche lei, di tanto in tanto, sbadatamente e guardando altrove. Poi mi lasciò solo, e scese nella cabina, allorché il fazzolettino della barchetta poté seguitare a sventolare da lontano senza compromettersi. Caro fazzolettino che tremava nella brezza, e palpitava verso di me, e moriva nella caligine della sera, sul fondo già scuro del bel lido che cominciava a formicolare di lumi, a destra verso Portici, a sinistra per la Riviera. Quante volte avevo colà cercato i nastri rossi del tuo cappellino, amor mio, e i tuoi occhi bramosi mi avevano detto:
- Sì, sì, lo so!... Io pure!... - Tu pure pensi a me in questo momento, e cerchi il lume del mio bastimento fra gli altri lumi che si allontanano dal porto, mentre Alvise ti dà la mano per aiutarti a scendere a terra, seccatore! Egli può ancora udire lo scricchiolìo delle tue scarpette che si affrettano verso una carrozzella, e vedere il tuo piedino che si posa sul montatoio. Qual via farai per andare a casa? San Ferdinando...


Chiaia... Le vetrine scintillanti del Caffè d'Europa, dinanzi a cui tu passi come una visione... Gli oziosi che stanno a vederti dal marciapiedi! Quante volte ti ho aspettata anch'io, lì... Lo sai che ti vedo... e ti accompagno cogli occhi, io pure... passo passo, come tu promettesti di pensare a me?... Come ero felice di sentirti parlare, di sentirti dire che volevi seguirmi col pensiero, col cuore, ogni momento, dacché avrei messo il piede sul ponte, nella cabina, a tavola!... Povera e cara Ginevra! ti seccava che ci dovesse venire quell'altra, a tavola! Ti seccava, come mi secca che Alvise ti abbia accompagnata... Eri gelosa... E senza motivo, credi! Colei ha capito subito che son ben preso, sino ai capelli, tutto tuo!... Non è mica una sciocca la signora Maio!... E a tavola non vorrà perdere il tempo a farmi ammirare le sue smorfie, come le chiami, cattiva! Non vorrà che io rida di lei sotto i baffi... Ed io non voglio ch'essa rida di me, se non mi vede a pranzo, se le lascio immaginare che io stia qui a 'pascermi di lai'... com'ella suol dire quando il suo musetto sardonico vi mette tutti i diavoli in corpo.


La signora Maio però non era scesa a tavola. Il posto di lei rimaneva vuoto, a destra del capitano. Ma l'udivo muoversi nella cabina, dietro le mie spalle, con un fruscìo d'abiti che mi turbava, a volte sommesso, quasi timido e pudibondo, a volte alto e brusco, come agitato da un'improvvisa fantasia. Che diavolo faceva la bella signora? Si sentiva male? Stava per coricarsi? Non la finiva più di sgusciare delle sottane e di sfibbiare dei ganci?... Il vestito, no... Quello non era il 'frù-frù' vivo della seta... Era piuttosto il fruscìo molle della biancheria più intima. Pareva di sentirne il profumo all'ireos. Il fatto è che mi guastava il pranzo, mi dava delle distrazioni, una tensione d'udito in cui sembravami di vedere ogni parte del suo vestiario, a misura che le passava per le mani, di vederla nelle bottiglie e negli specchi dirimpetto, colle braccia nude, pettinandosi per la notte. - Buona notte che avrei passato con quella cabina attaccata alla mia! - Povera Ginevra, le parlava il cuore! - Talché non volli aspettare neppure il caffè, e andai sul ponte a fumare un sigaro... e pensare 'a lei'...


- Bravo, d'Arce! Venite a farmi compagnia, - udii una voce che mi chiamava da poppa. Proprio la Maio, che desinava tranquillamente, al lume della bussola, col piatto sulle ginocchia.


- Come... voi qui! - mi scappò detto.


- Grazie! Credevo che aveste già notata la mia presenza a bordo, ingrato! - rispose sorridendo e mordendo una fetta di pera.


- Mi era parso di sentire... Chi c'è dunque nella vostra cabina?

- La cameriera, credo. Starà mettendo in ordine la mia roba.


Pensate che devo starci quattro o cinque giorni in quella gabbia!

- Tanto meglio!

- Tanto meglio, sia pure, giacché siete in vena d'amabilità.


Intanto mi tocca far penitenza, come vedete...


- L'avrei fatta anch'io volentieri con voi, se avessi saputo...


- Oh, voi... è un'altra cosa. Prima di tutto siete corazzato...


sul mare; e poi vi sono i regolamenti, che so io, tutti quegli ostacoli che avete immaginato voialtri... a bordo. Mentre io...


povera donna... Mi è riuscito di intenerire il cameriere... con un po' di buona volontà... È una vergogna! In tanti anni che ho l'onore di appartenere alla marina di Sua Maestà... per via di mio marito, non sono arrivata a farmi il piede marino, come dite voialtri; e se non voglio morir di fame bisogna prendere delle precauzioni. Volete prenderne anche voi? Lì, in quel sacchetto, c'è della menta di VanPol eccellente. Fumate pure, sapete che la sigaretta non mi dà noia. Non ci conosciamo da oggi, mi pare!

Anzi, se volete darmene una anche a me... - Mentre allungava il musetto color di rosa per accenderla, quasi volesse baciarmi, mi parve di vedere un altro punto luminoso nei suoi occhi, un balenìo che diceva:
- Traditore! - Ma si tirò subito indietro, per farmi un po' di posto nel seggiolino pieghevole al quale aveva appoggiato i piedi, avvolgendosi nel suo mantellone da viaggio.


Invece, come attratto, mi accostai a lei, guardandola dal basso, col sorriso sincero di quei momenti, dicendole colla voce un po' roca:

- Sapete che mi hanno dato la cabina accanto alla vostra?

- Tanto meglio.


- Per voi forse... Ma per un povero diavolo...


- Ah, la tentazione? Beveteci sopra un bicchier d'acqua. Del resto vi prometto che passerò la notte sopra coperta. Laggiù si soffoca... Il faro di Napoli! - interruppe a un tratto, additando un punto luminoso in fondo.


Sembrava un occhio che ci spiasse dall'orizzonte buio, ora tremulo, come velato di lacrime, ora raggiante all'improvviso.


Sembrava che giungesse sino a noi, col mormorìo vasto e profondo del mare, l'eco della città, coi sospiri soffocati, con voci misteriose, con canzoni malinconiche. La Maio s'alzò, vacillante pel rollìo del bastimento, e prese il mio braccio, appoggiandovi anche il petto nel fare qualche passo, sfiorandomi col vestito, col mantello grave che mi si avvolgeva alle gambe e mi legava.


- Non mi reggo, no caro d'Arce! A momenti vi casco nelle braccia!

- balbettò fra due scoppi di risa soffocati che risuonavano come una musica.


Infine si fermò presso la sponda, senza lasciare il mio braccio, col gomito sulla ringhiera, e il bel mento delicato sulla mano nuda, guardando sempre laggiù, verso il punto luminoso.


- Cara Napoli! A quest'ora i nostri amici saranno tutti allo 'Châlet'. Vi rammentate le belle serate allegre?... Quando il marito di Ginevra non era di cattivo umore, povera Ginevra... Come è stata buona venendo a salutarmi sino a bordo!... Tutta cuore...


si farebbe in quattro pe' suoi amici... È per questo che ne ha molti... e devoti... voi, Alvise... Mi sembra di vederlo quel diavolo di Alvise, a combinare il giochetto per nascondere a quell'orso di marito l'innocente scappata d'oggi... d'accordo con Ginevra... Il solito giuoco di bussolotti... là, là, e là!... - Questa volta essa aveva il sorriso diabolico in bocca, mentre picchiava sul parapetto colla mano nuda. Era sempre stata la mia passione quella mano un po' lunga, un po' magra, che diceva tante cose e faceva perdere la testa. Mi chinai su di essa e la baciai.


Ritirò la mano, lentamente, senza dir nulla; ma il sorriso le morì sulle labbra che parvero tremare e scolorirsi.


- Ecco come siete, tutti quanti!... - mormorò dopo un momento, guardandosi intorno, e passandosi la mano sul viso.


Eravamo soli, nascosti dalla parete della scala; la presi per forza e la baciai sulla bocca avidamente, felice di sentire che già si abbandonava, come fosse la prima volta.


- Dite la verità - mi chiese poi. - Ve la siete fatta dare apposta la cabina accanto alla mia? - Alvise aveva ragione di dire che era una simpatica compagna di viaggio: allegra, graziosa, riboccante di spirito, e senza malinconie.


Se qualche momento ne avevo io, delle malinconie, ripensando alle ultime parole della mia Ginevra, ai suoi begli occhi lagrimosi che mi chiedevano di esserle fedele, quest'altra metteva la miglior grazia a farmi tosto spergiuro... e contento. Una di quelle donne che non passano la pelle, ma che sanno accarezzarla. Discreta poi!

Mai una allusione o una parola. Sapeva forse che il mio cuore era preso, e si contentava del resto. Talché continuai a trovarla anche dopo che fummo arrivati a Genova, mentre aspettavo l'imbarco per Montevideo.


- Sapete, povera Ginevra... - mi disse un bel giorno, leggendo una lettera che le era giunta allora da Napoli. - Pare che abbia avuto dei guai laggiù, per quello scapato di Alvise... S'è lasciata cogliere dal marito, la sera stessa che partimmo, vi rammentate? - A quella notizia dovetti fare un viso molto sciocco, poiché ella soggiunse, col suo ghignetto malizioso, stavolta:

- Ve l'aveva fatto anche lei, il giuramento del marinaio?




Guerra di santi


Tutt'a un tratto, mentre San Rocco se ne andava tranquillamente per la sua strada, sotto il baldacchino, coi cani al guinzaglio, un gran numero di ceri accesi tutt'intorno, e la banda, la processione, la calca dei devoti, accadde una parapiglia, un fuggi fuggi, un casa del diavolo: preti che scappavano colle sottane per aria, trombe e clarinetti sulla faccia, donne che strillavano, il sangue a rigagnoli, e le legnate che piovevano come pere fradicie fin sotto il naso di San Rocco benedetto. Accorsero il pretore, il sindaco, i carabinieri; le ossa rotte furono portate all'ospedale, i più riottosi andarono a dormire in prigione, il santo tornò in chiesa di corsa più che a passo di processione, e la festa finì come le commedie di Pulcinella.


Tutto ciò per l'invidia di que» del quartiere di San Pasquale, perché quell'anno i devoti di San Rocco avevano speso gli occhi della testa per far le cose in grande; era venuta la banda dalla città, si erano sparati più di duemila mortaretti, e c'era persino uno stendardo nuovo, tutto ricamato d'oro, che pesava più d'un quintale, dicevano, e in mezzo alla folla sembrava una «spuma d'oro» addirittura. Tutto ciò urtava maledettamente i nervi ai devoti di San Pasquale, sicché uno di loro alla fine smarrì la pazienza, e si diede a urlare, pallido dalla bile:
- Viva San Pasquale! - Allora si erano messe le legnate.


Certo andare a dire «viva San Pasquale» sul mostaccio di San Rocco in persona è una provocazione bella e buona; è come venirvi a sputare in casa, o come uno che si diverta a dar dei pizzicotti alla donna che avete sotto il braccio. In tal caso non c'è più né cristi né diavoli, e si mette sotto i piedi quel po' di rispetto che si ha anche per gli altri santi, che infine fra di loro son tutt'una cosa. Se si è in chiesa, vanno in aria le panche; nelle processioni piovono pezzi di torcetti come pipistrelli, e a tavola volano le scodelle.


- Santo diavolone! - urlava compare Nino, tutto pesto e malconcio.


- Voglio un po' vedere chi gli basta l'anima di gridare ancora «viva San Pasquale!».


- Io! - rispose furibondo Turi il «conciapelli» il quale doveva essergli cognato, ed era fuori di sé per un pugno acchiappato nella mischia, che lo aveva mezzo accecato. - Viva San Pasquale, sino alla morte!

- Per l'amor di Dio! per l'amor di Dio! - strillava sua sorella Saridda, cacciandosi tra il fratello ed il fidanzato, ché tutti e tre erano andati a spasso d'amore e d'accordo sino a quel momento.


Compare Nino, il fidanzato, vociava per ischerno:

- Viva i miei stivali! viva san stivale!

- Te'! - urlò Turi colla spuma alla bocca, e l'occhio gonfio e livido al pari d'un petronciano. - Te', per San Rocco, tu dei stivali! Prendi! - Così si scambiarono dei pugni che avrebbero accoppato un bue, sino a quando gli amici riuscirono a separarli, a furia di busse e di pedate. Saridda, scaldatasi anche lei, strillava - viva San Pasquale -, che per poco non si presero a ceffoni collo sposo, come fossero già stati marito e moglie. - In tali occasioni si accapigliano i genitori coi figliuoli, e le mogli si separano dai mariti, se per disgrazia una del quartiere di San Pasquale ha sposato uno di San Rocco.


- Non voglio sentirne parlare più di quel cristiano! - sbraitava Saridda, coi pugni sui fianchi, alle vicine che le domandavano come era andato all'aria il matrimonio. - Neanche se me lo danno vestito d'oro e d'argento, sentite!

- Per conto mio Saridda può far la muffa! - diceva dal canto suo compare Nino, mentre gli lavavano all'osteria il viso tutto sporco di sangue. - Una manica di pezzenti e di poltroni, in quel quartiere di conciapelli! Quando m'è saltato in testa d'andare a cercarmi colà l'innamorata dovevo essere ubriaco.


- Giacche è così! - aveva conchiuso il sindaco - e non si può portare un santo in piazza senza legnate, che è una vera porcheria, non voglio più feste, né quarant'ore! e se mi mettono fuori un moccolo, che è un moccolo! li caccio tutti in prigione.


La faccenda poi si era fatta grossa, perché il vescovo della diocesi aveva accordato il privilegio di portar la mozzetta ai canonici di San Pasquale, e quelli di San Rocco, che avevano i preti senza mozzetta, erano andati fino a Roma, a fare il diavolo ai piedi del Santo Padre, coi documenti in mano, su carta bollata e ogni cosa; ma tutto era stato inutile, giacché i loro avversari del quartiere basso, che ognuno se li rammentava senza scarpe ai piedi, si erano arricchiti come porci, colla nuova industria della concia delle pelli, e a questo mondo si sa, che la giustizia si compra e vende come l'anima di Giuda.


A San Pasquale aspettavano il delegato di monsignore, il quale era un uomo di proposito, che ci aveva due fibbie d'argento di mezza libra l'una alle scarpe, chi l'aveva visto, e veniva a portare la mozzetta ai canonici; perciò avevano scritturato anche loro la banda, per andare ad incontrare il delegato di monsignore tre miglia fuori del paese, e si diceva che la sera ci sarebbero stati i fuochi in piazza, con tanto di «Viva San Pasquale» a lettere di scatola.


Gli abitanti del quartiere alto erano quindi in gran fermento, e alcuni, più eccitati, mondavano certi randelli di pero e di ciliegio grossi come stanghe, e borbottavano:

- Se ci dev'essere la musica, si ha da portar la battuta! - Il delegato del vescovo correva un gran pericolo di uscirne colle ossa rotte, dalla sua entrata trionfale. Ma il reverendo, furbo, lasciò la banda ad aspettarlo fuor del paese, e a piedi, per le scorciatoie, se ne venne pian piano alla casa del parroco, dove fece riunire i caporioni dei due partiti.


Come quei galantuomini si trovarono faccia a faccia, dopo tanto tempo che litigavano, cominciarono a guardarsi nel bianco degli occhi, quasi sentissero una gran voglia di strapparseli a vicenda, e ci volle tutta l'autorità del reverendo, il quale si era messo per la circostanza il ferraiuolo di panno nuovo, per far venire i gelati e gli altri rinfreschi senza inconvenienti.


- Così va bene! - approvava il sindaco col naso nel bicchiere, - quando mi volete per la pace, mi ci trovate sempre -.


Il delegato disse infatti che egli era venuto per la conciliazione, col ramoscello d'ulivo in bocca, come la colomba di Noè, e facendo il fervorino andava distribuendo sorrisi e strette di mano, dicendo a tutti:
- Loro signori favoriranno in sagrestia, a prendere la cioccolata, il dì della festa.


- Lasciamo stare la festa, - disse il vicepretore, - se no, nasceranno degli altri guai.


- I guai nasceranno se si fanno di queste prepotenze, che uno non è più padrone di spassarsela come vuole, spendendo i suoi denari!

- esclamò Bruno il carradore.


- Io me ne lavo le mani. Gli ordini del governo sono precisi. Se fate la festa mando a chiamare i carabinieri. Io voglio l'ordine.


- Dell'ordine rispondo io - sentenziò il sindaco, picchiando in terra coll'ombrella, e girando lo sguardo intorno.


- Bravo! come se non si sapesse che chi vi tira i mantici in Consiglio è vostro cognato Bruno! - ripicchiò il vicepretore.


- E voi fate l'opposizione per la picca di quella contravvenzione del bucato che non potete mandar giù!

- Signori miei! signori miei! - andava raccomandando il delegato.


- Così non facciamo nulla.


- Faremo la rivoluzione, faremo! - urlava Bruno colle mani in aria.


Per fortuna, il parroco aveva messo in salvo, lesto lesto, le chicchere e i bicchieri, e il sagrestano era corso a rompicollo a licenziare la banda, che, saputo l'arrivo del delegato, accorreva a dargli il benvenuto, soffiando nei corni e nei tromboni.


- Così non si fa nulla! - borbottava il delegato; e gli seccava pure che le messi fossero già mature, di là delle sue parti, mentre ei se ne stava a perdere il suo tempo con compare Bruno e col vicepretore, che volevano mangiarsi l'anima.


- Cosi è questa storia della contravvenzione pel bucato?

- Le solite prepotenze. Ora non si può sciorinare un fazzoletto da naso alla finestra, che subito vi chiappano la multa. La moglie del vicepretore, fidandosi che suo marito era in carica, - sinora un po' di riguardo c'era sempre stato per le autorità, - soleva mettere ad asciugare sul terrazzino tutto il bucato della settimana, si sa ... quel po' di grazia di Dio! ... Ma adesso, colla nuova legge, è peccato mortale, e son proibiti perfino i cani e le galline, e gli altri animali, con rispetto, che fino ad ora facevano la polizia delle strade. Alle prime pioggie, se Dio vuole, l'avremo sino al mostaccio, il sudiciume.


Il delegato del vescovo, per conciliare gli animi, stava inchiodato nel confessionario come una civetta, dalla mattina alla sera, e tutte le donne volevano essere confessate da lui, che ci aveva l'assoluzione plenaria per ogni sorta di peccati, quasi fosse stata la persona stessa di monsignore.


- Padre! - gli diceva Saridda col naso alla graticola del confessionario. - Compare Nino ogni domenica mi fa far peccati in chiesa.


- In che modo, figliuola mia?

- Quel cristiano doveva esser mio marito, prima che vi fossero queste chiacchiere in paese; ma ora che il matrimonio è rotto, si pianta vicino all'altar maggiore, per guardarmi, e ridere coi suoi amici, tutto il tempo della messa -.


E come il reverendo cercava di toccare il cuore a compare Nino:

- È lei piuttosto che mi volta le spalle, quando mi vede, quasi fossi uno scomunicato! - rispondeva il contadino.


Egli invece, se la gnà Saridda passava dalla piazza la domenica, affettava di esser tutt'uno col brigadiere, o con qualche altro pezzo grosso, e non si accorgeva nemmeno di lei. Saridda era occupatissima a preparare lampioncini di carta colorata, e glieli schierava sul naso, lungo il davanzale, col pretesto di metterli ad asciugare. Una volta che si trovarono insieme in un battesimo, non si salutarono nemmeno, come se non si fossero mai visti, e anzi Saridda fece la civetta col compare che aveva battezzata la bambina.


- Compare da strapazzo! - sogghignava Nino. - Compare di bambina!

Quando nasce una femmina si rompono persino i travicelli del tetto -.


E Saridda, fingendo di parlare colla puerpera:

- Tutto il male non viene per nuocere. Alle volte, quando vi pare d'aver perso un tesoro, dovete ringraziar Dio e San Pasquale! ché prima di conoscere bene una persona bisogna mangiare sette salme di sale.


- Già, le disgrazie bisogna pigliarle come vengono; il peggio è guastarsi il sangue per cose che non ne valgono la pena. Morto un papa, se ne fa un altro -.


In piazza suonava il tamburo, quello della meta.


- Il sindaco dice che vi sarà la festa, - sussurravano nella folla.


- Litigherò sino alla consumazione dei secoli! Mi ridurrò povero e in camicia come il Santo Giobbe, ma quelle cinque lire di multa non le pagherò, dovessi lasciarlo nel testamento!

- Sangue d'un cane! che festa vogliono fare se quest'anno morremo tutti di fame? - esclamava Nino.


Sin dal mese di marzo non pioveva una goccia d'acqua, e i seminati, gialli, che scoppiettavano come l'esca «morivano di sete». Bruno il carradore diceva invece che appena San Pasquale esciva in processione pioveva di certo. Ma che gliene importava della pioggia a lui, se faceva il carradore, e a tutti gli altri conciapelli del suo partito?...


Infatti portarono San Pasquale in processione a levante e a ponente, e l'affacciarono sul poggio, a benedir la campagna, in una giornata afosa di maggio, tutta nuvoli - una di quelle giornate in cui i contadini si strappano i capelli dinanzi ai campi «bruciati», e le spighe chinano il capo proprio come se morissero.


- San Pasquale maledetto! - gridava Nino sputando in aria, e correndo come un pazzo pel seminato. - M'avete rovinato, San Pasquale ladro! Non mi avete lasciato altro che la falce per tagliarmi il collo! - Nel quartiere alto era una desolazione: una di quelle annate lunghe, in cui la fame comincia a giugno, e le donne stanno sugli usci, spettinate e senza far nulla, coll'occhio fisso. La gnà Saridda, all'udire che si vendeva in piazza la mula di compare Nino, onde pagare il fitto della terra che non aveva dato nulla, si sentì sbollire la collera in un attimo, e mandò in fretta e in furia suo fratello Turi, con quei soldi che avevano da parte, per aiutarlo.


Nino era in un canto della piazza, cogli occhi astratti e le mani in tasca, mentre gli vendevano la mula, tutta in fronzoli e colla cavezza nuova.


- Non voglio nulla - ei rispose torvo. - Le braccia mi restano ancora, grazie a Dio! Bel santo, quel San Pasquale, eh! - Turi gli voltò le spalle per non finirla brutta, e se ne andò. Ma la verità era che gli animi si trovavano esasperati, ora che San Pasquale l'avevano portato in processione a levante e a ponente con quel bel risultato. Il peggio era che molti del quartiere di San Rocco si erano lasciati indurre ad andare colla processione anche loro, picchiandosi come asini, e colla corona di spine in capo, per amor del seminato. Ora poi si sfogavano in improperi, tanto che il delegato di monsignore aveva dovuto battersela a piedi e senza banda, com'era venuto.


Il vicepretore, per prendersi una rivincita sul carradore, telegrafava che gli animi erano eccitati, e l'ordine pubblico compromesso; sicché un bel giorno si udì la notizia che nella notte erano arrivati i Compagni d'Arme, e ognuno poteva andare a vederli nello stallatico.


- Son venuti pel colera, - dicevano però degli altri. - Laggiù nella città la gente muore come le mosche -.


Lo speziale mise il catenaccio alla bottega, il dottore scappò il primo di tutti, perché non l'accoppassero.


- Non sarà nulla, - dicevano quei pochi rimasti in paese, che non erano potuti fuggire qua e là per la campagna. - San Rocco benedetto lo guarderà il suo paese! e il primo che va in giro di notte gli faremo la pelle! - E anche quelli del quartiere basso erano corsi a piedi scalzi nella chiesa di San Rocco. Però di lì a poco i colerosi cominciarono a spesseggiare come i goccioloni grossi che annunziano il temporale - e di questo dicevasi che era un maiale, e aveva voluto morire per fare una scorpacciata di fichidindia - e di quell'altro che era tornato da campagna a notte fatta. Insomma il colera era venuto bello e buono, malgrado la guardia, e alla barba di San Rocco, nonostante che una vecchia in odore di santità avesse sognato che San Rocco in persona le diceva:

- Del colera non abbiate paura, che ci penso io, e non sono come quel disutilaccio di San Pasquale -.


Nino e Turi non si erano più visti dopo l'affare della mula; ma appena il contadino intese dire che fratello e sorella erano malati tutti e due, corse alla loro casa, e trovò Saridda nera e contraffatta, in fondo alla stanzuccia, accanto a suo fratello il quale stava meglio, lui, ma si strappava i capelli e non sapeva più che fare.


- Ah! San Rocco ladro! - si mise a gemere Nino. - Questa non me l'aspettava! O gnà Saridda, che non mi conoscete più? Nino, quello di una volta? - La gnà Saridda lo guardava con certi occhi infossati che ci voleva la lanterna a trovarli, e Nino ci aveva due fontane ai suoi occhi.


- Ah, San Rocco! - diceva lui, - questo tiro è più birbone di quello che ci ha fatto San Pasquale!

Però la Saridda guarì, e mentre stava sull'uscio, col capo avvolto nel fazzoletto, gialla come la cera vergine, gli andava dicendo:

- San Rocco mi ha fatto il miracolo, e dovete venirci anche voi a portargli la candela per la sua festa -.


Nino, col cuore gonfio, diceva di sì col capo; ma intanto aveva preso il male anche lui, e stette per morire. Saridda allora si graffiava il viso, e diceva che voleva morire con lui, e si sarebbe tagliati i capelli e glieli avrebbe messi nel cataletto, ché nessuno l'avrebbe più vista in faccia, finché era viva.


- No! no! - rispondeva Nino, col viso disfatto. - I capelli torneranno a crescere; ma chi non ti vedrà più sarò io, che sarò morto.


- Bel miracolo che ti ha fatto San Rocco ! - gli diceva Turi, per consolarlo.


E tutti e due, convalescenti, mentre si scaldavano al sole, colle spalle al muro e il viso lungo, si gettavano in viso l'un l'altro San Rocco e San Pasquale.


Una volta passò Bruno il carradore, che tornava di fuori a colera finito, e disse:

- Vogliamo fare una gran festa, per ringraziare San Pasquale di averci salvati tutti quanti siamo. D'ora innanzi non ci saranno più arruffapopoli, né oppositori, ora che è morto quel vicepretore che ha lasciato la lite nel testamento.


- Sì, faremo la festa per quelli che son morti! - sogghignò Nino.


- E tu che sei vivo per San Rocco forse?

- La volete finire, - saltò su Saridda, - che poi ci vorrà un altro colera, per far la pace!





Jeli il pastore


Jeli, il guardiano di cavalli, aveva tredici anni quando conobbe don Alfonso, il signorino; ma era così piccolo che non arrivava alla pancia della 'Bianca', la vecchia giumenta che portava il campanaccio della mandra. Lo si vedeva sempre di qua e di là, pei monti e nella pianura, dove pascolavano le sue bestie, ritto ed immobile su qualche greppo, o accoccolato su di un gran sasso.


Il suo amico don Alfonso, mentre era in villeggiatura, andava a trovarlo tutti i giorni che Dio mandava a 'Tebidi', e dividevano fra di loro i buoni bocconi del padroncino, e il pane d'orzo del pastorello, o le frutta rubate al vicino. Dapprincipio, Jeli dava dell''eccellenza' al signorino, come si usa in Sicilia, ma dopo che si furono accapigliati per bene, la loro amicizia fu stabilita solidamente. Jeli insegnava al suo amico come si fa ad arrampicarsi sino ai nidi delle gazze, sulle cime dei noci più alti del campanile di Licodia, a cogliere un passero a volo con una sassata, a montare correndo di salto sul dorso nudo delle giumente ancora indomite, acciuffando per la criniera la prima che passasse a tiro, senza lasciarsi sbigottire dai nitriti di collera dei puledri indomiti, e dai loro salti disperati. Ah!

le belle scappate pei campi mietuti, colle criniere al vento! i bei giorni d'aprile, quando il vento accavallava ad onde l'erba verde, e le cavalle nitrivano nei pascoli! i bei meriggi d'estate, in cui la campagna, bianchiccia, taceva, sotto il cielo fosco, e i grilli scoppiettavano fra le zolle, come se le stoppie si incendiassero! il bel cielo d'inverno attraverso i rami nudi del mandorlo, che rabbrividivano al rovajo, e il viottolo che suonava gelato sotto lo zoccolo dei cavalli, e le allodole che trillavano in alto, al caldo, nell'azzurro! le belle sere di estate che salivano adagio adagio come la nebbia, il buon odore del fieno in cui si affondavano i gomiti, e il ronzìo malinconico degli insetti della sera, e quelle due note dello zufolo di Jeli, sempre le stesse - iuh! iuh! iuh! - che facevano pensare alle cose lontane, alla festa di San Giovanni, alla notte di Natale, all'alba della scampagnata, a tutti quei grandi avvenimenti trascorsi, che sembrano mesti, così lontani, e facevano guardare in alto, cogli occhi umidi, quasi tutte le stelle che andavano accendendosi in cielo vi piovessero in cuore, e l'allagassero!

Jeli, lui, non pativa di quelle malinconie; se ne stava accoccolato sul ciglione, colle gote enfiate, intentissimo a suonare - iuh! iuh! iuh! - Poi radunava il branco a furia di gridi e di sassate, e lo spingeva nella stalla, di là del 'poggio alla croce'.


Ansando, saliva la costa, di là dal vallone, e gridava qualche volta al suo amico Alfonso:
- Chiamati il cane! ohé, chiamati il cane! - oppure:
- Tirami una buona sassata allo 'zaino', che mi fa il capriccioso, e se ne viene adagio adagio, gingillandosi colle macchie del vallone -; oppure:
- Domattina portami un ago grosso, di quelli della gnà Lia -.


Ei sapeva fare ogni sorta di lavori coll'ago; e ci aveva un batuffoletto di cenci nella sacca di tela, per rattoppare al bisogno le brache e le maniche del giubbone; sapeva anche tessere dei treccioli di crini di cavallo, e si lavava anche da sé colla creta del vallone il fazzoletto che si metteva al collo, quando aveva freddo. Insomma, purché ci avesse la sua sacca ad armacollo, non aveva bisogno di nessuno al mondo, fosse stato nei boschi di Resecone, o perduto in fondo alla 'piana' di Caltagirone. La gnà Lia, soleva dire:
- Vedete Jeli il pastore? è stato sempre solo pei campi, come se l'avessero figliato le sue cavalle, ed e perciò che sa farsi la croce con le due mani! - Del rimanente è vero che Jeli non aveva bisogno di nessuno, ma tutti quelli della fattoria avrebbero fatto volentieri qualche cosa per lui, poiché era un ragazzo servizievole, e ci era sempre il caso di buscarci qualche cosa da lui. La gnà Lia gli cuoceva il pane per amor del prossimo, ed ei la ricambiava con bei panierini di vimini per le ova, arcolai di canna, ed altre coserelle. - Facciamo come fanno le sue bestie, - diceva la gnà Lia, - che si grattano il collo a vicenda -.


A 'Tebidi' tutti lo conoscevano da piccolo, che non si vedeva fra le code dei cavalli, quando pascolavano nel 'piano del lettighiere', ed era cresciuto, si può dire, sotto i loro occhi, sebbene nessuno lo vedesse mai, e ramingasse sempre di qua e di là col suo armento! «Era piovuto dal cielo, e la terra l'aveva raccolto» come dice il proverbio; proprio di quelli che non hanno né casa né parenti. La sua mamma stava a servire a Vizzini, e non lo vedeva altro che una volta all'anno, quando egli andava coi puledri alla fiera di San Giovanni; e il giorno in cui era morta, erano venuti a chiamarlo - un sabato sera - che il lunedì Jeli tornò alla mandra, sicché non ci rimise neppure la giornata; ma il povero ragazzo era ritornato così sconvolto che alle volte lasciava scappare i puledri nel seminato.


- Ohé, Jeli! - gli gridava allora massaro Agrippino dall'aja; - o che vuoi assaggiare le nerbate delle feste, figlio di cagna? - Jeli si metteva a correre dietro i puledri sbrancati, e li spingeva mogio mogio verso la collina. Però davanti agli occhi ci aveva sempre la sua mamma, col capo avvolto nel fazzoletto bianco, che non parlava più.


Suo padre faceva il vaccaro a 'Ragoleti' di là di Licodia, «dove la malaria si poteva mietere» dicevano i contadini dei dintorni; ma nei terreni di malaria i pascoli sono grassi, e le vacche non prendono le febbri. Jeli quindi se ne stava nei campi tutto l'anno, o a 'Donferrante', o nelle 'chiuse della commenda', o nella 'valle del Jacitano', e i cacciatori, o i viandanti che prendevano le scorciatoie, lo vedevano sempre qua e là, come un cane senza padrone. Ei non ci pativa, perche era avvezzo a stare coi cavalli che gli camminavano dinanzi, passo passo, brucando il trifoglio, e cogli uccelli che girovagavano a stormi, attorno a lui, tutto il tempo che il sole faceva il suo viaggio lento lento, sino a che le ombre si allungavano e poi si dileguavano; egli avea il tempo di veder le nuvole accavallarsi a poco a poco, e figurar monti e vallate; conosceva come spira il vento quando porta il temporale, e di che colore sia il nuvolo quando sta per nevicare. Ogni cosa aveva il suo aspetto e il suo significato, e c'era sempre che vedere e che ascoltare in tutte le ore del giorno. Così, verso il tramonto quando il pastore si metteva a suonare collo zufolo di sambuco, la cavalla mora si accostava masticando il trifoglio svogliatamente, e stava anche essa a guardarlo, con i suoi grandi occhi pensierosi.


Dove soffriva soltanto un po' di malinconia era nelle lande deserte di 'Passanitello', in cui non sorge macchia né arbusto, e ne' mesi caldi non ci vola un uccello. I cavalli si radunavano in cerchio colla testa ciondoloni, per farsi ombra l'un l'altro, e nei lunghi giorni della trebbiatura quella gran luce silenziosa pioveva sempre uguale ed afosa per sedici ore.


Però dove il mangime era abbondante, e i cavalli indugiavano volentieri, il ragazzo si occupava con qualche altra cosa: faceva delle gabbie di canna per i grilli, delle pipe intagliate, e dei panierini di giunco, con quattro ramoscelli; sapeva rizzare un po' di tettoia, quando la tramontana spingeva per la valle le lunghe file dei corvi, o quando le cicale battevano le ali nel sole che abbruciava le stoppie; arrostiva le ghiande del querceto nella brace de' sarmenti di sommacco, che pareva di mangiare delle bruciate, o vi abbrustoliva le larghe fette di pane allorché cominciava ad avere la barba dalla muffa - poiché quando si trovava a 'Passanitello' nell'inverno, le strade erano così cattive che alle volte passavano quindici giorni senza che si vedesse passare anima viva.


Don Alfonso, che era tenuto nel cotone dai suoi genitori, invidiava al suo amico Jeli la tasca di tela, dove ci aveva tutta la sua roba, il pane, le cipolle, il fiaschetto del vino, il fazzoletto pel freddo, il batuffoletto dei cenci col refe e gli aghi rossi, la scatoletta di latta coll'esca e la pietra focaja; gli invidiava pure la superba cavalla 'vajata', quella bestia dal ciuffetto di peli irti sulla fronte, che aveva gli occhi cattivi, e gonfiava le froge al pari di un mastino ringhioso quando qualcuno voleva montarla.


Da Jeli invece si lasciava montare e grattare le orecchie di cui era gelosa e l'andava fiutando per ascoltare quello che ei voleva dirle.


- Lascia stare la 'vajata', - gli raccomandava Jeli, - non è cattiva, ma non ti conosce -.


Dopo che Scordu il 'bucchierese' si menò via la giumenta calabrese che aveva comprato a San Giovanni, col patto che gliela tenessero nell'armento sino alla vendemmia, il puledro zaino, rimasto orfano, non voleva darsi pace, e scorrazzava su pei greppi del monte, con lunghi nitriti lamentevoli, e colle froge al vento.


Jeli gli correva dietro, chiamandolo con forti grida, e il puledro si fermava ad ascoltare, col collo teso e le orecchie irrequiete, sferzandosi i fianchi colla coda. - È perché gli hanno portato via la madre, e non sa più cosa si faccia - osservava il pastore. - Adesso bisogna tenerlo d'occhio, perché sarebbe capace di lasciarsi andar giù nel precipizio. Anche io, quando mi è morta la mia mamma, non ci vedevo più dagli occhi -.


Poi, dopo che il puledro ricominciò a fiutare il trifoglio, e a darvi qualche boccata di malavoglia, - Vedi, a poco a poco comincia a dimenticarsene.


- Ma anche esso sarà venduto. I cavalli sono fatti per essere venduti; come gli agnelli nascono per andare al macello, e le nuvole portano la pioggia. Solo gli uccelli non hanno a far altro che cantare e volare tutto il giorno -.


Le idee non gli venivano nette e filate l'una dietro l'altra, ché di rado aveva avuto con chi parlare, e perciò non aveva fretta di scovarle e distrigarle in fondo alla testa, dove era abituato a lasciare che sbucciassero e spuntassero fuori a poco a poco, come fanno le gemme dei ramoscelli sotto il sole. - Anche gli uccelli, - soggiunse, - devono buscarsi il cibo, e quando la neve copre la terra se ne muoiono -.


Poi ci pensò su un pezzetto. - Tu sei come gli uccelli; ma quando arriva l'inverno, te ne puoi stare al fuoco, senza far nulla -.


Don Alfonso però rispondeva che anche lui andava a scuola, a imparare. Jeli allora sgranava gli occhi, e stava tutto orecchi se il signorino si metteva a leggere, e guardava il libro e lui in aria sospettosa, stando ad ascoltare, con quel lieve ammiccar di palpebre che indica l'intensità dell'attenzione nelle bestie che più si accostano all'uomo. Gli piacevano i versi che gli accarezzavano l'udito con l'armonia di una canzone incomprensibile, e alle volte aggrottava le ciglia, appuntava il mento, e sembrava che un gran lavorìo si stesse facendo nel suo interno; allora accennava di sì e di sì col capo, con un sorriso furbo, e si grattava la testa. Quando poi il signorino mettevasi a scrivere per far vedere quante cose sapeva fare, Jeli sarebbe rimasto delle giornate intiere a guardarlo, e tutto a un tratto lasciava scappare un'occhiata sospettosa. Non poteva capacitarsi che si potesse poi ripetere sulla carta quelle parole che egli aveva dette, o che aveva dette don Alfonso, ed anche quelle cose che non gli erano uscite di bocca, talché lui finiva per tirarsi indietro, incredulo, e con un sorriso furbo.


Ogni idea nuova che gli picchiasse nella testa per entrare, lo metteva in sospetto, e pareva la fiutasse colla diffidenza selvaggia della sua 'vajata'. Però non mostrava meraviglia di nulla al mondo: gli avessero detto che in città i cavalli andavano in carrozza, egli sarebbe rimasto impassibile, con quella maschera d'indifferenza orientale che è la dignità del contadino siciliano.


Pareva che istintivamente si trincerasse nella sua ignoranza, come fosse la forza della povertà. Tutte le volte che rimaneva a corto di argomenti ripeteva:
- Io non ne so nulla. - Io sono povero - con quel sorriso ostinato che voleva essere malizioso.


Aveva chiesto al suo amico Alfonso di scrivergli il nome di Mara su di un pezzetto di carta che aveva trovato chi sa dove, perché egli raccattava tutto quello che vedeva per terra, e se l'era messo nel batuffoletto dei cenci. Un giorno, dopo di esser stato un po' zitto, a guardare di qua e di là soprappensiero, gli disse serio serio:

- Io ci ho l'innamorata -.


Alfonso, malgrado che sapesse leggere, sgranava gli occhi. - Sì, - ripeté Jeli, - Mara, la figlia di massaro Agrippino che era qui; ed ora sta a 'Marineo', in quel gran casamento della pianura che si vede dal 'piano del lettighiere', lassù.


- O ti mariti dunque?

- Sì, quando sarò grande e avrò sei onze all'anno di salario. Mara non ne sa nulla ancora.


- Perché non gliel'hai detto? - Jeli tentennò il capo, e si mise a riflettere. Poi svolse il batuffoletto e spiegò la carta che si era fatta scrivere.


- È proprio vero che dice 'Mara'; l'ha letto pure don Gesualdo, il campiere, e fra Cola, quando venne giù per la cerca delle fave.


- Uno che sappia scrivere, - osservò poi, - è come uno che serbasse le parole nella scatola dell'acciarino, e potesse portarsele in tasca, ed anche mandarle di qua e di là.


- Ora che ne farai di quel pezzetto di carta, tu che non sai leggere? - gli domandò Alfonso.


Jeli si strinse nelle spalle, ma continuò ad avvolgere accuratamente il suo fogliolino scritto nel batuffoletto dei cenci.


La Mara l'aveva conosciuta da bambina, che avevano cominciato dal picchiarsi ben bene, una volta che si erano incontrati lungo il vallone, a cogliere le more nelle siepi di rovo. La ragazzina, la quale sapeva di essere «nel fatto suo», aveva agguantato pel collo Jeli, come un ladro. Per un po' si erano scambiati dei pugni nella schiena, uno tu ed uno io, come fa il bottaio sui cerchi delle botti, ma quando furono stanchi andarono calmandosi a poco a poco, tenendosi sempre acciuffati.


- Tu chi sei? - gli domandò Mara.


E come Jeli, più selvatico, non diceva chi fosse:

- Io sono Mara, la figlia di massaro Agrippino, che è il campaio di tutti questi campi qui -.


Jeli allora lasciò la presa senza dir nulla, e la ragazzina si mise a raccattare le more che le erano cadute per terra, sbirciando di tanto il tanto il suo avversario con curiosità.


- Di là del ponticello, nella siepe dell'orto, ci son tante more grosse; - aggiunse la piccina, - e se le mangiano le galline -.


Jeli intanto si allontanava quatto quatto, e Mara, dopo che stette ad accompagnarlo cogli occhi finché poté vederlo nel querceto, volse le spalle anche lei, e se la diede a gambe verso casa.


Ma da quel giorno in poi cominciarono ad addomesticarsi. Mara andava a filare la stoppa sul parapetto del ponticello, e Jeli adagio adagio spingeva l'armento verso le falde del 'poggio del bandito'. Da prima se ne stava in disparte ronzandole attorno, guardandola da lontano in aria sospettosa, e a poco a poco andava accostandosi coll'andatura guardinga del cane avvezzo alle sassate. Quando finalmente si trovavano accanto, ci stavano delle lunghe ore senza aprir bocca. Jeli osservando attentamente l'intricato lavorio della calza che la mamma aveva dato in compito alla Mara, oppure costei gli vedeva intagliare i bei zig zag sui bastoni del mandorlo. Poi se ne andavano l'uno di qua e l'altro di là, senza dirsi una parola, e la bambina, com'era in vista della casa, si metteva a correre, facendo levar alta la sottanella sulle gambette rosse.


Al tempo dei fichidindia poi si fissarono nel folto delle macchie, sbucciando dei fichi tutto il santo giorno. Vagabondavano insieme sotti i noci secolari, e Jeli bacchiava tante delle noci, che piovevano fitte come la gragnuola; la ragazzina si affaticava a raccattarne con grida di giubilo più che ne poteva, e poi scappava via, lesta lesta, tenendo tese le due cocche del grembiule, dondolandosi come una vecchietta.


Durante l'inverno Mara non osò mettere fuori il naso, in quel gran freddo. Alle volte, verso sera, si vedeva il fumo dei fuocherelli di sommacchi che Jeli andava facendo nel 'piano del lettighiere', o sul 'poggio di Macca', per non rimanere intirizzito al pari di quelle cinciallegre che la mattina trovava dietro un sasso, o al riparo di una zolla. Anche i cavalli ci trovavano piacere a ciondolare un po' la coda attorno al fuoco, e si stringevano fra di loro per star più caldi.


Col marzo tornarono le allodole nel piano, i passeri sul tetto, le foglie e i nidi nelle siepi, Mara riprese ad andare a spasso, in compagnia di Jeli, nell'erba soffice, tra le macchie in fiore, sotto gli alberi ancora nudi che cominciavano a punteggiarsi di verde. Jeli si ficcava negli spineti come un segugio, per andare a scovare delle nidiate di merli che guardavano sbalorditi coi loro occhietti di pepe; i due fanciulli portavano spesso nel petto della camicia dei piccoli conigli allora stanati, quasi nudi, ma dalle lunghe orecchie diggià inquiete; scorazzavano pei campi al seguito del branco dei cavalli, entrando nelle stoppie dietro i mietitori, passo passo coll'armento, fermandosi ogni volta che una giumenta si fermava a strappare una boccata d'erba. La sera, giunti al ponticello, se ne andavano l'una di qua e l'altro di là, senza dirsi addio.


Così passarono tutta l'estate. Intanto il sole cominciava a tramontare dietro il 'poggio alla croce', e i pettirossi gli andavano dietro verso la montagna, come imbruniva, seguendolo fra le macchie dei fichidindia. I grilli e le cicale non si udivano più, e in quell'ora per l'aria si spandeva come una gran malinconia.


In quel tempo arrivò al casolare di Jeli suo padre, il vaccaro, che aveva preso la malaria a 'Ragoleti', e non poteva nemmen reggersi sull'asino che lo portava. Jeli accese il fuoco, lesto lesto, e corse «alle case» per cercargli qualche uovo di gallina.


- Piuttosto stendi un po' di strame vicino al fuoco, - gli disse suo padre, - ché mi sento tornare la febbre -.


Il ribrezzo della febbre era così forte che compare Menu, seppellito sotto il suo gran tabarro, la bisaccia dell'asino, e la sacca di Jeli, tremava come fanno le foglie in novembre, davanti alla gran vampa di sarmenti che gli faceva il viso bianco bianco come un morto. I contadini della fattoria venivano a domandargli:

- Come vi sentite, compare Menu? - Il poveretto non rispondeva altro che con un guaito, come fa un cagnuolo di latte. - È malaria di quella che ammazza meglio di una schioppettata - dicevano gli amici, scaldandosi le mani al fuoco.


Fu chiamato anche il medico, ma erano tutti denari sprecati, perché la malattia era di quelle chiare e conosciute che anche un ragazzo saprebbe curarla, e se la febbre non era di quelle che ammazzano ad ogni modo, col solfato si sarebbe guarita subito.


Compare Menu ci spese gli occhi della testa in tanto solfato, ma era come buttarlo nel pozzo. - Prendete un buon decotto di 'ecalibbiso' che non costa nulla, - suggeriva mastro Agrippino, - e se non serve a nulla come il solfato, almeno non vi rovinate a spendere -. Si prendeva anche il decotto di eucaliptus, eppure la febbre tornava sempre, anche più forte. Jeli assisteva il genitore come meglio sapeva. Ogni mattina, prima d'andarsene coi puledri, gli lasciava il decotto preparato nella ciotola, il fascio di sarmenti sotto la mano, le uova nella cenere calda, e tornava presto alla sera, colle altre legne per la notte, e il fiaschetto di vino, e qualche pezzetto di carne di montone che era corso a comperare sino a Licodia. Il povero ragazzo faceva ogni cosa con garbo, come una brava massaia, e suo padre, accompagnandolo cogli occhi stanchi nelle sue faccenduole qua e là pel casolare, di tanto in tanto sorrideva, pensando che il ragazzo avrebbe saputo aiutarsi, quando fosse rimasto solo.


I giorni in cui la febbre cessava per qualche ora, compare Menu si alzava tutto stravolto e col capo stretto nel fazzoletto, e si metteva sull'uscio ad aspettare Jeli, mentre il sole era ancora caldo. Come Jeli lasciava cadere accanto all'uscio il fascio della legna, e posava sulla tavola il fiasco e le uova, ei gli diceva:
- Metti a bollire l''ecalibbiso' per stanotte -; oppure; - Guarda che l'oro di tua madre l'ha in consegna la zia Agata, quando non ci sarò più io -. E Jeli diceva di sì col capo.


- È inutile - ripeteva massaro Agrippino ogni volta che tornava a vedere compare Menu colla febbre. - Il sangue oramai è tutto una peste -. Compare Menu ascoltava senza batter palpebra, col viso più bianco della sua berretta.


Diggià non si alzava più. Jeli si metteva a piangere quando non gli bastavano le forze per aiutarlo a voltarsi da un lato all'altro; poco per volta compare Menu finì per non parlare nemmen più. Le ultime parole che disse al suo ragazzo furono:

- Quando sarò morto, andrai dal padrone delle vacche, a 'Ragoleti', e ti farai dare le tre onze e i dodici tumoli di frumento che avanzo da maggio a questa parte.


- No, - rispose Jeli, - sono soltanto due onze e quindici, perché avete lasciato le vacche che è più di un mese, e bisogna fare il conto giusto col padrone.


- È vero! - affermò compare Menu socchiudendo gli occhi.


- Ora son proprio solo al mondo come un puledro smarrito, che se lo possono mangiare i lupi! - pensò Jeli quando gli ebbero portato il babbo al cimitero di Licodia.


Mara era venuta a vedere anche lei la casa del morto, colla curiosità inquieta che destano le cose spaventose.


- Vedi come son rimasto? - le disse Jeli.


La ragazzetta si tirò indietro sbigottita, per paura che non la facesse entrare nella casa dove era stato il morto.


Jeli andò a riscuotere il danaro del babbo, e se ne partì coll'armento per 'Passanitello', dove l'erba era già alta sul terreno lasciato pel maggese, e il mangime era abbondante; perciò i puledri vi restarono a pascolarvi per molto tempo. Frattanto Jeli si era fatto grande, ed anche Mara doveva esser cresciuta, pensava egli sovente, mentre suonava il suo zufolo; poi quando tornò a 'Tebidi', dopo tanto tempo, spingendosi innanzi adagio adagio le giumente per i viottoli sdrucciolevoli della 'fontana dello zio Cosimo', andava cercando cogli occhi il ponticello del vallone, e il casolare nella 'valle del Jacitano', e il tetto delle 'case grandi', su cui svolazzavano sempre i colombi. Ma in quel tempo il padrone aveva licenziato massaro Agrippino e tutta la famiglia di Mara stava soleggiando. Jeli trovò la ragazza, la quale si era fatta grandicella e belloccia, alla porta del cortile, che teneva d'occhio la sua roba, mentre la caricavano sulla carretta. Ora la stanza vuota sembrava più scura e affumicata del solito. La tavola, e il letto, e il cassettone, e le immagini della Vergine e di San Giovanni, e fino i chiodi per appendiervi le zucche delle sementi, ci avevano lasciato il segno sulle pareti dove erano state per tanti anni. - Andiamo via, - gli disse Mara come lo vide osservare. - Ce ne andiamo laggiù a 'Marineo', dove c'è quel gran casamento, nella pianura -.


Jeli si diede ad aiutare massaro Agrippino e la gnà Lia nel caricare la carretta, e allorché non ci fu altro da portare via dalla stanza, andò a sedere con Mara sul parapetto dell'abbeveratojo. - Anche le case, - le disse, quand'ebbe visto accatastare l'ultima cesta sulla carretta, - anche le case, come se ne toglie via la loro roba, non sembrono più quelle.


- A 'Marineo', - rispose Mara, - ci avremo una camera più bella, ha detto la mamma, e grande come il magazzino dei formaggi.


- Ora che tu sarai via, non voglio venirci più qui; ché mi parrà di esser tornato l'inverno, a veder quell'uscio chiuso.


- A 'Marineo' invece troveremo dell'altra gente, Pudda 'la rossa', e la figlia del campiere; si starà allegri, per la messe verranno più di ottanta mietitori, colla cornamusa, e si ballerà sull'aja -.


Massaro Agrippino e sua moglie si erano avviati colla carretta, Mara correva loro dietro tutta allegra, portando il paniere coi piccioni. Jeli volle accompagnarla sino al ponticello, e quando Mara stava per scomparire nella vallata la chiamò:
- Mara! oh, Mara!

- Che vuoi? - disse Mara.


Egli non lo sapeva che voleva. - O tu, cosa farai qui tutto solo?

- gli domandò allora la ragazza.


- Io resto coi puledri -.


Mara se ne andò saltellando, e lui rimase lì fermo, finché poté udire il rumore della carretta che rimbalzava sui sassi. Il sole toccava le rocce alte del 'poggio alla croce', le chiome grigie degli ulivi sfumavano nel crepuscolo, e per la campagna vasta, lontan lontano, non si udiva altro che il campanaccio della 'bianca' nel silenzio che si allargava.


Mara, come se ne fu andata a 'Marineo', in mezzo alla gente nuova, e alle faccende della vendemmia, si scordò di lui; ma Jeli ci pensava sempre a lei, perché non aveva altro da fare, nelle lunghe giornate che passava a guardare la coda delle sue bestie.


Adesso non aveva poi motivo alcuno per calar nella valle, di là del ponticello, e nessuno lo vedeva più alla fattoria. In tal modo ignorò per un pezzo che Mara si era fatta sposa, giacché dell'acqua intanto ne era passata e passata sotto il ponticello.


Egli rivide soltanto la ragazza il dì della festa di San Giovanni, come andò alla fiera coi puledri da vendere: una festa che gli si mutò tutta in veleno, e gli fece cascar il pan di bocca, per un accidente toccato ad uno dei puledri del padrone, Dio ne scampi.


Il giorno della fiera il fattore aspettava i puledri sin dall'alba, andando su e giù cogli stivali inverniciati dietro le groppe dei cavalli e dei muli, messi in fila di qua e di là dello stradone. La fiera era già sul finire, né Jeli spuntava ancora colle bestie, di là del gomito che faceva lo stradone. Sulle pendici riarse del 'calvario' e del 'mulino a vento', rimaneva tuttora qualche branco di pecore, strette in cerchio col muso a terra e l'occhio spento, e qualche pariglia di buoi dal pelo lungo, di quegli che si vendono per pagare il fitto delle terre, che aspettavano immobili, sotto il sole cocente. Laggiù, verso la valle, la campana di San Giovanni suonava la messa grande, accompagnata dal lungo crepitìo dei mortaletti. Allora il campo della fiera sembrava trasalire, e correva un gridìo che si prolungava fra le tende dei trecconi schierate nella 'salita dei Galli', scendeva per le vie del paese, e sembrava ritornare dalla valle dov'era la chiesa. - Viva San Giovanni! - Santo diavolone! - strillava il fattore, - quell'assassino di Jeli mi farà perdere la fiera! - Le pecore levavano il muso attonito, e si mettevano a belare tutte in una volta, e anche i buoi facevano qualche passo lentamente, guardando in giro, con grandi occhi intenti.


Il fattore era così in collera perché quel giorno dovevasi pagare il fitto delle 'chiuse grandi', «come San Giovanni fosse arrivato sotto l'olmo», diceva il contratto, e a completare la somma si era fatto assegnamento sulla vendita dei puledri. Intanto di puledri, e cavalli, e muli, ce n'erano quanti il Signore ne aveva fatti, tutti strigliati e lucenti, e ornati di fiocchi, e nappine, e sonagli, che scodinzolavano per scacciare la noia, e voltavano la testa verso ognuno che passava, come aspettassero un'anima caritatevole che volesse comprarli.


- Si sarà messo a dormire, quell'assassino! - seguita a gridare il fattore; - e mi lascia i puledri sulla pancia! - Invece Jeli aveva camminato tutta la notte, acciocché i puledri arrivassero freschi alla fiera, e prendessero un buon posto nell'arrivare, ed era giunto al 'piano del corvo' che ancora i 'tre re' non erano tramontati, e luccicavano sul 'monte Arturo', colle braccia in croce. Per la strada passavano continuamente carri, e gente a cavallo, che andavano alla festa; per questo il giovanetto teneva ben aperti gli occhi, acciò i puledri, spaventati dall'insolito via vai, non si sbandassero, ma andassero uniti lungo il ciglione della strada, dietro la 'bianca' che camminava diritta e tranquilla, col campanaccio al collo. Di tanto in tanto, allorché la strada correva sulla sommità delle colline, si udiva sin lassù la campana di San Giovanni, che anche nel bujo e nel silenzio della campagna arrivava la festa, e per tutto lo stradone, lontan lontano, sin dove c'era gente a piedi o a cavallo che andava a Vizzini, si udiva gridare:
- Viva San Giovanni! - e i razzi salivano diritti e lucenti dietro i monti della 'Canziria', come le stelle che piovono in agosto.


- È come la notte di Natale! - andava dicendo Jeli al ragazzo che l'aiutava a condurre il branco, - che in ogni fattoria si fa festa e luminaria, e per tutta la campagna si vedono qua e là dei fuochi -.


Il ragazzo sonnecchiava, spingendo adagio adagio una gamba dietro l'altra, e non rispondeva nulla; ma Jeli che si sentiva rimescolare tutto il sangue da quella campana, non poteva star zitto, come se ognuno di quei razzi che strisciavano sul bujo taciti e lucenti dietro il monte gli sbocciassero dall'anima.


- Mara sarà andata anche lei alla festa di San Giovanni, - diceva, - perché ci va tutti gli anni -.


E senza curarsi che Alfio, il ragazzo, non rispondesse nulla:

- Tu non sai? ora Mara è alta così, che è più grande di sua madre che l'ha fatta, e quando l'ho rivista non mi pareva vero che fosse proprio quella stessa con cui si andava a cogliere i fichidindia, e a bacchiare le noci -.


E si mise a cantare ad alta voce tutte le canzoni che sapeva.


- O Alfio, che dormi? - gli gridò quando ebbe finito. - Bada che la 'bianca' ti vien sempre dietro, bada!

- No, non dormo! - rispose Alfio con voce rauca.


- La vedi la 'puddara', che sta ad ammiccarci lassù, verso 'Granvilla', come sparassero dei razzi anche a 'Santa Domenica'? Poco può passare a romper l'alba; pure alla fiera arriveremo in tempo per trovare un buon posto. Ehi, 'morellino' bello! che ci avrai la cavezza nuova, colle nappine rosse, per la fiera! e anche tu, 'stellato'!

Così andava parlando all'uno e all'altro dei puledri, perché si rinfrancassero sentendo la sua voce al bujo. Ma gli doleva che lo 'stellato' e il 'morellino' andassero alla fiera per esser venduti.


- Quando saran venduti, se ne andranno col padrone nuovo, e non si vedranno più nella mandria, com'è stato di Mara, dopo che se ne fu andata a 'Marineo'.


- Suo padre sta benone laggiù a 'Marineo'; ché quando andai a trovarli mi misero dinanzi pane, vino, formaggio, e ogni ben di Dio, perché egli è quasi il fattore, ed ha le chiavi di ogni cosa, e avrei potuto mangiarmi tutta la fattoria, se avessi voluto. Mara non mi conosceva quasi più da tanto che non mi vedeva! e si mise a gridare: «Oh! guarda! è Jeli, il guardiano dei cavalli, quello di 'Tebidi'!». Gli è come quando uno torna da lontano, che al vedere soltanto il cocuzzolo di un monte, gli basta a riconoscere subito il paese dove è cresciuto. La gnà Lia non voleva che le dessi più del tu, alla Mara, ora che sua figlia si è fatta grande, perché la gente che non sa nulla, chiacchiera facilmente. Mara invece rideva, e sembrava che avesse infornato il pane allora allora, tanto era rossa; apparecchiava la tavola, e spiegava la tovaglia che non pareva più quella. «O che ti rammenti più di 'Tebidi'?» le chiesi appena la gnà Lia fu sortita per spillare del vino fresco dalla botte. «Sì, sì, me ne rammento», mi disse ella «a 'Tebidi' c'era la campana, col campanile che pareva un manico di saliera, e si suonava dal ballatoio, e c'erano pure due gatti di sasso, che facevano le fusa sul cancello del giardino». Io me le sentivo qui dentro tutte quelle cose, come ella andava dicendole. Mara mi guardava da capo a piedi con tanto d'occhi, e tornava a dire: «Come ti sei fatto grande!» e si mise pure a ridere, e mi diede uno scapaccione qui, sulla testa -.


In tal modo Jeli, il guardiano dei cavalli, perdette il pane, perché giusto in quel punto sopravveniva all'improvviso una carrozza che non si era udita prima, mentre saliva l'erta passo passo, e si era messa al trotto com'era giunta al piano, con gran strepito di frusta e di sonagli, quasi la portasse il diavolo. I puledri, spaventati, si sbandarono in un lampo, che pareva un terremoto, e ce ne vollero delle chiamate, e delle grida e degli ohi! ohi! ohi! di Jeli e del ragazzo prima di raccoglierli attorno alla 'bianca', la quale anche essa trotterellava svogliatamente, col campanaccio al collo. Appena Jeli ebbe contato le sue bestie, si accorse che mancava lo 'stellato', e si cacciò le mani nei capelli, perché in quel posto la strada correva lungo il burrone, e fu nel burrone che lo 'stellato' si fracassò le reni, un puledro che valeva dodici onze come dodici angeli del paradiso! Piangendo e gridando Jeli andava chiamando il puledro - ahu! ahu! ahu! - che non ci si vedeva ancora. Lo 'stellato' rispose finalmente dal fondo del burrone, con un nitrito doloroso, come avesse avuto la parola, povera bestia!

- Oh! mamma mia! - andavano gridando Jeli e il ragazzo. - Oh! che disgrazia, mamma mia! - I viandanti che andavano alla festa, e sentivano piangere a quel modo in mezzo al buio, domandavano cosa avessero perso, e poi, come sapevano di che si trattava, andavano per la loro strada.


Lo 'stellato' rimaneva immobile dove era caduto, colle zampe in aria, e mentre Jeli l'andava tastando per ogni dove, piangendo e parlandogli quasi avesse potuto farsi intendere, la povera bestia rizzava il collo penosamente, e voltava la testa verso di lui, che si udiva l'anelito rotto dallo spasimo.


- Qualche cosa si sarà rotto! - piagnucolava Jeli, disperato di non poter vedere nulla pel buio; e il puledro inerte come un sasso lasciava ricadere il capo di peso. Alfio rimasto sulla strada a custodia del branco, si era rasserenato per il primo, e aveva tirato fuori il pane dalla sacca. Ora il cielo si era fatto bianchiccio, e i monti tutto intorno parevano che spuntassero ad uno ad uno, neri ed alti. Dalla svolta dello stradone si cominciava a scorgere il paese, col 'monte del calvario' e del 'mulino a vento' stampato sull'albore, ancora foschi, seminati dalle chiazze bianche delle pecore, e come i buoi che pascolavano sul cocuzzolo del monte, nell'azzurro, andavano di qua e di là, sembrava che il profilo del monte stesso si animasse e formicolasse di vita. La campana, dal fondo del burrone, non si udiva più, i viandanti si erano fatti più rari, e quei pochi che passavano avevano fretta di arrivare alla fiera. Il povero Jeli non sapeva a qual santo votarsi in quella solitudine: lo stesso Alfio, da solo, non poteva giovargli per niente; perciò costui andava sbocconcellando pian piano il suo pezzo di pane.


Finalmente si vede venire a cavallo il fattore, il quale da lontano stripitava e bestemmiava accorrendo, al vedere gli animali fermi sulla strada, sicché lo stesso Alfio se la diede a gambe per la collina. Ma Jeli non si mosse d'accanto allo 'stellato'.


Il fattore lasciò la mula sulla strada, e scese nel burrone anche lui, cercando di aiutare il puledro ad alzarsi, e tirandolo per la coda. - Lasciatelo stare! - diceva Jeli, bianco in viso come se si fosse fracassate le reni lui. - Lasciatelo stare! Non vedete che non si può muovere, povera bestia? - Lo 'stellato' infatti ad ogni movimento, e ad ogni sforzo che gli facevano fare, metteva un rantolo che pareva un cristiano. Il fattore si sfogava a calci e scapaccioni su di Jeli, e tirava pei piedi gli angeli e i santi del paradiso. Allora Alfio più rassicurato era tornato sulla strada, per non lasciare le bestie senza custodia, e badava a scolparsi dicendo:

- Io non ci ho colpa. Io andavo innanzi colla 'bianca'.


- Qui non c'è più nulla da fare, - disse alfine il fattore, dopo che si persuase che era tutto tempo perso. - Qui non se ne può prendere altro che la pelle, finche è buona -.


Jeli si mise a tremare come una foglia, quando vide il fattore andare a staccare lo schioppo dal basto della mula. - Levati di lì, paneperso! - gli urlò il fattore, - che non so chi mi tenga dallo stenderti per terra accanto a quel puledro che valeva assai più di te, con tutto il battesimo porco che ti diede quel prete ladro! - Lo 'stellato', non potendosi muovere, volgeva il capo con grandi occhi sbarrati, quasi avesse inteso ogni cosa, e il pelo gli si arricciava ad onde, lungo le costole; sembrava ci corresse sotto un brivido. In tal modo il fattore uccise sul luogo lo 'stellato', per cavarne almeno la pelle, e il rumore fiacco che fece dentro le carni vive il colpo tirato a bruciapelo parve a Jeli di sentirselo dentro di sé.


- Ora, se vuoi sapere il mio consiglio, - gli lasciò detto il fattore, - cerca di non farti vedere più dal padrone per quel salario che avanzi, perché te lo pagherebbe salato assai! - Il fattore se ne andò insieme ad Alfio, cogli altri puledri che non si voltavano nemmeno a vedere dove rimanesse lo 'stellato', e andavano strappando l'erba dal ciglione. E lo 'stellato' rimase solo nel burrone, aspettando che venissero a scuoiarlo, cogli occhi ancora spalancati, e le quattro zampe distese, beato lui, che non penava più infine.


Jeli, ora che aveva visto con qual ceffo il fattore aveva preso di mira il puledro e tirato il colpo, mentre la povera bestia volgeva la testa penosamente, quasi avesse il giudizio, smise di piangere, e se ne stette a guardare lo 'stellato', duro duro, seduto sul sasso, fin quando arrivarono gli uomini che dovevano prendersi la pelle.


Adesso poteva andarsene a spasso, a godersi la festa, o starsene in piazza tutto il giorno, a vedere i galantuomini nel casino, come meglio gli piaceva, ché non aveva più né pane, né tetto, e bisognava cercarsi un padrone, se pure qualcuno lo voleva, dopo la disgrazia dello 'stellato'.


Le cose del mondo vanno così: mentre Jeli andava cercando un padrone, colla sacca ad armacollo e il bastone in mano, la banda suonava in piazza allegramente, coi pennacchi sul cappello, in mezzo a una folla di berrette bianche fitte come le mosche, e i galantuomini stavano a godersela seduti nel casino. Tutta la gente era vestita da festa, come gli animali della fiera, e in un canto della piazza c'era una donna colla gonnella corta e le calze color di carne che pareva colle gambe nude, e picchiava sulla gran cassa, davanti a un gran lenzuolo dipinto, dove si vedeva una carneficina di cristiani, col sangue che colava a fiumi, e nella folla che stava a guardare a bocca aperta c'era pure massaro Cola, il quale conosceva Jeli da quando stava a 'Passanitello', e gli disse che il padrone glielo avrebbe trovato lui, poiché compare Isidoro Macca cercava un guardiano per i porci. - Però non dir nulla dello 'stellato', - gli raccomandò massaro Cola. - Una disgrazia come quella può accadere a tutti, nel mondo, ma è meglio non parlarne -.


Andarono perciò a cercare compare Macca, il quale era al ballo, e nel tempo che massaro Cola entrò a fare l'ambasciata, Jeli aspettò sulla strada, in mezzo alla folla che stava a guardare dalla porta della bottega. Nella stanzaccia c'era un mondo di gente, che saltava e si divertiva, tutti rossi e scalmanati, e facevano un gran pestare di scarponi sull'ammattonato, che non si udiva nemmeno il 'ron-ron' del contrabasso, e appena finiva una suonata, che costava un grano, levavano il dito per far segno che ne volevano un'altra; e quello del contrabasso faceva una croce col carbone sulla parete, per memoria, e cominciava da capo. - Questi li spendono senza pensarci, - si andava dicendo Jeli, - e vuol dire che hanno la tasca piena, e non sono in angustia come me, per difetto di un padrone, se sudano e si affannano a saltare per loro piacere, quasi fossero presi a giornata! - Massaro Cola tornò dicendo che compare Macca non aveva bisogno di nulla. Allora Jeli volse le spalle e se ne andò mogio mogio.


Ma stava di casa verso Sant'Antonio, dove le case si arrampicano sul monte, di fronte al vallone della 'Canziria', tutto verde di fichidindia, e colle ruote dei mulini che spumeggiavano in fondo, nel torrente; ma Jeli non ebbe il coraggio di andare da quelle parti, ora che non l'avevano voluto nemmeno per guardare i porci e girandolando in mezzo alla folla che lo urtava e lo spingeva senza curarsi di lui, gli pareva di essere più solo di quando era coi puledri nelle lande di 'Passanitello', e si sentiva voglia di piangere. Finalmente massaro Agrippino lo incontrò nella piazza, che andava di qua e di là colle braccia ciondoloni, godendosi la festa, e cominciò a gridargli dietro: - Oh Jeli! oh! - e se lo menò a casa. Mara era in gran gala, con tanto d'orecchini che le sbattevano sulle guance, e stava sull'uscio, colle mani sulla pancia, cariche d'anelli, ad aspettare che imbrunisse per andare a vedere i fuochi. - Oh! - gli disse Mara, - sei venuto anche tu per la festa di San Giovanni! - Jeli veramente non osava entrare, perché era vestito male; però massaro Agrippino lo spinse per le spalle, dicendogli che non si vedevano allora per la prima volta, e che si sapeva che era venuto per la fiera coi puledri del padrone. La gnà Lia gli versò un bel bicchiere di vino, e vollero condurlo con loro a veder la luminaria, insieme alle comari ed ai vicini.


Arrivando in piazza, Jeli rimase a bocca aperta dalla meraviglia:

tutta quanta era un mare di fuoco, come quando si incendiano le stoppie, per il gran numero di razzi che i devoti accendevano in cospetto del santo, il quale stava a goderseli dall'imboccatura del Rosario, tutto nero sotto il baldacchino d'argento. I devoti andavano e venivano fra le fiamme come tanti diavoli, e c'era persino una donna discinta, spettinata, cogli occhi fuori della testa, che accendeva i razzi anche essa, e un prete colla sottana in aria, senza cappello, che pareva un ossesso dalla devozione.


- Quello lì è il figliuolo di massaro Neri, il fattore della 'Salonia', e spende più di dieci lire di razzi! - diceva la gnà Lia, accennando a un giovinotto che andava in giro per la piazza tenendo due razzi alla volta nelle mani, come due candele, sicché tutte le donne se lo mangiavano cogli occhi, e gli gridavano:
- Viva San Giovanni.


- Suo padre è ricco e possiede più di venti capi di bestiame, - aggiunse massaro Agrippino.


Mara sapeva pure che aveva portato lo stendardo grande nella processione, e lo reggeva diritto come un fuso, tanto era forte e bel giovane.


Il figlio di massaro Neri pareva che sentisse quei discorsi, e accendesse i razzi per la Mara, facendo la ruota dinanzi a lei; tanto che dopo i fuochi si accompagnò con loro, e li condusse al ballo, e al cosmorama, dove si vedeva il mondo vecchio e il mondo nuovo, pagando lui, beninteso, anche per Jeli, il quale andava dietro la comitiva come un cane senza padrone, a veder ballare il figlio di massaro Neri colla Mara, la quale girava in tondo e si accoccolava come una colombella in amore, e teneva tesa con bel garbo una cocca del grembiale. Il figlio di massaro Neri, lui, saltava come un puledro, tanto che la gnà Lia piangeva dalla consolazione, e massaro Agrippino faceva cenno di sì col capo, che la cosa andava bene.


Infine, quando furono stanchi, se ne andarono di qua e di là 'nel passeggio', trascinati dalla folla quasi fossero in mezzo a una fiumana, a vedere i trasparenti illuminati, dove tagliavano il collo a San Giovanni, che avrebbe fatto pietà agli stessi turchi, e il santo sgambettava come un capriuolo sotto la mannaia. Lì vicino c'era la banda che suonava, sotto un gran paracqua di legno tutto illuminato, e nella piazza una folla tanto stipata che mai si erano visti tanti cristiani a una fiera.


Mara andava al braccio del figlio di massaro Neri come una signorina, e gli parlava nell'occhio, e rideva che pareva si divertisse assai. Jeli non ne poteva più dalla stanchezza, e si mise a dormire seduto sul marciapiede, fin quando lo svegliarono i primi petardi del fuoco d'artifizio. In quel momento Mara era sempre al fianco del figlio di massaro Neri, gli si appoggiava colle due mani intrecciate sulla spalla, e al lume dei fuochi colorati sembrava ora tutta bianca ed ora tutta rossa. Quando scapparono pel cielo gli ultimi razzi in mucchio, il figlio di massaro Neri, si voltò verso di lei, bianca in viso, e le diede un bacio.


Jeli non disse nulla, ma in quel punto gli si cambiò in veleno tutta la festa che aveva goduto sin allora, e tornò a pensare a tutte le sue disgrazie, che gli erano uscite di mente - e che era rimasto senza padrone, e che non sapeva più che fare né dove andare, e che non aveva più né pane né tetto, - insomma che era meglio andare a buttarsi nel burrone, come lo 'stellato', che se lo mangiavano i cani a quell'ora.


Intanto attorno a lui la gente era allegra. Mara colle compagne saltava, e cantava per la stradicciuola sassosa, mentre tornavano a casa.


- Buona notte! Buona notte! - andavano dicendo le compagne, a misura che si lasciavano per la strada.


Mara dava la buona notte, che pareva che cantasse, tanta contentezza ci aveva nella voce, e il figlio di massaro Neri poi sembrava proprio imbestialito e non volesse lasciarla più, mentre massaro Agrippino e la gnà Lia litigavano nell'aprire l'uscio di casa. Nessuno badava a Jeli, soltanto massaro Agrippino si rammentò di lui, e gli chiese:

- Ed ora dove andrai?

- Non lo so, - disse Jeli.


- Domani vieni a trovarmi, e t'aiuterò a cercar d'allogarti. Per stanotte torna in piazza dove siamo stati a sentir suonare la banda; un posto su qualche panchetta lo troverai, e a dormire allo scoperto tu devi esserci avvezzo -.


Sì che c'era avvezzo, ma quello che gli dava maggior pena era che Mara non gli dicesse nulla, e lo lasciasse a quel modo sull'uscio come un pezzente; tanto che glielo disse, il giorno dopo, appena poté trovarla in casa un momento sola:

- Oh, gnà Mara! come li scordate gli amici!

- Oh, sei tu Jeli? - disse Mara. - No, io non ti ho scordato. Ma ero così stanca dopo i fuochi!

- Gli volete bene almeno, al figlio di massaro Neri? - chiese lui voltando e rivoltando il bastone fra le mani.


- Che discorsi andate facendo! - rispose bruscamente la gnà Mara.


- Mia madre è di là che sente tutto -.


Massaro Agrippino gli trovò da allogarlo come pecoraio alla 'Salonia', dov'era fattore massaro Neri, ma siccome Jeli era poco pratico del mestiere si dovette contentare di un salario assai magro.


Adesso badava alle sue pecore, e ad imparare come si fa il formaggio, e la ricotta, e il caciocavallo, e ogni altro frutto di mandra; ma fra le chiacchiere che correvano alla sera nel cortile tra gli altri pastori e contadini, mentre le donne sbucciavano le fave della minestra, se si veniva a parlare del figlio di massaro Neri, il quale si prendeva in moglie Mara di massaro Agrippino, Jeli non diceva più nulla, e nemmeno osava di aprir bocca. Una volta che il campaio lo motteggiò, dicendogli che Mara non aveva voluto saperne più di lui, dopo che tutti avevano detto che sarebbero stati marito e moglie, Jeli che badava alla pentola in cui bolliva il latte, rispose facendo sciogliere il caglio adagio adagio:

- Ora Mara si è fatta più bella col crescere, che sembra una signora -.


Però siccome egli era paziente e laborioso, imparò presto ogni cosa del mestiere meglio di uno che ci fosse nato, e siccome era avvezzo a star colle bestie, amava le sue pecore come se le avesse fatte lui, e quindi 'il male' alla 'Salonia' non faceva tanta strage, e la mandra prosperava che era un piacere per massaro Neri, tutte le volte che veniva alla fattoria, tanto che ad anno nuovo si persuase ad indurre il padrone perché aumentasse il salario di Jeli, sicché costui venne ad avere quasi quello che prendeva col fare il guardiano dei cavalli. Ed erano danari bene spesi, ché Jeli non badava a contar le miglia e le miglia per cercare i migliori pascoli ai suoi animali, e se le pecore figliavano o erano malate se le portava a pascolare dentro le bisacce dell'asinello, e si recava in collo gli agnelli che gli belavano sulla faccia, col muso fuori del sacco, e gli poppavano le orecchie. Nella nevigata famosa della notte di Santa Lucia la neve cadde alta quattro palmi nel 'lago morto' alla 'Salonia', e tutto all'intorno per miglia e miglia che non si vedeva altro per tutta la campagna, come venne il giorno. - Quella volta sarebbe stata la rovina di massaro Neri, come fu per tanti altri del paese, se Jeli non si fosse alzato nella notte tre o quattro volte a cacciare le pecore pel chiuso, così le povere bestie si scuotevano la neve di dosso, e non rimasero seppellite come tante ce ne furono nelle mandre vicine - a quel che disse massaro Agrippino quando venne a dare un'occhiata ad un campicello di fave che ci aveva alla 'Salonia', e disse pure che di quell'altra storia del figlio di massaro Neri, il quale doveva sposare sua figlia Mara, non era vero niente, ché Mara aveva tutt'altro per il capo.


- Se avevano detto che dovevano sposarsi a Natale! - disse Jeli.


- Non vero niente, non dovevano sposare nessuno! tutte chiacchiere di gente invidiosa che si immischia negli affari altrui! - rispose massaro Agrippino.


Però il campaio, il quale la sapeva più lunga, per averne sentito parlare in piazza, quando andava in paese la domenica, raccontò invece la cosa tale e quale com'era, dopo che massaro Agrippino se ne fu andato: non si sposavano più perché il figlio di massaro Neri aveva risaputo che Mara di massaro Agrippino se la intendeva con don Alfonso, il signorino, il quale aveva conosciuta Mara da piccola; e massaro Neri aveva detto che il suo ragazzo voleva che fosse onorato come suo padre, e delle corna in casa non le voleva altre che quelle dei suoi buoi.


Jeli era lì presente anche lui, seduto in circolo cogli altri a colezione, e in quel momento stava affettando il pane. Egli non disse nulla, ma l'appetito gli andò via per quel giorno.


Mentre conduceva al pascolo le pecore tornò a pensare a Mara, quando era ragazzina, che stavano insieme tutto il giorno e andavano nella 'valle del Jacitano' e sul 'poggio alla croce', ed ella stava a guardarlo col mento in aria mentre egli si arrampicava a prendere i nidi sulle cime degli alberi; e pensava anche a don Alfonso, il quale veniva a trovarlo dalla villa vicina, e si sdraiavano bocconi sull'erba a stuzzicare con un fuscellino i nidi di grilli. Tutte quelle cose andava rimuginando per ore ed ore, seduto sull'orlo del fossato, tenendosi i ginocchi fra le braccia, e i noci alti di 'Tebidi', e le folte macchie dei valloni, e le pendici delle colline verdi di sommacchi, e gli ulivi grigi che si addossavano nella valle come nebbia, e i tetti rossi del casamento, e il campanile «che sembrava un manico di saliera» fra gli aranci del giardino. - Qui la campagna gli si stendeva dinanzi brulla, deserta, chiazzata dall'erba riarsa, sfumando silenziosa nell'afa lontana.


In primavera, appena i baccelli delle fave cominciavano a piegare il capo, Mara venne alla 'Salonia' col babbo e la mamma, e il ragazzo e l'asinello, a raccogliere le fave, e tutti insieme vennero a dormire alla fattoria pei due o tre giorni che durò la raccolta. Jeli in tal modo vedeva la ragazza mattina e sera, e spesso sedevano accanto al muricciolo dell'ovile, a discorrere insieme, mentre il ragazzo contava le pecore.


- Mi pare d'essere a 'Tebidi', - diceva Mara, - quando eravamo piccoli, e stavamo sul ponticello della viottola -.


Jeli si rammentava di ogni cosa anche lui, sebbene non dicesse nulla, perché era stato sempre un ragazzo giudizioso e di poche parole.


Finita la raccolta, alla vigilia della partenza, Mara venne a salutare il giovanotto, nel tempo che ei stava facendo la ricotta, ed era tutto intento a raccogliere il siero colla cazza.


- Ora ti dico addio, - gli disse ella, - poiché domani torniamo a Vizzini.


- Come sono andate le fave?

- Male sono andate! 'la lupa' le ha mangiate tutte, quest'anno.


- Dipende dalla pioggia che è stata scarsa, - disse Jeli. - Figurati che si è dovuto uccidere anche le agnelle perché non avevano da mangiare; su tutta la 'Salonia' non venne tre dita di erba.


- Ma a te poco te ne importa. Il salario l'hai sempre, buona o mal'annata!

- Sì, è vero, - disse lui; - ma mi rincresce dare quelle povere bestie in mano al beccaio.


- Ti ricordi quando sei venuto per la festa di San Giovanni, ed eri rimasto senza padrone?

- Sì, me lo ricordo.


- Fu mio padre che ti allogò qui, da massaro Neri.


- E tu perché non l'hai sposato il figlio di massaro Neri?

- Perché non c'era la volontà di Dio. - Mio padre è stato sfortunato, - riprese di lì a poco. - Dacché ce ne siamo andati a 'Marineo' ogni cosa ci è riuscita male. La fava, il seminato, quel pezzetto di vigna che ci abbiamo lassù. Poi, mio fratello è partito soldato, e ci è morta pure una mula che valeva quarant'onze.


- Lo so, - rispose Jeli, - la mula baia!

- Ora che abbiamo perso la roba, chi vuoi che mi sposi? - Mara andava sminuzzando uno sterpolino di pruno, mentre parlava, col mento sul seno, e gli occhi bassi, e col gomito stuzzicava un po' il gomito di Jeli, senza badarci. Ma jeli, cogli occhi sulla zangola anche lui, non rispondeva nulla; sicché ella riprese:

- A 'Tebidi' dicevano che saremmo stati marito e moglie, lo rammenti?

- Sì, - disse Jeli, e posò la cazza sull'orlo della zangola. - Ma io sono un povero pecoraio, e non posso pretendere alla figlia di un massaro come sei tu -.


La Mara rimase un pochino zitta e poi disse:

- Se tu mi vuoi, io per me ti piglio volentieri.


- Davvero?

- Sì, davvero.


- E massaro Agrippino cosa dirà?

- Mio padre dice che ora il mestiere lo sai, e tu non sei di quelli che vanno a spendere il loro salario, ma di un soldo ne fai due, e non mangi per non consumare il pane, così arriverai ad aver delle pecore anche tu, e ti farai ricco.


- Se è cosi, - conchiuse Jeli, - ti piglio volentieri anche io.


- To'! - gli disse Mara, come si era fatto buio, e le pecore andavano tacendosi a poco a poco, - se vuoi un bacio adesso te lo do, poiché saremo marito e moglie -.


Jeli se lo prese in santa pace, e non sapendo che dire aggiunse:

- Io t'ho sempre voluto bene, anche quando volevi lasciarmi pel figlio di massaro Neri... - Ma non ebbe cuore di dirgli di quell'altro.


- Non lo vedi? eravamo destinati! - conchiuse Mara.


Massaro Agrippino infatti disse di sì, e la gnà Lia mise insieme presto un giubbone nuovo, e un paio di brache di velluto per il genero. Mara era bella e fresca come una rosa, con quella mantellina bianca che sembrava l'agnello pasquale, e quella collana d'ambra che le faceva il collo bianco; sicché Jeli, quando andava per le strade al fianco di lei, camminava impalato, tutto vestito di panno e di velluto nuovo, e non osava soffiarsi il naso col fazzoletto di seta rosso, per non farsi scorgere; ma i vicini e tutti quelli che sapevano la storia di don Alfonso gli ridevano sul naso. Quando Mara disse 'sissignore', e il prete gliela diede in moglie con un gran crocione, Jeli se la condusse a casa, e gli parve che gli avessero dato tutto l'oro della Madonna, e tutte le terre che aveva visto cogli occhi.


- Ora che siamo marito e moglie, - le disse giunti a casa, seduto di faccia a lei, e facendosi piccino piccino, - ora che siamo marito e moglie, posso dirtelo che non mi par vero che tu m'abbia voluto... mentre avresti potuto prenderne tanti meglio di me...


così bella come tu sei!... - Il poveraccio non sapeva dirle altro, e non capiva nei panni nuovi dalla contentezza di vedersi Mara per casa, che rassettava e toccava ogni cosa, e faceva la padrona. Egli non trovava il verso di spiccicarsi dall'uscio per tornarsene alla 'Salonia'; quando fu venuto il lunedì, indugiava nell'assettare sul basto dell'asinello le bisacce, e il tabarro, e il paracqua d'incerata.


- Tu dovresti venirtene alla 'Salonia' anche te! - disse alla moglie che stava a guardarlo dalla soglia. - Tu dovresti venirtene con me -.


Ma la donna si mise a ridere, e gli rispose che ella non era nata a far la pecoraia, e non aveva nulla da andare a farci alla 'Salonia'.


Infatti Mara non era nata a far la pecoraia, e non ci era avvezza alla tramontana di gennaio, quando le mani si irrigidiscono sul bastone, e sembra che vi caschino le unghie, e ai furiosi acquazzoni, in cui l'acqua vi penetra fino alle ossa, e alla polvere soffocante delle strade, quando le pecore camminano sotto il sole cocente, e al giaciglio duro e al pane muffito, e alle lunghe giornate silenziose e solitarie, in cui per la campagna arsa non si vede altro di lontano, rare volte, che qualche contadino nero dal sole, il quale si spinge innanzi silenzioso l'asinello, per la strada bianca e interminabile. Almeno Jeli sapeva che Mara stava al caldo sotto le coltri, o filava davanti al fuoco, in crocchio colle vicine, o si godeva il sole sul ballatoio, mentre egli tornava dal pascolo stanco ed assetato, o fradicio di pioggia, o quando il vento spingeva la neve dentro il casolare, e spegneva il fuoco di sommacchi. Ogni mese Mara andava a riscuotere il salario dal padrone, e non le mancavano né le uova nel pollaio, né l'olio nella lucerna, né il vino nel fiasco. Due volte al mese poi Jeli andava a trovarla, ed ella lo aspettava sul ballatoio, col fuso in mano; poi quando gli aveva legato l'asino nella stalla e toltogli il basto e messogli la biada nella greppia, e riposta la legna sotto la tettoia nel cortile, o quel che portava in cucina, Mara l'aiutava ad appendere il tabarro al chiodo, e a togliersi le gambiere fradice, davanti al focolare, e gli versava il vino, mentre la minestra bolliva allegramente, ed ella apparecchiava il desco, cheta cheta e previdente come una brava massaia, nel tempo stesso che gli parlava di questo e di quello, della chioccia che aveva messo a covare, della tela che era sul telaio, del vitello che allevavano, senza dimenticare una sola delle faccenduole di casa, ché Jeli si sentiva di starci come un Papa.


Ma la notte di Santa Barbara tornò a casa ad ora insolita, che tutti i lumi erano spenti nella stradicciuola, e l'orologio della città suonava la mezzanotte. Una notte da lupi, che proprio il lupo gli era entrato in casa, mentre lui andava all'acqua e al vento per amor del salario, e della giumenta del padrone che era ammalata, e ci voleva il maniscalco subito subito. Bussò e tempestò all'uscio, chiamando Mara ad alta voce, mentre l'acqua gli pioveva addosso dalla grondaia, e gli usciva dalle calcagna.


Sua moglie venne ad aprirgli finalmente, e cominciò a strapazzarlo quasi fosse stata lei a scorrazzare pei campi con quel tempaccio, con una faccia che lui chiese:
- Che c'è? Cosi hai?

- Ho che m'hai fatto paura a quest'ora! che ti par ora da cristiani questa? Domani sarò ammalata!

- Va a coricarti, il fuoco l'accendo io.


- No, bisogna che vada a prender la legna.


- Andrò io.


- No, ti dico! - Quando Mara ritornò colla legna nelle braccia Jeli le disse:

- Perché hai aperto l'uscio del cortile? Non ce n'era più di legna in cucina?

- No, sono andata a prenderla sotto la tettoja -.


Ella si lasciò baciare, fredda fredda, e volse il capo dall'altra parte.


- Sua moglie lo lascia a infradiciare dietro l'uscio, - dicevano i vicini, - quando in casa c'è il tordo! - Ma Jeli non sapeva nulla, che era becco, né gli altri si curavano di dirglielo, perché a lui non gliene importava niente, e si era accollata la donna col danno, dopo che il figlio di massaro Neri l'aveva piantata per aver saputo la storia di don Alfonso. Jeli invece ci viveva beato e contento nel vituperio, e si ingrassava come un maiale, «ché le corna sono magre, ma mantengono la casa grassa!».


Una volta infine il ragazzo della mandra glielo disse in faccia, una volta che vennero alle brutte, per certe pezze di formaggio tosate. - Ora che don Alfonso vi ha preso la moglie, vi pare di essere suo cognato, e avete messo superbia che vi par di esser un re di corona, con quelle corna che avete in testa -.


Il fattore e il campaio si aspettavano di veder scorrere il sangue allora; ma invece Jeli stette zitto quasi non fosse fatto suo, con una faccia di grullo che le corna gli stavano bene davvero.


Ora si avvicinava la Pasqua e il fattore mandava tutti gli uomini della fattoria a confessarsi, colla speranza che pel timor di Dio non rubassero più. Jeli andò anche lui, e all'uscir di chiesa cercò del ragazzo con cui erano corse le male parole e gli buttò le braccia al collo dicendogli:

- Il confessore mi ha detto di perdonarti; ma io non sono in collera con te per quelle chiacchiere; e se tu non toserai più il formaggio a me non me ne importa nulla di quello che mi hai detto nella collera -.


Fu da quel momento che lo chiamarono per soprannome 'Corna d'oro', e il soprannome gli rimase, a lui e tutti i suoi, anche dopo che ci si lavò le corna, nel sangue.


La Mara era andata a confessarsi anche lei, e tornava di chiesa tutta raccolta nella mantellina, cogli occhi bassi che sembrava una Santa Maria Maddalena. Jeli che l'aspettava taciturno sul ballatoio, come la vide venire a quel modo, che si vedeva come ci avesse il Signore in corpo, la stava a guardare pallido pallido dai piedi alla testa, quasi la vedesse per la prima volta, o gliela avessero cambiata, la sua Mara, e neppure osava alzare gli occhi su di lei, mentre ella sciorinava la tovaglia, e metteva in tavola le scodelle, tranquilla e pulita al suo solito. Egli, dopo averci pensato su un poco, le domandò freddo freddo:

- È vero che te la intendi con don Alfonso? - Mara gli piantò in faccia i suoi begli occhi limpidi, e si fece il segno della croce.


- Perché volete farmi far peccato in questo giorno! - esclamò.


- No! non voglio crederci ancora!... perché con don Alfonso eravamo sempre insieme, quando eravamo ragazzi, e non passava giorno che ei non venisse a 'Tebidi', proprio come due fratelli... Poi egli è ricco che i denari li ha a palate, e se volesse delle donne potrebbe maritarsi, né gli mancherebbe la roba, o il pane da mangiare -.


Mara invece andavasi riscaldando, e cominciò a strapazzarlo in malo modo, tanto che lui non alzava più il naso dal piatto.


Infine perché quella grazia di Dio che stavano mangiando non andasse in tossico, Mara cambiò discorso, e gli domandò se ci avesse pensato a far zappare quel po' di lino che avevano seminato nel campo delle fave.


- Sì, - rispose Jeli, - e il lino verrà bene.


- Se è così, - disse Mara, - in questo inverno ti farò due camicie nuove che ti terranno caldo -.


Insomma Jeli non lo capiva quello che vuol dire becco, e non sapeva cosa fosse la gelosia; ogni cosa nuova stentava ad entrargli in capo, e questa poi gli riusciva così grossa che addirittura faceva una fatica del diavolo ad entrarci, massime allorché si vedeva dinanzi la sua Mara, tanto bella, e bianca, e pulita, che l'aveva voluto lei stessa, e le voleva tanto bene, e aveva pensato a lei tanto tempo, tanti anni, fin da quando era ragazzo, che il giorno in cui gli avevano detto com'ella volesse sposarne un altro, non aveva avuto più cuore di mangiare o di bere tutta la giornata. - Ed anche se pensava a don Alfonso, non poteva credere a una birbonata simile, lui che gli pareva di vederlo ancora, cogli occhi buoni e la boccuccia ridente con cui veniva a portargli i dolci e il pane bianco a 'Tebidi', tanto tempo fa - un'azionaccia così nera! e dacché non lo aveva più visto, perché egli era un povero pecoraio, e stava tutto l'anno in campagna, gli era sempre rimasto in cuore a quel modo. Ma la prima volta che per sua disgrazia rivide don Alfonso già uomo fatto, Jeli sentì come una botta allo stomaco. Come si era fatto grande e bello! con quella catena d'oro sul panciotto, e la giacca di velluto, e la barba liscia che pareva d'oro anche essa. Niente superbo poi, tanto che gli batté sulla spalla salutandolo per nome. Era venuto col padrone della fattoria insieme a una brigata d'amici, a fare una scampagnata nel tempo che si tosavano le pecore; ed era venuta pure Mara all'improvviso, col pretesto che era incinta e aveva voglia di ricotta fresca.


Era una bella giornata calda, nei campi biondi, colle siepi in fiore, e i lunghi filari verdi delle vigne. Le pecore saltellavano e belavano dal piacere, al sentirsi spogliate da tutta quella lana, e nella cucina le donne facevano un bel fuoco per cuocere la gran roba che il padrone aveva portato per il desinare. I signori intanto che aspettavano si erano messi all'ombra, sotto i carrubi, e facevano suonare i tamburelli e le cornamuse, o ballavano colle donne della fattoria, chi ne aveva voglia. Jeli mentre andava tosando le pecore, si sentiva rodere dentro di sé, senza sapere perché, come uno spino, un chiodo fitto, una forbice fine che gli lavorasse dentro minuta minuta, peggio di un veleno. Il padrone aveva ordinato che si sgozzassero due capretti, e il castrato di un anno, e dei polli, e un tacchino. Insomma voleva fare le cose in grande, senza risparmio, per farsi onore coi suoi amici, e mentre tutte quelle bestie schiamazzavano dal dolore, e i capretti strillavano sotto il coltello, Jeli si sentiva tremare le ginocchia e di tratto in tratto gli pareva che la lana che andava tosando e l'erba in cui le pecore saltellavano avvampassero di sangue.


- Non andare! - disse egli a Mara, come don Alfonso la chiamava perché venisse a ballare cogli altri. - Non andare, Mara!

- Perché?

- Non voglio che tu vada! Non andare!

- Lo senti che mi chiamano? - Egli non disse altro, fattosi brutto come la malanuova, mentre stava curvo sulle pecore che tosava. Mara si strinse nelle spalle, e se ne andò a ballare. Ella era rossa ed allegra, cogli occhi neri che sembravano due stelle, e rideva che le si vedevano i denti bianchi, e tutto l'oro che aveva indosso le sbatteva e le scintillava sulle guance e sul petto che pareva la Madonna tale e quale. Jeli un tratto si rizzò sulla vita, colla lunga forbice in pugno, così bianco in viso, così bianco come era una volta suo padre il vaccajo, quando tremava dalla febbre accanto al fuoco, nel casolare. Guardò don Alfonso, colla bella barba ricciuta, e la giacchetta di velluto e la catenella d'oro sul panciotto, che prendeva Mara per la mano e l'invitava a ballare; lo vide che allungava il braccio, quasi per stringersela al petto, e lei che lo lasciava fare - allora, Signore perdonategli, non ci vide più, e gli tagliò la gola di un sol colpo, proprio come un capretto.


Più tardi, mentre lo conducevano dinanzi al giudice, legato, disfatto, senza che avesse osato opporre la minima resistenza:

- Come, - diceva - non dovevo ucciderlo nemmeno?... Se mi aveva preso la Mara!...





Il maestro dei ragazzi


La mattina, prima delle sette, si vedeva passare il maestro dei ragazzi, mentre andava raccogliendo la scolaresca di casa in casa:

con la mazzettina in una mano, un bimbo restìo appeso all'altra, e dietro una nidiata di marmocchi, che ad ogni fermata si buttava sul marciapiede, come pecore stracche. Donna Mena, la merciaia, gli faceva trovare il suo Aloardo, già bell'e ripulito, a furia di scapaccioni, e il maestro, amorevole e paziente, si trascinava via il monello, che strillava e tirava calci. Più tardi, prima del desinare, tornava rimorchiando Aloardino tutto inzaccherato, lo lasciava sull'uscio del negozio, e ripigliava per mano il bimbo con cui era venuto la mattina.


Così passava e ripassava quattro volte al giorno, prima e dopo il mezzodì, sempre con un ragazzetto svogliato per mano, gli altri sbandati dietro, d'ogni ceto, d'ogni colore, col vestitino attillato alla moda, oppure strascicando delle scarpacce sfondate; però tenendosi accosto invariabilmente le scolare che stava più vicino di casa, sicché ogni mamma poteva credere che il suo figliuolo fosse il preferito.


Le mamme lo conoscevano tutte; dacché erano al mondo l'avevano visto passare mattina e sera, col cappelluccio stinto sull'orecchio, le scarpe sempre lucide, i baffetti come le scarpe, il sorriso paziente e inalterabile nel viso disfatto di libro vecchio; senza altro di stanco che il vestito mangiato dal sole e dalla spazzola, sulle spalle un po' curve.


Sapevano pure che era un gran cacciatore di donne; da circa quarant'anni, dacché andava su e giù per le strade mattina e sera, al pari di una chioccia coi suoi pulcini, era sempre col naso in aria, agitando la mazzettina a guisa di uno zimbello, come un vero uccellatore, in cerca di un'innamorata - senza ombra di male - una che lo guardasse ogni volta che passava, e tirasse fuori il fazzoletto quando egli si soffiava il naso - niente di più; gli sarebbe bastato di sapere che in qualche luogo, vicina o lontana, aveva un'anima sorella. Talché lungo la perenne via crucis di tutti i giorni, egli aveva delle immaginarie stazioni consolatrici, delle invetriate che soleva sbirciare dacché svoltava la cantonata, e che avevano senso e parole soltanto per lui, alle quali aveva visto invecchiare dei visi amati - o scomparirne per andare a maritarsi - egli solo sempre lo stesso, portando una instancabile giovinezza dentro di sé, dedicando alle figliuole il sentimento che aveva provato per le madri, mulinando avventure da Don Giovanni nella sua vita da anacoreta.


Era come la conseguenza della sua professione, l'incarnazione degli estri poetici che gli occupavano le ore d'ozio, la sera, dinanzi al lume a petrolio, coi piedi indolenziti nelle ciabatte di cimosa, ben coperto dal pastrano, mentre sua sorella Carolina rattoppava le calze, dall'altro lato del tavolinetto, anche essa con un libro aperto dinanzi agli occhi. Faceva il maestro di scuola per vivere, ma il suo vero stato erano le lettere, sonetti, odi, anacreontiche, acrostici soprattutto, con tutte le sante del calendario a capoverso. Portava, sotto il paletò spelato, da un capo all'altro della città, strascinandosi dietro la scolaresca, la sacra fiamma dei versi, quella che fa cantare le giovinette al chiaro di luna sul veroncello - e doveva farle pensare a lui.


Sapeva già, come se gliela avessero confidata, tutta la curiosità che doveva suscitare la sua persona, i palpiti che destava una sua occhiata, le fantasie che si lasciava dietro il suo passaggio.


Troppo scrupoloso però per abusarne!

Un giorno, lo rammentava sempre con una dolce confusione interna, una giovinetta alla quale andava a dare lezioni di bello scrivere a domicilio, volle regalargli per la sua festa un bel fiore che era in un vasetto della scrivania - rosa o garofano, non si rammentava pel turbamento che gli aveva fatto velo alla vista - glielo presentava con un atto gentile, e gli diceva, al vederlo timido e imbarazzato:

- L'ho tenuto lì per lei, signor maestro.


- No... la prego... Mi risparmi...


- Come? non lo vuole?

- Seguitiamo la lezione, di grazia!... Queste non son cose...


- Ma perché? Che c'è di male...


- Tradire la fiducia dei suoi parenti... sotto la veste di istitutore... - Allora la ragazza era scoppiata in una risata così matta, così impertinente, che gli squillava ancora nelle orecchie al ripensarci, e ancora, dopo tanto tempo, gli metteva in capo un dubbio, uno di quei lampi di luce che fanno cacciare il capo sotto il guanciale, per non vederli, la notte.


Ah, quelle benedette ragazze, chi arrivava a capirle, per quanto gli anni passassero! Esse gli ridevano dietro le spalle. - Poi, dopo molto tempo, quand'egli passava a prendere i loro bimbi, tirando in su i baffetti ostinatamente neri, si sentivano intenerire da una certa commozione ripensando al passato, alle rosee fantasie della prima giovinezza, che evocava la figura melanconica di quell'eterno cercatore di amore.


- Entrate, don Peppino, il ragazzo sta vestendosi.


- No, grazie, non importa.


- Volete aspettare al sole?

- Ho qui i ragazzi. Non posso lasciarli.


- Quanti ne avete, santa pazienza! Ce ne vorrà, da mattina a sera, tanto tempo che fate quel mestiere!

- Sì, un pezzo che ci conosciamo, di vista almeno. Quando lei stava in via del Carmine, il terrazzino col basilico. Si rammenta?

- Si diventa vecchi, don Peppino! Ora abbiamo i capelli bianchi.


Parlo per me, che ho già una figliuola da marito.


- Giusto, avevo portato qui una cosuccia per donna Lucietta. Oggi è la sua festa, mi pare.


- Cosi è? l'immagine di santa Lucia? No, una poesia! Lucia, Lucia, vien qui, guarda cosa t'ha portato il signor maestro.


- Piccolezze, donna Lucietta, scuserà l'ardire.


- Bello, bello, grazie tante. Guarda che bel foglio, mamma. Sembra un merletto.


- Son cose leggiere. Proprio un ricamino in versi, come ci vogliono per una bella ragazza qual è lei. Piccolezze, sa!

- Grazie, grazie. Ecco Bartolino. È mezz'ora che il signor maestro t'aspetta, maleducato!

- Guarda mamma; ritagliando il bordo della carta tutto in giro se ne può cavare un bel portamazzi, se oggi mi vengono dei fiori -.


La scuola era un grande stanzone imbiancato a calce, chiuso in fondo da un tramezzo che arrivava a metà dell'altezza, e al di sopra lasciava un gran vano semicircolare e misterioso, il quale dava lume a un bugigattolo che vi era dietro. Accanto all'uscio vedevasi il tavolinetto del maestro, coperto da un tappetino ricamato a mano, e sopra tanti altri lavori fatti di ritagli:

nettapenne, sottolume, e un mandarino di lana arancione, colle sue brave foglioline verdi, causa d'infinite distrazioni agli scolari.


L'altro ornamento della scuola, sulla larga parete nuda dietro il tavolino, era una cornicetta di carta traforata, opera industre della stessa mano, che conteneva due piccole fotografie ingiallite, i ritratti del maestro e di sua sorella, somiglianti come due gocce d'acqua, malgrado i baffetti incerati dell'uno, e la pettinatura grottesca dell'altra: gli stessi pomelli scarni che sembravano sporgere fuori della cornice, la stessa linea sottile delle labbra smunte, gli stessi occhi appannati, quasi stanchi di guardare perennemente, dal fondo dell'orbita incavata, lo sbaraglio delle seggiole scompagnate per la scuola; e tutt'in giro la tristezza delle pareti bianche, macchiate in un canto dalla luce scialba della finestra polverosa che dava nel cortiletto.


Di buon mattino, appena il falegname accanto principiava a martellare, udivasi bispigliare due voci sonnolente nel bugigattolo oscuro, e poi si illuminava il vano al di sopra del tramezzo. Il maestro andava a prendere una manata di trucioli, strascicando le ciabatte, tutto raggomitolato in un pastrano spelato, e accendeva il fuoco per fare il caffè. Allora, dietro la finestra appannata, vedevasi salire la fiamma del focolare annidato sotto quattro tegole sporgenti dal muro, e il fumo denso che stagnava nel cortiletto cieco. In fondo allo stanzino la sorella del maestro intanto cominciava a tossire, dall'alba.


Egli andava a prendere le scarpe appoggiate allo stipite dell'uscio, l'una accanto all'altra, coi tacchi in alto, e si metteva a lustrarle amorosamente, mentre faceva bollire il caffè, ritto innanzi al fuoco, col bavero del pastrano sino alle orecchie. In seguito toglieva dal fuoco la caffettiera, sempre colla mano sinistra, per pigliare colla destra la chicchera senza manico dall'asse inchiodata accanto al fornello, la risciacquava nel catino fesso incastrato fra due sassi accanto al pozzo, e portava finalmente il lume nel bugigattolo, diviso in due da una vecchia tenda da finestra appesa a una funicella. La sorella si alzava a sedere sul letto in fondo, stentatamente, tossendo, soffiandosi il naso, gemendo sempre, colle trecce arruffate, il viso consunto, gli occhi già stanchi, salutando il fratello con un sorriso triste d'incurabile.


- Come ti senti oggi, Carolina? - le chiedeva il fratello.


- Meglio, - rispondeva lei invariabilmente.


Intanto il sole sormontava il tetto di faccia alla finestra, come una polvere d'oro, in mezzo a cui balenava il volo dei passeri schiamazzanti. Dietro l'uscio passava lo scampanellare delle capre.


- Vado pel latte -, diceva don Peppino.


- Sì, - rispondeva lei collo stesso moto stracco del capo.


E cominciava a vestirsi lentamente, mentre il maestro, accoccolato col bicchiere in mano, leticava col capraio che gli misurava il latte come fosse oro colato.


Carolina andava a rifare il lettuccio piatto del fratello, dall'altra parte della cortina, rialzandola tutta sulla funicella per dare aria alla stanza, come era solita dire; e si dava a strascicare la scopa per la scuola, adagio adagio, movendo le seggiole una dopo l'altra, appoggiandosi al bastone della scopa per tossire, in mezzo al polverìo.


Il fratello tornava coi due soldi di latte in fondo al bicchiere, e due panetti nelle tasche del pastrano. Ripiegavano un lembo del tappetino, per non insudiciarlo, e sedevano a far colazione in silenzio, l'uno di qua e l'altra di là del tavolino, tagliando ad una ad una delle fette di pane sottili, masticando adagio, e come soprapensieri. Soltanto, ogni volta che lei tossiva, il fratello rizzava il capo a fissarla in aria inquieta, e tornava a chinare gli occhi sul piatto.


Alfine egli se ne andava colla mazzettina sotto l'ascella, il cappelluccio sull'orecchio, i baffetti incerati, tirando in su il colletto della camicia, infilandosi con precauzione i guanti neri che puzzavano d'inchiostro, seguito passo passo dalla sorella che si ostinava a passargli straccamente la spazzola addosso, covandolo con uno sguardo quasi materno, accompagnandolo dalla soglia con un sorriso rassegnato di zitellona, che credeva tutte le donne innamorate di suo fratello.


Anche essa aveva avuto la sua primavera scolorita di ragazza senza dote e senza bellezza, quando rimodernava, ogni festa principale, lo stesso vestitino di lana e seta, e architettava pettinature fantastiche dinanzi allo specchietto incrinato. Oh, le rosee visioni che passarono su quella vesticciuola, mentre essa agucchiava le intere notti! e gli sconforti amari che la tormentarono dinanzi a quello specchio, al quale si affacciavano ogni volta inesorabilmente i pomelli ossuti ed il naso troppo lungo! In mezzo al crocchio allegro e civettuolo delle altre ragazze ella portava sempre come la visione dolorosa della sua figura grottesca, e se ne stava in disparte - per vergogna, dicevano le une, - per orgoglio, dicevano le altre. - Giacché passava anche lei per letterata. Nello squallore della loro miseria decente le lettere avevano messo un conforto, una lusinga, come un lusso delicato che li compensava della commiserazione mal dissimulata dei vicini. Essa teneva gelosamente custoditi, in belle copie tutte a svolazzi e maiuscole ornate, i versi del fratello; e quando egli si era lasciato vincere alfine dall'indifferenza generale, dalla stanchezza dell'umile e faticoso impiego che doveva fare delle lettere per guadagnarsi il pane, essa sola era rimasta una gran leggitrice di romanzi e di versi:

avventure epiche di cappa e di spada, casi complicati e straordinari, amori eroici, delitti misteriosi, epistolari di quattrocento pagine tutte piene di una sola parola, nenie belate al chiaro di luna, dolori di anime in lutto prima di nascere, che piangevano delusioni future. Tutta la sua giovinezza squallida si era consunta in quelle fantasie ardenti, che le popolavano le notti insonni di cavalieri piumati, di poeti tisici e biondi, di avvenimenti bizzarri e romanzeschi, in mezzo ai quali sognava di vivere anche mentre scopava la scuola o faceva cuocere il magro desinare, nel cortiletto cieco che serviva da cucina. E sotto l'influenza di tutto quel medio evo, la preoccupazione dolorosa della sua disavvenenza e della sua povertà manifestavasi in modo grottesco, con ricciolini artificiosi sulla fronte, trecce spioventi sulle spalle, sgonfi medioevali ai gomiti del vestito e gorgiere inamidate.


- Che è l'ultimo figurino quello? - avevale chiesto un giorno la più elegante e la più crudele delle sue compagne.


Lui solo - tanto tempo addietro! - adesso era impiegato alla Pretura Urbana - quanti palpiti! quanta dolcezza! quanti sogni! Ed ora più nulla, allorché lo incontrava per caso, carico di moglie e di figliuoli! Allora era un giovinetto smunto, con grandi occhi pensosi che stavano a guardare i «vortici delle danze» dal vano di un uscio, come dall'alto, da cento miglia lontano. Le ragazze lo canzonavano anche un po' perché non ballava mai; lo chiamavano «il poeta». Egli da lontano inchiodava uno sguardo fatale su quella ragazza, sola e dimenticata in un cantuccio al par di lui. Una domenica infine le si fece presentare; le disse con una lunga frase ingarbugliata che aveva ambito l'onore di far la sua conoscenza perché «nella festa» era l'unica persona con cui si potesse scambiare due parole: lo sentiva, gliel'avevano detto:

sapeva anche che era una distinta cultrice delle lettere...


«Le danze» giravano giravano «vorticose» in un gran polverìo, sotto la lumiera a petrolio, ed essi sembrano cento miglia lontani, proprio come nei romanzi, mezzo nascosti dietro la tenda all'uncinetto, lui col cappello sull'anca, e l'arco della mente teso per ogni parola che gli usciva di bocca; lei irradiata da quella prima lusinga che le veniva da un uomo, con una nuova dolcezza negli occhi, attraverso i ricciolini.


- È un poema?

- No, un romanzo.


- Storico?

- Oibò signorina! Per chi mi piglia? Sa il detto di quel tale:

«Chi ci libererà dai Greci e dai Romani?...» - Genere Manzoni allora?

- No, più moderno; stavo per dire più fine; certo più nervoso...


tutta la nervosità del secolo in cui viviamo...


- E il titolo? si può sapere almeno?

- Lei sì! - Amore e morte!

- Bello! bello! bello! Ci ha lavorato molto?

- Saran quattr'anni circa.


- Perché non lo fa stampare? - Il giovanotto alzò le spalle con un sorriso sdegnoso.


- Peccato!

Egli ebbe un lampo negli occhi, per la risposta che gli balenava in mente pronta e azzeccata; un lampo che illuse la poveretta:

- Mi basta questa parola sua, guardi! - La Carolina avvampò di gioia; e chinò il capo, col petto che le scoppiava.


- Che dice?... Io!... Che dice mai?... - L'altro gonfiandosi nel soprabito anche lui a quella prima lusinga che gli veniva da una donna, le lasciava cadere sul capo chino, dall'alto del suo colletto inamidato, la confidenza che il trionfo più ambito per uno scrittore è quello di una parola... una parola sola... d'encomio... d'incoraggiamento... che venga da una persona...


- Pardon! - si interruppe a un tratto tirandosi bruscamente indietro.


- Gli è arrivata? - chiese scusandosi il padrone di casa che girava coll'annaffiatoio. - Mi dispiace, sa... Facevo perché si soffoca dalla polvere. Non le pare? - Il poeta continuava dicendo che era proprio una fortuna d'incontrarsi... in mezzo a tanta volgarità invadente...


- Lei non balla? - domandò infine.


- Io...


- Stia tranquilla. Non ballo neppur io. Sa il detto di quel tale:

«Non capisco perche cotesto lavoro non lo facciano fare dai domestici!» Ed è vero infatti. Provi a tapparsi le orecchie, per vedere l'impressione grottesca...


- È vero, è vero.


- Sentisse poi che discorsi! - Il caldo, la folla, i lumi...


Quando si arriva a parlar delle acconciature è già un gran progresso. A proposito, lei è messa divinamente... No, no, mi lasci dire, è diversa dalle altre; un buon gusto, un'originalità... - Tese l'arco delle sopracciglia, e le scoccò l'ultima frecciata:

- Insomma l'abito non fa il monaco; ma il buon gusto dice la persona... - Com'era bello il valzer che sonavano in quel punto! come l'era rimasto in cuore tutta la notte! e come lo canticchiava poi a mezzavoce, cogli occhi gonfi di lagrime deliziose, cucendo nel cortiletto oscuro! Sul pilastrino del pozzo i garofani, che allungavano dal vaso slabbrato gli steli tisici, si agitavano lieve lieve al sole, e parevano rinascere. Che pace ora con se stessa, quando si guardava nello specchio! che dolcezza in certi toni della sua voce! che soavità nel raggio della luna che baciava, in alto, il muro dirimpetto! e nell'oro del tramonto che scappava dal comignolo del tetto, e scintillava sui vetri di quella finestra dove si vedeva alle volte un fanciulletto biondo in una scranna a bracciuoli, immobile per delle ore! Vivere, vivere, anche in quel cortiletto triste, fra quelle quattro mura che avevano una melanconia intima e quasi affettuosa, nelle umili occupazioni divenute care, con quell'altro mondo fantastico che le aprivano i libri, sotto la carezza di quella voce fraterna, amorevole e protettrice; e in fondo al cuore poi come un punto luminoso, come una fibra delicata che trasaliva al menomo tocco, come una gran gioia che aveva bisogno di nascondersi e le balzava alla gola ogni momento, come una fede, come una tenerezza nuova per ogni cosa e ogni persona nota - e l'attesa di quella domenica, di quel ballonzolo periodico in mezzo alla polvere e al puzzo di petrolio, dove sapeva di rivedere colui che da otto giorni aveva preso tanta parte nel suo cuore e nella sua vita!

Stavolta le venne incontro appena la vide, con una stretta di mano che riannodava a un tratto la loro intimità spirituale, e le si mise al fianco, dietro la tenda all'uncinetto, colla destra nello sparato della sottoveste, parlandole sempre di sé, delle sue inclinazioni, dei suoi gusti, delle sue ammirazioni, che erano poche e calde, della sua ambizione, che toccava il cielo. Di tratto in tratto, quando gli pareva che la ragazza chinasse il capo stanco sotto tutto quell'io implacabile, le accoccava un complimento, come un cocchiere fa schioccare la frusta nelle salite. La giovinetta però chinava il capo per la commozione, col cuore tutto aperto a quelle confidenze che cercavano avidamente la simpatia di lei. Egli pure, trascinato dalla sua foga, eccitato dalle sue frasi medesime, si abbandonava, cominciava a sbottonarsi, a scendere fino ai suoi piccoli guai: suo padre che lo contrariava nelle sue inclinazioni, nelle tendenze più spiccate del suo ingegno... Nei due anni d'Università non aveva imparato nulla. Aveva scritto soltanto dei versi sulle panche della cattedra di Diritto Civile.


- Un vero parricidio! - osservò Carolina sorridendo.


Egli per la prima volta la baciò con un'occhiata d'ineffabile tenerezza.


- Carolina! Carolina! - chiamava il fratello. E sottovoce le disse all'orec- chio:
- Bada che tutti ti guardano; sei sempre con colui. Chi è? - Qua e là, dietro i ventagli, e nei crocchi delle ragazze, balenavano infatti dei sorrisi mal dissimulati. Ma Carolina, fiera, lo presentò al fratello:

- Il signor Angelo Monaco, distinto poeta, l'autore di Amore e morte!

- So che anche il signore è un chiaro cultore delle lettere! - disse il Monaco tendendogli la mano regalmente.


Il romanziere aveva «sollecitato l'onore» di leggere il manoscritto del suo romanzo in casa del maestro «per averne un giudizio illuminato e sincero». Una sera, dopo la scuola, lo installarono dinanzi al tavolinetto dal tappetino ricamato, con due candele accese dinanzi, come un giocatore di bussolotti, don Peppino col capo fra le mani, tutto raccolto nel disegno di appioppargli alla sua volta la lettura dei propri versi, che si sentiva rifiorire in petto gelosi a quell'avvenimento; la sorella digià commossa dalla solennità dei preparativi, la porta chiusa, le seggiole dei ragazzi schierate in fila, come per una folla di ascoltatori invisibili.


Il manoscritto era voluminoso, circa mezza risma di carta a mano, raccolta in una custodia di marocchino col titolo in oro sul dorso, e legata con nastri tricolori. L'autore leggeva con convinzione, sottolineando ogni parola col gesto, colla voce, con certe occhiate che andavano a ricercare l'ammirazione in volto alla Carolina, pallidissima, e al fratello di lei, impenetrabile dietro il palmo delle mani; si animava alle sue frasi istesse come un bàrbero allo scrosciare delle vesciche che porta attaccate alla coda; senza un minuto di stanchezza, quasi senza bisogno di voltar pagina. Le pagine volavano, volavano, con un fruscìo quasi di foglie secche d'autunno, nel gran silenzio della notte. Tutti i rumori della via erano cessati uno dopo l'altro. La luna alta si affacciava al finestrino.


C'era un punto in cui il protagonista del romanzo, disperato, forzava la consegna di uno stuolo di domestici in gran livrea, schierati in anticamera, e andava a bere la morte nell'alcova della sua bella appena tornata dal ballo, ancora in una nuvola di merletti e di pizzi. Egli la bollava con parole di fuoco, voleva offrirle, dea implacabile, l'olocausto del suo sangue, dei suoi sensi, del suo amore immensurabile, lì ai piedi dell'altare istesso, su quel tappeto di Persia, dinanzi a quel letto immacolato. E all'occhiata trionfante che faceva punto, l'autore vide con gioia crudele la sua ascoltatrice che piangeva cheta cheta, colla mano dinanzi agli occhi.


Ei le prese quella mano, e se la tenne sulle labbra a lungo per godere del suo trionfo.


- Perdonatemi! - mormorò poscia.


Ella scosse il capo dolcemente, e rispose con un filo di voce:

- No. Sono tanto felice! - La luna dal finestrino baciava la parete dirimpetto, tacita. Al silenzio improvviso il maestro si destò.


Angelo Monaco prese a frequentare la casa del maestro, attratto dalla simpatia che vi trovava, lusingato da quell'ammirazione fervida, da quell'amore timido e profondo di cui la sua vanità era riconoscente in modo da simulare alle volte un ricambio dello stesso sentimento.


Carolina aspettava, felice, tutta piena di una vita nuova in mezzo alle solite modeste occupazioni, sorpresa da batticuori improvvisi, da dolcezze inesplicabili, per un nulla, per taluni avvenimenti consueti che prima non le avevano detto cosa alcuna, beandosi di uno sguardo, di un sorriso, di una parola, di una stretta di mano di lui, trepidante all'ora in cui egli soleva venire, commossa da una tenerezza ineffabile quando vedeva il raggio della luna sul finestrino, ogni quintadecima, al sentire la campana dell'avemaria, l'organetto che passava, la voce del fratello che pronunziava il suo nome, turbata solo da un imbarazzo insolito e da una nuova tenerezza per lui. Anche egli le sembrava cambiato. Da qualche tempo la trattava con una dolcezza affettuosa e quasi triste, con un riserbo discreto e pietoso. Un giorno finalmente, al momento di uscire insieme ai ragazzi, col cappelluccio in testa e la mazzettina in mano, la chiamò in disparte, dietro la cortina rossa:

- ... Sai, Carolina... Sta per ammogliarsi... No! senti! Coraggio, coraggio!... Guarda che io ho lì i ragazzi... Perdonami se ti ho fatto dispiacere!... Toccava a me a dirtelo... Sono tuo fratello, il tuo Peppino!... - Ella uscì nello stanzone, barcollante, come si sentisse soffocare, e balbettò dopo un momento:

- Come lo sai? Chi te l'ha detto?

- Masino, quel ragazzo, il figlio del caffettiere. Oggi, come l'incontrammo per caso, e vide che lo salutavo, mi ha detto che sposa sua sorella.


- Vai, vai, - disse la poveretta respingendolo colle mani tremanti. - I ragazzi aspettano -.


E fu tutto. Ella non aggiunse una parola, non gli mosse un lamento. L'ultima volta che la vide, Angelo la trovò così afflitta, così chiusa nel suo dolore, che ne indovinò il motivo.


Sull'uscio del cortiletto, cogli occhi rivolti a quello spicchio di cielo e una lagrima vera negli occhi, egli le disse addio, commosso dall'accento suo stesso. Il giorno dopo le scrisse una lettera tutta fremente da un rigo all'altro d'amore e di disperazione, la prima in cui le parlasse d'amore, per dirle che il suo era fatale e doveva immolarlo sull'altare dell'obbedienza filiale. «Siate felice! siate felice! lontana o vicina, in vita e in morte!...» Fu la sola «missiva» d'amore che ella ricevesse, e la custodì gelosamente fra i fiori secchi che ei le aveva donati, e i nastri scolorati che portava il giorno in cui si erano incontrati per la prima volta.


Poi, stanca, aveva riversato sul fratello le sue illusioni giovanili, rifacendo per lui i castelli in aria in cui si erano passati i sogni ardenti della sua vita claustrale, subendo, sotto altra forma, le stesse calde allucinazioni che le erano rimaste di tante bizzarre letture, nelle quali si era consunta la sua giovinezza, dietro il tramezzo della scuola, com'era morto il geranio che aveva agonizzato dieci anni nel cortiletto senza sole.


Una volta era stata una rosa che essa aveva sorpreso nel portapenne della scrivania, e si era sfogliata senza che lei osasse toccarla, lasciandole un grande sconforto a misura che le foglioline si sperdevano nella polvere. Un'altra volta un bigliettino profumato, visto alla sfuggita sul tappetino della scrivania, scomparso subito misteriosamente, che l'aveva fatta almanaccare un mese, turbandola anche, mentre stava chiuso nel cassetto, col suo odore sottile, finché le era caduto un'altra volta sotto gli occhi, fra le cartacce inutili da buttare via nel cortiletto - la stessa corona dorata in cima al foglio profumato, lo stesso carattere elegante con cui un ragazzo si faceva scusare dalla mamma non so quale mancanza.


Un giorno infine il romanzo sembrò disegnarsi, al giungere di una superba bionda che era venuta a prendere un ragazzetto pallido in una carrozza signorile, riempiendo tutta la scuola del fruscìo della sua veste, del profumo del suo fazzoletto, del suono armonioso della sua voce fresca e ridente come un raggio di sole che avesse abbarbagliato maestro e discepoli. La povera zitellona per molti giorni ancora, alla stessa ora, aveva aspettata la bella seduttrice, nascosta dietro la tenda del tramezzo, col cuore che le batteva forte, sconvolta sino alle viscere e come violentata da un delizioso segreto, da un turbamento strano, in cui si mescevano una tenerezza nuova pel fratello, un senso di vaga gelosia, e una contentezza, un orgoglio segreto.


Erano reticenze discrete, silenzi pudichi, imbarazzi scambievoli, per un cenno, per una parola, per un'allusione lontana che cadesse nel discorso, mentre sedevano a tavola, l'uno di qua e l'altra di là di un lembo del tappetino ripiegato, mentre rifacevano tutti i giorni la stessa conversazione vuota e insignificante del giorno innanzi, ripetendo le stesse frasi monotone che compendiavano la loro esistenza scolorita ed uniforme, a voce bassa, con una certa timidezza vergognosa.


Egli chinava il capo arrossendo, come sorpreso sul fatto; e giurava di no, facendo una scrollatina di spalle, gongolando dentro di sé, con un sorrisetto di vanagloria che gli tremolava sulle labbra.


Alle volte, in un'effusione improvvisa di tenererza riconoscente, le posava la destra sul capo, con quello stesso sorrisetto discreto che pareva dicesse:

- Stai tranquilla, scioccherella! - Però, nella rettitudine istintiva della sua coscienza, la zitellona sentiva nascere una ripugnanza, un'inquietudine dolorosa per tutto ciò che doveva esserci di losco e di pericoloso in quel romanzo clandestino. Allora correva a buttarsi ai piedi del confessore, nel nuovo fervore religioso in cui si era rifugiata quando aveva provato il più gran dolore della sua giovinezza, lo sconforto e l'abbandono d'ogni lusinga terrena, e domandava perdono per la dolce colpa che lei non aveva commesso, faceva la penitenza del peccato immaginario che era nella sua casa.


E calda ancora di quel fervore vi attingeva il coraggio per esortare il fratello a rientrare nel retto sentiero con delle allusioni velate, delle insinuazioni discrete, un'effusione di tenerezza timida e quasi materna.


- Peppino! - gli disse infine, - dovresti darmi una gran consolazione. Dovresti risolverti a prender moglie -.


Egli rizzò il capo, sorpreso prima, e poscia lusingato dalla proposta che gli toglieva vent'anni d'addosso, obbiettando col medesimo ingenuo entusiasmo della sua prima giovinezza che «il matrimonio è la tomba dell'amore» per farsi pregare ancora.


- Dammi retta, Peppino!... Poi quando non sarai più in tempo te ne pentirai!... - Egli si ostinava a scrollare il capo, lusingato internamente di poter rifiutare per la prima volta; senza notare l'espressione dolorosa che c'era nell'accento della povera zitellona.


- No, non mi lascio pescare. Stai tranquilla. Amo troppo la mia libertà! - Ella provava un senso strano di simpatia, di commiserazione, e di rancore per quel fanciulletto esile e pallido che la dama bionda era venuta a cercare, e che supponeva fosse il complice innocente della loro tresca. Lo covava cogli occhi da lontano, nascosta dietro la tenda, quasi egli portasse alla scuola, nei sereni lineamenti infantili, un riflesso delle seduzioni tentatrici della mamma, inquieta se lo scolaretto mancava qualche volta, almanaccando tutto un romanzo domestico dai menomi atti del ragazzo inconsapevole. Se lo chiamava vicino, quando poteva farlo da solo a solo, lo accarezzava, lo interrogava, gli faceva qualche regaluccio insignificante, attratta e ripugnante nello stesso tempo della sua grazia infantile. Un giorno il fanciulletto, tutto contento, le disse:

- Dopo le vacanze non vengo più a scuola -.


Ella gli chiese il perché, balbettando.


- La mamma dice che ora son grande. Andrò in collegio -.


Così terminò anche quel romanzo. Ella ne sentì prima un gran sollievo; ma nello stesso tempo un dubbio, uno sconforto amaro, vedendo dileguarsi anche le ultime illusioni, che aveva collocate sul fratello.


Il male che la rodeva da anni e anni la inchiodò infine nel letto.


Il povero maestro non ebbe più un'ora di pace: sempre in faccende anche nei brevi istanti che la scuola gli lasciava liberi, scopando, accendendo il fuoco, rifacendo i letti, correndo dal medico e dallo speziale, coi baffi stinti, le scarpe infangate, il viso più incartapecorito ancora. Le vicine, mosse a compassione, venivano a dare una mano: ora l'una ed ora l'altra: donna Mena, la vedova del merciaio, con tutti gli ori addosso, come se andasse a nozze; e l'Agatina del falegname, lesta di mano e sempre allegra, che riempiva della sua gaia giovinezza la povera casa triste; talché il vecchio scapolo era tutto scombussolato da quelle gonnelle che gli si aggiravano per casa, tentato, anche in mezzo alle sue angustie, quasi da un ritorno di giovinezza, da sottili punture nel sangue e al cuore, che gli cocevano come un rimorso, nelle ore nere.


- Meglio, meglio. Ha riposato -.


Il poveraccio, al trovare quella buona notizia sulla soglia, le afferrò la mano tremante e la baciò.


- Oh, donna Mena. Che consolazione! - Essa gli fece segno di tacere e lo condusse in punta di piedi a veder l'inferma, che riposava con una gran dolcezza sul viso, già lambito da ombre funebri. E come se la dolcezza di quell'istante di tregua gli si fosse comunicata, affranto dall'angoscia che aveva trascinato insieme ai suoi ragazzi da un capo all'altro della città, egli cadde a sedere sulla seggiola dietro la cortina, senza lasciare la mano di donna Mena, che la svincolò adagio adagio. La stanza era già oscura, con un senso di intimità misterioso e triste.


Ad un tratto la sorella svegliandosi lo chiamò, indovinando che era lì, e per la prima volta egli accendendo il lume si trovò imbarazzato dinanzi a lei insieme a un'altra donna.


Era stata una crisi terribile: la prima lotta colla morte che già abbrancava la preda. L'inferma, tornata in sé, guardava il lume, le pareti, il viso del fratello con certi occhi attoniti in cui durava ancora la visione di terrori arcani, e lo accarezzava col sorriso, col soffio della voce, colla mano tremante, in un ritorno di tenerezza ineffabile, che si attaccava a lui come alla vita.


E allorché furono soli, gli disse pure con quell'accento e quello sguardo singolari:

- No quella!... Quella no, Peppino! - Verso l'agosto sembrò che cominciasse a stare alquanto meglio. Il sole giungeva fino al letto, dall'uscio del cortile, e la sera entravano a far compagnia tutti i rumori del vicinato, il chiacchierìo delle comari, lo stridere delle carrucole, nei pozzi tutto intorno, la canzone nuova che passava, l'accordo della chitarra con cui il barbiere dirimpetto ingannava l'attesa. La ragazza del falegname entrava con un fiore nei capelli, con un sorriso allegro che portava la gioventù e la salute.


- No, no, non ve ne andate ancora! Vedete il bene che fa a quella poveretta soltanto a vedervi!

- Si fa tardi, signor maestro. È un'ora che son qui.


- No, non è tardi. A casa vostra lo sanno che siete qui. Piuttosto dite che vi aspettano le compagne, lì sull'uscio.


- No, no.


- O l'innamorato, eh? Sarà l'ora in cui suole passare col sigaro in bocca...


- Oh... che dite mai, vossignoria!...


- Sì, sì, una bella ragazza come siete... è naturale. Chi non si innamorerebbe, al vedere quegli occhi... e quel sorriso... e quel visetto furbo.


- Ma cosa gli salta in mente adesso?... - E un giorno si arrischiò anche a dirle, nel vano dell'uscio tutto illuminato dalla luna:

- Ah! fossi io quel tale!

- Lei, signor maestro!... Che dice mai! - L'emozione lo prendeva alla gola, mentre la ragazza, per rispetto, non osava ritirare la mano che le aveva afferrata. E traboccarono frasi sconnesse: L'amore che eguaglia: la poesia che è profumo dell'anima: i tesori d'affetto che si cristallizzano nelle anime timide: la divina voluttà di cercare il pensiero e il volto dell'amata nel raggio della luna, a un'ora data. - La ragazza lo guardava quasi impaurita, con grand'occhi spalancati, e tutta bianca nel raggio della luna.


- Non dimenticherò mai quest'ora che mi avete concesso, Agata! Né questo nome! mai! Divisi, lontani... ma ricorderemo... entrambi...


- Mi lasci andare, mi lasci andare. Buona sera -.


L'inferma, appoggiata a un mucchio di guanciali, chiacchierava sottovoce col fratello, seduto accanto al letto, ancora col cappello in testa e la mazzettina fra le gambe. Pareva che avesse a dirgli una cosa importante, dai silenzi improvvisi che le soffocavano la parola in gola, dalle occhiate lunghe che posava su lui, dai rossori fugaci che passavano sul pallore del viso disfatto. Infine, chinando il capo, gli disse:

- Perché non ci pensi ad accasarti?

- No, no! - rispose lui, scrollando il capo.


- Sì, ora che sei in tempo... Devi pensarci finché sei giovane...


Poi, quando sarai vecchio... e solo... come farai? - Il fratello, sentendosi vincere dalle lagrime, conchiuse, per tagliar corto:

- Non è tempo di parlarne adesso! - Però essa ritornava spesso sullo stesso argomento.


- Se trovassi una bella giovinetta, ricca, istruita, di buona famiglia, che facesse per te... - E una sera che si sentiva peggio torno a parlargliene ancora, coll'inquieto cicaleccio proprio del suo stato.


- No, lasciami dire, ora che ho un po' di fiato. Non posso permettere che ti sacrifichi per tenermi compagnia... tutta la tua giovinezza... Una buona dote non può mancarti. E se lasci la scuola, tanto meglio. Vivremo tutti insieme; faremo una casa sola.


Uno stanzino mi basterà, purché sia molto arioso. Vorrei che fosse verso il giardino. Della strada non so che farmene, oramai... Ho sempre desiderato di vedere il cielo, stando in letto... e del verde, degli alberi... come, per esempio, averci una finestra là dove c'è ora la cortina, una finestra che guardasse nei campi... - Si udiva la pioggia che scrosciava nel cortiletto, una di quelle piogge che annunziano l'autunno, e la pentola di latta, lasciata fuori, che risonava sotto la grondaia. Un gatto, nella bufera, chiamava ai quattro venti, con voce umana.


Il maestro, che aveva seguìto il vaneggiare della sorella verso il verde ed il sole, coll'allucinazione perenne che era in lui, le chiese affettuosamente:

- Ora che viene l'autunno saresti contenta d'andare in campagna?

- E la scuola? - ribatté lei con un sorriso malinconico. - Se tu pigliassi una buona dote invece... con dei poderi...


- Benedette donne! quando si ficcano un chiodo in testa!... - rispose lui con un sorrisetto malizioso.


E pareva esitare a decidersi. Ma dopo averci pensato su, finì col dire:

- Non mi vendo, no! - E abbottonò il soprabito con dignità.


- Se ho da fare una scelta... Se mai... È inutile! - conchiuse finalmente. - Amo troppo la mia libertà! -.


Ella insisteva a dire che queste cose si fanno finché uno è giovane, che se no si finisce in mano della serva o di qualche intrigante.


Poi, siccome il fratello non voleva arrendersi, la zitellona si lasciò scappare in un impeto di gelosia, alludendo alle vicine:

- Vedi che già ti si ficcano in casa, e cominciano a fare dei disegni su di te? - E la poveretta morì col crepacuore di lasciare il fratello esposto alle insidie di quelle intriganti.


Com'ella aveva fatto un gran vuoto in quel bugigattolo, per quanto poco spazio vi avesse occupato in vita, e il fratello vi si sentiva come perduto in una gran solitudine, in una gran desolazione, nelle ore che i ragazzi gli lasciavano libere, prese ad andare dal falegname, tutte le sere, attratto da una gratitudine dolce e malinconica verso la ragazzona che aveva avuta tanta carità per la sua povera morta. Ma il falegname, che certe cose non le intendeva, gli fece capire che in bottega del maestro di scuola non sapeva che farsene, e gli facesse invece il piacere di levarsi di quei trucioli.


Anche donna Mena, qualche tempo dopo, quando vide che le visite del maestro si facevano troppo frequenti, col pretesto dell'Aloardino, e non finiva mai di ringraziarla dell'assistenza che aveva fatta alla sua povera sorella, per stringerle la mano e farle gli occhi di triglia, gli disse sul mostaccio:

- Orsù, signor maestro, facciamo a parlarci chiaro, ché il vicinato comincia a mormorare dei fatti nostri -.


Il poveraccio, colto alla sprovvista, si confuse. Ma infine prese il suo coraggio a due mani:

- Or bene, donna Mena! Anche quella poveretta l'aveva previsto.


Non ho voluto decidermi mai a fare questo passo, perché amavo troppo la mia libertà... Ma ora che vi ho conosciuta meglio... se volete...


- Eh, non li avevate fatti male i vostri conti, caro mio, poiché siete stanco d'andare attorno coi ragazzi! Ma il fatto mio ce lo siamo lavorato io e la buon'anima di mio marito... E non per farcelo mangiare a tradimento -.


Ogni giorno, mattina e sera, tornava a passare il maestro dei ragazzi, con un fanciulletto restìo per mano, gli altri sbandati dietro, il cappelluccio stinto sull'orecchio, le scarpe sempre lucide, i baffetti color caffè, la faccia rimminchionita di uno che è invecchiato insegnando il b-a-ba, e cercando sempre l'innamorata, col naso in aria.


Soltanto, tornando a casa serrava a chiave l'uscio, per scopare la scuola, rifare il letto, e tutte le altre piccole faccenduole per le quali non aveva più nessuno che l'aiutasse. La mattina, prima di giorno, accendeva il fuoco, si lustrava le scarpe, spazzolava il vestito, sempre quello, e andava a bere il caffè nel cortiletto, seduto sulla sponda del pozzo, tutto solo e malinconico, col bavero del pastrano sino alle orecchie. Ed ora che la povera morta non ne aveva più bisogno, risparmiava anche quei due soldi di latte.





Il reverendo


Di reverendo non aveva più né la barba lunga, né lo scapolare di zoccolante, ora che si faceva radere ogni domenica, e andava a spasso colla sua bella sottana di panno fine, e il tabarro colle rivolte di seta sul braccio. Allorché guardava i suoi campi, e le sue vigne, e i suoi armenti, e i suoi bifolchi, colle mani in tasca e la pipetta in bocca, se si fosse rammentato del tempo in cui lavava le scodelle ai cappuccini, e che gli avevano messo il saio per carità. si sarebbe fatta la croce colla mano sinistra.


Ma se non gli avessero insegnato a dir messa, e a leggere e a scrivere per carità, non sarebbe riescito a ficcarsi nelle primarie casate del paese, né ad inchiodare nei suoi bilanci il nome di tutti quei mezzadri che lavoravano e pregavano Dio e la buon'annata per lui, e bestemmiavano poi come turchi al far dei conti. «Guarda ciò che sono e non da chi son nato» dice il proverbio. Da chi era nato lui, tutti lo sapevano, ché sua madre gli scopava tuttora la casa. Il Reverendo non aveva la boria di famiglia, no; e quando andava a fare il tresette dalla baronessa, si faceva aspettare in anticamera dal fratello, col lanternone in mano.


Nel far del bene cominciava dai suoi, come Dio stesso comanda; e si era tolta in casa una nipote, belloccia, ma senza camicia, che non avrebbe trovato uno straccio di marito; e la manteneva lui, anzi l'aveva messa nella bella stanza coi vetri alla finestra, e il letto a cortinaggio, e non la teneva per lavorare, o per sciuparsi le mani in alcun ufficio grossolano. Talché parve a tutti un vero castigo di Dio, allorquando la poveraccia fu presa dagli scrupoli, come accade alle donne che non hanno altro da fare, e passano i giorni in chiesa a picchiarsi il petto pel peccato mortale - ma non quando c'era lo zio, che ei non era di quei preti i quali amano farsi vedere in pompa magna sull'altare dall'innamorata. Le donne, fuori di casa, gli bastava accarezzarle con due dita sulla guancia, paternamente, o dallo sportellino del confessionario, dopo che si erano risciacquata la coscienza, e avevano vuotato il sacco dei peccati propri ed altrui, ché qualche cosa di utile ci si apprendeva sempre, per dar la benedizione, uno che speculasse sugli affari di campagna.


Benedetto Dio! egli non pretendeva di essere un sant'uomo, no! I sant'uomini morivano di fame; come il vicario il quale celebrava anche quando non gli pagavano la messa; e andava attorno per le case de' pezzenti con una sottana lacera che era uno scandalo per la Religione.


Il Reverendo voleva 'portarsi avanti'; e ci si portava, col vento in poppa; dapprincipio un po' a sghembo per quella benedetta tonaca che gli dava noia, tanto che per buttarla nell'orto del convento aveva fatta causa al Tribunale della Monarchia, e i confratelli l'avevano aiutato a vincerla per levarselo di torno, perché sin quando ci fu lui in convento volavano le panche e le scodelle in refettorio ad ogni elezione di provinciale; il padre Battistino, un servo di Dio robusto come un mulattiere, l'avevano mezzo accoppato, e padre Giammaria, il guardiano, ci aveva rimesso tutta la dentatura. Il Reverendo, lui, stava chiotto in cella, dopo di aver attizzato il fuoco, e in tal modo era arrivato ad esser 'reverendo' con tutti i denti, che gli servivano bene; e al padre Giammaria che era stato lui a ficcarsi quello scorpione nella manica, ognuno diceva:
- Ben gli sta! - Ma il padre Giammaria, buon uomo, rispondeva, masticandosi le labbra colle gengive nude:

- Che volete? Costui non era fatto per cappuccino. È come papa Sisto, che da porcaio arrivò ad essere quello che fu. Non avete visto ciò che prometteva da ragazzo? - Per questo padre Giammaria era rimasto semplice guardiano dei Cappuccini, senza camicia e senza un soldo in tasca, a confessare per l'amor di Dio, e cuocere la minestra per i poveri.


Il Reverendo, da ragazzo, come vedeva suo fratello, quello del lanternone, rompersi la schiena a zappare, e le sorelle che non trovavano marito neanche a regalarle, e la mamma la quale filava al buio per risparmiar l'olio della lucerna, aveva detto:
- Io voglio esser prete! - Avevano venduto la mula e il campicello, per mandarlo a scuola, nella speranza che se giungevano ad avere il prete in casa ci avevano meglio della chiusa e della mula. Ma ci voleva altro per mantenerlo al seminario! Allora il ragazzo si mise a ronzare attorno al convento perché lo pigliassero novizio; e un giorno che si aspettava il provinciale, e c'era da fare in cucina, lo accolsero per dare una mano. Padre Giammaria, il quale aveva il cuore buono, gli disse:
- Ti piace lo stato? e tu stacci -. E fra Carmelo, il portinaio, nelle lunghe ore d'ozio, che si annoiava seduto sul muricciuolo del chiostro a sbattere i sandali l'un contro l'altro, gli mise insieme un po' di scapolare coi pezzi di saio buttati sul fico a spauracchio delle passere. La mamma, il fratello e la sorella protestavano che se entrava frate era finita per loro, e ci rimettevano i denari della scuola, perché non gli avrebbero cavato più un baiocco. Ma lui che era frate nel sangue, si stringeva le spalle, e rispondeva:
- Sta a vedere che uno non può seguire la vocazione a cui Dio l'ha chiamato! - Il padre Giammaria l'aveva preso a ben volere perché era lesto come un gatto in cucina, e in tutti gli uffici vili, persino nel servir la messa, quasi non avesse fatto mai altro in vita sua, cogli occhi bassi, e le labbra cucite come un serafino. - Ora che non serviva più la messa aveva sempre quegli occhi bassi e quelle labbra cucite, quando si trattava di un affare scabroso coi signori, che c'era da disputarsi all'asta le terre del comune, o da giurare il vero dinanzi al Pretore.


Di giuramenti, nel 1854, dovette farne uno grosso davvero, sull'altare, davanti alla pisside, mentre diceva la santa messa, ché la gente lo accusava di spargere il colèra, e voleva fargli la festa.


- Per quest'ostia consacrata che ho in mano - disse lui ai fedeli inginocchiati sulle calcagna - sono innocente , figliuoli miei!

Del resto vi prometto che il flagello cesserà fra una settimana.


Abbiate pazienza! - Sì, avevano pazienza! per forza dovevano averla! Poiché egli era tutt'uno col giudice e col capitan d'armi, e il re Bomba gli mandava i capponi a Pasqua e a Natale per disobbligarsi, dicevasi; e gli aveva mandato anche il contravveleno, caso mai succedesse una disgrazia.


Una vecchia zia che aveva dovuto tirarsi in casa, per non fare mormorare il prossimo, e non era più buona che a mangiare il pane a tradimento, aveva sturato una bottiglia per un'altra, e acchiappò il colèra bell'e buono; ma il nipote stesso, per non fare insospettir la gente, non aveva potuto amministrarle il contravveleno. - Dammi il contravveleno! dammi il contravveleno! - supplicava la vecchia, già nera come il carbone, senza aver riguardo al medico ed al notaio che erano lì presenti, e si guardavano in faccia imbarazzati. Il Reverendo, colla faccia tosta, quasi non fosse fatto suo, borbottava stringendosi nelle spalle:
- Non le date retta, che sta delirando -. Il contravveleno, se pur ce l'aveva, il re glielo aveva mandato sotto suggello di confessione, e non poteva darlo a nessuno. Il giudice in persona era andato a chiederglielo ginocchioni per sua moglie che moriva, e si era sentito rispondere dal Reverendo:

- Comandatemi della vita, amico caro; ma per cotesto negozio, proprio, non posso servirvi -.


Questa era storia che tutti la sapevano, e siccome sapevano che a furia di intrighi e d'abilità era arrivato ad essere l'amico intrinseco del re, del giudice e del capitan d'armi, che aveva la polizia come l'Intendente, e i suoi rapporti arrivavano a Napoli senza passar per le mani del Luogotenente, nessuno osava litigare con lui, e allorché gettava gli occhi su di un podere da vendere, o su di un lotto di terre comunali che si affittavano all'asta, gli stessi pezzi grossi del paese, se si arrischiavano a disputarglielo, lo facevano coi salamelecchi, e offrendogli una presa di tabacco.


Una volta, col barone istesso, durarono una mezza giornata a tira e molla. Il barone faceva l'amabile, e il Reverendo seduto in faccia a lui, col tabarro raccolto fra le gambe, ad ogni offerta d'aumento gli presentava la tabacchiera d'argento, sospirando:
- Che volete farci, signor barone. Qui è caduto l'asino, e tocca a noi tirarlo su -. Finché si pappò l'aggiudicazione, e il barone tirò su la presa, verde dalla bile.


Cotesto l'approvavano i villani, perché i cani grossi si fanno sempre la guerra fra di loro, se capita un osso buono, e ai poveretti non resta mai nulla da rosicare. Ma ciò che li faceva mormorare era che quel servo di Dio li smungesse peggio dell'anticristo, allorché avevano da spartire con lui, e non si faceva scrupolo di chiappare la roba del prossimo, perché gli arnesi della confessione li teneva in mano e se cascava in peccato mortale poteva darsi l'assoluzione da sè. - Tutto sta ad averci il prete in casa! - sospiravano. E i più facoltosi si levavano il pan di bocca per mandare il figliuolo al seminario.


- Quando uno si dà alla campagna, bisogna che ci si dia tutto, - diceva il Reverendo, onde scusarsi se non usava riguardi a nessuno. E la messa stessa lui non la celebrava altro che la domenica, quando non c'era altro da fare, che non era di quei pretucoli che corrono dietro al tre tarì della messa. Lui non ne aveva bisogno. Tanto che Monsignor Vescovo, nella visita pastorale, arrivando a casa sua, e trovandogli il breviario coperto di polvere, vi scrisse su col dito «deo gratias»! Ma il Reverendo aveva altro in testa che perdere il tempo a leggere il breviario, e se ne rideva del rimprovero di Monsignore. Se il breviario era coperto di polvere, i suoi buoi erano lucenti, le pecore lanute, e i seminati alti come un uomo, che i suoi mezzadri almeno se ne godevano la vista, e potevano fabbricarvi su dei bei castelli in aria, prima di fare i conti col padrone. I poveretti slargavano tanto di cuore. - Seminati che sono una magìa! Il Signore ci è passato di notte! Si vede che è roba di un servo di Dio e conviene lavorare per lui che ci ha in mano la messa e la benedizione! - In maggio, all'epoca in cui guardavano in cielo per scongiurare ogni nuvola che passava, sapevano che il padrone diceva la messa pella raccolta, e valeva più delle immagini dei santi, e dei pani benedetti per scacciare il malocchio e la malannata. Anzi il Reverendo non voleva che spargessero i pani benedetti pel seminato, perché non servono che ad attirare i passeri e gli altri uccelli nocivi. Delle immagini sante poi ne aveva le tasche piene, giacché ne pigliava quante ne voleva in sagrestia, di quelle buone, senza spendere un soldo, e le regalava ai suoi contadini.


Ma alla raccolta, giungeva a cavallo, insieme a suo fratello, il quale gli faceva da campiere, collo schioppo ad armacollo, e non si muoveva più, dormiva lì, nella malaria, per guardare ai suoi interessi, senza badare neanche a Cristo. Quei poveri diavoli, che nella bella stagione avevano dimenticato i giorni duri dell'inverno, rimanevano a bocca aperta sentendosi sciorinare la litania dei loro debiti. - Tanti rotoli di fave che tua moglie è venuta a prendere al tempo della neve. - Tanti fasci di sarmenti consegnati al tuo figliuolo. - Tanti tumoli di grano anticipati per le sementi - coi frutti - a tanto il mese. - Fa il conto -. Un conto imbrogliato. Nell'anno della carestia, che lo zio Carmenio ci aveva lasciato il sudore e la salute nelle chiuse del Reverendo, gli toccò di lasciarvi anche l'asino, alla messe, per saldare il debito, e se ne andava a mani vuote, bestemmiando delle parolacce da far tremare cielo e terra. Il Reverendo, che non era lì per confessare, lasciava dire, e si tirava l'asino nella stalla.


Dopo che era divenuto ricco aveva scoperto nella sua famiglia, la quale non aveva mai avuto pane da mangiare, certi diritti ad un beneficio grasso come un canonicato, e all'epoca dell'abolizione delle manimorte aveva chiesto lo svincolo e si era pappato il podere definitivamente. Solo gli seccava per quei denari che si dovevano pagare per lo svincolo, e dava del ladro di Governo il quale non rilascia 'gratisi la roba dei beneficii a chi tocca.


Su questa storia del Governo egli aveva dovuto inghiottir della bile assai, fin dal 1860, quando avevano fatto la rivoluzione, e gli era toccato nascondersi in una grotta come un topo, perché i villani, tutti quelli che avevano avuto delle quistioni con lui, volevano fargli la pelle. In seguito era venuta la litania delle tasse, che non finiva più di pagare, e il solo pensarci gli mutava in tossico il vino a tavola. Ora davano addosso al Santo Padre, e volevano spogliarlo del temporale. Ma quando il Papa mandò la scomunica per tutti coloro che acquistassero beni delle manimorte, il Reverendo sentì montarsi la mosca al naso, e borbottò:

- Che c'entra il Papa nella roba mia? Questo non ci ha a far nulla col temporale. - E seguitò a dir la santa messa meglio di prima.


I villani andavano ad ascoltare la sua messa, ma pensavano senza volere alle ladrerie del celebrante, e avevano delle distrazioni.


Le loro donne, mentre gli confessavano i peccati, non potevano fare a meno di spifferargli sul mostaccio:

- Padre, mi accuso di avere sparlato di voi che siete un servo di Dio, perché quet'inverno siamo rimasti senza fave e senza grano a causa vostra. - A causa mia! Che li faccio io il bel tempo o la malannata? Oppure devo possedere le terre perché voialtri ci seminiate e facciate i vostri interessi? Non ne avete coscienza, né timore di Dio? Perché ci venite allora a confessarvi? Questo è il diavolo che vi tenta per farvi perdere il sacramento della penitenza. Quando vi mettete a fare tutti quei figliuoli non ci pensate che son tante bocche che mangiano? Ve li ho fatti far io tutti quei figliuoli? Io mi son fatto prete per non averne -.


Però assolveva, come era obbligo suo; ma nondimeno nella testa di quella gente rozza restava qualche confusione fra il prete che alzava la mano a benedire in nome di Dio, e il padrone che arruffava i conti, e li mandava via dal podere col sacco vuoto e la falce sotto l'ascella.


- Non c'è che fare, non c'è che fare - borbottavano i poveretti rassegnati. - La brocca non ci vince contro il sasso, e col Reverendo non si può litigare, ché lui sa la legge! - Se la sapeva! Quand'erano davanti al giudice, coll'avvocato, egli chiudeva la bocca a tutti col dire:
- La legge è così e così -. Ed era sempre come giovava a lui. Nel buon tempo passato se ne rideva dei nemici, degli invidiosi. Avevano fatto un casa del diavolo, erano andati dal vescovo, gli avevano gettato in faccia la nipote, massaro Carmenio e la roba malacquistata, gli avevano fatto togliere la messa e la confessione. Ebbene? E poi? Egli non aveva bisogno del vescovo né di nessuno. Egli aveva il fatto suo ed era rispettato come quelli che in paese portano la battuta; egli era di casa della baronessa, e più facevano del chiasso intorno a lui, peggio era lo scandalo. I pezzi grossi non vanno toccati, nemmeno dal vescovo, e ci si fà di berretto, per prudenza, e per amor della pace. Ma dopo che era trionfata la eresia, colla rivoluzione, a che gli serviva tutto ciò? I villani che imparavano a leggere e a scrivere, e vi facevano il conto meglio di voi; i partiti che si disputavano il municipio, e si spartivano la cuccagna senza un riguardo al mondo; il primo pezzente che poteva ottenere il gratuito patrocinio, se aveva una quistione con voi, e vi faceva sostener da solo le spese del giudizio! Un sacerdote non contava più né presso il giudice , né presso il capitano d'armi; adesso non poteva nemmeno far imprigionare con una parolina, se gli mancavano di rispetto, e non era più buono che a dir messa, e confessare, come un servitore del pubblico. Il giudice aveva paura dei giornali, dell'opinione pubblica, di quel che avrebbero detto Caio e Sempronio, e trinciava giudizi come Salomone! Perfino la roba che si era acquistata col sudore della fronte gliela invidiavano, gli avevano fatto il malocchio e la iettatura; quel po' di grazia di Dio che mangiava a tavola, gli dava gran travaglio, la notte, mentre suo fratello, il quale faceva una vita dura, e mangiava pane e cipolla, digeriva meglio di uno struzzo, e sapeva che di lì a cent'anni, morto lui, sarebbe stato il suo erede, e si sarebbe trovato ricco senza muovere un dito. La mamma, poveretta, non era più buona a nulla, e campava per penare e far penare gli altri, inchiodata nel letto dalla paralisi, che bisognava servir lei piuttosto; e la nipote istessa, grassa, ben vestita, provvista di tutto, senza altro da fare che andare in chiesa, lo tormentava, quando le saltava in capo di essere in peccato mortale, quasi ei fosse di quegli scomunicati che avevano spodestato il Santo Padre, e gli aveva fatto levar la messa dal vescovo.


- Non c'è più religione, né giustizia, né nulla! - brontolava il Reverendo come diventava vecchio. - Adesso ciascuno vuol dir la sua. Chi non ha nulla vorrebbe chiapparvi il vostro. - Levati di lì, che mi ci metto io! - Chi non ha altro da fare viene a cercarvi le pulci in casa. I preti vorrebbero ridurli a sagrestani, dir messa e scopare la chiesa. La volontà di Dio non vogliono farla più, ecco cosi è!






Gli innamorati


Innamorati lo erano davvero. - Bruno Alessi voleva Nunziata; la ragazza non diceva di no; erano vicini di casa e dello stesso paese. Insomma parevano destinati, e la cosa si sarebbe fatta se non fossero stati quei maledetti interessi che guastano tutto.


Quando due passeri, o mettiamo anche due altre bestie del buon Dio, si cercano per fare il nido, forse che stanno a domandarsi:
- Tu cosa mi porti in dote, e tu cosa mi dài? - La Nunziata, cioè mastro Nunzio Marzà suo padre, doveva avere un bel gruzzolo, dopo quarant'anni che teneva merceria aperta, e quindi Alessi pretendeva cento onze insieme alla ragazza. - La gallina si pela dopo morta - ribatteva mastro Nunzio. - Io non intendo lasciarmi spogliare in vita. - La moglie va colla dote - picchiava Bruno Alessi. - Io non voglio maritarmi a credenza -.


Veramente questo lo faceva dire dai suoi vecchi, com'è naturale, e lui badava a scaldare i ferri colla giovane. Il diavolo è tentatore, e le donne hanno il giudizio corto. A poco a poco la povera Nunziata prese fuoco come un pugno di stoppa, e ci rimise il sonno e l'appetito.


- Bene, - disse mastro Nunzio. - T'insegnerò io il giudizio -.


E giù legnate da levare il pelo, se la sorprendeva alla finestra, o la vedeva fare altre sciocchezze. Cogli Alessi invece usava politica, e stavano insieme a tirare sul prezzo, senza troppa furia. Al giovanotto però quel negozio non andava a sangue, sia che ci avesse la fregola addosso, o perché le cose lunghe diventano serpi. Poi voleva mettere una bella calzoleria, e pensare agli interessi propri, invece di lavorare a bottega dal padre.


- Senti, - disse alla ragazza - Qui ci menano a spasso, per fare i loro comodi. Bisogna finirla -.


Giacché Marzà aveva un bel picchiare la figliuola, e sprangare usci e finestre. Il diavolo è anche sottile, e Bruno Alessi ne sapeva una più del diavolo. Fingeva di andare a vendere scarpe e stivali per le fiere, lì intorno, e poi, mentre mastro Nunzio dormiva tranquiuo fra due guanciali, veniva di notte a stuzzicargli la figliuola.


- Maria santissima! Cosa mi fate fare! - piagnucolava Nunziata col grembiule agli occhi.


- Se mi vuoi bene, te lo dirò io -.


Però la ragazza non voleva sentirla quella faccenda di spiccare il volo con lui, e dopo, quando il pasticcio era fatto, mastro Nunzio avrebbe dovuto adattarsi a mandarlo giù. Era una buona figliuola infine, dello stesso sangue dei Marzà, e stando dietro il banco aveva imparato cosa vuol dire negozio, e come vanno a finire certe cose. Ma soffia e soffia, Bruno, che non pensava ad altro, seppe scaldarle la testa, e farle perdere quel po' di senno che le restava ancora. La finestra era bassa, e rizzandosi sulla punta dei piedi egli le arrivava al collo. Allora, per parlarsi all'orecchio, perché non udisse mastro Nunzio che dormiva lì accanto, pigliavano fuoco tutt'e due, e la ragazza ci si squagliava come la neve. Lui le aveva mostrato anche un trincetto che portava addosso, e minacciava di fare una tragedia con quello.


- M'ucciderò sotto i tuoi occhi! Verrà tutto il paese a vedere il sangue! Allora sarai contenta! Allora vedrai se ti voglio bene sì o no! - E bisognava vedere che faccia! Nunziata a quell'uscita sbigottiva, e tornava a balbettare tutta tremante:

- Oh Madonna santa! cosa mi fate fare!...


- Bene. Quand'è così, vuol dire proprio che non mi ami. È meglio finirla!... - Per abbreviare, gnor padre che picchiava la ragazza tutto il giorno, l'innamorato che veniva a farle di notte le stesse scene di amore e di gelosia, Nunziata raccolse quattro stracci in un fagotto, e andò a raggiungere Bruno che l'aspettava nella viuzza.


- Però giuratemi che mi sposerete subito! - gli disse prima di tutto. - Giuratemi innanzi a Dio! - Bruno le giurò tutto quel che voleva, lì, su due piedi, al cospetto di Dio che vedeva e sentiva, lassù: una mano sul petto e l'altra che chiamava angeli e santi testimoni:
- Non lo sai che t'amo più della pupilla degli occhi miei? Non dobbiamo essere marito e moglie? - Poi volle portarle lui il fagotto. - Hai preso gli ori? - le chiese pure.


Essa non aveva preso gli ori, perche era tutta sottosopra. - Hai fatto una sciocchezza, - conchiuse Bruno. - Tuo padre te li metterà sul conto della dote -.


Mastro Nunzio il mattino trovando l'uscio aperto si mise a gridare al ladro. Papà Alessi, che passava di là a caso, in quel punto, lo tirò dentro pel braccio e gli disse:

- Non fare strepiti. Non facciamo ridere la gente. Vostra figlia è in casa di mia cugina Menica, rispettata e onorata come una regina -.


Il povero Marzà si era messo a sedere colle gambe rotte. Ma tosto si rimise. Compare Alessi gli offrì una presa, accostò una scranna lui pure, e infine intavolò il discorso.


- Bene. Ora che facciamo?

- Dite voi, - rispose Marzà asciutto asciutto. - Io lo so cosa devo fare.


- È una disgrazia, non dico di no. Gli altri rompono e tocca pagare a noi.


- Chi rompe paga, e chi ne ha ne spende -.


Compare Alessi era uomo navigato anche lui, e capì il latino.


- A me non importa infine, - conchiuse mettendosi colle spalle al muro.


- E a me neppure.


- Scusate, scusate. Si tratta di vostra figlia. È il sangue vostro.


- E voi, quando vi esce il sangue dal naso, che state a cercare dov'è andato a cadere? - Toccò a mastro Alessi stavolta di rimanere con tanto di naso e la bocca aperta.


- Allora dite voi. Come si fa?

- Si fa così, che la Nunziata è minorenne, e vostro figlio andrà in carcere.


- Ah! ah!... Va bene allora! Quand'è così vi saluto tanto! - Papà Alessi si alzò lentamente, e fece anche finta d'andarsene, come quando si capisce bene che il negozio non si combina. Pure, vedendo mastro Nunzio fermo come un macigno, con quella faccia tosta di negadebiti, non poté frenarsi dal rinfacciargli, stando sull'uscio:

- E vi terrete la figliuola... così?

- Non mi avete detto che è onorata come una regina? Ho quattro soldi. Le troverò bene un marito a modo mio.


- Ah! per quei quattro soldi! - esclamò l'altro infuriato. - Vendete vostra figlia per cento onze!... Sentite! Scusate! È sangue vostro, sì o no? Siete cristiano? Siete padre, o cosa siete?

- Ah, compare bello! E voi ve lo fate cavare il sangue per gli altri? - Mastro Alessi se ne andò davvero stavolta, e corse subito a far scappare Bruno prima che la giustizia venisse a cercarlo. Nunziata invece, che mangiava a ufo dalla cugina Menica, e neppure il curato aveva potuto persuadere Marzà a sborsare le cento onze, dovette tornare a casa mogia mogia, e sentirsi dire:

- Vedi se volevano te o il mio denaro? Hai capito adesso? - Intanto passavano i giorni, e Bruno, temendo di cadere nelle unghie della giustizia, andava pel mondo cercando fortuna, e riducendosi povero e pezzente. Mastro Nunzio, che era padre e cristiano alla fin fine, gli avrebbe pur dato la figliuola, ed anche un po' di roba. Ma cento onze di denaro, no, finche era vivo!

- E Bruno dal canto suo si ostinava invece:
- O colle cento onze, o niente -.


Però la Nunziata, piangendo giorno e notte, indusse il padre a discorrerne fra loro e Bruno, in famiglia, e ciascuno avrebbe dette le sue ragioni.


- Ma non sarà qualche tranello poi? - osservò Bruno, come la zia Menica andò a fargli l'imbasciata. - Posso fidarmi di quel birbante?

- Ti accompagno io, - tagliò corto la zia. - Mastro Nunzio è un galantuomo -.


La sera stessa, dopo chiusa la bottega, si riunirono nella merceria loro quattro, lei, Bruno e i Marzà, per dire ciascuno la sua ragione. Bruno stava zitto e grullo, mastro Nunzio guardava in terra. Nunziata versava il vino nei bicchieri, e toccò quindi a comare Menica parlare:

- Bisogna finirla. È una porcheria. Tutto il paese non discorre d'altro. Io non me ne vado di qui se prima non si conclude il matrimonio -.


Nunziata allora si mise a piangere. Bruno guardava ora lei e ora suo padre. La ragazza infine, vedendo che non diceva nulla, prese a sfogarsi:

- Ditelo voi stessa, comare Menica!... Dopo avermi lusingata per tanto tempo! Dopo tanti giuramenti! E quello che ho fatto per lui... che sarebbe meglio buttarmi nel pozzo, adesso!

- Io non mi tiro indietro, - borbottò lui. - Per me non manca.


- Dunque per chi manca? - conchiuse la zia Menica, guardando ora il padre ed ora la figlia.


Nessuno aprì più bocca, finché Bruno si alzò in piedi, e prese un bicchiere dal banco.


- Guardate! - disse. - Che questa grazia di Dio possa mutarsi in veleno se dico bugia! Della dote non me ne importa nulla. Quanto a me la sposerei anche senza camicia.


- Questo no, - interruppe la zia Menica. - Mastro Nunzio conosce il suo dovere.


- Bene. Dunque quello che dà lo dà a sua figlia. Voglio le 100 onze nel suo interesse. Ci ha lavorato anche lei, colla merceria, sì o no? - Qui Nunziata prese le sue parti, e disse che era vero. Ci aveva spesa tutta la bella gioventù dietro a quel banco, dacché era morta la buon'anima di sua madre. Se fosse stata ancora al mondo, quella, non avrebbe fatto penare la sua creatura per 100 onze di più o di meno. E lì a intenerirsi tutti, e buttarsi piangendo al collo di mastro Nunzio, lei, lo sposo e anche la zia Menica, sinché il babbo dopo aver pestato e ripestato che la gallina si pela dopo morta, che i denari hanno le ali, e quando Bruno Alessi avesse mangiato quelli della dote gli toccava poi a lui mantenere marito e moglie, pure si lasciò andare a promettere le 100 onze, purché ci fosse la sua brava cautela. Nunziata ballava e rideva, comare Menica baciava in terra, ma qui Bruno mostrò il malanimo, che le 100 onze le voleva in mano, perché - metterle alla Banca, no: se le portano via. - Comprare un pezzo di terra, neppure: non danno frutto. - Invece col contante in mano lui avrebbe messo un bel negozio.


- Il negozio è quello che volete fare con questa sciocca che vi crede e si lascia prendere alle vostre commedie! - interruppe nel bel mezzo il vecchio più arrabbiato di prima.


- No! - rispose Nunziata aprendo gli occhi a un tratto, e asciugandosi le lagrime. - No, che non mi lascio prendere! - E in tal modo sfumarono matrimonio ed amore. Bruno rinfacciò a Nunziata, prima d'andarsene:
- Così dicevate di buttarvi nel pozzo? - Lei, di rimando:
- Come vi siete ucciso voi col trincetto, tal quale -. Mastro Nunzio chiuse l'uscio, e la figliuola se ne andò a letto furiosa.


Se non fosse stata la vergogna di essersi lasciata cogliere in trappola da quel bel galantuomo, ed era difficile trovarne un altro, avrebbe voluto maritarsi subito subito, per dispetto, anche con uno di mezzo alla strada. Ma suo padre, coi suoi denari, le trovò invece Nino Badalone, un pezzo di marito che ne valeva due, e non aveva tante arie e tante pretese. Nunziata si fece pregare alquanto, per decenza, e poi disse di sì.


- Giacché piace a voi, sono contenta io pure -.


Nino Badalone era contento anche lui. Veniva alla merceria quasi ogni sera; portava qualche regaluccio, e faceva l'innamorato come e meglio di qualcun altro. Mentre Marzà serviva gli avventori, o schiacciava un pisolino dietro il banco, Nino soffiava all'orecchio della ragazza le stesse cose che le aveva dette Bruno:
- Bene mio! - Cuore mio! - E lei ci pigliava gusto egualmente, e la notte poi fra le coltri, diceva fra sé e sé: - È lo stesso, tal quale -.


Bruno invece, che era rimasto a bocca asciutta, pensava dal canto suo:
- Voglio vedere come va a finire! - Passava e ripassava per la stradetta, col garofano in bocca; si sgolava di notte a cantarle dietro l'uscio canzoni d'amore e di sdegno, e quando incontrava la Nunziata, alla messa, invece di farla arrossire, come pretendeva, e di confonderla colle sue occhiatacce, era lui piuttosto che restava minchione e doveva chinare il capo.


- Ma con quell'altro voglio vedermela davvero - brontolava poi sputando veleno. - Voglio mangiargli il fegato! Voglio berne il sangue -.


Di buoni amici ce n'è sempre a questo mondo; sicché cotesti sproloqui arrivarono all'orecchio di Badalone. Costui era stato soldato, e sapeva il fatto suo. - Bene, - rispose, - vedremo! Chi è buon cane mangia alla scodella -.


La domenica di carnevale dai Bozzo ci era un po' di festino. Bruno vi andò lui pure, colla fisarmonica, per svagarsi, ed anche perché sapeva che Mastro Nunzio vi avrebbe condotto la figliuola, e voleva vedere come andava a finire. Mentre dunque suonava la fisarmonica e faceva ballare gli amici, arrivò infatti mastro Nunzio, colla Nunziata in gala, e dietro Badalone gonfio come un tacchino.


Se Bruno Alessi in quel momento non fece uno sproposito e poté andare innanzi colla sonata, fu proprio un miracolo, ed anche per non lasciare in asso i ballerini. Per giunta Badalone prese subito la sposa a braccetto, senza dire né uno né due, e si mise a ballargli sotto il mostaccio - polche, valzeri, contradanze - Nunziata che si dimenava con bel garbo e gli faceva il visavì, e lui saltando come un puledro, tutto rosso e scalmanato. Il povero Bruno intanto gli toccava portare il tempo e inghiottire veleno.


Infine lasciò il posto a Zacco, che era lì pronto colla cornamusa, e volle fare quattro salti anche lui.


- Permettete, amico? - disse a Badalone, toccandosi pulitamente il berretto.


Quello screanzato invece lo squadrò prima ben bene, e poi rispose asciutto:

- Non permetto. Perché? - Gli disse anche quel «perché», che fa montare la mosca al naso!

Fortuna che Bruno Alessi era un galantuomo, e non voleva più averci a fare colla giustizia. Ma gli giurò in cuor suo:
- Ti farò becco, com'è vero Dio! -. E volle piantar subito ballo e ballerini. Non ci furono cristi.


Se ne vedono civette al mondo! Sfacciate come quella lì, che ridono a Cajo e a Tizio, e passano da una mano all'altra peggio dei cani di strada che fanno festa a tutti. Ma un tradimento simile Bruno non se lo aspettava, dopo tanto amore e tante pene, e tutto ciò che aveva fatto per l'ingrata! Questo voleva dirle, a quattr'occhi, appena la coglieva un momento sola, dovesse azzuffarsi poi con Badalone.


Infatti Nunziata se lo vide capitare in casa con quel proposito, il giorno dopo, mentre stava affacciata a veder le maschere. Era vestito da pulcinella, per non farsi scorgere, ma essa lo riconobbe tosto, che il cuore non è fatto di sasso, e voleva chiudergli l'uscio sul naso.


- Ah, così mi ricevete? - dissi egli. - Questa mi toccava?

- Bene, parlate, - rispose lei.


- Non m'importa di vostro padre. Non ho paura di nessun altro.


Voglio dirvi il fatto mio.


- Bene, dite, e finiamola subito -.


Bruno si era preparato il suo bel discorso, ma al vedersi trattare in quel modo non trovò più le parole. Bugiarda! Traditora! L'aveva venduto per 100 onze, come Gesù all'orto! E gli rideva sul muso anche! Allora, disperato, si strappò la maschera, e mostrò anche di frugarsi addosso per cercare il trincetto.


- Ah! Volete ammazzarvi un'altra volta? - rispose lei continuando a ridere.


In quel punto sopraggiunse Nino, colle mani in tasca, e quella sua andatura dinoccolata. Appena vide il Bruno, che lo seccava, infine, gli assestò una pedata sotto le reni, e questo fu il primo saluto.


- Bada che ha il trincetto addosso! - gridò la giovane spaventata.


Bruno si rivoltò come una furia. Voleva mangiargli il fegato.


Voleva berne il sangue. Ma poi se la diede a gambe, e Nino l'accompagnò ancora a pedate sino in fondo alla stradetta.





Un'altra inondazione


Mi rammento, nell'ultima eruzione dell'Etna, di avere assistito ad uno di quei semplici episodi che vi colpiscono più profondarnente della catastrofe istessa. Era lo spettacolo di un casolare, in fondo alla valle, che la lava stava per seppellire. Davanti al casolare, c'era un cortiletto, cinto da un muricciuolo, il quale aveva arrestato per poco la corrente, e le scorie gli si ammonticchiavano addosso adagio adagio; sembrava si gonfiassero, come un rettile immane irritato, e scoppiavano in larghi crepacci infuocati. Allora il casolare ne era improvvisamente rischiarato, e si vedevano le finestre spalancate, una tettoia accanto alla porta, e un albero nel cortiletto. L'immensa valle era tutta nera di scorie fumanti, che si squarciavano qua e là, e avvampavano nelle tenebre, e le scorie irrompevano da quei crepacci, con un acciottolio prolungato e sinistro, come di un'immensa distesa di tegole che rovinasse. Una delle finestre del casolare si era illuminata, e dava un aspetto di cosa viva a quella casuccia abbandonata in mezzo a tanta desolazione; ma ciò che colpiva maggiormente era quel cortiletto deserto e sgombro d'ogni cosa, senza un cane, né una gallina, né un pezzo di legno, quasi spazzato da un vento furioso. Di tanto in tanto vi si vedeva comparire un uomo, il quale sembrava nero nel riflesso ardente della lava, e piccin piccino per la grande distanza. Egli si affacciava sotto la tettoia, e guardava. Dal poggio dove eravamo, si scorgevano anche col cannocchiale altri uomini piccini e neri, che formicolavano sul tetto, e ne levavano le tegole, i travicelli, le imposte, tutto ciò che potevasi strappare di dosso alla povera casa, la quale pareva sempre più desolata a misura che la spogliavano nuda prima di abbandonarla. E intanto dal poggio gli spettatori, seccati dalla cenere che li accecava, e dalle emanazioni che toglievano il respiro, si impazientivano del lungo tempo che ci metteva la lava a soverchiare l'altezza del muricciuolo, e calcolavano, coll'orologio in mano, il tempo che ci avrebbe messo a circondare la casuccia. Tutt'a un tratto l'albero accanto alla porta avvampò come una fiaccola, e la lava si rovesciò nel cortile.


E nella immensa valle nera non si vide altro che il rosseggiare qua e là delle lave che irrompevano, accompagnate dall'acciottolio sinistro delle scorie che precipitavano. Alle volte, mentre la corrente infuocata si ammonticchiava a poco a poco per 50 metri d'altezza, non si udiva né si vedeva più nulla, tranne il fruscio soffocato della pioggia di cenere, che stampavasi come uno sterminato nuvolone nero sul pallido cielo di luna nuova, e le fiamme che si accendevano di tratto in tratto nella valle, e indicavano il corso della corrente di fuoco. Ah! quanti alberi se ne andavano in quelle fiamme! e quanti filari di vigne zappati, potati, accarezzati, guardati cogli occhi assorti nei castelli in aria della povera gente! e quante cannucce con le immagini di sant'Agata miracolosa, che non erano valse ad arrestare il fuoco!

e quante avemarie biascicate colle labbra tremanti!

E noi che correvamo ad assistere a quel triste spettacolo in brigate chiassose! e le strade della montagna che erano popolate di notte come alla vigilia di una festa, e i cocchieri che facevano scoppiettare allegramente le fruste perché non avevano né vigne né case, e la loro vigna era quella provvidenza dell'eruzione che avrebbe dovuto non finir più, se voleva Dio! e le bettole affollate e fumanti, e i campi lungo le siepi, e le storielle dettagliate del disastro che si raccontavano per renderne più piccante lo spettacolo a coloro che spendevano 20 lire per andarlo a vedere! - Quante ricchezze aveva ingoiate il fuoco, quanti campi aveva distrutto, quanto erano distanti i boschi del barone A. e quanto potevano valere i nocciuoleti del marchese B. minacciati dell'eruzione. - Insomma i particolari più desolanti, come il pepe della pietanza, che vi facevano sospirare dal piacere pensando che non ci avevate nemmeno un palmo di terra da quelle parti.


Un tale, il giorno prima, vi possedeva una vigna che gli fruttava 3000 lire all'anno, una ricchezza, sebbene non avesse altro, per sé e per la sua numerosa famiglia. Tutt'a un tratto vennero a dirgli che il fuoco si divorava la sua ricchezza, e lo lasciava povero e pazzo, come si dice. Egli accorse a cavallo dell'asino, e trovò il vignaiuolo affaccendato a levare le imposte del palmento, e le tegole del tetto, le doghe delle botti, tutto ciò che si poteva salvare, come avevano fatto quei del casolare. Il padrone, giungendo alla porta senz'uscio del palmento, dinanzi alla sua vigna che gli fumava e gli crepitava sotto gli occhi, filare per filare, domandò al vignaiuolo con la faccia bianca; - Perché avete levato le tegole e le imposte, e le doghe delle botti? - Per salvarle dal fuoco - rispose il contadino. - Il fuoco fra tre ore sarà qui. - Lasciate stare ogni cosa, - disse il padrone. - Io non ho più bisogno di palmento, né avrò più cosa metterci nelle botti.


Io non ho più nulla . - Egli non aveva nemmeno la zappa da camparsi la vita, come il suo vignaiuolo. Poi baciò il cancello della vigna, che ancora rimaneva in piedi, e se n'andò, tirandosi dietro l'asinello.


Io non ho assistito a quella scena, ma essa mi è rimasta stampata dinanzi agli occhi più nettamente del casolare che ho visto distruggere dalle lave. E quando mi avviene di sentire di qualche altra catastrofe, penso a quei poveretti che si sono voltati a guardare da lontano la vigna inondata e la casuccia distrutta, ed hanno detto; - Io non ho più cosa metterci nelle botti quest'anno, né nel granaio. Io non ho più nulla, - come quel tale che aveva baciato per l'ultima volta il cancello della sua vigna, e se n'era andato tirandosi dietro l'asinello.





In piazza della Scala


Pazienza l'estate! Le notti sono corte; non è freddo; fin dopo il tocco c'è ancora della gente che si fa scarrozzare a prendere il fresco sui Bastioni, e se calan le tendine, c'è da buscarsi una buona mancia. Si fanno quattro chiacchiere coi compagni per iscacciare il sonno, e i cavalli dormono col muso sulle zampe.


Quello è il vero carnevale! Ma quando arriva l'altro, l'è duro da rosicare per i poveri diavoli che stanno a cassetta ad aspettare una corsa di un franco, colle redini gelate in mano, bianchi di neve come la statua del barbone, che sta lì a guardare, in mezzo ai lampioni, coi suoi quattro figliuoletti d'attorno.


E' dicono che mette allegria la neve, quelli che escono dal Cova, col naso rosso, e quelle altre che vanno a scaldarsi al veglione della Scala, colle gambe nude. Accidenti! Almeno s'avesse il robone di marmo, come la statua! e i figliuoli di marmo anch'essi, che non mangiano!

Ma quelli di carne e d'ossa, se mangiano! e il cavallo, e il padrone di casa, e questo, e quest'altro! che al 31 dicembre, quando la gente va ad aspettare l'anno nuovo coi piedi sotto la tavola nelle trattorie, il Bigio tornava a imprecare:
- Mostro di un anno! Vattene in malora! Cinque lire sole non ho potuto metterle da parte -.


Prima i denari si spendevano allegramente all'osteria, dal liquorista lì vicino; e che belle scampagnate cogli amici, a Loreto e alla Cagnola; senza moglie, né figli, né pensieri. Ah! se non fosse stato per la Ghita che tirava su le gonnelle sugli zoccoletti, per far vedere le calze rosse, trottando lesta lesta in piazza della Scala! Delle calze che vi mangiavano gli occhi. E certa grazietta nel muovere i fianchi, che il Bigio ammiccava ogni volta, e le gridava dietro:
- Vettura? - Lei da prima si faceva rossa: ma poi ci tirava su un sorrisetto, e finì col prenderla davvero la vettura; e scarrozzando, il Bigio, voltato verso i cristalli, le spiattellava tante chiacchiere, tante, che una domenica la condusse al municipio, e pregò un camerata di tenergli d'occhio il cavallo, intanto che andava a sposare la Ghitina.


Adesso che la Ghitina si era fatta bolsa come il cavallo, lui vedeva trottare allo stesso modo la figliuola, cogli stivaletti alti e il cappellino a sghimbescio, sotto pretesto che imparava a far la modista, e sempre nelle ore in cui il caffè lì di faccia era pieno di fannulloni, che le dicevano cogli occhi tante cose sfacciate.


Bisognava aver pazienza, perché quello era il mestiere dell'Adelina; e la Ghita, ogni volta che il Bigio cercava di metterci il naso, gli spifferava il fatto suo, che le ragazze bisogna si cerchino fortuna; e se ella avesse avuto giudizio come l'Adelina, a quest'ora forse andrebbe in carrozza per conto suo, invece di tenerci il marito a buscarsi da vivere.


Tant'è, suo marito, quando vedeva passare l'Adele, dondolandosi come la mamma nel vestitino nero, sotto quelle occhiate che gridavano anch'esse:
- Vettura? - non poteva frenarsi di far schioccare la frusta, a rischio di tirarsi addosso il cappellone di guardia lì vicino.


Ma là! Bisognava masticare la briglia, che non s'era più puledri scapoli, e adattarsi al finimento che s'erano messi addosso, lui e la Ghita, la quale continuava a far figliuoli, che non pareva vero, e non si sapeva più come impiegarli. Il maggiore, nel treno militare, I reggimento, e sarebbe stato un bel pezzo di cocchiere.


L'altro, stalliere della società degli omnibus. L'ultimo aveva voluto fare lo stampatore, perché aveva visto i ragazzi della tipografia, lì nella contrada, comprar le mele cotte a colazione, col berrettino di carta in testa. E infine una manata di ragazzine cenciose, che l'Adelina non permetteva le andassero dietro, e si vergognava se le incontrava per la strada. Voleva andar sola, lei, per le strade; tanto che un bel giorno spiccò il volo, e non tornò più in via della Stella. Al Bigio che si disperava e voleva correre col suo legno chissà dove, la Ghita ripeteva:
- Che pretendi? L'Adelina era fatta per esser signora, cagna d'una miseria! - Lei si consolava colla portinaia lì sotto, scaldandosi al braciere, o dal liquorista, dove andava a comprare di soppiatto un bicchierino sotto il grembiule. Ma il Bigio aveva un bel fermarsi a tutte le osterie, ché quando era acceso vedeva la figliuola in ogni coppia misteriosa che gli faceva segno di fermarsi, e ordinava soltanto - Gira! - lei voltandosi dall'altra parte, e tenendo il manicotto sul viso, - e quando incontrava un legno sui Bastioni, lemme lemme, colle tendine calate, e quando al veglione smontava una ragazza, che di nascosto non aveva altro che il viso, egli brontolava, qualunque fosse la mancia, e si guastava cogli avventori.


Cagna miseria! come diceva la Ghita. Denari! tutto sta nei denari a questo mondo! Quelli che scarrozzavano colle tendine chiuse, quelli che facevano la posta alle ragazze dinanzi al caffè, quelli che si fregavan le mani, col naso rosso, uscendo dal Cova! c'era gente che spendeva cento lire, e più, al veglione, o al teatro; e delle signore che per coprirsi le spalle nude avevano bisogno di una pelliccia di mille lire, gli era stato detto; e quella fila di carrozze scintillanti che aspettavano, lì contro il Marino, col tintinnio superbo dei morsi e dei freni d'acciaio, e gli staffieri accanto che vi guardavano dall'alto in basso, quasi ci avessero avuto il freno anch'essi. Il suo ragazzo medesimo, quello dell'Anonima, allorché gli facevano fare il servizio delle vetture di rimessa, dopo che si era insaccate le mani sudice nei guanti di cotone, se le teneva sulle cosce al pari della statua dal robone, e non avrebbe guardato in faccia suo padre che l'aveva fatto.


Piuttosto preferiva l'altro suo figliuolo, quello che aiutava a stampare il giornale. Il Bigio spendeva un soldo per leggere a cassetta, fra una corsa e l'altra, tutte le ingiustizie e le birbonate che ci sono al mondo, e sfogarsi colle stampate.


Aveva ragione il giornale. Bisognava finirla colle ingiustizie e le birbonate di questo mondo! Tutti eguali come Dio ci ha fatti.


Non mantelli da mille lire, né ragazze che scappano per cercar fortuna, né denari per comperarle, né carrozze che costano tante migliaia di lire, né omnibus, né tramvai, che levano il pane di bocca alla povera gente. Se ci hanno a essere delle vetture devono lasciarsi soltanto quelle che fanno il mestiere, in piazza della Scala, e levar di mezzo anche quella del n. 26, che trova sempre il modo di mettersi in capofila.


Il Bigio la sapeva lunga, a furia di leggere il giornale. In piazza della Scala teneva cattedra, e chiacchierava come un predicatore in mezzo ai camerati, tutta notte, l'estate, vociando e rincorrendosi fra le ruote delle vetture per passare il tempo, e di tanto in tanto davano una capatina dal liquorista che aveva tutta la sua bottega lì nella cesta, sulla panca della piazza. L'è un divertimento a stare in crocchio a quell'ora, al fresco, e di tanto in tanto vi pigliano anche per qualche corsa. Il posto è buono, c'è lì vicino la Galleria, due teatri, sette caffè, e se fanno una dimostrazione a Milano, non può mancare di passare di là, colla banda in testa. Ma in inverno e' s'ha tutt'altra voglia!

Le ore non iscorrono mai, in quella piazza bianca che sembra un camposanto, con quei lumi solitari attorno a statue fredde anch'esse. Allora vengono altri pensieri in mente - e le scuderie dei signori dove non c'è freddo, e l'Adele che ha trovato da stare al caldo. - Anche colui che predica di giorno l'eguaglianza nel giornale, a quell'ora dorme tranquillamente, o se ne torna dal teatro, col naso dentro la pelliccia.


Il caffè Martini sta aperto sin tardi, illuminato a giorno che par si debba scaldarsi soltanto a passar vicino ai vetri delle porte, tutti appannati dal gran freddo che è di fuori; così quelli che ci fanno tardi bevendo non son visti da nessuno, e se un povero diavolo invece piglia una sbornia per le strade, tutti gli corrono dietro a dargli la baia. Di facciata le finestre del club sono aperte anch'esse sino all'alba. Lì c'è dei signori che non sanno cosa fare del loro tempo e del loro denaro. E allorché sono stanchi di giuocare fanno suonare il fischietto, e se ne vanno a casa in legno, spendendo solo una lira. Ah! se fosse a cassetta quella povera donna che sta l'intera notte sotto l'arco della galleria, per vendere del caffè a due soldi la tazza, e sapesse che porta delle migliaia di lire, vinte al giuoco in due ore, nel paletò di un signore mezzo addormentato, passando lungo il Naviglio, di notte, al buio!...


O quegli altri poveri diavoli che fingono di spassarsi andando su e giù per la galleria deserta, col vento che vi soffia gelato da ogni parte, aspettando che il custode vòlti il capo, o finga di chiudere gli occhi, per sdraiarsi nel vano di una porta, raggomitolati in un soprabito cencioso.


Questi qui non isbraitano, non stampano giornali, non si mettono in prima fila nelle dimostrazioni. Le dimostrazioni gli altri, alla fin fine, le fanno a piedi, senza spendere un soldo di carrozza.


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