Ottava parte
Indice




Gioganni Verga - Novelle Rusticane
Ultima parte




Le storie del castello di Trezza


PRIMA


La signora Matilde era seduta sul parapetto smantellato, colle spalle appoggiate all'edera della torre, spingendo lo sguardo pensoso nell'abisso nero e impenetrabile; suo marito, col sigaro in bocca, le mani nelle tasche, lo sguardo vagabondo dietro le azzurrine spirali del fumo, ascoltava con aria annoiata; Luciano, in piedi accanto alla signora, sembrava cercasse leggere quali pensieri si riflettessero in quegli occhi impenetrabili come l'abisso che contemplavano. Gli altri della brigata erano sparsi qua e là per la spianata ingombra di sassi e di rovi, ciarlando, ridendo, motteggiando; il mare andavasi facendo di un azzurro livido, increspato lievemente, e seminato di fiocchi di spuma. Il sole tramontava dietro un mucchio di nuvole fantastiche, e l'ombra del castello si allungava melanconica e gigantesca sugli scogli.


- Era qui? - domandò ad un tratto la signora Matilde, levando bruscamente il capo.


- Proprio qui -.


Ella volse attorno uno sguardo lungo e pensieroso. Poscia domandò con uno scoppio di risa vive, motteggiatrici:

- Come lo sa?

- Ricostruisca coll'immaginazione le vòlte di queste arcate, alte, oscure, in cui luccicano gli avanzi delle dorature, quel camino immenso, affumicato, sormontato da quello stemma geloso che non si macchiava senza pagare col sangue; quell'alcova profonda come un antro, tappezzata a foschi colori, colla spada appesa al capezzale di quel signore che non l'ha tirata mai invano dal fodero, il quale dorme sul chi vive, coll'orecchio teso, come un brigante - che ha il suo onore al di sopra del suo Dio, e la sua donna al disotto del suo cavallo di battaglia:
- cotesta donna, debole, timida, sola, tremante al fiero cipiglio del suo signore e padrone, ripudiata dalla sua famiglia il giorno che le fu affidato l'onore ombroso e implacabile di un altro nome; - dietro quell'alcova, separato soltanto da una sottile parete, sotto un'asse traditrice, quel trabocchetto che oggi mostra senza ipocrisia la sua gola spalancata - il carnaio di quel mastino bruno, membruto, baffuto, che russa fra la sua donna e la sua spada; - il lume della lampada notturna che guizza sulle immense pareti, e vi disegna fantasmi e paure; il vento che urla come uno spirito maligno nella gola del camino, e scuote rabbiosamente le imposte tarlate; e di tanto in tanto, dietro quella parete, dalla profondità di quel trabocchetto attorno a cui il mare muggisce un gemito soffocato dall'abisso, delirante di spasimo, un gemito che fa drizzare la donna sul guanciale, coi capelli irti di terrore, molli del sudore di un'angoscia più terribile di quella dell'uomo che agonizza nel fondo del trabocchetto, e, fuori di sé, le fa volgere uno sguardo smarrito, quasi pazzo, su quel marito che non ode e russa -.


La signora Matilde ascoltava in silenzio, cogli occhi fissi, intenti, luccicanti. Non disse - È vero! - ma chinò il capo. Il marito si strinse nelle spalle e si alzò per andarsene. Le ombre sorgevano da tutte le profondità delle rovine e del precipizio.


- Se tutto ciò è vero, - ella disse con voce breve; - si è accaduto così come ella dice, essi debbono essersi appoggiati qui, a questi avanzi di davanzale, a guardare il mare, come noi adesso... - ed ella vi posò la mano febbrile - qui -.


Ei chinò lo sguardo sulla mano, poi guardò il mare, poi la mano di nuovo. Ella non si muoveva, non diceva motto, guardava lontano. - Andiamo, - disse a un tratto, - la leggenda è interessante, ma mio marito a quest'ora deve preferire la campana del desinare. Andiamo -.


Il giovane le offrì il braccio, ed ella vi si appoggiò, rialzando i lembi del vestito, saltando leggermente fra i sassi e le rovine.


Passando presso uno stipite sbocconcellato, osservò che c'erano ancora attaccati gli avanzi degli stucchi.


- Se potessero raccontare anche questi! - disse ridendo.


- Direbbero che allo stesso posto dove si è posata la sua mano, ci si è aggrappata la mano convulsa della baronessa, la quale tendeva l'orecchio, ansiosa, verso quell'andito dove non si udiva più il rumore dei passi di lui, né una voce, nè un gemito, ma risuonavano invece gli sproni sanguinosi del barone -.


La signora si tirò indietro vivamente, come se avesse toccato del fuoco; poi vi posò di nuovo la mano, risoluta, nervosa, increspata; sembrava avida d'emozione; avea sulle labbra uno strano sorriso, le guance accese e gli occhi brillanti.


- Vede! - disse. - Non si ode più nulla!

- Alla buon'ora! - esclamò il signor Giordano; - dunque possiamo andare -.


La moglie gli rivolse uno sguardo distratto, e soggiunse:

- Scusami, sai! - Il raggio di sole prima di tramontare si insinuò per un crepaccio a fior d'acqua, e illuminò improvvisamente il fondo di quella specie di pozzo che era stato il trabocchetto, le punte aguzze delle nere pareti, i ciottoli bianchi che spiccavano sul muschio e l'umidità del fondo, e i licheni rachitici che l'autunno imporporava. Il sorriso era sparito dal viso della signora spensierata, e volgendosi al marito, timida, carezzevole, imbarazzata:

- Vieni? - gli disse.


- Bada, - rispose il signor Giordano col suo ironico sorriso; - ci vedrai le ossa di quel bel cavaliere, e farai brutti sogni stanotte -.


Ella non rispose, non si mosse, stava chinata sulla buca; appoggiandosi ai sassi che la circondavano; infine, con voce sorda:

- In fatti... c'è qualcosa di bianco, laggiù in fondo... - E senza attendere risposta:

- Se quest'uomo è caduto qui, ha dovuto afferrarsi per istinto a quella punta di scoglio... vedete? si direbbe che c'è ancora del sangue -.


Suo marito vi buttò il sigaro spento, e volse le spalle; ella rabbrividì, come se avesse visto profanare una tomba, si fece rossa, e si rizzò per andarsene. Era una graziosa bruna, palliduccia, delicata, nervosa, con grandi e begli occhi neri e profondi; il piede le sdrucciolò un istante sul sasso mal fermo, vacillò, e dovette afferrarsi alla mano di Luciano.


- Grazie! - gli disse con un sorriso intraducibile. - Si direbbe che l'abisso mi chiama -.



SECONDA


Il pranzo era stato eccellenle; non per nulla il signor Giordano preferiva la campana del desinare alle leggende del Castello.


Verso le undici alla villa si pestava sul piano, si saltava nel salotto e si giuocava a carte nelle altre stanze. La signora Matilde era andata a prendere una boccata d'aria in giardino, e si era dimenticata di una polca che aveva promessa al signor Luciano, il quale la cercava da mezz'ora.


- Alfine! - le disse scorgendola. - E la nostra polca?

- Ci tiene proprio?

- Molto.


- Se la lasciassimo lì?

- Povera polca!

- Francamente, sa... Ella racconta così bene certe storie, che non l'avrei creduto un ballerino cotanto arrabbiato...


- Ci crede dunque alle storie?

- Ma... secondo il quarto d'ora -.


Il silenzio era profondo; il vento cacciava le nuvole rapidamente, e di tanto in tanto faceva stormire gli alberi del giardino; il cielo era inargentato a strappi; le ombre sembravano inseguirsi sulla terra illuminata dalla luna, e il mormorio del mare e quel sussurrio delle foglie, sommesso, ad intervalli, a quell'ora aveano un non so che di misterioso. La signora Matilde volse gli occhi qua e là, in aria distratta, e li posò sulla mole nera e gigantesca del castello che disegnavasi con profili fantastici su quel fondo cangiante ad ogni momento. La luce e le ombre si alternavano rapidamente sulle rovine, e un arbusto che avea messo radici sul più alto rivellino, agitavasi di tanto in tanto, come un grottesco fantasma che si inchinasse verso l'abisso.


- Vede? - dissi ella con quel sorriso incerto e colla voce mal ferma. - C'è qualche cosa che vive e si agita lassù!

- Gli spettri della leggenda.


- Chissà!

- Cotesto è il quarto d'ora delle storie...


- Oppure...


- Oppure cosa?

- Chissà... Cosa fa mio marito?

- Giuoca a tresette.


- E la signora Olani?

- Sta a guardare.


- Ah!...


- Mi racconti la sua storia... - riprese da lì a poco, con singolare vivacità - se non le rincresce per la sua polca -.


La storia che Luciano raccontò era strana davvero!

La seconda moglie del barone d'Arvelo era una Monforte, nobile come il re e povera come Giobbe, forte come un uomo d'arme e tagliata in modo da rispondere per le rime alla galanteria un po' manesca di don Garzia, e da promettergli una nidiata di d'Arvelo, numerosi come le uova che avrebbe potuto covare la chioccia più massaia di Trezza. Prima delle nozze, le avevano detto degli spiriti che si sentivano nel Castello, e che la notte era un gran tramestìo pei corridoi e per le sale, e si trovavano usci aperti e finestre spalancate, senza sapere come né da chi - usci e finestre che erano stati ben chiusi il giorno innanzi - che si udivano gemiti dell'altro mondo, e scrosci di risa da far venire le pelle d'oca al più ardito scampaforche che avesse tenuto alabarda e vestito arnese. Donna Isabella avea risposto che, fra lei e un marito come, al vedere, prometteva esserlo don Garzia, ella non avrebbe avuto paura di tutte le streghe di Spagna e di Sicilia, né di tutti i diavoli dell'inferno. Ed era donna da tener parola.


La prima volta che si svegliò nel letto dove avea dormito l'ultima notte la povera donna Violante, mentre Grazia, la cameriera della prima moglie del barone, le recava il cioccolatte e apriva le finestre, ancora mezzo addormentata, domandò svogliatamente:

- E così, come va che gli spiriti non hanno ballato il trescone di benvenuto alla nuova castellana?

- Non si e sentito stanotte?... - rispose la povera Grazia, che anche a parlare ne avea una gran paura.


- Sì, ho udito il russare di don Garzia; e ti so dire che russa come dieci guardie vallone.


- Vuol dire che il cappellano ha benedetto la camera meglio delle altre volte.


- Ah! sarà così, oppure che faccio paura al diavolo e agli spiriti.


- O che sarà per domani.


- Eh! hanno dunque il loro cerimoniale, messeri gli spiriti, come nostro signore il re? Racconta dunque!

- Io non so nulla, madonna.


- Chi sa dunque questa storia?

- Mamma Lucia, Brigida, Maso il cuoco, Anselmo ed il Rosso, i due valletti di messere il barone, e messer Bruno, il capocaccia.


- E cosa hanno visto costoro?

- Nulla.


- Nulla! Cosa hanno udito dunque?

- Hanno udito ogni sorta di cose, che Dio ce ne liberi!

- E da quando si sono udite di queste cose che Dio ce ne liberi?

- Dacché è morta la povera donna Violante, la prima moglie di messere.


- Qui?

- Proprio qui, in questo lato del castello; ma dalla cima dei merli sino in fondo alle cucine, di cui le finestre danno sulla corte -.


La baronessa si mise a ridere, e la sera narrò al marito quel che le era stato detto. Don Garzia, invece di riderne anche esso, montò in una tal collera che mai la maggiore, e incominciò a bestemmiar Dio e i santi come donna Isabella non avea visto né udito fare dagli staffieri più staffieri che fossero a casa de' suoi fratelli, e a minacciare che se avesse saputo chi si permetteva di spargere cotali fandonie, l'avrebbe fatto saltare dal più alto rivellino del castello. La baronessa fu estremamente sorpresa che quel pezzo di uomo, il quale non doveva aver paura nemmen del diavolo, avesse dato tanto peso a delle sciocche storielle, e in cuor suo ne fu contenta, ché si sentiva più degna del marito di portare i calzoni, e di far la castellana come andava fatto.


- Dormite in santa pace, madonna, - le disse don Garzia, - ché qui, nel castello e fuori, pel giro di dieci leghe, sin dove arriva il mio buon diritto e la mia buona spada, non c'é a temere altro che la mia collera -.


Però la baronessa, sia che le parole del marito l'avessero colpita, sia che delle sciocchezze udite le fosse rimasta qualcosa in mente, si svegliò di soprassalto verso la mezzanotte, credendo d'avere udito, o d'aver sognato, un rumore indistinto, non molto lontano, proprio dietro la parete dell'alcova. Stette in ascolto con un po' di batticuore; ma non si udiva più nulla, la lampada notturna ardeva ancora, e il barone russava della meglio. Ella non ardì svegliarlo, ma non poté ripigliar sonno. Il giorno dopo la sua donna la trovò pallida e accigliata, e mentre la pettinava dinanzi allo specchio, la baronessa, coi piedi sugli alari e bene avvolta nella sua veste da camera di broccato, le domandò, dopo avere esitato alquanto:

- Orsù, dimmi tutto quel che sai degli spiriti del castello.


- Io non so altro che quel che ne ho udito raccontare dal Rosso e da Brigida. Volete che vi chiami Brigida?

- No! - rispose con vivacità donna Isabella. - Anzi non dire ad anima viva che io te n'abbia parlato... Raccontami quel che t'hanno detto Brigida e il Rosso.


- Brigida, quando dormiva nella stanzuccia accanto al corridoio qui vicino, udiva tutte le notti, poco prima o poco dopo dei dodici colpi della campana grossa, aprire la finestra che dà sul ballatoio, e la porta del corridoio. La prima volta che Brigida udì quel rumore fu la seconda domenica dopo Pasqua, la ragazza avea avuto la febbre e non poteva dormire; l'indomani tutti coloro ai quali raccontò il fatto credettero che fosse stato inganno della febbre; ma la poverina a misura che il giorno tramontava aveva una gran paura, e cominciò a parlare in tal modo del gran via vai della notte, che tutti credettero fosse delirante, e mamma Lucia rimase a dormire con lei. L'indomani anche mamma Lucia disse che in quella camera non avrebbe voluto passarci un'altra notte per tutto l'oro del mondo. Allora anche coloro i quali si erano mostrati più increduli cominciarono ad informarsi e del come e del quando, e Maso raccontò quello che non avea voluto dire per timore di farsi dar la baia dai più coraggiosi. Da più di un mese avea udito rumore anche nel tinello, e si era accorto che gli spiriti facevano man bassa sulla credenza. A poco a poco raccontò pure quel che aveva visto.


- Visto?

- Si, madonna; sospettando che alcuno dei guatteri gli giocasse quel tiro, si appostò nell'andito, dietro il tinello, col suo gran coltellaccio alla cintola, e attese la mezzanotte, ora in cui solevasi udire il rumore. Quando tutt'ad un tratto - non si udiva ronzare nemmeno una mosca - si vede comparir dinanzi un gran fantasma bianco, il quale gli arriva adosso senza dire né ahi nè ohi, e gli passa rasente senza fare altro rumore di quel che possa fare un topo che va a caccia del formaggio vecchio. Il povero cuoco non volle saperne altro, e fu a un pelo di buscarne una bella e buona malattia.


- Ah! - disse la baronessa ridendo. - E cosa fece in seguito?

- Non fece nulla, fece acqua in bocca, andò a confessarsi, a comunicarsi, ed ogni sera, prima di mettersi in letto, non mancava di recitare le sue orazioni, e di raccomandarsi ben bene a tutte le anime del purgatorio che sogliono gironzare la notte, in busca di 'requiem' e di suffragi.


- Giacché sono degli spiriti i quali rubano in tinello come dei gatti affamati o dei guatteri ladri, se fossi stata messer Maso, invece d'infilar paternostri, mi sarei raccomandata alla mia miglior lama, onde cercare di scoprire chi fosse il gaglioffo che si permetteva di scambiar le parti coi fantasmi.


- Oh madonna, la stessa cosa disse il Rosso il quale è un pezzo di giovanotto che il diavolo istesso, che è il diavolo, non gli farebbe paura; e si mise a rider forte, e gli disse bastargli l'animo di prendere lo spirito, il fantasma, il diavolo stesso per le corna, e fargli vomitare tutto il ben di Dio di cui dicevasi si desse una buona satolla in cucina; mai non l'avesse fatto! La notte seguente si apposta anche lui nel corridoio, come avea fatto il cuoco, colla sua brava partigiana in mano, ed aspetta un'ora, due, tre. Infine comincia a credere che Maso si sia burlato di lui, o che il vino gli abbia fatto dire una burletta, e comincia ad addormentarsi, così seduto sulla panca e colle spalle al muro.


Quand'ecco tutt'a un tratto, tra veglia e sonno, si vede dinanzi una figura bianca, la quale toccava il tetto col capo, e stava ritta dinanzi a lui, senza muoversi, senza che avesse fatto il minimo rumore nel venire, senza che si sapesse da dove fosse venuta; un po' di barlume veniva dalla lampada posta nella sala delle guardie, dal vano dell'arco al disopra della parete, e il Rosso giura d'aver visto i due occhi che il fantasma fissava su di lui, lucenti come quelli di un gatto soriano. Il Rosso, o non fosse ancora ben sveglio, o provasse un po' di paura a quella sùbita apparizione, senza dire nè una nè due, mise mano alla sua partigiana e menò tal colpo da spaccare in due un toro, fosse stato di bronzo; ma la spada gli si ruppe in mano, così come fosse stata di vetro, o avesse urtato contro il muro; si vide un fuoco d'artifizio di faville, a guisa dei razzi che si sparano per la festa della Madonna dell'Ognina, e il fantasma scomparve, nè più nè meno di come fa un soffio di vento, lasciando il Rosso atterrito, col suo troncone di spada in mano, e talmente pallido da far paura a chi lo vide per il primo, e d'allora in poi, invece di chiamarlo il Rosso, gli dicono il Bianco -.


La baronessa rideva ancora in aria d'incredulità; ma le sue ciglia si corrugavano di tanto in tanto, e pur tenendo gli occhi fissi nello specchio, non avea badato né al come Grazia la stesse pettinando, né al come le avesse increspato i cannoncini della sua gorgierina ricamata. O che la convinzione della cameriera fosse talmente sincera da esser comunicativa, o che il sogno della notte avesse fatto una potente impressione su di lei, pensava più che non volesse alla notte che doveva passare un'altra volta in quella medesima alcova.


- E cosa si dice nel castello di coteste apparizioni? - domandò dopo un silenzio di qualche durata.


- Madonna...


- Parla!

- Madonna... si dicono delle sciocchezze...


- Raccontamele.


- Messere il barone andrebbe su tutte le furie se lo sapesse.


- Tanto meglio! raccontamele.


- Madonna... io sono una povera fanciulla... Sono un'ignorante...


Avrò parlato senza sapere quel che mi dicessi... Messere il barone mi butterebbe dalla finestra più facilmente che io non butti via questo pettine che non serve più. Per carità, madonna, non vogliate espormi alla collera di messere!

- Preferiresti esporti alla mia? - esclamò la baronessa aggrottando le ciglia.


- Ahimè!... Madonna!

- Orsù, spicciati; voglio saper tutto quel che si dice, ti ripeto, e bada che se la collera del barone è pericolosa, la mia non ischerza.


- Si dice che sia l'anima della povera donna Violante, la prima moglie del barone, - rispose Grazia messa alle strette, e tutta tremante.


- Come è morta donna Violante?

- Si è buttata in mare.


- Lei?

- Proprio lei, dal ballatoio mezzo rovinato che gira dinanzi alle finestre del corridoio grande, sugli scogli che stanno laggiù; in fondo al precipizio fu trovato il suo velo bianco... Era la notte del secondo giovedì dopo Pasqua.


- E perché si è uccisa?

- Chi lo sa? Messere dormiva tranquillamente accanto a lei, fu svegliato da un gran grido, non se la trovò più al fianco, e prima che fosse ben sveglio vide una figura bianca la quale fuggiva. Si udì un gran baccano pel castello, tutti furono in piedi in men che non si dica un''avemaria', si trovarono gli usci e le finestre del gran corridoio spalancati, e il barone che correva sul ballatoio come un gatto inferocito; se non era il capocaccia, il quale l'afferrò a tempo, il barone sarebbe caduto dal parapetto rovinato, nel punto dove comincia la scala per la torretta di guardia, di cui non rimangono altro che le testate degli scalini.


Il fantasma era scomparso giusto in quel luogo -.


La baronessa si era fatta pensierosa.


- È strano! - mormorò.


- Della povera signora non rimase né si vide altro che quel velo; nella cappella del castello e nella chiesa del villaggio furono dette delle messe per tre giorni, in suffragio della morta, e una gran folla assisté ginocchioni ai funerali, ché tutti le volevano un ben dell'anima per le gran limosine che faceva quand'era in vita; però, sebbene messere avesse dato ordine che le esequie fossero quali si convenivano a così ricca e potente signora, e la bara, colle armi della famiglia ricamate sulle quattro punte della coltre, stesse tre dì e tre notti nella cappella, con più di quaranta ceri accesi continuamente, e lo stendardo grande ai piedi dell'altare, e drappelloni e scudi intorno che mai non si vide pompa più grande, il barone partì immediatamente, né si vide mai più al castello prima d'ora.


- Meno male! - mormorò donna Isabella. - Don Garzia non mi ha detto nulla di tutto ciò, ma è bene che io lo sappia.


- Alcuni pescatori poi che erano andati sul mare assai prima degli altri, raccontano d'aver visto l'anima della baronessa, tutta vestita di bianco, come una santa che ella era, sulla porta della guardiola lassù, e passeggiare tranquillamente su e giù per la scala rovinata, ove un gabbiano avrebbe paura ad appollaiarsi, quasi stesse camminando su di un bel tappeto turco, e nella miglior sala del castello.


- Ah! - esclamò la baronessa; e non disse altro, si alzò e andò a mettersi alla finestra.


Il giorno era tiepido e bello, e il sole festante che entrava dall'altra finestra sembrava rallegrasse la tetra camera; ma donna Isabella non se ne avvedeva, sembrava meditabonda, e voltandosi a un tratto verso la Grazia:

- Mostrami dov'è caduta donna Violante - le disse.


- Colà in quel punto dove il muro è rotto e cominciava la scala per la guardiola della sentinella, quando vi si metteva una sentinella.


- E perché non ci si mette più adesso? - domandò la baronessa con un singolare interesse.


- Bisognerebbe aver le ali per arrampicarsi lassù; adesso che la scala è rovinata il più ardito manovale non metterebbe i piedi su quel che rimane degli scalini.


- Ah, è vero!... - E rimase contemplando lungamente la torricciuola, la quale isolata com'era sembrava attaccarsi, paurosa dell'abisso che spalancavasi al di sotto, alla cortina massiccia, e gli avanzi della scalinata, cadenti, smantellati, senza parapetto, sospesi in aria a quattrocento piedi dal precipizio sembravano un addentellato per qualche costruzione fantastica.


- Infatti, - mormorò come parlando fra di sé, - sarebbe impossibile; c'è da averne il capogiro soltanto a guardare -.


Si tirò indietro bruscamente, e chiuse la finestra.


Grazia, vedendo la sua beffarda padrona così accigliata, e accorgendosi che la sua storia avea fatto tale inattesa impressione su di lei, sentiva una tale paura come se avesse dovuto passare la notte nella camera di Brigida.


- Ahimè! madonna, io ho detto tutto per obbedirvi e senza pensare che ci va della mia vita se lo risapesse il barone. Abbiate pietà di me, madonna!

- Non temere, - rispose donna lsabella con un singolare sorriso; - coteste cose, vere o false, non si raccontano al mio signore e marito. Ma dimmi anche quel che si dice del motivo che abbia spinto donna Violante ad uccidersi; poiché un motivo qualunque ci sarà stato; qualcosa si dira, a torto o a ragione, di'.


- Giuro per le cinque piaghe di Nostro Signore e per la santa giornata di venerdì che è oggi, che non si dice nulla, o almeno che non so nulla. Da principio, quando si è incominciato a sentire dei gemiti nelle notti di temporale, ed anche tutte le notti dal sabato alla domenica, e tutte le volte che fa la luna, o che qualche disgrazia deve avvenire nel castello o nei dintorni, si credeva che la baronessa fosse morta in peccato mortale, e perciò la sua anima chiedesse aiuto dall'altro mondo, mentre i demoni l'attanagliavano; ma poi Beppe, il pescatore, raccontò la visione che gli apparve sull'alto della guardiola, e alcuni giorni dopo quel bravo vecchio di suo zio Gaspare la ebbe confermata, e si ebbe la certezza che l'anima benedetta della baronessa era in luogo di salvazione, e si pensò invece a quella di Corrado il paggio, poveretto!

- Come era morto il paggio? si era ucciso anche lui?

- Non era morto, era scomparso.


- Quando?

- Due giorni prima della morte di donna Violante.


- E chi l'aveva fatto sparire?

- Chi!... - balbettò la ragazza facendosi pallida. - Ma chi può far sparire un'anima del Signore e portarsela a casa sua, come un lupo ruba una pecora? - Messer demonio.


- Ah! era dunque un gran peccatore cotesto messer Corrado!

- No, madonna, era il giovane più bello e gentile che sia stato al castello -.


La baronessa si mise a ridere.


- Eh! mia povera Grazia, quelli sono i peccatori che messer demonio suol rapire a cotesta maniera!... - E poi, rifacendosi pensosa, volse un lungo e profondo sguardo su quel letto dove il gemito pauroso l'avea fatta sussultare la notte.


- Quando si odono questi gemiti dell'altro mondo? - domandò.


- In quelle notti in cui il fantasma non si fa vedere.


- È strano! E dove?

- Qui, madonna, in quest'alcova e nell'andito che c'è accanto, nel corridoio che passa vicino a questa camera, e nello spogliatolo che è dietro l'alcova.


- Insomma qui vicino? - Pe tutta risposta Grazia si fece il segno della croce.


La baronessa strinse le labbra tutt'a un tratto.


- Va bene, - le disse bruscamente. - Ora vattene. Non temere. Non dirò nulla di quel che mi hai detto -.





TERZA


Donna Isabella passò la giornata ad esaminare minutamente tutte le stanze, anditi, e corridoi vicini alla sua camera, e don Garzia le chiese inutilmente il motivo della sua preoccupazione. La notte dormì poco e agitata, ma non udì nulla; soltanto il vento che si era levato verso l'alba faceva sbattere una delle finestre che davano sul ballatoio.


L'indomani la baronessa era ancora in letto, quando da dietro il cortinaggio udì il seguente dialogo fra suo marito e il Rosso che l'aiutava a calzare i grossi stivaloni:

- Dimmi un po', mariuolo, cosi è stato tutto questo baccano che hanno fatto le mie finestre stanotte? - Il Rosso si grattò il capo e rispose:

- È stato che un'ora prima dell'alba si è messo a soffiare lo scirocco.


- Sarà benissimo, ma se le finestre fossero state ben chiuse, lo scirocco non avrebbe potuto farle ballare come una ragazza che abbia il male di San Vito. Ora bada bene al tuo dovere, marrano!

ché nel castello intendo tutto vada come l'orologio che è sul campanile della chiesa, adesso che son qua io.


- Messete, voi siete il padrone, - rispose il Rosso esitando, - ma quella finestra lì bisogna lasciarla aperta.


- Dimmi il perché.


- Perché quando si chiude la finestra si sente...


- Eh?

- Si sente, messere!

- Malannaggia l'anima tua! - urlò il barone dando di piglio ad uno stivale per buttarglielo in faccia.


- Messere, voi potete ammazzarmi, se volete, ma ho detto la verità.


- Chi te l'ha soffiata cotesta verità, briccone maledetto?

- Ho visto e udito come vedo ed odo voi, che siete in collera per mia disgrazia e senza mia colpa.


- Tu?

- Io stesso.


- Tu mi rubi il vino della mia cantina, scampaforche!

- Io non avevo bevuto né acqua né vino, messere.


- Tu mi diventi poltrone, dunque! un gatto che fa all'amore ti fa paura. Diventi vecchio, Rosso mio, arnese da ferravecchi, e ti butterò fuori del castello con un calcio più sotto delle reni.


- Messere, io sono buono ancora a qualche cosa, quando mi metterete in faccia a una dozzina di diavoli in carne e ossa, che possano raggiungersi con un buon colpo di partigiana, o che possano ammazzare me come un cane; ma contro un nemico il quale non ha né carne né ossa, e vi rompe il ferro nelle mani come voi fareste di un fil di paglia, per l'anima che darei al primo cane che la volesse! non so cosa potreste fare voi stesso, sebbene siate tenuto il più indiavolato barone di Sicilia -.


Il barone questa volta si grattò il capo, e si accigliò, ma senza collera, o almeno senza averla col Rosso. - Orbè, - gli disse, - chiudimi bene tutte le finestre stanotte, e vattene a dormire senza pensare ad altro -.


Donna Isabella si levò pallida e silenziosa più del solito.


- Avreste paura? - domandò don Garzia.


- Io non ho paura di nulla! - rispose secco secco la baronessa.


Ma la notte non poté chiudere occhio, e mentre suo marito russava come un contrabasso ella si voltava e rivoltava pel letto, e ad un tratto scuotendolo bruscamente pel braccio, e rizzandosi a sedere cogli occhi sbarrati e pallida in viso:
- Ascoltate! - gli disse.


Don Garzia spalancò gli occhi anche lui, e vedendola così, si rizzò a sedere sul letto e mise mano alla spada.


- No! - dissi ella, - la vostra spada non vi servirà a nulla.


- Cosa avete udito?

- Ascoltate!

Entrambi rimasero immobili, zitti, intenti; alfine don Garzia buttò la spada con dispetto in mezzo alla camera e si ricoricò sacramentando.


- Mi diventate matta anche voi! - borbottò. - Quella canaglia del Rosso vi ha fatto girare il capo! gli taglierò le orecchie a quel mariuolo.


- Zitto! - esclamò la donna nuovamente, e questa volta con tal voce, con tali occhi, che il barone non osò replicare motto. - Udiste?

- Nulla! per l'anima mia! - Ad un tratto si rizzò a sedere una seconda volta, se non pallido e turbato come la sua donna, almeno curioso ed attento, e cominciò a vestirsi; mentre infilava gli stivali trasalì vivamente.


- Udite! - ripeté donna lsabella facendosi la croce.


Egli attaccò una grossa bestemmia invece della croce; saltò sulla spada che avea gettato in mezzo alla camera, e così com'era, mezzo svestito, colla spada nuda in pugno, al buio, si slanciò nell'andito che era dietro all'alcova.


Ritornò poco dopo. - Nulla! - disse, - le finestre son chiuse, ho percorso il corridoio, l'andito, lo spogliatoio; siamo matti voi ed io; lasciatemi dormire in pace adesso, giacché se domani il Rosso venisse a sapere quel che ho fatto stanotte, e sino a qual segno sia stato imbecille, dovrei vergognarmi anche di lui -.


Né si udì più nulla; la baronessa rimase sveglia, e don Garzia, sebbene avesse attaccato di nuovo due o tre russate sonore, non poté dormire di seguito come al solito; all'alba si alzò con tal cera che il Rosso, spicciatosi alla svelta dei soliti servigi, stava per battersela.


- Chiamami Bruno - gli disse il barone, e ricominciò a passeggiar per la camera, mentre la baronessa stava pettinandosi. Donna Isabella, preoccupata, lo seguiva colla coda dell'occhio, e lo vide andare per l'andito, l'udì camminare nello spogliatoio; poi lo vide ritornare scuotendo il capo, e mormorando fra di sé:
- No!

è impossibile!... - Bruno e il Rosso comparvero.


- Vecchio mio, - gli disse il barone, - ti senti di buscarti un bel ducato d'oro, e passare una notte nel corridoio qui accanto, senza tremare come la rocca di una donnicciuola cui si parli di spiriti?

- Messere, io mi sento di far tutto quel che comandate - rispose Bruno, ma non senza alquanto esitare.


Il barone che conosceva da un pezzo il suo Bruno per un bravaccio indurito a tutte le prove, fu sorpreso da quell'esitazione, e dallo scorgere che il Bruno, contro ogni aspettativa, si era fatto serio.


- Per l'inferno! - gridò battendo un gran pugno sulla tavola, - mi diventate tutti un branco di poltroni qui!

- Messere, per provarvi come poltroni non lo siamo tutti, farò quel che mi ordinerete.


- E anche io. - rispose il Rosso, vergognoso di non esser messo alla prova invece del capocaccia. - Così, non avrete più a dubitare delle parole nostre.


- Orbene! giacché tutti avete visto, giacché tutti avete udito, giacché tutti avete toccato con mano, fatemi buona guardia stanotte, appostatevi sul cammino che suol tenere cotesto gaglioffo che ha messo la tremarella addosso a tutta la mia gente.


Da qual parte si suol vedere questo fantasma?

- Nel corridoio qui accanto, di solito... Ma nessuno ha più visto nulla dacché quest'ala del castello non è stata più abitata...


- Tu, Bruno, ti porrai a guardia dietro l'uscio che mette nella sala grande, e il Rosso dietro la finestra, in capo al corridoio.


Allorché cotesto spirito malnato sarà dentro, e voi avrete accanto le vostre brave daghe, e non vi tremerà né la mano né il cuore, il ribaldo non potrà scappare altro che dalla mia camera... e allora, pel mio Dio o pel suo Diavolo! l'avra da fare con me. Andate, e buona guardia!

- Io credo che fareste meglio ad ordinare delle messe per l'anima della vostra donna Violante - gli disse la baronessa seria seria, allorquando furono soli.


Il barone fu sul punto di mettersi in collera, ma seppe padroneggiarsi, e rispose in aria di scherno:

- Da quando in qua mi siete divenuta credula come una femminuccia, moglie mia?

- Dacché vedo ed odo cose che non ho mai udite né viste.


- Cosi avete udito, di grazia?

- Quel che avete udito voi! - ribatté essa senza scomporsi.


Don Garzia si accigliò.


- Io non ho udito né visto nulla - esclamò dispettosamente.


- Ed io ho visto voi come vi vedo in questo momento, e come sareste sorpreso voi stesso di vedervi se lo poteste!

- Ah! - esclamò il barone con un riso che mostrava i suoi denti bianchi ed aguzzi al pari di quelli di un lupo, - è che mi avete fatto girare il capo anche a me, ed ho paura anche io!

- Credete che io abbia paura, messere? - Il messere non rispose e andò a mettersi alla finestra di un umore più nero delle grosse nuvole che si accavallavano sull'orizzonte.




QUARTA


Il barone fu insolitamente sobrio a cena quella sera. Donna Isabella andò a coricarsi senza dire una parola, senza fare un'osservazione, ma pallida e seria. Don Garzia, quando si fu accertato che il Rosso e il Bruno erano già al loro posto, andò a letto e disse alla moglie motteggiando:

- Stanotte vedremo se il diavolo ci lascerà la coda -.


Donna Isabella non rispose, ma don Garzia non russò e dormì di un occhio solo.


Mezzanotte era suonata da un pezzo, il barone avea levato il capo ascoltando i dodici tocchi, poi si era voltato e rivoltato pel letto due o tre volte, avea sbadigliato, infine si era addormentato per davvero. Tutto era tranquillo, e taceva anche il vento; donna Isabella, che era stata desta sino allora, cominciava ad assopirsi.


Ad un tratto un grido terribile rimbombò per l'immenso corridoio; era un grido supremo di terrore, di delirio, che non poteva riconoscersi a qual voce appartenesse, che non aveva nulla d'umano; nello stesso tempo si udì un gran tramestìo, l'uscio e la finestra della camera furono spalancati con impeto, quasi da un violento colpo di vento, e al lume dubbio della lampada parve che una figura bianca in un baleno attraversasse la camera e fuggisse dalla finestra.


La baronessa, agghiacciata dal terrore fra le coltri, vide il marito slanciarsi dietro il fantasma colla spada in pugno, e saltare dalla finestra sul ballatoio. Egli correva come un forsennato, seguito da Bruno, inseguendo il fantasma che fuggiva come un uccello, sull'orlo del parapetto rovinato; entrambi, coi capelli irti sul capo, videro al certo, non fu illusione, la bianca figura arrampicarsi leggermente pei sassi che sporgevano ancora dalla cortina, al posto dov'era stata la scala, e sparire nel buio.


- Per la Madonna dell'Ognina! - esclamò il barone dopo alcuni istanti di stupore, - lo toccherò colla mia spada, o che si prenda l'anima mia, si è il Diavolo in carne ed ossa! - Don Garzia non credeva né a Dio né al Diavolo, sebbene li rispettasse entrambi; ma senza saper perché si ricordò delle parole dettegli da donna Isabella la mattina, e fremette.


Donna lsabella non gli avea fatto la più semplice domanda, o si spaventasse a farla, o la credesse inutile. Il barone del resto era di tale umore da non permetterne talune. L'indomani però dissegli risolutamente che non intendeva dormire più oltre in quella camera.


- Aspettate ancora stanotte, - rispose il marito, - farò buona guardia io stesso, e se domani non riderete delle vostre paure, vi lascerò padrona di far quel che meglio vorrete -.


Ella non osò aggiunger verbo, soltanto qualche momento dopo gli domandò:

- Di che malattia è morta la vostra prima moglie, messere? - Ei la guardò bieco, e rispose:

- Di mal caduco, madonna.


- Io non avrò cotesto male, vi prometto! - disse ella con strano accento.


Don Garzia, insieme a tutti i vizi del soldato di ventura e del gentiluomo-brigante, ne avea la sola virtù: una bravura a tutta prova. Egli fece quel che non osava più fare Bruno, il terribile Bruno, e per cui era mezzo morto anche il Rosso, giovanotto ardito se mai ce ne fossero; e passò tre notti di seguito nel corridoio, senza batter ciglio, senza muoversi più che non si muovesse il pilastro al quale stava appoggiato, colla mano sull'elsa della spada e l'orecchio teso: il vento sbatteva le imposte della finestra che era stata lasciata aperta per ordine suo, i gufi svolazzavano sul ballatoio, i pipistrelli si inseguivano stridendo per l'andito; il lume della lampada riverberavasi pel vano dell'arco della sala delle guardie e sembrava vacillante; ma del resto tutto era queto, e don Garzia sarebbesi stancato di passar le notti in sentinella, come un uomo d'armi, se il ricordo di quel che avea visto coi propri occhi non fosse stato ancora profondamente impresso nella sua mente, e se una parola della moglie non gli avesse messo in corpo una di quelle preoccupazioni che non lasciano più dormire né lo spirito né il corpo, uno di quei dubbi che imperiosamente domandano uno schiarimento; la sua coscienza dormiva ancora, ma le sue reminiscenze, talune circostanze lasciate passare inosservate, si svegliavano ad un tratto, gli si rizzavano dinanzi in forma di tal sospetto, che don Garzia, zotico, brutale, dispotico signore, scettico e superstizioso ad un tempo, ma in fondo sinceramente barone, vale a dire ossequioso al re, e alla Chiesa, che lo facevano quello che egli era, se ne sentiva padroneggiato, e provava il bisogno di scioglierlo colla persuasione, o colla spada.


Era la quarta notte che don Garzia attendeva; il mare era in tempesta, il tuono scuoteva il castello dalle fondamenta, la grandine scrosciava impetuosamente sui vetri, e le banderuole dei torrioni gemevano ad intervalli; di tanto in tanto un lampo solcava il buio del corridoio per tutta la sua lunghezza, e sembrava gettarvi un'onda di spettri; tutt'a un tratto il lume che era nella sala delle guardie si spense.


Don Garzia rimase al buio. Le tenebre che lo avvolgevano sembravano stringerlo ed opprimerlo da tutte le parti, soffocargli il respiro nel petto, la voce nella gola, e inchiodargli il ferro nella guaina; improvvisamente quel soldataccio risoluto sentì un brivido che gli penetrava tutte le ossa: fra le tenebre, in mezzo a tutti quei rumori vari, confusi, ma che avevano un non so che di pauroso, parvegli udire un altro rumore più vicino, più spaventoso, tale da far battere di febbre il polso di quell'uomo; le tenebre furono squarciate da un lampo, e videsi di faccia, ritta, immobile, quella figura bianca che aveva visto fuggire un'altra volta dinanzi a lui, e d'allora in poi aveva inseguito lui nella coscienza o nel pensiero, - ora la guardava con occhi lucenti e terribili. Tutto ciò non fu che un istante, una visione; - coi capelli irti, vibrò una stoccata formidabile, sentì l'elsa urtare contro qualche cosa, udì un grido di morte che gli agghiacciò tutto il sangue nelle vene, e in un delirio di terrore gli fece ritirare la spada e fare un salto indietro, atterrito, chiamando la sua gente con quanta voce aveva in corpo.


Scorsero due o tre minuti terribili, in cui non si udì più nulla; egli rimase in mezzo a quel buio, vicino a quella 'cosa' che la sua spada aveva toccato. Pel castello si udì un gran tramestìo, si vide correre la gente, e sulle pareti cominciarono a riflettersi le fiaccole dei valletti. Don Garzia si slanciò sull'uscio gridando:

- Non entri nessuno all'infuori del Bruno, se v'è cara la vita! - Tutti si erano fermati attoniti vedendo il barone così pallido, coll'occhio stralunato e la spada in pugno, ancora macchiata di sangue. Bruno entrò, e vide uno spettacolo orribile.


Vicino alla parete giaceva il cadavere di donna Violante, vestita del suo accappatoio bianco, com'era fuggita dal letto del marito la notte in cui si era creduto che si fosse buttata in mare. Il viso avea pallido come cera e dimagrato enormemente, i capelli arruffati ed incolti, gli occhi spalancati, lucidi, fissi, spaventosi. La ferita era stata mortale e non sanguinava quasi, solo alcune gocce di sangue l'erano uscite dalla bocca e le rigavano il mento.


- Avevi ragione Bruno! - disse il barone con voce sorda. - Non volevo crederci ai fantasmi; le credevo sciocchezze di femminucce; ma adesso ci credo anche io. Bisogna buttare in mare questa forma della mia povera moglie che ha preso lo spirito maligno... e senza che nessuno al castello e fuori ne sappia nulla, ché sarebbero capaci d'inventarci su non so quale storia assurda... - Bruno capiva e non ebbe bisogno d'altre spiegazioni; però il suo signore non dimenticò di aggiungere sottovoce:

- Senti, vecchio mio, sai bene che se la cosa si risapesse così come sembra essere avvenuta, io sarei stato bigamo e peggio, e la tua testa sarebbe assai malferma sulle tue spalle, in fede mia! - In chiesa, ricorrendo l'anniversario della morte di donna Violante, le furono resi dei pomposi e costosi suffragi; però, non si sa come, cominciavasi a buccinare al castello e fuori che 'la cosa fosse proprio avvenuta come sembrava', e come don Garzia non voleva che sembrasse; e Bruno, il quale perciò cominciava a dubitare che la sua testa non fosse ben ferma sulle sue spalle, un bel giorno a caccia mise per distrazione una palla d'archibugio fra la prima e la seconda vertebra del suo signore.


Donna Isabella, che avea una gran paura del mal caduco, era andata a villeggiare presso la sua famiglia, e siccome l'aria le faceva bene, non era più ritornata.




QUINTA


Questa era la leggenda del Castello di Trezza, che tutti sapevano nei dintorni, che tutti raccontavano in modo diverso, mescolandovi gli spiriti, le anime del Purgatorio, e la Madonna dell'Ognina. I terremoti, il tempo, gli uomini, avevano ridotto un mucchio di rovine la splendida e forte dimora di signori i quali, al tempo di Artale d'Alagona, aveano sfidato impunemente la collera del re, e sembravano avervi impresso una stimmate maledetta, che dava una misteriosa attrattiva alla leggenda, e affascinava lo sguardo della signora Matilde, mentre ascoltava silenziosamente.


- E di quell'uomo? - domandò improvvisamente, - di quel giovanotto che per sua disgrazia non era morto cadendo nel trabocchetto, e che vi agonizzava lentamente, cosa ne è avvenuto?

- Chissà? Forse il barone avrà udito ancora dei gemiti soffocati, o delle grida disperate che imploravano la morte, forse dopo alcuni giorni, si sarà sentito il lezzo del cadavere da quella specie di pozzo, forse avrà voluto prevenire che ciò avvenisse, - vi fece gettar della calce viva, e non si sentì più nulla.


- È una storia spaventosa! - mormorò la signora Matilde. - Togliamone pure i fantasmi, il suono della mezzanotte, il vento che spalanca usci e finestre, e le banderuole che gemono, è una spaventosa storia!

- Una storia la quale non sarebbe più possibile oggi che i mariti ricorrono ai Tribunali, o alla peggio si battono - rispose Luciano ridendo.


Ella gli agghiacciò il riso in bocca con uno sguardo singolare. - Lo credete? - domandò.


Luciano ammutolì per quello sguardo, per quell'accento, pel sentirsi dar del voi così distrattamente e a quella guisa.


Sopraggiungeva il signor Giordano.


Parlatemi d'altro, - dissi ella sottovoce, con singolare vivacità, - non discorriamo più di cotesto... -





SESTA


Il signor Luciano e la signora Matilde si vedevano quasi tutti i giorni, in quella piccola società d'amici che le veglie o le escursioni pei dintorni riunivano quotidianamente. La signora fu indisposta due o tre giorni, e non si fece vedere. Allorché si incontrarono la prima volta parve così mutata a Luciano che ei le domandò premurosamente della salute; il contegno di lei, le sue risposte, furono così imbarazzate, che il giovane ne fu imbarazzato egli pure, senza saper perché.


Evidentemente ella lo evitava. Era sempre allegra, spiritosa ed amabile con tutti, ma con lui era cambiata. - Anche il marito avea cambiato maniere - senza che nulla fosse avvenuto, senza che una parola fosse stata detta, senza che Luciano stesso sapesse ancora perché ei fosse così turbato, perché l'imbarazzo di lei rendesse imbarazzato anche lui, e perché si fosse accorto del cambiamento del signor Giordano. Una bella sera di luna piena tutta la comitiva era uscita a passeggiare, e Luciano offrì risolutamente il braccio alla signora Matilde; ella esitò alquanto, ma non osò rifiutare; camminavano lentamente, in silenzio, mentre gli altri ciarlavano e ridevano; ad un tratto ella gli strinse il braccio, e gli disse con un soffio di voce:
- Vedete! - Il signor Giordano era lì presso, dando il braccio alla signora Olani. La mano che stringeva il braccio di Luciano era convulsa e tremante, la voce avea una vibrazione insolita.


Quando il signor Giordano ebbe lasciata al cancello della villa la signora Olani, sembrò lasciare anche una maschera che si fosse imposta sino a quel momento, e mostrossi soprappensieri, taciturno e accigliato.


- Ho paura!... ho paura di lui!... - mormorò Matilde sottovoce.


Luciano premette quel braccio delicato che si appoggiava leggermente al suo, e che gli rispose tremante e gli si abbandonò confidente e innamorato, a lui che non avrebbe potuto proteggerla neppure dando tutto il sangue delle sue vene. Si volsero uno sguardo, uno sguardo solo, lucente nella penombra - quello della donna smarrito - e chinarono gli occhi. Sull'uscio della casa si lasciarono. Ei non osò stringerle la mano.


Ella partì, né seppe giammai quali notti ardenti di visioni egli avesse passato, quali febbri l'avessero roso accanto a lei, mentre sembrava così calmo e indifferente, quante volte fosse stato a divorarla, non visto, cogli occhi, e quel che si fosse passato dentro di lui allorché sorridendo dovette dirle addio dinanzi a tutti, e quando la vide passare, rincantucciata nell'angolo della carrozza, colle guance pallide e gli occhi fissi nel vuoto, e qual nodo d'amarezza gli avesse affogato il cuore allorché rivide chiusa quella finestra dove l'avea vista tante volte. L'indovinò?

indovinò egli stesso quel che avesse sofferto ella pure? Quando si incontrarono di nuovo, dopo lungo tempo, parvero non conoscersi, non vedersi, impallidirono e non si salutarono.


Finalmente si incontrarono un'altra volta - al ballo, in chiesa, al teatro, auspice Dio o la fatalità; ei le disse:
- Come potrei vedervi? - Ella impallidì, si fece di bracia, chinò gli occhi, glieli fissò ardenti nei suoi, e rispose:
- Domani -.


E il domani si videro - un'ora dopo ella avea l'anima ebbra di estasi, i polsi tremanti di febbre, e gli occhi pieni di lagrime.


- Perché m'avete raccontato quella storia? - ripeteva balbettando come in sogno.


Era pentimento, rimprovero, o presentimento?

Alcuni mesi dopo, in autunno, la medesima compagnia d'amici si era riunita ad Aci Castello. I due che si amavano avevano saputo nascondere la loro febbre, o il marito avea saputo dissimulare la sua collera, o la signora Olani era stata più assorbente. Si vedevano come prima, si riunivano come prima, erano allegri, o sembravano, come prima. - Qualche fuggitivo rossore di più sulle gote, e qualche lampo negli occhi - null'altro! Si facevano le solite scampagnate, i soliti ballonzoli, si andava in barca o a cavallo sugli asini, e si progettò anche il solito pranzo sulla vecchia torre del castello. La signora Matilde mise in mezzo tutti gli ostacoli; il marito la guardò in un certo modo, e le domandò la ragione dell'insolita ripugnanza...


Andò anche lei.


Il pranzo fu allegro come quello dell'anno precedente. Si mangiò sull'erba, si ballò sull'erba, e si buttarono sull'erba le bottiglie dopo che ne furono fatti saltare i turaccioli. Si ciarlò del castello, di memorie storiche, dei Normanni e dei Saraceni, della pesca delle acciughe e dei secoli cavallereschi, e tornarono in campo le vecchie leggende, e si raccontò di nuovo a pezzi e a bocconi la storia che Luciano avea raccontato la prima volta in quel luogo medesimo, e che alcuni nuovi venuti ascoltavano con avidità, digerendo tranquillamente, ed assaggiando il buon moscato di Siracusa.


Luciano e la signora Matilde stavano zitti da lungo tempo, ed evitavano di guardarsi.




SETTIMA


Don Garzia d'Arvelo era diventato inaspettatamente, a cinquant'anni, signore dei numerosi feudi che dipendevano dalla baronia di Trezza; il barone suo nipote era stato trovato in un burrone, lungo stecchito, un bel dì, o una brutta notte, che era andato a caccia di non so qual selvaggina. Il cavaliere d'Arvelo, ora che era barone, fece impiccare preliminarmente due o tre vassalli i quali avevano la disgrazia di possedere bella selvaggina in casa, e la triste riputazione di tenere all'onore come altrettanti gentiluomini; poi era montato a cavallo, e siccome sospettavasi anche che il signore di Grevie avesse saldato in quel tal modo spicciativo alcuni vecchi conti di famiglia, era andato ad aspettarlo ad un certo crocicchio, e senza stare a sofisticare sulla probabilità del 'si dice', aveva messo il saldo alla partita.


Soddisfatti così i suoi obblighi di d'Arvelo e di signore non uso a farsi posare mosca sul naso, era andato ad assidersi tranquillamente sul seggio baronale, avea appeso la spada al chiodo del suo antecessore, e, tanto per farsi la mano da padrone, avea fatto sentire come la sua fosse di ferro a tutti quei poveri diavoli che stavano nei limiti della sua giurisdizione, ed anche delle sue scorrerie, ché un po' del predone gli era rimasto colle vecchie abitudini di cavalier di ventura. Tutti coloro che nel 'requiem' ordinato in suffragio del giovane barone avevano innestato sottovoce certi mottetti che non erano nella liturgia, ebbero a pentirsene, e dovettero ripetere, senza che sapessero di storia, il detto della vecchia di Nerone. Lupo per lupo, il vecchio che succedeva al giovane mostrava tali ganasce e tale appetito, che al paragone il lupacchiotto morto diventava un agnellino. Il cavaliere, cadetto di grande famiglia, era stato tanto tempo ad aguzzarsi le zanne e ad ustolare attorno a tutto quel ben di Dio in cui sguazzava il nipote, capo della casa e suo signore e padrone, che malgrado le scorrerie di tutti i generi, sulle quali il fratello e poscia il nipote avevano chiuso un occhio, si poteva dire di lui che fosse affamato da cinquant'anni; sicché era naturalissimo che allorquando poté darsi una buona satolla di tutti gli intingoli del potere più sfrenato, lo fece da ghiottone, il quale abbia stomaco di struzzo.


Del resto il Re, suo signore dopo Dio, era lontano, e i d'Arvelo erano d'illustre famiglia, grandi di Spagna, di quelli che non si sberrettano né dinanzi al Re, né dinanzi a Dio, titolari di diverse cariche a Corte, baroni ricchi e potenti, un po' alleati della mano sinistra coi Barbareschi, di quei mastini insomma che andavano lisciati pel verso del pelo. Don Garzia andò a Corte; si batté con un gentiluomo che osò ridere dei suoi baffi irsuti e dei suoi galloni consunti, e gli mise tre pollici di ferro fra le costole, prestò il suo omaggio di sudditanza al Re, il quale lo invitò alla sua tavola, e fra il caciocavallo e i fichi secchi gli disse, che poiché la famiglia d'Arvelo non avea altri successori, il suo buon piacere era che don Garzia sposasse una damigella Castilla, la quale attendeva marito nel Monastero di Monte Vergine. Don Garzia, buon suddito e buon capo di grande famiglia, sposò la damigella senza farselo dir due volte, e senza vederla una volta sola prima di condurla all'altare, ma dopo aver ben guardato nelle pergamene della famiglia della sposa e nei quattro quarti del suo blasone; la mise in una lettiga nuova, con buona mano d'uomini d'arme e di cagnotti davanti, ai lati, e dietro; montò il suo cavallo pugliese, e se la menò a Trezza.


La sera dell'arrivo degli sposi si fecero gran luminarie al castello, nel villaggio, e nei dintorni, la campana della chiesuola suonò sino a creparne, si ballò tutta la notte sulla spiaggia, e del vino del Bosco e di Terreforti delle cantine del barone ne bevve persino il mare. Nondimeno, allorché la sposa fu entrata in quella cameraccia scura e triste, in fondo all'alcova immensa della quale ergevasi come un catafalco il talamo nuziale, non poté vincere un senso di ripugnanza e quasi di paura, e domandò al marito:

- Come va, mio signore, che essendo voi tanto ricco, avete una sì brutta cameraccia? - Don Garzia, il quale ricordavasi di dover essere galante pel quarto d'ora, rispose:

- La camera sarà bella ora che ci starete voi, madonna -.


Però la prima volta che donna Violante si svegliò in quella brutta cameraccia, e al fianco di quel brutto sire, dovette essere un gran brutto svegliarsi. Ma ell'era damigella di buona famiglia, bene educata all'obbedienza passiva, fiera soltanto del nome della sua casa e di quello che le era stato dato in tutela; era stata strappata bruscamente alla calma del suo convento, ai tranquilli diletti, ai sogni vagamente turbati della sua giovinezza, ad un romanzetto appena abbozzato, ed era stata gettata, - ella che avea sangue di re nelle vene, - nell'alcova di quel marrano, cui per caso era caduto in capo un berretto di barone: ella avea accettato quel marrano, perché il Re, il capo della sua famiglia, le leggi della sua casta glielo imponevano, e avea soffocato la sua ripugnanza, allorché la mano nera e callosa di quel vecchio si era posata sulle sue spalle bianche e superbe, perché era suo marito:

dolce e gentile com'era, cercava a furia di dolci e gentili maniere raddolcire quel vecchio lupo che le ringhiava accanto, e le mostrava i denti aguzzi allorché voleva sembrare amabile. Però quello non era tal lupo cui l'acqua santa del matrimonio potesse far cambiare il pelo; e quanto a vizi avea tutti quelli che si incontrano sulla strada di un soldato di ventura, dietro le insegne delle bettole. Per giunta, e per disgrazia, donna Violante dopo due anni di matrimonio non solo non avea messo al mondo il dito mignolo d'un baroncino, ma non avea nemmen l'aria di darsene per intesa, e d'aver capito il motivo per cui don Garzia si era tolto in casa la noia e la spesa di una moglie.


Quella moglie delicata, linfatica, colle mani bianche, che gli parlava a voce bassa, che arrossiva alle sue canzonette allegre ed alle sue esclamazioni gioviali, che scappava spaventata allorché il sire era in buon umore, che non gli sapeva condire i suoi intingoli prediletti, e che non era stata buona nemmeno a dargli un successore, gli faceva l'effetto d'un ninnolo di lusso, da tenersi sotto chiave come i diamanti di famiglia; perciò, lungi di smettere le sue abitudini di lanzichenecco, ci si era lasciato andare allegramente, senza prendersi nemmeno la pena di nasconderlo alla moglie, la quale era così timida, e tremava talmente, allorché ei si metteva in collera alla menoma osservazione, da sembrargli stupida. Cacciava, beveva, correva pei tetti e scavalcava le siepi, e quando ritornava ubbriaco, o di cattivo umore, guai alle mosche che si permettevano di ronzare!

Un'ultima scappata di don Garzia però avea fatto tale scandalo, che andò a colpire nel vivo quella vittima rassegnata. La fierezza di patrizia, l'amor proprio di donna, la gelosia di moglie, si ribellarono alfine in donna Violante, e le diedero per la prima volta un'energia fittizia.


- Mio signore, - dissegli con voce tremante, ma senza chinare gli occhi dinanzi al brusco cipiglio del marito, - rimandatemi al convento dal quale m'avete tolta, poiché sono tanto scaduta dalla vostra stima!

- Che vuol dir ciò? - borbottò don Garzia, - e chi vi ha detto di esser scaduta?

- Come va dunque, che vi rispettiate così poco voi stesso, da scendere sino alla Mena? - Il barone stava per attaccare una mezza dozzina di quei sacrati che facevan tremare il castello sino dalle fondamenta, ma si contentò di sghignazzar forte:

- Da quando in qua, madonna, al castello di Trezza le galline si permettono di alzar la cresta? Badate a covarmi dei baroni, piuttosto, com'é vostro dovere, e lasciatemi cantar mattutino e compieta secondo il mio buon piacere -.


La baronessa l'indomani si era levata pallida e sofferente, ma cogli occhi luccicanti di un insolito splendore; sembrava rassegnata, ma di una rassegnazione cupa, meditabonda, lampeggiante di tratto in tratto la ribellione e la vendetta; quel marito istesso così rozzo, così brutale, fu una volta sorpreso e impensierito dell'aria indefinibile ed insolita di quella donna che posava il capo sul suo medesimo guanciale, quantunque un sol muscolo della fisionomia di lei non si movesse, e volle mostrarle che le avea perdonato la sua velleità di resistenza con un bacio avvinazzato. - Ella non lo respinse, non si mosse, rimase cogli occhi chiusi, le labbra scolorite e serrate, le guance pallide e ombreggiate dalla lunga frangia delle sue ciglia: soltanto una lagrima ardente luccicò un momento fra quelle ciglia, e scese lenta lenta.





OTTAVA


Una sera il barone tardava a venire; la luna specchiavasi sui vetri istoriati dell'alta finestra, e il mare fiottava sommessamente. La baronessa stava da lunga pezza assorta, sulla sua alta seggiola a braccioli, col mento nella mano, distratta o meditabonda. Corrado, il bel paggio del barone d'Arvelo, le aveva domandato inutilmente due volte se gli comandasse di montare a cavallo, e d'andare in traccia del suo signore.


Alfine donna Violante gli fissò in viso lo sguardo pensoso. - Era un bel giovanetto, Corrado, dall'occhio nero e vellutato, e dalle guance brune e fresche come quelle di una vaga fanciulla di Trezza, così timido che quelle guance dorate si imporporavano alquanto sotto lo sguardo distratto della sua signora. - Ella lo fissò a lungo senza vederlo.


- No! - disse poscia. - perché?... - Si alzò, andò ad aprire la finestra, e appoggiò i gomiti al davanzale. Il mare era levigato e lucente; i pescatori sparsi per la riva, o aggruppati dinanzi agli usci delle loro casipole, chiacchieravano della pesca del tonno e della salatura delle acciughe; lontan lontano, perduto fra la bruna distesa, si udiva ad intervalli un canto monotono e orientale, le onde morivano come un sospiro ai piedi dell'alta muraglia; la spuma biancheggiava un istante, e l'acre odore marino saliva a buffi, come ad ondate anche esso. La baronessa stette a contemplare sbadatamente tutto ciò, e sorprese se stessa, lei così in alto nella camera dorata di quella dimora signorile, ad ascoltare con singolare interesse i discorsi di quella gente posta così basso al piede delle sue torri. Poi guardò il vano nero di quei poveri usci, il fiammeggiare del focolare, il fumo che svolgevasi lento lento dal tetto; infine si volse bruscamente, quasi sorpresa dal paggio che, ritto sull'uscio, attendeva i suoi ordini, guardò di nuovo la spiaggia, il mare, l'orizzonte segnato da una sfumatura di luce, l'ombra degli scogli che andava e veniva coll'onda, e tornò a fissar Corrado, questa volta più lungamente. Ad un tratto arrossì, come sorpresa della sua distrazione, e per dir qualche cosa domandò sbadatamente:

- Che ora è Corrado?

- Son le due di notte, madonna.


- Ah! - Le sue ciglia si corrugarono di nuovo, chinò gli occhi un istante, e con un suono d'amarezza indicibile:

- Tarda molto stasera il barone!...


- Non temete, madonna; la campagna è sicura, la sera è bella, e la luna non ha una nube.


- È vero! - dissi ella con uno strano sorriso. - È proprio una sera da amanti!... - E seguitò a fissare il giovinetto col suo sguardo da padrona, senza pensare a lui che ne era colpito.


Lasciò la finestra e andò a sedere sulla seggiola stemmata, ai piedi della quale si teneva il paggio; non più melanconica, né meditabonda, ma inquieta, agitata, e nervosa.


- Conosci la Mena? - domandò ad un tratto bruscamente.


- La mugnaia del Capo dei Molini?

- Sì, la mugnaia del Capo dei Molini! - ripeté con un singolare sorriso.


- La conosco, madonna.


- E anche io! - esclamò con voce sorda. - Me l'ha fatta conoscere mio marito! - Per l'altera castellana Corrado non era altro che un domestico, un giovanetto che portava il suo stemma ricamato sul giustacuore di velluto, e che era leggiadro, e avea la chioma bionda e inanellata per far onore alla casa. Ella dunque parlava come fra sé, colla sua eco, perché il suo cuore era troppo pieno, perché l'amarezza non si era sfogata in lagrime, e gli fece una singolare domanda, con singolare accento e cogli occhi fissi al suolo:

- Percé non sei l'amante della Mena anche tu?

- Io, madonna?

- Sì, tutti vanno pazzi per cotesta mugnaia!

- Io sono un povero paggio, madonna!...


Ella gli fissò in viso quello sguardo accigliato, e a poco a poco le sopracciglia si spianarono.


- Povero o no, tu sei un bel paggio. Non lo sai? - I loro occhi si incontrarono un istante e si evitarono nello stesso tempo. Se la vanità del giovinetto si fosse risvegliata a quelle parole, tutto sarebbe finito fra di loro e l'orgoglio della patrizia si sarebbe inalberato così all'audacia del paggio, che il cuore della donna si sarebbe chiuso per sempre. Ma il giovinetto sospirò, e rispose chinando gli occhi:

- Ahimè! madonna! - Quel sospiro aveva un'immensa attrattiva.


Mille nuovi sentimenti confusi e violenti andavano gonfiandosi nell'animo della baronessa, come le nubi su di un mare tempestoso.


Ella pure, bianca, superba, ella che discendeva da principi reali e da re castigliani, non poté fare a meno di paragonare quel giovinetto ingenuo, leggiadro, che avea cuore di cavaliere sotto una livrea di domestico, a quell'uomo rozzo, brutto, villano, coronato di barone, cui si era data, e il quale la posponeva ad una bellezza da trivio, che portava zoccoli ai piedi e sacchi di farina sul dorso. Lagrime ardenti le luccicarono nell'orbita, asciugate subito da qualcosa di più ardente ancora, divorate in segreto; tutto quel movimento interno sembrava aver voce e parola, sembrava gridare da tutte le sue membra e da tutti i suoi pori, e il paggio osava fissare per la prima volta su quella sovrana bellezza, delirante in segreto e che faceva delirare, i suoi begli occhi azzurri, scintillanti di luce insolita.


- Corrado! - esclamò ella all'improvviso, con voce sorda e interrotta, come perdesse la testa; - tu che la conosci... tu che sei uomo... dimmi se cotesta mugnaia... è bella... si è più bella di me... Oh dimmelo! non aver paura...


Il giovanetto guardava affascinato quella donna corrucciata, fremente, gelosa, rossa di onta e di dispetto, bella da far dannare un angelo; impallidì e non rispose: poi colla voce tremante, colle mani giunte, con un accento che fece scuotere e trasalire la sua signora, esclamò:
- Oh... abbiate pieta di me!... madonna!...


Ella gli lanciò un'occhiata fosca, senza sguardo, e si allontanò rapidamente, fuggendo; andò ad appoggiarsi al davanzale, a bere avidamente la fresca brezza della notte. Quattro ore suonavano in quel momento; non si vedeva un sol lume, né si udiva una voce. Che cosa avveniva in quell'anima combattuta? Nessuno avrebbe saputo dirlo, lei meno di ogni altra, ché tali pensieri sono vertiginosi, tempestosi anche, come è complesso il sentimento da cui emanano. E ad un tratto volgendosi bruscamente verso di lui:

- Senti, - gli disse. - Hai torto! Paggio o no, povero o no, sei bello e giovane da far perdere la testa, e hai torto a non essere l'amante della Mena; il tuo padrone, che è vecchio e brutto, l'ama... l'amore è la giovinezza, la beltà, il piacere; non ci credevo... ma mio marito me l'ha insegnato, - e questo marito non è né giovane, né bello, né gentile. - Io mi son data a lui - ero bella, ti giuro, ero bella allora, delicata, tutta sorriso, col cuore ansioso e trepidante arcanamente sotto la ruvida mano che m'accarezzava. Nel convento avevo sognato tante volte che quella prima carezza mi sarebbe venuta da un'altra mano bianca e delicata che mi avea salutato, e che le mie vergini labbra avrebbero rabbrividito la prima volta sotto quelle altre che m'aveano sorriso, ombreggiate da baffetti d'oro, attraverso la grata.


Invece furono le labbra irsute del barone d'Arvelo... - 'Colui' era bello come te, biondo come te, giovane come te; io gli rapii la mia beltà, la mia giovinezza, il mio primo bacio che gli avevo promesso col primo sguardo, il mio cuore, che era suo, per darli a quest'uomo cui m'avevano ordinato di darli, e glieli diedi lealmente. Ora senti, io sono povera come te, non possedevo che il mio bel nome e gli ho dato anche quello, e ho combattuto i miei sogni, le mie ripugnanze, i palpiti stessi del mio cuore. Adesso quest'uomo cui ho sacrificato tutto ciò, che mi ha rapito tutto ciò, questo ladro, questo sleal cavaliere, questo marito infame, ha mescolato il mio primo bacio di vergine al bacio di una cortigiana... - - Tu non sai, non puoi sapere qual effetto possano fare tali infamie sull'animo di una patrizia... Ma giuro, per santa Rosalia!

che mi vendicherò in tal modo, che farò tale ingiuria a quest'uomo, che lo coprirò di tale vergogna, quale non basterà a lavare tutto il sangue delle sue vene e delle mie... Io son giovane ancora, sarò ancora bella quando amerò... Ti giuro!...


Vuoi? di'! vuoi? - Egli tremava tutto. - Ella gli afferrò il capo con gesto risoluto, con occhi ardenti e foschi, e gli stampò sulla bocca un bacio di fuoco.





NONA


Donna Violante non chiuse occhio in tutta la notte. Stava col gomito sul guanciale, fissando uno sguardo intraducibile, immobile, instancabile, su quel marito che dormiva tranquillo accanto a lei, di cui l'alito avvinazzato le sfiorava il viso, e il quale l'avrebbe stritolata sotto il suo pugno di ferro, se avesse potuto immaginare quali fantasmi passassero per gli occhi sbarrati di lei. E all'indomani, colle guance accese di febbre, e il sorriso convulso, gli disse:

- Non vi pare che sarebbe tempo di cercare un altro paggio, don Garzia?

- Perché?

- Corrado non è più un ragazzo; e voi lasciate troppo spesso sola vostra moglie, perché egli possa starle sempre vicino senza dar da ciarlare ai vostri nemici -.


Il barone aggrottò le ciglia, e rispose:

- Amici e nemici mi conoscono abbastanza perché né la cosa né le ciarle siano possibili -.


Sugli occhi della donna lampeggiò un sorriso da demone.


- E poi, - aggiunse don Garzia, - vi stimo abbastanza per temere che voi, nobile e fiera, possiate scendere sino ad un paggio -. E buttandole galantemente le braccia al collo accostò le sue labbra a quelle di lei. Ella, bianca come una statua, gli rese il bacio con insolita energia.


Nondimeno, malgrado l'alterigia baronale, e la fiducia nella sua possanza, don Garzia era tal vecchio peccatore da non dormir più tranquillo i suoi sonni una volta che gli era stata messa nell'orecchio una pulce di quella fatta, e, andato a trovar Corrado:

- Orsù, bel giovane, - gli disse, - eccoti questo borsellino pel viaggio, e queste due righe di benservito, e vatti a cercar fortuna altrove -.


Il giovane rimase sbalordito, e non potendo aspettarsi da che parte gli venisse il congedo, temette che qualcosa del terribile segreto fosse trapelata; e tremante, non per sé, ma per colei di cui avea sognato tutta la notte gli occhi lucenti, e l'ebbrezze convulse:

- Almeno, mio signore, - balbettò, - piacciavi dirmi, in grazia, perché mi scacciate!

- Perché sei già in età da guadagnarti il pane dove c'è da menar le mani, invece di stare a grattar la chitarra, ed è tempo di pensare a vestir l'arnese, piuttosto che farsettino di velluto.


- Orbè, messere, lasciatemi al vostro servizio, in mercé, se in nulla vi dispiacqui, e in quell'ufficio che meglio vi tornerà -.


Il barone si grattò il naso, come soleva fare tutte le volte che gli veniva voglia di assestare un ceffone.


- Via! - gli disse con tal piglio da non dover tornar due volte sulle cose dette; - levamiti dai piedi, mascalzone; ché dei tuoi servigi non so che farmene, e bada che se la sera di domani ti trova ancora nel castello non ne uscirai dalla porta -.


Il povero paggio aveva perduto la testa; malgrado la gran paura che mettevagli addosso il suo signore tentò tutti i mezzi per cercar di vedere quella donna che gli avea irradiato di luce la vita in un attimo, e che amava più della vita. Ma la baronessa lo evitava, come avesse voluto fuggire se stessa, o le sue memorie.


Tutti i progetti e i timori più assurdi si affollarono nella testa delirante del giovane innamorato, e credendo la vita di donna Violante minacciata dal barone, decise di far di tutto per salvarla. Finalmente, mentre sollevava una tenda sotto la quale ella passava, fiera, calma e impenetrabile, le sussurrò sottovoce:

- Se il mio sangue può giovarvi a qualcosa, prendetevelo, madonna!

- Ella non si volse, non rispose, e passò oltre. Ei rimase come fulminato.




DECIMA


La sera che non dovea più trovar Corrado nel castello si avvicinava rapidamente, ed egli non si rammentava nemmeno della terribile minaccia di quel signore che giammai non minacciava invano. Era pazzo di amore; avrebbe pagato colla testa un quarto d'ora di colloquio colla sua signora. Il barone prima di andare a dormire soleva fare tutte le sere la visita del castello. Corrado contava su quel momento per avere un'ultima spiegazione, o un ultimo addio dalla baronessa. Allorché tutto fu buio, si insinuò non visto nel ballatoio, e venne a riuscire dietro la finestra di donna Violante.


Don Garzia era seduto colle spalle alla finestra, e stava cenando.


La moglie eragli di faccia, col mento sulla mano e gli occhi fissi, impietrati. Ad un tratto, fosse presentimento, fosse fluido misterioso, fosse qualche lieve rumore fatto dal giovane coll'appoggiare il viso ai vetri, ella trasalì, alzò il capo vivamente, e i suoi sguardi si incontrarono con quelli del paggio a guisa di due correnti elettriche.


- Cosi avete? - domandò il barone.


- Nulla - dissi ella, bianca e impassibile come una statua.


Il barone si voltò verso la finestra:
- Che rumore e cotesto? - Donna Violante chiamò la cameriera; e le ordinò di chiudere bene; era fredda e rigida come una statua di marmo. - Sarà il vento, - soggiunse, - o la finestra non è ben chiusa -.


Corrado ebbe appena il tempo di rannicchiarsi rasente al muro. Il barone di tanto in tanto volgeva alla sfuggita sulla moglie uno sguardo singolare, e, cosa più singolare, era sobrio! - Non bevete un sorso? - domandò versandole del vino.


Ella non osò rifiutare, alzò lentamente il bicchiere, e si udirono i suoi denti urtare due o tre volte contro il vetro.


Poi rimase pensierosa, ma con certa ansietà febbrile, gettando sguardi irrequieti qua e là.


- Bisogna che vi cerchi un altro paggio, ora che Corrado è partito - disse il barone figgendole gli occhi in viso.


Donna Violante non rispose, ma levò gli occhi anche lei, e si guardarono. Il barone bevve un altro bicchier di moscato, e si alzò per andare a far la ronda della sera.


Come fu sola la donna, si levò anche essa, quasi spinta da una molla, e si diede a passeggiar per la camera, agitata e convulsa.


Ogni volta che passava dinanzi alla finestra vi gettava un'occhiata scintillante. Ad un tratto vi andò risolutamente, e l'aperse.


Essi si trovarono faccia a faccia, e si guardarono in silenzio.


- Ma che fai qui? - domandò donna Violante con accento febbrile!

- Son venuto a morire - rispose il paggio con calma terribile.


- Ah! - esclamò ella con un sorriso amaro. - Lo sai che t'ho fatto scacciar io?

- Voi!

- Io!

- Perché m'avete fatto scacciare?

- Perché non ho potuto far scacciare me stessa, e perché non ho avuto il coraggio di uccidermi dopo di essermi vendicata.


- Che vi ho fatto? - esclamò egli colle lagrime nella voce.


- Che m'hai fatto?... - rispose la donna fissandolo con occhi stralunati. - Che m'hai fatto?... Ebbene, cosa vuoi ancora? cosa sei venuto a fare?

- Son venuto a dirvi che vi amo! - dissi egli senza entusiamo e senza amarezza.


- Tu! - esclamò la baronessa celandosi il viso fra le mani.


- Perdonatemelo, Madonna! - aggiunse il paggio sorridendo tristamente - cotesto amore che vi offende lo sconterò in un modo terribile.


- No! - dissi ella con voce delirante. - Non voglio che tu muoia, non voglio più amarti, e non voglio rivederti mai più!... no! no!

vattene! - Egli scosse il capo rassegnato. - Andarmene? È tardi, il ponte levatoio è tirato, e il barone mi ha detto che questa sera non avrebbe voluto trovarmi più qui. Bisognava che io arrischiassi qualche cosa per vedervi un'ultima volta, così bella come vi ho sempre dinanzi agli occhi, e che io paghi con qualcosa di prezioso il potervi dire la terribile parola che vi ho detto.


- Ebbene! - rispose donna Violante, pallida come lui, tremante come lui - anche io sconterò il mio fallo... È giusto! - In questo momento si udirono i passi del barone che ritornava accompagnato da qualcuno.


- Sia! - esclamò convulsivamente la baronessa. - Ti amo, son tua, sia! moriamo! - E gli cinse le braccia al collo, e gli attaccò alle labbra le labbra febbrili. Si udì la voce di don Garzia che diceva al Bruno:

- Tu va sul ballatoio e sta a guardia da quella parte -.


Corrado si strappò da quell'amplesso di morte, con uno sforzo più grande di quel che ci sarebbe voluto per precipitarsi dalla finestra di cui gli veniva chiuso lo scampo, e stringendole la mano risolutamente:

- No! voi no! Ricordatevi di me, Violante, e non temete per voi.


Il povero paggio saprà morire come un gentiluomo -.


E mentre si udivano già i passi del barone dietro l'uscio, e Bruno che percorreva il ballatoio, si slanciò nell'andito che era dietro l'alcova, e in fondo al quale spalancavasi il trabocchetto.


Don Garzia entrò con passo rapido, non guardò nemmen la moglie, la quale sembrava un cadavere, gittò un'occhiata alla finestra chiusa, ed entrò nell'andito senza dire una parola.


Non si udì più nulla. Poco dopo riapparve d'Arvelo, calmo e impenetrabile come al solito. - Tutto è tranquillo, - disse. - Andiamo a dormire, Madonna -.




UNDICESIMA


La notte si era fatta tempestosa, il vento sembrava assumere voci e gemiti umani, e le onde flagellavano la rocca con un rumore come di un tonfo che soffocasse un gemito d'agonia. Il barone dormiva.


Ella lo vedeva dormire, immobile, sfinita, moribonda d'angoscia, sentiva la tempesta dentro di sé, e non osava muoversi per timor di destarlo. Avea gli occhi foschi, le labbra semiaperte, il cuore le si rompeva nel petto, e sembravale che il sangue le si travolgesse nelle vene. Provava bagliori, sfinimenti, impeti inesplicabili, vertigini che la soffocavano, tentazioni furibonde, grida che le salivano alla gola, fascini che l'agghiacciavano, terrori che la spingevano alla follìa. Sembravale di momento in momento che la vòlta dell'alcova si abbassasse a soffocarla, o che l'onda salisse e traboccasse dalla finestra, o che le imposte fossero scosse con impeto disperato da una mano che si afferrasse a qualcosa, o che il muggito del mare soverchiasse un urlo delirante d'agonia: il gemito del vento le penetrava sin nelle ossa, con parole arcane che ella intendeva, che le dicevano arcane cose, e le facevano dirizzare i capelli sul capo - e teneva sempre gli occhi intenti e affascinati nelle orbite incavate ed oscure di quel marito dormente, il quale sembrava la guardasse attraverso la palpebre chiuse, e leggesse chiaramente tutti i terrori che sconvolgevano la sua ragione. - Di tanto in tanto si asciugava il freddo sudore che le bagnava la fronte, e ravviava macchinalmente i capelli che sentiva formicolarsi sul capo, come fossero divenuti cose animate anche essi. Quando l'uragano taceva, provava un terrore più arcano, e con un movimento macchinale nascondeva il capo sotto le coltri, per non udire qualcosa di terribile. Ad un tratto quel suono che parevale avere udito in mezzo agli urli della tempesta, quel gemito d'agonia, visione o realtà, si udì più chiaro e distinto. Allora mise uno strido che non aveva più nulla d'umano, e si slanciò fuori del letto.


Il barone, svegliato di soprassalto, la scorse come un bianco fantasma fuggire dalla finestra, si precipitò ad inseguirla, saltò sul ballatoio e non vide più nulla. La tempesta ruggiva come prima.


Sul precipizio fu trovato il fazzoletto che avea asciugato quel sudore d'angoscia sovrumana.





DODICESIMA


La storia avea divertito tutti, anche quelli che la conoscevano diggià, e che la commentavano ai nuovi venuti colla leggenda degli spiriti che avevano abitato il castello. La sera era venuta, l'ora e il racconto aiutavano le vagabonde fantasticherie dell'eccellente digestione. Luciano e la signora Matilde avevano impallidito qualche volta durante quel racconto che conoscevano:

- Badate, - le sussurrò egli sottovoce. - vostro marito vi osserva! - Ella si fece rossa, poi impallidì, guardò il mare che imbruniva, e si avviò la prima. Scesero le scale crollanti, e giunti al basso era quasi buio. La grossa tavola che faceva da ponte levatoio sull'abisso spaventoso il quale spalancasi sotto la rocca, a quell'ora era un passaggio pericoloso. I più prudenti si fermarono prima di metterci piede, e proposero di mandare al villaggio per cercar dei lumi.


- Avete paura? - esclamò il signor Giordano con un sorrisetto sardonico.


E si mise arditamente sullo strettissimo ponte. Sua moglie lo seguì tranquilla e un po' pallida, Luciano le tenne dietro e le strinse la mano.


In quel momento, a 150 metri sul precipizio, accanto a quel marito di cui si erano svegliati i sospetti, quella stretta di mano, di furto, fra le tenebre avea qualcosa di sovrumano. L'altro li vide forse nell'ombra, lo indovinò, avea calcolato su di ciò... Si volse bruscamente e la chiamò per nome. Si udì un grido, un grido supremo, ella vacillò, afferrandosi a quella mano che l'avea perduta per aiutarla, e cadde con lui nell'abisso.


A Trezza si dice che nelle notti di temporale si odano di nuovo dei gemiti, e si vedano dei fantasmi fra le rovine del castello.








Il tramonto di Venere


Quando Leda, astro della danza, splendeva nel firmamento della Scala e del San Carlo, come stella di prima grandezza, contornata di brillanti autentici, e regalava le sue scarpette smesse ai principi del sangue e del denaro, chi avrebbe immaginato che un giorno ella sarebbe stata ridotta a correre dietro le scritture e i soffietti dei giornali, cogli stivalini infangati e l'ombrello sotto il braccio - a correre specialmente dietro un mortale qualsiasi, fosse pur stato Bibì, croce e delizia sua?

Poiché Bibì era anche un mostro, un donnaiuolo, il quale correva dal canto suo dietro tutte le gonnelle, e concedeva perfino i suoi favori alle matrone ancora tenere di cuore, adesso che la sua Leda batteva il lastrico, in cerca di scritture e di quattrini, e lui aspettava filosoficamente la dea Fortuna al Caffè Biffi, dalle 5 alle 6, nell'ora in cui anche le matrone si avventurano in Galleria - oppure tentava di sforzarla - l'instabil Diva - a primiera o al bigliardo, tutte le notti che non consacrava alla dea Venere, come chiamava tuttora la sua Leda, quand'era fortunato alle carte o altrove, o quando non la picchiava, per rifarsi la mano.


Ahimé sì! L'indegno era arrivato al punto di fare oltraggio ai vezzi per cui aveva delirato, un tempo - per cui i Cresi della terra avevano profuso il loro oro. Le rinfacciava adesso, brutalmente:
- Dove sono questi Cresi? - Ah, l'ingrato, che dimenticava quanto gliene fosse passato per le mani di quell'oro; con quanta delicatezza la sua Leda gliene avesse celato spesso la provenienza, per non farlo adombrare, lui che era tanto ombroso, allora! E i sottili artifici, le trepide menzogne, i dolci rimorsi che rendevano attraente l'inganno fatto all'amante, per l'amante stesso, onde legarlo col beneficio! E le care scene di gelosia, e le paci più care!... Che importa il prezzo? Non era 'lui' il suo tesoro, il suo bene?

Ma ciò che ora rendeva furiosa specialmente la povera dea Venere, erano le infedeltà gratuite e umilianti di Bibì; gli idilli che le toccava interrompere dinanzi alla tromba della scala, colle serve del vicinato; il lezzo di sottane sudice che egli le portava in luogo di violette di Parma. Aveva un vulcano in corpo, l'indegno!

Ardeva per tutte quante della stessa fiamma che consumava lei pure, ahi derelitta - di persona e di beni!

O dolcezze perdute, o memorie! Quando invece Bibì correva dietro a lei, come un pazzo, in quella memorabile stagione dell''Apollo' che fece perdere la testa anche a dei principi della Chiesa! Ebbene, essa aveva preferito Bibì, né signore né principe, allora, ma giovin, studente e povero, venuto dal fondo di una provincia, ricco solo di entusiasmi, per imparare musica, o pittura - una bell'arte insomma. La più bell'arte, per lui, fu di saper conquistare, senza spendere un quattrino, il cuore di Leda, la quale in quell'epoca teneva legata al filo dei suoi menomi capricci quasi una testa coronata. Capriccio per capriccio, essa preferì il nuovo, quello che aveva il sapore del frutto proibito, un'attrattiva insolita, la freschezza e la grazia di un primo palpito:
- Lettere, mazzolini di fiori, incontri semifortuiti al Pincio, ogni fanciullaggine, in una parola. Ei ripeteva, supplice, come un eroe della scena:
- Un'ora!... e poi morire!...


- No! - rispose ella alfine. - No! Vivere e amar! - Amor, sublime palpito!... Il fatto è che ne fu presa anche lei stavolta, allo stesso modo che aveva fatto ammattire tanti altri.


- Ma presa, là, come si dice, pei capelli. Così il fortunato giovane ascese furtivo all'ambìto talamo del geloso prence. Gli schiuse l'Eden lei stessa, tremante, a piedi nudi - i divini piedi cantati in prosa e in versi! - Bibì, che a sentirlo era un leone indomito, tremava anche lui come una foglia. E se lo prese, lei, trionfante per la prima volta! - Come sei timido, fanciullo mio! - Tanto che Sua Altezza, seccato alfine da quelle fanciullaggini, degnò aprire un occhio, e li scacciò dall'Eden. Che importa? Il mondo non era seminato di teatri e di mecenati che portavano in palma di mano lei e Bibì? Soltanto, come i principi son rari, e i mecenati vogliono sapere dove vanno a finire i loro denari, i due amanti fecero le cose con maggior cautela, e le fanciullaggini a usci chiusi. Bibì era felice come un Dio, viaggiando da una capitale all'altra, in prima classe, ben vestito, ben pasciuto, a tu per tu cogli impresari e i primi signori del paese che accorrevano a fare omaggio alla sua diva. Se bisognava ecclissarsi qualche volta discretamente dinanzi a loro, lo faceva con un sorriso che voleva dire:
- Poveretti! - Le stesse scene di gelosia sembravano combinate apposta per infiorare quel paradiso, come una carezza all'amor proprio di entrambi, una protesta dignitosa dell'amante, e una delicata occasione offerta all'amata di tornare a giurargli e spergiurargli la sua fede:
- No, caro!... Lo sai!...


Sei tu solo il signore e il padrone... Ecco! - Basta, ora si trattava di non lasciarsi sopraffare da quell'intrigante della Noemi, che le rapiva agenti ed impresari, alla Leda, con tutte le armi lecite e illecite, e le portava via le scritture - una che non aveva dieci chili di polpa sotto le maglie! - E le portava via anche Bibì, il quale si dava il 'rossettersi ai baffi, e si metteva in ghingheri per andare ad applaudirla, 'gratis et amore'.


- Ma il ballo nuovo del cavalier Giammone non me lo porta via, no!

- giurò a se stessa la bella Leda.


Da un mese, Barbetti e tutti gli altri giornalisti che vendono l'anima a chi li paga, non facevano altro che rompere la grazia di Dio ad artisti ed abbonati con quel nome della Noemi stampato a lettere di scatola. Già erano in tanti a far la spesa degli articoli, i protettori della casta vergine! Ma il ballo nuovo del cavalier Giammone non l'avrebbe avuto, no!

Il cavaliere stava appunto parlandone coll'impresario, chiusi a quattr'occhi, dinanzi al piano del Gran Poema storico-filosofico- danzante, sciorinato sulla tavola, allorché capitò all'improvviso la signora Leda, in gran gala, e col fiato ai denti.


- Cavaliere mio!... scusatemi!... Non si parla d'altro sulla piazza!... Sarà un trionfo, vi garantisco!... Lasciatemi vedere...


- Ah! - sbuffò il coreografo colto sul fatto. - Oh!... - E si buttò sulle sue carte, quasi volessero rubargliele.


L'impresario, dal canto suo, diede una famosa lavata di capo al povero tramagnino che stava a guardia dell'uscio.


- Ho dato ordine di non essere disturbato, quando sono in seduta!

Nessuno entra senza essere annunziato!... - Dopo tanti anni che le porte si spalancavano dinanzi a lei, e gli impresari le venivano incontro col cappello in mano! Se non la colse un accidente, fu proprio un miracolo. Barbetti, che la incontrò all'uscita così rossa e sconvolta, non poté tenersi dal dirle ridendo:

- Come va, bellezza?

- Senti! - rispose lei, fuori della grazia di Dio davvero; - senti, faresti meglio a stare alla porta della Noemi, per vedere chi va e chi viene, giacché fai quel bel mestiere! - All'occasione la signora Leda aveva la lingua in bocca anche lei - la bocca amara come il tossico. - Per rifarsela dovette fermarsi al Biffi, a bere qualche cosa. Bibì era là, al solito, in trono fra gli amici. Tutti quanti, ad uno ad uno, per far la corte a lei e a lui, cominciarono a dire ira di Dio della Noemi - che non aveva scuola - che non aveva grazia - che non aveva questo e non aveva quest'altro. Già l'avevano tutti quanti a morte coll'Impresa che lasciava disponibili i migliori soggetti. Poi, dopo che l'amorosa coppia si fu congedata, fra grandi inchini e scappellate - Bibì stavolta volle accompagnare la sua signora per sentir bene come era andata a finire, un po' inquieto e nervoso in fondo, ma disinvolto, giocherellando colla mazzettina, lei tutta arzilla e saltellante, col sorriso di cinabro e le rose sulle guance (quantunque si sentisse soffocare nella giacchetta attillata) per non dar gusto ai colleghi, Scamboletti, il celebre buffo, che era anche il burlone della compagnia, mandò loro dietro questo saluto:

- Lei sì che n'ha della grazia di Dio!... Una balena! - Anzi citò un'altra bestia. - Senza invidia però, Bibì! - Senza invidia, a lui, Bibì, che era un pascià a tre code, e di donne ne aveva sino ai capelli, damone e titolate?... Basta, era un gentiluomo! E sapeva anche quello che andava reso alla sua signora. Ma in quanto all'arte però non era partigiano, e ammirava ugualmente tutti i generi. Leda era del genere classico? E lui l'aveva fatta subito scritturare al Carcano, un teatro di cartello anche questo, non c'è che dire. Oggi, pei balli grandi, bastano le seconde parti, gambe e macchinario. Piacciono anche questi?

Ebbene, batteva le mani lui pure, senza secondi fini.


Ma la Leda, che non aveva più un cane che le battesse le mani, era diventata gelosa come un accidente, e gli amareggiava la vita, povero galantuomo. Lagrime, rimproveri, scene di famiglia continuamente. Alle volte, magari, lui doveva buttar via il tovagliolo a mezza tavola, per non buttarle il piatto in faccia.


Tanto, quella poca grazia di Dio gli andava tutta in veleno.


Si rappattumavano dopo, è vero; perché quando si è fatto per un uomo quello che aveva fatto lei!... - E quando si è un gentiluomo come era lui!... Ma però artisti l'uno e l'altra, dopo la commedia delle paci e delle tenerezze si tenevano d'occhio a vicenda, e la signora Leda, a buon conto, aveva messo un tramagnino alle calcagna di Bibì, per scoprire il dietro scena nel repertorio delle sue tenerezze. Talché gli amici al vederlo sempre con la guardia del corpo, gli affibbiarono il titolo di 'Re di picche'.


Infine tanto tuonò che piovve, la sera stessa della beneficiata di Leda, che non c'erano duecento persone al Carcano. Ella cercò di sfogarsi con Bibì «il quale faceva il risotto» alla Noemi, invece!

lui e i suoi amici! bestie e animali tutti quanti, che non sapevano neppure dove stesse di casa il vero merito! e si lasciavano prendere all'amo dalle grazie di quella diva, la quale rideva di loro, poi - sicuro! - di lui pel primo! - Gonzo!

- Via, fammi il piacere! - interruppe Bibì accendendo un mozzicone di sigaro dinanzi allo specchio.


- Ah, non vuoi sentirtela dire? Già, quella lì non ti piglia certo pei tuoi begli occhi, mio caro! - Schizzava fuoco e fiamme dagli occhi, lei, colle ciglia ancora tinte e il rossetto sulla faccia, così come si trovava all'uscire dal teatro, una Furia d'Averno - dopo tutto quello che aveva fatto per lui, e le occasioni che gli aveva sacrificato, ricconi e pezzi grossi, che se avesse voluto, ancora!...


- Fammi il piacere, via! - tornò a dire Bibì con quel ghignetto che la faceva uscire dai gangheri.


- Allora senti! Bada bene a quello che fai! Bada bene, veh! Che son capace di andare a romperle il muso, alla tua casta diva! - E qui un mondo di altre porcherie:
- che lui era roba sua, di lei, giacché lo pagava e lo manteneva, e si rompeva la grazia di Dio, laggiù al Carcano, per mantenergli anche la casta diva! - Allorché era in bestia la signora Leda sbraitava tal quale come la sua portinaia, e vomitava gli improperi che aveva inteso al Verziere, quando stava da quelle parti. - Puzzone! Svergognato! Ti pago perfino il sigaro che hai in bocca!... - Scendere sino a queste bassezze, via! Talché Bibì stavolta perse il lume degli occhi e l'educazione, e gliene disse d'ogni specie anche lui, buttando in aria ogni cosa, dediche, omaggi, ritratti e corone sotto vetro, tutto quanto v'era in salotto, e quando non ebbe più che dire buttò anche le mani addosso a lei, senza riguardo neppure al rossetto e alle finte che costavano 50 lire al paio. - Già al Carcano non ci avrebbe ballato più per un pezzo, la brutta bestia, tante gliene diede, - e il meglio era di prendere il cappello e andarsene via, poiché il vicinato era tutto sul pianerottolo, e colla Questura lui non voleva averci a che fare di nuovo, dopo che gli aveva rotto le scatole per altre sciocchezze.


Stavolta sembrava bell'e finita per sempre fra Bibì e la sua signora. - Ciascuno per la sua strada, e alla grazia di Dio tutt'e due, in cerca di miglior fortuna, - se non fossero stati i buoni amici che vi si misero di mezzo. Tanto, dopo tanto tempo che stavano insieme, erano più di marito e moglie. No, lei non poteva starci senza Bibì. Fosse sorte, fosse malìa, la teneva legata ad un filo, come essa ne aveva tenuti tanti, uomini seri, ed uomini forti, che in mano sua sembravano delle marionette. E anche Bibì, a parte l'interesse, un cuor d'oro in fondo, che non si poteva dire lo facesse muovere l'interesse, ormai. Non tornò a servirla in ogni maniera e a procurarle le scritture egli stesso? in America, in Turchia, dove poté, giacché al giorno d'oggi soltanto laggiù sanno conoscere ed apprezzare le celebrità. - Prova i vaglia postali che lei mandava, poco o molto, quanto poteva.


Un cuor d'oro. E allorché la povera donna batté il bottone finale, e sbarcò a Genova senza un quattrino, bolsa e rifinita, chi trovò alla stazione, a braccia aperte? Chi si fece in quattro per scovarle qua e là mezza dozzina di ragazze promettenti, e insediarla maestra di ballo addirittura? Chi le prestò i mezzi, a un tanto al mese, per metter su «pensione d'artisti» - una speculazione che sarebbe riuscita un affarone, se non ci si fosse messa di mezzo la Questura, che l'aveva particolarmente con Bibì?

E come ogni cosa andava di male in peggio, cogli anni e la disdetta, chi le prestò qualche ventina di lire, al bisogno, di tanto in tanto, quando si poteva? Dio mio, le ventine di lire bisogna sudare sangue e acqua a metterle insieme; e quando si diceva prestare, da lui a lei, era un modo di dire.


E al calar del sipario, infine, allorché la povera Leda andò a finire dove finiscono gli artisti senza giudizio, chi andò a trovarla qualche volta all'ospedale, e portarle ancora dei soldi, se mai, per gli ultimi bisogni?

Bibì ne aveva avuto del giudizio, è vero, e un po' di soldi aveva messo da parte, col risparmio e gli interessi modici, tanto da render servizio a qualche amico, se era solvibile, e da far la quieta vita, coi suoi comodi e la sua brava cuoca. Perciò quelle visite all'ospedale gli turbavano la digestione, gli facevano venire le lagrime agli occhi, e non era commedia, no, quando ne parlava poi cogli amici, al caffè.


- Bisogna vedere, miei cari! Una cosa che stringe il cuore, chi ne ha! L'avreste creduto, eh? Lei abituata a dormire nella batista!... E ridotta che non si riconosce più... Un canchero, un diavolo al petto... che so io... Non ho voluto vedere neppure. Lei ha sempre la smania di far vedere e toccare a tutti quanti. E delle pretese poi! Certe illusioni!... Non si dà ancora il rossetto? Misera umanità! Ieri, sentite questa, vo sin laggù a Porta Nuova, apposta per lei, con questo caldo, e trovo la scena della 'Traviata': «O ciel morir sì giovane...» «Mia cara:..


giovani o vecchi... Voi guarirete, ve lo dico io!» «Ah! Oh!» Allora viene la parte tenera, e vuol sapere se sono sempre io...


lo stesso amico... da contarci su... «Certo... certo...


Diamine!...» O non mi esce a dire di condurla via? Sissignore - che una volta via di lì è sicura di guarire - che vogliono operarla - che ha paura del medico: «Per carità! Per amor di Dio!» «Un momento, cara amica! Che diamine, un momento!» Ella si rizza come una disperata, afferrandomi pel vestito, baciandomi le mani... Non ci torno più, parola d'onore! - E vedendo che ci voleva anche quello, dalla faccia degli amici, Bibì asciugò una furtiva lagrima.



L'ultima giornata


I viaggiatori che erano nelle prime carrozze del treno per Como, poco dopo Sesto, sentirono una scossa, e una vecchia marchesa, capitata per sua disgrazia fra un giovanotto e una damigella di quelle col cappellaccio grande, sgranò gli occhi e arricciò il naso.


Il signorino aveva una magnifica pelliccia, e per galanteria voleva dividerla colla sua vicina più giovane, sebbene fosse primavera avanzata. Fra il sì e il no, stavano appunto aggiustando la partita, nel momento in cui il treno sobbalzò. Per fortuna la marchesa era conosciuta alla stazione di Monza, e si fece dare un posto di cupé.


I giornali della sera raccontavano:

«Oggi, nelle vicinanze di Sesto, fu trovato il cadavere di uno sconosciuto fra le rotaie della ferrovia. L'autorità informa».


I giornali non sapevano altro. Una frotta di contadini che tornavano dalla festa di Gorla si erano trovati tutt'a un tratto quel cadavere fra i piedi, sull'argine della strada ferrata, e avevano fatto crocchio intorno curiosi per vedere com'era. Uno della brigata disse che incontrare un morto la festa porta disgrazia; ma i più ne levano i numeri del lotto.


Il cantoniere, onde sbarazzare le rotaie, aveva adagiato il cadavere nel prato, fra le macchie, e gli aveva messa una manciata d'erbacce sulla faccia, che era tutta sfracellata, e faceva un brutto vedere, per chi passava. Fra un treno e l'altro corsero il pretore, le guardie, i vicini, e com'era la festa dell'Ascensione, nei campi verdi si vedevano i pennacchi rossi dei carabinieri e i vestiti nuovi dei curiosi.


Il morto aveva i calzoni tutti stracciati, una giacchetta di fustagno logora, le scarpe tenute insieme collo spago, e una polizza del lotto in tasca. Cogli occhi spalancati nella faccia livida, guardava il cielo azzurro.


La giustizia cercava se era il caso di un assassinio per furto, o per altro motivo.


E fecero il verbale in regola, né più né meno che se in quelle tasche ci fossero state centomila lire. Poi volevano sapere chi fosse, e d'onde venisse; nome, patria, paternità e professione.


D'indizi non rimanevano che la barba rossa, lunga di otto giorni, e le mani sudice e patite: delle mani che non avevano fatto nulla, e avevano avuto fame da un gran pezzo.


Alcuni l'avevano riconosciuto a quei contrassegni. Fra gli altri una brigata allegra che faceva baldoria a Loreto. Le ragazze che ballavano, scalmanate e colle sottane al vento, avevano detto:

- Quello là non ha voglia di ballare! - Egli andava diritto per la sua strada, colle braccia ciondoloni, le gambe fiacche, e aveva un bel da fare a strascinare quelle ciabatte, che non stavano insieme. Un momento si era fermato a sentir suonare l'organetto, quasi avesse voglia di ballar davvero, e guardava senza dir nulla. Poi seguitò ad allontanarsi per il viale che si stendeva largo e polveroso sin dove arrivava l'occhio. Camminava sulla diritta, sotto gli alberi, a capo chino.


Il tramvai era stato a un pelo di schiacciarlo, tanto che il cocchiere gli aveva buttato dietro un'imprecazione e una frustata.


Egli aveva fatto un salto disperato per scansare il pericolo.


Più tardi lo videro sul limite di un podere, seduto per terra, in attitudine sospetta. Pareva che strologasse la pezza di granoturco, o che contasse i sassi del canale. Il garzone della cascina accorse col randello, e gli si accostò quatto quatto.


Voleva vedere cosa stesse macchinando là quel vagabondo, mentre le pannocchie del granoturco ci voleva del tempo ad esser mature, e in tutto il campo, a farlo apposta, non vi sarebbe stato da rubare un quattrino.


Allorché gli fu addosso vide che si era cavate le scarpe, e teneva il mento fra le palme. Il garzone, col randello dietro la schiena, gli domandò cosa stesse a far lì, nella roba altrui; e gli guardava le mani sospettoso. L'altro balbettava senza saper rispondere, e si rimetteva le scarpe mogio mogio. Poi si allontanò di nuovo, col dorso curvo, come un malfattore.


Andava lungo l'argine del canale, sotto i gelsi che mettevano le prime foglie. I prati, a diritta e a sinistra, erano tutti verdi.


L'acqua, nell'ombra, scorreva nera, e di tanto in tanto luccicava al sole, un bel sole di primavera, che faveva cinguettare gli uccelli.


Il garzone aggiunse che era rimasto più di un'ora in agguato per vedere se tornasse quel vagabondo; e non avrebbe mai creduto che facesse tante storie per andare a finire sotto una locomotiva.


L'aveva riconosciuto da quelle scarpe che non si reggevano neppure collo spago, e gli erano saltate fuori dai piedi, di qua e di là dalle rotaie.


- Gli è che al momento in cui le ruote vi son passate di sopra quei piedi hanno dovuto sgambettare! - osservò il cameriere dell'osteria, corso sin là all'odore del morto come un corvo, in giubba nera e col tovagliuolo al braccio. Egli aveva visto passare quello sconosciuto dall'osteria verso mezzogiorno: una di quelle facce affamate che vi rubano cogli occhi la minestra che bolle in pentola, quando passano. Perfino i cani l'avevano odorato, e gli abbaiavano dietro quelle scarpacce che si slabbravano nella polvere.


Come il sole tramontava l'ombra del cadavere si allungava, dai piedi senza scarpe, a guisa di spaventapassere, e gli uccelli volavano via silenziosi. Dalle osterie vicine giungevano allegri il suono delle voci e la canzone del Barbapedana. In fondo al cortile, dietro le pianticelle magre in fila si vedevano saltare e ballare le ragazze scapigliate. E quando il carro che portava i resti del suicida passò sotto le finestre illuminate, queste si oscurarono subito dalla folla dei curiosi che si affacciavano per vedere. Dentro, l'organetto continuava a suonar il valzer di Madama Angot.


Più tardi se ne seppe qualche cosa. La affittaletti di Porta Tenaglia aveva visto arrivare quell'uomo della barba rossa una sera che pioveva, era un mese, stanco morto, e con un fardelletto sotto il braccio che non doveva dargli gran noia. Ed essa glielo aveva pesato cogli occhi per vedere se ci erano dentro i due soldi pel letto prima di dirgli di sì. Egli aveva domandato prima quanto si spendeva per dormire al coperto. Poi ogni giorno che Dio mandava in terra aspettava che gli arrivasse una lettera, e si metteva in viaggio all'alba, per andar a cercare quella risposta, colle scarpe rotte, la schiena curva, stanco di già prima di muoversi. Finalmente la lettera era venuta, col bollino da cinque.


Diceva che nell'officina non c'era posto. La donna l'aveva trovata sul materasso, perché lui quel giorno era rimasto sino a tardi col foglio in mano, seduto sul letto, colle gambe ciondoloni.


Nessuno ne sapeva altro. Era venuto da lontano. Gli avevano detto:

- A Milano, che è città grande, troverete -. Egli non ci credeva più; ma si era messo a cercare finché gli restava qualche soldo.


Aveva fatto un po' di tutti i mestieri: scalpellino, fornaciaio, e infine manovale. Dacché si era rotto un braccio non era più quello; e i capomastri se lo rimandavano dall'uno all'altro, per levarselo di fra' piedi. Poi quando fu stanco di cercare il pane si coricò sulle rotaie della ferrovia. A che cosa pensava, mentre aspettava, supino guardando il cielo limpido e le cime degli alberi verdi? Il giorno innanzi, mentre tornava a casa colle gambe rotte, aveva detto:
- Domani! - Era la sera del sabato; tutte le osterie del Foro Bonaparte piene di gente fin sull'uscio, al lume chiaro del gas, dinanzi alle baracche dei saltimbanchi, affollata alle banchette dei venditori ambulanti, perdendosi nell'ombra dei viali, con un bisbiglio di voci sommesse e carezzevoli. Una ragazza in maglia color carne suonava il tamburo sotto un cartellone dipinto. Più in là una coppia di giovani seduti colle spalle al viale si abbracciavano.


Un venditore di mele cotte tentava lo stomaco colla sua mercanzia.


Passò dinanzi una bottega socchiusa; c'era in fondo una donna che allattava un bimbo, e un uomo, in maniche di camicia, fumava sulla porta. Egli camminando guardava ogni cosa, ma non osava fermarsi; gli sembrava che lo scacciassero via, via, sempre via. I cristiani pareva che sentissero già l'odor del morto, e lo evitavano. Solo una povera donna, che andava a Sesto curva sotto una gran gerla e brontolando, si mise a sedersi sul ciglio della strada accanto a lui per riposarsi; e cominciò a chiacchierare e a lamentarsi, come fanno i vecchi, ciarlando dei suoi poveri guai: che aveva una figlia all'ospedale, e il genero la faceva lavorare come una bestia; che gli toccava andare fino a Monza con quella gerla lì, e aveva un dolore fisso nella schiena che gliela mangiavano i cani.


Poi anche essa se ne andò per la sua strada, a far cuocere la polenta del genero che l'aspettava. Al villaggio suonava mezzogiorno, e tutte le campane si misero in festa per l'Ascensione. Quando esse tacevano una gran pace si faceva tutto a un colpo per la campagna. A un tratto si udì il sibilo acuto e minaccioso del treno che passava come un lampo.


Il sole era alto e caldo. Di là della strada, verso la ferrovia, le praterie si perdevano a tiro d'occhio sotto i filari ombrosi di gelsi, intersecate dal canale che luccicava fra i pioppi.


- Andiamo, via! è tempo di finirla! - Ma non si muoveva, col capo fra le mani. Passò un cagnaccio randagio e affamato, il solo che non gli abbaiasse, e si fermò a guardarlo fra esitante e pauroso; poi cominciò a dimenar la coda. Infine, vedendo che non gli davano nulla, se ne andò anche esso; e nel silenzio si udì per un pezzetto lo scalpiccìo della povera bestia che vagabondava col ventre magro e la coda penzoloni.


Gli organetti continuarono a suonare, e la baldoria durò sino a tarda sera, nelle osterie. Poi, quando le voci si affiocarono e le ragazze furono stanche di ballare, ricominciarono a parlare del suicidio della giornata. Una raccontò della sua amica, bella come un angelo, che si era asfissiata per amore, e l'avevano trovata col ritratto del suo amante sulle labbra, un traditore che l'aveva piantata per andare a sposare una mercantessa. Ella sapeva la storia con ogni particolare; erano state due anni a cucire allo stesso tavolo. Le compagne ascoltavano mezze sdraiate sul canapè, facendosi vento, ancora rosse e scalmanate. Un giovanotto disse che egli, se avesse avuto motivo di esser geloso, avrebbe fatta la festa a tutti e due, prima lei e poi lui, con quel trincetto che portava indosso, anche quando non era a bottega - non si sa mai! - E si posava colle mani in tasca davanti alle ragazze, che lo ascoltavano intente, bel giovane com'era, coi capelli inanellati che gli scappavano di sotto a un cappelluccio piccino piccino. Il cameriere portò delle altre bottiglie, e tutti, coi gomiti allungati sulla tovaglia, parlavano di cose tenere, cogli occhi lustri, stringendosi le mani. - In questo mondo cane non c'è che l'amicizia e un po' di volersi bene. Viva l'allegria! Una bottiglia scaccia una settimana di malinconia.


Alcuni si misero in mezzo a rappattumare due pezzi di giovanotti che volevano accopparsi per gli occhi della morettina che andava dall'uno all'altro senza vergogna. - È il vino! è il vino! - si gridava. - Viva l'allegria! - I pacieri furono a un pelo di accapigliarsi coll'oste per alcune bottiglie che vedevano di troppo sul conto. Poi tutti uscirono all'aria fresca, nella notte che era già alta. L'oste stette un pezzetto sprangando tutte le porte e le finestre, facendo i conti sul libraccio unto. Poi andò a raggiungere la moglie che sonnecchiava dinanzi al banco, col bimbo in grembo. Le voci si perdevano in lontananza per la strada, con scoppi rari e improvvisi di allegria. Tutto intorno, sotto il cielo stellato, si faceva un gran silenzio, e il grillo canterino si mise a stridere sul ciglio della ferrovia.





L'ultima visita


Nel palazzo Dolfini tutt'a un tratto era calata una nube di tristezza. La malattia di donna Vittoria, che durava da circa una settimana, si era aggravata nella notte. Il medico, prima d'andarsene, aveva scritto un'ultima ordinazione sul tavolino dell'anticamera, volgendo le spalle all'uscio, dinanzi al servitore serio e grave, di già in cravatta bianca sino dalle dieci di mattina. I parenti e gli amici intimi arrivavano, uno dopo l'altro, col viso lungo; attraversavano in punta di piedi tutta l'infilata delle stanze oscure sino al salotto dove era il marito dell'inferma, in piedi, fra un crocchio di intimi che scambiavano qualche parola a bassa voce, e li accoglieva con una stretta di mano silenziosa che rispondeva alle mute interrogazioni. Di tanto in tanto un domestico in fretta; una cameriera socchiudeva discretamente l'uscio della camera buia del tutto. Là dentro a intervalli si udiva come un soffio di parole mormorate da voci che sembravano di un altro mondo; e il fruscìo dei vestiti dava l'immagine di un battere d'ali.


Era una pleurite che donna Vittoria aveva presa all'uscire da una festa, in mezzo al suo drappello di eleganti che si affrettavano a metterle la pelliccia su le spalle, a darle il braccio, ad aprirle lo sportello del legno tiepido e profumato come un nido. Ella aveva sentito in quel momento un brivido scenderle per le belle spalle nude, ancora ansanti per il valzer, sotto la lontra del mantello. Poi si era messa a letto e non si era più levata. Il suo medico, il medico della società, era venuto da principio a far quattro chiacchiere, sprofondato nella gran poltrona ai piedi del letto, buttando giù svogliatamente, prima d'andarsene, senza togliersi i guanti, due o tre righi della sua bella scrittura di signora su di un foglietto medioevo con la corona a cinque foglie.


Però dopo due o tre giorni si era fatto serio, e il marito l'accompagnava nel salotto, fermandosi a parlare tutti e due un momento nel vano della finestra. Alla porta era una vera processione di carrozze, di amici, di servitori in livrea, che lasciavano una parola, un nome, una carta di visita, delle quali il portinaio ogni sera recava un vassoio tutto pieno in anticamera, colla lista fitta di condoglianze e d'augùri, insieme col bollettino del giorno accomodato in guisa da poter passare sotto gli occhi dell'inferma, la quale voleva leggere tutti i giorni i nomi di coloro che erano venuti a domandare della sua salute; e alle volte gli occhi ardenti di febbre si fermavano su di una firma, e si velavano di lagrime.


Ogni sera miss Florence lasciava il romanzo che stava leggendo, e scendeva con la bimba nella camera di donna Vittoria, la quale le accoglieva con un sorriso pallido. La figliuola, una ragazzina bianca e delicata, con lunghe trecce color d'oro pendenti giù per le spalle, e le attaccature fini di già, quasi fosse una donnina, andava a baciare la mamma in punta di piedi, col passo discreto di ragazzina bene educata. Poi le augurava la buona notte in inglese o in tedesco, secondo la giornata, e se ne andava dietro all'istitutrice, diritta ed impettita. Infine, la vigilia, donna Vittoria aveva trattenuto la ragazzina per mano, e le aveva parlato, nella sua lingua nativa, due o tre parole che accusavano la febbre, col sorriso triste nel viso color di cera. La bimba ascoltava seria e zitta, coi grand'occhi azzurri spalancati. Più tardi il medico era venuto due volte e aveva chiesto un consulto.


Nel salotto, il vai e vieni degli intimi era stato più affaccendato ed ansioso. Nella sala accanto, dietro la tenda dell'uscio, si udivano i medici a consulto, la conversazione era di tratto in tratto interrotta da qualche parola misteriosa seguìta da brevi silenzi. Nel cortile, il frastuono degli staffieri e delle carrozze contrastava col silenzio solenne degli altri giorni, come qualcosa fosse mutato in quella casa. Sino a notte avanzata lo stesso coupé che aveva ricondotto la signora dal ballo aspettò attaccato nel cortile, co' suoi due fanali accesi che si riverberavano sull'acqua della fontana. Il giorno dopo arrivò la visita insolita di una lontana parente, mezza beghina, che il legno era andata a prendere; e dinanzi al suo vestito quasi umile, gli usci dorati si spalancarono premurosi. Ella andò ad assidersi al capezzale dell'inferma, con un'aria d'intimità quasi materna, chiedendole della salute, chiacchierando di mille cose con la voce pacata della donna che vive nella pace della chiesa.


Parlò di se stessa, de' suoi piccoli guai di tutti i giorni, del solo conforto che si trova nella religione. Giusto cominciava allora la Quaresima, l'epoca della penitenza dopo i peccati del Carnevale. Alle volte le malattie sono avvertimenti che il Signore ci dà perché ci si rammenti di lui. Per questo i buoni cristiani antichi usavano far venire il Viatico appena fossero malati da più di otto giorni; non è giusto aspettare all'ultimo momento per riconciliarsi con Dio. Si era visto tante volte, con tanti malati gravi, che già il miglior rimedio è una buona confessione.


- Quando? - chiese soltanto donna Vittoria, bianca come il merletto del suo guanciale.


- Ma... più presto è, meglio è! Dio non si fa aspettare.


- Va bene! - mormorò l'inferma.


E non aggiunse altro; e seguitava a fissare il volto scialbo della vecchietta con gli occhi immobili, ardenti.


Appena questa se ne fu andata, fece chiamare suo marito.


Aveva un altro viso; un viso in cui ad un tratto fossero passati vent'anni di malattia e fosse discesa una calma di morte. La voce le si era fatta profonda e rauca, come qualcosa cominciasse a mancare in lei.


- Vorrei vedere i miei amici... tutti i miei amici... - mormorò.


E la sfilata incominciò: tutti quelli che erano passati a chieder notizie di lei; tutti quelli che poterono essere informati del desiderio dell'inferma; così, come si incontravano, amici e conoscenti, in visita, dal confettiere, fra una pasta e un bicchierino di madera, al Corso, con una parola buttata là fra tante altre di chi veniva a dare il buon giorno allo sportello della carrozza. Nella sala tornarono a sfilare dei lunghi strascichi di seta, dei passi che facevano scricchiolare gli stivalini verniciati, delle ondate di profumi leggeri e delicati nell'atmosfera grave, delle osservazioni brevi scambiate a bassa voce nell'uscire con un segno del capo, stringendo il manicotto sul petto, e con la mazzettina in mano. Calava la sera, una sera tiepida e dorata di primavera. Per la via si udiva il rumore non interrotto delle file delle carrozze che tornavano dal passeggio.


Solo la camera dell'inferma, che dava sul giardino, rimaneva in gran pace. Un domestico portò una lampada accesa.


Giungeva ancora qualcheduno in ritardo, col viso interrogativo, che il marito introduceva, uno per volta, con un cenno del capo e qualche parola lenta. Poi lui si lasciava cadere nella gran poltrona del medico ai piedi del letto, come vinto dalla stanchezza; e stava a guardare l'inferma, di già coi segni della morte sul viso all'ombra della ventola ricamata. Ella salutava gli amici con una occhiata, con un sorriso triste, con qualche parola breve e dolce che sembrava una carezza, e ad ogni nuovo arrivo le si rischiarava il viso, quasi girassero il paralume dall'altra parte. Indi tornava ad oscurarsi, come si riaffacciasse a lei il sentimento del suo stato. Ad ogni momento voleva sapere che ora fosse.


- E il signor Ginoli non si fa vedere? - chiese infine.


Il marito non rispose; si guardarono un istante. Ella non distolse gli occhi, col viso immobile e pallido. E con quegli occhi in un istante si dissero tutto. Il marito, quando passò nelle altre stanze e la lasciò sola un momento, aveva le spalle curve come gli pesassero addosso cent'anni.


Allora l'inferma, fra una visita e l'altra, chiamò la cameriera, e le disse due o tre parole che la ragazza sola poté udire, tanto le era mancata la voce. La cameriera ascoltava, impassibile, ai piedi del letto, stecchita nel suo grembiulino di seta nera che le serrava il petto magro. Poi, al momento di andare, si chinò all'improvviso, e baciò la mano della padrona scoppiando in lacrime.


- Va! - disse donna Vittoria, accarezzandole i capelli. - Va. Non piangere -.


Si udì il rumore di un legno che usciva dal portone. Poscia, ad intervalli, una specie di silenzio d'attesa. In quel silenzio le poche parole che si scambiavano due o tre persone lì presenti, facevano quasi trasalire. L'inferma allora fissava l'uscio con gli occhi lucenti, gli occhi che soli sembravano vivi in quell'ombra.


Ad un tratto si udì il legno che tornava, poi un passo leggero sul tappeto, ed entrò un giovanotto sulla trentina, biondissimo, bianco tanto che sembrava pallido, con un soprabito scuro abbottonato fin sotto il mento, e la lente pendente sul petto a un filo che non si vedeva, come un bottone d'acciaio piantato lì.


Nell'anticamera egli aveva domandato al domestico:

- Come sta?...


- Male, male assai - rispose questi.


Il giovanotto entrò col passo incerto e l'occhio smarrito. Nelle altre stanze non incontrò nessuno.


- Oh, Ginoli! - disse l'inferma, con un sorriso.


Egli non rispose, aspirando fortemente, quasi gli fosse mancato il fiato nel salire la scala in fretta. Infine balbettò:

- Va meglio, non è vero? giacché mi hanno lasciato passare... - Ella accennò di sì col capo, due o tre volte, poscia balbettò:

- Stasera mi sento un po' male... ma ho visto tanta gente... e sono stanca. Però fa piacere rivedere gli amici... - La contessa Bruni, che era rimasta sino a quel momento, si alzò per accomiatarsi.


- Addio, - disse donna Vittoria, come essa si fermava a stringerle la mano a lungo.


Rimasero una signora attempata, amica di casa, che si era offerta di vegliare la notte, e due altri, marito e moglie, zii per parte di madre di donna Vittoria. La zia parlava di cure portentose, di guarigioni insperate. Gli altri tacevano, senza ascoltare.


- Verrete domani? - disse lei, voltando il capo verso Ginoli.


Egli balbettò di sì.


Ella stette a guardarlo, quasi colpita da quelle parole istesse. E ad un tratto due lagrime le scesero lentamente sulle guance.


- Quando sarà giorno? - riprese. E voltò la testa dall'altra parte, senza aspettare la risposta.


Di tanto in tanto la cameriera attraversava la camera, senza far rumore, o si udiva il passo leggero di un servitore nella sala accanto. Allora levavano il capo tutti insieme, senza sapere perché.


Soltanto l'inferma mormorava a lunghi intervalli:

- Mi sento male, mi sento male assai -.


Una volta Ginoli, come fuori di sé, si alzò per congedarsi. Ma ella se ne avvide, e gli disse, con gli occhi sempre rivolti al cielo del letto:

- Ve ne andate di già... - Si udì un campanello per la strada, e uno scalpiccìo che si avvicinava. Poi fu aperto bruscamente l'uscio della camera, quasi dicessero a Ginoli:

- Ora andatevene -.


L'inferma volse il capo ottenebrato dall'agonia, e gli stese la mano agitando le labbra come per mormorare parole inintelligibili.


Egli la strinse: era fredda. E se ne andò barcollando come un ubbriaco. Nel salotto si imbatté nel marito, e si guardarono un istante, immobili. In quel momento si udì in anticamera il campanello del viatico; il marito chinò il capo, pallidissimo.


L'altro si dileguò rapidamente.


Attraverso la lunga fila di stanze deserte e silenziose, passava solo il suono di quel campanello squillante.






Vagabondaggio


Nanni Lasca, da ragazzo, non si rammentava altro: suo padre, compare Cosimo, che tirava la fune della chiatta, sul Simeto, con Mangialerba, Ventura e l'Orbo; e lui a stendere la mano per riscuotere il pedaggio. Passavano carri, passavano vetturali, passava gente a piedi e a cavallo d'ogni paese, e se ne andavano pel mondo, di qua e di là del fiume.


Prima compare Cosimo aveva fatto il lettighiere. E Nanni aveva accompagnato il babbo nei suoi viaggi, per strade e sentieri, sempre coll'allegro scampanellìo delle mule negli orecchi. Ma una volta, la vigilia di Natale - giorno segnalato - tornato a Licodia colla lettiga vuota, compare Cosimo trovò al Biviere la notizia che sua moglie stava per partorire. - Comare Menica stavolta vi fa una bella bambina, - gli dicevano tutti all'osteria. E lui, contento come una Pasqua, si affrettava ad attaccare i muli per arrivare a casa prima di sera. Il baio, birbante, che lo guardava di mal'occhio, per certe perticate che se l'era legate al dito, come lo vide spensierato, che si chinava ad affibiargli il sottopancia canterellando, affilò le orecchie a tradimento - jjj!

- e gli assestò un calcio secco.


Nanni era rimasto nella stalla, a scopare quel po' d'orzo rimasto in fondo alla mangiatoia. Al vedere il babbo lungo disteso nell'aia, che si teneva il ginocchio colle due mani, e aveva la faccia bianca come un morto, volle mettersi a strillare. Ma compare Cosimo balbettava:
- Va' a pigliare dell'acqua fresca, piuttosto. Va' a chiamare lo zio Carmine, che mi aiuti -. Accorse il ragazzo dell'osteria col fiato ai denti.


- O che è stato, compare Cosimo? - Niente, Misciu. Ho paura di aver la gamba rotta. Va' a chiamare il tuo padrone piuttosto, che mi aiuti -.


Lo zio Carmine andava in bestia ogni volta che lo chiamavano:
- Che c'è? Cosi è successo? Non mi lasciano stare un momento, santo diavolone! - Finalmente comparve sulla porta, sbadigliando, col cappuccio sino agli occhi.- Cosi è stato? Ora che volete? Laciate fare a me, compare Cosimo -.


Il poveraccio lasciava fare, colla gamba ciondoloni, come se non fosse stata più roba sua. - Questa è roba della Gagliana, - conchiuse lo zio Carmine, posandolo di nuovo in terra adagio adagio. Allora compare Cosimo sbigottì, e si abbandonò sul ciglione, stralunato.


- Sta' zitto, malannaggia! che gli fai la jettatura, a tuo padre!

- esclamò lo zio Carmine, seccato dal piagnucolare che faceva Nanni, seduto sulle calcagna.


Cadeva la sera, smorta, in un gran silenzio. Poi si udirono lontano le chiese di Francofonte, che scampanavano.


- La bella vigilia di Natale che mi mandò Domeneddio! - balbettò compare Cosimo, colla lingua grossa dallo spasimo.


- Sentite, amico mio, - disse infine lo zio Carmine, che sentiva l'umidità del Biviere penetrargli nelle ossa. - Qui non possiamo farvi nulla. Per muovervi di come siete adesso, ci vorrebbe un paio di buoi.


- Che mi lasciate così, in mezzo alla strada? - si mise a lamentarsi compare Cosimo.


- No, no, siamo cristiani, compare Cosimo. Bisogna aspettare lo zio Mommu per darci una mano. Intanto vi manderò un fascio di fieno, e anche la coperta della mula, se volete. Il fresco della sera è traditore, qui nel lago, amico mio. Tredici anni che compro medicine!

- Ha la malaria nella testa il padrone, - disse poi Misciu, il ragazzo della stalla, tornando col fieno e la coperta. - Non fa altro che dormire, tutto il giorno -.


Intanto sopra i monti spuntava la prima stella; poi un'altra, poi un'altra. Compare Cosimo, sudando freddo, col naso in aria, le contava ad una ad una, e tornava a lamentarsi:

- Che non giunge mai compare Mommu? Che mi lasciate qui stanotte, cristiani?

- Tornerà, tornerà, non dubitate, - rispondeva Misciu accoccolato su di un sasso, col mento nelle mani.


- È andato a caccia pel Biviere. Alle volte passano mesi e settimane senza che lo veda anima viva. Ma ora che è Natale deve venire per prendere la sua roba -.


E il ragazzo, mentre ciaramellava, si andava appisolando anche lui, col mento sulle mani, raggomitolato nei suoi cenci.


- Viene di notte, viene di giorno, secondo va la caccia. Quando si mette alla posta delle anatre, lo zio Carmine gli lascia la chiave sotto l'uscio. Poi dorme di giorno, o va a vendere la selvaggina di qua e di là; ma la sua roba l'ha sempre qui, nella stalla, appesa al capezzale: il cavicchio pel fucile, il cavicchio per la carniera, ogni cosa al suo posto. Tanti anni che sta qui. Lo zio Carmine dice che era ancora giovane... - Quando compare Cosimo tornava a lamentarsi, il ragazzo trasaliva, quasi lo svegliassero, e poi tornava a borbottare, come in sogno.


Nanni, stanco di singhiozzare, sbarrava gli occhi nel buio. Tutt'a un tratto scappò una gallinella, schiamazzando.


- O zio Mommu! - si mise a chiamare Nanni ad alta voce. Dopo si spandeva un gran silenzio, nella notte.


- Sono io! - disse infine Misciu. - Non risponde per non spaventar le anatre. Poi ci ha fatta l'abitudine, a quella vita, e non parla mai -.


Però si udiva già il fruscìo dei giunchi secchi, e il tonfo degli scarponi dello zio Mommu, che sfangava nel greto.


- Qua, zio Mommu! C'è compare Cosimo che gli è successo un accidente -.


Lo zio Mommu stava a guardare, al barlume che faceva la lanterna di compare Carmine, tutto intirizzito e battendo le palpebre, con quel naso a becco di jettatore. Poi sollevarono il lettighiere al modo che diceva lo zio Carmine, uno sotto le ascelle e l'altro pei piedi.


- Cristo! come vi pesano le ossa, compare Cosimo! - sbuffava l'oste, per fargli animo con qualche barzelletta. E lo zio Mommu, mingherlino, barellava davvero come un ubbriaco, sotto quel peso.


- Ah, che vigilia di Natale mi ha mandato Domeneddio! - tornava a dire compare Cosimo, steso alfine nello strapunto come un morto.


- Non ci pensate, compare Cosimo, che ora la Gagliana vi guarisce in un batter d'occhio. Bisogna andare a chiamarla, compare Mommu, nel tempo stesso che andate a Lentini per vendere la vostra roba - .


Il vecchietto acconsentì con un cenno del capo, e mentre si preparava a partire, legandosi in testa il fazzoletto, e assettandosi la bisaccia in spalla, l'oste continuava:

- È meglio di un cerusico la Gagliana! Vedrete che vi guarirà in meno di dire un'avemaria. State allegro, compare Cosimo; e se non avete bisogno d'altro, vado a far la vigilia di Natale anche io con quei quattro maccheroni.


- E tu che non vuoi mangiare un boccone? - chiese il lettighiere, voltandosi al suo ragazzo che non si moveva di lì, smorto, colle mani in tasca, e il viso sudicio dal piangere che aveva fatto.


- No, - rispose Nanni. - No, non ho più fame -.


- Povero figlio mio! che vigilia di Natale è venuta anche per te!

-.


La Gagliana venne a giorno fatto, che lo zio Cosimo aveva il viso acceso e la gamba gonfia come un otre, talché bisognò tagliargli le brache per cavargliele, mentre la Gagliana, per modestia, si voltava dall'altra parte, cogli occhi bassi, preparando intanto ogni cosa lesta lesta: bende, stecche, empiastri, con certe erbe miracolose che sapeva lei. Poi si mise a tirare la gamba come un boia. Da principio compare Cosimo non diceva nulla, sudando a grosse gocce, e ansimando quasi facesse una gran fatica. Ma poi, tutt'un tratto, gli scappò un grande urlo, che fece drizzare a tutti i capelli in testa.


- Lasciatelo gridare, che gli fa bene! - Compare Cosimo faceva proprio come una bestia quando le si dà il fuoco. Talché lo zio Carmine si era alzato per vedere anche lui coi suoi occhioni assonnati. E Nanni strillava che pareva l'ammazzassero.


- Sembrate un ragazzo, compare Cosimo, - gli diceva l'oste. - Non vi hanno detto di star tranquillo? Foste in mano di qualche cerusico, pazienza!

- Stava fresco, Dio liberi! - saltò su la vecchia, come se l'avessero punta. - Per lo meno gli avrebbero tagliata la gamba a questo poveretto. Io non ho mai tagliato neppure un pelo in vita mia, grazie a Dio! Tutta grazia che mi dà il Signore! Ora state tranquillo, compare Cosimo, che non avete più bisogno di nulla -.


Ella sputava sul ginocchio enfiato l'empiastro che andava masticando; metteva le stecche e stringeva forte le bende, senza badare agli - ohi! - ciarlando sempre come una gazza. E quand'ebbe terminato si nettò le mani nella criniera ispida e grigia, che le faceva come una cuffia sporca sulla testa.


- Sembra un diavolo quella strega! - ammiccava l'oste allo zio Mommu, il quale stava a guardare col naso malinconico, seduto sullo strapunto, le gambe penzoloni, e sgretolando a poco a poco il suo pane nero.


Lo zio Cosimo si era lasciato andare di nuovo supino, col viso stralunato e lucente di sudore, accarezzando colla mano il suo ragazzo, e balbettando che non era nulla.


- Ora chi mi paga? - domandò infine la Gagliana.


- Non dubitate, che sarete pagata, - rispose il poveraccio più morto che vivo. - Venderò il mulo, se così vorrà Dio, e vi pagherò, sorella mia! - Com'era un bel giorno di Natale, col sole che veniva fin dentro la stalla, e le galline pure, a beccare qualche briciola di pane, la gente che era stata a sentir messa a Primosole si fermava a bere un sorso a metà strada, vedendo compare Cosimo sul pagliericcio dello stallatico, volevano sapere il come ed il perché. Poi davano un'occhiata ai muli in fondo alla stalla. L'oste li faceva vedere, fiutando la senseria:

- Belle e buone bestie! Quiete come il pane! Un affare d'oro per chi le compra, se compare Cosimo, Dio liberi, rimane storpio -.


Il baio voltava indietro il capo come se capisse, colla sua boccata di fieno in aria.


- No, no, ancora non sono in questo stato! - lagnavasi compare Cosimo dal fondo del suo giaciglio.


- Diciamo così per dire, compare Cosimo, state tranquillo. Nessuno vi vuol toccare la roba vostra, se non volete voi. Qui c'è paglia e fieno per i vostri muli, e potete tenerceli cent'anni -.


Lo sventurato pensava a quello che si sarebbero mangiati i muli, di fieno e di stallaggio, e lamentavasi:

- Stavolta non gliela faccio più la dote per la mia bambina che mi è nata adesso!

- Ora gli si manda la notizia, a vostra moglie. La prima volta che lo zio Mommu andrà a Licodia per vendere la sua roba -.


Così lo zio Mommu portò la brutta notizia alla moglie di compare Cosimo, masticando le parole, e dondolandosi ora su di una gamba e ora sull'altra, che alla prima non si capiva nulla, nella casa piena di vicine, mentre si aspettava il marito pel battesimo.


Comare Menica, poveretta, nella prima furia voleva balzare dal letto, in camicia com'era, e correre al Biviere, se non era il medico che si mise a sgridarla:

- Come le bestie, voialtri villani! Non sapete cosa vuol dire una febbre puerperale!

- Signore don Battista! Come posso fare a lasciare quel poveretto fuorivia, in mano altrui, ora che è in quello stato?...


- E voi non vi movete! - appoggiava comare Stefana. - Vostro marito andrete a trovarlo poi. Temete che scappi?

- Date retta al medico, - aggiunse la Cilona. - Compare Cosimo è in mano di cristiani. Lo vedete qui, questo poveretto, che è venuto apposta? - E lo zio Mommu accennava di sì con il capo, ritto dinanzi al letto, battendo gli occhi, non sapendo come fare per voltare le spalle ed andarsene per le sue faccende.


Indi la convalescenza, il baliatico, il bisogno dei figliuoli; e il tempo era passato. Compare Cosimo, quando infine la Gagliana gli aveva detto di alzarsi, era rimasto su di una sedia, alla porta dello stallatico, con una gamba più corta dell'altra.


- Così com'è non ve la lasciavano neppure, se eravate in mano del cerusico! - gli disse la Gagliana per consolarlo.


I muli stessi se li mangiò metà lei e metà la stalla. Quando il povero zoppo, alla porta dell'osteria, vide Nunzio della Rossa che si portava via la sua lettiga, si mise a sospirare:
- Queste campanelle non le udrò più! - E lo zio Carmine anche lui disse:

- Che diavolo rimpiangete! Quel baio birbante che vi azzoppò a quel modo? - Intanto bisognava pensare a buscarsi da vivere, lui e il suo ragazzo; e adesso che era conciato a quel modo per le feste, voleva essere un mestiere facile, di quelli poco pane e poca fatica. «Se hai un guaio, dillo a tutti». Lo zio Carmine, che era un buon diavolaccio, ne parlava con questo e con quello, e come seppe che uno della chiatta, lì vicino, era morto di malaria, disse subito a compare Cosimo:

- Questo è quello che fa per voi -.


E tanto disse e tanto fece, per mezzo anche dello zio Antonio, l'oste di Primosole, lì accanto al Simeto, che il capoccia della chiatta chinò il capo e disse di sì anche lui. D'allora in poi compare Cosimo rimase a tirar la fune, su e giù pel fiume; e con ogni conoscente che passava, mandava sempre a dire a sua moglie che sarebbe andato a vederla, un giorno o l'altro, e la bambina pure. - Verrò a Pasqua. Verrò a Natale -. Mandava sempre a dire la stessa cosa; tanto che comare Menica ormai non ci credeva più; e Nanni, ogni volta, guardava il babbo negli occhi, per vedere se dicesse davvero.


Ma succedeva che a Pasqua e a Natale si aveva sempre una gran folla da tragittare; talché quando il fiume era grosso c'erano più di cinquanta vetture che aspettavano all'osteria di Primosole. Il capoccia della chiatta bestemmiava contro lo scirocco e levante che gli toglieva il pan di bocca, e la sua gente si riposava:

Mangialerba, bocconi, dormendo sulle braccia in croce; Ventura, all'osteria; e l'Orbo cantava tutto il giorno, ritto sull'uscio della capanna, a veder piovere, guardando il cielo cogli occhi bianchi.


Comare Menica avrebbe voluto andarvi lei, a Primosole, almeno per vedere suo marito e portargli la bambina, ché il padre non la conosceva neppure, quasi non l'avesse fatta lui.


- Andrò appena avrò presi i denari del filato, - diceva essa pure.


- Andrò dopo la raccolta delle ulive, se mi avanza qualche soldo - .


Così passava il tempo. Intanto comare Menica fece una malattia mortale, di quelle che don Battista, il medico, se ne lavava le mani come Pilato.


- Vostra moglie è malata malatissima, - venivano a dirgli lo zio Cheli, compare Lanzare, tutti quelli che arrivavano da Licodia; e compare Cosimo stavolta voleva correre davvero, a piedi, come poteva.


- Prestatemi due lire per la spesa del viaggio, padron Mariano -.


Ma il capoccia rispondeva:

- Aspettate prima se vi portano un buona notizia. Alle volte, intanto che voi siete per via, vostra moglie guarisce, e voi ci perdete la spesa del viaggio -. L'Orbo invece consigliava di far dire una messa alla Madonna di Primosole, che è miracolosa. Finché giunse la notizia che da comare Menica c'era il prete.


- Vedete se avevo ragione? - esclamò padron Mariano. - Cosa andavate a fare, se non c'era più aiuto? - La bambina se l'era tolta in casa comare Stefana, per carità; e compare Cosimo era rimasto a Primosole col sul ragazzo. Tanto, l'Orbo gli diceva che, coll'aiuto di Dio, poteva vivere e morire alla chiatta al pari di lui, che vi mangiava pane da cinquant'anni. E ne aveva vista passare tanta della gente!

Passavano conoscenti, passavano viandanti che nessuno sapeva donde venissero, a piedi, a cavallo, d'ogni nazione, se ne andavano pel mondo, di qua e di là del fiume. - Come l'acqua del fiume stesso che se ne andava al mare, ma lì pareva sempre la medesima, fra le due ripe sgretolate: a destra le collinette nude di Valsavoia, a sinistra il tetto rosso di Primosole; e allorché pioveva, per giorni e settimane, non si vedeva altro che quel tetto tristo nella nebbia. Poi tornava il bel tempo, e spuntava del verde qua e là, fra le rocce di Valsavoia, sul ciglio delle viottole, nella pianura, fin dove arrivava l'occhio. Infine veniva l'estate, e si mangiava ogni cosa, il verde dei seminati, i fiori dei campi, l'acqua del fiume, gli oleandri che intristivano sulle rive, coperti di polvere.


La domenica, cambiava. Lo zio Antonio, che teneva l'osteria di Primosole, faceva venire il prete per la messa, e mandava Filomena, la sua figliuola, a scopare la chiesetta, e a raccattare i soldi che i devoti vi buttavano dentro dal finestrino, per le anime del Purgatorio. Accorrevano dai dintorni, a piedi, a cavallo, e l'osteria si riempiva di gente. Alle volte arrivava anche il Zanno, che guariva di ogni male, colle sue scarabattole; o don Tinu, il merciaiuolo, con un grande ombrellone rosso, e schierava la sua mercanzia sugli scalini della chiesa, forbici, temperini, nastri e refe d'ogni colore. Nanni si affollava insieme agli altri ragazzi per vedere. Ma suo padre gli diceva sempre:
- No, figliuolo mio, questa roba è per chi ha denari da spendere -.


Gli altri invece comperavano: bottoni, tabacchiere di legno, pettini di osso, e Filomena frugava dappertutto colle mani sudice, senza che nessuno le dicesse nulla, perché era la figliuola dell'oste. Anzi un giorno don Tinu le regalò un bel fazzoletto giallo e rosso, che passò di mano in mano. - Sfacciata! - dicevano le comari. - Fa l'occhio a questo e a quello per amor dei regali!

- Un giorno Nanni li vide tutti e due dietro il pollaio, che si tenevano abbracciati. Filomena, che stava all'erta per timore del babbo, si accorse subito di quegli occhietti che si ficcavano nella siepe, e gli saltò addosso colla ciabatta in mano. - Cosa vieni a fare qui, spione? se stai a raccontare quel che hai visto, guai a te, veh! - Ma don Tinu la calmava con belle maniere:
- Non lo strapazzate quel ragazzo, comare Mena, ché gli fate pensare al male -.


Però Nanni non poteva levarsi dagli occhi il viso rosso di Filomena, e le manacce di don Tinu che brancicavano. Quando lo mandavano a comperare il vino all'osteria, si piantava dinanzi al banco della ragazza, che glielo mesceva colla faccia tosta, e lo sgridava:
- Guardate qua, cristiani! Non gli spuntano ancora i peli al mento, quel moccioso, e ha già negli occhi la malizia! - Nanni voleva far lo stesso colla Grazia, la servetta dell'osteria, quando andavano insieme a raccoglier l'erbe per la minestra, lungo il fiume. Ma la fanciulla rispondeva:

- No. Tu non mi dai mai niente -.


Essa invece gli portava, nascoste in seno, delle croste di formaggio, che gli avventori avevano lasciato cadere sotto la tavola, o un pezzetto di pane duro rubato alle galline.


Accendevano un focherello fra due sassi, e giocavano a far la merenda. Ma Nanni finiva sempre il giuoco col buttar le mani sulla roba, e darsela a gambe. La ragazzetta allora rimaneva a bocca aperta, grattandosi il capo. E alla sera si buscava pure gli scapaccioni di Filomena, che la vedeva tornare spesso colle mani vuote. Nanni, per risparmiarsi la fatica, le arraffava anche la sua parte di cicoria o di finocchi selvatici.


Poi, il giorno dopo, giurava colle mani in croce che non l'avrebbe fatto più. E la poverina ci tornava sempre, appena lo vedeva da lontano, coi capelli rossi in mezzo alle stoppie gialle; si accostava quatta quatta, e gli si metteva alle calcagna come un cane. Quand'essa arrivava piagnucolando ancora per le busse che si era buscate all'osteria, Nanni per consolarla le diceva:

- E tu perché non scappi, e te ne vai a casa tua? - Egli raccontava che aveva la sua casa anche lui, laggiù al paese, e i parenti e ogni cosa: di là da quelle montagne turchine; ci voleva una giornata buona di cammino, e un giorno o l'altro ci sarebbe andato.


- Pianta i tuoi padroni e l'osteria, e te ne scappi a casa tua -.


La ragazzetta ascoltava a bocca aperta, colle gambe penzoloni sul greto asciutto, guardando attonita là dove Nanni le faceva vedere tante belle cose, oltre i monti turchini. Infine si grattava il capo, e rispondeva:

- Non so. Io non ci ho nessuno -.


Egli intanto si divertiva a tirar sassi sull'acqua; o cercava di far scivolare Grazia giù dalla sponda, facendole il solletico. Poi si metteva a correre, ed egli la inseguiva a zollate. Andavano pure a scovare i grilli dalle tane, con uno sterpolino; o a caccia di lucertole. Nanni sapeva coglierle con un nodo scorsoio fatto in cima a un filo di giunco sottile; dentro al cerchietto che formava il nodo spuntava una bella campanella lucente, e le povere bestioline, assetate in quell'arsura, si lasciavano adescare.


In mezzo alla gran pianura riarsa il fiume si insaccava come un burrone enorme, fra le rive slabbrate. - Mostrava le ossa, - brontolavano quelli della chiatta. Talché anche i poveri diavoli ci si arrischiavano a guado, qualche miglio più in su. Tanti baiocchi levati di bocca a quegli altri poveri diavoli che stavano colla fune in mano tutto il giorno, sotto il solleone. E litigavano fra di loro, a digiuno. Nanni allora per un nulla si buscava delle pedate anche da suo padre, sciancato com'era.


Di tanto in tanto passava una frotta di mietitori, che tornavano al mare, bianchi di polvere, e si calavano nel greto, uomini e donne, colle gambe nude, raccomandandosi ai loro santi, nel dialetto forestiero. Poi nell'afa della strada, diritta diritta, si vedeva venire da lontano il polverone che accompagnava qualche carro, o spuntava dall'altra parte la sonagliera mezza addormentata di un mulattiere. L'Orbo, che non aveva nessuno al mondo, e se l'era girato tutto, diceva:
- Quello lì viene da Catania, quest'altro da Siracusa -. E sempre cuor contento, lui, raccontava agli uomini stesi bocconi le meraviglie che aveva visto laggiù, lontano lontano. E Nanni ascoltava intento, come aveva fatto la Grazia ai racconti che lui sballava, con delle allucinazioni di vagabondaggio negli occhi stanchi di vedere eternamente l'osteria dello zio Antonio, che fumava tutta sola, nella tristezza del tramonto.


Ma chi gli mise davvero la pulce nell'orecchio fu il Zanno, una volta che lo chiamarono per lo zio Carmine al Biviere. Fin da Pasqua di Rose, i viandanti che venivano a passar la notte allo stallatico, e non lo vedevano, come al solito, a portar la paglia dal fienile o a riscuotere lo stallaggio, dicevano: - E compare Carmine? - Zio Mommu lo mostrava con un cenno del capo, lungo disteso nel pagliericcio, sotto un mucchio di bisacce; e Misciu, col cappuccio in capo, mangiato dalle febbri anche lui soggiungeva:
- Ha la terzana -. Alle volte, quando alla voce riconosceva un conoscente, lo zio Carmine rispondeva con un grugnito: - Son qua. Sono ancora qua -.


Erano quasi sempre le stesse facce stanche che si vedevano passare, dinanzi al lumicino moribondo appeso al travicello, e tiravano fuori dalla bisaccia la scarsa merenda, accoccolati su di un basto, masticando adagio adagio. Lo zio Carmine non brontolava più, non si moveva più dalla sua cuccia, zitto e cheto. Soltanto quando udiva fermarsi alla porta una vettura, rizzava il capo come poteva, per amor del guadagno, e chiamava:

- O Misciu! - Però non potevano lasciarlo morire a quel modo, come un cane.


Ventura, Mangialerba, e spesso anche compare Cosimo, tirandosi dietro la gamba storpia, venivano apposta da Primosole, e stavano a guardare compare Carmine lungo disteso, con la faccia color di terra, come un morto addirittura. Infine risolvettero di chiamargli la Gagliana, quella vecchietta che faceva miracoli, a venti miglia in giro.


- Vedrete che la Gagliana vi guarirà in un batter d'occhio, - andavano dicendo a lui pure. - È meglio di un dottore quel diavolo di donna. Cosa ne dite, compare Carmine? - Compare Carmine non diceva né sì né no, pensando al denaro che si sarebbe mangiato la Gagliana. Però nel forte della febbre tornava a piagnucolare:

- Chiamatemi pure la Gagliana, senza badare a spesa. Non mi lasciate morire senza aiuto, signori miei! - La Gagliana la battezzò febbre pericolosa, di quelle che è meglio mandare pel prete addirittura. Giusto era sabato, e passava gente che tornava al paese. Tutto ciò gli rimase fitto in mente, a Nanni che era andato a vedere anche lui: i curiosi che dall'uscio allungavano il collo verso il moribondo; la Gagliana che cercava nelle tasche il rimedio fatto apposta, brontolando; e il malato che guardava tutti ad uno ad uno, cogli occhi spaventati. L'Orbo, a canzonare la Gagliana che non sapeva trovare il rimedio, le domandava:

- Cosa ci vuole per farmi tornare la vista? - Lo zio Carmine morì la notte istessa. Peccato! perché la domenica poi si trovò a passare il Zanno, il quale ci aveva il tocca e sana per ogni male! nelle sue scarabattole. Lo menarono appunto a vedere il morto. Ei gli toccò il ventre, il polso, la lingua, e conchiuse:
- Se c'ero io, lo zio Carmine non moriva! - Raccontava pure molte cose dei miracoli che aveva fatto, tale e quale come la Gagliana, dei paesi che aveva visti, e come Nanni ascoltava a bocca aperta, gli piacque quel ragazzetto, e gli disse, accarezzandogli i capelli rossi:

- Vuoi venire con me? Mi porterai la balla e ti farai uomo.


- Egli ha tutt'altra balla da portare! - sospirò compare Cosimo; e pensava nel tempo stesso che se gli succedeva una disgrazia, come quella di compare Carmine, il suo ragazzo restava in mezzo a una strada.


C'era anche l'oste di Primosole, il quale maritava Filomena con Lanzise, uomo dabbene che non sapeva nulla, e tornavano tutti da Lentini pel contratto, gli sposi, compare Antonio ed altra gente.


Lanzise era uno che ci aveva il fatto suo, terra, buoi, e un pezzo di vigna lì vicino alla Savona, dicevano.


Il matrimonio fece chiasso. Talché venne anche don Tinu a vender roba pel corredo. La sera mangiava all'osteria come al solito. Non si sa come, a motivo di un conto sbagliato, attaccarono lite collo zio Antonio, e don Tinu gli disse: - becco! - Compare Antonio era un omettino cieco d'un occhio, che al vederlo non l'avreste pagato un soldo. Però si diceva che avesse più di un omicidio sulla sua coscienza, e a venti miglia in giro gli portavano rispetto. Al sentirsi dire quella mala parola sul mostaccio da don Tinu, il quale aveva una faccia di minchione, andò a staccare lo schioppo dal capezzale, per spifferar le sue ragioni anche lui, mentre la moglie, che la malaria inchiodava in fondo a un letto da anni ed anni, rizzatasi a sedere in camicia, strillava:

- Aiuto che si ammazzano, santi cristiani! - E Filomena, per dividerli, buttava piatti e bicchieri addosso a don Tinu, gridando:

- Birbante! ladro! scomunicato!

- Che vi pare azione d'uomo cotesta, compare Antonio? - rispose don Tinu più giallo del solito. - Io non ho altro addosso che questo po' di temperino.


- Avete ragione, - disse lo zio Antonio. - Vi risponderò colla stessa lingua che avete in bocca voi -. E andò a posare lo schioppo senza aggiunger altro.


Più tardi Nanni andava all'osteria per il vino, quando vide venirsi incontro don Tinu tutto stralunato, che si guardava attorno sospettoso.


- Te' due soldi, - gli fece, - e và a dire a compare Antonio che l'aspetto qui, per quella faccenda che sa lui. Ma che nessuno ti veda, veh! - La sera trovarono compar Antonio lungo disteso dietro una macchia di fichidindia, col suo cane accanto che gli leccava la ferita. - Che è stato, compare Antonio? Chi vi ha dato la coltellata? - Compare Antonio non volle dirlo. - Portatemi sul mio letto, per ora. Se poi campo ci penso io; se muoio ci pensa Dio.


- Questo fu don Tino che me l'ammazzò! - strillava la moglie. - L'ha mandato a chiamare con Nanni dello zoppo! - E Filomena badava a ripetere:

- Birbante! ladro! scomunicato! - Compare Cosimo, che aveva una gran paura della giustizia, se la prese anche lui col suo ragazzo, il quale si ficcava in quegli imbrogli.


- Se ti metto le mani addosso voglio romperti le ossa! - andava gridando.


E Nanni perciò se ne stava alla larga, dall'altra parte del fiume, col ventre vuoto, come una bestia inselvatichita. Grazia lo vide da lontano, coi capelli rossi, dietro l'abbeveratoio a secco, e corse a raggiungerlo.


- Ora me ne vado col Zanno, - disse lui, - e alla chiatta non ci torno più -.


Poscia, rassicurato a poco a poco, vedendo che dietro il muro non spuntava lo zio Cosimo col bastone, si mise a sgretolare la sponda dell'abbeveratoio, tutta fessa e scalcinata, un sasso dopo l'altro, e dopo li tirava lontano; mentre la ragazzetta stava a guardare. Tutt'a un tratto si accorsero che il sole era tramontato, e la nebbia sorgeva tutt'intorno, dal fiume e dalla pianura.


- Senti! - disse Grazia. - Lo zio Cosimo che chiama! - Nanni se la diede a gambe senza rispondere, e lei si affannava a corrergli dietro, colla vesticciuola tutta sbrindellata che svolazzava sulle gambette nude. Camminarono un bel pezzo, e infine si trovarono soli, nella campagna buia, col cuore che batteva forte, lontano lontano dalla capanna delle chiatte, dove si udiva ancora cantare l'Orbo. Era una bella notte piena di stelle, e dappertutto i grilli facevano cri-cri nelle stoppie. Come Nanni si fermò, vide Grazia che gli veniva dietro.


- E tu dove vai? - le disse.


Essa non rispose. E tornarono a udirsi i grilli tutt'intorno. Non si udiva altro. Solo il fruscìo del grano in spiga al loro passaggio; e appena si fermavano ad ascoltare cadeva un gran silenzio, quasi il buio si stringesse loro ai panni. Di tanto in tanto correva una folata di ponente caldo, come un'ombra, sull'onda del seminato. Allora Grazia si mise a piangere.


Passava un vetturale coi suoi muli; e la piccina a piagnucolare:

- Portateci al paese, vossignoria, per carità! - Il mulattiere, ciondoloni sul basto, borbottò qualche parola mezzo addormentato, e tirò di lungo. E i due fanciulli dietro.


Arrivarono a uno stallatico, e si accoccolarono dietro il muro ad aspettare il giorno.


Quando Dio volle spuntò l'alba, e un gallo si mise a cantare d'allegria sul mucchio di concime. Da un sentierolo fra due siepi sbucò un vecchietto, con una bisaccia piena in spalla. Aveva la faccia buona, e Grazia gli domandò:

- Per andare al paese, vossignoria, da che parte si va? - Lo zio Mommu accennò di sì col capo, e seguitò per la sua via, col naso a terra. Si misero dietro a lui, che andava a vendere la sua roba al paese, e arrivarono sulla piazza che era giorno chiaro.


C'era già una donnicciuola imbacuccata in una mantellina bianca, la quale vendeva verdura e fichidindia. Delle altre donne entravano in chiesa. Davanti lo stallatico salassavano un mulo; e dei contadini freddolosi stavano a guardare, col fazzoletto in testa e le mani in tasca. In alto, nel campanile già tutto pieno di sole, la campana sonava a messa.


Essi andarono a sedere tristamente sul marciapiede, accanto al vecchietto con cui erano venuti, e che si era messo a vender anatre e gallinelle che nessuno comprava, aspettando il Zanno che non veniva neppur lui. Il tempo passava, e passava anche della gente che veniva a comprare la verdura dalla donnicciuola colla mantellina, pesandola colle mani. Da una stradicciuola spuntarono due signori, col cappello alto, passeggiando adagio adagio, e si fermarono a contrattare lungamente, toccando la roba colla punta del bastone, senza comprar nulla. Poi venne la serva della locanda a prendere una grembialata di pomodori. Sulla piazza facevano passeggiare innanzi e indietro il mulo salassato. Infine lo speziale chiuse la bottega, mentre sonava mezzogiorno.


Allora lo zio Mommu tirò dalla bisaccia un pane nero, e si mise a mangiarlo adagio adagio con un pezzo di cipolla. Vedendo i due ragazzi che guardavano affamati, gliene tagliò una gran fetta per ciascuno, senza dir nulla. Infine raccolse la sua mercanzia, e se ne andò a capo chino, com'era venuto.


Ora rimanevano soli e sconsolati. Si presero per mano e arrivarono sino alla fontana che era in fondo al paesetto. Per la strada che scendeva a zig zag nella pianura arrivava gente a ogni momento.


Donne che venivano ad attinger acqua, vetturali che abbeveravano i muli, e coppie di contadini che tornavano dai campi, chiacchierando a voce alta, colle bisacce vuote avvolte al manico della zappa. Poi una mandra di pecore, in mezzo a un nuvolo di polvere. Un frate cappuccino, che tornava dalla cerca, saltò a terra da una bella mula baia, schiacciata sotto il carico, e si chinò a bere alla cannella, tutto rosso, sguazzando nell'acqua la barbona polverosa. Quando non passava alcuno, venivano delle cutrettole a saltellare sui sassi, in mezzo alla fanghiglia, battendo la coda. Lontano si udiva la cantilena dei trebbiatori nell'aia, perduta in mezzo alla pianura che non finiva mai, e cominciava a velarsi nelle caligini della sera. E in fondo, come un pezzetto di specchio appannato, il Biviere.


- Guarda com'è lontano! - disse Nanni col cuore stretto.


Il sole era già tramontato; ma non sapevano dove andare, e rimanevano aspettando, l'uno accanto all'altra seduti sul muricciuolo, nel buio. Infine si presero per mano e tornarono verso l'abitato. Nelle case luccicava ancora qualche finestra; però i cani si mettevano a latrare, appena i due ragazzi si fermavano presso a un uscio, e il padrone minaccioso gridava:
- Chi è là? - La fanciulletta scoraggiata buttò le braccia al collo di Nanni.


- No! No! - piagnucolava lui, - lasciami stare -.


Trovarono una tettoia addossata a un casolare, e vi passarono la notte, tenendosi abbracciati per scaldarsi. Li svegliò lo scampanìo del paese in festa, che il sole era già alto. Mentre andavano per via, guardando la gente che usciva vestita in gala, scorsero in piazza don Tinu il merciaiuolo, colle sue scarabattole di già in mostra, sotto l'ombrellone rosso.


- Signore don Tinu, - gli disse Grazia tutta contenta. - Benvenuto a vossignoria! - Don Tinu si accigliò e rispose:

- O tu chi sei? Io non ti conosco -.


La fanciulletta si allontanò mogia mogia. Ma don Tinu vide il ragazzetto, che guardava da lontano timoroso, e gli disse:

- Tu sei quello dell'osteria del Pantano, lo so.


- Sissignore, don Tinu, - rispose Nanni col sorriso d'accattone.


E tutto il giorno gli ronzò intorno, affannato, sul marciapiede.


Quando vide che don Tinu raccoglieva la sua mercanzia, e stava per andarsene, si fece animo, e gli disse:

- Se mi volete con voi, vossignoria, io vi porterò la roba.


- Va bene, - rispose don Tinu. - Ma la tua compagna lasciala stare pei fatti suoi, ché non ho pane per tutti e due -.


Grazia scorata, si allontanò passo passo, colle mani sotto il grembiule, e poi si mise a guardare tristamente dall'altra cantonata, mentre Nanni se ne andava dietro al merciaiuolo, curvo sotto il carico.


Un buon diavolaccio, quel don Tinu. Sempre allegro, anche quando gli lasciava andare una pedata o uno scapaccione. In viaggio gli raccontava delle barzellette per smaliziarlo e ingannare la noia della strada a piedi. Oppure gli insegnava a tirar di coltello, in qualche prato fuori mano. - Così ti farai uomo, - gli diceva.


Giravano pei villaggi, da per tutto dov'era la fiera. Schieravano in piazza la mercanzia, su di una panchetta, e vociavano nella folla. C'erano trecconi, bestiame, gente vestita da festa; e il Zanno che faceva veder l'Ecceomo, e si sbracciava a vendere empiastri e medaglie benedette, a strappare denti, e a dire la buona ventura, ritto su un trespolo, in un mare di sudore. I curiosi facevano ressa intorno, a bocca aperta, sotto il sole cocente. Poi veniva il santo colla banda, e lo portavano in processione. Dopo, tutta la giornata, le donne stavano sugli usci, cariche d'ori, sbadigliando. La sera accendevano la luminaria e facevano il passaggio.


Don Tinu ripeteva:

- Se restavi alla chiatta, con tuo padre, le vedevi tutte queste cose, di'? - Capitarono anche una volta al paese di Nanni, il quale non ci si raccapezzava più, dopo tanto tempo, e passando davanti alla sua casa vide un ballatoio che non ci era prima, e della gente che non conosceva, e vi stava pei fatti suoi. Cercò anche dei parenti. Il fratello, Pierantonio, era lontano, camparo alle Madonìe, laggiù verso la marina; e la sorella, Benedetta, si era maritata, un buon partito che le aveva procurato comare Stefana, dotandola coi suoi denari, e facevano tutti una famiglia, in una bella casa nuova, col terrazzino e il letto col cortinaggio, che quasi non volevano lasciarvi entrare quel vagabondo.


Pure donna Stefana, per politica, come seppe chi era e donde veniva, gli fece dar da colazione, pane vino e companatico, in un angolo della tavola, che egli subito disse grazie, perché le due donne sembrava che gli contassero i bocconi, sua sorella ritta sull'uscio colle mani sul ventre e l'orecchio teso per sentire se capitava il marito, guardando di sottocchio donna Stefana come fosse sulle spine. - No e sì - sì e no. - Le parole cascavano di bocca, e il pane e il companatico pure. Toccarono appena del babbo e del fratello che erano lontani, uno di qua e l'altro di là, e tacquero subito perché poco avevano da dire, dopo tanto che non si erano visti. Benedetta anzi non aveva neppure conosciuto il babbo, come fosse figlia del peccato.


- Questa povera orfanella, - disse forte donna Stefana, - non ha avuto nessuno al mondo, né amici né parenti. Dillo tu stessa, figliuola mia. Se non ero io, come ti trovavi? - Benedetta disse di sì, con un'occhiata riconoscente. Poi guardò il fratello, e chinò gli occhi. Infine gli chiese se contava di fermarsi molto, in paese, dandogli del voi, sempre cogli occhi bassi. Donna Stefana invece gli ficcava addosso i suoi, quasi volesse frugarlo sotto i panni, con certe occhiate sospettose che covavano le posate. Appena fuori dell'uscio si sentì dar tanto di catenaccio dietro le spalle.


- Queste son cose che succedono, - disse poi don Tinu, quando seppe com'era andata la visita alla sorella. - Il mondo è grande, e ciascuno pei fatti suoi -.


Andavano pel mondo, di qua e di là, per fiere e per villaggi, sempre colla roba in collo, sicché infine una volta capitarono a Primosole, dopo tanto tempo. - Ora ti faccio vedere tuo padre, si è ancora al mondo, - disse don Tinu. Nanni non voleva, fra la vergogna e la paura; ma il merciaio soggiunse:

- Lascia fare a me, che le cose le so fare -.


E andò avanti a prevenire compare Cosimo che era sempre lì, alla chiatta, su di un piede come le gru. - Ecco vostro figlio Nanni, compar Cosimo, che è venuto apposta per baciarvi le mani -.


Lo zio Cosimo aveva la terzana, e stava lì, al sole, apoggiato alla fune, col fazzoletto in testa, aspettando la febbre. - Che il Signore t'accompagni, figliuol mio, e ti aiuti sempre -.


Adesso che era stremo di forza, gli venivano i lucciconi agli occhi, vedendo che bel pezzo di ragazzo si era fatto il suo Nanni.


Costui narrava pure di Benedetta e del fratello, che era stato a cercarli; e il padre, tutto contento, scrollava, tentennava il capo, colla faccia sciocca. Una miseria, in quella chiatta:

Ventura partito per cercar fortuna altrove; Mangialerba più che mai sotto i piedi della sua donnaccia, becco e bastonato, e l'Orbo sempre lo stesso, attaccato alla fune come un'ostrica e allegro come un uccello, che cantava nel silenzio della malaria, guardando il cielo cogli occhi bianchi.


- Con me vostro figlio girerà il mondo, e si farà uomo. - ripeteva don Tinu. Anche lo zio Antonio, poveretto, non era più quello di prima, e stava lì, sull'uscio dell'osteria, inchiodato dalla paralisi sulla scranna, a salutar la gente che passava, colla faccia da minchione, per tirare gli avventori.


- Benedicite, vossignoria. Che non mi riconoscete più, zio Antonio? - gli disse il merciaiuolo fermandosi a salutarlo. Lo zio Antonio accennava di sì col capo, come pulcinella. Allora don Tinu trasse fuori un bel sigaro e glielo mise nelle mani che tremavano continuamente, posate sulle ginocchia.


Ma l'altro scosse il capo, accennando di no, che non poteva. Don Tinu, per cortesia, gli chiese infine di sua moglie, e di comare Filomena, che non si vedevano, nell'osteria deserta; e il vecchio, colle mani tremanti, accennò di qua e di là, lontano, verso il camposanto e verso la città. Per bere un sorso, dovettero sgolarsi a chiamare un ragazzaccio che compare Antonio si era tirato in casa, onde fare andare l'osteria, e arrivò dall'orticello abbandonato, tutto sonnacchioso, fregandosi gli occhi, insaccato in un giubbone vecchio dello zio Antonio che gli arrivava alle calcagna.


- Abbiamo fatto un'opera di carità, - osservò don Tinu nel pagare il vino bevuto. - Statevi bene, compare Antonio -.


Così era fatto don Tinu, colle mani sempre aperte, quando ne aveva, e il cuore più aperto ancora. Gli piaceva ridere e divertirsi, e aveva amici e conoscenti in ogni luogo. Spesso lasciava Nanni al negozio, diceva lui, e correva a godersi la festa di qua e di là colle comari (aveva comari da per tutto).


Appena arrivava in un paese lo mandavano a chiamare di nascosto, e gli facevano trovare il desco apparecchiato dietro l'uscio, mentre il marito era alla processione colla testa nel sacco. Finché une volta, per la festa del Cristo, a Spaccaforno, portarono don Tinu a casa su di una scala, come un Ecceomo davvero.


Era stata Grazia che era venuta a chiamarlo:
- Signore don Tinu, vi aspettano dove sapete vossignoria -.


Don Tinu esitava, grattandosi la barba. Non che avesse paura, no.


Ma quella ragazza allampanata gli portava la jettatura, c'era da scommettere. Lei intanto rimaneva sull'uscio della bottega, sorridendo timidamente, col viso nella mantellina rattoppata.


Nanni che da un pezzo non la vedeva, le disse:

- O tu come sei qui?

- Son venuta a piedi, - rispose Grazia, tutta contenta che le avesse parlato. - Son venuta a piedi da Scordia e Carlentini, perché laggiù morivo di fame. Ora fo i servizi a chi mi chiama -.


Si era fatta grande, tanto che la vesticciuola sbrindellata non arrivava a coprirle del tutto le gambe magre; colla faccia seria e pallida di donna fatta che ha provato la fame: e due pèsche fonde e nere sotto gli occhi.


Nanni che stava leccando col pane il piatto di don Tinu le disse:

- Te'; ne vuoi? - Ma Grazia si vergognava a dir di sì.


- Io sto con don Tinu, e faccio il merciaiuolo, - aggiunse Nanni.


Ad un tratto egli si fece serio, guardandola fiso.


- Entra! - La ragazza esitava, intimidita da quegli occhi. Nanni ripeté:

- Entra, ti dico! sciocca! - E la tirò pel braccio chiudendo l'uscio. Ella obbediva tutta tremante. Poi gli buttò le braccia al collo.


- Tanto tempo che ti volevo bene! - E ricominciò a narrar la storia del suo misero vagabondaggio: la fame, il freddo, le notti senza ricovero, gli stenti e le brutalità che aveva sofferto; seduta sulla balla della mercanzia, colla schiena curva, le braccia abbandonate sulle ginocchia, ma gli occhi lucenti di contentezza adesso, e una gran gioia che le si spandeva infine sul viso sbattuto e scarno.


- Sai, tanto tempo che ti volevo bene! Ti rammenti? quando si andava tu ed io per l'erbe della minestra a Primosole? e l'isolotto che lasciava il fiume quando era magra? e quella notte che abbiamo dormito insieme dietro un muro, sulla strada di Francofonte? Poi, quando tu te ne sei andato con don Tinu, e non sapevo che fare, né dove andare... Quella donna che vendeva i fichidindia, vedendomi ogni giorno a frugare nel mondezzaio, fra le bucce e i torsi di lattuga, mi dava ora una crosta di pane ed ora qualche cucchiaiata di minestra. Ma essa pure dovette andarsene, quando finì il tempo dei fichidindia, ed io partii con quello che faceva gente per la raccolta delle ulive, laggiù al Leone. Presi le febbri e mi mandarono all'ospedale. Dopo non mi vollero più perché dicevano che mi mangiavo il pane a tradimento.


Sono stata anche a dissodare, dov'hanno fatto quella gran piantagione di vigne, al Boschitello; e ho lavorato allo stradone, e ci sarei tuttora a mangiar pane, se non fosse stato pel soprastante... - Si interruppe, facendosi rossa, e guardò Nanni timorosa. Ma a costui non gliene importava nulla. Le disse solo:

- Vattene ora, ché sta per tornare il mio padrone -.


La poveretta si lasciava spingere verso l'uscio, col capo chino sotto la mantellina rattoppata, balbettando:

- Non ci ho colpa, ti giuro, per la Madonna Addolorata! Cosa potevo fare? Egli era il soprastante... Tu non c'eri più!... Non sapevo dov'eri nemmeno...


- Sì, sì, va bene. Adesso vattene, ché sta per venire don Tinu, - ripeteva lui allungando il collo fuori dell'uscio, di qua e di là della straduccia, come un ladro. Infine la ragazza se ne andò adagio adagio, rasente al muro.


Poco dopo portarono a casa il merciaiuolo colle ossa rotte; ché lo zio Cheli, per combinazione, tornando prima del solito, aveva trovato don Tinu che gli faceva il pulcinella in casa.


Il Zanno nel medicare il merciaiuolo andava predicando:

- Coi villani ci vuole prudenza, don Tinu caro! ché son peggio delle bestie. Vetturali poi, Dio liberi!... - Ogni volta, quando gli capitava male, don Tinu si sfogava dopo col ragazzo, a calci e scapaccioni; tanto che agli strilli accorrevano l'oste e i viandanti, e il Zanno gli diceva:

- Non gli dar retta, figliuol mio, perché il tuo padrone dev'essere ubriaco -.


Il Zanno invece se voleva ubriacarsi si chiudeva nella sua stanzetta, faccia a faccia colla bottiglia. Non gridava, non picchiava nessuno, sempre con quel risolino furbo sulla faccia magra; e le donne venivano a cercarlo a casa sua di soppiatto, verso sera, imbacuccate sino al naso, e chiudeva a catenaccio.


Tutto il giorno sempre allegro, a strappar denti senza dolore, vendere empiastri e intascar soldi. Nanni, allorché lo incontrava per le piazze, nelle bettole, andando di qua e di là per fiere e per paesi, gli ripeteva:

- Vi rammentate, vossignoria, quando mi diceste se volevo venire con voi a fare il Zanno, quella volta che morì lo zio Carmine, allo stallatico del Biviere? - Il Zanno fingeva di non capire, perché non voleva aver questioni con don Tinu; ma infine, messo alle strette, si lasciò scappare:

- Be', se il tuo padrone ti manda via, io non ci ho difficoltà a pigliarti con me -.


Nanni se la legò al dito, e la prima volta che il merciaio si sciolse la cinghia per menargli la solfa addosso, gli disse brusco:

- Don Tinu, lasciamo stare la cinghia, vossignoria, ché se no stavolta finisce male.


- Ah, carogna! e rispondi anche! Ti farò vedere io come finisce!...


- Lasciate stare la cinghia, don Tinu, o finisce male, vi ho detto -.


E mise la mano in tasca.


Don Tinu che era stato il suo maestro e gli vide la faccia pallida, mutò subito registro:

- Ah, così rispondi al tuo padrone? Ora ti lascio morir di fame.


Pigliati la tua roba, e via di qua -.


Nanni raccolse i quattro cenci nel fazzoletto e conchiuse:

- Benedicite a vossignoria -.


E se ne andò a trovare il Zanno.


- Bada che qui si guarda e non si vede: si ode e non si sente: si ha bocca e non si parla - gli disse il Zanno per prima cosa. - Se hai giudizio starai bene; se hai la lingua lunga andrai a darla ai cani, come quel re che aveva le orecchie lunghe e non poteva tenere una cosa sullo stomaco. Io non faccio chiacchiere né chiassi come don Tinu, bada! Marcia, torna e sparisci! E bravo chi ti trova! - Menavano una vita allegra, ma sempre coll'orecchio teso e un piede in aria. Di notte, se picchiavano all'uscio, era un lungo tramestìo, un ciangottare dietro l'uscio, un andare e venire prima di tirare il catenaccio. Poi Nanni udiva il suo padrone che parlava con qualcuno sottovoce nell'altra stanza, e pestare nel mortaio; oppure erano strilli e pianti soffocati. Una notte, che non poteva chiudere occhio, vide dal buco della serratura il Zanno che intascava dei soldi, e una che gli parve Grazia, bianca come la cera vergine, la quale se ne andava barcollando.


Ma il Zanno, appena gli chiese se era davvero Grazia, montò in furia come una bestia.


- Tu sei troppo curioso, figliuol mio, e un giorno o l'altro ti finisce male -.


E gli finì male davvero, per un altro motivo. Un giorno, per la festa dell'Immacolata, appena rizzarono il trespolo sulla piazza di Spaccaforno, vennero gli sbirri e li acciuffarono tutti e due, cogli unguenti e gli elisiri, e li portarono al Criminale, accusati d'infanticidio. Ma allorché il Zanno vide Grazia sullo scanno, accusata insieme a loro, si mise a giurare e spergiurare colle mani in croce che non l'aveva mai vista né conosciuta, com'è vero Iddio!

Ma c'erano testimoni che avevano visto quella ragazza con Nanni tempo fa, quando egli era passato un'altra volta da Spaccaforno con don Tinu il merciaio, nella settimana santa, anzi egli aveva chiuso l'uscio. Grazia, più morta che viva, balbettava:

- Signor giudice, fatemi tagliare la testa, ché sono una scellerata! Prima feci il peccato e poi non seppi far la penitenza -.


Era stato per la disperazione, dacché tutti la scacciavano come un cane malato... e per la vergogna anche... Sì, perché no? dopo che Nanni l'aveva mandata via, e cominciava a capire il male che aveva fatto... Fu una notte, nel casolare abbandonato dietro il ponticello, che prima serviva pei lavoranti della strada... Una notte che pioveva... e le pareva di morire, lì, sola e abbandonata... E non sapeva come fare, con quella creaturina abbandonata al par di lei... Poi, quando non l'udì più vagire, e la vide tutta bianca, si strascinò sino al burrone, là, nella cava delle pietre, e l'avvolse nel grembiule, prima, povere carni tenere d'innocente! Ma Nanni non sapeva nulla, com'è vero Dio. Non si erano più visti... Potevano andare loro stessi, a vedere lì nella cava delle pietre, vicino al casolare, giù dal ponticello...


Così Grazia andò in galera, ma loro se la cavarono colla sola paura della forca, il Zanno e l'aiutante. Però il Zanno fece voto a Dio e al Cristo di Spaccaforno che giovani non ne voleva più alla cintola, com'è vero Gesù Sacramentato!

Nanni girò ancora un po' di qua e di là, finché spinto dalla fame tornò a Primosole, dove almeno ci aveva qualcuno. Trovò che suo padre era sotto terra, e l'Orbo guidava lui la chiatta, asciutto come un osso.


Giusto c'era Filomena, che cominciava a farsi vecchia, e nessuno la voleva per quella storia di don Tinu e gli altri sdruccioloni che si erano scoperti dopo; la Filomena adesso gli diceva ogni volta:

- Io ci ho la mia roba, grazie a Dio, e il marito che volessi prendere starebbe come un principe -.


L'Orbo, che faceva da mezzano per un bicchier di vino, aiutava:

- L'ho vista io con questi occhi.


- Per me, - rispose alfine Nanni, - se voi siete contenta, sono contento io pure -.


E si fece il nido come un gufo. Di correre il mondo ne aveva abbastanza ora, e badava a mangiare e bere colla moglie e gli avventori, che tenevano allegra la casa e lasciavano dei soldi nel cassetto. Ogni tanto gli portavano la notizia:

- Sapete, zio Giovanni? vostro fratello gli è successo un accidente -. Oppure:

- Gnà Benedetta, vostra sorella, ha avuto un altro maschio -.


Tale e quale come suo padre, che aveva messo radici a Primosole, dopo che era rimasto zoppo, e venivano a dirgli sin lì quel che succedeva al mondo di qua e di là.


Un giorno, dopo anni e anni, in mezzo a una torma di mietitori, vide passare anche una vecchia che neppure il diavolo l'avrebbe più riconosciuta, mangiata com'era dalla fame e dagli strapazzi, la quale gli disse:

- Che non mi riconoscete più, compare Nanni? Sono Grazia, vi rammentate? - Ma egli la mandò subito via per paura di Filomena che ascoltava dal letto, come aveva fatto l'altra volta per paura del padrone che stava per venire. Ora voleva godersi tranquillamente la sua pace e la provvidenza che il Cielo mandava, insieme alla moglie che gli aveva dato Dio. E se si trovavano a passare il Zanno oppure don Tinu, che ora gli portavano rispetto, e lasciavano anche loro bei soldi all'osteria, soleva dire con la moglie, o con chi c'era:

- Poveri diavoli! Costoro vanno ancora pel mondo a buscarsi il pane!






Al veglione



C'era andato a portare un paniere di bottiglie, di quelle col collo inargentato, nel palco della contessa, e si era fermato col pretesto di aspettare che le vuotassero; tanto, in cinque com'erano nel palchetto, non potevano asciugarle tutte, e qualcosa sarebbe rimasta anche in fondo ai piatti. Sicché alle sue donne aveva detto:
- Aspettatemi alla porta del teatro, in mezzo alla gente che sta a veder passare i signori -.


Lì, sull'uscio del palchetto, i servitori lo guardavano in cagnesco, coi loro faccioni da prete, ché i padroni stessi, là dentro il palco, come li aveva visti da una sbirciatina attraverso il cristallo, non stavano così impalati e superbiosi come quei servitori nelle loro livree nuove fiammanti.


Nel palco era un va e vieni di signori colla cravatta bianca, e il fiore alla bottoniera, come i lacchè delle carrozze di gala, che pareva un porto di mare. E ogni volta che l'uscio si apriva arrivava come uno sbuffo di musica e d'allegria, una luminaria di tutti i palchetti di faccia, e una folla di colori rossi, bianchi, turchini, di spalle e di braccia nude, e di petti di camicia bianchi. Anche la contessa aveva le spalle nude e le voltava al teatro, per far vedere che non gliene importava nulla. Un signore che le stava dietro, col naso proprio sulle spalle, le parlava serio serio, e non si muoveva più di lì, che doveva sentir di buono quel posto. L'altra amica, una bella bionda, badava invece a rosicarsi il ventaglio, guardando di qua e di là fuori del palco, come se cercasse un terno al lotto, e si voltava ogni momento verso l'uscio del corridoio, con quei suoi occhi celesti e quel bel musino color di rosa, tanto che il povero Pinella si faceva rosso in viso, come c'entrasse per qualcosa anche lui.


Ah, la Luisina che era lì fuori, nella folla, non gli era sembrata fatta di quella pasta nemmeno quando l'aspettava alla porta dei padroni, via S. Antonio, la domenica, che si erano picchiati col servitore del pian di sotto, il quale pretendeva che la Luisina desse retta a lui, perché ci aveva il soprabitone coi bottoni inargentati.


Quest'altro, quel faccione da prete, impalato dietro l'uscio, gli disse:
- E lei? Cosa sta ad aspettare qui?

- Aspetto le bottiglie, - rispose Pinella.


- Le bottiglie? Gliele daremo poi, le bottiglie; dopo cena. C'è tempo, c'è tempo.


- Fossi matto! - pensava Pinella sgattaiolando pel corridoio. - Di qui non mi muovo! - Egli aveva visto che il suo padrone di casa per entrare in teatro aveva pagato 10 lire, sbuffando, ansimando pel grasso, rosso come un tacchino dentro il suo zimarrone di pelliccia, tastando i biglietti nel portafogli colle dita corte. Fortuna che non aveva scorto Pinella, se no gli chiedeva lì stesso i denari della pigione.


Egli era già salito due volte sino al quinto piano, soffiando, per riscuoterli. Ma la Luisina aveva acchiappato un reuma alla gamba, collo star di notte a vendere il caffè sotto l'arco della Galleria, e quei pochi soldi che buscava la Carlotta vendendo paralumi per le strade e nei caffè, se n'erano andati tutti in quel mese che la mamma era stata in letto.


Per le scale, e nei corridoi, c'era folla anche là. Mascherine che strillavano e si rincorrevano; signore incappucciate, giovanotti col cappello sotto il braccio che le appostavano a chiacchierare sottovoce in un cantuccio all'oscuro. Pinella riuscì a ficcarsi in un andito, fra le assi del palcoscenico, dietro una gran tela dipinta, dove c'erano degli strappi che parevano fatti apposta per mettervi un occhio. Là si stava da papa. Sembrava una lanterna magica. Vedevasi tutto il teatro, pieno zeppo, dappertutto fin sulle pareti, per cinque piani. Lumi, pietre preziose, cravatte bianche, vesti di seta, ricami d'oro, braccia nude, gambe nude, gente tutta nera, strilli, colpi di gran cassa, squilli di tromba, stappare di bottiglie, un brulichio, una baraonda.


- Bello! eh? - gli soffiò dietro le orecchie un ragazzone che era entrato di straforo come lui.


- Eccome! - esclamò Pinella - E' si divertono per 10 lire! - Lì davanti, su di una panca a ridosso della scena, erano sedute due mascherine, e cercavano di esser sole anche loro, perché avevano un mondo di cose da dirsi. Lui, il giovanotto, gliele lasciava cascare sul collo, che la ragazza aveva bianco e delicato, così che quei ricciolini sulla nuca tremavano come avessero freddo, e le spalle pure trasalivano, e si facevano rosse mentre ella chinava il capo, non ricordandosi neppure che ci aveva la maschera sul viso.


- La ci casca! La casca! - gongolava il vicino di Pinella. Ma il povero Pinella in quel momento osservava che la ragazza era magrolina e aveva i capelli castagni come la Carlotta. E l'altro insisteva, insisteva, col fiato caldo sul collo di lei, che avvampava quasi ci si scaldasse, e ritirava pian piano gli stivalini di raso sotto la panca, come per nascondere le gambe nude, nella maglia color di rosa, che luccicava qua e là, e sembrava arrossire anche essa.


Ah, la Carlotta aspettava di fuori, al freddo, è vero; ma Pinella era più contento così. - La ci va! La ci va! - continuava il suo vicino. La ragazza si era levata, per forza, col mento sul petto, e il seno che si contraeva come un mantice, sotto i ricami d'oro falso. L'altro le aveva preso il braccio, e la tirava, la tirava.


Ella si lasciava tirare, passo passo, colle gambe nude che esitavano l'una dietro l'altra. - Tombola! - urlò loro dietro il ragazzaccio. E sparvero nella folla.


Pinella se ne andò anche lui col cuore grosso, pensando che una volta aveva sorpreso la Carlotta in piazza della Rosa, a chiacchierare con un giovanotto, proprio come quest'altro, colle guance rosse e il mento sul petto. Ella aveva trovato il pretesto che il giovanotto era un avventore il quale aveva bisogno di una dozzina di paralumi, a casa sua.


A cavalcioni sul parapetto di un palco in prima fila si vedeva una ragazza, vestita all'incirca tal quale l'aveva messa al mondo sua madre, e a viso scoperto, che era bello come il sole, e non aveva bisogno di nasconder nulla. Colle gambe che lasciava spenzolare fuori del palco, minacciava tutti quelli che le venivano a tiro, giovani, vecchi, signori, quel che fossero, e se uno non chinava il capo nel passare dinanzi a lei, glielo faceva chinare per forza. Né ci era da aversela a male, tanto era bella e allegra col bicchiere in mano e le braccia bianche levate in alto; e conosceva tutti, e li chiamava col tu per nome a uno ad uno. Ad un bel giovane che le sorrideva sotto il palco, ritto e fiero ella gli vuotò sul capo il bicchiere di sciampagna.


- Questo qui, - disse uno nella folla, - si è maritato che non è un mese, e la sposa è lì che guarda, in seconda fila -.


La sposa in seconda fila, tutta bianca e col viso di ragazza, stava a vedere, seria seria, e con grand'occhi intenti.


- Adesso, - pensò Pinella, l'è ora di andare dalla contessa, per le bottiglie -.


Nel palco colle cortine rosse calate, dopo l'allegria di prima, si erano fatti tutti seri e taciturni, che non vedevano l'ora di andarsene, e posavano i gomiti sulla tavola, carica di lumi e d'argenterie, coi mazzi di fiori da cento lire buttati in un canto.


Nello stanzino dirimpetto i servitori mangiavano in fretta, mentre sparecchiavano, imboccando le bottiglie a guisa di trombetta, appena fuori del palco, cacciando i guanti nelle salse e nei dolciumi, lustri e allegri come mascheroni di fontana. Quello del faccione, il superbioso, appena vide arrivare Pinella, cominciò a sclamare:
- Corpo!... - e voleva mandarlo via. Ma un vecchietto tutto bianco e raggricchiato in una livrea color marrone, disse:

- No! No! lasciatelo stare. Ce n'è per tutti. È carnevale, allegria! allegria! - Anzi gli tagliò una bella fetta di pasticcio, e un altro, colla bocca piena, bofonchiò:

- E' costa cento lire -.


Il vecchiotto, rizzando su la personcina, aggiunse:
- Quando stavo col duca, nel palco, a ogni veglione, si stappavano delle bottiglie per più di 1OOO lire -.


- Presto! presto! - venne a dire il faccione, forbendosi il mento in furia con una tovaglia sudicia. - I padroni hanno ordinato le carrozze -.


A Pinella, sembrava invece che andavano via sul più bello, e mentre raccoglieva le bottiglie non sapeva capacitarsi perché si sciupassero tanti denari e tanti pasticci da 100 lire se ci si annoiava così presto. Ora che aveva bevuto si sentiva anche egli il caldo e la smania dell'allegria. I palchi cominciavano a vuotarsi, e dagli usci spalancati intanto si vedeva la folla irrompere di nuovo in platea come un fiume, coi volti accesi, i capelli arruffati, le vesti discinte, le maglie cascanti, le cravatte per traverso, i cappelli ammaccati, strillando, annaspando, pigiandosi, urlando, in mezzo al suono disperato dei tromboni, ai colpi di gran cassa; e un tanfo, una caldura, una frenesia che saliva da ogni parte, un polverìo che velava ogni cosa, denso, come una nebbia, sulla galoppa che girava in fondo a guisa di un turbine, e da un canto, in mezzo a un cerchio di signori in cravatta bianca, pallidi, intenti, ansiosi, che facevano largo per vedere, una coppia più sfrenata delle altre, cogli occhi schizzanti fuori della maschera come pezzi di carbone acceso, i denti bianchi, ghignando, il viso smorto, la testa accovacciata, gli omeri che scappavano dal busto, le gambe nude che si intrecciavano, con molli contorcimenti dei fianchi. E in seconda fila lassù, la bella sposina dal viso di ragazza, tutta bianca, ritta dinanzi al parapetto, che spalancava gli occhi curiosi, indugiando, mentre suo marito le poneva la mantiglia sulle spalle, e trasaliva al contatto dei guanti di lui.


La Luisina e la Carlotta aspettavano alla porta del teatro, nella piazza bianca di neve, col viso rosso, battendo i piedi e soffiando sulle dita in mezzo alla folla che spalancava gli occhi per veder passare le belle dame imbacuccate nelle pellicce bianche, dietro i vetri scintillanti delle carrozze. E ad ogni modesto legno di piazza che si avanzava barcollando, la Carlotta guardava le coppie misteriose che vi montavano, accompagnava le gambe in maglia color di rosa cogli stessi grandi occhi avidi e curiosi della sposina tutta bianca, che era in seconda fila.






La vocazione di Suor Agnese


Era venuta dopo, alla povera Agnese, la vocazione di prendere il velo, quando la sua famiglia, caduta in rovina, fu costretta a farla monaca per darle un tozzo di pane.


Prima era destinata al mondo. A casa sua filavano e tessevano la biancheria pel corredo di lei, mentr'essa terminava l'educandato a Santa Maria degli Angeli. Suo padre, don Basilio Arlotta, l'aveva già fidanzata col figliuolo del dottor Zurlo, un partitone che faceva gola a tutte le mamme del paese, malgrado la bassa nascita.


Bel giovane, bianco rosso e trionfante, egli faceva l'innamorato con tutte quante le ragazze. Com'era figlio unico, e donna Agnesina Arlotta avrebbe portato la nobiltà nei Zurlo, si era lasciato fidanzare a lei, e aveva preso gusto anche a scaldarle la testa, recitando la sua parte di primo amoroso del paese. Babbo Zurlo che mirava al sodo, e a quella commedia ci credeva poco, diceva in cuor suo:
- Il suggeritore lo faccio io. Se don Basilio Arlotta non snocciola la dote in contanti, spengo i lumi e calo la tela -.


Don Basilio arrabattavasi appunto a mettere insieme la dote confacente alla nascita della sua Agnese, giacché di nobiltà in casa ce n'era assai, ma pochi beni di fortuna, e imbrogliati fra le liti per giunta. Il pover'uomo che voleva far contenti tutti, e non ci vedeva dagli occhi per la figliuola ingolfavasi nelle spese: venti salme di maggese alle Terremorte seminate tutte in una volta; la lite di Palermo spinta innanzi a rotta di collo. - Come chi dicesse un pazzo che giuoca ogni cosa su di una carta, a fin di bene, sia pure, per amor della famiglia; ma fu quella la sua rovina.


Lavorava come un cane, sempre in faccende, di qua e di là, con gente d'ogni colore che gridava e strepitava. Partiva all'alba pei campi, e tornava a tarda sera, sfinito, coll'aria stravolta, sognando anche la notte i seminati in cui aveva messo il poco che gli rimaneva, e tutte le sue speranze. - San Giovan Battista! - Anime del Purgatorio, aiutatemi voi! - Così pregava la Madonna dell'Idria, accendendole di nascosto ogni sabato la lampada, dinanzi all'immagine benedetta del Papa, perché facesse piovere.


Teneva nascoste ai suoi le lettere dell'avvocato che gli parlavano della causa. In casa sforzavasi di mostrarsi allegro, il poveraccio. Rispondeva alle occhiate timidamente ansiose della moglie:
- Va bene - Non c'è male - Domeneddio non ci abbandonerà in questo punto... - Si confessò e si comunicò a Pasqua; si mise in grazia di Dio, pregando coll'ostia in bocca per la buon'annata, per la vittoria della lite, per la buona riuscita del matrimonio che doveva far felice la sua creatura...


Essa pure, l'Agnesina, il bene che le volevano se lo meritava.


Buona, amorevole, ubbidiente, quando le avevano fatto vedere lo sposo attraverso la grata - una lontana parente - e la mamma le aveva detto all'orecchio:
- È quello lì. Ti piace? - Essa aveva chinato il viso, rosso qual brace:- Sì -. Poi, successa la catastrofe, come le fecero intendere che bisognava rinunziare a don Giacomino e darsi a Dio, chinò il capo di nuovo e disse:
- Sì -.


Era stato il giorno di Pasqua che glielo avevano fatto conoscere, quel cristiano. L'aspettava, lo sapeva quasi. Le avevano messo in capo quel brulichìo le confidenze delle amiche, le visite insolite delle parenti di lui, certe mezze parole della mamma... Ah, che festa quella mattina che la mamma le aveva fatto dire di scendere in parlatorio, dopo le funzioni! Che dolcezza nel suono dell'organo, quante visioni nelle nuvolette azzurre che recavano sino al coro il profumo dell'incenso! Che batticuore in quell'attesa! Ogni cosa che rideva, ogni cosa che risplendeva d'oro e di sole, ogni cosa che sembrava trasalire allo scalpiccìo della gente che entrava in chiesa, quasi aspettasse, quasi sapesse già... Non lo dimenticò più quel giorno di Pasqua, la poveretta.


Ancora, dopo tanti anni, quando udiva lo scampanìo allegro che correva su tutto il paese, le sembrava di rivedere il giardinetto tutto in fiore, le compagne appollaiate alle finestre, un cinguettìo di passeri, un chiacchierìo giulivo di voci note e care, un ronzìo nelle orecchie, uno sbalordimento, e lui, quel giovine, col sorriso già bell'e preparato, e la destra nel panciotto, e l'occhiata tenera che sembrava sfuggirgli suo malgrado, in mezzo ai suoi parenti, al di là della soglia del portone spalancato...


Le avevano pure fatto una gran festa all'uscire dal monastero, tutti i parenti, anche quelli di lui. Il babbo era tanto contento quella sera! I dispiaceri e i bocconi amari se li teneva per sé, il poveretto. Per gli altri invece aveva fatto preparare dolci e sorbetti che Dio sa quel che gli erano costati. Dio e lui solo! E nessun altro. - Né la ragazza per cui si faceva la festa, né il giovane che le avevano fatto sedere allato. - Se don Giacomino avesse sospettato in quel momento quanti pasticci c'erano in quella casa, e come la dote che gli avevano promessa tenesse proprio al filo della buona o cattiva annata, avrebbe preso il cappello e sarebbe andato via, senza curarsi di far più l'innamorato.


E sarebbe stato meglio; ché allora la giovinetta non aveva ancora messa tutta l'anima sua in quel giovine, al vederlo tutti i giorni, quasi fosse già uno della famiglia, che veniva a farle visita, quasi anche lui non potesse stare un giorno senza vederla, e si metteva a sedere accanto a lei, e le diceva tante cose sottovoce. E la mamma era contenta lei pure, e aspettava anche lei l'ora in cui egli soleva venire, e adornava colle sue mani la sua creatura. Le avevano fatta una veste nuova color tortorella; l'avevano pettinata alla moda, colla divisa in mezzo. Allora aveva dei bei capelli castagni, che gli piacevano tanto a lui. Le diceva che sarebbe stato peccato doverli tagliare per farsi monaca.


Discorreva anche di tante altre cose, con la mamma o col babbo, di ciò che gli avrebbe assegnato suo padre, del come intendeva far fruttare la dote che gli avevano promesso, del modo in cui voleva che andasse la casa e tutto. La mamma faceva segno ad Agnese di stare attenta e di badare a ciò che diceva lui, che doveva essere il padrone. Un giorno egli le aveva regalato un bel paio d'orecchini, e aveva voluto metterglieli colle sue stesse mani, in presenza della mamma. Come passavano quei giorni! Le ore in cui egli era lì, vicino a lei, le ore in cui essa l'aspettava, le ore in cui pensava a lui - le sue parole, il suono della sua voce, i menomi gesti, tutto - col cuore gonfio, colla testa piena di lui, china sul lavoro, agucchiando allato alla mamma. La mamma sembrava che le penetrasse nell'anima, con quegli occhi amorosi che la covavano, se taceva, in tutto quel che diceva, fin nei consigli che le dava intorno al taglio di un corpetto o pel ricamo di un guanciale su cui dovevasi posare il capo della sua figliuola, accanto a quello dello sposo. Ci pensava spesso la giovinetta, col viso chino, facendosi rossa fino al collo. E la mamma sembrava che le leggesse il pensiero dolce negli occhi fissi ed assorti, che ne giubilasse anche lei, povera vecchia, senza alzare gli occhi dal lavoro, fingendo di non vedere, quando il giovane cercava di nascosto la mano tremante della ragazza, quella volta che approfittando della confusione di tutto il parentado venuto a farle visita le sfiorò il viso fra un uscio e l'altro, come a caso. Venivano spesso i parenti e le amiche, tutti che pigliavano parte alla gioia comune. C'era un'aria di festa nella casa, nei mobili ripuliti, nei mucchi di biancheria sparsi qua e là, nel va e vieni di sarte e di operaie, nelle donne che cantavano affaccendate. Il babbo però aveva un certo modo di esser contento che toccava il cuore. Gli spuntavano le lagrime, a volte, nell'abbracciare la figliuola. Le diceva:
- Che Dio ti benedica!

Che Dio ti benedica, figliuola mia! - E le mani gli tremavano, accarezzando la sua Agnese, e rinfrancava la voce così dicendo, per dare ad intendere ai gonzi che dormiva su due guanciali, riguardo ai suoi interessi. A San Giovanni che il paese intero bestemmiava Dio e i santi, lagnandosi della malannata, aveva il coraggio di dire soltanto lui:
- Non c'è tanto male, poi.


Potrebbero andar peggio le cose. Lì, a Terremorte, ci ho venti salme di maggese. Calcoliamo pure sulla media... Ho avuto buone notizie della lite, laggiù... - Ma parlava così perché nel crocchio che stava a sentir la musica in piazza era pure la sua figliuola, seduta accanto allo sposo, colla veste di 'mérinosi e il cappellino comprato a credenza.


Sembrava così intenta, la cara fanciulla, senza un pensiero e senza un sospetto al mondo! Il dottor Zurlo invece aveva certi occhi inquisitori, e insisteva con certe domande indiscrete che facevano sudar freddo il povero don Basilio:
- E quanto credete che vi daranno le Terremorte? E che n'è della causa? Vi siete messo in una grossa impresa, voi. Io nei vostri panni non dormirei più la notte... Con una malannata simile! Le meglio famiglie non sanno come va a finire, vi dico! A metter su casa ci penserà bene ogni galantuomo, quest'anno! - Per poco non si sfogò col figliuolo che non badava ad altro, lui, in quel momento, pigliando fuoco ai begli occhi di donna Agnesina, eccitato dalla musica che suonava e dalla bella serata tepida.


Però don Giacomino non era sciocco neppur lui. Oltreché, nei piccoli paesi tosto o tardi si vengono a scoprire gli imbrogli di ciascuno. Il povero don Basilio Arlotta friggeva proprio come il pesce nella padella, assediato dai creditori, stretto da tanti bisogni, le spese della causa, il fitto delle terre, le paghe dei contadini. Correva da questo a quell'altro, si arrapinava in ogni guisa, cercava di far fronte alla tempesta, dava la faccia al vento contrario almeno, pagava di persona. Quando, al tempo della messe, fu colto da una perniciosa che fu a un pelo di portarselo via - e sarebbe stato meglio per lui - non diceva altro, nel delirio:
- Lasciatemi alzare. Non posso stare a godermela in letto. Bisogna che vada. Bisogna che cerchi... So io!... So io!...


- E lo sapevano anche gli altri, primo di tutti don Giacomino, il quale batteva freddo colla sposa e si faceva tirar le orecchie per tornare in casa di lei, ogni volta; tanto che donna Agnesina piangeva notte e giorno, e sua madre non sapeva che pensare. Le povere donne avevano ancora gli occhi chiusi sul precipizio che inghiottiva la casa, perché don Basilio cercava ancora di nascondere il sole collo staccio, soltanto per risparmiare loro più che poteva quel dolore che se lo mangiava vivo. Ogni giorno che tardavano a conoscere il vero stato delle cose era sempre un giorno di meno di quelli che passava lui!...


Tacque dell'usciere che venne a sequestrare quel po' di raccolta alle Terremorte. Tacque della scena terribile coi contadini che l'avevano minacciato colle forche, vedendo in pericolo le loro giornate. Alla moglie che scopava già il granaio pel frumento che doveva venire dalle Terremorte, disse d'averlo venduto sull'aia.


Come essa aspettava i denari della vendita disse che glieli avevano promessi a Natale. - Domani - Doman l'altro - Alla fine del mese -. Il pover'uomo pigliava tempo con tutti, balbettando delle bugie alle quali quasi quasi credeva anche lui, tanto aveva perduta la testa. - Alla vendemmia - Alla raccolta delle olive - E l'usciere era stato pure nelle vigne e nell'oliveto. Finalmente, nella novena di Natale, che le donne avevano fatto voto di digiunare tutti i nove giorni perché Gesù Bambino facesse succedere il matrimonio senza intoppi, scoppiò la bomba.


In casa Arlotta avevano fatto il pane quella mattina. L'Agnese, tutta contenta, stava anche preparando per don Giacomino certe paste che le avevano insegnate al Monastero. E lui stava a vedere, sopra pensieri, piluccando di tanto in tanto un pizzico di pasta frolla e dicendole sbadatamente, soltanto per dire qualche cosa, che essa aveva le mani più bianche del fior di farina... - lì, in cucina, dinanzi al forno, col cappello in testa, proprio come uno della famiglia - quando comparve Menica, la serva, col fascio di sermenti che era scesa a prendere in corte, e l'aria sconvolta:
- Signora! signora!... - Nell'anticamera udivasi la voce di don Basilio che pregava e scongiurava. La signora corse subito a vedere e non tornò più, senza curarsi che lasciava soli don Giacomino colla figliuola. La povera ragazza, si strinse allora allo sposo, quasi sapesse già che non le rimaneva altro aiuto ed altro conforto:
- Cosi è stato, don Giacomino, per l'amor di Dio!... - Ah, quando vide il babbo con quella faccia! La faccia che doveva avere in punto di morte. Barcollava come un ubbriaco; andava di qua e di là senza sapere quel che facesse, chiudendo le imposte e le finestre, perché la gente che passava non vedesse l'usciere in casa sua. Imbattendosi a un tratto nel fidanzato di sua figlia, don Basilio lo guardò stralunato, col sudore dell'agonia in viso.


Giunse le mani e aprì la bocca senza dir nulla. Allora don Giacomino si mise a cercare il bastone e il pastrano senza dir nulla, facendo ancora finta di non saper niente di niente, per cortesia, ed anche per evitare una scena che gli seccava, borbottando:

- Scusate... Sono d'incomodo... Mi dispiace... - Ma come don Basilio voleva continuare a fare la commedia dell'uomo tranquillo, coi goccioloni dell'agonia in fronte e pallido più di un morto:
- Ma, don Giacomino!... Figuratevi!... Un momento e li sbrigo subito... Passate un momento in camera mia colle donne... - don Giacomino si fermò a guardarlo, verde dalla bile, sul punto di spiattellargli in faccia:
- A che giuoco giuochiamo? Finiamola adesso questa commedia! Se lo sanno tutti che siete rovinato! Mi meraviglio di voi che volete imbrogliare un galantuomo... - Ma tacque ancora per prudenza. Soltanto non ci furono Cristi per trattenerlo. Né la vista dell'Agnesina che gli faceva la scena dello svenimento. Né le lagrime della madre che lo supplicava tremante:
- Don Giacomino... Figliuolo mio!... - Egli disse che tornava subito, per cavarsi d'impiccio:
- Mi dispiace. Non posso, proprio!... Un momento. Vado e torno -.


Tornò invece il notaio Zurlo, a restituire i regali che venivano dalla sposa: il berretto di velluto e pantofole ricamate, facendo il viso compunto per procura del figliuolo, un viso fra il padre nobile e il burbero benefico, tornando a dire anche lui:
- Mi dispiace davvero!... Era il mio più gran desiderio. Ma voi non ci avete colpa, donna Agnesina!... Ne troverete degli altri coi vostri meriti... - E volle lasciarle anche una carezza paterna sulla guancia, con due dita, sorridendo bonariamente.


Ma come vide barcollare la ragazza, bianca al par di un cencio, si asciugò persino gli occhi col fazzoletto e conchiuse:

- Che disgrazia, figliuola mia!... Scusate se vi chiamo così. Vi tenevo già per figlia mia!... Che crepacuore mi avete dato... - Ecco com'era venuta la vocazione alla povera donna Agnese. Il cappellano del monastero la citava in esempio alle altre novizie che mostravansi sbigottite nel punto di pronunciare i voti solenni:
- Guardate suor Agnese Arlotta! Specchiatevi su di lei che ha provato quel che c'è nel mondo. C'è l'inganno e la finzione. - Imbrogliami che t'imbroglio. - Una cosa sulle labbra e un'altra nel cuore. - E poi che resta alla fine di tante angustie, di tanti pasticci? Un pugno di polvere! 'Vanitas vanitatum'!... - Così, a poco a poco, la poveretta si era distaccata completamente dalle cose terrene, e si era affezionata invece all'altare che aveva in cura, al confessore che la guidava sul cammino della salvazione, al cantuccio del dormitorio dov'era il suo letto da tanti anni, al posto che occupava al coro e nel refettorio, al suono della campana che regolava tutte le sue faccenduole, sempre eguali, alle pietanze che tornavano invariabilmente secondo il giorno della settimana, alla stessa ora, nello stesso piatto. Il suo mondo finiva lì, al cornicione della casa dirimpetto che affacciavasi sopra il muro del giardino, al pezzetto di collina che si vedeva dalla finestra, al gomito della stradicciuola che metteva capo al parlatorio. Le ore e le stagioni si succedevano nel monastero allo stesso modo, col sole che scendeva più o meno basso sul cornicione, colla collina che era verde o brulla, coi polli che razzolavano nella stradicciuola, o si radunavano all'uscio del pollaio. Anche le voci dei vicini erano tutte note.


Allorché andò via la tessitrice che stava di faccia alla chiesuola fu un avvenimento, quando non si udì più il battere del pettine ogni mattina. Suor Agnese non ebbe pace finché non riescì a sapere dal sagrestano dov'era andata e perché era andata via, quella cristiana.


Non che cercasse il pettegolezzo, ma per semplice curiosità, massime da che era divenuta sorda. Siamo fatti di carne infine, e il mondo ostinavasi a insinuarsi sin là, pian piano, coi sermoni del confessore, colle chiacchiere del sagrestano, coi discorsi dei parenti che venivano in parlatorio, colle liti fra le monache, e gli intrighi che nascevano quando trattavasi di eleggere le cariche pel triennio. Oh allora!

Suor Gabriella, che era la superbia in persona, si faceva umile come un agnello pasquale; e suor Maria Faustina, otto giorni prima, aveva sulla faccia arcigna un sorriso amabile. Fra le suore poi erano conciliaboli a tutte le ore, durante la ricreazione, o quando si riunivano nel tinello a preparare i dolci e le paste per la solennità, a Pasqua o a Natale. Tanto più che suor Agnese non aveva nulla da fare, perché non aveva né fior di farina, né zucchero, né denari per comprarne, né parenti a cui mandare in regalo i dolci. Sua madre, buon'anima, era morta da un pezzo; e anche don Basilio, quantunque fosse campato vecchio nei guai, perché Dio aveva voluto dargli il purgatorio in terra - e anche la zia caritatevole, che aveva sborsato le cento e venti onze della dote perché donna Agnese potesse farsi monaca. - Pace alle anime loro, di tutti quanti, compreso don Giacomino, che era morto carico di figliuoli, e gli avevano fatto i funerali a Santa Maria degli Angeli. Sia fatta la volontà di Dio! a suor Agnese, povera vecchia, il Signore le accordava la grazia. Colle sei onze all'anno della dote, e il piatto che le passava il convento, meno di trenta centesimi al giorno, essa riusciva a mantenersi lei, la lavandaia, e la conversa di cui non poteva fare a meno pei suoi acciacchi. Risparmiava sulle due paia di scarpe e sulla tonaca nuova che le spettavano ogni anno. Vendeva le noci e le mandorle della tavola che non poteva rosicchiare. Di due ova ne mangiava una lei, e l'altro, metà per una fra la serva e la lavandaia.


Aveva anche combinato che a tavola teneva un fornello allato al piatto, e la sua porzione di minestra tornava a farla bollire perché crescesse e potesse bastare alle due donne che avevano sempre una fame da lupi. Essa campava d'aria, povera vecchia.


Talché a furia di privazioni tirava innanzi anche lei, e arrivava a cavare di quel poco anche il caffè e il biscotto pel confessore, ogni mattina.


Veramente avrebbe avuto anche lei l'ambizioncella di tenere il pastorale, almeno una volta in tanti anni. Ma alle cariche erano nominate sempre quelle monache che sapevano intrigare meglio, e trovavano appoggio nel parentado di fuori. Basta, taceva e ringraziava la Divina Provvidenza. - Che le mancava, grazie a Dio?

Mentre fuori, nel mondo, c'erano tanti guai! - Col buon esempio, e simili belle parole, confortava pure quelle novizie che in convento ci venivano tirate proprio pei capelli, senza vocazione.


Una di queste però, maleducava e villana, le rispose un bel giorno chiaro e tondo:

- Sapete com'è? La mia vocazione è di sposare don Peppino Bèrtola, per amore o per forza -.





Decimo



Quella fatale tendenza verso l'ignoto che c'è nel cuore umano, e si rivela nelle grandi come nelle piccole cose, nella sete di scienza come nella curiosità del bambino, è uno dei principali caratteri dell'amore, direi la principale attrattiva: triste attrattiva, gravida di noie o di lagrime - e di cui la triste scienza inaridisce il cuore anzi tempo. Cotesto amore dunque che ha ispirato tanti capolavori, e che riempie per metà gli ergastoli e gli ospedali, non avrebbe in sé tutte le condizioni di essere, che a patto di servire come mezzo transitorio di fini assai più elevati - o assai più modesti, secondo il punto di vista - e non verrebbe che l'ultimo nella scala dei sentimenti? La ragione della sua caducità starebbe nella sua essenza più intima? e il terribile dissolvente che c'è nella sazietà, o nel matrimonio, dipenderebbe dall'insensato soddisfacimento d'una pericolosa curiosità? La colpa più grave del fanciullo-uomo sarebbe la pazza avidità del desiderio che gli fa frugare colle carezze e coi baci il congegno nascosto del giocattolo-donna, il quale ieri ancora, gli faceva tremare il cuore in petto come foglia?

All'ultimo veglione della Scala, in mezzo a quel turbine d'allegria frenetica, avevo incontrato una donna mascherata, della quale non avevo visto il viso, di cui non conoscevo il nome, che non avrei forse riveduta mai più, e che mi fece battere il cuore quando i suoi sguardi si incontrarono nei miei, e mi fece passare una notte insonne, col suo sorriso sempre dinanzi agli occhi, e negli orecchi il fruscìo del raso del suo dominò.


Ella appoggiavasi al braccio di un bel giovanotto, era circondata dagli eleganti del Circolo, adulata, corteggiata, portata in trionfo; era svelta, elegante, un po' magrolina, avea due graziose fossette agli òmeri, le braccia delicate, il mento roseo, gli occhi neri e lucenti, il collo eburneo, un po' troppo lungo ed esile, ombreggiato da vaghe sfumature, là dove folleggiavano certi ricciolini ribelli; il suo sorriso era affascinante; vestiva tutta di bianco, con una gala di nastro color di rosa al cappuccio, e faceva strisciare sul tappeto il lembo della veste, come una regina avrebbe fatto col suo manto. Tutto ciò insieme a quel pezzettino di raso nero che le celava il viso, ricamato da tutti i punti interrogativi della curiosità, dove brillavano i suoi occhi, e dietro al quale l'immaginazione avrebbe potuto vedere tutte le bellezze della donna, e porla su tutti i gradini della scala sociale. Ella imponeva l'ingenuità, la grazia, il pudore di una fanciulla da collegio in mezzo ad un crocchio di uomini, fra i quali una signora per bene non sarebbesi avventurata neppure in maschera.


Era seduta colle spalle rivolte alla sala accanto al suo giovanotto, e gli parlava come parlano le donne innamorate, divorandolo cogli occhi, e facendogli indovinare i vaghi rossori che scorrevano sotto la sua maschera, e i sorrisi affascinanti; gli posava la mano sulla spalla, e l'accarezzava col ventaglio; sembrava che si facesse promettere qualche cosa, con una insistenza affettuosa e carezzevole.


Io avrei dato qualunque cosa per essere al posto di quel giovanotto, il quale sembrava mediocremente lusingato di quella preferenza; avrei voluto indovinare tutto ciò che non potevo udire, tutto ciò che si agitava nel cuore di lei; avrei voluto penetrare attraverso la seta di quella maschera; l'incognito di quel viso, di quella persona, e di quel modesto romanzetto sbocciato al gas della Scala aveva mille attrattive per un osservatore. La mia simpatia, o la mia curiosità, avrà dovuto penetrarla come corrente elettrica; perché si volse a guardarmi due o tre volte, con quei suoi occhioni neri; poi si alzò, prese il braccio del suo compagno e si allontanò.


Sembrommi che all'allegria di quella festa fosse succeduta una inesplicabile musoneria, che mi mancasse qualche cosa; la cercavo con un'avida speranza di rivederla, quasi cotesta sconosciuta fosse diggià qualche cosa per me.


Sul tardi ci trovammo di nuovo faccia a faccia accanto alla porta, mentre ella usciva dalla sala ed io vi rientravo. Rimanemmo immobili, guardandoci fissamente a lungo, come due che si conoscono, quasi anche io, dopo averla guardata tre o quattro volte durante la sera, fossi diventato qualche cosa per lei, il cuore mi batteva e sentivo che doveva battere anche a lei; sembravami che entrambi bevessimo qualche cosa l'uno negli occhi dell'altra; assaporavo il suo sorriso assai prima che le sue labbra si schiudessero: ella mi sorrise infatti - un getto di buonumore e di simpatia che diceva: «So che ti piaccio, e anche tu mi piaci!». La parola più affettuosa, la lingua più dolce del mondo, non avrebbero potuto riprodurre l'eloquenza di quel sorriso; il pensatore più eminente, o l'uomo di mondo più spensierato, non avrebbe potuto analizzare quel sentimento che irrompeva improvviso in un'occhiata, fra due persone che si incontravano in mezzo alla folla, come due viaggiatori che partono per opposte direzioni si incontrano in una stazione, l'una accanto ad uomo che amava forse ancora, l'altro che avea visto il braccio di lei sull'òmero di quell'uomo. Due o tre volte ella si rivolse a guardarmi collo stesso sorriso, ed io la seguii, senza sapere io stesso dietro a quale lusinga corressi. La folla me la fece perdere di vista; la cercai inutilmente nel ridotto, pei corridoi, nel caffè, in platea, da Canetta, in quei palchi che potei passare in rassegna, dappertutto.


Avevo la febbre di uno strano desiderio; divoravo cogli occhi tutti i dominò bianchi, tutte le vesti che avessero ondulazioni graziose. A un tratto me la vidi improvvisamente dinanzi, o piuttosto incontrai il suo sguardo che mi cercava. Io dava il braccio ad una donna che rivedevo quella sera dopo lungo tempo.


Nello sguardo dell'incognita c'era una muta interrogazione; ella mi sorrise di nuovo; non potei far altro che mandarle un saluto mentre mi passava accanto; ella si voltò vivamente, mi lanciò a bruciapelo uno sguardo ed un sorriso e ripeté:
- Addio! - Non dimenticherò mai più quella voce e quell'accento!

Non la vidi più. Rimasi a digerire il mio dispetto e il cicaleccio della mia compagna. Sognai tutta la notte, senza chiudere gli occhi, quel viso che non conoscevo; sentivami in cuore un solco luminoso lasciatovi da quello sguardo; l'impossibilità di rintracciarla dava all'apparizione di quella sconosciuta un prestigio di cosa straordinaria; nel sorriso di lei io poteva immaginare un poema d'amore, che riceveva tutto l'interesse dall'essere troncato sul fiore e per sempre. 'Per sempre'!

non è parola che scuote maggiormente l'animo umano? Io prolungai quel sogno per tutto il giorno. Sembravami che ci fosse qualche cosa di nuovo in me, e che avessi ricevuto il sacramento di una perdita immensa. Quando la mia immaginazione si stancò di vagare nelle azzurre immensità dell'ignoto, per una reazione naturale del pensiero, io guardai con sorpresa nel mio cuore, e domandai a me stesso, se mi fossi innamorato di quel pezzettino di raso nero che nascondeva un viso sconosciuto.


Lo sguardo di quell'incognita mi aveva messo il cuore in sussulto mentre davo il braccio ad un'altra donna che un tempo avevo amato come un pazzo, e che in quel momento istesso si esponeva al più grave pericolo per me. Io maledivo l'ostinazione di cotesto affetto che mi impediva di correre dietro alla sconosciuta con tutto l'egoismo che c'è in un altro amore.


Per due o tre giorni cercai ansiosamente quell'amante che non conoscevo, e sentivo che il rivederla mi avrebbe tolto qualche cosa di Lei. La rividi in Galleria, la riconobbi a quello sguardo e a quel sorriso che mi dicevano: «Son io, mi ravvisi?». Mi sentivo spinto fatalmente verso di lei, e venti volte fui sul punto di prenderle la mano al cospetto delle persone che l'accompagnavano.


In piazza della Scala si rivolse due o tre volte per vedere se la seguissi. Le vaghe incertezze, le gioie tumultuose, i febbrili desideri dell'amore a vent'anni mi inondarono il cuore in una volta: l'ondeggiare della sua veste sembravami avesse qualche cosa di carezzevole; il suo paltoncino bianco, e il fazzoletto che pel freddo si teneva sul viso, avevano irradiazioni luminose. Io non saprei ridire l'emozione che provai al pensiero di poterle dare il braccio, o di poter toccare un lembo di quel fazzoletto. Ad un tratto ella attraversò la via, insieme alla sua compagna, e seguìta dalla sua scorta di parenti, camminando sulla punta dei piedi e rialzando il lembo del suo vestito, venne a mettersi al mio fianco. Mi guardò in viso, come se aspettasse qualche cosa da me. Io sentii un dolore acuto, e volsi le spalle.


La rividi ancora parecchie volte, e gli occhi di lei mi domandavano:
- Cosi hai? - io non osavo dirle:
- Non mi piaci più - . Ella si stancò di sollecitare i miei sguardi, e quando mi incontrò volse altrove il capo. Una sera, sotto il portico della Scala, sentii afferrarmi la mano da una mano tremante che vi lasciò un bigliettino microscopico. Mi rivolsi vivamente: non vidi che visi sconosciuti, e un po' più lungi la mia incognita che si allontanava senza guardarmi; sebbene fosse passata così lontano, sebbene da qualche tempo distogliesse da me lo sguardo con indifferenza, tutte le volte che mi incontrava, il mio pensiero corse a lei senza esitare un momento, nello stesso tempo che per una strana contraddizione tacciavo di follia il mio presentimento.


Una sola parola riempiva tutto il biglietto: «'Seguitemi'».


Chi? dove? perché? Coteste interrogazioni diedero colori di fuoco a quella semplice parola; il mistero che vi era racchiuso si rannodava, con logica irresistibile, a quell'incognita, e le ridava tutta quella vaga e indefinibile attrattiva che il vedermela al fianco, sotto il fanale a gas, avea fatto svanire in un lampo; il dubbio d'ingannarmi mi mise addosso mille impazienze.


Ella non sembrava nemmeno accorgersi di me - io la seguii. Quando la porta della sua casa mi si chiuse in faccia rimasi in mezzo alla strada, senza avere la forza di andarmene, coi piedi nella neve, tutte le finestre della via che mi guardavano, e i questurini che venivano a passarmi vicino. Dalle undici alle due del mattino io non ebbi un momento di esitazione o di stanchezza; non dubitai un istante. Udii aprire pian piano la porta, e vidi nell'ombra dell'arcata una forma bianca. Ella tremava come una foglia quando le toccai la mano; sembrava che avesse la febbre; mi disse con voce strozzata dalla commozione:
- Che avete? che vi ho fatto? ditemelo - come se ci conoscessimo da dieci anni.


Certe situazioni, certe parole, certe inflessioni di voce hanno significazioni evidenti, irresistibili; la giovinetta che avevo incontrata al veglione, in mezzo ad uomini che portavano in trionfo Cora Pearl, e la quale mi gettava le braccia al collo nel buio di una scala, dava la più luminosa prova di candore coll'espansione della sua simpatia: sentimento strano che non sapevo spiegare, e di cui non osavo chiederle ragione. Nella sua fiducia c'era tanta innocenza che avrei voluto rubarle gli orecchini per insegnarle a diffidare degli uomini. Sentivo fra le mie le sue povere mani tremanti, e le sue parole sommesse sembrava che mi sfiorassero il viso come un bacio. Certi sentimenti inesplicabili hanno un fondamento essenzialmente materiale; tutto l'incanto di quell'ora di paradiso stava nel buio di quella scala.


Sembravami che le larve dell'ideale avessero preso corpo e mi stringessero le mani:
- Io ti son piaciuta senza che tu mi avessi vista in viso, - ella mi disse. - Ecco perché ti amo - e non mi domandò nemmeno come mi chiamassi.


Ella si fece promettere che sarei tornato a vederla la notte seguente. Ahimè! insensata promessa che rimpiccioliva il desiderio nelle meschine proporzioni di un volgare appuntamento. Noi avremmo dovuto inventare tutti gli ostacoli che mancavano alla nostra felicità, o non rivederci mai più. La notte seguente tornai da lei con un sentimento penoso, come se avessi perduto qualche cosa.


La rividi nel suo salottino, raggiante di bellezza, ed il cuore mi si dilatò di gioia, quasi le prime sensazioni della sciagura fossero piacevoli; contemplavo avidamente quelle leggiadre sembianze che si imporporavano per me, e in mezzo alla festa del mio cuore sentivo insinuarsi un vago turbarmento - il mio ideale svaniva; tutto quello che c'era in quella bellezza veramente incantevole era tolto ai miei sogni; sembravami che il mio pensiero si fosse impoverito trovandosi costretto nei limiti della realtà. - Che hai? - mi disse. - Nulla, - risposi, - c'e troppa luce qui -. Ella, povera ragazza, moderò la fiamma della lucerna.


Non si avvedeva del turbamento che c'era in me, e non avea paura della funesta avidità con la quale i miei occhi la divoravano.


Parlava sorridente, giuliva, come un uccelletto innamorato canta su di un ramoscello; mi raccontò la sua storia, una di quelle storie che l'angelo custode ascolta sorridendo. Aveva amato il cugino con cui l'avevo vista al veglione, era venuta colla zia da Lecco per lui, e il cugino, in capo a due o tre giomi di esitazione, le avea fatto capire bellamente che non l'amava più.


Allora, dopo le prime lagrime, ella avea pensato a quello sconosciuto che al veglione della Scala l'avea guardata in quel modo. - Io ti ho letto negli occhi che ti piacevo, - mi disse, - e ti sorrisi perché ciò mi rendeva tutta lieta; in quel momento avevo un gran dolore in cuore. Se mio cugino avesse seguitato ad amarmi, io non te lo avrei mai detto, ma ti avrei sempre voluto bene come ad un fratello. Ora che mio cugino non vuol saperne più di me... ebbene, anche io voglio amare chi più mi piace! - Tossiva di quanto in quanto, le guance le si imporporavano, e gli occhi le si facevano umidi. - Non mi dire che mi sposerai, se vuoi lasciarmi come quell'altro... Sono stata tanto malata! - Addio! - le dissi. - Tornerai domani? La zia va dalle mie cugine, non aver paura; tornerai? - Addio -.


Non la vidi più. Sentii che mi sarei trovato umile e basso dinanzi alla fiducia e all'entusiasmo di quell'amore che non dividevo più.


E sentivo del pari di aver perduto irremissibilmente un tesoro.


In novembre ricevetti una lettera listata di nero; era lo stesso carattere che aveva scritto 'seguitemi'; le mani mi tremavano prima d'aprirla: 'Se volete ripetere l'addio che deste ad una mascherina all'ultimo veglione della Scala', scrivevami, 'recatevi al Cimitero fra una settimana, e cercate della croce sulla quale sarà scritto X'.


Quella lettera, per un caso che farebbe credere alla fatalità, si era smarrita alla posta, e mi pervenne con qualche giorno di ritardo. Io volai a quella casa che non avevo più riveduta; scorgendo le persiane chiuse, il cuore mi si strinse dolorosamente. Corsi al Cimitero, senza osare di credere al presagio funesto di quella lettera; al primo viale che infilai, quasi il destino si fosse incaricato di guidare i miei passi, alla prima terra smossa di fresco, su di una croce di ferro, lessi quel segno che ella avea desiderato sulla tomba, triste geroglifico del suo amore; e lì, coi ginocchi nella polvere, mi parve di guardare in un immenso buio, tutto riempito dalla figura della mia incognita, dal suo sorriso, dal suono della sua voce, delle parole che mi ha dette, dai luoghi dove l'avevo vista. Sentii un gran freddo.





FRAMMENTI




Carne venduta

(Frammento primo)


Su per la china, dalla città addormentata nell'alba chiara, saliva di tratto in tratto come il muggito del mare in burrasca, e nel porto la fregata si copriva di fumo. Tornavano indietro contadini frettolosi, spingendosi innanzi le loro bestie, spiando il cammino con occhio inquieto. Una comare che si era fermata un momento a metter giù la cesta e ripigliar fiato, disse stendendo il braccio a indicar laggiù, verso la città; - Vengono!... I soldati!... La cavalleria!... - Più tardi erano passati dei soldati infatti: cacciatori neri, fantaccini di cui i calzoni rossi facevano come una ondata di sangue, nella via bianca, e per tutta la strada, di qua e di là, non si udiva altro che il tintinnio delle armi, in cadenza col passo grave e uniforme della moltitudine. Neppure le galline si erano arrischiate nell'aia, dinanzi al cortile, per paura del sacco e fuoco che dicevano. Compare Nunzio, colle spalle appoggiate al muricciuolo, stava a guardia del suo orto. Alla Lia, che si era affacciata all'uscio, venuta l'ora di mangiare un boccone, aveva risposto di no, col capo.


Era più di un'ora che passavano dei soldati, prima in folla, come un armento in mezzo al polverone; poi a gruppi di dieci o venti, alla spicciolata, col fucile a bandoliera, e il chepì sulla nuca, stanchi e trafelati. Alcuni chiedevano dell'acqua, rossi pavonazzi dall'arsura. Uno, stanco morto, si era messo a sedere all'ombra del mandorlo, col fucile fra le gambe. - Vieni tanto da lontano? - gli chiese compare Nunzio. L'altro levò il capo e lo guardò cogli occhi azzurri come il fiore del lino, senza comprendere e senza rispondere. Aveva i capelli biondi come le spighe, e una carnagione bianca di fanciullo o di donna, dove non era arsa dal sole, sotto il collarino di cuoio, e l'uniforme sbottonata. - Di dove sei? Non capisci nemmeno la lingua del paese dove vai? Che ci sei venuto a fare? - L'altro balbettò infine qualche parola che nessuno capiva, come una povera bestiola che non sa dire il suo bisogno. - Poveretto! - disse la Lia. - Carne venduta! - ribatté compare Nunzio. Il soldato guardava lui, guardava la ragazza, e non aggiungeva altro. Poi si alzò da sedere, affibbiò il cinturone, rimise in spalla il suo fucile, e se ne andò cogli altri.


- Va, vattene alla malora! - gli gridò dietro lo zio Nunzio. - Tu e chi ti paga! - Colla notte scese un gran silenzio, come succede al cadere del vento, prima della burrasca. Solo, per quanto era lungo lo stradale, correva un uggiolìo di cani. A un tratto, dietro le imposte sbarrate del casolare si udì un gran tramestìo, della gente in folla che correva, e delle voci alte e brusche, in mezzo al mormorio. Verso l'alba si udirono pure le prime fucilate, e il cannone laggiù, e le campane che suonavano a martello, nella città. Poi cannonate e fucilate scoppiarono vicine, furiose, come un uragano. Il muro del pollaio crollò a un tratto, e sulle tegole le palle fioccavano fitte come una grandinata. Insieme grida e urli disperati, dei colpi tirati a bruciapelo, dalle imposte, dalle finestre, e degli altri colpi che rispondevano, dalle siepi, da ogni albero vicino, dalla cresta dei muri, di lassù in cima allo stradale. Una tempesta di colpi che squassò casa e villaggio, per più di un'ora, e si lasciò dietro uno strascico di gemiti e di rantoli, quando si dileguò infine, laggiù, verso il piano, distruggendo e bruciando ove passava, e i cadaveri sparsi, per la via, fra i seminati, lungo i muri, dietro le siepi. All'ombra del mandorlo, in una pozza di sangue, giaceva il giovanetto biondo del giorno innanzi, colle braccia aperte, e cogli occhi azzurri spalancati che sembravano guardare l'azzurro del cielo che non era quello del suo paese. - Poveretto! - tornò a dire la Lia. - Carne venduta! - tornò a ribattere compare Nunzio. - Che ci veniva a fare? -



«Nel carrozzone dei profughi»

(Frammento secondo)


Nel carrozzone dei profughi, due povere donne sedute accanto, col fagotto della roba che avevano avuto al Municipio sulle ginocchia, si narravano i loro guai. Anzi una non parlava più; guardava nella folla con certi occhi stralunati, quasi cercando la figlia che le avevano detto fosse stata salvata da un giovanotto quando trassero anche lei dalle fiamme e dalle macerie. Una ragazza bella come il sole, che chi l'aveva vista una volta l'avrebbe riconosciuta fra mille. L'avevano vista rifugiata sotto un portone - tra i feriti del 'Savoja' - alla stazione. Tutti l'avevano vista, fuori che lei! Dalla stazione aveva visto soltanto la sua casa che bruciava, per due ore, sinché il treno stette lì. E ora, mentre cercava la sua creatura fra la gente, da otto giorni, e pensava a lei che forse la cercava e chiamava aiuto, vedeva ancora quella distruzione e quell'incendio come un rifugio, una disperata certezza.


- Ora son sola - diceva l'altra. - Quando incontrai mio marito, qui, per caso, salvo anche lui, non mi pareva vero. Ma avevo tre figli: una maritata, colla grazia di Dio, e il maggiore che mi portava a casa già la sua giornata... Tutti! Tutti!... Io mi ero alzata appunto pel più piccolo che era malato, quando successe il terremoto. Il Signore non mi volle -.


Ne parlava tranquillamente, colla faccia gialla e la testa fasciata.


- Ora, quando lui sarà guarito andremo in America -.


L'altra alzò gli occhi, soltanto, e la guardò.


- Certo, che faremo qui?

- In America? - disse un altro profugo. - Non sapete che vita da cani! Peggio dei cani li trattano i cristiani! - Ella a sua volta guardò sbigottita colui, come a ripetere:
- Che faremo qui?

- Qui siamo nati; qui sono le pietre delle nostre case! - dissero gli altri.


Nella città straniera

(Frammento terzo)


Nella città straniera, stranieri l'uno all'altra, si erano trovati accanto alla stessa tavola d'albergo e alla medesima rappresentazione teatrale che attirava da ogni parte gli zingari della gran vita.


Ella fine e delicata come un fiore - egli baldo e rapace come un uccello da preda. E appena si guardarono in viso la prima volta tornarono a guardarsi, ella facendosi sempre pallida. - E dopo, nella semioscurità del teatro che concentrava una sensazione estraumana, lo sfolgorio delle scene, e l'ebbrezza delle piene orchestre, egli si impadronì risoluto delle piccole mani tremanti, e le tenne strette quanto durò la loro stagione d'amore.


Dolce stagione che dileguò al pari della visione scenica! - Dolce musica che respirava - gli incanti svaniti colla grazia un po' triste e la tenerezza penetrante delle cose che non son più - là, in quell'altro teatro di un altro paese dove si erano trovati insieme l'ultima volta, ancora accanto, e pure tanto lontani!

Milano, 10 giugno 1900




Mi sembra ancora di vederla

(Frammento quarto)


Mi sembra ancora di vederla quella figura sconvolta, uomo o donna, non so. Rammento solo due occhi pazzi e una bocca spalancata, enorme, urlando forse nel gridìo generale, nera anche essa, ma di un pallore cadaverico. Dibattevasi per farsi largo nella ressa dei profughi giunti con le prime corse, che si accavallavano sul balcone del Municipio all'arrivo di altre barelle e di altri carrozzoni che portavano altri profughi e altri gemiti. Ad un tratto vide, riconobbe qualcuno nella sfilata tragica, laggiù in fondo alla piazza. Si spinse innanzi disperatamente, quasi volesse buttarsi giù e si mise a chiamare, a gridare, a chiedere chissà?

un nome, una notizia di vita o di morte, qualcosa che l'altro soltanto poteva udire e comprendere in quel frastuono immenso, dall'altra estremità della piazza immensa, urlando. E l'altro, di laggiù, vide lei sola, in quel formicolio umano, udì, indovinò il nome e la domanda ansiosa, e rispose certo con una parola, un segno che al di sopra della folla, della confusione, del frastuono giunsero diritti a lei, che si cacciò le mani nella criniera arruffata, senza una parola, senza un grido, e cadde, scomparve nell'ondata di altri che gridano e chiamano ansiosi, dolorosamente egoisti.


Ottava parte
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