Daniel Defoe



FORTUNE E SFORTUNE
DELLA FAMOSA MOLL FLANDERS

 

 

 

 

Nota biografica


Daniel Defoe nacque a Londra nel 1660 e vi morì il 26 aprile 1731.


Fece il commerciante e lo speculatore, e nel corso di queste attività, complicate da intrighi politici, ebbe vari rovesci e infine, morto il suo protettore Guglielmo d'Orange, fu condannato alla prigione e alla berlina. La sua attività letteraria, all'inizio soltanto libellistica e giornalistica, acquista solo molto tardi (1719) un carattere creativo.




L'AUTORE AI LETTORI


Da qualche tempo il mondo è talmente soffocato da romanzi e libri di avventure, che sarà difficile per una storia privata esser presa per vera, quando in essa i nomi e gli altri particolari del personaggio siano taciuti; e su questo punto dovremo accontentarci di lasciare che il lettore dia sulle pagine che seguono la propria opinione, per la quale ci rimetteremo al suo volere.


Immaginate che qui è l'autrice a scrivere la sua storia; fin dal bell'inizio del suo racconto espone le ragioni per cui le sembra di dover nascondere il suo vero nome, dopo di che non avrà occasione di parlare ancora della faccenda.


Bisogna avvertire che l'originale di questo racconto venne sistemato con nuove parole, e lo stile della famosa signora di cui si parla, un tantino alterato; soprattutto, si è fatto in modo che costei raccontasse la storia con parole più modeste di quelle che non abbia usato la prima volta, dato che la copia capitataci tra le mani era stata scritta in un linguaggio più degno di una persona ancora rinchiusa in Newgate che non dell'umile penitente che lei ha in seguito affermato di essere.


La penna impiegata a rifinire questa storia e a ridurla come la vedete ora, ha trovato non poche difficoltà nel darle una veste presentabile, e fare che si esprima in un linguaggio leggibile. Quando una donna depravata nella sua prima gioventù, una donna anzi, che nasce frutto della depravazione e del vizio, si decide a fornire un ragguaglio di tutte le sue azioni perverse, e discende perfino alle occasioni e circostanze particolari attraverso le quali si aprì per lei la strada della corruzione e non dimentica tutti i successivi passi mossi nel delitto per un periodo di sessant'anni, si trova in un bell'impaccio l'autore che voglia rivestire la storia in modo tanto decente da non dar luogo, specialmente a lettori corrotti, di volgerla a suo danno.


Tuttavia, è stata adoperata ogni possibile attenzione per evitare tutti i pensieri disonesti, tutte le espressioni meno che modeste nel nuovo rivestimento di questo racconto; perfino nei suoi tratti peggiori. A questo scopo, qualcosa della parte viziosa di questa vita, che era impossibile raccontare secondo modestia, venne escluso, e diverse altre parti accorciate di molto. Quanto resta, si spera non sia tale da offendere il più casto dei lettori né il più modesto degli ascoltatori; e dato che anche della peggiore delle storie bisogna saper fare l'uso migliore, si spera che la morale del libro terrà desta la serietà del lettore, anche quando il racconto potesse disporlo diversamente. A fare la storia di una vita di vizio alla quale sia seguito il pentimento, si richiede necessariamente che la parte viziosa venga rappresentata allo stesso modo che la verità dei fatti consente più perversa, per illustrare ed abbellire la parte del pentimento, che sarà di sicuro la migliore e la più splendida, se raccontata con lo stesso spirito e vivacità.


Si è fatto presente che non possono esserci la stessa vivacità, lo stesso lustro e bellezza nel riferire la parte del pentimento come in quella delittuosa. Qualunque sia la giustezza di questa osservazione, mi sia consentito di dire che questo succede perché non si prende lo stesso gusto e lo stesso piacere nella lettura; ed è purtroppo vero che la differenza non sta nell'intrinseco merito dell'argomento quanto nel gusto e nel palato di chi legge.


Ma dato che quest'opera si raccomanda massimamente a coloro che sanno come vada letta e come se ne tragga quel profitto che per tutto il suo sviluppo la storia raccomanda, così giova sperare che questi lettori vorranno ben più compiacersi della morale che non della favola, dell'applicazione che non della esposizione, e dello scopo al quale mira lo scrittore più che della vita del personaggio trattato.


C'è, in questa storia, abbondanza di bellissimi casi e tutti interpretati profittevolmente. C'è, dato loro appositamente nel corso della narrazione, un piglio piacevole che naturalmente istruisce, in un senso o nell'altro, il lettore. La prima parte intorno alla vita dissoluta che la protagonista conduce con il giovane signore di Colchester, è piena di così felici accorgimenti diretti a smascherare il delitto e, svelando lo sciocco, spensierato e odioso comportamento di tutti e due i colpevoli, mettere in guardia contro la fine funesta di simili avventure tutti coloro i cui casi si adattano alla circostanza, che risarcisce abbondantemente tutta la vivace descrizione che la protagonista ci fa della sua follia e perversità.


Il pentimento del suo amante di Bath, e come questi sia portato ad abbandonarla, per il giusto allarme della malattia; il giusto avvertimento che a quel punto viene dato di guardarsi anche dalle legittime intimità con le persone più care e come senza l'aiuto divino siamo incapaci di perseverare nelle più solenni risoluzioni di vita virtuosa; sono tutte parti che, alla persona di vero discernimento, sembreranno piene di una più reale bellezza che non tutta la catena di casi amorosi che le introduce.


A farla breve, dato che l'intero racconto è accuratamente ripulito da tutte le frivolezze e licenziosità che conteneva, così è diretto, e col massimo scrupolo, a fini di virtù e di religione. Nessuno, che non voglia macchiarsi di manifesta ingiustizia, può fare il minimo rimprovero a quest'opera o al nostro proposito nel pubblicarla.


In tutti i tempi, i difensori del teatro hanno fatto di questo il loro argomento più forte per persuadere la gente che le loro opere sono utili e che ogni governo più civile e timorato di Dio dovrebbe permetterne la rappresentazione. Sostengono cioè, che queste opere sono dirette a scopi di virtù e che non trascurano, tramite le più vivaci descrizioni, di raccomandare la virtù e i principi generosi e di dissuadere e mostrare nella loro deformità ogni sorta di vizi e depravazione di costumi. Fosse vero che così facessero e costantemente aderissero a questa massima, come paragone delle loro azioni sulla scena: molto allora si potrebbe dire in loro favore.


Attraverso tutta l'infinita varietà di questo libro, sempre ci si attiene con tutta severità a questo principio fondamentale: non c'è una sola azione perversa, in nessuna sua parte, che non si risolva prima o poi nell'infelicità e nella sventura; non entra in scena un solo grande scellerato che non finisca infelice o penitente; non viene menzionata nessuna cosa cattiva che non trovi la sua condanna nel corso stesso del racconto, né una virtuosa, giusta, che non porti con sé la sua lode. Che cosa più esattamente risponde alla regola su esposta, da raccomandare perfino la rappresentazione di quelle cose che hanno contro di sé tante altre giuste obiezioni? Voglio dire, l'esempio delle cattive compagnie, il parlare osceno, e simili.


Su questo fondamento, si raccomanda il libro al lettore, come un'opera in ogni parte della quale vi è qualcosa da imparare, e se ne cavano parecchie giuste e pie osservazioni. In queste chi legge potrà trovare qualche insegnamento, se vorrà compiacersi di farne tesoro.


Tutte le imprese di questa illustre signora nelle sue rapine a danno dell'umanità, sembrano come altrettanti esempi per la gente onesta affinché stia in guardia; le fanno comprendere con quali metodi si adescano, svaligiano e derubano i creduloni e in conseguenza come si debba guardarsene. Il caso di quando derubò la bimba, che la madre vanitosa aveva vestita vistosamente per la lezione di ballo, è per il futuro un ottimo avvertimento per simile gente; come pure, quando portò via l'orologio d'oro dal fianco di quella signorina nel parco.


Il modo in cui si appropriò del pacco di una ragazza scervellata, allo scalo di Saint John's Street; il bottino fatto durante l'incendio, l'avventura di Harwich, tutto ci offre un eccellente ammonimento ad avere in questi casi una migliore presenza di spirito davanti alle sorprese improvvise, di qualunque genere esse siano.


La storia di quando costei si darà finalmente a una vita onesta e a una condotta laboriosa, nella Virginia, in compagnia del suo sposo deportato, è piena di insegnamenti per tutte le creature sfortunate che sono costrette a ricercare sotto un altro cielo come rifarsi un'esistenza, sia per la disgrazia della deportazione, sia per qualche altra calamità. Vi si impara che la buona volontà e l'applicazione ricevono il dovuto incoraggiamento perfino nella landa più remota del mondo e che nessuno stato può essere tanto basso, spregevole o privo di possibilità, che un'operosità instancabile non ci debba portare molto avanti sulla via della liberazione, e non possa col tempo risollevare la più vile delle creature e rimetterla all'onore del mondo investendola di una nuova parte nella vita.


Sono queste alcune delle conclusioni a cui veniamo guidati per mano in questo libro, ed esse sono pienamente sufficienti a giustificare chiunque lo raccomandi al mondo, e molto di più a giustificarne la pubblicazione.


Restano ancora due delle parti più belle, di cui la presente storia dà una qualche idea e ci introduce negli episodi. Esse sono però tutte e due troppo lunghe per entrare nello stesso volume e sono anzi, potremmo dire, intieri volumi esse stesse.


La prima è la vita della sua governante, come lei la chiama, che aveva percorso, a quanto pare, in pochi anni tutti gli illustri stati di gentildonna, prostituta e ruffiana; levatrice e, così le chiamano, padrona-levatrice; usuraia, spacciabambini, manutengola, ricettatrice; in una parola ladra e facitrice di ladri e consimili, eppure anch'essa si pentì.


La seconda è la vita del marito deportato, un malandrino che, a quanto sembra, trascorse felicemente dodici anni di scelleratezze sulla pubblica strada, eppure alla fine seppe cavarsela tanto bene da venir deportato su sua domanda, non come un condannato. La vita di costui è incredibilmente avventurosa.


Ma, come dicevo, tutte e due le storie sono troppo lunghe per introdurle qui, e neppure posso promettere che un giorno usciranno a parte.


In verità, non possiamo dire che questo nostro racconto arrivi fin proprio alla fine della vita della famosa Moll Flanders, dato che nessuno può scrivere la propria vita interamente fino alla fine, a meno che non vogliamo che la scriva una volta morto. Ma la vita del marito di lei, dato che è scritta da un terzo, dà un completo ragguaglio di tutti e due: quanto tempo vissero insieme in quella terra, e come tutti e due tornarono, dopo otto anni circa, diventati ricchissimi, in Inghilterra, dove lei visse, sembra, fino alla più tarda età, ma non fu più una penitente così eccezionale come era stata all'inizio. Quel che pare certo, è che ha sempre parlato con orrore della sua vita precedente, e di ogni momento di questa.


Nell'ultima scena del Maryland e della Virginia accaddero molte belle cose che rendono quella parte della sua vita assai bene accetta, ma non sono raccontate con quell'eleganza che hanno le altre, di cui lei stessa si occupa; è quindi ancora per il meglio se interrompiamo qui.



Il mio vero nome è così noto negli archivi e nei registri del carcere di Newgate e dell'Old Bailey, e vi sono ancora implicati, circa la mia personale condotta, certi fatti così importanti, che non dovrete attendervi che io accompagni al racconto il mio nome o un ragguaglio della mia famiglia; può darsi che questo si venga a sapere quando sarò morta; per il momento non sarebbe conveniente, no, neppure se concedessero un'amnistia generale, magari senza eccezione di persone o di reati.


Basterà se vi chiedo che, dato che per alcuni dei miei peggiori compagni che sono ormai nell'impossibilità di nuocermi (essi uscirono da questo mondo, cosa che spesso ho avuto ragione di temere per me, attraverso la scala e la corda) il mio nome era Moll Flanders, così mi vogliate permettere di conservare questo nome fino a quando io non osi confessare quella che fui e insieme quella che sono.


Mi è stato detto che in una delle nazioni nostre vicine, non so se in Francia o dove, c'è un'ordinanza reale che quando un delinquente è stato condannato a morte, oppure alle galere o alla deportazione, se lascia dietro di sé qualche bambino, dato che per la confisca dei beni dei genitori, questi in genere vanno derelitti, immediatamente lo Stato se ne prende cura e li ricovera in un ospedale chiamato la Casa degli Orfani, dove questi ragazzi vengono allevati, vestiti, nutriti, educati e, una volta pronti a uscire, collocati a mestiere o a servizio, così da essere messi in grado di mantenersi con un'onesta e laboriosa condotta.


Se questa fosse stata l'usanza nel nostro paese, io non sarei rimasta una povera bimba abbandonata, senza amici, nuda, priva di aiuto e di conforto, come fu il mio destino, e questa mia condizione non solo mi esponeva a tremende privazioni ancora prima che nemmeno fossi capace di capire il mio stato o di rimediarvi, ma mi spinse per un sentiero della vita in se stesso vergognoso e tale che nel suo corso solito porta alla rapida distruzione di anima e corpo insieme.


Ma la cosa andò diversamente. Mia madre era stata condannata di delitto capitale per un furtarello che non vale le parole che costa:

aveva preso a prestito tre pezze di fine tela d'Olanda nel negozio di un certo mercante in Cheapside. I particolari sono troppo lunghi da raccontare, e li ho sentiti riferire in tanti modi diversi che non saprei io stessa a quale attenermi.


Comunque fosse, tutti si trovano d'accordo sul fatto che mia madre invocò il suo stato, e avendola riconosciuta incinta, le concessero un rinvio di circa sette mesi, dopo i quali venne richiamata, come là dicono, all'antica sentenza, ma ottenne in seguito la grazia di essere deportata alle colonie, per cui mi lasciò, che avevo circa sei mesi, in mani, vi assicuro, tutt'altro che virtuose.


E' quello un tempo troppo vicina alle prime ore della mia vita perché io passa raccontare nulla di me se non quello che so per sentito dire; basterà ricordare che, nata com'ero in quel luogo di sventura, non appartenevo a nessuna parrocchia alla quale potessi ricorrere per sostentarmi nell'infanzia; e neppure so minimamente spiegarmi come mi abbiano tenuta in vita, se non che, mi hanno detto, qualche parente di mia madre mi prese con sé, ma chi abbia fatto le spese e chi dato l'incarico, lo ignoro.


Il primo ricordo di me che riesco a ritrovare, o meglio che abbia mai appurato, è che vagabondavo con una banda di quella gente che chiamano zingari, o gitani; ma credo che con loro ci fossi stata pochissimo perché non feci a tempo a rimetterci il colore della pelle, come succede a tutti i ragazzi che quelli tengono con sé. Neppure so dire come sia capitata fra loro né come li abbia lasciati.


Fu a Colchester nell'Essex, che gli zingari mi lasciarono, e ho mezzo in mente che fui io a lasciarli (mi nascosi cioè, e non volli più saperne di proseguire con loro), ma su questo punto non sono in grado di dare nessun particolare; questo solo ricordo che, raccolta a Colchester da qualcuno degli incaricati della parrocchia, feci un racconto, com'ero venuta in città cogli zingari ma che non avevo più voluto andare con loro e così mi avevano abbandonata, però non sapevo dove si fossero diretti. Sembra infatti che, quantunque si fosse mandato attorno per tutta la campagna alla ricerca, gli zingari non fossero reperibili. Era adesso naturale che provvedessero a me, perché, quantunque per legge non andassi a carico di nessuna parrocchia di questa o di quella parte della città, pure sapendosi del mio caso ed essendo io ancora troppo piccola per poter lavorare (non avevo più di tre anni), i magistrati della città vennero toccati da compassione è si presero cura di me, tanto che divenni una delle loro orfane come se fossi nata in quel posto.


Nella sistemazione che mi diedero, fu per me una fortuna di essere allogata a balia, come dicono, presso una donna che era povera sì, ma aveva visto tempi migliori e ricavava un piccolo sostentamento incaricandosi di bambine della mia stessa condizione, e provvedendo loro il necessario finché non fossero giunte a una certa età in cui ci si poteva ripromettere di mandarle a servizio o a guadagnarsi diversamente il pane.


Questa donna aveva pure una piccola scuola in cui insegnava alle bambine a leggere e fare altri lavori; e dato che, ripeto, in passato aveva vissuto in società, queste bambine le tirava su con moltissima arte, non solo, ma con moltissima attenzione.


Inoltre, e questo valeva tutto il resto, le educava anche molto religiosamente, essendo lei stessa donna molto posata e pia; in secondo luogo, ottima massaia e molto pulita; in terzo luogo, garbata e di buoni costumi. Sicché, eccettuati il vitto semplice, l'alloggio povero e il vestire grossolano, eravamo allevate con altrettanta gentilezza che se avessimo frequentato la scuola di ballo.


Stetti là di continuo fino a che ebbi otto anni e poi arrivò la tremenda notizia che i magistrati (credo si chiamassero così) avevano deciso che entrassi a servizio. Io non ero capace di fare molto, dovunque mi dovessero destinare, salvo che correre per commissioni e servire da sguattera in una cucina. Questo me l'avevano detto molte volte e ne ero spaventatissima, perché sentivo una profonda avversione all'idea di entrare come si diceva, a servizio, benché fossi così giovane. Dissi alla mia balia che credevo di potermi guadagnare la vita senza andare a servizio, se voleva essere così buona da darmi il suo consenso; mi aveva infatti insegnato a lavorare d'ago e filare la lana, che era la principale industria della città, e le dicevo che, se avesse voluto tenermi,avrei lavorato per lei, lavorato indefessamente.


Quasi ogni giorno le parlavo di lavorare indefessamente, e insomma non facevo altro che lavorare e piangere tutto il giorno, cosa che affliggeva tanto quell'ottima donna che alla fine incominciò a inquietarsi perché mi voleva molto bene.


Un giorno, in seguito, essa entrò nella stanza dove noi, povere bambine, stavamo lavorando, e mi si sedette vicino proprio davanti, non nel solito posto di maestra, ma come se avesse il proposito di osservarmi e vedermi lavorare. Io stavo eseguendo qualcosa cui lei m'aveva messo, ricordo che erano camicie da cifrare che lei faceva per le clienti, e dopo un po' mi rivolse la parola: «Sciocchina» mi disse, «piangi sempre, tu?» (perché allora piangevo). «Vediamo, perché piangi?» «Perché mi manderanno via» risposi, «e mi metteranno a servire e io non so fare quei lavori.» «Ma, piccola» mi disse lei, «se non sai fare quei lavori, col tempo imparerai e le prime volte non ti daranno delle cose troppo difficili.» «Sì che me le daranno» risposi, «e se non sarò capace, mi picchieranno, e le cameriere mi picchieranno per farmi lavorare molto, ma io sono soltanto una bambina e non sono capace» e qui mi rimisi a piangere, tanto che non fui più in grado di parlare.


Il dialogo commosse la mia buona e materna balia, che così decise che per il momento non sarei andata a servire; mi disse quindi di non piangere, che avrebbe parlato al signor Sindaco, e non mi avrebbero mandata a servire finché non fossi stata più grande.


Ebbene, neppure questo mi accontentò, perché il solo pensiero di andare una volta o l'altra a servire era per me tanto orribile che, se anche mi avesse assicurato che non ci sarei andata fino ai vent'anni, sarebbe stata per me la stessa cosa, avrei continuato tutto il tempo a piangere, alla semplice idea che così sarebbe stato un giorno.


Quando si accorse che non mi ero ancora calmata, cominciò a stizzirsi.


«E che vorresti fare?» mi disse. «Non ti ho già detto che non andrai a servire finché non sarai più grande?» «Sì» rispondevo, «ma allora dovrò bene andare.» «Ma insomma» disse lei, «questa ragazza è pazza.


Come! vorresti fare la signora?» «Sì» risposi e mi rimisi a piangere tanto dirottamente che tornai a strillare.


Questo fece ridere la vecchia dama alle mie spalle, come potete ben credere. «Ma certo, madamigella, sicuro» mi disse, canzonandomi, «vorresti fare la signora; e com'è che diventerai una signora? Con il lavoro delle tue dita, eh?» «Sì» ripetei io, con tutta ingenuità.


«Come? che cosa puoi guadagnare» mi disse, «che cosa puoi raccogliere al giorno con il tuo lavoro?» «Sei soldi» risposi, «a filare, e otto se faccio un cucito semplice.» «Oh, povera signora» ripeté lei, ridendo «a che vuoi che ti serva questo?» «Basterà per mantenermi» dissi, «se mi lascerete vivere insieme con voi» e dissi questo in così desolato tono di supplica che quella povera donna, come mi raccontò in seguito, si sentì struggere il cuore per me.


«Ma» riprese, «ciò non basterà a mantenerti e comperarti i vestiti, chi li comprerà i vestiti per la piccola signora?» e dicendo questo, mi guardava sorridendo.


«Lavorerò tanto di più» dissi, «e tutto il guadagno sarà vostro.» «Povera piccola! non basterà a mantenerti, sarà appena sufficiente per sfamarti.» «E allora starò senza mangiare» ribattei, con tutta ingenuità; «ma lasciatemi vivere insieme con voi.» «Come, saresti capace di rinunciare a mangiare?» disse.


«Sì» ripetei io, proprio come una bimba, «vi assicuro» e ripresi a piangere dirottamente.


In tutto ciò non usai nessuna politica; potete facilmente capire che era tutta natura, ma mista a tanta ingenuità e passione che, a farla breve, anche quella povera creatura così materna scoppiò in lacrime e alla fine piangeva tanto quanto me. Poi mi prese e mi portò fuori dalla stanza da lavoro. «Vieni» mi disse, «non andrai a servire, vivrai insieme con me» e la promessa per il momento mi calmò.


In seguito, andando lei per lavori dal Sindaco, la storia venne a galla e fu tutta raccontata al signor Sindaco dalla mia buona balia.


Il Sindaco, tanto gli piacque, fece venire a sentirla sua moglie e le sue due figlie, e vi assicuro che se la spassarono un mondo tutti e quattro.


Non era trascorsa una settimana, però, che d'improvviso arriva dalla balia la signora Sindachessa con le due figlie a farle visita, e visitare la scuola e le bambine. Quand'ebbero guardato un po' a destra e a sinistra la Sindachessa chiese alla balia: «Ebbene, signora, ditemi dunque, chi è quella marmocchia che vuol fare la signora?». Io sentii la domanda e ne provai un grande sgomento, anche se non ne sapevo neppure il motivo; ma la signora Sindachessa mi si avvicinò.


«Ebbene, madamigella» disse, «che bel lavoro state facendo?» La parola "madamigella" apparteneva a un linguaggio che si era sentito ben di rado nella nostra scuola, e mi chiesi quale triste titolo mi avesse dato; intanto però mi alzai, feci una riverenza e la Sindachessa, che mi tolse di mano il lavoro, lo guardava e lodava molto; poi abbassò gli occhi su una delle mie mani e disse: «Eppure, non sarebbe da escludere che diventasse una signora, a quanto vedo: ha una mano di dama, vi assicuro». E questo mi fece un piacere infinito, ma la signora Sindachessa non si fermò qui; si frugò in tasca, mi diede uno scellino e mi raccomandò di pensare al lavoro e imparare a eseguirlo bene. Dopo tutto, mi disse, non era impossibile che sarei diventata una signora.


In tutta questa faccenda la mia buona vecchia balia, la signora Sindachessa e le altre, non mi capivano affatto, perché loro intendevano con la parola "signora" una cosa, e io, una completamente diversa. Quel che io intendevo, ahimè, per fare la signora, era di potere lavorare per conto mio e guadagnare quanto bastasse per non andare a servire, mentre quelle intendevano fare la gran vita e non so che altro.


Intanto, dopo che la signora Sindachessa se ne fu andata, entrarono le sue due figlie, che anche loro vollero vedere la piccola signora e mi fecero dei lunghi discorsi e io rispondevo loro con il mio fare ingenuo; sempre però, quando mi chiedevano se avevo deciso di fare la signora, rispondevo: «Sì». Infine mi domandarono che cos'era una signora. La domanda mi imbarazzò molto. Tuttavia spiegai negativamente che una signora era chi non andava a servire, a fare i lavori casalinghi. Quelle damigelle se la godevano un mondo; piaceva loro la mia chiacchiera; che, sembra, le divertiva molto, e mi diedero anche qualche soldino.


Quanto ai soldini, li consegnai tutti a quella che chiamavo la mia balia e padrona, e le dissi che le avrei consegnato anche in futuro tutti i miei guadagni di signora. Da questa mia uscita e da certe altre, la vecchia istitutrice cominciò a capire che cosa intendessi per fare la signora, e cioè niente più che guadagnarmi il pane col mio lavoro. In fine mi chiese se era così davvero.


Le risposi: «Sì» e tenni duro sostenendo che fare questo era fare la signora «perché», dissi «c'è qualcuna» e feci il nome di una tale che rammendava merletti e lavava cuffie di trine: «quella è una signora e la chiamano madama.» «Povera piccola» disse la mia vecchia balia, «faresti presto a diventare una signora come quella: è una donna di pessima reputazione, che ha avuto due bastardi.» Di questo io non capii nulla, ma risposi: «So che la chiamano madama e non va a servire né a fare i lavori» insistendo perciò ch'era una signora e che anche io sarei stata una signora come quella.


Anche questa venne riferita alle dame che si divertirono parecchio; e di tanto in tanto le figlie del signor Sindaco venivano a trovarmi e chiedevano della piccola signora, cosa che dopotutto mi rendeva non poco fiera. Spesso ricevevo la visita di queste damigelle e qualche volta venivano accompagnandosi con altre, tanto che ero ormai celebre in quasi tutta la città.


Avevo allora circa dieci anni e cominciavo a sembrare un po' donna, perché ero molto seria e garbata e, dato che avevo spesso sentito dire dalle dame che ero carina e sarei diventata una vera bellezza, vi assicuro che me ne gonfiavo non poco. Ma questa presunzione non ebbe su di me per il momento nessun cattivo effetto; soltanto, dato che quelle mi davano spesso del denaro e io lo consegnavo alla mia balia, essa, onesta donna, era così scrupolosa da spenderlo ancora per me e mi forniva di cuffiette, di biancheria e di guanti, e io andavo tutta linda, perché se anche avessi dovuto coprirmi di stracci, pulita sarei stata sempre, e avrei piuttosto risciacquato io stessa questi stracci.


Ma, come dico, la mia buona balia, ogni volta che mi regalavano del denaro, lo impiegava scrupolosamente per me e diceva sempre alle dame che questo o quel capo del mio vestiario era stato acquistato con il loro denaro, cosa che le induceva a darmene dell'altro; finché arrivò il giorno che davvero i magistrati ordinarono che andassi a servire.


Ma intanto ero diventata una così buona lavoratrice e le mie dame mi usavano tante gentilezze, che quel pericolo era scongiurato; potevo infatti guadagnare per la mia balia quanto serviva al mio mantenimento, e così lei disse ai magistrati che, se le concedevano l'autorizzazione, intendeva tenere la signora, come mi chiamava, e farne il suo aiuto come maestra delle bambine, cosa alla quale potevo attendere benissimo, visto che, anche se molto giovane, ero sveltissima nel mio lavoro.


Ma la bontà di quelle dame non si fermò qui, perché, quando sentirono che non ero più come prima mantenuta dalla città, mi regalarono più spesso dei denari; e via via che crebbi, mi portarono del lavoro, come biancheria da cucire, merletti da rammendare e cuffie da acconciare per loro, e non solo mi pagavano, ma mi insegnavano perfino come eseguirlo; in modo che ero veramente una signora nel senso che io davo a questa parola, perché, prima ancora di arrivare ai dodici anni, non solo ero fornita di vestiti e pagavo la balia per il mio mantenimento, ma avevo anche del denaro in tasca. Spesso anche, queste dame mi regalavano vestiti loro e delle loro bambine: calze, sottane, abiti, chi una cosa, chi un'altra; e tutto questo la mia vecchietta destinava per me come una mamma, conservandomi tutto, costringendomi ad averne cura e farne il miglior uso possibile perché era una massaia coi fiocchi.


Infine, una delle dame mi prese talmente a benvolere che manifestò il desiderio di avermi un mese in casa sua, così disse, perché stessi con le sue figlie.


Ora, per quanto la cosa fosse da parte sua una bontà straordinaria, però, come le rispose la mia buona vecchia, sarebbe risultata più a danno che a vantaggio della piccola signora, a meno che lei non si risolvesse di tenermi per sempre. «Sì» disse la dama, «questo è vero.


La terrò allora con me soltanto una settimana, per vedere se con le mie figlie vanno d'accordo e se mi piace il suo carattere, poi ne riparleremo; intanto, se viene qualcuno a cercarla come usano fare potete rispondere semplicemente che l'avete mandata da me.» Fu una soluzione abbastanza prudente, ed entrai perciò nella casa della dama; ma con le damigelle sue figlie mi trovai così bene, ed esse con me, che ebbi il mio da fare a venirmene via e altrettanto dispiacque a loro separarsi da me.


Pure, me ne venni via e vissi quasi un altro anno intero con la mia onesta vecchietta, per la quale cominciavo a essere un grandissimo aiuto: ero ormai sui quattordici anni, alta per la mia età e con l'aria di una donnina. Però avevo avuto in casa di quella dama un tale assaggio della vita elegante, che non ero più così a mio agio come una volta nell'antica casa e adesso pensavo che fare la signora era davvero una bella cosa, perché avevo, di quel che una signora sia, idee completamente differenti da quelle di prima; e come pensavo che essere una signora fosse una bella cosa, così amavo trovarmi nel loro mondo, e desideravo quindi di ritornarci.


Avevo circa quattordici anni e tre mesi, quando la mia vecchia cara balia, una mamma dovrei piuttosto chiamarla, si ammalò e morì. E mi trovai allora in una triste condizione davvero, perché dato che non vi è un gran daffare a metter fine alla famiglia dei poveri, una volta che li hanno portati al cimitero, così appena sotterrata la povera vecchia, gli orfani della parrocchia vennero immediatamente allontanati dai fabbricieri, la scuola ebbe fine e agli allievi esterni non rimase altro da fare che restarsene in casa finché venissero mandati da qualche altra parte. Quanto a ciò che la balia lasciava, venne una sua figlia, donna sposata, che si impadronì di tutto e, mentre sgombravano la roba, quella gente non seppe fare altro che canzonarmi e dirmi che la piccola signora poteva ormai, se le garbava, aprire lei casa.


Io fui sul punto di uscire di senno per lo smarrimento e non sapevo che fare; perché mi trovavo, per così dire, gettata sul lastrico nell'immenso mondo, e, cosa che era anche peggio, l'onesta vecchia aveva avuto in mano sua ventidue miei scellini, che erano tutto il patrimonio della piccola signora in questo mondo, e quando li chiesi alla figlia, costei mi malmenò e disse che non ne sapeva nulla. Era vero sì, che la buona e povera vecchia ne aveva parlato con la figlia dicendo che si trovavano nel tal posto, che erano i denari della piccola, e mi aveva chiamata due o tre volte per consegnarmeli, ma disgraziatamente io mi trovavo altrove e, quando fui di ritorno, lei non era più in condizioni di occuparsene. La figlia fu però in seguito tanto onesta da consegnarmeli, benché prima mi avesse trattata in modo tanto crudele.


Ora sì ch'ero una povera signora sul serio, e proprio quella notte sarei stata cacciata per l'immenso mondo; poiché la figlia sgombrava tutta la roba e io non avevo neppure un tetto per ripararmi o un tozzo di pane da mangiare. Ma sembra che qualche vicino abbia avuto tanta compassione di me da avvertire la dama che mi aveva accolta nella sua famiglia; e quella mandò immediatamente la cameriera a prendermi e io me ne andai da loro con armi e bagagli, e il cuore sollevato, vi assicuro. L'orrore della mia condizione mi aveva fatto un tale effetto che non pensavo più ora a fare la signora, ma ero dispostissima a fare la serva e quella qualunque parte da serva che credessero opportuno assegnarmi.


Ma la mia nuova generosa padrona aveva per me migliori progetti. La chiamo generosa, perché superava la buona vecchia, con la quale stavo prima, in tutto come nella ricchezza; dico in tutto eccetto nell'onestà, a proposito della quale, benché questa dama fosse scrupolosissima, non posso però lasciare di ripetere in ogni occasione che la prima, benché povera, era tanto integralmente onesta che di più è impossibile.


Ero stata appena raccolta, come ho detto, da questa buona signora, che la prima dama, la Sindachessa insomma, mandò le figlie a occuparsi di me; e un'altra famiglia che mi aveva messo gli occhi addosso quand'ero la piccola signora, mi mandò a cercare dopo le altre, sicché di me facevano gran caso. Anzi, ci fu non poco risentimento, specialmente da parte della Sindachessa, per il fatto che la sua amica mi avesse portata via a lei; giacché, come disse, io le spettavo di diritto, essendo stata lei la prima a mettermi gli occhi addosso. Ma quelle con cui ero, non volevano saperne di lasciarmi andare; e, quanto a me, in nessun posto avrei potuto trovarmi meglio che là.


Ci stetti fino a diciassette o diciott'anni, e avevo tutte le opportunità immaginabili per la mia educazione; la dama si faceva venire in casa dei maestri per insegnare alle figlie a ballare, a parlare francese e a scrivere, e altri per istruirle nella musica; io, dato che ero sempre in loro compagnia, non restavo loro indietro, e sebbene i maestri non fossero destinati a istruire me, pure con l'imitazione e le domande imparavo tutto quello che esse imparavano dall'insegnamento e dalle prescrizioni; così che, a farla breve, imparai a ballare e parlare francese tanto bene quanto loro, e a cantare molto meglio, perché avevo la più bella voce di tutte. Non fu una cosa altrettanto facile arrivare a suonare il clavicembalo o la spinetta, per via del fatto che non avevo un mio strumento per esercitarmi e potevo solamente servirmi del loro negli intervalli che lo lasciavano libero; pure, imparai discretamente e un bel momento che le damigelle ebbero due strumenti, vale a dire un clavicembalo e anche una spinetta, mi diedero esse stesse delle lezioni. Quanto al ballo invece, non avrebbero nemmeno potuto impedirmi di imparare le contraddanze, poiché venivano sempre a cercarmi per compiere il numero; e d'altra parte erano altrettanto sinceramente desiderose d'insegnarmi tutto quello che imparavano loro, quanto io di approfittare dell'insegnamento.


In questo modo, godevo, come ho detto, tutte le opportunità educative che avrei potuto avere se fossi stata altrettanto signora come loro; e in alcune cose ero perfino in vantaggio sulle mie dame benché esse fossero mie superiori, e voglio dire che i miei erano tutti doni di natura e tali che tutta la loro fortuna non sarebbe bastata a procurarglieli. Innanzitutto io ero, a quanto sembra, più bella di tutte loro; secondariamente ero meglio fatta; e terzo, cantavo meglio, voglio dire che avevo una voce migliore; tutte cose nelle quali vorrete, spero, permettermi di dire che non esprimo una mia vanagloria, ma l'opinione di tutti quelli che conoscevano la famiglia.


Insieme a questi pregi, io avevo la solita vanità del mio sesso, e cioè che passando realmente per molto bella e, se permettete, per una vera bellezza, mi rendevo benissimo conto della cosa e avevo di me un'opinione altrettanto lusinghiera quanto chiunque altro avrebbe potuto avere, e mi piaceva in modo particolare sentire la gente parlarne, cosa che succedeva spesso ed era per me una grande soddisfazione.


Fin qui il mio racconto è scivolato senza intoppi, e in tutto questo periodo della mia vita, io non solo ebbi la reputazione di vivere in un'ottima famiglia, una famiglia considerata e rispettata ovunque per virtù e posatezza e per ogni altra qualità stimabile, ma io stessa avevo il carattere di una posata, modesta e virtuosa giovane, e così ero sempre stata né avevo fino ad allora avuto occasione di pensare ad altro o di sperimentare che fosse una cattiva tentazione.


Ma proprio quello di cui ero troppo vanitosa, fu la mia rovina, o piuttosto fu la causa di questa rovina la mia stessa vanità. La dama, che mi teneva in casa sua, aveva due figli, due gentiluomini di qualità e condotta davvero straordinarie, e volle la mia sfortuna che andassi troppo d'accordo con tutti e due, mentre loro si comportarono con me in modi ben diversi.


Il più anziano, un allegro signore che conosceva la città quanto la campagna e benché fosse abbastanza frivolo da commettere una cattiva azione, aveva però abbastanza buon senso per pagare troppo caro i suoi piaceri, cominciò con quel disgraziato laccio di tutte le donne, vale a dire, a osservare in tutte le occasioni quanto io fossi carina, secondo lui, quanto simpatica, quanto ben portante, e tutto il resto.


Questo lo riuscì a fare così abilmente come se sapesse prendere una donna nella sua rete allo stesso modo in cui prendeva una pernice quando andava a caccia, poiché riusciva a discorrere con le sue sorelle di quel che ho detto, quando, benché io non fossi presente, sapeva però che non ero tanto lontana da non potere in qualche modo ascoltare. Le sorelle gli replicavano con voce sommessa: «Zitto, fratello, finirà che ti sente; è nella camera qui vicino». Lui allora smetteva e parlava più sommesso, come se prima non l'avesse saputo, e cominciava a riconoscere di aver fatto male; e qui, come dimenticandosi, tornava ad alzare la voce. Non c'era pericolo che io, che mi compiacevo tanto di sentirlo, non l'ascoltassi in tutte le occasioni.


Una volta che ebbe così innescato l'amo e trovata abbastanza facilmente la maniera di mettermelo davanti, giocò a carte scoperte, e un giorno che passava davanti alla camera della sorella e io ero là, eccolo che entra con un'aria allegra. «Oh, madamigella Betty» mi dice, «come va, madamigella Betty? Vi fischiano le orecchie, madamigella Betty, vero?» Io gli feci una riverenza e avvampai, ma non dissi nulla. «Perché le dici questo, fratello?» disse la dama. «Se è mezz'ora» rispose, «che parliamo di lei dabbasso.» «Tuttavia» fece la sorella, «sono sicura che non potete dirne male e perciò non ci importa di sapere di che cosa abbiate parlato.» «Anzi» disse lui, «lungi dal dirne male, non abbiamo fatto altro che accumulare elogi e ti assicuro che si sono dette di madamigella Betty grandi cose; in particolare, che è la ragazza più bella di Colchester; e insomma in città cominciano a farle i brindisi.» «Mi fai specie, fratello» disse la sorella. «A Betty non manca che una sola cosa, ma tanto varrebbe le mancasse tutto, perché il mercato ai nostri tempi è contro il nostro sesso; e se una ragazza ha bellezza, nascita, educazione, intelligenza, buon senso, garbo, modestia e tutto in abbondanza, ma non ha quattrini, essa non è più nulla, tanto varrebbe non avesse nulla; non c'è che i quattrini ai nostri tempi che raccomandino una donna; gli uomini non giocano che a colpo sicuro.» Il fratello più giovane, che si trovava a passare di là, esclamò:

«Ferma, sorella, corri troppo; io sono un'eccezione a questa regola.


Ti giuro che, se trovo una donna così perfetta come quella che dici, non penserò ai quattrini». «Oh» ribatté la sorella, «ma starai attento a non innamorarti, allora, di una che sia senza.» «Questo neanche non si sa» disse il fratello.


«Ma perché» riprese il maggiore, «perché ti riscaldi tanto contro la fortuna? Tu non sei di quelle alle quali manchi una fortuna, qualunque sia la cosa che ti manchi.» «Ti ho capito, fratello» ribatté la dama seccamente, «tu pensi che io abbia i quattrini e mi manchi la bellezza; ma, con i tempi che corrono, basteranno i primi, così che sto meglio di tante altre.» «Sì» disse il fratello più giovane, «ma queste altre possono renderti la pariglia, perché la bellezza è anche capace qualche volta di portare via un marito a dispetto dei quattrini, e una cameriera che sia più bella della padrona, può anche fare una miglior riuscita e salire in carrozza prima della padrona.» Mi sembrò arrivato il momento di ritirarmi, e me ne andai, ma non tanto lontano da non poter sentire tutto quello che dissero: un sacco di belle cose sul mio conto, che stuzzicarono la mia vanità, ma, come presto mi accorsi, non erano la via buona per aumentare il mio credito nella famiglia, poiché il fratello minore e la sorella si bisticciarono gravemente a questo riguardo; e dato che il fratello le disse nei miei confronti certe cose assai offensive, io mi accorsi facilmente, dal contegno che lei tenne con me in seguito, che se ne era risentita. E questo era davvero molto ingiusto, poiché io non avevo mai avuto la minima idea di quello che lei sospettava nel fratello più giovane; quello maggiore sì, col suo fare allusivo e remoto, aveva detto infinite cose come per burla, ma io fui tanto pazza da crederle dette sul serio e da lusingarmi con speranze di quello che, dovevo pure supporre, egli non si era mai proposto.


Capitò un giorno che arrivò di corsa su per le scale alla camera dove le sorelle si riunivano per lavorare: ci veniva spesso. Diede loro una voce prima di entrare, come faceva sempre, e io, che ero dentro sola, mi feci all'uscio dicendo: «Signore, le damigelle non ci sono, passeggiano nel giardino». Avanzavo dicendo questo, quando egli, che passava la soglia, mi prese tra le braccia come fosse per caso. «Oh, madamigella Betty» mi disse, «siete voi? Meglio ancora: è con voi che voglio parlare, più che con loro»; e poi tenendomi fra le braccia, mi baciò tre o quattro volte.


Mi dibattei per liberarmi e non lo feci che debolmente; egli mi teneva stretta e non smetteva di baciarmi, fin quando gli mancò il fiato e, sedendosi, disse: «Cara Betty, sono innamorato di te».


Devo confessare che le sue parole mi incendiarono il sangue; ogni sentimento mi si restrinse al cuore, e fui tutta sconvolta. Egli ripeté in seguito, diverse volte, di essere innamorato di me, e il cuore mi diceva chiaro come una voce che questo mi piaceva; ogni volta anzi che disse: "Sono innamorato di te" il mio rossore chiaramente rispose: "Potessi credervi, signore". Tuttavia per quella volta non ci fu altro tra noi; era stata una semplice sorpresa e mi rimisi presto.


Eravamo stati insieme più del solito, ma guardando per caso dalla finestra, egli vide le sorelle che risalivano il giardino, e perciò volle lasciarmi, mi baciò un'altra volta, mi disse che faceva sul serio e che ben presto avrei avuto sue nuove, e se ne andò contentissimo. Quanto a me, avrei avuto ragione, senza la disgraziata circostanza, dov'era l'equivoco: Betty faceva sul serio, ma quel signore no.


Da quella volta, la testa cominciò a farmi strani voli, e devo in coscienza riconoscere che non ero più io: un simile gentiluomo dirmi che mi amava e che io ero una così bella creatura, come infatti mi diceva. A parole come quelle non sapevo reggere; la mia vanità era esaltata al massimo. E' vero che la testa l'avevo piena di superbia, ma, non sapendo niente della perversità dei tempi, non mi preoccupavo minimamente per la mia virtù; e se il mio giovane padrone avesse provato fin dal primo istante, avrebbe potuto prendersi con me tutte le libertà che voleva; ma non capì il suo vantaggio e questo fu per il momento la mia salvezza.


Non passò molto tempo che gli si presentò l'occasione di riprendermi e quasi nelle stesse circostanze; in realtà da parte sua, se non dalla mia, ci fu un po' più di calcolo. Andò così: le damigelle erano uscite in visita in compagnia della madre; il fratello non era in città; e quanto al padre, si trovava a Londra da una settimana. Egli mi aveva così bene tenuta d'occhio, che sapeva dove io fossi, mentre io non sapevo nemmeno che lui si trovasse in casa, ed ecco che sale svelto le scale e, trovandomi intenta al lavoro, viene senz'altro nella camera verso di me e ricomincia il gioco di prima, prendendomi tra le braccia e non smettendo di baciarmi per un quarto d'ora almeno.


Era la camera della più giovane delle sorelle quella in cui mi trovavo e, dato che in tutta la casa non c'era altri che la cameriera al pianterreno, per questo forse egli fu così audace; a dirla breve, insomma, cominciava a fare sul serio con me. Forse mi trovava un pochino troppo compiacente, dato che io non gli opponevo la minima resistenza, mentre lui non faceva che tenermi tra le braccia e baciarmi: la verità è che la cosa mi piaceva troppo perché mi sognassi di resistergli.


Poi, stanchi di quel gioco, ci sedemmo e allora mi fece un lungo discorso; mi disse che lo portavo in cielo, che non aveva pace se non riusciva a convincermi del suo amore, che se io volevo riamarlo e renderlo felice sarei stata la salvezza della sua vita, e molte cose squisite del genere. Io di nuovo gli risposi poco o nulla, ma mi accorsi agevolmente di essere una sciocca e di non capire per niente a che cosa mirasse.


Egli allora si mise a passeggiare per la camera e, prendendomi una mano, mi tirava con sé; all'improvviso, cogliendo l'occasione, mi buttò distesa sul letto, dove prese a baciarmi con grande violenza; ma, per essere giusti, non tentò su di me nessuna villania, soltanto non smetteva di baciarmi. Fatto questo, gli sembrò di aver sentito qualcuno su per le scale, sicché si alzò dal letto e mi fece alzare, protestandomi un amore sconfinato; ma disse che era un sentimento onesto e che non intendeva farmi del male, dopo di che mi mise in mano cinque ghinee e se ne scese dabbasso.


Io rimasi più sconcertata da quei denari che non fossi stata dalle carezze e mi esaltavo tanto che non sapevo più quale terra calcassi coi piedi. Ho voluto essere tanto più particolareggiata in questo episodio, perché se accade che qualche giovane ingenua lo legga, possa impararvi a stare in guardia contro i falli che si accompagnano a una precoce coscienza della propria bellezza. Che una ragazza si convinca una volta di essere bella e non dubiterà mai della sincerità di tutti gli uomini che le diranno di essere innamorati di lei; perché, se si ritiene tanto attraente da affascinare un uomo, è soltanto naturale che se ne riprometta l'effetto.


Questo signore aveva ormai infiammato il suo capriccio allo stesso modo che la mia vanità e, come se si fosse accorto di avere un'occasione e gli sapesse male di non approfittarne, eccolo che ritorna su dopo circa mezz'ora e riprende con me lo stesso gioco di prima, soltanto con un po' meno di preamboli.


E prima cosa, entrando nella stanza, si gira e chiude la porta.


«Madamigella Betty» dice, «mi era sembrato, prima, che qualcuno salisse le scale, ma non era vero; a buon conto» aggiunge, «se mi sorprendono in questa camera con voi, non mi troveranno almeno nell'atto di baciarvi.» Gli dissi che non sapevo proprio chi potesse salire le scale, dato che credevo che tutti fossero fuori tranne la cuoca e l'altra cameriera che non salivano mai da quella parte. «Però, cara» disse lui, «è bene assicurarsi, comunque» e si sedette e cominciammo a parlare. Allora, nonostante io fossi ancora avvampante per la sua prima visita e non dicessi gran che, mi mise lui, per così dire, le parole sulle labbra, raccontandomi quanto appassionatamente mi amasse e che, sebbene gli fosse impedito fin che non disponeva della sua fortuna, era però deciso di fare in quel giorno la mia e anche la sua felicità; cioè di sposarmi. Cose di questo tipo ne disse molte, che io, povera sciocca, non capivo dove volessero parare; mi comportavo come se non ci fosse altra specie d'amore se non quello che cerca il matrimonio, ma se anche avesse parlato del primo, io non avevo modo, come non avevo la forza, di rispondergli di no. Le cose non erano però ancora giunte a questo punto.


Da non molto tempo ci eravamo seduti, quand'egli si alzò e, tappandomi letteralmente la bocca con i baci, mi gettò un'altra volta sul letto, ma questa volta andò con me più in là che la decenza non mi permetta di accennare, né io avrei avuto la forza in quel momento di dirgli di no, se avesse tentato molto più che non fece.


Tuttavia, benché si prendesse con me queste libertà, la cosa non arrivò a quello che chiamano il favore supremo. Ma, a voler essere giusti, non ne fece il tentativo; e si servì di questo suo sacrificio come di un argomento per tutte quelle libertà che si prese poi con me in altre occasioni. Finito che ebbe, non si trattenne più che qualche istante, ma, cacciandomi in mano quasi una manciata d'oro, mi lasciò con mille proteste di passione e che mi amava più di ogni altra donna al mondo.


Non sembrerà sorprendente se dico che a questo punto feci qualche riflessione; ma, ahimè, furono pensieri di scarsa consistenza. Avevo uno sconfinato capitale di vanità e di superbia, e uno molto scarso di virtù. Io invero cercavo a volte di immaginarmi quale fosse lo scopo del mio giovane padrone, ma non fissavo il pensiero su altro che sulle belle parole e sull'oro; che avesse o no intenzione di sposarmi, non mi sembrava una cosa di grande importanza, e nemmeno, come vedrete subito, mi venne in mente anche solo di porgli delle condizioni, fino al giorno in cui non mi fece una regolare domanda.


Mi abbandonai così alla perdizione senza un pensiero al mondo, e sono un eloquente esempio per tutte quelle ragazze in cui la vanità prevale sulla virtù Non ci fu mai niente di più stupido, da una parte e dall'altra. Se io mi fossi comportata come si conveniva e avessi resistito secondo che volevano la virtù e l'onore, egli o avrebbe smesso gli assalti, non trovando motivo di insistere nel suo disegno, o mi avrebbe fatto una giusta e onorevole proposta di matrimonio; nel qual caso, qualsiasi rimprovero si potesse rivolgere a lui, nessun biasimo avrei meritato io. Insomma se quell'uomo mi avesse conosciuta e avesse saputo quanto agevole gli era la conquista di quella bazzecola alla quale mirava, non si sarebbe rotto il capo oltre, ma fattomi un regalo di quattro o cinque ghinee, avrebbe dormito con me quando avesse voluto. D'altronde, se io avessi conosciuto i suoi pensieri, e quanto supponeva che sarei stata difficile da conquistare, avrei potuto porre io le mie condizioni e, se anche non avessi stipulato per il matrimonio immediato, potevo però chiedere che mi facesse uno stato fino a quel giorno e pretendere quello che avrei voluto, poiché aveva quattrini a iosa, oltre quanto doveva ancora venirgli come sua parte. Ma tutti questi pensieri io li avevo interamente abbandonati e mi lasciavo soverchiare soltanto dall'orgoglio della mia bellezza e di sapermi amata da un simile gentiluomo. Quanto a quell'oro, passavo ore intere a contemplarlo; contavo e ricontavo le ghinee migliaia di volte al giorno. Mai nessuna povera donna vanitosa fu così avviluppata in ogni particolare della storiella come fui io, senza un pensiero per quello che mi aspettava e per la rovina che era a due passi dalla mia porta; in verità, quella rovina credo di averla piuttosto desiderata che non cercata d'evitare.


Intanto, però, ero abbastanza accorta da non dare il minimo motivo a nessuno della famiglia d'immaginare che avessi con lui un qualsiasi maneggio. In pubblico non gli posavo, quasi, gli occhi addosso, né rispondevo se mi rivolgeva la parola; ma con tutto questo, avevamo ogni tanto un piccolo incontro, dove ci stavano una o due parole e qualche volta un bacio. Non c'era però l'occasione opportuna per il male progettato, specialmente dato che lui andava più per le lunghe di quanto non avesse motivo, e sembrandogli l'opera difficile finiva per renderla tale davvero.


Ma dato che il diavolo è un tentatore infaticabile, così non manca mai di far nascere occasioni per le cattive azioni a cui spinge. Una sera che eravamo in giardino con le due sorelle più giovani, trovò il modo di farmi scivolare in mano un biglietto, in cui spiegava che l'indomani mi avrebbe pregata davanti a tutti d'incaricarmi di una sua commissione e che lungo la strada ci saremmo visti.


Come d'accordo, dopo colazione mi disse con molta gravità, presenti tutte le sorelle: «Madamigella Betty, debbo pregarvi d'un favore».


«Cos'è, cos'è?» chiese la seconda sorella. «Ma, cara» disse lui con molta gravità, «se oggi non puoi fare senza madamigella Betty, per me serve lo stesso un'altra volta.» Sì, sì, risposero, potevano benissimo fare senza; e la sorella si scusò della sua domanda. «Ma allora» disse la sorella maggiore, «dovrai spiegare a Betty di che si tratta; se fosse una faccenda privata che noi non dobbiamo sapere, chiama Betty fuori un momento: eccola.» «Ma, sorella» disse lui con molta gravità, «che cosa credi? Io desidero semplicemente che passi in High Street» (e tirò fuori una baverina) «nel tal negozio» e qui raccontò una lunga storia di due cravatte finissime per cui aveva già fatto un'offerta e voleva che andassi io e gli sbrigassi l'incarico di comprarne una per quella baverina che mi mostrava, e se non volevano saperne di darmi le cravatte per quella cifra, di offrire uno scellino di più ma discutere; poi, escogitò ancora altre commissioni e continuò a ricordarsi di tante faccenduole da sbrigare che avrei dovuto stare via parecchio.


Quando mi ebbe date le commissioni, raccontò una lunga storia di una visita che avrebbe fatto in una famiglia che tutti conoscevano, dove sarebbero venuti i tali e i tal altri e molto formalmente invitò le sorelle ad accompagnarlo e queste, altrettanto formalmente, se ne scusarono, per via che erano state avvertite che sarebbero venute delle visite nel pomeriggio. Tutto questo, manco a dire, egli l'aveva fatto a bella posta.


Aveva appena chiuso bocca, che salì il suo servitore ad avvertirlo che la carrozza di Sir W... H... era alla porta; corse dabbasso, e risalì quasi subito. «Ahimè!» esclamava, «tutto il mio bel pomeriggio è rovinato: Sir W... mi manda la sua carrozza e vuole parlarmi.» Pare che questo Sir W... fosse un signore che abitava a circa tre miglia di là, e a lui il mio padrone aveva chiesto deliberatamente che gli prestasse la carrozza per una faccenda privata e si erano messi d'accordo che mandasse a prenderlo, come infatti fece, verso le tre.


Senz'altro chiese la sua migliore parrucca, la spada e il cappello e ordinando al servo di andare in quell'altra casa a presentare le sue scuse - vale a dire che trovò un pretesto per spedire via il servo - si preparò a scendere in carrozza. Mentre si avviava, si fermò un momento e mi parlò molto gravemente di quel suo incarico trovando l'occasione di ripetermi a bassa voce: «Esci, carissima, più presto che puoi». Non risposi parola, ma gli feci la riverenza, come in risposta a quanto mi aveva detto davanti a tutti.


Non era passato un quarto d'ora, che uscivo io pure; non mi ero vestita diversamente da prima, tranne che avevo un cappuccio, una maschera, un ventaglio e un paio di guanti in tasca, sicché in tutta la casa non ci fu il minimo sospetto. Il mio padrone mi aspettava in un viottolo fuori mano lungo il quale sapeva che dovevo passare, e il cocchiere già era stato istruito dove portarci; e fu in un certo posto chiamato Mile End, dimora di un suo confidente, dove noi entrammo e dove trovammo ogni comodità di commettere tutto il male che ci piacque.


Una volta che fummo insieme, egli cominciò a parlarmi con molta gravità e spiegarmi che non mi portava laggiù per tradirmi; che la sua passione per me non gli avrebbe permesso di ingannarmi; che era deciso a sposarmi non appena avesse potuto disporre della sua sostanza; e che per il momento, se volevo acconsentire alla sua richiesta, mi avrebbe fatto uno stato onorevolissimo; e qui uscì in mille proteste di sincerità e di affetto per me, che mai mi avrebbe abbandonata e usò, posso ben dire, mille preamboli più che non fosse necessario.


Tuttavia, alle sue sollecitazioni di rispondere, dissi che non avevo motivo di mettere in dubbio, dopo tutte quelle proteste, la sincerità del suo amore per me, ma... e qui tacqui, come se lasciassi a lui di indovinare il resto. «Ma che cosa, mia cara?» mi disse. «Capisco che cosa vuoi dire: se tu restassi incinta? Non è questo? Ma allora» riprese, «avrei cura di te e ci penserei io, penserei anche al bambino; e perché tu possa convincerti che parlo sul serio, eccoti un pegno» e in così dire tirò fuori dalla tasca una borsa di seta con dentro cento ghinee e me la consegnò. «Ce ne sarà per te un'altra uguale» mi disse, «tutti gli anni, finché non ci sposeremo.» Arrossii e impallidii alla vista della borsa e, insieme, all'ardore della sua proposta, sicché non fui più in grado di dire una sola parola, ed egli se ne accorse agevolmente. Così, messami la borsa in seno, non gli opposi più resistenza, ma gli lasciai fare quello che volle e tutte le volte che volle; e in questo modo portai di colpo a compimento la mia perdizione, poiché da quel giorno, avendo rinunciato alla virtù e alla modestia, non mi rimase più cosa che valesse a raccomandarmi né alla grazia del Signore né al soccorso umano.


Ma le cose non si fermarono qui. Ritornai in città, sbrigai quella commissione che mi aveva affidata e fui di ritorno prima che nessuno mi giudicasse in ritardo. Quanto al mio padrone, si trattenne fuori fino a tarda notte, e non ci fu in famiglia il minimo sospetto sul conto suo o sul mio.


Dopo quella volta, trovammo frequenti occasioni di ripetere il nostro delitto, e specialmente in casa, quando la madre e le sorelle uscivano in visita, momenti che non gli sfuggivano mai, tanto era attento:

sapeva ogni volta in anticipo quando dovevano uscire e in questi casi non mancava di venirmi a sorprendere dov'ero, sola, e senza troppi rischi; in questo modo potemmo saziarci dei nostri infami piaceri per quasi mezzo anno; eppure, con mia massima soddisfazione, non ero ancora incinta.


Ma prima che finisse questo mezzo anno, il fratello minore di cui qualcosa ho accennato all'inizio del racconto, mi si mise intorno; e trovandomi sola una sera in giardino, comincia con me la stessa storia, mi fa solide, oneste proteste d'amore e, a dirla breve, mi propone sinceramente e onorevolmente di sposarlo.


Fui davvero esterrefatta e mi trovai in un imbarazzo che il simile non avevo mai provato. Resistetti alla proposta ostinatamente e cominciai ad armarmi di argomenti. Gli posi davanti la sproporzione del matrimonio, l'accoglienza che mi avrebbe fatto la famiglia, l'ingratitudine che avrei dimostrato ai suoi buoni genitori, che mi avevano accolta in casa su così generosi principi, raccogliendomi tanto in basso; a farla breve, gli dissi ogni cosa che seppi immaginare per dissuaderlo, eccetto i fatti come stavano, cosa che avrebbe certo messo fine alla questione, ma di questo non osai nemmeno pensare di parlare.


Ma le cose presero allora una piega che proprio non mi aspettavo e mi ridusse agli estremi espedienti; poiché questo giovane, che era franco e leale, non mirava se non a quello che fosse della sua stessa natura; e consapevole della propria innocenza, non fu così circospetto come il fratello nel tenere segreta in famiglia la sua inclinazione per madamigella Betty. E sebbene non facesse parola che già mi aveva parlato della cosa, disse però quanto bastava per lasciar capire alle sorelle che era innamorato di me, e di questo si accorse anche la madre. Esse allora, pure senza fiatarne con me, ne parlarono con lui e immediatamente mi accorsi che mi trattavano in tutt'altro modo rispetto a prima.


Sentivo la nuvola, benché non prevedessi la burrasca. Era molto facile ripeto, accorgersi che mi trattavano in tutt'altro modo e la cosa peggiorava di giorno in giorno, finché infine seppi che da un momento all'altro avrei ricevuto l'invito di andarmene.


La notizia non mi allarmò, visto che avevo la formale assicurazione che qualcuno avrebbe provveduto a me; e specialmente considerando che avevo motivo di aspettarmi ogni giorno di restare incinta, il che mi avrebbe costretta ad andarmene senza bisogno di pretesti.


Passò qualche tempo, e il giovanotto colse l'occasione per dirmi che la sua inclinazione per me era trapelata in famiglia. Non ne faceva a me il rimprovero, disse, perché sapeva bene da che parte veniva la cosa. Mi spiegò che ne era stato causa il suo modo di parlare, giacché lui non aveva saputo tenere segreta la sua considerazione per me come forse avrebbe dovuto; e la ragione era che si trovava a un punto che, se io acconsentivo, avrebbe detto a tutti apertamente che mi amava e intendeva sposarmi; che il padre e la madre potevano sì risentirsi e mostrarsi inesorabili, ma lui era in grado ormai di guadagnarsi la vita, avendo fatto gli studi di legge, e quanto a mantenermi non aveva paura; che insomma, come credeva che io non avrei da vergognarmi di lui, così era risoluto a non avere da vergognarsi di me; e sdegnava di aver paura di riconoscermi per sua, ora, lui che era deciso a riconoscermi quando fossi sua moglie. Non dovevo quindi se non concedergli la mia mano: avrebbe risposto lui di tutto.


Ora sì che mi trovavo davvero in una terribile situazione, e mi pentivo amaramente della mia arrendevolezza con il fratello maggiore; ma non per riflessioni di coscienza, giacché queste cose mi erano estranee, bensì perché non potevo pensare di essere la baldracca di un fratello e la moglie dell'altro.


Mi ritornò pure in mente che il primo fratello aveva promesso di farmi sua moglie non appena fosse venuto in possesso della sua sostanza, ma subito mi ricordai quello che avevo molte volte pensato, che una volta conquistatami come amante, non aveva più detto una parola di pigliarmi per moglie. E invero fino a quel momento, malgrado io dica di averci molto pensato, pure la cosa non mi aveva resa per nulla inquieta, dato che, come lui non sembrava minimamente attenuare il suo affetto verso di me, così neppure attenuava la sua generosità, benché avesse la finezza di raccomandarmi egli stesso di non spendere un soldo in vestiti né in altre vistosità insolite che avrebbero necessariamente mosso la famiglia ai sospetti, poiché tutti sapevano che quelle cose per via ordinaria mi erano precluse e dovevo quindi aver avuto ricorso a qualche amicizia privata che ben presto avrebbero sospettato.


Mi trovavo ora in un bell'impiccio e non sapevo che fare. La difficoltà più grave era questa: il fratello minore non solo mi poneva uno strettissimo assedio, ma non gli importava che gli altri se ne accorgessero. Se ne entrava nella camera della sorella o nella camera della madre, e si sedeva e mi diceva un sacco di gentilezze anche sotto i loro occhi; in modo che tutta la casa parlava della faccenda e la madre gliene faceva rimprovero, e quanto a me mi trattavano ben diversamente da prima. La madre, a dirla breve, aveva fatto certe allusioni come se fosse decisa a mettermi fuori della famiglia; in altre parole, a cacciarmi di casa. Ora, io ero certa che la cosa non poteva essere un segreto per il fratello, soltanto che questi non poteva pensare, come infatti nessun altro pensava ancora, che il più giovane mi avesse già fatto delle proposte; ma dato che capivo chiaramente che la cosa non si sarebbe fermata qui, così compresi ugualmente che era assolutamente necessario parlargliene, o che lui ne parlasse a me, ma non sapevo decidermi se io dovevo affrontare quel discorso o lasciar correre fino a che non lo affrontasse egli stesso.


Dopo una seria riflessione, poiché davvero cominciavo, come non mai prima, a considerare le cose molto sul serio, mi decisi ad aprire io quel discorso; e non passò molto tempo che se ne offrì l'opportunità, dato che proprio il giorno dopo il fratello andò a Londra per non so che faccenda, e la famiglia essendo in visita, proprio come era accaduto quella volta e spesso ancora accadeva, egli salì secondo l'abitudine sua a trascorrere una o due ore con madamigella Betty.


Eravamo seduti da qualche istante, quando egli senza fatica si accorse che i miei lineamenti erano alterati, che non ero più con lui così spensierata e amabile come al solito e, specialmente, che avevo pianto. Per osservare tutto ciò non gli ci volle molto e mi chiese in termini molto affabili che cos'era successo e se nulla mi preoccupava.


Avrei voluto, potendo, differire il colloquio, ma non potevo più nascondermi; e così, dopo aver subito molte sollecitazioni, dirette a cavarmi quel segreto che io stessa quant'è più possibile, desideravo manifestare, gli dissi che veramente una cosa mi preoccupava, e una cosa di natura tale che non mi era possibile tenergliela nascosta, ma che neppure sapevo in che modo parlargliene; una cosa che non solo mi aveva fatto trasecolare, ma mi gettava in un imbarazzo crudele e, che se lui non voleva consigliarmi, io davvero non sapevo a che partito affidarmi. Egli mi disse con grande sollecitudine che, per grave che fosse la cosa, io non avrei dovuto inquietarmi, visto che c'era lui per proteggermi di fronte al mondo intiero.


Cominciai allora rifacendomi dalla lontana, e gli dissi che temevo che le dame della famiglia avessero avuto qualche segreto sentore della nostra relazione; poiché non era difficile osservare che il loro modo di trattarmi era molto cambiato e ora accadeva che non di rado trovavano da ridire su di me e qualche volta si mettevano con me a bisticciare, per quanto non ne dessi loro il minimo appiglio. E poi, mentre prima dormivo sempre con la sorella maggiore, ultimamente ero stata messa da sola o con qualcuna delle cameriere; e per caso avevo sentito parecchie volte costoro dire di me cose ingiuste; ma quello che confermava tutto quanto era il fatto che una delle donne mi aveva confidato di aver sentito che io dovevo essere scacciata e che era un pericolo per la famiglia se restavo ancora in quella casa.


Egli sorrise a sentire tanto, e gli chiesi allora come poteva fare così poco conto di tutto ciò, dato che sapeva benissimo che, scoprendosi qualcosa, io ero perduta e per lui anche sarebbe stato un colpo, seppure non la rovina come per me. Gli rinfacciai di essere come tutti gli altri del suo sesso, che una volta che abbiano nelle mani la reputazione di una donna, troppo spesso ne fanno ludibrio o almeno la considerano una bagatella, stimando cosa di nessun valore la rovina di quelle sulle quali hanno saziato il loro desiderio.


Egli mi vide accesa e seria, e cambiò stile immediatamente: mi disse che gli dispiaceva che pensassi una simile cosa di lui; che non me ne aveva mai data la minima occasione, ma era stato invece altrettanto zelante del mio buon nome quanto poteva essere del proprio; che era più che sicuro di aver condotto la nostra relazione con tanta abilità che neppure un'anima in famiglia ne aveva il minimo sospetto; che se aveva sorriso ai miei sfoghi, era per la conferma ricevuta ultimamente che della nostra mutua intesa non si faceva nemmeno congettura, e che, una volta che mi avesse spiegato quale motivo aveva di sentirsi tranquillo, anch'io avrei sorriso, perché era certo che sarei stata più che soddisfatta.


«Questo è un enigma che non riesco a capire» gli dissi, «né come mai debba restare soddisfatta se mi cacciano di casa; poiché, se non si sono scoperti i nostri rapporti, non so proprio che altro posso aver fatto per cambiare rispetto a me la faccia di tutta la famiglia: una volta mi trattavano con tanta benignità, come se fossi anch'io una loro figlia.» «Ebbene, ascolta, piccola» mi disse, «che siano inquieti sul tuo conto, è vero; ma che abbiano il minimo sospetto delle cose come stanno, per quanto riguarda te e me, è tanto poco vero che sospettano invece mio fratello Robin; e, a dirla breve, sono convintissimi che ti faccia la corte; quello sciocco, anzi, gliel'ha messo in testa lui stesso, perché con loro non fa altro che scherzarci su e rendersi ridicolo. Confesso che penso che faccia male a fare questo, perché è impossibile che non veda come la cosa li preoccupi e li renda duri con te; ma è anche per me una grande soddisfazione, perché mi dà la certezza che non mi sospettano per niente, e spero che sarà una soddisfazione anche per te.» «Lo è» dissi, «sotto un certo aspetto; ma tutto questo, non tocca ancora il mio caso e neppure è quello che più mi tormenta, quantunque anche di questo abbia dovuto inquietarmi.» «E che cos'è dunque?» mi chiese. Stavolta scoppiai in lacrime e non seppi più dirgli nulla. Egli si ingegnò, quanto poté, di calmarmi, ma infine si fece molto insistente perché gli dicessi che cos'avevo. Gli risposi infine che mi sembrava giusto di doverglielo dire e che aveva pure diritto di sapere; e d'altra parte in quel caso avevo bisogno del suo consiglio, visto che mi trovavo in tale perplessità da non sapere quale condotta tenere; e gli raccontai tutta la faccenda. Gli dissi quanto imprudentemente si fosse comportato il fratello, mettendosi così pubblicamente in mostra; perché, se quello avesse conservato il segreto, mi sarebbe stato possibile respingerlo nettamente, senza dargli ulteriori ragioni, e lui un bel momento avrebbe smesso le sue istanze. Aveva invece avuto la leggerezza di essere sicuro che non lo avrei respinto e, in secondo luogo, si era presa la libertà di rendere noti i suoi progetti a tutta la casa.


Gli spiegai fino a che punto gli avessi resistito e quanto onorevoli e sincere fossero le sue proposte; «ma» conclusi, «la mia condizione sarà doppiamente difficile; poiché, come me ne sanno male ora perché desidera di avermi, così me ne sapranno peggio quando verrà fuori che l'ho respinto; e senz'altro diranno, qui sotto c'è qualcosa, e che sono già sposata a qualche altro, altrimenti non mi sognerei di rifiutare un matrimonio tanto vantaggioso per me come è questo.» Il discorso lo sorprese molto in verità. Mi disse che era realmente un caso per me molto critico e che non vedeva come avrei potuto uscirne; ma ci avrebbe pensato e mi avrebbe detto al nostro prossimo incontro la soluzione a cui fosse arrivato; per ii momento preferiva non dessi il mio consenso al fratello e nemmeno gli dicessi un no definitivo, ma che lo tenessi ancora un po' in sospeso.


Credo che trasalii alla sua raccomandazione di non dare il mio consenso. Gli dissi che anche lui sapeva benissimo che non avevo consensi da dare; che si era impegnato di sposarmi e, in conseguenza, io mi ero impegnata con lui; che non aveva mai smesso in tutto quel tempo di chiamarmi sua moglie e io mi consideravo altrettanto definitivamente tale che se si fosse celebrata la cerimonia; dalle sue stesse labbra lo avevo sentito, per tutto quel tempo mi aveva convinta a ritenermi tale.


«Mia cara» mi disse, «ora non impensierirti su questo; se non sono tuo marito, ti sarò però vicino come un marito; e che tutto ciò che mi hai detto non ti preoccupi, ma lascia che esamini un po' più a fondo la cosa e, al nostro prossimo incontro, ti saprò dire di più.» Mi tranquillizzò in questo modo quanto meglio seppe; io mi accorsi però che era preoccupato e che, pur trattandomi con molta dolcezza e dandomi mille e mille e più baci, e anche del denaro, non cercò però altro per tutto il tempo che restammo insieme, che furono più di due ore; cosa che mi lasciò stupefatta e perplessa, considerato come andava di solito e la comodità che avevamo quella volta.


Il fratello non tornò da Londra per altri cinque o sei giorni, e ce ne vollero altri due prima che egli avesse l'opportunità di parlargli; ma allora, prendendolo in disparte, gli parlò della cosa molto intimamente, e quella stessa sera trovò modo (avemmo infatti un lungo colloquio) di riferirmi tutto il loro dialogo, che, per quanto ricordo, fu del seguente tenore.


Aveva cominciato col dirgli che dopo la sua partenza gli erano giunte all'orecchio strane voci sul suo conto: insomma che faceva la corte a madamigella Betty. «Ebbene» disse il fratello, quasi incollerito, «e con questo? Chi ha da ficcare il naso qui dentro?» «Via via» disse l'altro, «non andare in collera, Robin; io non pretendo di ficcarci il naso, ma vedo che gli altri se ne preoccupano e ne hanno tratto pretesto per maltrattare quella povera ragazza. Questo io lo riterrei un affronto personale.» «Chi vuoi dire con "gli altri"?» fece Robin.


«Voglio dire la mamma e le ragazze» rispose il fratello maggiore.


«Ma senti un po'» riprese, «è una cosa seria? Vuoi bene veramente alla ragazza?» «Quand'è così» disse Robin, «voglio essere sincero con te:

la amo più di ogni altra donna al mondo e sarà mia, facciano e dicano quello che vogliono. Sono convinto che la ragazza non mi respingerà.» Mi trafisse il cuore, riferendomi questo, perché nonostante fosse molto ragionevole pensare che non l'avrei respinto, pure io sapevo, in coscienza, di doverlo fare, e intravedevo la mia rovina in questo gesto al quale ero costretta. Sapevo però che era mio interesse parlare diversamente allora e interruppi il suo racconto in questo modo: «Ah sì!» dissi, «lui crede che non sappia respingerlo? Ma se ne accorgerà, se non saprò respingerlo.» «Mia cara» mi disse, «lascia almeno che racconti tutta la faccenda com'è andata, e poi dirai quello che vorrai.» Riprese allora e mi disse che aveva così risposto: «Ma, fratello mio, sai che lei non possiede niente e tu puoi aspirare a molte dame con belle fortune». «Questo non importa» disse Robin, «io amo quella ragazza e sposandomi non intendo soddisfare la mia borsa, invece del mio gusto.» «Ecco, mia cara» concluse. «Come vedi non c'è modo di opporsi.» «Sì che c'è il modo» risposi, «posso oppormi io; ora so come si dice no, anche se prima non l'ho mai saputo; se il più grande gentiluomo di questo paese mi chiedesse ora di sposarlo, io saprei rispondergli no con tutta l'anima.» «Sì, ma vedi, mia cara» mi disse, «che cosa potrai rispondergli? Sai bene, lo dicevi prima, che ti farà qui su molte domande, e tutta la casa inoltre si chiederà che cosa significhi questo.» «Ebbene» risposi con un sorriso, «posso tappare a tutti la bocca in un colpo solo, rispondendo a lui, e anche a loro, che sono già sposata con suo fratello.» Sorrise leggermente a questa parola, ma potei accorgermi che era trasalito, e non riusciva a nascondere il turbamento nel quale l'avevo gettato. Tuttavia mi replicò: «Va bene, in un certo senso potrebbe anche essere vero, ma io penso che tu scherzi soltanto, quando parli di dare una simile risposta; potrebbe essere poco opportuna, per molti aspetti».


«No, no» risposi giocosamente, «non tengo troppo a lasciare trapelare questo segreto senza il tuo consenso.» «Ma che cosa vorrai dire a quelli, allora» riprese, «quando ti vedranno così decisamente contraria a un matrimonio che, secondo ogni apparenza, sarebbe la tua fortuna?» «E come» dissi, «dovrei essere senza scampo? Primo, non ho nessun obbligo di dare loro ragioni: e d'altronde, posso rispondere che sono già sposata, e punto e basta, e questo sarebbe sufficiente anche per lui, perché non avrebbe più motivo di fare ulteriori domande.» «Già» disse, «ma tutta la casa ti sarà intorno a stuzzicarti e, se rifiuterai assolutamente di confidarti, si raffredderanno con te e apriranno gli occhi ai sospetti.» «E allora?» dissi, «che posso fare? Che cosa vorresti che facessi? Ero già prima in un bell'impiccio quando ti ho parlato, e ti ho messo al corrente di ogni cosa perché tu mi consigliassi.» «Cara mia» disse, «su questo ho riflettuto molto, stanne sicura, e benché il consiglio che ti do abbia per me molti motivi di mortificazione e a prima vista possa sembrarti strano, pure, tutto considerato, non vedo migliore scappatoia per te che lasciare fare a Robin e, se lo trovi sincero e risoluto, sposarlo.» A queste parole gli lanciai un'occhiata di orrore e, diventata pallida come la morte, fui sul punto di cadere svenuta dalla sedia dove stavo; quando, dando un balzo, «Mia cara» egli gridò, «che cos'hai dunque?

Dove te ne vai?» e molte cose di questo genere: per cui, scrollandomi e chiamandomi, mi riportò un po' in me stessa, benché ci sia voluto un certo tempo perché riprendessi del tutto i sensi, e parecchi minuti perché fossi in grado di parlare.


Una volta rimessami del tutto, egli ricominciò «Mia cara» disse, «vorrei che ci pensassi seriamente. Puoi vedere molto bene il contegno che mantiene la mia famiglia nel caso presente, e se si trattasse di me, come si tratta di mio fratello, perderebbero assolutamente la luce della ragione. A quanto prevedo, sarebbe la mia rovina e anche la tua.» «Ecco» dissi, con la voce ancora irata, «tutte le tue proteste e i tuoi giuramenti cadono davanti alla disapprovazione della famiglia.


Non ti ho sempre obiettato proprio questo, di cui tu parlavi alla leggera e dicevi che gli eri superiore e non gli davi peso? Ora le cose sono a questo punto? E' questa la tua lealtà, il tuo onore, il tuo amore e la fermezza delle tue promesse?» Egli si mantenne perfettamente calmo, nonostante tutti i miei rimproveri, e sì che non gliene risparmiavo; alla fine rispose: «Mia cara, io non ho ancora mancato a una sola promessa che ti abbia fatto:

ti dissi che ti avrei sposata una volta venuto in possesso del mio patrimonio, ma vedi anche tu che mio padre è sano e robusto, capace di vivere ancora trent'anni buoni senza invecchiare più di tanti altri che sono in città; e tu stessa non mi hai mai chiesto di sposarti prima, perché sai benissimo che questa decisione potrebbe essere la mia rovina. Quanto al resto, dimmi tu se ti ho mancato in qualcosa».


Di tutto questo non potevo negare una sola parola. «Ma perché allora» dissi, «visto che tu non mi hai abbandonata, arrivi a consigliarmi un passo tanto orribile com'è quello di lasciarti? Non vuoi concedermi da parte mia nessun affetto, nessun amore, mentre da parte tua ce ne fu tanto? Non ti ho reso proprio nessun contraccambio? Non ti ho dato delle prove di sincerità e di passione? Non bastano i sacrifici dell'onore e della modestia, che ti ho fatto, a dimostrare che il mio essere è legato al tuo con lacci troppo forti per poterli spezzare?» «Ma in quest'altro modo» mi rispose, «ti faresti una condizione sicura, avresti una parte onorata nel mondo, e il ricordo dei nostri trascorsi resterebbe sepolto in un silenzio eterno, come se niente fosse mai stato; io per te nutrirò sempre un affetto sincero, soltanto che allora sarà un affetto onesto, e non farà nessun torto a mio fratello; tu sarai la mia cara sorella, come sei ora la mia cara...» e si fermò.


«La tua cara baldracca» esclamai, «volevi dire, e potevi ben dirlo; ma capisco lo stesso. Mi piacerebbe però che tu ricordassi quei lunghi discorsi che mi facevi, e tutte quelle ore di pena che ti prendesti per convincermi che ero sempre una donna onesta; che ero tua moglie in intenzione e che tra noi due era stretto un matrimonio tanto effettivo quanto se fossimo stati pubblicamente uniti dal parroco della nostra parrocchia. Tu sai che queste e non altre sono state le tue parole.» Mi accorsi di aver parlato un po' troppo duramente, ma riparai con quanto segue. Egli stette per un attimo immobile, senza fiatare, e io ripresi. «Non puoi» dissi, «senza usarmi la più grande ingiustizia, pensare che io abbia ceduto a tutte le tue sollecitazioni se non perché sentivo un amore incontestabile e incrollabile davanti a qualunque cosa potesse succedere. Se tu nutri sul mio conto pensieri tanto vergognosi, devo chiederti allora qual è il fondamento che ti ho dato per un simile sospetto. Perciò se ho ceduto alle tentazioni del mio amore e mi sono lasciata convincere a ritenermi davvero tua moglie, dovrò dare ora smentire tutte queste ragioni e chiamarmi la tua baldracca o la tua amante, che è lo stesso? E mi vuoi imporre tuo fratello? Puoi impormi i sentimenti che proverò? Puoi ordinarmi di non più amarti e di amare invece lui? Credi tu che sia in mia facoltà fare a richiesta un simile voltafaccia? No, caro mio» dissi, «convinciti pure: è impossibile. E qualunque sia il voltafaccia da parte tua, io ti terrò sempre fede; e vorrei ben più volentieri, visto che siamo a questo orribile punto, restare la tua baldracca che diventare la moglie di tuo fratello.» Egli sembrò contento e commosso a questo mio discorso, e mi disse che restava della sua antica idea; che non mi aveva tradita in nessuna delle promesse a me fatte, ma nella faccenda che mi preoccupava gli si erano presentate tante gravissime considerazioni che aveva pensato all'altra soluzione come ad un rimedio: era però convinto che sarebbe stata una separazione soltanto parziale, che potevamo per il resto della nostra vita amarci come amici e che forse avremmo trovato nel nuovo stato maggiori soddisfazioni che non in quello presente. Quanto a tradire un segreto che, se si risapeva, non poteva avere come effetto se non la rovina di tutti e due, mi assicurava che da parte sua non avevo niente da temere: gli restava una semplice domanda da farmi circa un possibile ostacolo, e se quella domanda riceveva una risposta favorevole, questo l'avrebbe soltanto riconfermato nell'idea che quello era l'unico passo che mi rimaneva.


Indovinai senz'altro quale fosse la domanda, vale a dire, se non fossi per caso incinta. Quanto a questo, lo assicurai, non aveva motivo di preoccuparsi, perché non ero incinta. «E allora, mia cara» disse, «adesso non abbiamo altro tempo. Tu pensaci: io non posso che rimanere dell'idea che questa sia la decisione migliore che puoi prendere.» Ciò dicendo si accommiatò e con la massima fretta, dato che madre e sorelle suonarono al cancello proprio nell'istante che si alzava per andarsene.


Mi lasciò in un estremo disordine mentale, e se ne accorse con facilità l'indomani, e tutto il resto della settimana, ma non trovò modo di parlarmi fino alla domenica successiva quando, sentendomi indisposta, non andai in chiesa; e anche lui, accampando non so che scusa, era rimasto in casa.


Stavolta mi ebbe da sola a solo per un'ora e mezzo, e riprendemmo a discutere tutti i punti di prima; alla fine gli chiesi vivacemente quale opinione avesse dunque della mia modestia, se poteva credere che io volessi considerare anche solo un istante il pensiero di darmi a due fratelli, e lo assicurai che una cosa simile non l'avrei fatta mai. E aggiunsi che, se mi avesse detto che non ci saremmo mai più visti, più tremendo di che non c'era se non la morte, non avrei potuto lo stesso ascoltare un pensiero per me tanto disonorante e da parte sua tanto vile; lo supplicavo perciò, se gli restava un briciolo di rispetto o di sentimento per me, che non me ne facesse più parola, o altrimenti mettesse mano alla spada e mi uccidesse. Egli sembrò sorpreso da quella che chiamava la mia ostinazione; mi disse che in questa faccenda ero ingiusta con me stessa e ingiusta con lui; che si trattava per tutti e due di una crisi inaspettata, ma che non vedeva altra strada per salvarci dalla rovina, e tanto più quindi la mia ostinazione gli sembrava ingiusta. Aggiunse poi con insolita freddezza che, se non doveva più farmene parola, non sapeva di che altro ci restasse da parlare, e si alzò in piedi per prendere commiato. Anch'io mi alzai, con la medesima indifferenza, ma quando mi si accostò per darmi quello che sembrava un bacio d'addio, scoppiai in un tale accesso di lacrime che, benché volessi parlare, non ci riuscivo, e premendogli soltanto la mano, facevo come se gli dicessi addio, ma piangevo, piangevo a dirotto.


Egli allora fu sensibilmente commosso; tornò a sedersi, e mi disse molte cose affettuose, ma sempre insisteva sulla necessità di seguire il suo consiglio, non lasciando per tutto quel tempo di protestare che, se io lo rifiutavo, avrebbe tuttavia provveduto a me; mi faceva però chiaramente capire che mi avrebbe respinta nella cosa essenziale, come amante cioè; dato che si sarebbe fatto un punto d'onore di non usare con la donna che, per quanto sapeva lui, poteva darsi che un giorno o l'altro diventasse la moglie di suo fratello.


La cruda perdita dell'amante non faceva tanto la mia afflizione quanto la perdita dell'uomo che in verità amavo alla follia, e quella di tutte le speranze, su cui avevo costruito il mio avvenire, che giungessimo un giorno a essere marito e moglie. Ne ebbi di conseguenza lo spirito come schiacciato, tanto che, a farla breve, caddi per l'angoscia in una violentissima febbre e durò tanto a lungo che più nessuno della famiglia sperava che mi salvassi.


Mi ridussi a un punto davvero critico e spesso ebbi il delirio; ma nulla mi stava presente quanto il terrore di rivelare, nei momenti di smarrimento, qualcosa che risultasse a pregiudizio del mio padrone.


Nella desolazione del mio spirito, inoltre, desideravo rivederlo e così desiderava anche lui, poiché davvero mi amava appassionatamente, ma la cosa non era fattibile; non avevamo né io né lui la minima possibilità di sperarlo.


Per quasi cinque settimane rimasi a letto; e per quanto la violenza della mia febbre dopo tre settimane fosse diminuita, pure diverse volte mi riprese; e i medici dissero due o tre volte che non sapevano più che fare per me, non potevano che lasciare mano alla natura e alla malattia di combattersi.


Passate cinque settimane, mi sentii meglio, ma ero così debole, così deperita, e mi rimettevo tanto lentamente, che i medici espressero il loro timore che dovessi diventare tisica; inoltre, ciò che mi afflisse di più, si mostrarono convinti che qualcosa mi opprimeva l'animo e, insomma, che fossi innamorata. A sentire tanto, tutta la casa mi si mise intorno sollecitandomi per sentire se ero o no innamorata, e di chi; ma io, come ben potevo, negai assolutamente di essere innamorata.


Ci fu un giorno a questo proposito un litigio a tavola per me, un litigio che quasi mise lo scompiglio nell'intera famiglia. Accadde che quel giorno erano tutti a tavola eccetto il padre; quanto a me, ero malata e in camera mia. All'inizio della conversazione la vecchia signora, che mi aveva mandato qualcosa da mangiare, ordinò alla cameriera di salire a chiedermi se ne volevo ancora, ma la cameriera tornò con la notizia che non avevo nemmeno mangiato la metà di quello che mi aveva portato prima «Ahimè» disse la dama, «quella povera ragazza! Ho una gran paura che mai più starà bene.» «Bene?» disse il fratello maggiore; «e come potrebbe madamigella Betty star bene? se dicono che sia innamorata.» «Io non ci credo proprio» disse la vecchia signora. «Io non so» osservò la sorella maggiore, «che cosa dirne: le hanno fatto tanto baccano intorno e ch'era bella, e che era un amore, e ch'era non so che cosa, e per giunta in modo che lei sentisse, che ormai a quella poveretta il cervello ha dato di volta, immagino, e chi sa che fissazioni possono nascere da quelle idee. Da parte mia, non so proprio che dirne.» «Ma però, sorella, devi riconoscere che bella è veramente» disse il fratello maggiore. «Ah sì, e molto più bella di te anche, cara mia» disse Robin, «è ciò che ti mortifica.» «Andiamo, via, non si parla di questo ora» disse la sorella; «è una ragazza che ha i suoi pregi, e lo sa: non ha bisogno di sentirseli enumerare per andarne vanitosa.» «Noi non parliamo del fatto che sia vanitosa» disse il fratello maggiore; «ma del fatto che sia innamorata; può darsi che sia innamorata di se stessa: questa, almeno, sembra l'opinione delle mie care sorelle.» «Vorrei che fosse innamorata di me» disse Robin, «in quattro e quattr'otto la tirerei fuori dalle sofferenze.» «Che cosa vuoi dire con questo, ragazzo?» chiese la vecchia dama; «come puoi parlare in questo modo?» «Ma, signora» riprese Robin, con molto candore, «non crederete che io lascerei morire d'amore quella povera ragazza e quando fosse amore per me poi, che basta stendere la mano per avermi?» «Vergogna, fratello» disse la seconda sorella, «come puoi parlare in questo modo? Vorresti sposare una donna che non ha il becco d'un quattrino?» «Adagio, piccola» disse Robin, «la bellezza è una dote e accompagnata dall'amabilità è dote doppia; ti augurerei che di queste due tu avessi metà del suo capitale, per dote.» E così le tappò la bocca.


«Mi accorgo» disse la maggiore delle sorelle, «che se Betty non è innamorata, lo è però mio fratello. Chi sa, forse con lei non si è ancora dichiarato: scommetterei che non gli direbbe di no.» «Quelle che cedono quando sono cercate» disse Robin, «sono un passo più avanti di quelle che non sono state cercate, e due passi più avanti di quelle che cedono prima che le cerchino: ecco una risposta, sorella, che va bene per te.» Questo fece avvampare la sorella, che montò su tutte le furie e disse che le cose erano ormai arrivate a un punto che le sembrava l'ora di scacciare quella donna - quella donna ero io - fuori della famiglia; e che date le circostanze attuali che impedivano di mettermi fuori, sperava tuttavia che suo padre e sua madre ci avrebbero pensato non appena fosse stato possibile di muovermi.


Robin rispose che questo riguardava i due capi della famiglia, ai quali era inutile desse consigli una persona con tanto poco cervello com'era sua sorella.


Le parole furono molte e anche più gravi: la sorella strillava, Robin se ne faceva beffe e le dava la baia, ma la conseguenza fu che la povera Betty perse estremamente terreno nella famiglia. Io seppi della cosa e piansi dirottamente; la vecchia dama salì a trovarmi, qualcuno avendole detto che mi ero preso tanto a cuore l'accaduto. Mi lagnai con lei che era ben duro che i medici dovessero fare sul mio conto un simile apprezzamento, di cui non avevano ragione; che mi riusciva anche più duro, tenute presenti le circostanze in cui ero nella famiglia; e che speravo di non aver fatto niente di tale da scapitarne nella sua stima né di aver dato alcun pretesto al contrasto tra i figli e le figlie. Dissi che mi trovavo più nel bisogno di pensare alla mia bara che non a innamorarmi e la supplicavo di non permettere che dovessi soffrire, nell'opinione ch'ella aveva di me, per gli errori di nessuno tranne che per i miei.


La signora fu sensibile alla giustezza di quanto dicevo, ma mi rispose che dato il grande rumore che s'era fatto, e poiché il suo figlio minore parlava in modo così invadente, era suo desiderio che fossi con lei tanto leale da risponderle a una sola domanda, ma sinceramente. Le dissi che avrei risposto e con tutta schiettezza e sincerità. E allora, ecco la domanda: mi chiedeva se non c'era nulla tra me e suo figlio Robert. Le dissi con tutte le proteste di sincerità che seppi e che potevo ben fare, che né allora né mai c'era stato nulla: le dissi che il signor Robert aveva alzato la voce e motteggiato, come anche lei sapeva che era sua abitudine, e che io avevo sempre preso quel suo fare nel senso che immaginavo gli desse anche lui, di un modo di esprimersi stravagante e allegro che non voleva significare nulla; e assicurandole che tra noi due non c'era un briciolo di quello che lei aveva dedotto, osservai che quelli che avevano mossa quell'insinuazione avevano fatto a me gran torto e un pessimo servizio al signor Robert.


La vecchia dama rimase pienamente soddisfatta e mi baciò, mi parlò rasserenata, raccomandandomi di avermi riguardo e non lasciarmi mancare nulla; quindi si accomiatò. Ma, una volta discesa, trovò il giovanotto e tutte le figlie che si erano presi di nuovo per i capelli: le ragazze erano fuori di sé dal dispetto al sentirsi rinfacciare dal fratello che erano brutte; che non avevano mai avuto un innamorato; che nessuno aveva mai fatto loro una dichiarazione, che erano tanto sfacciate da mettersi avanti da sole, e via di questo passo. Per farsene beffe il fratello era ricorso a madamigella Betty:

com'era graziosa, com'era amabile, come cantava meglio di tutte quante, e meglio ballava, com'era più bella; e nel fare questo non tralasciava una sola malignità che avesse il potere di scottarle. La vecchia dama capitò dabbasso nel pieno del battibecco e, per farla finita, riferì loro il discorso che mi aveva tenuto e quello che avevo risposto: non esservi niente tra me e il signor Robert.


«Qui sbaglia» disse Robin, «perché se non ci fosse invece molto tra noi due, noi saremmo ben più vicini che non siamo. Le ho già detto che le voglio un bene pazzo» disse; «ma non sono ancora venuto a capo di convincerla, questa mula, che parlo sul serio.» «Non vedo perché dovresti» disse la madre, «nessuno che abbia la testa sul collo può credere che tu faccia sul serio parlando a questo modo con una povera ragazza di cui conosci bene la condizione.» «Ma senti, figliolo» riprese, «visto che ci hai confidato di non essere riuscito a convincerla che tu fai sul serio, ci dirai che cosa dobbiamo pensare noi? Tu divaghi talmente nel discorso che nessuno può capire se parli sul serio o per scherzo; ma dato che vedo che, a tua esplicita confessione, la ragazza ha risposto la verità vorrei che anche tu facessi lo stesso e mi dicessi seriamente, in modo da potermene fidare, se c'è qualcosa in questa storia o no. Fai sul serio o no? E' il cervello, insomma, che ti ha dato di volta o no? E' una domanda precisa: desidero che tu ci tolga dall'incertezza a questo riguardo.» «In fede mia, signora» disse Robin, «non serve a nulla tergiversare ancora o raccontare bugie: io faccio sul serio, tanto sul serio quanto uno che sale sulla forca. Se madamigella Betty rispondesse che mi ama e che accetta di sposarmi, io la piglierei domattina a digiuno, dicendo: Ce l'ho e me la tengo. Nemmeno mi ricorderei di fare colazione.» «Se è così» disse la madre, «ecco un figlio perduto», e parlò in tono desolato, come persona molto afflitta. «Spero di no, signora» disse Robin, «un uomo non è perduto, quando una buona moglie l'ha trovato.» «Ma, ragazzo mio» disse la vecchia dama, «questa donna è la miseria.» «E allora, signora, ha tanto più bisogno di carità» ribatté Robin; «la toglierò dalle spalle della parrocchia e chiederemo insieme l'elemosina.» «Non si scherza su queste cose» disse la madre. «Io non scherzo, signora» disse Robin, «verremo a implorare il vostro perdono e la vostra benedizione, e quella di mio padre.» «Tutto ciò è fuori proposito, figliolo» disse la madre; «se tu dici sul serio, è la nostra rovina.» «Temo di no» rispose, «perché ho una gran paura che lei non vorrà saperne di me. Dopo il trattamento che le ha usato mia sorella, non credo che riuscirò mai a convincerla di accettarmi.» «Questa sì che è carina. Non arriverà certo a questo punto.


Madamigella Betty non è una sciocca» disse la sorella più giovane.


«Credi che abbia imparato a dire no più che non facciano le altre?» «Affatto, madamigella Bello Spirito» rispose Robin, «madamigella Betty non è una sciocca, ma potrebbe darsi che non fosse libera e allora che si fa?» «Davvero» disse la sorella maggiore, «che ne sappiamo? Chi può essere dunque l'uomo? Non esce mai di casa; dev'essere una cosa fra di voi.» «Non ho nulla da rispondere io» disse Robin. «Sono stato interrogato abbastanza; qui c'è mio fratello. Se dev'essere una cosa tra di noi, fatevi sotto con lui.» L'uscita colse nel vivo il fratello maggiore, che ne concluse che Robin doveva avere scoperto qualcosa. Tuttavia si dominò, in modo da non apparire turbato. «Andiamo» disse, «non cercare di appioppare a me le tue storie; ti so dire che non tratto in questa derrata; io non ho niente a che fare con nessuna madamigella Betty in tutta la parrocchia» e così dicendo si alzò e se la batté. «No, no» disse la sorella maggiore, «rispondo io per mio fratello; è un po' più pratico del mondo.» Così finì quella conversazione, ma lasciò sbigottito il fratello maggiore. Questi ne concluse che il fratello aveva scoperto ogni cosa, e cominciò a chiedersi se non avessi avuto io stessa una mano nella faccenda; con tutto il suo destreggiarsi, però, non trovava il modo di arrivare fino a me. Alla fine, fu tale il suo tormento che arrivò alla disperazione e si decise a venirmi a vedere, qualsiasi cosa dovesse nascerne. A questo scopo, un giorno dopo pranzo fece in modo di tenere d'occhio la sorella maggiore e, quando la vide dirigersi alle scale, le corse dietro. «Aspettami, sorella» disse, «dov'è questa malata? Non si può vederla una volta?» «Sì» rispose la sorella, «credo che tu possa; ma lascia prima che entri io un momento: te lo dirò.» Quindi corse alla porta, mi avvertì, e subito lo richiamò. «Fratello» disse, «puoi entrare, se vuoi.» E lui entrò, conservando il sussiego di prima. «Dunque» disse sulla porta entrando, «dov'è questa malata innamorata? Come state, madamigella Betty?» Io avrei voluto alzarmi dalla mia poltrona, ma mi sentivo tanto debole che stetti un momento senza riuscirci; lui se ne accorse, e se ne accorse la sorella che disse: «Via, non sforzatevi d'alzarvi; mio fratello non vuole cerimonie, specialmente adesso che siete tanto debole.» «No, no, madamigella Betty, state seduta, vi prego» disse lui, «e si sedette su una poltrona di fronte a me, con un'aria straordinariamente allegra.» Parlò un pezzo con noi saltando di palo in frasca ora di una cosa, ora di un'altra, a bella posta per divertire la sorella, e di tanto in tanto riportava il discorso sulla solita canzone. «Povera madamigella Betty» diceva, «è ben triste essere innamorati: vi ha ridotto ben male l'amore.» Alla fine parlai io: «Sono lieta di vedervi così allegro, signore» dissi, «ma penso che il medico avrebbe potuto trovare qualcosa di meglio che prendersi gioco della paziente. Se la mia malattia non fosse stata che questo, conosco troppo bene il proverbio, e il dottore non l'avrei nemmeno lasciato avvicinare al letto». «Quale proverbio?» mi chiese. «Come...


"Male d'amore, asino il dottore?"E' questo che dite, madamigella Betty?» Io sorrisi e non risposi.


«Anzi» riprese, «a me pare che l'effetto abbia appunto provato che era amore, dato che sembra che il dottore vi abbia giovato ben poco: vi rimettete tanto adagio, dicono. Sospetto ci sia qualcosa qui sotto, madamigella, sospetto che il vostro caso sia di quelli incurabili.» Sorrisi e dissi: «No, signore, state certo, non è questo il mio male».


Scambiammo un mucchio di questi discorsi e, a volte, altri che significavano altrettanto poco. Ben presto mi chiese di cantare qualche canzone, al che io sorrisi rispondendo che i giorni del mio canto erano finiti. Alla fine mi chiese se volevo che mi suonasse qualcosa sul flauto; la sorella intervenne a dire che temeva la mia testa non reggesse. Io mi 'inchinai e dissi: «Vi prego, madamigella, non opponetevi: amo moltissimo il flauto».


Allora la sorella: «E tu suona, dunque». Egli cavò di tasca la chiave del suo gabinetto. «Cara sorella» disse, «sono molto pigro: fa' tu un salto a prendermi il flauto, è nel tal cassetto»; e nominò un luogo dove era sicuro non averlo messo, perché la sorella potesse perdere un po' di tempo a cercarlo.


Non appena questa fu uscita, egli mi riferì tutta la storia del discorso di suo fratello sul mio conto, e mi espresse la sua preoccupazione, che era stato il motivo per cui aveva ricorso alla visita. Io gli assicurai che non avevo mai aperto bocca né col fratello né con nessun altro. Gli dissi la stretta spaventosa in cui mi trovavo; che il mio amore per lui, e la sua proposta che accettassi di dimenticare questo sentimento e lo consacrassi a un altro, mi avevano atterrita; e che mille e mille volte mi ero augurata di morire piuttosto che guarire e ritrovarmi a lottare contro l'identico stato di cose di prima. Aggiunsi che prevedevo come, non appena mi fossi ristabilita, sarei stata costretta a lasciare la famiglia; che riguardo al matrimonio con il fratello, mi ripugnava anche solo pensarci dopo quanto era avvenuto tra noi, e che, poteva esserne certo, con il fratello non sarei più nemmeno tornata sull'argomento; che se lui intendeva violare tutte le sue promesse, i suoi giuramenti e i suoi impegni con me, restasse la cosa tra lui e la sua coscienza, ma io che, da lui convinta a chiamarmi sua moglie, gli avevo lasciata la libertà di trattarmi come moglie, non gli avrei mai dato il diritto di dire che, chiunque egli fosse per me, non gli conservassi tutta la fedeltà che da una moglie è dovuta.


Egli stava per rispondermi e aveva detto già che gli dispiaceva che io non volessi lasciarmi convincere. Stava per continuare, quando sentì giungere la sorella, e anch'io la sentii; pure balbettai a fatica questa breve risposta: che non mi sarei mai lasciata convincere ad amare un fratello e sposarne un altro.


Egli crollò il capo e disse: «Dunque sono rovinato» alludendo a sé; in quel momento nella camera entrò la sorella e gli disse che non riusciva a trovare il flauto. «Bene» fece lui tutto allegro, «questa pigrizia non va» e si alzò, e si mosse alla ricerca del flauto. Ma ritornò anche lui a mani vuote: non che non avesse potuto trovarlo, ma non aveva nessuna voglia di suonare; e d'altronde l'incarico affidato alla sorella aveva avuto in altro senso il suo effetto, poiché egli non voleva altro che parlarmi e a questo era riuscito, sebbene con non troppa sua soddisfazione.


Io sentivo, invece, una grande soddisfazione di avergli detto liberamente quello che pensavo, e con tanta onesta franchezza, come ho spiegato; e benché questo non avesse affatto operato nel senso che desideravo, vale a dire, obbligandomi maggiormente quell'uomo, pure gli toglievo ogni possibilità di abbandonarmi altro che direttamente offendendo il suo onore e mancando alla sua parola di gentiluomo, tramite la quale tante volte si era impegnato di non mai abbandonarmi e di farmi sua moglie non appena avesse toccato la sua sostanza.


Non passarono molte settimane che io tornai a girare per la casa, e cominciai a rimettermi; ma non smettevo di starmene malinconica e ritirata, cosa che stupiva tutta la famiglia, eccetto colui che sapeva i miei motivi. Pure, dovette passare molto tempo prima che desse un segno qualunque di essersene accorto, e io, altrettanto ritrosa a parlare quanto lui, mi comportavo con ogni rispetto in sua presenza, ma non cercavo di avanzare mai una qualsiasi parola che non suonasse impersonale. Questo durò per un sedici o diciassette settimane, al punto che, dato che io mi aspettavo di giorno in giorno di essere congedata dalla famiglia per via di quell'avversione che dovevano avermi posto per tutt'altri motivi di cui non avevo colpa, ero ormai certa che non avrei più avuto niente da quel signore, dopo tutte le sue solenni promesse, se non la rovina e l'abbandono.


Alla fine suscitai io stessa nella famiglia la questione della mia partenza; poiché un giorno che, con la vecchia dama, parlavo seriamente dei casi miei e di come la malattia mi avesse lasciato una grande oppressione di spirito, la vecchia mi disse: «Io temo, Betty, che quanto ti ho detto di mio figlio abbia malamente influito su di te, e che sia malinconica per causa sua: dimmi, non vuoi confidarmi come stiano le cose fra voi due, se la domanda non è indiscreta?

Perché, quanto a Robin, non fa altro che beffare e scherzare quando gliene parlo». «Ecco, in tutta verità, signora» le risposi, «le cose stanno come davvero non vorrei: sarò con voi assolutamente sincera in questo, qualunque cosa me ne debba risultare. Il signor Robert parecchie volte mi ha proposto di sposarmi, e questa non è una cosa alla quale potessi aspirare, tenuta presente la mia miserabile condizione. Gli ho sempre resistito, e questo forse in termini più espliciti che non mi si confacesse, vista la considerazione che devo a ogni membro della vostra famiglia. Tuttavia, signora» dissi, «come potevo dimenticare l'obbligo che ho a voi e alla vostra casa, fino al punto di acconsentire a ciò che ero certa non potesse non riuscirvi sgradito? Gli dissi esplicitamente che non avrei mai accolto un pensiero di quel tipo se non previo il vostro consenso e quello di suo padre, ai quali ero legata da tante fortissime obbligazioni.» «Ma è dunque possibile, Betty?» disse la vecchia dama. «Allora, tu sei stata con noi molto più giusta che non siamo stati noi con te; perché tutti ti consideravamo come una specie di laccio per mio figlio e, allarmata di questo, io pensavo di proporti che te ne andassi, ma non te ne avevo parlato finora, perché temevo di darti un così grande dolore che di nuovo ti buttasse a terra. Giacché del rispetto per te ne abbiamo sempre, anche se non arriva al punto di consentirci la rovina del mio figliolo; ora però, se le cose stanno davvero a questo modo, noi tutti ti abbiamo fatto un gravissimo torto.» «Quanto alla verità di quello che dico, signora» risposi, «me ne appello a vostro figlio in persona. Se vorrà usarmi un minimo di giustizia, dovrà raccontarvi tutta la storia esattamente come l'ho raccontata io.» La vecchia dama andò dalle figlie e raccontò loro tutta la storia, esattamente come gliel'avevo raccontata io. Quelle furono stupefatte, vi assicuro, come del resto prevedevo. Una disse che non se lo sarebbe mai creduto; un'altra disse che Robin era uno sciocco; una terza che lei non ci credeva una sola parola e che era pronta a mettere la mano sul fuoco che Robin l'avrebbe raccontata in tutt'altro modo. Ma la vecchia dama, che era decisa ad andare a fondo nella faccenda prima che io avessi la minima opportunità di mettere il figlio al corrente di ciò che era avvenuto, decise pure che avrebbe senz'altro parlato con il figlio e a questo scopo lo mandò a cercare (era semplicemente andato da un avvocato in città), ed egli senz'altro tornò a casa.


Appena fu giunto da loro, perché erano tutte riunite: «Siedi, Robin» disse la vecchia dama, «ho da parlarti». «Con tutto il cuore, signora» disse Robin con un'aria piuttosto gaia. «Spero si tratti di una buona moglie, perché ne ho davvero un gran bisogno.» «Come va questa storia?» disse la madre. «Non sostenevi che eri deciso a sposare madamigella Betty?» «Sì, madama, ma c'è qualcuno che si oppone alle pubblicazioni.» «Che si oppone alle pubblicazioni! Chi può essere?» «Madamigella in persona» rispose Robin. «Com'è possibile?» disse la madre. «Le hai dunque chiesto di sposarti?» «Proprio così, signora» disse Robin. «E' già il quinto formale attacco che le muovo da quando è guarita e sono tuttora sconfitto; la muletta è talmente ostinata che non vuol saperne di capitolare né di cedere a nessun patto, se non a uno tale che non posso accettare.» «Spiegati» disse la madre, «io sono sbalordita; non ti capisco. Spero che tu scherzi.» «Eppure, signora» riprese lui, «il caso è, quanto a me, abbastanza chiaro, si spiega da sé: non mi vuole, m'ha detto; non è una cosa chiara? A me sembra chiaro, e anche tondo, no?» «Sì, ma» disse la madre, «parli di condizioni che tu non potresti farle; che cos'è che vuole: una sistemazione? Il suo capitale dev'essere secondo la sua sostanza; che dote porta?» «Quanto a fortuna» rispose Robin, «è abbastanza ricca: in questo mi ritengo soddisfatto; ma sono io che non ce la faccio a rispondere alle sue condizioni, e lei è risoluta che, fuori di così, non mi prende.» Qui s'intromisero le sorelle. «Signora» disse la seconda, «è impossibile parlare seriamente con lui; non vi darà mai in niente una risposta come si deve; fareste meglio a lasciarlo stare e non parlarne più: sapete come fare per togliergli quell'altra da sotto gli occhi.» Robin fu un po' punto dalla villania della sorella, ma le rese subito il contraccambio. «Ci sono due specie di persone, signora» disse rivolgendosi alla madre, «con cui non serve discutere; e sono, i saggi e gli stupidi; è un po' dura che io debba mettermi contemporaneamente con gli uni e con gli altri.» Allora la più giovane intromise: «Deve crederci davvero delle stupide, nostro fratello, per mettersi in testa di raccontarci che ha chiesto seriamente alla Betty di sposarlo e lei non ha voluto».


«Rispondi e non rispondi, dice Salomone» ribatté il fratello. «Quando un fratello dice che le ha fatto la proposta non meno di cinque volte e che lei ha formalmente rifiutato ogni volta, mi sembra che non spetta alla sorella minore mettere in dubbio la cosa, specialmente quando non l'ha fatto sua madre.» «La mamma, vedi tu, non ha ancora capito» disse la seconda sorella. «C'è una certa differenza» disse Robin, «tra invitarmi a spiegare, e dirmi che lei non ci ha creduto.» «Ma insomma, figliolo» disse la vecchia dama, «se ti vuoi degnare di ammetterci in questo mistero, che cosa sono queste gravi condizioni?» «Sì, signora» disse Robin, «l'avrei fatto da tempo, se queste seccatrici non mi avessero disturbato con le loro interruzioni. Sono, queste condizioni, che io ottenga il consenso vostro e di mio padre; senza di che lei protesta che non vorrà nemmeno più sentirmi parlare della proposta. E queste condizioni, come ho detto, immagino che non sarò mai in grado di accettarle. Spero che le mie accese sorelle si riterranno soddisfatte ora, e arrossiranno un tantino.» Questa risposta fu per tutte uno stupore, ma un po' meno per la madre, a causa di quello che le avevo detto io. Quanto alle figlie, ammutolirono un bel po', ma la madre disse con veemenza: «Questa l'avevo già sentita ma non potevo crederci: se è così, però, abbiamo allora tutti quanti fatto un grave torto a Betty, e lei si è comportata meglio che io non sperassi». «Davvero» disse la sorella maggiore, «se è così, si è veramente comportata bene.» «Riconosco» disse la madre, «che non fu colpa di lei, se Robin fu tanto sciocco da incapricciarsene; ma dargli una risposta simile, dimostra più rispetto per noi che io non sappia dirmi; tanto più apprezzerò la ragazza per tutto il tempo che la conoscerò.» «Ma io no» disse Robin, «a meno che voi non mi diate il vostro consenso.» «Ci penserò sopra» rispose la madre, «e ti assicuro che, se non ci fossero altre obiezioni, questo saggio della sua condotta avrebbe fatto molto per convincermi.» «Speriamo che possa fare tutto» disse Robin; «se vi preoccupaste di trovarmi pace quanto vi preoccupate di trovarmi quattrini, non ci mettereste troppo ad acconsentire.» «Ma dunque, Robin» riprese la madre, «è veramente una cosa seria?

Saresti davvero felice di sposarla?» «Sul serio, signora» disse Robin, «mi sembra carina che continuiate a interrogarmi su questo proposito.


Non dirò più che voglio sposarla. Come posso venirne a capo, quando vedete anche voi che non posso farne nulla senza il vostro consenso?

Ma questo dirò, e seriamente, che non ne sposerò mai un'altra, se Dio mi aiuta. O Betty o nessuna, questo è il mio motto: quanto al problema della scelta tra le due, la decisione è affidata al vostro cuore, signora, purché soltanto le mie amabili sorelle non ci abbiano che fare.» Tutto questo era terribile per me, poiché la madre incominciò a tentennare e Robin non le lasciava quartiere. Di più essa si consigliò col figlio maggiore che fece uso di tutti gli argomenti possibili e immaginabili per convincerla ad acconsentire, allegando il grande amore di suo fratello per me, il generoso rispetto che avevo mostrato alla famiglia rinunciando al mio interesse per un così delicato punto d'onore e mille altre cose. Quanto al padre poi, era un uomo tutto preso nel vortice dei pubblici affari e del guadagno, quasi mai in casa, preoccupato del suo interesse, ma che lasciava ogni faccenda di quella specie alla moglie.


Potrete agevolmente convincervi che una volta portato, secondo quanto credevano, quell'imbroglio alla luce del sole, non era più così difficile o pericoloso per il fratello maggiore, di cui nessuno sospettava nulla, ottenere un più libero accesso; la madre anzi, e questo rispose ai suoi desideri, gli fece la proposta che parlasse lui della cosa con madamigella Betty. «Può darsi, figliolo» gli disse, «che tu veda più dentro di me in questa faccenda, e capisca se lei è stata così esplicita come dice Robin, o no.» Questo era quanto di meglio egli potesse desiderare e si lasciò infatti convincere dalle preghiere della madre a venirmi a parlare: la vecchia dama mi portò da lui nella sua stanza, mi disse che suo figlio aveva qualcosa da dirmi da parte sua; poi ci lasciò soli e si chiuse la porta alle spalle.


Egli mi venne incontro ancora una volta e mi prese tra le braccia e mi baciò con grande tenerezza, ma mi disse che eravamo ormai arrivati a quella crisi in cui dovevo decidermi per la felicità o l'infelicità di tutta la vita e che, se non potevo compiacere al suo desiderio, la rovina ci aspettava l'una e l'altro. Poi mi raccontò tutta la storia fra Robin, come lo chiamava, e sua madre e le sorelle e lui stesso. «E ora, piccola mia» disse, «considera che cosa vorrà dire sposare un gentiluomo di buona famiglia, in buone condizioni di fortuna, con il consenso di tutta la casa, e godere così tutto quello che il mondo può offrirti; e che cosa, invece, sarà per te affondare nella nera condizione di una donna che ha perso il suo buon nome: e che, sebbene io sarò per te tutta la vita un segreto amico, pure, visto che i sospetti mi seguiranno sempre, tu avrai paura di trovarti con me e io avrò paura di proclamarti mia.» Non mi lasciò il tempo di rispondere, ma riprese in questo modo:

«Quello che è passato fra noi, piccola, purché così decidiamo, può venire sepolto e dimenticato. Io non smetterò mai di essere il tuo amico sincero, e mi spoglierò di ogni desiderio di una più stretta intimità con te, non appena sarai diventata mia sorella; noi godremo di tutto quello che è onesto nell'intimità senza che tra noi debba mai esserci nessun rimprovero che siamo caduti in fallo. Ti scongiuro di pensarci bene e di non sbarrarti la via della salvezza e della prosperità; e per convincerti che io sono sincero» aggiunse, «ti offro qui cinquecento sterline per risarcirti in qualche modo delle libertà che mi sono preso con te, e per l'avvenire le considereremo una parte delle follie della nostra vita, di cui spero che ci sapremo pentire».


Disse tutte queste cose in termini molto più toccanti che non mi sia possibile ritrovare, e voi potete immaginarli, visto che mi trattenne in quel colloquio per più di un'ora e mezzo; rispose così a tutte le mie obiezioni e rafforzò il suo discorso con tutti gli argomenti che ingegno e arte umana potessero escogitare.


Tuttavia non posso dire che nessuna delle sue parole mi facesse tanta impressione da darmi un pensiero decisivo, finché alla fine mi dichiarò chiaro e tondo, che, se io rifiutavo, gli dispiaceva molto ma doveva avvertirmi che non avrebbe mai più potuto continuare nella situazione di prima; che, nonostante mi amasse tuttora e io gli piacessi sempre, il senso della virtù non l'aveva però talmente abbandonato da permettergli di andare a letto con una donna che il fratello corteggiava per farne sua moglie; che se lo lasciavo andare via con un rifiuto su quel punto, qualunque cosa lui stesse ancora per fare in mio soccorso a causa della sua primitiva promessa che avrebbe pensato a me, pure non avrei dovuto meravigliarmi se si sentiva in obbligo di dirmi che non avrebbe mai più tollerato di vedermi in futuro: e che, sinceramente, io non potevo pretendere questo da lui.


Io accolsi quest'ultima parte del discorso con qualche segno di stupore e di smarrimento, ed ebbi non poca difficoltà a trattenermi dal cadere priva di sensi, perché sul serio io amavo quell'uomo a livello così eccessivo che non è facile farsene idea; ma egli comprese il mio smarrimento e mi scongiurò di pensare alla cosa con tutta serietà; mi assicurò che era quello l'unico modo di conservare il nostro reciproco affetto; che nella nuova situazione avremmo potuto amarci come amici, con la massima tenerezza e di un amore senza macchia, immuni dai nostri giusti rimproveri e immuni dai sospetti del prossimo; che egli avrebbe sempre riconosciuta da me la sua felicità; che si sarebbe per tutta l'esistenza sentito in debito con me e avrebbe pagato quel debito fino al giorno del suo estremo respiro. Mi portò così, insomma, a uno stato di esitazione: davanti mi stavano tutti i pericoli rappresentati a immagini vivide e per giunta esaltati dalla mia fantasia, dato che mi vedevo respinta nell'immenso mondo come una qualunque prostituta scacciata, perché eravamo a questo, e magari pubblicamente svergognata come tale; con poco o niente per sostentarmi, senza amicizie, senza conoscenze nel mondo intero, via da quella città dove non potevo certo pretendere di rimanere. Tutto questo mi atterriva oltre misura, ed egli faceva del suo meglio in tutte le occasioni per mettermelo davanti dipinto con i peggiori colori. Dall'altra parte, non trascurò di farmi risaltare la vita facile, prospera, che avrei avuto in sorte di vivere.


Controbatté tutto quello che in nome dell'affetto e dei primitivi impegni io seppi obiettargli, ritornando sulla necessità che ora ci stava davanti di cambiare i nostri progetti; e quanto alle sue promesse di matrimonio, il corso stesso delle cose, disse, le aveva rese vane, presentando la possibilità che io diventassi la moglie di suo fratello prima del tempo al quale queste promesse avevano avuto riguardo.


E così in una parola, posso ben dire, mi tolse la ragione a forza di ragionamenti; abbatté tutte le mie argomentazioni, e io cominciai a intravvedere un certo pericolo, di cui prima non avevo tenuto nessun conto; e ciò era, di venire abbandonata da tutti e due, e lasciata sola nel mondo a cavarmela da me come potevo.


Quest'ultima considerazione e i suoi ragionamenti mi convinsero alla fine ad acconsentire, ma lo feci con tanta riluttanza che era facile vedere che io sarei entrata in chiesa come un orso va al palo. Avevo pure qualche apprensione sulla mia persona, temendo che il mio nuovo sposo, per il quale tra l'altro non sentivo il minimo affetto, riuscisse tanto accorto da chiamarmi a un'altra resa di conti, la prima notte che saremmo stati insieme a letto; ma l'abbia o no fatto appositamente, non so, fatto sta che il fratello maggiore si incaricò di ubriacarlo e molto, prima che fosse l'ora di mandarlo a letto, cosicché io ebbi la soddisfazione di passare la prima notte con un ubriaco. Come abbia fatto non so, ma conclusi che certo questa era una sua pensata, per togliere al fratello la facoltà di giudicare della differenza tra una ragazza e una donna sposata; né il fratello ebbe mai alcun sospetto di tutto questo, e nemmeno s'impacciò a pensarci.


Ma debbo ritornare un po' indietro, al punto dove ho interrotto. Il fratello maggiore, adesso che aveva avuto ragione di me, si diede alla seconda parte, di venire a capo della madre, e non smise finché non l'ebbe portata a rassegnarsi e accettare la cosa senza neppure avvertire il padre, altro che per lettere; sicché essa acconsentì a che ci sposassimo privatamente, riservandosi di trattare con il padre in seguito.


Poi si mise a lisciare il fratello e lo convinse che aveva reso un grandissimo servigio a lui e strappato il consenso a sua madre, cosa che, per quanto vera, non era certo stata fatta per la sua bella faccia, ma per il proprio tornaconto; eppure, in questo modo lo raggirò con ogni zelo e si ebbe i ringraziamenti del fido amico per essere venuto a capo di rifilare tra le braccia del fratello come moglie la propria baldracca. Così naturalmente gli uomini rinnegano l'amore e la giustizia, e perfino la religione, pur di mettersi al sicuro.


Devo ora ritornare al fratello Robin, come noi lo chiamavamo, che, avuto nel detto modo il consenso della madre, corse da me con la grande notizia e mi raccontò tutta la storia com'era andata, con una sincerità così visibile che, devo confessarlo, mi fece male l'essere costretta a fare da strumento per ingannare un gentiluomo tanto onesto. Ma non c'era rimedio: lui mi voleva a tutti i costi, e io non ero tenuta a spiegargli che ero la baldracca del fratello, per quanto non avessi altro modo di togliermelo di torno. Così a poco a poco mi rassegnai ed eccoci sposati.


La modestia mi vieta di rivelare i segreti del letto nuziale, ma niente avrebbe potuto darsi di più appropriato al mio stato del fatto che, com'è detto sopra, mio marito era tanto ubriaco quando venne a letto che la mattina dopo non riusciva a ricordare se avesse o no avuto contatto con me e io fui costretta a dirgli che sì, anche se in realtà non era vero, per accertarmi che non avrebbe potuto fare nessuna ricerca di altro tipo.


Agli effetti della storia che racconto interessa ben poco entrare in ulteriori particolari sulla famiglia o su di me nei cinque anni che vissi con questo marito: basti dire che ebbi da lui due figli e che in capo a cinque anni morì. Egli fu veramente per me un ottimo marito, e ci tenemmo molto buona compagnia; ma, dato che dai suoi non aveva ricevuto molto e nel poco tempo che era vissuto non aveva accumulato molta sostanza, la mia condizione non si trovò troppo florida, né con quel matrimonio mi ero rimessa molto in sesto. Invero, avevo conservato un 500 sterline in obbligazioni, che il fratello maggiore mi aveva offerto perché acconsentissi a sposarmi; e queste, con quanto avevo messo da parte del denaro che mi aveva regalato in precedenza e con circa altrettanto da parte di mio marito, faceva di me una vedova con qualcosa come 1200 sterline in tasca.


I miei due figli, poi, mi vennero fortunatamente tolti di sulle braccia dai genitori di mio marito. Altro da madamigella Betty non ebbero.


Confesserò che non provai per la perdita di mio marito il dolore che avrei dovuto, e nemmeno posso dire di averlo mai amato come sarebbe stato mio dovere o come meritava l'ottimo trattamento che mi usò, dato ch'egli era un uomo tenero, affezionato e amabile quanto qualsiasi donna avrebbe potuto desiderare; ma suo fratello, che mi stette sempre sotto gli occhi, per tutto il tempo almeno che passammo in campagna, era per me una continua tentazione, e non una sola volta andai a letto insieme a mio marito senza desiderare invece di essere tra le braccia del fratello. E benché questi non mi avesse mai, dopo il matrimonio, rivolto la minima attenzione in questo senso, ma si comportasse appunto come si conviene a un fratello, pure a me era impossibile fare altrettanto e, insomma, commisi con lui ogni giorno adulterio e incesto nei miei desideri, il che fuor di dubbio era altrettanto criminoso che in realtà.


Prima che mio marito morisse, il fratello maggiore si sposò e, dato che noi ci eravamo trasferiti a Londra, ricevemmo dalla vecchia signora l'invito di assistere al matrimonio. Mia marito ci andò, ma io dissi che ero indisposta e rimasi a casa; perché, a dirla breve, non potevo reggere allo spettacolo di vederlo legato a un'altra donna, quantunque ben sapessi che io non lo avrei mai più avuto lo stesso.


Mi trovavo ora, come già un'altra volta, libera nel mondo e dato che ero ancora giovane e bella, come tutti dicevano e come vi assicuro che io ben credevo, e con una discreta fortuna in tasca, facevo di me non poco conto. Mi corteggiarono diversi mercanti di discreto riguardo, e specialmente con grandissimo ardore un tizio, negoziante di tele, in casa del quale, dato che conoscevo sua sorella, andai ad abitare dopo la morte di mio marito. Qui ebbi tutta la libertà e opportunità che volli di spassarmela e frequentare compagnie, essendo la sorella di questo mio padrone di casa una delle più folli e gaie creature di questo mondo, e non così avara della sua virtù come avevo all'inizio creduto. Costei mi introdusse in un mondo disordinatissimo, e giunse al punto di portarsi a casa varie persone, di quelli che era suo gusto compiacere, perché facessero la conoscenza della bella vedova. E, dato che la fama e gli stupidi formano un solo consesso, io fui stavolta meravigliosamente vezzeggiata, ebbi ammiratori in abbondanza, e di quelli che si davano dell'innamorato; ma non trovai fra tutti un solo partito discreto. Quanto alla loro mira comune, quella la capivo fin troppo bene per lasciarmi attirare un'altra volta in lacciuoli di quel tipo. Il mio caso era cambiato ormai; avevo dei quattrini in tasca, e niente da dire a quella gente. Ero stata giocata una volta con quell'impostura che si chiama amore, e la partita era chiusa; ero decisa ormai di sposarmi o niente, di sposarmi bene o nemmeno pensarci.


Per la verità, la compagnia degli uomini spensierati e spiritosi mi piaceva, e spesso me ne venivano presentati, come pure di quegli altri; ma mi accorsi, per fondata osservazione, che i tipi più brillanti mi facevano le più sciocche proposte; sciocche, voglio dire, rispetto a quello che io cercavo. D'altronde quelli che venivano con le proposte migliori, erano la razza più sciocca e più spiacente del mondo. Non che io fossi contraria a un mercante; ma in questo caso avrei voluto un mercante, perdinci, che avesse anche un po' del gentiluomo; tanto che, se a mio marito fosse venuto in mente di portarmi a Corte o alla commedia, gli confacesse una spada e un portamento da gentiluomo tanto quanto a un altro; non come quelli che hanno ancora sulla giacca il segno dei legacci del grembiule, o il segno del cappello sulla parrucca, che hanno l'aria di essere attaccati alla spada e non la spada cinta a loro, e portano insomma il proprio commercio scritto in fronte.


Ebbene, alla fine trovai questo essere anfibio, questa creatura terracquea, detta un gentiluomo-mercante; e come giusto castigo della mia follia, venni presa nello stesso lacciuolo, che, posso ben dire, avevo teso io stessa.


Era anche lui un mercante di tele, poiché, sebbene la mia compagna avrebbe volentieri negoziato con me per conto del fratello, pure, quando si venne al punto, si trattava - pare - di diventare una semplice amante, e io mi tenevo stretta alla massima che una donna, la quale possieda i quattrini per farsi sposare, non dovrebbe mai restare una mantenuta.


E così il mio orgoglio, non i miei principi, il mio denaro, non la mia virtù, mi conservarono onesta; benché come poi si vide, avrei fatto molto meglio a lasciarmi vendere dalla mia amica al fratello piuttosto che vendermi da me, come feci, a un mercante che era un libertino, un gentiluomo, un negoziante e un pezzente, tutto in una volta.


Con il mio capriccio di sposare un gentiluomo, corsi così alla rovina e nel più grossolano dei modi che sia mai toccato a una donna; poiché il mio novello marito trovandosi di punto in bianco fra mano un bel gruzzolo, si buttò a fare una profusione di spese tali, che tutto il mio e tutto il suo insieme non avrebbero resistito un anno solo.


Fu innamoratissimo di me per circa tre mesi, e quello che ricavai dall'avventura, fu che almeno ebbi il piacere di vedergli spendere gran parte dei miei denari per me. «Senti, cara» mi disse un giorno, «vogliamo andare a fare un giretto in campagna, per una settimana?» «Ma sì, caro» risposi, «dove vuoi che andiamo?» «Non m'importa dove» mi disse, «ma ho in mente di comparire per una settimana come personaggi di qualità: andremo a Oxford» disse. «Ma come ci andremo?

Io non so montare a cavallo, e per una carrozza è troppo distante.» «Troppo distante!» esclamò; «non c'è distanza che tenga per un tiro da sei. Se ti porto fuori, dovrai viaggiare come una duchessa.» «Uhm» dissi, «mio caro, è una stravaganza; ma se proprio ci tieni, non importa.» E così fissammo il giorno; ci fu una ricca carrozza con ottimi cavalli, postiglione e due lacchè con bellissime livree; un gentiluomo a cavallo e un paggio, su un altro cavallo, con la piuma sul cappello. I servi chiamavano tutti mio marito Milord, e io ero Suo Onore la Contessa: viaggiammo così fino a Oxford e fu una bellissima gita, giacché, onore al merito, non c'era al mondo pezzente che sapesse fare il lord meglio di lui. Visitammo tutte le rarità di Oxford; discorremmo, con due o tre membri della facoltà, di mandarci a studiare un nipote che era stato affidato a Sua Signoria, e sarebbero stati loro stessi i suoi professori. Ce la spassammo a pigliare in giro vari altri disgraziati studiosi, facendo balenare loro la speranza di diventare cappellani di Sua Signoria e portare un giorno la sciarpa; e vissuti così veramente quanto a spesa come la gente del gran mondo, ci dirigemmo a Northampton e, a farla breve, dopo un giro di circa dodici giorni ritornammo a casa. Fu una zuppa di 93 sterline.


La vanità è la perfezione del fatuo. Mio marito aveva al massimo grado questa qualità: non considerava affatto lo spendere. E dato che la sua storia, potete esserne certi, ha in sé scarsissimo peso, basterà se vi dico che dopo circa due anni e tre mesi fallì, lo chiusero nel carcere provvisorio, e lui, dato che era stato arrestato per un debito tanto grosso che non poteva dare cauzione, mi mandò a chiamare.


Non fu una sorpresa per me, perché avevo previsto da un po' tempo che tutto sarebbe andato a rotoli, e mi ero adoperata per mettere, se potevo, qualcosa da parte per conto mio. Quando mi mandò a chiamare però, si comportò con me molto meglio di quanto non mi fossi aspettata. Mi disse chiaro e tondo che era stato un minchione e che si era lasciato cogliere alla sprovvista mentre avrebbe potuto pensarci prima; che ora prevedeva che non se la sarebbe cavata e perciò voleva che io tornassi a casa e durante la notte portassi al sicuro tutte le cose di qualche valore che possedevo; poi, che se mi riusciva di portare via dalla bottega un cento o duecento sterline di merce, lo facessi senz'altro. «Soltanto» avvertì, «non farmi sapere nulla, né quel che potrai prendere né dove lo porterai, perché quanto a me» disse, «sono deciso ad uscire di qua e andarmene; e se accadrà, mia cara, che tu non abbia mai più mie notizie ti auguro ogni bene; il mio solo rimpianto è per il danno che ti ho fatto.» Mi disse davvero delle parole molto nobili al momento del distacco, perché era un gentiluomo, come vi ho detto, e fu quello tutto il beneficio che trassi dalla sua finezza: mi trattò fino all'ultimo con ogni nobiltà, solo spese tutto quanto avevo e mi ridusse a derubare i creditori per mettere insieme di che tirare avanti.


Tuttavia, siate sicuri, feci come mi aveva indicato, e preso così congedo da lui, non lo vidi mai più, dato che trovò modo di evadere quella stessa notte, o la successiva, dal carcere provvisorio. Come abbia fatto non so, perché non riuscii a venire a saper altro che questo: rientrò in casa circa alle tre del mattino, fece trasportare quello che restava delle sue merci alla Zecca e chiuse la bottega, poi, messo insieme tutto il denaro che gli fu possibile, raggiunse la Francia, da dove mi vennero due o tre lettere sue e basta.


Non ci vedemmo quando tornò a casa, perché, sentite le sue istruzioni, io non avevo perso tempo e più nessun interesse rimaneva che mi richiamasse in casa, visto che poteva anche capitarmi di venirci trattenuta dai creditori Infatti, essendo stata emessa poco dopo una dichiarazione di bancarotta, avrebbero potuto trattenermi per ordine dei giudici. Ma mio marito, dopo la sua disperata evasione dal carcere, compiuta lasciandosi scivolare quasi dal tetto fin sul tetto di un altro edificio e di qui saltando da un'altezza di quasi due piani, cosa da rompersi l'osso del collo, tornò a casa e asportò la sua roba prima che i creditori venissero per il sequestro; vale a dire, prima che potessero ottenere la dichiarazione e raccogliere gli uscieri per la presa di possesso.


Mio marito fu con me tanto cortese - ripeterò ancora una volta che aveva molto del gentiluomo - che nella sua prima lettera mi faceva sapere dove aveva pignorato per 20 sterline venti pezze di tela d'Olanda che ne valevano più di 90 e accludeva la polizza per ricuperarle pagando; il che io feci, e a suo tempo ne ricavai più di 100 sterline, avendo agio di tagliarle e venderne a famiglie private, secondo che se ne presentava l'opportunità.


Tuttavia, con tutto ciò e con quanto avevo precedentemente messo da parte, mi accorsi, tirati i conti, che il mio caso era assai cambiato e la mia fortuna diminuita poiché, incluse le tele d'Olanda e un pacco di bella mussolina che mi ero assicurato in passato, e qualche po' d'argenteria e altro, mi accorsi che potevo a mala pena mettere insieme un 500 sterline; e la mia condizione era molto singolare perché, pur non avendo figli (uno ne avevo avuto dal mio gentiluomo- mercante, ma era morto e sepolto), pure ero una vedova disgraziata, avevo e non avevo un marito, e non potevo pretendere di sposarmi una seconda volta, benché fossi certa che mio marito non avrebbe più rimesso piede in Inghilterra, neanche se fosse vissuto altri cinquant'anni. In questo modo, ripeto, mi era precluso il matrimonio, qualunque occasione potessi trovare; e non avevo una sola persona amica con la quale consigliarmi nello stato attuale, o almeno tale da poterle confidare il segreto della mia situazione; dato che se i giudici arrivavano a essere informati del mio domicilio, io venivo senz'altro fermata e tutto quello che avevo da parte, confiscato.


Con questi timori, la prima cosa fu di trasferirmi in un luogo dove non fossi conosciuta, e assumere un altro nome. Questo feci veramente:

andai anch'io alla Zecca presi alloggio in un posto molto ritirato, mi vestii dei costume di vedova e mi feci chiamare la signora Flanders.


Qui, benché mi tenessi nascosta e le mie nuove conoscenze non sapessero niente di me, pure ebbi presto intorno una numerosa compagnia; e sia che le donne si trovino più rade fra la gente che si può frequentare in quel luogo, o che nelle miserie del luogo certe consolazioni siano più necessarie che in altre occasioni, ben presto mi accorsi che una donna piacente era una cosa incredibilmente preziosa tra quei figli della sofferenza: e che quegli stessi i quali non potevano pagare mezza corona per sterlina ai creditori e si indebitavano all'insegna del Toro per sfamarsi, trovavano sempre un po' di denaro per una cenetta se la donna andava loro a genio.


Comunque, per il momento mi mantenni intatta, benché cominciassi - come l'amante di lord Rochester che le piaceva stare con lui ma più in là non voleva andare - a godermi la fama di una baldracca senza goderne i piaceri; e fu per questa ragione che, stanca del posto, nonché della compagnia, cominciai a ventilare la mia partenza.


Era veramente argomento di strane meditazioni per me, il vedere uomini nelle più difficili circostanze, ridotti qualche grado più in basso della rovina, che, malgrado le loro famiglie fossero oggetto dei loro stessi terrori e della carità del prossimo, pure finché duravano padroni di un quattrino e anche di meno, si sforzavano di sommergere la loro infelicità nel vizio, continuando ad accumulare colpe, sudando per dimenticare azioni passate che sarebbe stato quello il momento giusto di ricordare, preparando insomma altra materia di pentimento e continuando a peccare come rimedio del peccato antico.


Ma non è per niente affar mio predicare; questi uomini erano troppo corrotti perfino per me. C'era qualcosa di orrendo e di assurdo nel loro modo di peccare, perché era tutta una violenza fatta a se stessi:

non solo agivano contro coscienza, ma contro natura, e niente era più facile che accorgersi dei sospiri che interrompevano i loro canti o del pallore e dello strazio che sedeva loro in fronte a dispetto degli sforzati sorrisi che fingevano. E anzi, qualche volta la verità usciva dalla loro stessa bocca, nell'attimo in cui buttavano il denaro in uno sfrenato festino o in un amplesso infame. Ne ho sentiti che, volgendosi, traevano un sospiro profondo esclamando: "Farabutto che sono! Eppure, Betty, anima mia, bevo alla tua salute": dove il disgraziato alludeva all'onesta moglie, che magari per sé e per i suoi tre o quattro bimbi, non aveva una mezza corona. L'indomani mattina rieccolo a recriminare, e magari la povera moglie in lacrime viene a cercarlo, portandogli il ragguaglio di quello che fanno i creditori, e come lei con i bambini sono stati buttati in strada, oppure qualche altra notizia tremenda; questo accresce materia al rimorso; ma quando il disgraziato l'ha rimeditata e scrutata fin che quasi è impazzito, non avendo principi che lo sostengano, niente dentro o sopra di sé che lo conforti, incontrando da ogni parte solo tenebra, si butta ancora una volta verso lo stesso ristoro, cioè si abbandona all'ubriachezza e alla libidine, e abbattendosi nella compagnia di uomini che sono nel medesimo suo stato, ripete il delitto e in questo modo ogni giorno procede di un passo sulla via della distruzione.


Io non ero abbastanza corrotta per una compagnia come quella. Al contrario anzi, cominciai a considerare seriamente che cosa dovessi fare: come andavano le mie cose e quale decisione potevo prendere.


Sapevo di non avere amicizie; no, nemmeno una sola amicizia o un parente nel mondo; e quel poco denaro che mi era rimasto, a vista d'occhio si consumava: per il giorno che fosse tutto sfumato non vedevo davanti a me altro che angoscia e fame. Su queste considerazioni, ripeto, e piena di orrore per il luogo dov'ero, mi decisi a sloggiare.


Avevo conosciuto un ottimo e sensato tipo di donna, anch'essa vedova come me, ma in migliori condizioni. Il marito era stato capitano di una nave e, capitatogli l'infortunio di un naufragio mentre era sulla via del ritorno dalle Indie Occidentali, si era così disperato della perdita che, per quanto avesse salva la vita, morì in seguito di crepacuore; e la vedova perseguitata dai creditori, fu costretta di rifugiarsi alla Zecca. Ben presto con l'aiuto di persone amiche si rimise in sesto e ritrovò la sua libertà; e sentendo che io ero rifugiata là più per tenermi nascosta che non per sfuggire a determinate azioni legali, e sentendo anche che andavo d'accordo con lei, o piuttosto lei con me, in un giusto aborrimento del luogo e della compagnia, mi invitò a venire a starmene con lei, fino a che non mi fossi rimessa in condizione di ristabilirmi nel mondo a mio gusto; dicendomi pure che potevo esser certa che qualche bravo capitano di nave si sarebbe invaghito di me e mi avrebbe fatta la corte, in quella parte della città dove lei abitava.


Accettai la sua offerta e passai con lei la metà di un anno: sarei rimasta anche di più se nel frattempo non fosse toccato a lei quello che aveva promesso a me: fece infatti un matrimonio vantaggiosissimo.


Ma andassero pure le fortune degli altri a gonfie vele, le mie facevano acqua assai, e non trovai niente in pronto se non qualche nostromo o simili. Quanto ai comandanti, essi erano generalmente di due specie. Primo: Quelli che, avendo un commercio bene avviato, vale a dire una buona nave, erano decisi a non sposarsi se non con vantaggio. Secondo: Quelli che, trovandosi con le mani in mano, erano alla ricerca di una moglie che fornisse loro una nave; e voglio dire:

Primo una moglie che, possedendo qualcosa, potesse metterli in grado di acquistare direttamente parte del possesso di una nave, in modo da incoraggiare i proprietari ad associarsi; oppure: Secondo una moglie che, se anche non aveva fondi, portasse però amicizie interessate nella navigazione e servisse così a sistemare il giovanotto su una buona nave. Nessuno dei due era il mio caso, ragion per cui avevo molto l'aria di dovermene restare in magazzino.


Questa verità la imparai ben presto per esperienza, vale a dire che lo stato delle cose in fatto di matrimonio non era più quello di una volta: i matrimoni si facevano qui in conseguenza di calcoli pratici, per stringere interessi, per far prosperare affari, e l'amore non c'entrava per niente, o ben poco, in tutta la faccenda.


Come la mia cognata di Colchester aveva detto, la bellezza, l'intelligenza, il garbo, l'amabilità, la condotta, l'educazione, la virtù, la pietà, e tutti gli altri pregi del corpo o dello spirito, non avevano nessun potere di aiutare: soltanto il denaro rendeva piacente la donna; gli uomini sceglievano sì le amanti secondo il gusto della propria inclinazione e a una baldracca si richiedeva che fosse bella, ben formata, di buon portamento e di contegno garbato, ma quanto a una moglie, nessuna deformità poteva urtare il senso e nessun difetto la stima; denari volevano essere; la dote non era mai storpia né mostruosa, e i quattrini arrivavano sempre graditi, comunque fosse la moglie.


D'altronde, dato che il mercato stava tutto nelle mani degli uomini, mi accorsi che le donne avevano perduto il privilegio di rispondere no; ch'era ormai un favore per una donna essere richiesta e che se qualche damigella aveva tanta arroganza da simulare un rifiuto, mai più le capitava l'opportunità di rifiutarsi una seconda volta e tanto meno di rimediare al suo passo falso accettando quello che aveva avuto l'aria di respingere. Gli uomini avevano una così larga scelta ovunque, che le cose andavano molto male per le donne; sembravano, insomma, sollecitare a tutte le porte, e se per strano caso uno di loro veniva respinto da una soglia, era sicuro che l'avrebbero accolto a quella a fianco.


Inoltre, osservai che gli uomini non si facevano scrupolo di mettersi a quella che chiamavano caccia di fondi, quando in realtà non avevano essi nessun fondo per appoggiarsi, né qualità per meritarli; e si davano tante arie, che alla donna non era neppure consentito di prendere informazioni sul carattere o sulla sostanza dell'individuo che le aveva posto gli occhi addosso. Di questo ebbi un esempio nella persona di una giovane della casa accanto, con la quale avevo contratto una certa intimità. Costei era corteggiata da un giovane capitano e, sebbene possedesse qualcosa come una sostanza di 2000 sterline, dato che s'informò presso certi vicini di lui sul carattere, sulla moralità e sulla ricchezza del pretendente, questi ne prese lo spunto per notificarle la prima volta che la vide che, francamente, la cosa gli aveva fatto una pessima impressione e che per il futuro non le avrebbe mai più dato il disturbo di una sua visita. Questa la sentii raccontare quando da poco avevo fatto conoscenza con la giovane. Andai allora a trovarla per parlargliene; lei intavolò a quel riguardo un'intima conversazione e si sbottonò liberamente. Presto mi accorsi che, per quanto giudicasse di essere stata villanamente trattata, pure non era in suo potere di risentirsene; e che quanto indicibilmente l'offendeva, era di aver perso quell'uomo, e in particolare che se lo fosse guadagnato un'altra meno ricca.


Cercai allora di infonderle forza contro quella che chiamavo la sua viltà; le dissi che io, per quanto più povera di condizione, avrei disprezzato un uomo che mi credesse tenuta a prenderlo sulla sua semplice raccomandazione; e le dissi pure che, con i mezzi di cui disponeva, non aveva nessuna necessità di abbassarsi alla disgrazia dei nostri tempi; che era già troppo che gli uomini insultassero noialtre dagli scarsi mezzi, ma, se anche lei tollerava senza risentirsene che le venisse fatto un simile affronto, avrebbe rinvilito il suo pregio per tutte le occasioni future. Le dissi che a una donna non può mancare mai l'opportunità di vendicarsi di un uomo che l'abbia ignobilmente trattata, e che maniere di umiliare un simile individuo ce n'erano ancora, altrimenti bisognava concludere che le donne fossero le più sventurate creature del mondo.


Piacquero assai queste parole alla mia amica, e mi disse seriamente che sarebbe stata felicissima di far sentire a quell'uomo il suo risentimento e riportarlo a sé oppure prendersi la soddisfazione di una vendetta quanto più pubblica possibile.


Io le dissi che, se voleva seguire il mio consiglio, le avrei mostrato come poteva portare a compimento il suo desiderio nell'una e nell'altra cosa, e mi sarei impegnata di riportare l'uomo alla sua porta e far sì che supplicasse per venire ammesso. Quella sorrise a sentire ciò e mi lasciò presto capire che, se mai l'uomo ritornava davanti alla sua porta, non era tanto grande il suo risentimento da permetterle di lasciarcelo a lungo.


Comunque, accolse molto volentieri la mia profferta di consiglio; e io le dissi che la prima cosa alla quale bisognava pensare, era un tratto di giustizia che lei doveva a se stessa, e cioè: laddove il capitano aveva sparso tra le signore di essere stato lui a troncare e aveva preteso di attribuire a sé il vantaggio del rifiuto, lei doveva fare in modo di diffondere tra le donne, e di fare questo non potevano mancarle le occasioni, che aveva presa qualche informazione sul suo conto e scoperto che non era poi l'uomo che si vantava di essere. "Che tutti sappiano inoltre, signora" dissi, "che quello non era l'uomo che voi credevate, e che non vi sembrò sicuro di impicciarvi con lui; che, secondo quanto avete sentito, era un caratteraccio e andava vantandosi di aver molto spesso maltrattato delle donne, e specialmente ch'era sregolatissimo in fatto di condotta morale" eccetera. Il quale ultimo appunto, a dire il vero, non mancava di verità; ma non mi sembrò che la mia amica tendesse per questo a trovare meno di suo gusto quell'uomo.


Con molta prontezza si convinse di tutto questo e si mise immediatamente all'opera per trovare gli strumenti. Non ci furono molte difficoltà nella ricerca, poiché raccontata la sua storia in generale a un paio di amiche pettegole, questa diventò la chiacchiera di ogni tavolino da tè in tutta quella parte della città, e io me la sentivo ripetere ovunque dove capitavo in visita. Inoltre, dato che era risaputo che io ero tra le conoscenze di quella damigella, molto spesso mi veniva richiesta la mia opinione, e confermavo la storia con tutti i necessari aggravamenti e presentavo il carattere dell'uomo sotto i più foschi colori; come spunto d'informazione confidenziale, aggiungevo quello che le pettegole ignoravano completamente, che avevo cioè sentito che l'uomo si trovava in una pessima situazione; che aveva necessità di un buon patrimonio per sostenere i suoi interessi davanti ai proprietari della nave da lui comandata; che il suo contributo non era ancora stato versato e, se non lo versava al più presto, i proprietari gli avrebbero tolta la nave e dato per successore il primo ufficiale, che si offriva di acquistare quella porzione che il capitano aveva promesso di prendere.


Aggiunsi, poiché il contegno di quella canaglia, come lo chiamavo, mi pungeva sul vivo, che avevo anche sentito una diceria su una moglie viva e verde a Plymouth e su una seconda nelle Indie Occidentali, cosa, come tutti sapevano, non troppo inconsueta fra quel tipo di gentiluomini.


Tutto questo fece l'effetto desiderato, perché in breve la damigella della porta accanto, fornita di un padre e di una madre che sorvegliavano lei e la sua sostanza, venne rinchiusa sotto chiave e il padre vietò al giovanotto l'accesso nella casa. E in un altro luogo ancora la donna ebbe, per quanto strano, il coraggio di rispondere no; e ormai il giovanotto non era più padrone di fare un tentativo, che non gli rinfacciassero la sua superbia e che lui pretendeva di negare alle donne il permesso di informarsi sul suo conto e cose del genere.


Era ormai venuta l'ora che cominciava a capire il suo sbaglio, e vedendo allarmate tutte le donne di questa riva del fiume, passò a Ratcliff e trovò accesso presso certe signore di laggiù; ma sebbene le giovani fossero anche là, secondo il brutto destino del nostro tempo, contentissime di venire richieste, pure ebbe tanta sfortuna che la sua fama lo seguì di là dal fiume, in modo che, per quanto avrebbe potuto trovare mogli in abbondanza, tuttavia non gli riuscì fra le donne che avevano discreti patrimoni, che era quanto cercava.


Ma non fu tutto. La mia amica inventò un altro stratagemma: indusse un giovane signore, suo parente, a venirle a far visita due o tre volte la settimana con un bellissimo cocchio e vistose livree. Allora le sue due intermediarie, e anch'io, spargemmo subito ovunque la voce che questo signore veniva a farle la corte; che era un signore che valeva mille sterline all'anno, che s'era innamorato di lei e che lei sarebbe andata a stare dalla zia nel centro, giacché non era conveniente che questo signore venisse a vederla con la sua carrozza a Rotherhithe dove le strade erano così anguste e impraticabili.


La cosa ebbe un effetto immediato. Del capitano si rise in tutte le riunioni, tanto che egli fu per darsi al diavolo: fece ricorso a tutti i possibili modi di riconquistarla, le scrisse le più appassionate lettere del mondo e, a farla breve, con la grande assiduità ottenne di nuovo il permesso di visitarla, come lui diceva, semplicemente per lavare il suo buon nome.


In quest'incontro la mia amica fece di lui piena vendetta, poiché gli disse che non capiva proprio per chi l'avesse presa, se pretendeva che lei in un negozio di così grande importanza com'era il matrimonio accettasse un uomo senza chiedere informazioni; che, se si immaginava di poterla trascinare a suo piacere alle nozze e che lei fosse nella condizione magari di certe vicine, di accogliere cioè il primo buon cristiano che si presentasse, si sbagliava; che, in una parola, il suo carattere era davvero pessimo, oppure aveva assai mal meritato dai vicini e che insomma, a meno che lui non fosse in grado di chiarire certi punti sui quali era giustamente prevenuta, non le restava altro da comunicargli, se non dargli la soddisfazione di sapere che lei non aveva paura di rispondere no né a lui né ad altri.


A questo punto gli disse quello che aveva sentito, o piuttosto escogitato essa stessa per mezzo mio, sul suo carattere: il fatto che lui non aveva ancora pagato la porzione della nave, come si andava dicendo; l'intenzione che avevano i proprietari di togliergli il comando e sostituirgli il primo ufficiale; lo scandalo che sollevava la sua condotta, essendogli rimproverate le tali donne e le talaltre; il fatto che aveva una moglie a Plymouth e una seconda nelle Indie Occidentali, e tutto il resto; e gli chiese se non aveva dunque delle buone ragioni, finché tutto non fosse chiarito, per rifiutarlo e insistere di essere soddisfatta su punti che erano tanto significativi.


Il giovanotto trasecolò talmente a questo discorso, che non seppe rispondere una parola, e la mia amica cominciava a credere, vedendolo tanto sottosopra, che fosse tutto vero, pur sapendo di essere stata lei la promotrice di quelle voci.


Egli tuttavia dopo un po' si rimise, e da allora fu il più umile, il più modesto, il più assiduo corteggiatore di questo mondo.


La mia amica gli chiese se la credeva proprio così ridotta alla disperazione da potere o dover tollerare un simile trattamento, e se non si era accorto che a lei piaceva chi non giudicasse indegno di sé esporsi un po' di più; voleva alludere a quel signore da cui si era fatta visitare per finta.


Con questi espedienti lo ridusse ad accettare tutte le misure che lei credé bene di prendere, tanto sulla sua condizione quanto sulla sua condotta. Egli le mostrò prove inequivocabili che aveva pagata la sua porzione di nave; le mostrò certificati dei proprietari dichiaranti falsa e infondata la diceria che intendessero togliergli il comando; insomma si dimostrò completamente l'opposto di quello che era stato prima.


E così la convinsi che se gli uomini l'hanno detta sul nostro sesso nella questione del matrimonio, presumendo che ci sia questa larghezza di scelta e che le donne siano tutte a portata di mano, il fatto è dovuto soltanto a questo, che alle donne è venuto meno il coraggio di tenere la loro posizione e che, secondo quanto dice lord Rochester:

"Non c'è donna ingannata nell'amore che non possa punire il seduttore".


Con tutto questo, la damigella recitò tanto bene la sua parte che, benché si fosse decisa a sposarlo, tuttavia gli rese la conquista di sé la cosa più difficile del mondo; e questo lo ottenne non già con un contegno altezzoso e riservato, ma con un'accorta prudenza, rifacendo il gioco di lui a sue spese, poiché com'egli aveva preteso di collocarsi, con una specie di disdegno, al disopra dell'obbligo di rispondere di sé, la mia amica lo attaccò proprio su questo punto e, nello stesso tempo che lo costringeva ad assoggettarsi a ogni immaginabile indagine sui fatti suoi, manifestamente gli sbarrò l'adito a ogni indiscrezione sui propri.


A lui era sufficiente ottenerla per moglie. Quanto al patrimonio, essa gli disse chiaro e tondo che, come lui conosceva le sue condizioni, era soltanto giusto che anch'essa conoscesse le sue; e benché fino ad allora egli non avesse saputo di lei se non quanto ne diceva la voce pubblica, pure le aveva fatte tante proteste d'amore appassionato che ormai non era più il caso di chiederle altro che la mano come il supremo dei favori, e simili sciocchezze che usano gli innamorati.


Insomma, non si era lasciata la minima opportunità di farle ulteriori domande sulla dote e la mia amica ne profittò collocando parte della sua sostanza - e a lui non disse niente - in certi depositi fuori della portata maritale, e di quanto restava egli si accontentò abbondantemente.


Era anche vero che lei stava discretamente, vale a dire che possedeva circa 1400 sterline in contanti, e queste gliele consegnò; gli altri li tirò fuori dopo qualche tempo come una gratificazione fatta a lui, che lui dovette accettare con un grandissimo favore, vedendo che, sebbene non vi dovesse mettere mano, potevano però alleviargli l'articolo delle spese personali di lei; e devo aggiungere che, davanti a questo contegno, quel signore non solo si fece più umile nelle sue sollecitazioni per ottenerla, ma fu altresì un marito tanto più compiacente quando lei divenne sua. E qui non posso altro che ricordare alle donne quanto esse stesse si abbassino sotto la comune condizione di moglie, che, se mi è consentito parlare senza parzialità, è già di per sé abbastanza bassa; dico che si abbassano da sé sotto la loro comune condizione e si preparano con le loro stesse mani le umiliazioni, assoggettandosi da parte dell'uomo ad insulti preventivi, dei quali confesso che non vedo la necessità.


Questo racconto può servire quindi a far vedere alle dame che il vantaggio non è poi tutto dall'altra parte, come gli uomini si immaginano; e che, anche se è vero che gli uomini hanno tra noi anche troppa facoltà di scelta e che si trovano delle donne capaci di disonorarsi, avvilirsi e accettare il primo venuto, tuttavia se gli uomini vogliono donne che valgano la pena le troveranno sempre pochissimo accessibili; e quelle che sono altrimenti, rivelano spesso tali difetti, una volta conquistate, da far preferire le dame difficili, più che non incoraggino gli uomini a persistere nelle loro facili conquiste e ad aspettarsi mogli di ugual pregio che accorrano al primo cenno.


Nulla è più certo del fatto che le dame hanno tutto da guadagnare con gli uomini, se tengano il loro posto e facciano vedere ai loro pretesi adoratori che sanno risentirsi contro chi non le abbia nel debito conto, e che rispondere un no non le spaventa. Gli uomini ci fanno una grossa ingiuria quando parlano del numero delle donne, e ripetono che la guerra, il mare, il commercio e altri accidenti hanno decimato così tanto il loro sesso che tra i due non c'è più proporzione; ma io sono ben lungi dal concedere che il numero delle donne sia così alto o quello degli uomini così basso. Se mi sarà lecito invece dire loro la verità, lo svantaggio delle donne risulta terribilmente a scandalo degli uomini e sta unicamente in questo: che, cioè, i tempi sono tanto corrotti e il loro sesso tanto depravato, che il numero di quegli uomini con i quali una donna onesta può decidersi ad avere a che fare, è davvero scarso, e soltanto di tanto in tanto ci si imbatte in un uomo con il quale una donna onesta possa correre il rischio.


Ma anche da quest'ultimo fatto non trarremo altra conseguenza se non questa: le donne stiano ancora più attente; che ne sappiamo noi infatti del vero carattere dell'uomo che ci fa la proposta? Dire che una donna dovrebbe essere più corriva in questo caso, è come dire che si debba essere più temerarie nell'osare perché il pericolo è maggiore, cosa chiaramente assurda.


D'altronde le donne hanno diecimila volte maggior ragione di essere caute e restie in quanto è più grande il rischio di essere tradite, e se le dame andassero un po' più caute, smaschererebbero ogni inganno che si presentasse; poiché, insomma, di ben pochi uomini oggi giorno la vita regge a un esame; e per poco che le dame si informassero, ben presto si metterebbero in grado di conoscere gli uomini e sapersi decidere. Quanto a quelle che non ritengono la loro sicurezza degna di un solo pensiero; che, impazienti del loro presente, si precipitano nel matrimonio come un cavallo nella battaglia, di esse non so dire altro che questo, che sono un genere di donne per cui giova pregare, come per tutta la gente squilibrata, e hanno l'aria di gente che rischia tutta la sua sostanza in una lotteria dove c'è una sola probabilità su centomila.


Nessun uomo che abbia senso comune considererà da meno una donna semplicemente perché non si arrende al primo attacco o perché non accetta la sua richiesta senza prima informarsi della persona o del carattere di lui; in caso contrario sì, la deve giudicare la più debole delle creature, tenuto conto dell'andazzo degli uomini, e insomma deve formarsi una ben vile opinione delle attitudini di questa donna che, avendo una sola opportunità nell'esistenza, butta senz'altro quest'esistenza e fa del matrimonio, come della morte, un salto nel buio.


Io sarei felice se il comportamento del mio sesso fosse più regolato in questo particolare, che è la stessa cosa per cui, di tutti i lati della vita, io credo che più soffriamo nel nostro tempo: nient'altro che mancanza di coraggio, paura di non sposarsi più, di quel terribile stato che si chiama essere vecchie zitelle. Questa, ripeto, è la trappola delle donne; ma, che le dame una volta tanto vincano questa paura e agiscano come si deve, ed eviteranno con maggior certezza quel pericolo tenendo il loro posto, in un caso da cui dipende così strettamente la loro felicità, che non mettendosi a repentaglio come fanno; e se non si sposeranno tanto presto, ci guadagneranno in questo, che si sposeranno meglio. Si è sempre sposata troppo presto colei che ha preso un cattivo marito; e mai troppo tardi colei che ne ha trovato uno buono. In una parola, non c'è donna - eccetto i casi di deformità o di reputazione perduta - la quale, purché sappia fare, non trovi una buona volta da sposarsi felicemente; ma se agisce precipitosamente, ha diecimila probabilità contro una di rovinarsi.


Ma vengo ora al caso mio, che a quel tempo era piuttosto difficile. Le circostanze in cui mi trovavo, mi rendevano la comparsa di un buon marito la cosa più necessaria di questo mondo, ma presto mi accorsi che mettendosi alla facile portata di tutti non se ne faceva niente.


Cominciò presto a venir fuori che la vedova non possedeva nulla, e dire questo era dire di me tutto il male possibile, poiché ero educata, bella, spiritosa, modesta e simpatica, tutte qualità che mi riconoscevo, se a ragione o a torto non è qui il caso di discutere. Ma tutte queste qualità erano niente, se mancava il metallo. A farla breve, la vedova, si diceva, non aveva quattrini.


Decisi quindi, che era necessario cambiare condizione, e fare una diversa comparsa in qualche altro posto; magari cambiare nome, se ne trovavo l'occasione.


Misi a conoscenza dei miei pensieri l'amica intima, la signora del capitano, che avevo tanto fedelmente aiutata nella sua avventura col capitano ed era disposta ad aiutarmi altrettanto, se volessi, in un caso simile. Non mi feci scrupolo di confidarle la mia situazione; i miei fondi erano piuttosto scarsi, dato che non avevo incassato che 540 sterline alla conclusione del mio ultimo affare, e per giunta ne avevo già spese; mi restavano tuttavia circa 460 sterline, un buon numero di vestiti molto ricchi, un orologio d'oro, qualche gioiello, che però non valeva eccessivamente, e circa 30 o 40 sterline in tele che non avevo ancora collocato.


La mia fedele e cara amica, la moglie del capitano, mi era tanto riconoscente per il servizio che le avevo reso nella suddetta faccenda, che non solo mi si dimostrò un'amica sicura, ma, sapendo della mia situazione, mi fece spesso dei regali secondo che aveva denaro in tasca, tanto che quasi posso dire mi mantenesse, e così non toccavo il mio. Infine mi fece questa infelice proposta: che, come avevamo visto in precedenza gli uomini non farsi scrupolo di presentarsi come gente meritevole di una donna ricca che fosse tutta per loro, così sarebbe stato solo giusto rendere loro la pariglia e, dove fosse possibile, ingannarli come loro ingannavano.


A farla breve, la signora del capitano mi ficcò in testa questo progetto e mi disse che, purché mi lasciassi guidare da lei, era certa che avrei trovato un marito danaroso, senza lasciargli la minima opportunità di ridire sulla mia penuria. Le risposi che mi sarei affidata pienamente ai suoi consigli e che in quella faccenda non avrei aperto bocca né fatto un passo se non secondo quanto mi avrebbe consigliato, contando che lei mi avrebbe districato da ogni difficoltà nella quale potessi ficcarmi. Di questo mi disse che rispondeva.


La prima mossa che mi fece fare, fu che io la chiamassi cugina e andassi in una casa di suoi parenti in campagna, dove mi indirizzò, e dove venne a farmi visita con il marito. Qui, chiamandomi cugina, condusse le cose in modo che tanto il marito che lei m'invitarono insieme con grande calore a venire in città loro ospite, poiché ora vivevano in tutt'altro luogo che non una volta. Successivamente, disse al marito che io ero padrona di almeno 1500 sterline e molto di più potevo avere, a quanto pareva.


Dire questo al marito, bastò: non serviva nulla da parte mia. Dovevo semplicemente starmene tranquilla in attesa degli eventi, dato che senz'altro si sparse la voce per tutto il vicinato che la giovane vedova ospite del Capitano... valeva un patrimonio, che possedeva 1500 sterline per lo meno, forse molto di più, e che l'aveva detto il capitano. Il quale, chiunque lo interrogasse sul mio conto, non si peritava di affermare la cosa, benché non ne sapesse niente del tutto, se non che gliel'aveva detto la moglie; e in questo non vedeva nessun male, dato che credeva fosse realmente la verità.


Con la fama di questa ricchezza, mi trovai ben presto provvista di un sufficiente numero di adoratori (ecco che avevo anch'io una larga scelta) come piaceva loro di chiamarsi, e, sia detto di passata, questo conferma quanto sostenevo prima. Questo essendo il caso, a me, che avevo una difficile partita da giocare, non restava altro ora che scegliere fra tutti quell'uomo che avrebbe meglio fatto al caso mio; cioè quello che con le maggiori probabilità si sarebbe fidato delle voci di ricchezza e non avrebbe indagato troppo a fondo nei particolari. Se non potevo riuscire in ciò, non sarei riuscita in nulla, poiché la mia condizione non era tale da reggere a una attenta indagine.


Scelsi il mio uomo senza troppa difficoltà, dal semplice giudizio che mi feci del suo modo di corteggiarmi. L'avevo lasciato sbizzarrirsi nelle sue proteste che mi amava sopra ogni cosa al mondo; che, se accettavo di farlo felice, questo gli bastava; tutte cose, lo sapevo, fondate sulla supposizione della mia gran ricchezza, della quale tuttavia io non avevo fatto parola.


Era il mio uomo, ma volevo sperimentarlo a fondo; e proprio in questo stava la salvezza, perché, se esitava, sapevo di essere perduta, con la stessa certezza che era perduto lui se si decideva a prendermi, e non muovergli qualche difficoltà sulle sue sostanze, era il vero modo per portarlo a muoverne sulle mie. Prima di tutto, perciò, in tutte le occasioni ostentai di mettere in dubbio la sua sincerità e gli dissi che probabilmente mi corteggiava solo per i miei denari. Qui mi tappò la bocca con il diluvio delle suddette sue proteste, ma io continuavo a mostrare di dubitare.


Un mattino nella mia camera si toglie l'anello di diamante e scrive sul vetro della finestra questo verso:

"Amo soltanto voi, voi sola!".


Io lessi, e lo pregai di prestarmi l'anello con il quale scrissi sotto così:

"In amore di tutti è parola".


Egli mi prese l'anello, e scrisse un altro verso, come segue:

"La virtù sola è un gran tesoro".


Gli richiesi l'anello e scrissi sotto:

"Ma la virtù è il denaro, il fato è l'oro".


Divenne rosso come il fuoco a vedermi ribattere con tanta prontezza e in una sorta di furia mi disse che mi avrebbe conquistata, e scrisse ancora:

"Disprezzo l'oro, eppure vi amo".


Arrischiai ogni cosa su un ultimo verso, come potete vedere, poiché scrissi audacemente sotto gli altri:

"Quest'affetto (son povera) vediamo".


Era questa per me una triste verità; se mi prestasse o no fede allora, non so: supponevo di no. Comunque, mi corse addosso, mi prese tra le braccia e, baciandomi con il massimo desiderio e con il più grande immaginabile trasporto, mi tenne stretta finché non si fece portare penna e calamaio e mi disse che gli scappava la pazienza a scrivere fastidiosamente sul vetro, ma prendendo un foglio, buttò giù quanto segue:

"La vostra povertà è un ricco partito".


Io presi la penna e feci senz'altro seguire questo verso:

"Ma in segreto sperate abbia mentito".


Mi disse allora che ero scortese perché non agivo bene provocandolo così a contraddirmi, cosa che non era compatibile con le buone maniere, e quindi, dato che l'avevo a poco a poco tirato a buttare giù versi, mi pregava di non costringerlo a smettere. E scrisse un'altra volta:

"D'amore solamente vi parlai".


Io scrissi rispondendo:

"Chi non odia, ama assai".


Egli prese questa risposta nel senso di un favore, e allora depose le armi, voglio dire, la penna. Ripeto che la prese come un favore, e grande era questo favore, se avesse saputo ogni cosa. Comunque la prese come io avevo voluto, vale a dire, che gli lasciavo intendere di essere disposta a continuare con lui, come realmente avevo buone ragioni per fare, considerando che era il più bonario e gaio dei tipi che avessi mai incontrato; e spesso riflettevo come fosse un doppio delitto ingannare un uomo simile, ma quella necessità, che mi imponeva una sistemazione conveniente al mio stato, mi autorizzava. Era un fatto che il suo attaccamento per me e la bonarietà del suo carattere, per quanto potessero cospirare contro il disegno di trattarlo indegnamente, pure giovavano anche molto a convincermi che meglio avrebbe sopportata la delusione lui, che non una vittima di sangue bollente, non ricco di altri pregi che di quelle stesse passioni che servono a fare l'infelicità di una donna.


D'altra parte, anche se con lui avevo scherzato (secondo quanto lui supponeva) tante volte sulla mia povertà, certamente si era già precluso ogni specie di protesta per il giorno in cui la verità fosse venuta a galla, dato che, facesse sul serio o per scherzo, aveva pure dichiarato di prendermi senza il minimo riguardo alla dote e, per scherzo o sul serio, io mi ero confessata poverissima; e così, a farla breve, lo tenevo in tutti e due i sensi e per quanto avrebbe potuto dirsi in seguito truffato, non avrebbe però mai potuto accusarmi della truffa.


Da questo giorno mi incalzò da presso e, dato che vedevo bene che non c'era nessun pericolo di perderlo, recitai con lui la parte dell'indifferente più a lungo di quanto in un altro caso la prudenza non mi avrebbe consigliato; ma tenni conto di quanto questa cautela e questa riluttanza mi avrebbero avvantaggiata su di lui per il giorno che avrei dovuto confessargli il mio vero stato; e condussi la cosa con anche maggiore circospezione, accorgendomi che egli interpretava la mia condotta nel senso che dovevo avere una sostanza oppure un senno ancor più grandi di quanto non apparissero, e che perciò non volevo rischiare.


Mi presi un giorno la libertà di dirgli che davvero lui mi aveva usato la cortesia che si conviene a un innamorato, di essere disposto cioè a prendermi senza indagare come stessi a sostanze, e che io l'avrei ricompensato degnamente, vale a dire, mi sarei informata della sua sostanza quel minimo che era compatibile con la ragionevolezza, ma speravo che mi avrebbe permesso di fargli qualche domanda, alla quale avrebbe o no risposto secondo come gli fosse parso; e una di queste domande era a proposito del modo come saremmo vissuti e dove, poiché avevo sentito dire che possedeva una grande piantagione nella Virginia e io - gli dissi - ci tenevo poco a essere deportata.


Cominciò subito dopo questo discorso a iniziarmi spontaneamente allo stato dei suoi affari e a descrivermi in modo franco e aperto la sua reale condizione, dove seppi che non se la passava per niente male; ma che gran parte della sua sostanza consisteva in tre piantagioni che possedeva nella Virginia e queste gli fruttavano un'ottima rendita di circa 300 sterline all'anno, ma che, se fosse andato a stabilirsi sul posto, gli avrebbero fruttato quattro volte tanto. "Benissimo" io pensai, "mi porterai laggiù quando vorrai, ma non te lo dirò certo prima." Scherzai con lui sulla figura che avrebbe fatto nella Virginia, ma mi accorsi che era pronto a qualunque mio desiderio, e allora girai la storia. Gli dissi che avevo buone ragioni per non accettare di andare a stabilirmi laggiù; dato che le sue piantagioni valevano tanto in quel paese, le mie sostanze non erano certo adatte a un gentiluomo da 1200 sterline all'anno, come mi aveva detto che le sue proprietà frutterebbero.


Rispose che la cifra delle mie sostanze non voleva saperla; così mi aveva detto fin dall'inizio e avrebbe mantenuta la parola; ma qualunque fosse il loro ammontare, mi assicurava che non mi avrebbe mai sollecitata di venire con lui nella Virginia, oppure ci sarebbe andato da solo, a meno che non mi decidessi io stessa.


Tutto questo, vi assicuro, era secondo il mio desiderio, e invero nulla avrebbe potuto succedermi di più gradito. Finora non avevo smesso di ostentare una tale indifferenza che spesso lo fece meravigliare, e di questo parlo essenzialmente perché una volta ancora le dame si convincano che null'altro, se non la mancanza del coraggio di una simile indifferenza, avvilisce tanto il nostro sesso e lo predispone a essere così villanamente trattato com'è infatti: se osassero ogni tanto rischiare la perdita di qualche pretendente bellimbusto, che si dà grandi arie sulla forza dei suoi meriti, certamente sarebbero meno neglette e più corteggiate. Se ora gli avessi rivelato quali erano le mie grandi sostanze, e che tutto sommato non arrivavano a 500 sterline mentre lui se ne attendeva 1500, pure lo avevo ormai avvinghiato così bene e governato così a lungo, che potevo essere sicura che mi avrebbe presa anche nella peggiore fortuna; e veramente per lui, quando seppe la verità, fu una minor sorpresa di quello che avrebbe potuto essere, poiché non avendo il minimo biasimo da farmi, visto che fino all'ultimo mi ero tenuta su un'aria d'indifferenza, non gli rimaneva niente da ridire eccetto che insomma aveva sperato di più ma, risultando di meno, non per questo si pentiva dell'affare; mi avvertiva solo che non sarebbe più stato in grado di mantenermi con il lusso che si era ripromesso.


A farla breve, ci sposammo, e fu per me un matrimonio felicissimo, vi assicuro, quanto alla persona; poiché nessuna donna, credo, ebbe mai un marito così compiacente; tuttavia il suo stato non risultò così florido come mi ero immaginato, come d'altra parte neppure lui trovò da migliorare quanto s'era ripromesso.


Quando fummo sposati, mi ci voleva molta furbizia per metterlo a conoscenza del mio capitaluccio e fargli intendere che non c'era altro; eppure era necessario. Colsi dunque l'occasione un giorno che eravamo soli e ricominciai con lui un breve dialogo al riguardo. «Mio caro» dissi, «da quindici giorni siamo marito e moglie; non ti sembra l'ora che tu venga a sapere se hai preso una moglie che ha qualcosa oppure una spiantata?» «Quando faccia comodo a te, cara» mi rispose; «a me basta la moglie che amo; non puoi dire che ti abbia troppo infastidito» aggiunse, «con le mie insistenze.» «E' vero» dissi, «ma c'è in questo una grossa difficoltà che proprio non so come affrontare.» «Che cos'è, mia cara?» mi chiese. «Ecco» dissi, «è dura per me, ma è più dura per te. Sento che il Capitano...» (alludevo al marito dell'amica) «ti ha detto che io sono molto più ricca di quello che io abbia mai preteso di essere, e il fatto è che io non l'ho mai pregato di questi servigi.» «Ebbene?» disse lui. «Il Capitano... può avermi detto questo, ma che importa? Se tu non hai quanto dice, se ne vergogni lui; tu non mi hai fatto cifre e quindi non avrei motivo di rimproverarti se anche tu non avessi un soldo.» «Questo è talmente giusto» risposi, «e talmente generoso che mi addolora doppiamente di non averne che poco.» «Meno tu hai, mia cara» disse, «peggio staremo tutti e due; ma spero che il tuo dispiacere non nasca dal timore che io ti voglia trattare duramente perché non hai una dote. No, no, se non hai niente, dimmelo chiaro; al Capitano può darsi che rimprovererò di avermi ingannato, ma quanto a te non posso dirlo, questo: non ammettevi anzi tacitamente di essere povera? avrei dovuto aspettarmelo.» «Ebbene» dissi, «caro, sono felice di non avere avuto mano in questo inganno prematrimoniale. Se ti ingannerò da ora in avanti, non sarà così grave; che sono povera, è la verità, ma neanche sono poi così povera da non avere proprio nulla» e in così dire estrassi certe polizze di banca e gliene consegnai per 160 sterline. «Ecco qualche cosa, caro» dissi, «e non è ancora tutto.» Con quanto avevo detto prima, l'avevo ormai così preparato a non aspettarsi più niente, che quel denaro, per quanto in sé la somma fosse esigua, gli giunse doppiamente gradito; riconobbe che era più di quanto si aspettava, e che, dopo il discorso che gli avevo fatto, non aveva più nemmeno dubitato che i miei vestiti belli, l'orologio d'oro e uno o due anelli di brillanti non fossero tutta la mia ricchezza.


Lasciai che si rallegrasse di quelle 160 sterline per qualche giorno, e poi essendo uscita in città, quasi fossi andata a incassare, gli portai altre 100 sterline in oro e gli annunciai che per lui c'era ancora qualche cosetta; e, a farla breve, in circa una settimana gli portai altre 180 sterline e circa 60 in tele, che gli feci credere di essere stata costretta ad accettare, insieme con le 100 in oro che gli avevo già dato, come accomodamento di un credito di 600, alla valutazione privilegiata di poco più di cinque scellini per sterlina.


«E stavolta, mio caro» gli dissi, «sono molto spiacente di doverti annunciare che ti ho consegnato tutte le mie sostanze.» Aggiunsi che se la persona che aveva le mie 600 sterline non mi avesse truffata, io avrei potuto portargliene 1000, ma che così com'erano andate le cose, ero stata leale e niente avevo trattenuto per me: se fossero state di più, gliele avrei date.


Egli fu così contento della mio modo di comportarmi e lieto della somma poiché aveva provato un terribile spavento che davvero non avessi niente del tutto, che l'accettò con immensa gratitudine. E così venni a capo dell'imbroglio di passare senza un soldo per un ricco partito, e di raggirare in questo modo un uomo al punto di farmi sposare. Dirò di passata che questa è però una delle mosse più rischiose che una donna possa fare e quella con cui maggiormente si espone a cattivi trattamenti per il futuro.


Mio marito, per dargli quello che gli spetta, era una persona di infinita bontà ma non era però uno sciocco; e accorgendosi che i suoi redditi non consentivano il modo di vita che aveva pensato di condurre se io gli avessi portato quanto aveva sperato, e deludendolo il ricavo delle sue piantagioni nella Virginia, mi fece sentire spesso la sua voglia di andare laggiù a vivere del suo; e spesso prendeva a magnificare quella maniera d'esistenza: quant'era facile, quanto abbondante, quanto piacevole e via dicendo.


Ben presto io capii la sua intenzione, e gliene parlai chiaro e tondo un mattino; gli dissi che capivo; che vedevo come le sue proprietà non valevano più niente a quella distanza, a fronte di quello che avrebbero fruttato se ci fossimo trovati sul posto; e che mi ero accorta che aveva intenzione di andare a viverci: non ignoravo che il matrimonio gli aveva portato una delusione e, viste le sue speranze insoddisfatte da una parte, non mi rimaneva altro, per risarcirlo, che annunciargli che ero dispostissima ad andare con lui nella Virginia e abitarci.


Mi disse allora mille cose affettuose sul fatto che io gli avessi proposta una cosa simile. Mi assicurò che, sebbene fosse stato deluso nelle sue speranze di una sostanza, sua moglie non era una delusione e che io gli davo tutto quello che una moglie può dare, ma che la mia ultima proposta era tanto affettuosa, che non sapeva nemmeno dire quanto.


A far breve questa storia, decidemmo di partire. Mi disse che laggiù aveva un'ottima casa, bene arredata, dove ci stavano sua madre e una sorella, che erano tutta la sua parentela; che non appena fosse arrivato lui, quelle si sarebbero trasferite in un'altra casa che vita natural durante avrebbe appartenuto alla madre e, lei morta, a lui; in modo che la casa sarebbe stata tutta per me, e trovai infatti ogni cosa esattamente secondo quanto mi aveva detto.


Caricammo sulla nave che ci trasportò arredi in abbondanza per la nostra casa, provviste di tele e altri generi e un buon carico da smerciare; e partimmo.


Fare un ragguaglio del modo in cui si svolse il nostro viaggio, che fu lungo e pieno di pericoli, è fuori dalle mie intenzioni; io non tenni nessun diario, e neppure lo tenne mio marito. Tutto quanto posso dire è che dopo una tremenda traversata, corso due volte lo spavento di burrasche orribili e, un'altra volta, di un caso anche più tremendo, vale a dire i pirati, che salirono a bordo e ci portarono via quasi tutte le provviste, e - cosa che per me sarebbe stata la rovina suprema - avevano già preso con sé mio marito, ma poi dalle mie suppliche si lasciarono piegare a liberarlo; dopo tutti questi casi tremendi, dico, sbarcammo a York River nella Virginia e, giunti nella piantagione, vi fummo accolti dalla madre di mio marito con tutta la tenerezza e l'affetto che si può immaginare.


Vivemmo là tutti insieme: la mia suocera su mia preghiera restando con noi, poiché essa era una madre troppo affettuosa perché potessi separarmene. All'inizio anche mio marito continuò tale e quale, e io mi giudicavo la più felice delle creature, quando un avvenimento bizzarro e inaspettato pose fine in un attimo a tutta la mia felicità e rese la mia condizione la più penosa del mondo.


La mia suocera era una vecchia allegra e piena di buon umore quant'altre mai - posso chiamarla vecchia giacché suo figlio aveva più di trent'anni - e, ripeto, era piacevolissima, di ottima compagnia, e a me in particolare raccontava per divertirmi un visibilio di storie tanto sul paese dove ci trovavamo che sui suoi abitanti.


Tra l'altro, molte volte mi spiegò che la maggior parte degli abitanti di quella colonia c'erano venuti dall'Inghilterra in condizione molto bassa, e che, in generale, erano di due tipi: primo, quelli che vi avevano portato i padroni delle navi allo scopo di venderli come servi; secondo, i deportati condannati per delitti passibili della pena di morte.


«Quando arrivano qua» mi disse, «noi non facciamo differenze; i piantatori li comprano, e lavorano tutti insieme nei campi finché non hanno scontata la pena. Finita questa» continuò, «li incoraggiamo a coltivare per loro conto, poiché il paese assegna loro un certo numero di acri di terra, ed essi si mettono al lavoro di dissodare e ripulire il terreno; poi vi piantano tabacco e cereali per loro uso, e dato che i mercanti li forniscono di utensili e dei generi necessari sul credito del raccolto prossimo, essi tutti gli anni intensificano la coltivazione rispetto all'anno precedente e acquistano tutto quello di cui hanno bisogno con il raccolto che aspettano. Da questo nasce, figlia mia» disse, «il fatto che molti avanzi di galera diventano personaggi di peso e c'è qui» concluse, «più di un giudice di pace, di un ufficiale delle squadre di vigilanza e di un magistrato di città, che ha la mano marchiata.» Stava continuando nella storia, quando la parte che lei stessa vi aveva la fece interrompere, e con una certa dose di bonaria confidenza mi spiegò che anche lei apparteneva alla seconda specie di coloni; che l'avevano pubblicamente deportata, essendosi spinta tanto oltre in una certa circostanza da diventare una delinquente. «E questo è il contrassegno, figlia mia» aggiunse, e mi tese un braccio e una mano delicati e candidi, ma la palma della mano era marchiata a fuoco, come appunto deve essere in questi casi.


Il racconto mi commosse molto, ma la mia suocera mi disse sorridendo:

«Non ti deve sembrare strano tutto questo, figliola, perché in questo paese parecchi dei personaggi di maggior conto hanno il marchio sulla mano, e non si vergognano di confessarlo. C'è il Maggiore...» disse, «ch'era un distinto borsaiolo; c'è il Giudice Ba...r ch'era uno scassinatore di negozi, e tanto l'uno che l'altro sono stati marchiati; e potrei nominartene molti come questi».


Spesso facevamo discorsi di questo genere, che lei infiorettava di abbondanti esempi. Dopo qualche tempo - mi stava raccontando certe storie di un tale deportato da poche settimane - io cominciai a pregarla in modo molto confidenziale di raccontarmi qualche episodio della sua storia; cosa che fece con la massima schiettezza e sincerità, e mi spiegò come a Londra si era imbattuta ai tempi in cui era giovane, in pessime compagnie e l'occasione era stata che sua madre la mandava spesso a portare vettovaglie per una sua parente rinchiusa a Newgate in uno stato miserando di fame; la quale parente venne poi condannata a morte, ma avendo ottenuto il rinvio con una protesta di gravidanza, in seguito era morta in carcere.


A questo punto la mia suocera si diffuse in una lunga descrizione degli infami costumi di quel posto orrendo. «Ragazza mia» disse, «può darsi che tu ne sappia ben poco, o, magari, non ne abbia mai sentito parlare; ma puoi credermi» fece, «se ti dico quello che tutti sappiamo: crea più ladri e furfanti quell'unico carcere di Newgate che non tutti i ridotti e le combriccole di delinquenti dell'intera nazione; è quel luogo maledetto» riprese, «che fornisce metà degli abitanti di questa colonia.» E qui continuò la sua storia tanto a lungo e in modo così particolareggiato che cominciai a sentirmi molto a disagio; ma quando arrivò a un particolare per il quale fu necessaria la menzione del suo nome, credetti di caderle svenuta sotto gli occhi. Si accorse che non ero più in me e mi chiese se non stavo bene e che cosa mi faceva soffrire. Le risposi che ero tanto afflitta dalla triste storia che mi aveva raccontata che mi sentivo sopraffatta e la supplicavo di non continuare. «Ma, mia cara» mi disse affettuosamente, «perché queste cose ti dovrebbero dare pena? Sono fatti avvenuti che tu non eri nemmeno ancora al mondo, e adesso a me non danno più nessuna pena; anzi ci ripenso con soddisfazione particolare visto che è per mezzo loro che sono finita in questo posto.» Poi continuò a raccontarmi com'era capitata in una buona famiglia dove per il suo buon comportamento e per la morte della padrona la sposò il padrone, e da lui aveva avuto mio marito e sua sorella; come, una volta morto il marito, aveva con la diligenza e la buona amministrazione migliorato le piantagioni fino al punto in cui le vedevo, così che la massima parte della proprietà era opera sua e non di suo marito, dato che era vedova da più di sedici anni.


Questa parte del racconto la sentii con scarsissima attenzione, poiché non desideravo altro che ritirarmi e dare sfogo alla passione.


Giudichino tutti l'angoscia del mio spirito, quando mi trovai a riflettere che quella donna certissimamente non era né più né meno che mia madre e che io avevo ora avuto due figli, ed ero già incinta di un terzo, per opera di mio fratello e ogni notte dormivo con lui.


Fui allora la più infelice delle donne di questo mondo. Oh! se la storia non mi fosse stata mai raccontata tutto sarebbe andato bene; non sarebbe stato un delitto giacermi con mio marito, quando non l'avessi saputo.


Avevo ora un tale peso sul cuore, che mi teneva incessantemente sveglia; rivelare la cosa, non mi sembrava che sarebbe giovato a niente, eppure tenerla nascosta sarebbe stato poco meno che impossibile; anzi, non avevo dubbi che avrei parlato nel sonno e l'avrei rivelata a mio marito in qualunque caso. Se palesavo la cosa, il meno che potevo aspettarmi era di perdere il marito, poiché era un uomo troppo per bene e troppo onesto per continuare a trattarmi come moglie, una volta saputo che io ero sua sorella. Cosicché me ne stavo tanto perplessa da non potersi dire.


Lascio a chiunque giudicare le difficoltà che si presentavano alla mia mente. Ero lontana dal mio paese nativo, di una lontananza addirittura paurosa e la traversata di ritorno era per me impossibile. Vivevo con una certa comodità, ma ormai in una situazione di per se stessa insopportabile. Se mi fossi palesata con mia madre, poteva riuscirmi molto difficile convincerla di ogni particolare, e di prova non ne avevo nessuna. Dall'altra parte, se solo mi faceva domande o non mi credeva senz'altro, per me sarebbe stata la rovina, dato che il semplice accenno della cosa mi avrebbe immediatamente separata da mio marito senza tirare né lui né la madre dalla mia; cosicché tra lo smarrimento da una parte e l'incertezza dall'altra, la mia rovina sarebbe stata certa.


Nello stesso tempo, dato che della cosa io ero anche troppo sicura, vivevo in stato aperto e riconosciuto d'incesto e prostituzione, e tutto questo sotto l'apparenza di essere una buona moglie. Non tanto mi preoccupava la materialità del delitto, quanto che quell'atto aveva in sé qualcosa di repulsivo alla natura e mi rendeva mio marito persino disgustoso. Tuttavia, pensandoci nel modo più pacato di cui fui capace, decisi che era assolutamente necessario tenere tutto nascosto e non farne il minimo cenno né a mia madre né a lui; e vissi così nella massima angustia per altri tre anni.


Per tutto questo tempo mia madre continuò spesso a raccontarmi vecchie storie delle sue passate avventure che, tuttavia, non mi erano in nessun modo gradite, poiché per esse, se anche lei non me lo diceva chiaro, potevo però capire, aggiungendovi quel che io stessa sapevo da chi nei primi anni si era occupato di me, che in gioventù era stata prostituta e ladra; ma in verità credo che con l'andare degli anni si fosse poi sinceramente pentita di tutto, e che attualmente fosse una donna molto pia, molto posata e religiosa.


Insomma, qualunque fosse stata la sua vita di un tempo, una cosa era certa: la mia era diventata per me insopportabile, dato che vivevo, come ho detto, nel più orribile stato di prostituzione, e come non potevo ripromettermene niente di buono, così in verità non ne venne nessuna buona riuscita e tutta la mia apparente prosperità andò in fumo e si concluse nel dolore e nella distruzione. Ci volle ancora qualche tempo, a dire il vero, prima che giungessimo a questo, ma tutto cominciò a riuscirci male in seguito e, ciò che era peggio, mio marito cambiò stranamente, si fece bisbetico, geloso, scortese, e io fui altrettanto impaziente di questa sua trasformazione, da quanto la trasformazione era irragionevole e ingiustificata. Le cose andarono tanto avanti e noi ci riducemmo infine tanto ai ferri corti, che io lo richiamai a una promessa che di buona voglia mi aveva fatto quando avevo consentito a partire con lui dall'Inghilterra, la promessa cioè che, se non mi fosse piaciuta la vita di laggiù, avrei potuto ritornarmene in Inghilterra quando avessi voluto, previo avviso di un anno per dargli il tempo di ordinare i suoi affari.


Ripeto, invocai questa sua promessa, e devo confessare che neppure lo feci nei termini più riguardosi che avrei potuto usare; ma insistetti sul fatto che mi trattava in malo modo, che io ero lontana dalle mie amicizie e non potevo farmi giustizia; che si dimostrava geloso senza averne motivo, dato che tutta la mia condotta era irreprensibile e nessun pretesto poteva invocare: che insomma la mia partenza per l'Inghilterra gli avrebbe tolta ogni occasione di continuare.


Insistetti così decisamente sulla mia richiesta che lui non poté esimersi dall'affrontare il punto: o mantenermi la parola data o romperla; e tutto questo, nonostante facesse uso di ogni sua capacità e muovesse la madre e dei terzi per convincermi a cambiare parere; dato che la mia decisione mi stava radicata nel cuore e ciò rendeva infruttuosi tutti i suoi sforzi, avendo io ormai allontanato da lui il mio cuore. Aborrivo dal pensiero di giacergli ancora insieme e ricorrevo a infiniti pretesti di malattia e di umore per impedirgli di toccarmi, poiché niente mi faceva più paura che il trovarmi un'altra volta incinta, cosa che avrebbe certo impedito o per lo meno differito la mia partenza per l'Inghilterra.


Alla fine però l'ebbi ridotto a un tale stato di disperazione ch'egli si appigliò a uno sconsiderato e fatale partito, che insomma non dovevo ritornare in Inghilterra; che, sebbene tenessi la sua parola, pure era troppo irragionevole la cosa; che per i suoi affari sarebbe stata la rovina, avrebbe scardinato tutta la famiglia e sarebbe equivalso a una capitolazione nel mondo; che perciò non dovevo pretendere tanto da lui e che nessuna moglie al mondo rispettosa della propria famiglia e delle sostanze del marito si sarebbe sognata di insistere su una cosa simile.


Questo mi ricacciò nella costernazione, perché quando consideravo con calma la faccenda e pensavo chi in realtà fosse mio marito, un uomo essenzialmente sollecito e prudente e che niente sapeva della spaventosa condizione in cui mi trovavo, non potevo non riconoscere a me stessa che la mia soluzione era troppo irragionevole e quale nessuna moglie preoccupata del bene della propria famiglia avrebbe potuto vagheggiare.


Ma di ben altra natura erano i miei scontenti: io non lo consideravo più come marito, ma bensì come uno stretto parente, il figlio di mia madre, ed ero decisa in un modo o nell'altro a liberarmene: come, però, non sapevo.


Certi malevoli dicono del nostro sesso che, se siamo fissate su qualcosa, non è possibile distoglierci dalla nostra decisione.


Insomma, io non smettevo un istante di rimuginare sui mezzi per riuscire nel mio intento di partire e arrivai finalmente con mio marito al punto di proporgli di andarmene da sola. Questo lo fece scoppiare, e non solo mi diede della moglie ingrata, ma anche della madre snaturata e mi chiese come facevo a nutrire senza orrore un simile pensiero com'era quello di abbandonare senza madre i miei due figli (uno era morto), per non vederli mai più. Era vero: se tutto fosse stato normale, non avrei mai fatta una cosa simile, ma ora era il mio solo desiderio di non vederli, né loro né lui, mai più; e quanto all'accusa di snaturatezza, mi era facile risponderle dentro di me, quando sapevo che tutta la nostra relazione era snaturata al massimo grado.


Tuttavia, non c'era modo di ottenere qualcosa da mio marito; egli non voleva saperne né di venire con me né di lasciarmi partire da sola; quanto ad andarmene senza il suo consenso, non mi era possibile, come sanno bene tutti quelli che conoscono la costituzione di quel paese.


A questo riguardo avemmo molte contese in famiglia, che cominciavano a diventare eccessive; poiché io mi ero completamente disaffezionata da lui e non badavo più che tanto alle mie parole, ma a volte gli parlavo un linguaggio che era una provocazione; a farla breve, cercavo con ogni sforzo di costringerlo a separarsi da me, cosa che desideravo sopra tutto il resto.


Egli prese questo mio contegno molto male e realmente non aveva tutti i torti, poiché alla fine rifiutai di giacere ancora nel suo letto, e dato che in tutte le occasioni portava la rottura all'esagerazione, mi disse una volta che pensava fossi pazza e che, se non cambiavo sistema, mi avrebbe messa in cura: vale a dire in un manicomio. Gli risposi che si sarebbe accorto quel giorno che ero tutt'altro che pazza e che non stava in potere né suo né di nessun altro furfante di assassinarmi. Confesso che nello stesso tempo mi prese un'estrema paura a questa sua idea di rinchiudermi in un manicomio, perché questo avrebbe di colpo distrutto ogni mia possibilità di svelare le cose come stavano: nessuno in quel caso avrebbe prestato fede a una mia sola parola.


Fu quindi per questo che decisi di palesare chiaramente tutta la storia, qualsiasi cosa ne dovesse nascere; ma in che modo farlo, o con chi, questa era una difficoltà inestricabile. Sennonché ci fu un'altra lite con mio marito e salì a un tale eccesso che mi costrinse quasi a spifferargli in faccia la verità; ma sebbene mi trattenessi e non scendessi nei particolari, dissi quanto bastò per gettarlo nel più grande sbigottimento e alla fine venne fuori tutta la storia.


Aveva cominciato con una calma rimostranza sulla mia cocciuta decisione di partire per l'Inghilterra; io la difendevo, e una mala parola tirando l'altra, com'è abitudine in tutte le contese di famiglia, egli mi disse che non lo trattavo come fosse mio marito né parlavo dei figli come spetta a una madre; e, a farla breve, che non meritavo di essere trattata come moglie; che lui aveva usato con me di ogni possibile buona maniera; che aveva discusso con tutta la bontà e la calma che si richiedono a un marito e a un cristiano, e che io gli avevo fatto un ricambio tanto indegno quale usa piuttosto con un cane che con un uomo, anzi con un estraneo spregevole che con un marito; che gli ripugnava molto di ricorrere alla violenza con me, ma che insomma capiva che questa era ormai necessaria e per l'avvenire si vedeva costretto a prendere misure tali che servissero a costringermi al mio dovere.


Questo discorso mi incendiò il sangue all'estremo, e nessuna fu mai punta maggiormente sul vivo. Gli risposi, quanto alle sue buone e alle sue cattive maniere, che tutte le disprezzavo allo stesso modo; che quanto al mio ritorno in Inghilterra, ne ero decisa, ne nascesse pure quel che poteva; e quanto al fatto che non lo trattavo come fosse mio marito e non mi dimostravo madre per i miei figli, poteva anche darsi ci fosse sotto qualcosa di più di quanto lui per il momento non sapeva; e ad ogni modo mi piaceva di dirgli almeno questo: che né lui era il mio marito legittimo né quelli figli legittimi, e che avevo i miei motivi per non fare di loro più conto di quanto non facessi.


Confesso che mi prese una grande pietà per lui, non appena dissi questo, poiché diventò pallido come un cadavere, e ammutolì come uno folgorato; una o due volte lo credetti sul punto di svenire; insomma, lo prese un attacco simile a un colpo apoplettico; rabbrividì, gocce di sudore o rugiada gli scorsero in viso, ma era gelido come il marmo, tanto ché mi vidi costretta a correre in cerca di qualcosa per tenerlo in vita. Quando si fu rimesso dal colpo, si sentì male e rigettò, e poco dopo fu messo a letto e l'indomani aveva una febbre violenta.


Tuttavia, superò la febbre e si rimise, quantunque molto adagio, e quando cominciò a stare un po' meglio, mi disse che con la mia lingua gli avevo inferto una ferita mortale: una cosa sola voleva chiedermi prima di qualsiasi spiegazione. Qui lo interruppi e gli dissi che mi dispiaceva di essermi spinta tanto oltre, poiché vedevo lo sconvolgimento in cui l'avevo gettato, ma che desideravo non mi chiedesse nessuna spiegazione, che avrebbe solamente peggiorato le cose.


Questo accrebbe la sua impazienza e realmente lo intrigò di là da ogni sopportazione; ora infatti cominciava a sospettare che ci fosse sotto qualche mistero non dichiarato, ma nessuna congettura lo illuminava; tutto quello che gli guizzava nel cervello, era che io avessi un altro marito in vita, ma gli garantii che questo non c'entrava nemmeno per idea; e invero quell'altro mio marito era per me effettivamente come morto e mi aveva detto di considerarlo come tale, ragion per cui da quel lato non avevo la minima preoccupazione.


Ora però la cosa era troppo avanzata per nasconderla ancora, e mio marito stesso mi diede l'opportunità di liberarmi del segreto, con mia grande soddisfazione. S'era affaticato con me tre o quattro settimane, ma senza nessun risultato, solo perché gli dicessi se le parole che avevo pronunciato erano semplicemente per farlo andare sulle furie oppure se al loro fondo non c'era qualcosa di vero. Ma io continuai inflessibile e non volli saperne di dare spiegazioni a meno che prima non acconsentisse al mio ritorno in Inghilterra, cosa - mi rispose - che non avrebbe mai fatto, finché avesse avuto vita. D'altronde gli dissi che era in mio potere di disporvelo quando volessi, e anzi, di far sì che addirittura mi supplicasse di andarmene; e questo accresceva la sua curiosità e lo rendeva tanto insistente da non potersi dire.


Alla fine si decise di raccontare tutta la storia alla madre e a mettermi questa alle costole per cavarmi il segreto. Lei s'ingegnò con ogni perizia veramente, ma io le sbarrai la strada immediatamente, dicendole che tutto il mistero della faccenda stava appunto in lei; che proprio il mio rispetto per lei mi aveva fatto ricorrere al sotterfugio e che, insomma, non avrei detto una parola di più; la scongiuravo quindi di non insistere oltre.


Ammutolì a questa dichiarazione e non seppe decidere che dire o che pensare; ma scartando la risposta come un'astuzia da parte mia, continuò le sue insistenze in favore del figlio per aggiustare, se possibile, la rottura tra noi. Quanto a questo, le dissi che era davvero una buona intenzione da parte sua, ma che era impossibile riuscirci; e che se le avessi rivelata la verità su quanto sapevo, anche lei avrebbe riconosciuto che era una cosa impossibile e avrebbe smesso di desiderarlo. Alla fine sembrò che mi lasciassi sopraffare dalle sue insistenze e le dissi che mi sarei arrischiata a confidarle un segreto della massima importanza e che subito si sarebbe convinta ch'era tale; avrei acconsentito a deporlo nel suo seno, solo se s'impegnava solennemente di non farne parte al figlio senza il mio consenso.


Ci mise molto a convenire su questa promessa, ma piuttosto che lasciarsi sfuggire il gran segreto finì per accettare e io, dopo un profluvio di altri preamboli, cominciai a raccontarle per filo e per segno la storia. Anzitutto le dissi quanto lei fosse coinvolta nella triste rottura avvenuta tra suo figlio e me, per via della storia che mi aveva raccontato di sé e del nome da lei portato ai tempi di Londra, e che la sorpresa in cui mi aveva vista era nata di qua. In seguito le dissi la mia storia e il mio nome e le certificai, con ulteriori prove di natura tale da riuscirle innegabili, che io non ero altro, né più né meno, che la sua bimba, la sua figlia, nata della sua carne a Newgate; quella stessa che l'aveva salvata dalla forca trovandosi nel suo grembo, e da lei, che doveva partire per scontare la pena, era stata affidata nelle mani delle tali persone.


Non è possibile descrivere lo stupore che la prese; non era affatto disposta a prestarmi fede o a scendere ai particolari, perché vide immediatamente lo sconvolgimento che doveva seguire nella famiglia; ma ogni cosa si accordava così puntualmente con i fatti che mi aveva raccontato di sé e che, se non mi avesse prima narrato, si sarebbe magari contentata di negare, che restò muta e non seppe fare altro che gettarmi le braccia al collo e baciarmi e piangermi addosso disperatamente, senza dire una sola parola per molto tempo. Alla fine esplose: «Sventurata figliola!» disse, «quale triste destino ha potuto portarti quaggiù? e tra le braccia di mio figlio, poi! Ragazza nefanda!» riprese, «ma non capisci che è finita per tutti? Moglie del tuo stesso fratello! tre figli, e due in vita, della stessa carne e dello stesso sangue tutti! Mio figlio e mia figlia che dormono insieme come marito e moglie! rovina e dannazione! Disgraziata famiglia! Che sarà ora di noi? Che diremo? che faremo?». E così andò innanzi per un bel pezzo; né io avevo capacità alcuna di parlare, o, se ce l'avevo, non sapevo che dire, poiché qualunque parola mi feriva in fondo all'anima. In preda a questo sbigottimento ci lasciammo quella prima volta, benché lo smarrimento di mia madre fosse maggiore del mio, dato che la notizia per lei era più fresca. Tuttavia, mi promise ancora che non avrebbe aperto bocca con suo figlio finché non ne avessimo riparlato.


Non passò molto tempo, potete esser certi, che ci fu un secondo colloquio sullo stesso argomento; e stavolta, avendo l'aria di dimenticare la storia che di sé mi aveva raccontata o forse supponendo che avessi scordato io qualcuno dei particolari, cominciò a riferirmene alterando e omettendo; ma io le rinfrescai la memoria su molte cose che supponevo avesse dimenticato, e poi le rimisi davanti tanto a proposito l'intera storia, che le riuscì impossibile di scostarsene oltre. Si diede allora nuovamente alle escandescenze e alle deprecazioni contro la sua acerba fortuna. Una volta che lo sfogo si fu un po' calmato, cominciammo una discussione a fondo su quanto si poteva fare prima di mettere a conoscenza della faccenda mio marito.


Ma a che potevano servire tutti i nostri dibattiti? Nessuna di noi due vedeva una via d'uscita o se ci fosse da fidarsi a palesare a quell'uomo una simile verità. Era impossibile capire prima in qualche modo o congetturare l'umore con cui avrebbe accolta la cosa o i provvedimenti che avrebbe preso; e se poi avesse saputo così poco dominarsi da rendere pubblica la vergogna, era facile prevedere che ne sarebbe nata la rovina dell'intera famiglia; e se infine avesse approfittato del diritto che la legge gli dava, poteva sbarazzarsi di me sdegnosamente e lasciarmi che cercassi di ricuperare attraverso i tribunali quel capitaluccio che era mio, buttarlo tutto forse nelle spese del processo per poi ritrovarmi a mendicare. E così io l'avrei magari visto dopo pochi mesi tra le braccia di un'altra moglie e sarei stata la più miseranda delle creature di questa terra.


Di questo mia madre era altrettanto cosciente quanto me; e tutto sommato non sapevamo che fare. Dopo qualche tempo giungemmo a decisioni più moderate, ma c'era sempre un guaio, che cioè i pareri mio e di mia madre erano alquanto diversi, erano anzi contraddittori; poiché lei diceva che avrei dovuto seppellire completamente la faccenda e continuare a vivere come moglie con mio marito, finché un qualche nuovo avvenimento non avesse reso più conveniente la rivelazione; e lei nel frattempo avrebbe provato a riconciliarci e ristabilire il nostro mutuo contento e la pace nella famiglia; potevamo usare insieme come nel passato e lasciare così tutta la faccenda in un segreto come di tomba; «poiché, figlia mia» mi disse, «siamo perdute tutte e due se la cosa si viene a sapere».


Per incoraggiarmi a questo, mi prometteva di migliorare la mia condizione, e di lasciarmi alla sua morte quanto avrebbe potuto, garantendolo dall'ingerenza di mio marito; in modo che se più tardi la cosa si fosse risaputa sarei stata in grado di tirare avanti da sola e inoltre ottenere da lui quanto era giusto.


La proposta non mi andava a genio, se anche da parte di mia madre era onesta e generosa; i miei pensieri seguivano tutt'altro corso.


Quanto a tenerci in corpo la faccenda, e lasciare che tutto continuasse come prima, le risposi che non era possibile; e le chiesi come poteva pensare che io reggessi all'idea di andare a letto con mio fratello. In secondo luogo, le dissi che il fatto che lei fosse in vita era l'unico appoggio della verità e che, finché lei mi riconosceva per figlia e riteneva di doversi contentare che così fosse, nessuno avrebbe messo in dubbio la cosa; ma che, se fosse venuta a morire prima della rivelazione, io sarei soltanto stata presa per un'impudente creatura che avesse inventato un simile pretesto allo scopo di piantare il marito, oppure giudicata tocca nel cervello. Poi le notificai come mio marito mi avesse già minacciata del manicomio e quanta ansia questo mi avesse dato, e che anzi era questo il motivo che mi aveva costretta alla necessità di palesarmi a lei come avevo fatto.


Tutto sommato - le dissi - attraverso le più serie meditazioni che ero stata in grado di fare, avevo preso la seguente decisione, che speravo lei volesse approvare come il giusto mezzo tra le due: che lei facesse ogni sforzo presso il marito per indurlo a concedermi di partire per l'Inghilterra, secondo quanto avevo già chiesto, e a fornirmi di una sufficiente somma di denaro, vuoi in merci da portare con me, vuoi in polizze, per il mio mantenimento, non trascurando un solo istante di ripetergli che una volta o l'altra avrebbe potuto decidersi a venirmi a raggiungere.


Che poi, partita io, lei vedesse a sangue freddo di scoprirgli la cosa gradatamente e secondo che la sua stessa discrezione avrebbe consigliato, in modo che lui non avesse a giungervi di sorpresa né abbandonarsi a collere o altri eccessi; e badasse a far sì che non trascurasse i figli né si risposasse, se prima non aveva la notizia certa della mia morte.


Era questo il mio piano, e avevo per esso fondate ragioni; da quell'uomo mi ero realmente alienata in conseguenza di tutto quanto succedeva; davvero lo odiavo come marito, e mi era impossibile liberarmi da quella radicata avversione che gli portavo. Nello stesso tempo, il fatto di condurre una esistenza illegittima e incestuosa accresceva quest'avversione e tutto vi si accumulava per fare della nostra convivenza la cosa per me più nauseante del mondo; e realmente credo che ero giunta a un punto tale che avrei subito gli amplessi di un cane altrettanto volentieri che lasciarmi toccare da lui, motivo per cui non potevo reggere all'idea di dovermi stendere nel suo letto.


Non posso dire che avessi ragione a spingere tanto all'estremo la cosa, quando insieme non mi decidevo a rivelargli tutto; ma sto raccontando quello che accadde, non quello che avrebbe o no, dovuto accadere.


In questi pareri nettamente contrastanti continuammo a lungo io e mia madre, e ci riusciva impossibile di conciliare le nostre vedute; ci furono molte dispute tra noi, ma nessuna di noi arrivava mai a rinunciare al suo partito o guadagnarci l'altra.


Io insistevo sulla mia avversione a continuare come moglie con mio fratello e lei insisteva sulla impossibilità di portarlo ad acconsentire al mio ritorno in Inghilterra; e continuavamo in questa incertezza dissentendo non al punto da litigare o niente di simile, ma soltanto da non saper decidere che fare per appianare quella terribile rottura.


Alla fine decisi per un partito disperato e comunicai a mia madre la mia decisione, che insomma gli avrei detto tutto io stessa. Mia madre andò fuori di sé dallo spavento soltanto all'idea: ma io le dissi di non preoccuparsi, le spiegai che avrei fatto la cosa a poco a poco e con dolcezza, impiegando tutta l'arte e l'affabilità di cui fossi capace, e che inoltre avrei scelto il miglior momento possibile, badando di coglierlo in posizione favorevole. Le spiegai che non dubitavo neppure - visto che sapevo essere tanto ipocrita da fingere con lui più affetto che non nutrissi in realtà - che sarei riuscita in quello che volevo, e forse ci saremmo separati d'amore e d'accordo e a buoni patti, poiché di amarlo a sufficienza come un fratello me la sentivo, se anche non di amarlo come marito.


In tutto quel frattempo lui si era ingegnato per scoprire da mia madre, se era possibile, quale fosse il significato di quella frase spaventosa, così diceva, che ho ricordato più indietro; vale a dire, che io non ero la sua moglie legittima né i figli erano suoi legittimi figli. Mia madre gli dava parole, gli diceva che da me, non si tirava fuori niente ma soltanto si capiva che c'era qualcosa che intensamente mi turbava, e sperava che a suo tempo mi avrebbe potuto strappare il segreto; per il momento gli raccomandava molto seriamente di trattarmi con maggior dolcezza e guadagnarmi con la sua solita umanità. Gli disse che io ero atterrita e costernata dalle sue minacce di rinchiudermi in un manicomio e simili, e lo consigliò di non ridurre, per nessun motivo, una donna alla disperazione.


Egli le promise che avrebbe mitigato il suo contegno, e le aggiunse di assicurarmi che mi amava come mi aveva sempre amata, e che non aveva nessun progetto di rinchiudermi in un manicomio, checché potesse dire nell'esasperazione; inoltre desiderava che mia madre facesse anche a me le stesse raccomandazioni e si sarebbe potuto vivere insieme come nel passato.


Sperimentai subito gli effetti dei negoziati. Mio marito trasformò immediatamente la sua condotta e fu per me un tutt'altro uomo; niente poteva darsi di più affettuoso e compiacente che lui in qualunque occasione; e altro io non potevo che rendergli in qualche modo il contraccambio, cosa che feci quanto meglio seppi, ma nel migliore dei casi mi riusciva soltanto con molto impaccio, poiché niente era per me più terribile delle sue carezze, e i timori di ritrovarmi ingravidata un'altra volta da lui andavano lì lì per darmi le convulsioni. Questo mi fece capire che palesargli la verità senza aspettare oltre era assolutamente necessario, ma lo feci tuttavia con tutta la cautela e il riserbo immaginabili.


Da un mese, quasi, durava il suo comportamento e cominciavamo a vivere insieme una nuova esistenza: se io avessi potuto contentarmi di continuare così, credo che sarebbe potuta durare fino alla fine dei nostri giorni. Una sera, che sedevamo a discorrere insieme sotto una piccola tenda che faceva da pergolato all'ingresso del giardino, egli era di umore assai amabile e gaio e mi diceva un sacco di cose affettuose sulla piacevolezza del nostro attuale buon accordo e sugli affanni della rottura passata, e quale soddisfazione fosse per lui che potessimo di sperare di non ricascarci mai più.


Io tirai un profondo sospiro, e gli dissi che nessuno al mondo poteva rallegrarsi più di me del buon accordo che sempre c'era stato tra noi o affliggersi della sua rottura; ma che mi dispiaceva di dovergli rispondere che nel nostro caso c'era una disgraziata circostanza che troppo mi pesava sul cuore ed io non sapevo come palesargli, la quale rendeva molto infelice la mia parte nel nuovo stato e mi toglieva tutto il conforto del riposo.


Insistette perché gli dicessi che cos'era. Gli risposi che non sapevo decidermi a farlo; che, fino a quando lui l'ignorasse, ero infelice io sola, ma una volta che l'avesse saputo, tutti e due saremmo stati infelici; e che perciò tenerlo all'oscuro di tutto era quanto di più amorevole potevo fare: per questo soltanto gli nascondevo un segreto del quale la semplice presenza nel mio cuore, ero convinta, sarebbe stata presto o tardi la mia morte.


Non è possibile descrivere la sorpresa che lo prese e la doppia insistenza che usò con me perché mi confidassi. Mi disse che non potevo chiamarmi amorevole verso di lui, che anzi non potevo nemmeno considerarmi fedele, se gli tenevo nascosto quel segreto. Si rifece a quanto gli avevo detto in passato e mi disse che sperava non avesse rapporto con quanto avevo gridato esasperata e che lui era risoluto a dimenticare interamente, come l'effetto di uno spirito sconsiderato e toccato sul vivo. Gli risposi che mi auguravo anch'io di dimenticare tutto, ma questo non poteva accadere, troppo profonda durava la traccia, e la cosa era impossibile.


Mi disse allora, che, dato che era deciso a non più dissentire da me per nessun motivo, non mi avrebbe dato noia oltre, preferendo stare a tutto quello che facessi o dicessi; soltanto mi chiedeva la promessa che quel tale segreto, qualunque si fosse, non dovesse mai più interrompere il nostro vicendevole e tranquillo affetto.


Era questa la cosa più scottante che poteva dirmi, poiché io avevo invece bisogno delle sue ulteriori insistenze, per farmi convincere a rivelare quello che sarebbe stato davvero la mia morte se lo nascondevo ancora. E così gli risposi chiaro e tondo che non potevo compiacermi troppo di non venir richiesta, quantunque poi non sapessi come soddisfargli. «Vediamo un po', mio caro» gli dissi, «quali condizioni mi offri perché ti metta al corrente di tutta la faccenda?» «Tutto ciò che vuoi» rispose, «tutto ciò che ragionevolmente puoi chiedermi.» «Ebbene» dissi, «andiamo, promettimi per iscritto, che, nel caso che tu non trovi che io abbia colpa e che sia per mia volontà coinvolta nelle cause dei mali che seguiranno, non mi rivolgerai nessun rimprovero, non mi tratterai peggio, non mi danneggerai né cercherai di farmi pagare per quello di cui non ho colpa.» «Questa» disse, «è la richiesta più ragionevole del mondo: non farti rimproveri per quello di cui non hai colpa. Dammi penna e calamaio.» Corsi allora a prendere penna, calamaio e carta, ed egli scrisse l'accordo nelle stesse parole con cui l'avevo formulato, e lo firmò con nome e cognome. «Dunque» disse, «che altro c'è, mia cara?» «Ecco» continuai, «c'è d'altro, che non dovrai rimproverarmi se non ti ho rivelato il segreto prima che io lo sapessi.» «Anche questo è giustissimo» disse, «accetto di cuore» e scrisse anche questo e firmò.


«Ora, amico mio» dissi, «non mi resta più che una condizione da porre e cioè, che dato che la faccenda non riguarda altri che te e me, non la rivelerai ad anima viva, salvo tua madre; e che in tutti i provvedimenti che vorrai prendere, una volta informato, dato che anch'io con te ci sono coinvolta, per quanto innocente come sei tu, non farai nulla nell'esasperazione, nulla che risulti di pregiudizio mio o di tua madre, senza che io ne sia informata e abbia prima acconsentito.» Questo lo sorprese un po', e vergò le parole distintamente, ma le lesse e rilesse prima di firmarle, esitando diverse volte e ripetendovi sopra: «A pregiudizio di mia madre! e a pregiudizio tuo!

Che misteriosa faccenda è mai questa?». Tuttavia, alla fine firmò.


«E ora» dissi, «mio caro, non ti chiedo più altro per iscritto, ma dato che stai per sentire la cosa più inaspettata e più stupefacente che sia forse mai accaduta in nessuna famiglia di questo mondo, ti prego di promettermi che la accoglierai con calma e con la presenza di spirito che si conviene a un uomo ragionevole.» «Farò del mio meglio» rispose, «a patto che tu non mi tenga più in sospeso, perché con tutti questi preamboli mi fai tremare.» «Ebbene allora» dissi, «è questo: come ti ho detto prima in un impeto, che io non ero la tua moglie legittima e che i nostri figli non erano legittimi, così debbo anche ora farti sapere con calma e con simpatia, ma sempre con dolore, che io sono tua sorella e tu sei mio fratello, e che siamo tutti e due figli di una madre vivente, e in casa nostra, e convinta che tutto questo è la verità, in modo da non poter essere negato né contraddetto.» Lo vidi impallidire e stravolgersi; dissi allora: «Su, ricorda quanto hai promesso e prendi questo con presenza di spirito; chi avrebbe potuto fare di più per prepararti alla notizia?». Pure chiamai un servitore e gli feci portare un bicchierino di rum (ch'è il cordiale ordinario di quei paesi), poiché vedevo che stava per svenire.


Quando si fu un po' rimesso, gli dissi: «Questa storia, sta' certo, richiede una lunga spiegazione; abbi perciò pazienza e preparati a sentirla, sarò quanto più breve è possibile». Dopo di che, gli raccontai quello che mi sembrò indispensabile del fatto, e specialmente il modo come mia madre era giunta a rivelarmelo. «E ora, mio caro» dissi, «capirai le ragioni dei miei patteggiamenti, e anche che io non sono stata la causa di tutto questo né potevo esserlo, e che non potevo assolutamente saperne nulla prima d'ora.» «Sono perfettamente convinto di tutto» mi rispose, «ma è per me una tremenda sorpresa; conosco però un rimedio per tutto quanto, un rimedio che porrà fine a tutte le tue difficoltà, senza che tu debba tornare in Inghilterra.» «Sarebbe ben strano» osservai, «strano come tutto il resto.» «No, no» mi disse, «si appianerà come nulla: sono io l'unico ostacolo.» Dicendo queste parole aveva l'aria piuttosto sconvolta, ma io al momento non mi presi nessun timore per lui, convinta che, come si usa dire, chi fa queste cose non ne parla e chi ne parla non le fa.


La reazione però non aveva ancora toccato il suo apice, e mi accorsi che lui diventava pensoso e malinconico; in una parola mi sembrò che perdesse la testa. Tentai di provocarlo a uno sfogo, e di farlo discorrere della decisione che dovevamo prendere; a volte era a posto e parlava della cosa con qualche coraggio, ma il peso di questa era troppo greve sui suoi pensieri. Arrivò al punto di tentare due volte di togliersi la vita: in uno dei tentativi si era già bell'e strangolato e, se sua madre non entrava nella stanza proprio in quel momento, ci restava; pure, con l'aiuto di un servitore negro, essa tagliò la corda e lo riportò in vita.


Arrivate le cose a questo triste eccesso, la mia pietà verso di lui cominciò a rinfocolare quella tenerezza che gli avevo portato un tempo, e mi sforzai sinceramente con il fare più affettuoso che mi fu possibile, di riparare la rottura; ma, a dirla in breve, la sua angoscia aveva ormai acquisito una troppo grande violenza, divorava ogni capacità e lo gettò in un lento languore che tuttavia non gli fu fatale. In una simile stretta io non sapevo che fare, perché sembrava proprio che la sua vita stesse fuggendo, e forse io avrei potuto sposarmi in quel paese un'altra volta non senza il mio tornaconto, se restare laggiù avesse potuto fare al caso mio; ma anche il mio spirito era agitato; desideravo tornare in Inghilterra e niente mi avrebbe potuto accontentare mancandomi questo.


A farla breve, per mezzo di un'instancabile insistenza mio marito, che come osservavo andava in apparenza consumandosi, venne alla fine piegato ad acconsentire, e così, sospingendomi il destino, ebbi via libera, e con l'aiuto di mia madre ottenni un buonissimo carico di merce da portare con me in Inghilterra.


Quando ci lasciammo, io e mio fratello (perché così lo dovrò chiamare d'ora in poi) convenimmo che, dopo il mio arrivo in Inghilterra, egli doveva simulare di ricevere la notizia che ero morta laggiù, e così, quando avesse voluto, avrebbe potuto risposarsi. Accettò e mi promise che ci saremmo scritti come fratello e sorella, e che mi avrebbe assistita e mantenuta fino alla fine dei miei giorni; che se fosse venuto a morte prima di me, avrebbe lasciato alla madre ancora di che sostenermi in qualità di sorella: e sotto un certo aspetto tenne fede a questa parola. Solamente, si condussero in modo così strano, da farmene in seguito sentire il disappunto piuttosto gravemente, come a tempo debito racconterò.


Me ne partii nel mese di agosto dopo otto anni di permanenza in quella terra; mi aspettava ora un nuovo seguito di sventure, quale poche donne, credo, hanno subito.


Facemmo una traversata abbastanza buona fin che non fummo a ridosso della costa inglese, che raggiungemmo dopo trentadue giorni, ma qui fummo sbattuti da due o tre burrasche, una delle quali ci sospinse fuori strada sulla costa dell'Irlanda, dove gettammo l'ancora a Kinsale. Qui aspettammo un tredici giorni, trovammo qualche ristoro a terra e ci rimettemmo in mare, quantunque ci attendesse di nuovo un tempo pessimo, durante il quale la nave perse l'albero di maestra, come lo chiamano. Ma entrammo finalmente a Milford Haven, nel Galles, dove, per quanto fossi lontana dal nostro porto, pure sentendomi il piede al sicuro sul fermo suolo dell'isola di Bretagna, decisi di non avventurarmi più sulle acque, che mi erano state tanto ostili; e così portati a terra i vestiti e i quattrini, con le mie polizze di carico e gli altri documenti, mi decisi a venirmene a Londra e a lasciare che la nave giungesse come poteva alla sua destinazione: la quale era il porto di Bristol, dove viveva il principale corrispondente di mio fratello.


Arrivai a Londra circa in tre settimane, dove seppi qualche tempo dopo che la nave era arrivata a Bristol, ma disgraziatamente sentii insieme che per la tempesta che aveva subito e la perdita dell'albero, i danni a bordo erano ingenti e la maggior parte del suo carico guasta.


Mi aspettava ora la scena di una nuova vita e questa appariva tremenda. Ero partita di laggiù con qualcosa come un addio definitivo.


Quello che portavo con me era invero di un considerevole valore, purché mi fosse arrivato, e per mezzo suo avrei potuto risposarmi discretamente; ma, per com'erano andate le cose, ero ridotta a due o trecento sterline in tutto, e questo senza alcuna speranza di rincalzi. Ero interamente priva d'amicizie, che dico? non avevo nemmeno una conoscenza, poiché mi accorsi che era assolutamente necessario non risuscitare le conoscenze vecchie; e quanto alla mia ingegnosa amica che mi aveva in altri tempi fatta passare per un buon partito, era morta e così pure suo marito.


La necessità di occuparmi del mio carico di merci mi obbligò poco dopo a fare un viaggio a Bristol, e mentre mi occupavo a quest'affare, mi presi lo svago di recarmi a Bath, poiché com'ero ancora ben lontana dalla vecchiaia, così il mio umore, sempre gaio, meno che mai si smentiva; e dato che mi trovavo ora ad essere una donna, per così dire, di fortuna, pur essendo una donna senza fortuna, mi ripromettevo che una cosa o l'altra potesse succedermi nel frattempo, tale da ristabilire la mia condizione, com'era già stato il caso in passato.


Bath è un soggiorno sufficientemente galante; dove la vita costa parecchio ed è piena d'insidie. Io ci andai, in verità, con l'idea di afferrare quel che potesse offrirmi; ma devo essere tanto giusta con me stessa da protestare che non intendevo niente di disonesto, né avevo in me inizialmente pensieri rivolti verso quella strada per la quale in seguito tollerai che si mettessero.


Mi ci fermai per tutta la fine di stagione, come dicono là, e strinsi certe disgraziate conoscenze, che mi suggerirono le follie nelle quali caddi in seguito, più che non m'incoraggiassero a resistervi. Passavo giornate discretamente piacevoli, godevo buona compagnia, vale a dire compagnia gaia ed elegante; ma avevo lo sconforto di accorgermi che questa via mi buttava a terra, e che dato che non avevo un reddito stabile, spendere così il capitale non era altro che un modo certo di uccidermi per dissanguamento; cosa che mi fornì parecchie malinconiche riflessioni. Tuttavia, non ci badai e non smisi di lusingarmi che qualcosa potesse presentarsi a mio vantaggio.


Ma non mi trovavo nel posto adatto. Non ero più a Redriff dove, spacciandomi da me per un discreto partito, poteva darsi che un qualche onesto capitano mi richiedesse in onorevoli termini di matrimonio: ero a Bath dove gli uomini trovano qualche volta un'amante ma piuttosto raramente cercano una moglie; e in conseguenza, è inevitabile che tutte le particolari conoscenze che una donna può sperare laggiù, abbiano una tendenza in questo senso.


L'inizio della stagione l'avevo passato discretamente; perché quantunque avessi fatto una certa qual conoscenza con un signore che veniva a Bath per svagarsi, pure avevo evitato qualsiasi brutta capitolazione. Avevo tenuto testa a qualche occasionale tentativo galante e in questo senso potevo dire di essermela cavata bene. Non ero ancora tanto depravata da abbandonarmi al vizio per semplice gusto, e nemmeno le proposte erano così straordinarie da tentarmi con la cosa essenziale che io cercavo.


In quel principio arrivai comunque fino a questo punto: feci conoscenza con una donna presso cui alloggiavo, la quale sebbene non tenesse una casa malfamata, pure non professava affatto i migliori principi. In tutte le occasioni io mi ero sempre comportata tanto bene, da non causare la minima tacca alla mia reputazione, e tutti gli uomini che avevo frequentato godevano di un così eccellente nome che a frequentarli non me ne venne il minimo biasimo. Nessuno di questi si permise nemmeno di supporre che esistesse la possibilità di un'intesa disonesta con me, se avesse scelto di farsi avanti; ce n'era però uno, quello che ho detto, il quale mi veniva sempre intorno per amore dello svago che gli dava la mia compagnia, com'egli diceva. Questa compagnia, così si compiaceva di ripetere, gli era molto gradita, ma per quella volta non ci fu altro.


Passai a Bath molte ore malinconiche dopo che tutta la compagnia se ne fu andata; giacché, se anche andavo qualche volta a Bristol per disporre della mia roba e raggranellare qualche soldo, scelsi tuttavia di fare di Bath la mia residenza perché, essendo in buoni rapporti con quella donna in casa della quale avevo alloggiato nell'estate, trovai che nell'inverno potevo viverci più a buon mercato che in qualunque altro posto. Qui, ripeto, passai un inverno altrettanto opprimente di quanto l'autunno era stato invece gaio; ma avendo stretta una maggiore intimità con questa donna presso la quale abitavo, non potei fare a meno di metterla un po' al corrente di quello che più mi angustiava il cuore e in modo speciale della precarietà dei miei mezzi. Le dissi pure che avevo nella Virginia una madre e un fratello in condizioni agiate; e dato che avevo veramente scritto a mia madre in particolare, per descriverle il mio stato e la grande perdita che avevo sofferto, così non mancai di far sapere alla mia nuova amica che aspettavo di laggiù una sovvenzione, com'era infatti la verità. E dato che le navi traversavano da Bristol a York River nella Virginia, e ritorno, impiegando generalmente meno tempo che da Londra, e dato che mio fratello corrispondeva principalmente con Bristol, pensavo che avrei fatto assai meglio ad aspettare la risposta qui che non tornando a Londra.


La mia nuova amica si mostrò sensibilmente toccata dal mio stato e fu in verità tanto buona da ridurmi la retta a una cifra così bassa durante l'inverno, che mi convinsi che non ci guadagnava niente; e quanto all'alloggio, per tutto l'inverno non ebbi da spendere un soldo.


Quando venne la stagione di primavera, lei continuò a trattarmi con tutta la bontà che poteva; e rimasi con lei un altro po', fin che non trovai necessario fare diversamente. Molto spesso scendevano e alloggiavano in casa sua signori di riguardo e in particolare quel signore che, ho già detto, mi era stato intorno l'inverno precedente:

e arrivò questa volta con un altro signore per compagno e due servitori, e prese alloggio in quella casa. Mi nacque il sospetto che l'avesse invitato la mia padrona, facendogli sapere che stavo ancora con lei; ma essa negò.


Insomma, questo signore scese là e riprese a girarmi intorno, scegliendomi fra tutte come sua speciale confidente. Era un gentiluomo compito, questo bisogna riconoscerlo, e la sua compagnia mi riusciva tanto gradevole quanto la mia, se debbo credergli, riusciva a lui. Non mi faceva altre dichiarazioni se non di uno straordinario rispetto, e aveva della mia virtù un'opinione tale che, come affermò più volte, era convinto che, se mi avesse proposto qualunque altra cosa, io l'avrei respinto sdegnosamente. Seppe presto da me che ero vedova; che ero giunta a Bristol dalla Virginia con le ultime navi e che aspettavo a Bath l'arrivo della prossima flotta di laggiù, che mi doveva portare considerevoli valori. Seppi da lui che aveva una moglie, ma che questa signora era tocca nel cervello e si trovava affidata alle cure dei suoi stessi parenti, cosa alla quale egli aveva dato il suo consenso per evitare qualunque appunto gli si potesse rivolgere di trascurarne la cura. Per il momento era venuto a Bath per svagarsi lo spirito tanto oppresso da quel triste caso.


La mia padrona, che di sua iniziativa incoraggiava l'intesa in tutte le occasioni, mi fece di lui un ritratto molto favorevole, come di un uomo d'onore e di carattere, e insieme di grande ricchezza. E in verità anch'io avevo motivo di pensarlo; poiché, sebbene alloggiassimo allo stesso piano ed egli fosse spesso entrato in camera mia, perfino quand'ero a letto, e io nella sua, tuttavia non arrischiò mai più di un bacio, né ad altro neppure mi sollecitò se non parecchio tempo dopo, come vedrete.


Spesso parlavo con la mia padrona della straordinaria modestia di questo signore e lei mi ripeteva che fin dal primo giorno se n'era accorta; mi diceva sempre però che, secondo lei, dovevo sperare qualche compenso per la compagnia che gli tenevo, poiché non mi lasciava un momento di respiro. Le risposi che non gli avevo dato il minimo pretesto di pensare che ne avessi bisogno o che avrei accettato niente da lui. Mi disse che di questo si sarebbe incaricata lei stessa e condusse le cose tanto abilmente che la prima volta che fui sola con lui dopo che quella gli ebbe parlato, egli cominciò a fare qualche domanda sulle mie condizioni, come mi fossi mantenuta dal giorno del mio arrivo e se non mi serviva del denaro. Gli tenni testa arditamente. Gli dissi che, sebbene il mio carico di tabacco fosse guasto, non era però interamente perduto; che il mercante al quale ero stata indirizzata si era comportato con me tanto onestamente che non avevo sofferto e che speravo con qualche economia di resistere finché non giungesse dell'altro, che aspettavo con la nuova flotta; avevo intanto abbassato le mie spese e mentre la stagione scorsa avevo una cameriera, ora ne facevo senza; e mentre allora avevo una camera e una sala al primo piano, ora avevo una sola stanza al secondo, e così via; «ma la mia vita» dissi «mi contenta come allora»; aggiungendo che la sua compagnia mi aveva fatto passare giorni ben lieti che non avrei goduto altrimenti, cosa questa per cui gli ero molto obbligata; e in questo modo gli tolsi per il momento il pretesto a ogni offerta. Non passò molto tempo che ritornò all'attacco e mi disse che gli sembravo restia a confidargli il segreto della mia situazione, cosa che lo addolorava molto; assicurandomi che se ne informava non con l'intenzione di soddisfare la sua curiosità, ma semplicemente per essere in grado di aiutarmi se fosse il caso; ma data che non volevo ammettere di trovarmi bisognosa di aiuto, non aveva più che una cosa da chiedermi e cioè che gli promettessi che, nel caso mi fossi trovata in qualche difficoltà, mi sarei aperta con lui francamente e lo avrei adoperato con quella stessa libertà con la quale mi faceva la profferta, aggiungendo che l'avrei sempre trovato un amico sincero, se anche forse avevo qualche sospetto a fidarmene.


Non tacqui niente di ciò che una persona immensamente obbligata poteva dirgli per fargli capire che apprezzavo debitamente la sua generosità; e in verità da quel giorno non mi mostrai più con lui riservata come un tempo benché nessuno di noi due uscisse ancora dai più stretti confini della virtù; ma per quanto libera diventasse la nostra conversazione, io non riuscivo però a giungere a quella libertà da lui desiderata, cioè a dirgli che mi servivano quattrini, benché in segreto fossi felicissima della profferta.


Passò qualche settimana, e non gli chiedevo ancora niente; quando la mia padrona di casa, donna scaltra, che svariate volte mi aveva incitata ma si era accorta che non sarei stata capace di farmi avanti, conia una storia di sua fantasia e bruscamente mi entra in camera mentre stavo con lui. «Cara vedovella!» dice, «ho brutte notizie per voi stamattina.» «Di che si tratta?» le chiedo. «I francesi hanno catturato le navi della Virginia?» poiché era questa la mia paura.


«No, no» disse, «ma quel tale che avete mandato ieri a Bristol per soldi, è di ritorno e dice che non ce ne sono» Non mi piacque proprio per niente la sua trovata; mi sembrò che avesse troppo l'aria di voler stimolare il mio protettore, cosa di cui non c'era bisogno, e capivo che non avevo niente da perdere a mostrarmi restia, perciò la fermai senz'altro. «Non arrivo a capire come possa dire questo» risposi, «poiché vi garantisco che mi ha portato tutto quello che gli avevo ordinato, ecco qua» trassi fuori il mio borsellino con dentro qualcosa come dodici ghinee, e aggiunsi: «E' mia intenzione darli a voi quasi tutti.» Il mio compagno sembrò un tantino urtato da quelle sue parole quanto ero stata io, pigliandole, così mi ero immaginata, come un'impertinenza da parte sua; ma quando mi ebbe sentita dare una simile risposta ritornò in sé immediatamente. L'indomani mattina riparlammo della cosa, e mi accorsi che era pienamente soddisfatto; mi disse sorridendo che sperava non mi sarei trovata a corto di denaro senza farglielo sapere: altra era stata la mia promessa. Io gli spiegai che ero molto offesa del fatto che la mia padrona avesse parlato così pubblicamente di cose che non la riguardavano per niente; ma supponevo che stesse per chiedermi quanto le dovevo, otto ghinee circa, che mi ero decisa a restituirle, e le avevo restituito quella sera stessa.


Diventò d'ottimo umore quando mi sentì dire che avevo pagato quel debito, e per il momento cambiò discorso. Ma l'indomani mattina, avendo sentito che mi ero alzata prima di lui, mi chiamò dalla sua stanza e io risposi. M'invitò che entrassi; era ancora coricato quando io arrivai e mi pregò di farmi avanti e sedermi sulla sponda del letto perché, mi spiegò, aveva qualche cosa da dirmi. Dopo qualche cortesia, mi chiese se potevo essere veramente franca con lui e dargli una sincera risposta a una domanda che voleva farmi. Dopo qualche cavillo a proposito della parola "sincera" e chiestogli se gli avevo mai dato risposte che non fossero sincere, gli promisi di sì. Ebbene allora, disse, la sua richiesta era che gli facessi vedere il mio borsellino.


Ficcai subito la mano in tasca e, ridendogli in viso, estrassi il borsellino, dove c'erano tre ghinee e mezzo. Mi chiese allora se erano quelli tutti i miei fondi. Gli risposi che no, - e continuavo a ridere - no certo.


Ebbene, disse, voleva allora che gli promettessi che sarei andata a prendere e gli avrei portato tutto il denaro che avevo, fino all'ultimo soldo. Gli risposi che così avrei fatto e me ne andai in camera mia e, preso un cassettino privato, dove c'erano circa sei altre ghinee e qualche po' d'argento, glielo portai e versai sul letto, dicendogli ch'era quella tutta la mia sostanza, parola d'onore, fino all'ultimo soldo. Egli li guardò un poco, ma senza contarli, e li riammucchiò tutti nel cassetto, poi tastandosi in tasca ne trasse una chiave e mi pregò di aprirgli uno stipetto di noce che stava sul tavolo e di portargli il tal cassetto, come feci. In questo cassetto c'era una gran somma in oro, mi pare un duecento ghinee, ma non so quante precisamente. Prese il cassetto e, stringendomi la mano, me la fece ficcare dentro e cavarne una gran manciata; io riluttavo, ma egli teneva strettamente la mano nella sua e me la introdusse nel cassetto e mi fece prendere quasi tante ghinee quante ne potei stringere in una volta.


Ottenuto questo, me le fece deporre in grembo, e prendendo il mio cassettino vi versò con il suo tutto il mio denaro, e mi disse di andarmene e portare tutto nella mia camera.


Riferisco la storia per filo e per segno, a motivo della sua piacevolezza, e per mostrare il tono dei nostri discorsi. Non passò molto tempo che egli cominciò ogni giorno a trovare da ridire sui vestiti e sulle trine e sulle cuffie e, in una parola, mi tormentava perché comprassi di meglio, cosa che tra parentesi non mi sarebbe dispiaciuto affatto di fare, benché non ne avessi l'aria. Nulla al mondo io amavo più che il vestire elegante; ma gli dissi che dovevo pure economizzare il denaro che mi aveva prestato, altrimenti non sarei stata in grado di restituirglielo. Mi rispose allora, in poche parole, che dato che aveva per me una sincera stima e sapeva la mia condizione, quel denaro non me lo aveva dato a prestito, ma regalato, e che gli sembrava bene che me lo fossi meritato, concedendogli, come facevo, tanto esclusivamente la mia compagnia. In seguito, mi fece prendere una cameriera e aprire casa e, andatosene quel suo amico, mi costrinse ad accogliere lui a tavola: cosa che feci molto volentieri, convinta, come fui infatti, che non ci avrei perso nulla. E nemmeno la padrona di casa mancò di trovarci il suo tornaconto.


Facevamo questa vita da un tre mesi, quando la società di Bath cominciando a diradarsi, il mio protettore parlò di andarsene, e non gli sarebbe dispiaciuto che fossi venuta a Londra con lui.


Non mi ritrovai troppo in quella proposta, essendo all'oscuro della posizione che avrei occupata e di come mi avrebbe poi trattata, laggiù. Ma, intanto che la cosa era controversa, egli si ammalò; aveva fatto una corsa in un luogo del Somersetshire chiamato Shepton, e vi cadde gravemente malato, tanto malato da non poter rifare il viaggio; sicché rimandò a Bath il servitore che mi pregasse di noleggiare una carrozza e raggiungerlo. Prima di partire, aveva affidato a me il suo denaro e gli altri oggetti di valore, e non sapevo come disporne; pure li misi al sicuro come meglio potetti e chiusi l'alloggio e corsi a Shepton, dove lo trovai molto grave, tanto che lo convinsi a farsi riportare in lettiga a Bath, dove c'era disponibilità di un maggior aiuto e di migliori medici.


Acconsentito che ebbe, lo riportai a Bath: circa un quindici miglia, per quanto ricordo. Qui continuò la febbre e rimase a letto per cinque settimane, e per tutto questo tempo io gli feci da infermiera curandolo con altrettanta attenzione che se fossi stata sua moglie; davvero, se fossi stata sua moglie non avrei potuto fare di più.


Vegliai tante volte al suo capezzale che alla fine non volle saperne di vedermi là seduta, e allora feci mettere nella stanza un lettuccio dove mi coricavo, proprio ai piedi del suo letto.


Mi sentivo davvero afflitta da quel suo stato e del timore di perdere un amico come egli era, e sarebbe stato in futuro, per me. Usavo stare là seduta e piangergli al capezzale per ore e ore. Finalmente, andò meglio e diede qualche speranza di guarire, come infatti guarì, ma molto lentamente.


Se le cose stessero diversamente da come dirò, non avrei difficoltà a palesarle, come è chiaro che in altri casi ho fatto; ma invece affermo che in tutto quel nostro commercio, se si tolga l'entrare nella stanza quando uno di noi due era in letto e si tolgono gli indispensabili servigi dell'assistenza a lui prestata notte e giorno durante la malattia, né la minima parola né il minimo gesto disonesto erano passati tra noi. E così fosse continuato fino alla fine!

Entro un certo tempo si rimise in forze e andò ristabilendosi rapidamente, e io volevo portare via quel mio lettuccio, ma non me lo permise finché non fu in grado di starsene senza che qualcuno lo vegliasse: allora mi trasferii nella mia camera.


Prese parecchie occasioni per esprimermi la sua riconoscenza per le mie tenere cure; e una volta che fu ristabilito mi fece un regalo di 50 ghinee per il mio zelo o, come lui diceva, perché avevo esposta la mia vita tentando di salvare la sua.


Poi mi fece sentire dichiarazioni del sincero e inviolabile affetto che lo legava a me, ma con ogni possibile riservatezza per la mia e la sua virtù. Gli risposi che ne ero contentissima e non chiedevo altro.


Ma egli giunse al punto di affermarmi che, trovandosi nudo dentro un letto in mia compagnia, avrebbe altrettanto religiosamente rispettata la mia virtù, quanto l'avrebbe difesa se io fossi stata assalita da un bruto. Gli prestai fede, e glielo dissi anche; ma non era ancora contento: mi disse che aspettava una qualunque occasione per darmene una dimostrazione indubitabile.


Molto tempo dopo, ebbi occasione di andare per quel mio affare a Bristol, nella quale circostanza egli noleggiò una carrozza e volle accompagnarmi. Stavolta in verità la nostra intimità crebbe. Da Bristol mi portò a Gloucester, che era soltanto una gita di piacere, a respirare un po' di quell'aria; e ci capitò qui di non trovare altro posto nella locanda che una gran camera con due letti. Il padrone della locanda salendo con noi per mostrarci le camere, ed entrando in quella, gli disse con molta franchezza: «Signore, non è affar mio indagare se questa donna sia o no vostra moglie, ma in caso che non sia, potete servirvi di questi due letti con altrettanta decenza che se foste in due camere» e in così dire tirò una gran tenda che attraversava la stanza, e realmente separava i letti. «Sì» replicò prontamente il mio amico, «questi letti vanno; e quanto al resto, siamo parenti troppo stretti per dormire insieme benché possiamo restare in una stessa camera» ciò che diede una faccia onesta alla cosa. Quando fummo sul punto di metterci a letto, egli discretamente uscì dalla stanza finché non fui sotto le coperte, e poi salì nell'altro letto donde però continuò un pezzo a chiacchierare con me.


Alla fine, ripetendo quella sua solita frase che si sentiva di stare nudo dentro un letto in mia compagnia e non farmi il minimo oltraggio, salta fuori del letto. «E ora, mia cara» mi dice, «vedrete quanto sarò onesto con voi e se saprò mantenere la mia parola» ed eccolo che viene verso il mio letto.


Io feci qualche resistenza ma debbo confessare che non gli avrei resistito troppo, nemmeno se non ci fosse stata quella sua promessa; sicché dopo una breve lotta mi abbandonai, lasciandolo entrare nel letto. Quando ci fu, egli mi prese tra le braccia e giacqui così con lui tutta la notte, ma null'altro egli mi fece o tentò di farmi che stringermi così come ho detto tra le braccia: nulla, ripeto, in tutta la notte, e si 'alzò e si rivestì al mattino, lasciandomi altrettanto intatta da parte sua quanto nel primo giorno della mia vita.


Mi parve questa una cosa straordinaria e probabilmente sembrerà lo stesso anche ad altri che sanno come operino le leggi della natura; giacché egli era un uomo vivo e gagliardo. E nemmeno si può dire che abbia agito così per un principio di religione ma semplicemente per affetto, insistendo sul fatto che, sebbene io fossi per lui la donna più desiderabile del mondo, pure, dato che mi amava, non poteva farmi torto alcuno.


Ammetto che era un nobile principio, ma siccome non l'avevo mai visto prima, così mi sembrò proprio da sbalordire. Continuammo per il rimanente del viaggio nel modo di prima, e ritornammo a Bath, dove avendo la comodità di venire da me ogni volta che volesse, replicò spesso quel suo saggio di continenza, e spesso io dormii con lui, e quantunque tutte le familiarità di marito e moglie ci fossero usuali, pure nemmeno una volta egli tentò di andare oltre, e molto ne era orgoglioso. Non dico che fossi anch'io così pienamente soddisfatta della cosa com'egli sembrava credere, poiché devo ammettere che ero molto più viziosa di lui.


Vivemmo a questo modo circa due anni, con questa sola eccezione, che lui andò nel frattempo a Londra tre volte, e una volta ci rimase quattro mesi; ma, per essere giusti, non mancò mai di fornirmi di tanto denaro che bastasse a mantenermi generosamente.


Se così avessimo continuato, confesso che avremmo avuto di che andare davvero orgogliosi; ma, come dice chi sa, non è bene arrischiarsi troppo sull'orlo di un limite. Così capitò anche a noi; e anche qui devo essere tanto giusta con il mio amico da riconoscere che la prima infrazione non venne da lui. Fu una notte che eravamo insieme a letto accalorati e allegri e bevuti tutti e due un po' più del solito, credo, quantunque non al punto da perdere la testa; quando, dopo certe altre follie che non posso nominare, io, che ero allacciata strettamente fra le sue braccia, gli dissi (ripeto quelle parole con vergogna e orrore d'animo) che mi sentivo in cuore la forza di scioglierlo dal suo impegno, per una notte e non oltre.


Egli mi prese in parola immediatamente e dopo non fu più possibile resistergli; né in verità io avevo intenzione di resistergli ancora.


Così si ruppe il nostro regime di virtù e io cambiai la mia posizione di amica per il dissonante e per niente melodioso titolo di baldracca.


La mattina eccoci tutti e due in contrizione; io piangevo dirottamente, lui dichiarava il suo gran rincrescimento; ma questo era tutto quello che potessimo fare per il momento, e la strada una volta aperta e gli ostacoli della virtù e della coscienza spezzati, non ci restava più gran cosa da abbattere.


Per tutto il resto di quella settimana la compagnia che ci facemmo fu piuttosto tetra; io lo guardavo coprendomi di rossore e di tanto in tanto uscivo nella malinconica obiezione: «E se ora resto incinta? Che sarà di me?». Egli mi faceva coraggio dicendomi che, fino a quando gli fossi fedele, mi sarebbe stato fedele; e dato che la cosa era ormai a tal punto (dove realmente non aveva mai avuto intenzione di giungere), se però restavo incinta, avrebbe pensato lui a tutto e anche a me. Il che ci ridiede baldanza. Lo assicurai che, se ero incinta, avrei voluto morire per mancanza di una levatrice piuttosto che indicare lui come padre; e lui mi assicurò che non mi sarebbe mancato niente, nel caso che fossi incinta. Queste scambievoli assicurazioni ci imbaldanzirono al male e dopo di allora replicammo il nostro delitto tutte le volte che ci piacque, fin che alla fine quello che avevo temuto accadde e mi trovai davvero incinta.


Quando ne fui sicura, e della cosa ebbi convinto anche lui, ci demmo a pensare quali misure potevamo prendere per venirne a capo e io proposi di confidarci con la mia padrona e chiederle consiglio. Egli fu d'accordo. La padrona, donna (come ebbi modo di sperimentare) non nuova a queste cose, non ne fece gran caso; disse che sapeva fin dall'inizio che ci saremmo arrivati e tanto parlò che anche noi ne ridemmo. Come ho detto, trovammo in lei una vecchia esperta in tali faccende; e si incaricò lei di tutto, si impegnò di trovarci levatrice e balia, di venire incontro a tutte le indagini e tirarcene fuori con reputazione, e così fece davvero con somma perizia.


Avvicinandosi il mio tempo, pregò il mio gentiluomo di ritirarsi a Londra, o almeno fare come se ci andasse. Lui partito, informò gli incaricati della parrocchia, che c'era in casa sua una dama che stava per partorire, ma lei conosceva molto bene il marito e ne diede anche il nome, secondo che seppe ben simulare, che fu Sir Walter Cleave; informandoli che era un degno gentiluomo, che lei stessa avrebbe risposto per tutte le indagini e via dicendo. Di questo si contentarono senz'altro gli incaricati e io me ne stetti a letto con altrettanto credito che se fossi stata davvero Milady Cleave; e venni assistita nel parto da tre o quattro tra le mogli dei primi cittadini di Bath, cosa tuttavia, che mi rese anche più costosa al mio amico.


Spesso gli espressi il mio rincrescimento su questo punto, ma egli mi ingiungeva di non pensarci proprio.


Dato che mi aveva provveduta abbondantemente di denaro per le spese straordinarie del parto, non mi lasciai mancare proprio niente in quell'occasione, ma neppure mi feci passare per troppo spensierata e stravagante; e d'altronde, conoscendo ormai il mondo, come avevo potuto conoscerlo, e sapendo che questo tipo di cose di solito non durano, ebbi cura di mettere da parte tutti quei soldi che mi fu possibile, per il giorno del temporale, com'io dicevo; e a lui feci credere che li avevo spesi tutti nella messa in scena eccezionale del mio parto.


In questo modo, con quello che mi aveva regalato come ho già detto, ebbi in tasca, una volta partorito, duecento ghinee tutte per me, contando anche quanto mi restava di mio.


Diedi alla luce un bel maschietto, veramente un bimbo delizioso; e quando il mio amico ebbe la notizia, me ne scrisse una lettera affettuosissima e molto obbligante e poi mi disse che, secondo lui, avrei dato una miglior idea di me se venivo a Londra non appena mi fossi alzata e ristabilita; che mi aveva già preparato l'alloggio a Hammersmith, come se arrivassi soltanto da Londra; e che qualche tempo dopo sarei ritornata a Bath, e lui con me.


Gradii molto questa proposta e noleggiai appositamente un carrozza; presi con me il mio bambino, una balia che lo accudiva e allattava, e una cameriera, e partii per Londra.


Mi venne incontro a Reading con la sua vettura e facendomici salire lasciò la cameriera, la balia e il bimbo nella carrozza da nolo. Mi introdusse così nei miei nuovi appartamenti di Hammersmith, dei quali ebbi ogni motivo di essere contentissima, poiché erano camere veramente belle.


Mi trovavo dunque all'apice di quella che potevo chiamare prosperità, e niente mi mancava se non di essere sposata, la qual cosa però era assolutamente impossibile nel nostro caso; ragion per cui mi studiavo in ogni occasione di risparmiare quanto potevo, pensando, come ho detto, alla stagione della carestia. Sapevo bene che questo genere di cose non sempre continuano; che gli uomini che hanno un'amante la cambiano spesso, se ne stufano o ingelosiscono, o questo o quest'altro; e che non sempre le dame trattate con tanta maniera hanno sufficiente cura di conservare con una prudente condotta la stima di se stesse o il delicato punto della propria fedeltà e a ragione allora vengono messe da parte con disprezzo.


Ma su questo punto ero sicura, poiché come non avevo desiderio di cambiare, così non avevo conoscenze di sorta e quindi nessuna tentazione di guardare più lontano. Non frequentavo altra compagnia se non quella della famiglia che mi alloggiava e della moglie di un pastore a due passi da noi; e così quando il mio amico non c'era, non facevo nessuna visita, e neppure quando egli veniva mi trovava mai fuori della mia camera o del salotto; se uscivo qualche volta a prendere un po' d'aria, era sempre in sua compagnia.


Questo genere di vita con quell'uomo, e il suo con me, era certo la cosa meno intenzionale del mondo; spesso egli mi giurava che tanto al tempo che aveva fatta la mia conoscenza, quanto ancora in quella prima notte che avevamo infranto la nostra regola, egli non aveva mai avuto il minimo disegno di farmi sua; che sempre aveva nutrito per me un affetto sincero ma nemmeno l'ombra del desiderio di fare ciò che aveva fatto. Io l'assicuravo che di questo non avevo mai dubitato; che se ne avessi dubitato, non avrei tanto facilmente acconsentito alle libertà che ci avevano portato a quel passo: era stata tutta una sorpresa, dovuta al fatto che troppo lontano ci eravamo lasciati indurre dal nostro reciproco desiderio di quella notte. In verità, ho spesso osservato da allora, e lo lascio per avviso ai lettori di questa storia, che si dovrebbe essere cauti nel compiacere ai nostri desideri di lascive e disoneste libertà, altrimenti potrà accaderci che le nostre decisioni ci vengano meno proprio nel momento in cui sarebbe più necessario il loro aiuto.


E' anche vero che fin dal primo giorno che avevo preso a frequentarlo, mi ero decisa a darmi a lui, se me l'avesse chiesto; ma questo era perché mi serviva il suo sostegno e non disponevo di altri mezzi per assicurarmi la sua persona. Ma quando quella notte ci trovammo insieme e, come ho già detto, eravamo andati tanto oltre, mi accorsi della mia debolezza; il desiderio era irresistibile e fui costretta ad arrendermi tutta, prima ancora che lui me lo chiedesse.


Fu tuttavia tanto generoso con me che non me ne fece mai un rimprovero; e neppure espresse mai nessuna avversione per la mia condotta in nessun'altra circostanza, ma sempre affermò di trovare nella mia compagnia altrettanta gioia come nel primo giorno che ci eravamo incontrati.


E' anche vero che non aveva moglie, o meglio, la sua per lui non era una moglie, ma le meditazioni della coscienza strappano spesso un uomo, specialmente quando sia un uomo di giudizio, dalle braccia di un'amante, come alla fine capitò anche a lui, anche se in un'altra occasione.


D'altronde, sebbene non mi facessero difetto gli intimi rimorsi di coscienza per la vita che conducevo, e questo perfino nei momenti di più intensa gioia che potessi godere, avevo però sempre la tremenda prospettiva della miseria e della fame, che mi pesava addosso come uno spettro spaventoso, sicché non avevo modo di riconsiderare il cammino percorso; mentre, come la miseria mi aveva portata a quella vita, così il terrore della miseria mi ci faceva insistere, e spesso decisi di smettere senz'altro non appena avessi almeno ammassato tanto denaro da mantenermi. Ma eran tutti pensieri di nessuna consistenza e, ogni volta che il mio amico arrivava, svanivano; poiché la sua compagnia riusciva talmente deliziosa che non era possibile restare triste con lui; le meditazioni erano argomento soltanto delle ore che passavo in solitudine.


Vissi per sei anni in questo, insieme felice e infelice, stato, e durante questo tempo gli misi al mondo tre figlioli, dei quali non sopravvisse che il primo; e benché in quei sei anni abbia traslocato due volte, ritornai tuttavia l'ultimo anno nel mio primo alloggio di Hammersmith. Fu qui che un mattino venne a sorprendermi un'affettuosa ma tristissima lettera del mio protettore per comunicarmi che stava molto male e temeva di dover ricadere un'altra volta gravemente malato, ma che dato che i parenti della moglie gli erano in casa, non era possibile che lo raggiungessi, cosa di cui tuttavia mi esprimeva il suo grande rammarico, e fossi certa che non desiderava altro se non che mi fosse lecito di vegliarlo e curarlo come in passato.


La notizia mi mise sottosopra, e mi sentivo ansiosissima di sapere come stava. Aspettai una quindicina di giorni, o quasi, e null'altro mi giunse. Fui molto sorpresa e cominciai a sbigottirmi sul serio.


Credo che nella quindicina che seguì, stetti per diventare pazza. Era mio particolare imbarazzo di non sapere direttamente dove abitava; perché dapprima mi ero convinta che stesse in casa della suocera; ma, trasferitami a Londra con l'aiuto delle indicazioni che avevo ricevute per indirizzargli le lettere seppi presto come informarmi, e scoprii che stava in una casa di Bloomsbury, dove aveva trasportata tutta la famiglia; e che la moglie e la suocera coabitavano con lui, benché alla moglie non venisse detto che si trovava sotto lo stesso tetto con il marito.


Qui poi seppi ben presto che stava per morire, cosa che ridusse anche me quasi allo stesso punto, per l'ansia di averne una precisa notizia.


Una sera feci la pensata di travestirmi da cameriera, in cuffietta tonda e cappellino di paglia, e bussai a quella porta, come inviata da una dama del quartiere dove egli stava prima, e presentando gli omaggi dei miei padroni, dissi che ero mandata a sentire come stesse il signor..., e come avesse passata la notte. Rimettendo il messaggio mi si presentò l'occasione che cercavo, poiché attaccai discorso con una delle cameriere e scambiammo una lunga chiacchierata da vere comari:

io seppi tutti i particolari della malattia, che risultò una pleurite, accompagnata da tosse e da febbre. Mi disse pure chi c'era nella casa e come stava la moglie alla quale, a sentire lei, non disperavano di potere ancora restituire la ragione; ma quanto al signore, i medici dicevano che restava ben poco da sperare: nella mattinata lo avevano già dato per spacciato e al momento non stava gran che meglio, poiché non si aspettavano che avrebbe più passata la notte.


Queste furono per me notizie gravi, e cominciai a intravedere la fine della mia prosperità e accorgermi che non mi ero sbagliata a fare la saggia economa e risparmiare qualcosa finché lui era vivo, dato che ora non avevo più alcuna speranza d'avvenire.


Quello poi che rendeva i miei pensieri opprimenti era che io avessi un figlio, un caro e grazioso ragazzo di circa cinque anni, e per lui non ci fosse nessuna provvisione, nessuna almeno che io sapessi. In mezzo a queste riflessioni e con il cuore desolato, me ne tornai quella sera a casa e cominciai a chiedermi come sarei vissuta e come potevo sistemarmi per il resto dei miei giorni.


Potete essere certi che non trovai pace finché non ebbi chiesto un'altra volta al più presto se il mio protettore era ancora vivo; e non volendo avventurarmi io stessa, spedii diversi finti messaggeri, finché dopo una lunga attesa di altri quindici giorni, seppi che c'era qualche speranza di salvezza, per quanto fosse tuttora gravissimo.


Smisi allora di mandare per notizie e qualche tempo dopo sentii dal vicinato che si era già alzato e poi che tornava a uscire.


Non avevo nessun dubbio che ben presto si sarebbe fatto vivo e cominciai a congratularmi che il mio stato fosse, per così dire, ristabilito. Aspettai una settimana, due settimane, con mia grande sorpresa quasi due mesi, e ancora non sentivo novità se non che, una volta ristabilito, si era recato in campagna per respirare un po' d'aria buona dopo la malattia. In seguito passarono altri due mesi e poi seppi che era ritornato nella sua casa di città, ma nemmeno stavolta si fece vivo.


Gli avevo scritto parecchie lettere, al solito indirizzo, e trovai che due o tre erano state ritirate, ma non le altre. Tornai a scrivere in un tono più insistente che mai, e in una di queste gli facevo sapere che sarei stata costretta a venirlo a cercare io stessa, esponendogli la mia condizione, l'affitto da pagare, la mancante provvisione per il bimbo, e infine lo stato miserando in cui versavo io stessa, indigente di tutto, dopo la sua solennissima promessa di occuparsi e provvedere.


Di questa lettera tirai una copia; e accortami che la prima stette in giacenza all'indirizzo quasi un mese e nessuno la cercava, trovai il modo di fargliene consegnare in mano la copia in un caffè, dove avevo scoperto che aveva presa l'abitudine di andare.


Questa lettera gli strappò una risposta, dalla quale seppi che, per quanto io fossi ormai condannata all'abbandono, mi aveva però scritto qualche tempo prima, consigliandomi di ritornare a Bath. Quanto al contenuto della lettera, ci verrò senz'altro.


E' cosa vera che una malattia è l'occasione in cui rapporti com'erano stati i nostri vengono considerati con diversa disposizione e visti con ben altri occhi da quelli che ci servivano in passato: il mio amante era arrivato a toccare i battenti della morte, sulla soglia dell'eternità, e, a quanto pare, lo avevano colto il dovuto rimorso e malinconiche riflessioni sulla propria passata vita di intrighi e frivolezze. Tra l'altro, i suoi colpevoli rapporti con me, che davvero non erano niente di più o di meno che un continuato adulterio, gli erano apparsi nella loro vera essenza, non come egli si era sempre compiaciuto di pensarli per il passato; e stavolta egli li considerava con giusto aborrimento.


Non posso inoltre fare a meno di osservare, e lo lascio per avviso al mio sesso in simili casi di galanteria, che ogni qualvolta un pentimento sincero segue una colpa di questo genere, non manca mai di nascere l'odio verso l'oggetto; e quanto più l'attaccamento pareva forte prima, tanto maggiore sarà quest'odio in proporzione. E così sarà sempre; in verità, non può andare diversamente, poiché come può darsi un vero e sincero aborrimento del delitto, quando permanga l'amore per la causa? Insieme all'aborrimento del peccato, troverete sempre l'orrore per il complice del peccato; non può essere altrimenti.


Così accadde anche per me, benché l'educazione e il senso di giustizia del mio protettore gli impedissero di spingere la cosa all'eccesso.


Comunque, la breve storia di quanto egli fece in proposito è questa:

seppe dalla mia ultima lettera e dalle altre che venne a cercare dopo, che non ero andata a Bath e che la sua prima lettera non mi era arrivata. Mi scrisse allora quanto segue:

"Signora, mi sorprende che la mia lettera dell'8 del mese scorso non vi sia giunta: vi do qui la mia parola ch'essa fu consegnata al vostro indirizzo, nelle mani della vostra cameriera.


Non è necessario che vi metta al corrente della prova che ho subito in questi ultimi tempi, e come, dopo esser giunto sull'orlo della tomba, venni risanato per l'inattesa e immeritata grazia del Cielo. Non deve sembrarvi strano se, durante la prova che ho sofferto, la nostra disgraziata relazione non fu l'ultimo dei carichi che mi oppressero la coscienza. Non è necessario che dica di più: delle cose di cui occorre pentirsi, occorre pure emendarsi.


Sarei lieto se decideste di ritornare a Bath. Vi accludo qui una polizza di 50 sterline per liberarvi del vostro appartamento e recarvi laggiù, e spero che non vi sorprenderà se aggiungo che per questo solo motivo e non per nessun torto che voi mi abbiate fatto, 'non ci potremo vedere mai più'. Avrò la debita cura del bimbo; lasciatelo dove si trova o prendetelo con voi, secondo quanto preferite. Vi auguro di giungere alle stesse mie riflessioni, e che possano essere tali da giovarvi. Sono, eccetera.


Questa lettera mi trafisse come mille ferite; i rimproveri della mia coscienza furono quali non so esprimere, poiché non ero affatto cieca alla mia colpa; e pensavo che sarebbe stato un delitto meno grave aver continuato a vivere con mio fratello, poiché nel nostro matrimonio sotto questo aspetto non c'era colpa, nessuno avendolo fatto apposta.


Ma nemmeno una volta mi capitò di pensare che in tutto quel tempo io ero una donna già sposata, la moglie del signor..., mercante di tele, che per quanto mi avesse abbandonata costretto dalle circostanze, non aveva però nessun potere di sciogliermi dal contratto matrimoniale che ci univa, né di concedermi la legale autorizzazione di rimaritarmi; e così per tutto quel tempo io ero stata niente di più che una baldracca e un'adultera. Allora cominciai a rimproverarmi tutte le libertà che mi ero presa e a rimproverarmi che ero stata un'insidia per quel gentiluomo e che realmente ero io la prima responsabile del delitto; che ora egli era stato misericordiosamente strappato all'abisso da un convincente influsso operato sul suo spirito, ma che io ero rimasta come abbandonata dal Cielo a perseverare nella mia vita di perdizione.


Sotto il peso di questi pensieri continuai meditabonda e malinconica per quasi un mese e non andai a Bath, poiché non avevo la minima voglia di ritrovarmi con quella donna dove ero stata in passato, temendo - così mi sembrava - che lei potesse istigarmi un'altra volta a un colpevole modo di vita come che aveva già fatto; e d'altronde mi seccava di farle sapere che ero stata abbandonata.


Adesso ero pure molto inquieta per il mio bambino. Era come la morte per me separarmene, eppure quando considerai il pericolo di restare un giorno o l'altro con lui sulle braccia senza possibilità di mantenerlo, mi decisi a lasciarlo; contemporaneamente arrivai però alla conclusione di restargli vicina, onde avere la soddisfazione di vederlo, senza il pensiero di dover provvedere a lui. Inviai quindi al mio gentiluomo una breve lettera, dove scrivevo che avevo obbedito in tutto alle sue ingiunzioni, salvo per il ritorno a Bath; che sebbene separarmi da lui fosse per me un colpo dal quale non mi sarei rimessa più, pure mi ero convinta della giustezza delle sue riflessioni, e non mi sarei neppure lontanamente indotta a desiderare d'impedirgli di cambiare vita.


Poi passavo a descrivergli le mie condizioni nei termini più commoventi. Gli dicevo che la triste sequela di rovesci, per cui la prima volta s'era preso di generosa amicizia verso di me, l'avrebbe, o almeno speravo, fatto un po' intenerire e preoccuparsi di me, per quanto la parte colpevole dei nostri rapporti l'avessimo smessa: quei rapporti ai quali nessuno di noi due, sono convinta, aveva voluto a suo tempo arrivare. Gli dicevo che era mio desiderio pentirmi con altrettanta sincerità quanto lui, ma lo scongiuravo di farmi uno stato che bastasse a strapparmi alle spaventose tentazioni della miseria e dell'abbandono. Che se poi aveva la minima preoccupazione che potessi dargli fastidio in avvenire, lo pregavo di mettermi in grado di ritornare da mia madre nella Virginia, da dove sapeva che venivo, e così sarebbe finito ogni suo timore a questo riguardo. Concludevo, che, se avesse voluto inviarmi ancora 50 sterline per agevolare la mia partenza, gli avrei rimessa una quietanza generale promettendo di non importunarlo mai più con altre richieste, tranne che per avere notizie dei progressi del bimbo, che avrei mandato a prendere, se trovavo mia madre ancora in vita e me in condizioni tali da permetterlo, togliendogli così anche quello dalle braccia.


In verità, tutta questa era una frode, e cioè non avevo la minima intenzione di tornare nella Virginia, come il racconto delle mie passate avventure di laggiù può aver convinto chiunque, ma lo scopo era di spillargli, se era possibile, quelle ultime 50 sterline, ben sapendo che erano quelli gli ultimi quattrini che potessi ancora sperare. Comunque, l'argomento che usai, e cioè di rimettergli una quietanza generale e non infastidirlo mai più,prevalse effettivamente: il protettore mi mandò una polizza di questa cifra da una persona che portava con sé una quietanza generale che dovetti firmare, e che io firmai con tutta franchezza, e così, benché amaramente contro la mia volontà, venne messo un punto fermo a tutta la storia. E qui non posso fare a meno di riflettere sulle tristi conseguenze delle eccessive libertà che si prendono tra persone del nostro stato con il pretesto delle pure intenzioni, dell'amore d'amicizia, e tutto il resto; poiché in queste amicizie la carne ha in genere una così grande parte che sarebbe piuttosto strano che i desideri non prevalessero alla fine sulle più solenni decisioni; e il vizio irrompe attraverso le offese alla costumatezza, che in realtà l'amicizia innocente dovrebbe salvaguardare con il più geloso rigore.


Ma lascio i lettori di questi avvenimenti alle loro proprie giudiziose riflessioni, che essi stessi sapranno fare ben più efficacemente di me, che mi sono tanto presto abbandonata e non sono perciò che una povera predicatrice.


Ero dunque un'altra volta in celibato, come posso ben dire; sciolta da tutte le obbligazioni di questo mondo, sia di moglie sia di amante, eccetto che per quel mio marito mercante, dal quale, non avendo ormai avuto notizie per quasi quindici anni, nessuno potrà farmi una colpa se mi stimavo interamente libera; considerando anche che al tempo della sua partenza mi aveva detto che, non avendo di lui frequenti notizie, ne concludessi che era morto e mi considerassi libera di rimaritarmi con chi meglio volessi.


Cominciai dunque a fare i miei conti. Per mezzo di molte lettere e di grandi sollecitazioni e anche per l'intervento di mia madre, avevo ricevuto dalla Virginia una seconda spedizione di merci da parte di quello che chiamavo mio fratello. Questo era per risarcire il guasto del carico che avevo portato con me, e anche stavolta a condizione che gli firmassi una quietanza generale, cosa che, per quanto mi sembrasse dura, fui tuttavia costretta a promettere. Ma seppi barcamenarmi così bene in questo caso che ritirai la merce prima di avere messo la firma alla quietanza e in seguito trovai ogni volta ora un pretesto ora un altro per sottrarmi e insomma rifiutare di mettere quella firma; finché un bel momento non tirai fuori che volevo scrivere prima a mio fratello.


Contando questo rincalzo, e prima che mi arrivassero le ultime 50 sterline, vidi che la mia fortuna ammontava, tutto sommato, a circa 400 sterline, cosicché con quelle altre furono circa 450. Da parte ne avevo messo un altro centinaio, ma qui mi capitò un disastro, che fu questo: un orefice nelle cui mani avevo affidato la somma, fallì, e così perdetti 70 sterline, non arrivando la liquidazione dell'orefice più in là del 30 per cento. Avevo pure un po' d'argenteria, ma non molta, e di vestiti e biancheria ero discretamente fornita.


Con questo capitale avevo da ricominciare la mia strada nel mondo, ma ricordatevi che non ero più la stessa donna che aveva vissuto a Rotherthithe poiché, soprattutto, avevo quasi vent'anni di più e né l'età né le mie scorribande in Virginia e ritorno, avevano avuto il potere di ringiovanirmi; e sebbene non trascurassi niente che potesse giovare a farmi bella, tranne il liscio, al quale non volli mai abbassarmi, restava però sempre qualche differenza fra i venticinque e i quarantadue.


Almanaccai innumerevoli modi di vita futura, e presi seriamente a considerare per quale strada mettermi, ma niente si offriva. Ebbi cura di farmi passare davanti al mondo per qualcosa di più che non fossi, e misi in giro che valevo un patrimonio e tutta la mia sostanza era nelle mie mani, cosa questa verissima, ma quell'altra vera come ho detto. Non avevo conoscenti, una delle più gravi mie disgrazie, e la conseguenza era che non avevo un consigliere e specialmente nessuno al quale confidare il segreto della mia condizione; e l'esperienza mi ha insegnato che la mancanza di amicizie è la peggiore estremità, seconda soltanto alla miseria, alla quale possa ridursi una donna. Dico una donna, perché mi sembra evidente che gli uomini possono fare a se stessi da consigliere e da guida e sanno come districarsi dalle difficoltà e affrontare gli affari meglio delle donne: mentre, se una donna non ha un amico da mettere al corrente delle cose sue, che la consigli e l'assista, dieci contro uno che è perduta; anzi, più denari ha, più grave pericolo corre di essere offesa e truffata; e questo fu il caso nella faccenda delle 100 sterline che affidai nelle mani dell'orefice, come ho detto, quando già il credito di costui sembra che andasse declinando, ma io, che non avevo con chi consultarmi, non ne sapevo niente e così ci rimisi i miei soldi.


Quando una donna resta così derelitta e priva di guida, è proprio simile a una borsa di denari o a un gioiello smarriti nella pubblica strada, preda del primo che passi; se succede che un uomo di virtù e saldi principi li trovi, questi li farà gridare dal banditore e può darsi che il proprietario ne senta qualcosa; ma quante volte questi valori non cadranno in mani che non si faranno il minimo scrupolo di impossessarsene, per una volta che finiscono invece in buone mani?

Tale era evidentemente il caso mio, dato che mi trovavo a essere una creatura abbandonata e priva di guida, una che non aveva soccorsi né assistenza né lumi per la propria condotta: sapevo quello a cui miravo e ciò che mi serviva, ma ignoravo del tutto come perseguire il mio fine direttamente. Quello che volevo era sistemarmi in una stabile condizione e, se avessi avuto in sorte un buon marito posato, sarei stata con lui una moglie tanto fedele quanto la virtù stessa avrebbe potuto formarla. Se le cose andarono diversamente, il vizio entrò sempre però dalla porta del bisogno, non da quella dell'inclinazione; e io mancandone capivo troppo bene quale fosse il valore di una vita stabile, per tentare men che nulla contro la mia felicità; anzi, sarei stata una moglie anche migliore, e di molto, proprio per tutte le avversità che avevo sofferto; e nessuno può dire che negli anni passati come moglie io abbia mai dato ai miei mariti la più piccola inquietudine in fatto di condotta.


Ma tutto questo era niente; io non trovavo di che incoraggiarmi, aspettavo, vivevo con ogni regolarità, e con quella frugalità che si conveniva alla mia situazione, ma niente si offriva, niente si presentava, e il capitale spariva a vista d'occhio. Non sapevo che fare; mi angosciava il cuore il terrore della miseria imminente. Avevo qualche soldo, ma non sapevo come sistemarlo, e d'altronde gli interessi non sarebbero bastati a mantenermi, non a Londra almeno.


Finalmente, si aprì una nuova speranza. Abitava nella mia stessa casa una dama del nord, e niente si ripeteva più di frequente nei suoi discorsi che, a sentirla, il buon mercato delle derrate e la facile vita praticabile al suo paese; come tutto lassù era abbondante e a buon prezzo, come gli abitanti erano di grande compagnia, e via dicendo: fin che alla fine non le dissi che quasi quasi mi metteva la tentazione di andarmici a stabilire; poiché essendo io una vedova, benché avessi di che vivere, non avevo però modo di far fruttare il mio. Le dissi che Londra era un soggiorno troppo dispendioso, e che mi accorgevo di non poterci vivere con meno di 100 sterline all'anno, fuorché rinunciando a ogni società, alla cameriera, a tutte le pretese, e sotterrandomi nell'isolamento, come se vi fossi costretta dalla necessità.


Avrei dovuto accennare che anche con lei, come con tutti quanti, non avevo smesso di simulare che valevo un patrimonio, o per lo meno tre o quattro mila sterline se non altro, e tutto in mano mia; e quella me le fece assai dolci non appena le sembrai un tantino propensa ad andare nel suo paese. Mi disse che aveva una sorella stabilita presso Liverpool; che suo fratello era un gentiluomo di peso lassù e possedeva pure grandi beni in Irlanda; e che lei stessa li avrebbe raggiunti entro due mesi. Se volevo farle compagnia fin lassù, sarei stata come lei la benvenuta per un mese o anche più, come mi sarebbe piaciuto, fin che non avessi sperimentato come quei posti mi andassero a genio; e se poi ritenevo opportuno di stabilirmici, si sarebbe incaricata lei che i suoi si occupassero, per quanto personalmente non prendessero pensionanti, di raccomandarmi a qualche discreta famiglia, dove potessi abitare con mia soddisfazione.


Se costei avesse saputo la mia vera condizione, non avrebbe mai teso tanti lacciuoli e fatto tanti inutili passi, per accalappiare una povera creatura desolata, buona a tanto poco una volta cascataci; e in verità io, che mi vedevo alla disperazione e convinta che peggio non poteva andarmi, non ero troppo ansiosa di quello che mi potesse capitare, purché non mi toccassero offese corporali. Mi lasciai così, non senza però molti inviti e grandi proteste d'amicizia sincera e vero affetto; mi lasciai, ripeto, convincere a unirmi a lei, e, in conseguenza, mi misi sul piede di partenza, benché non avessi la minima idea di dove sarei capitata.


E qui mi trovai in un grande impiccio: quel poco che avevo al mondo era tutto in denaro, tranne, ho già detto, un po' d'argenteria, di biancheria e i miei vestiti; e quanto a suppellettili domestiche, ne avevo poco o nulla, avendo vissuto sempre in appartamenti in affitto; non avevo però un amico al mondo al quale affidare quel poco oppure chiedere consiglio su cosa dovessi farne. Pensai alla banca e alle altre compagnie di Londra, ma non avevo un amico che potessi incaricare dell'operazione; e conservare e portare su di me polizze di banca, tessere, mandati e simili non mi sembrava molto prudente, perché se li perdevo andava perduto il mio denaro e per me era la fine; e d'altronde potevano derubarmi o magari assassinarmi per impadronirsene, in qualche posto fuori mano. Non sapevo proprio che partito prendere.


Una mattina pensai di andare io stessa alla banca, dov'ero stata diverse volte per riscuotere gli interessi di certe polizze che avevo e dove il segretario, al quale mi ero indirizzata, m'era sembrato persona onestissima, e in particolare tanto scrupoloso che, avendo una volta io sbagliato nel conteggio e ritirato meno di quello che mi spettasse e già venendomene via, mi fece il conto e consegnò la differenza, che avrebbe potuto intascare egli stesso.


Lo venni a cercare e gli chiesi se poteva incomodarsi e farmi da consigliere: ero una povera vedova senza amicizie e non sapevo come regolarmi. Mi rispose che se volevo il suo parere intorno a cose che fossero della sua partita, avrebbe fatto del suo meglio perché non avessi a rimetterci, ma che mi avrebbe inoltre indirizzata a un brav'uomo molto posato, di sua conoscenza, anch'egli segretario nello stesso ramo per quanto non nella stessa Casa: di costui era ottimo il consiglio e la fidata onestà. «Giacché» aggiunse il segretario, «rispondo io di quest'uomo, fino all'ultimo dei suoi passi; se voi, signora, avrete a rimetterci un solo quattrino, toccherà a me risarcirvi. E' un piacere per lui venire in aiuto alla gente nel vostro caso: lo pratica come un atto di carità.» Io rimasi un po' perplessa a questo discorso; ma dopo la pausa di un istante gli dissi che avrei piuttosto voluto affidarmi a lui, dato che lo conoscevo per onesto, ma se questo non era possibile, avrei accettato la sua raccomandazione meglio di quella di chiunque altro «Oso dire, signora» riprese, «che sarete altrettanto contenta del mio amico quanto di me e, mentre io non posso, egli è pienamente in grado di darvi assistenza.» A quanto sembra, era sovraccarico di lavoro in banca e si era impegnato a non occuparsi di altro lavoro che non fosse del suo ufficio. Aggiunse che quel suo amico non avrebbe preteso niente per il suo consiglio o assistenza, e fu questo che realmente mi convinse.


Fissò la sera stessa, una volta chiusa la banca, per il nostro incontro con il suo amico; e non appena l'ebbi visto e questi cominciò a discorrere della cosa, mi sentii pienamente convinta che avevo a che fare con una persona onestissima: l'onestà gli si leggeva in viso, e la sua reputazione, come seppi in seguito, era così eccellente ovunque, che non mi restava spazio per ulteriori dubbi.


Dopo il nostro primo incontro, nel quale non feci che ripetere quanto avevo già detto, fissò per il giorno dopo un altro appuntamento, dicendomi che potevo intanto accertarmi di lui con investigazioni, che tuttavia non avrei saputo come compiere, priva com'ero di ogni conoscenza.


Ci trovammo, come eravamo d'accordo, l'indomani e stavolta gli aprii più liberamente il mio caso. Gli descrissi a fondo le mie condizioni; che ero una vedova arrivata dall'America, del tutto abbandonata e sola; che possedevo qualche soldo, molto pochi, e mi tormentavo per il timore di perderli, non avendo una sola persona amica al mondo alla quale affidarne l'amministrazione, che stavo per trasferirmi nel nord dell'Inghilterra dove sarei vissuta meno dispendiosamente, senza sperperare il mio capitale; che di buon grado avrei depositato questi denari alla banca se avessi osato portare su di me le polizze, ma non sapevo come o con chi corrispondere a questo proposito.


Mi rispose che potevo depositare alla banca il denaro in conto corrente e la registrazione nei libri mi avrebbe dato il diritto di ritirarlo in qualunque momento; e trovandomi nel nord, potevo spiccare mandato al cassiere, e riceverne quando volessi; ma in questo caso verrebbe considerato un deposito liquido e la banca non mi corrisponderebbe alcun interesse. Potevo d'altronde impiegarlo nell'acquisto di titoli, e in questo modo l'avrei tenuto al sicuro, sennonché, quando poi volessi disporne, sarei dovuta venire a Londra per fare la voltura e neppure sarebbero state poche le difficoltà per riscuotere il dividendo semestrale, a meno che non fossi venuta io di persona o mi fossi servita di un amico tanto fidato da intestargli i titoli per metterlo in grado di occuparsene in vece mia, e qui ritornava la stessa difficoltà di prima; e in così dire mi guardava fissamente, con un leggero sorriso. Alla fine disse: «Perché, signora, non vi prendete un agente che si occupi di voi e del denaro e così vi tolga finalmente il pensiero dalla testa?». «Sissignore, e magari anche il denaro di tasca» ribattei; «davvero il rischio con questa soluzione sarebbe lo stesso.» Ma ricordo che mi dissi in segreto:

«Sarei contenta se mi facessi francamente la tua proposta: ci penserei due volte prima di rispondere no».


A questo modo continuò per un pezzo e, una volta o due, arrivai a pensare che facesse sul serio; ma fu con vera delusione che sentii infine che aveva moglie: tuttavia, quando ammise che aveva moglie, crollò il capo e disse con un certo cruccio che insomma aveva moglie e non l'aveva. Cominciai a pensare che fosse nella condizione del mio ultimo amante e che gli fosse capitata una moglie pazza o qualcosa di simile. Il nostro colloquio, tuttavia, non durò più molto quella volta; egli mi disse che troppi affari gli facevano fretta in quel momento, ma che, se volevo passare da lui non appena fosse libero, avrebbe ripensato a quello che fosse fattibile nel mio caso per regolare con qualche sicurezza i miei interessi. Gli risposi che sarei venuta e gli chiesi dove abitava. Mi diede per iscritto l'indirizzo, e, consegnandomelo, me lo lesse ad alta voce e disse: «E' qui, signora, se pure oserete fidarvi di me». «Sì» gli risposi, «credo che posso rischiare a fidarmi di voi, visto che avete moglie, a quanto mi dite, e che a me non occorre un marito; d'altronde, oso affidarvi il mio denaro, che è tutto quanto possiedo al mondo, e se perdessi questo, potrei bene arrischiarmi dovunque.» Egli mi rispose scherzosamente certe cose gentili e garbate che mi avrebbero fatto un grande piacere se fossero state dette sul serio; ma il discorso cambiò, io presi l'indirizzo e promisi di passare in casa sua alle sette di quella stessa sera.


Quando arrivai, il segretario mi suggerì diversi modi di collocare il mio denaro nella banca, allo scopo di ricavarne qualche interesse; ma sempre si intrometteva questa o quella difficoltà che lui rilevava come pericolosa; e trovai in lui un'onestà così sincera e disinteressata, che cominciai a credere di essermi proprio imbattuta nell'onest'uomo che cercavo e che non avrei avuto mai più l'occasione di mettermi in mani migliori; così gli dissi con grandissima franchezza che fino a quel giorno non mi ero mai incontrata con un uomo o una donna di cui potessi aver fiducia o con i quali potessi ritenermi al sicuro, ma che ora vedevo lui preoccuparsi così disinteressatamente della mia sicurezza che con ogni fiducia gli avrei affidata l'amministrazione di quel poco che possedevo, se pure voleva accettare di essere l'agente di una povera vedova che non poteva corrispondergli nessun salario.


Fece un sorriso e, alzandosi in piedi, si inchinò con molto rispetto.


Mi rispose che non poteva prendere se non in ottima parte che avessi di lui un'opinione così eccellente; che non intendeva abbandonarmi; che voleva fare tutto quanto poteva per venirmi in aiuto, senza pretendere un salario; ma che in nessun modo si sentiva di accettare un incarico che poteva farlo cadere in sospetto di mire personali, e che, supponendo che io venissi a mancare, lo poteva trarre in controversie con i miei esecutori, cosa in cui non aveva nessunissima voglia di cimentarsi.


Gli dissi che, se queste erano tutte le sue obiezioni, le avrei sgominate subito convincendolo che non c'era nessun tipo di difficoltà; dato che, primo, quanto a sospettare di lui, adesso se mai era il momento, e non invece mettergli nelle mani l'incarico; e d'altronde, se un bel momento io lo avessi sospettato, egli non aveva che da piantare tutto e rifiutarsi di continuare. Secondo, quanto agli esecutori, gli garantivo che non avevo eredi né parenti di nessun genere in Inghilterra, e per erede o esecutore non avrei avuto altri che lui, a meno che il mio stato non cambiasse, ma in questo caso sarebbero finiti insieme per lui l'incarico e l'incomodo. Di questo tuttavia non avevo per il momento nessuna speranza; e gli dissi che, se morivo nella mia condizione attuale, tutta quella sostanza sarebbe stata sua, e l'avrebbe meritata per la sua lealtà verso di me, della quale ero convinta in anticipo.


A questo discorso cambiò viso e mi domandò da dove mi venisse tanta benevolenza per lui; e con aria assai soddisfatta mi disse che non sentiva di prevaricare se si augurava di essere scapolo per amor mio.


Sorrisi e gli risposi che, dato che non era, la mia profferta non poteva avere nessuna mira su di lui e che augurarsi non significa potere: sarebbe stato criminoso verso sua moglie.


Mi rispose che sbagliavo; «poiché» disse, «come vi ho accennato prima, io ho una moglie e non l'ho, e non sarebbe peccato augurarle la forca.» «Non so niente della vostra condizione a questo proposito, signor mio» dissi; «ma non può essere ben fatto che vogliate morta vostra moglie.» «Vi ripeto» disse un'altra volta, «che è e non è mia moglie; e voi non sapete chi io mi sia né chi sia lei.» «Questo è vero» risposi, «io non so, signore, chi voi siate; ma vi credo un onest'uomo, e per questo ho in voi tanta fiducia.» «Sì, sì» riprese, «così sono infatti; ma sono anche un'altra cosa, mia signora; perché» disse, «a parlar chiaro io sono becco e lei una baldracca.» Pronunciò queste parole con una specie di festevolezza, ma le accompagnava un così penoso sorriso che mi accorsi quanto il pensiero lo trafiggesse, e parlando aveva assunto un'aria tetra.


«In questo caso la faccenda cambia, signore» dissi, «per quel riguardo di cui parlavate; ma un becco, voi lo sapete, può essere un onesto uomo; e qui la cosa non cambia per niente. D'altronde, penso» continuai, «che, vista la disonestà di vostra moglie con voi, voi siete anche troppo onesto a riconoscerla per moglie, ma di questo non spetta a me immischiarmi.» «Anzi» ribatté, «penso di togliermela dai piedi; poiché a dire il vero, cara signora, non si può neppure dire che io sia un becco soddisfatto; al contrario, vi assicuro che la cosa mi irrita al più alto grado, ma non posso farci niente: se una vuole essere baldracca, sarà baldracca.» Lasciai cadere quel discorso e ricominciai a parlare del fatto mio; mi accorsi però che il segretario non si rassegnava a tacere, e così lo lasciai dire e lui mi raccontò tutte le circostanze del caso, troppe per riferirle qui: in particolar modo che, mentre lui era stato assente dall'Inghilterra per un certo tempo prima di entrare in quell'impiego, quella donna aveva avuto due bambini da un ufficiale dell'esercito; e che dopo che egli giunse in Inghilterra e, vedutala sottomessa, l'ebbe ripresa con sé e la manteneva con molta bontà, lei lo derubò di tutto quello su cui poté mettere le mani, scappò col garzone di un mercante di tele, e viveva tuttora lontana da lui.


«Sicché, signora» concluse, «quella è baldracca non per bisogno, che è lo stimolo ordinario, ma per inclinazione e per gusto del vizio.» Gli espressi allora la mia pietà, augurandogli di liberarsi alla buon'ora di quella donna, e di nuovo volevo tornare a discorrere della mia faccenda, ma niente serviva. Alla fine mi piantò addosso gli occhi: «Ascoltatemi, signora» disse, «siete venuta a chiedermi consiglio e io vi assisterò con altrettanta lealtà che se foste una mia sorella; ma ora debbo rovesciare le posizioni visto che voi mi ci costringete, trattandomi con tanta benevolenza, e credo che dovrò chiedere consiglio a voi. Ditemi, che deve fare un pover'uomo della baldracca che l'ha ingannato? Che posso fare per avere da lei quella giustizia che mi spetta?».


«Ahimè! signore» dissi, «è un caso troppo delicato per i miei consigli, ma se ho ben capito, lei vi ha piantato, e dunque ve la siete bellamente tolta di torno; che altro potete ancora desiderare?» «Sì, senza dubbio se n'è andata» rispose; «ma con tutto ciò non ne sono ancora libero.» «Questo è vero» ripresi, «costei può perfino farvi dei debiti, ma la legge vi provvede dei mezzi adatti a impedirlo; potete farla pubblicamente interdire, se questo è il termine.» «No, no» mi rispose, «non è questo il punto; a tutto questo ho pensato; non è di questo che parlo, ma vorrei sbarazzarmi di lei per sposarmi un'altra volta.» «Caro signore» dissi, «allora dovete divorziare; se avete modo di provare quanto dite, è certo che ci riuscirete e sarete finalmente libero.» «Troppo seccante e dispendioso» mi rispose.


«Tuttavia» dissi, «se vi riuscisse di indurre una qualche donna di vostro gusto ad ascoltarvi, suppongo che vostra moglie non vi contesterebbe la libertà ch'essa stessa si prende.» «Già» mi rispose, «ma credete che sarebbe cosa facile portare una donna onesta a un simile passo? quanto alle altre» aggiunse, «ne ho già di lei fin sopra i capelli, per immischiarmi ancora con baldracche.» Mi balenò in mente: "Ti avrei io ascoltato con tutta l'anima, se soltanto ti fossi fatto avanti" ma ciò lo dissi tra me. A lui risposi:

«Ma così, voi sbarrate la porta a qualunque donna onesta volesse accettarvi, poiché condannate chiunque fosse disposta a correre il rischio con voi, se concludete che una donna, la quale vi prenda così come siete ora, non può essere onesta».


«Eppure» disse, «io vorrei che mi convinceste che una donna onesta può accettarmi; mi sentirei di correre questo rischio»; e qui si volse netto a me: «Voi mi accettereste, signora?».


«Non è buon gioco» risposi, «dopo quanto avete detto; tuttavia perché non pensiate che vi chieda soltanto una ritrattazione, vi risponderò chiaro e tondo: No, io no, i miei affari con voi sono di tutt'altro tipo; e non avrei mai creduto che, del mio serio ricorso a voi in questa mia disperata condizione, voi avreste fatta una commedia.» «Ma, signora» mi disse, «la mia condizione è altrettanto disperata quanto la vostra, e ho altrettanto bisogno di consiglio io quanto voi, perché credo che se non troverò un soccorso da qualche parte, impazzirò dalla disperazione e vi assicuro che non so assolutamente che strada prendere.» «Certo» dissi, «è più facile dare un consiglio per il caso vostro che non per il mio.» «Parlate, allora» mi disse, «ve ne supplico, perché ora mi ridate coraggio.» «Ecco» risposi, «se il caso vostro è tanto semplice, non avete che da chiedere il divorzio legale, e poi troverete donne oneste quante ne vorrete, da richiederle in buona fede; il nostro sesso non è così scarso che debba mancare una moglie per voi.» «Ebbene dunque» mi disse, «parlo sul serio: seguirò il vostro consiglio; ma posso farvi in precedenza una domanda seria?» «Qualunque domanda» gli risposi, «tranne quella di prima.» «No, così non va» mi disse, «perché è quella insomma la domanda che devo farvi.» «Voi potete farmi tutte le domande che volete, ma la mia risposta l'avete già avuta» risposi; «e d'altronde, signore» continuai, «è possibile che abbiate di me una così vile opinione da supporre che io possa rispondere in precedenza a una domanda simile? C'è donna al mondo che possa credere che facciate sul serio o pensare che abbiate altro in mente che di pigliarla in giro?» «No, no» disse, «io non vi piglio in giro, ma dico sul serio; pensateci su.» «Signor mio» gli feci, con una certa severità, «io venni da voi a proposito di un affare; volete essere tanto buono da comunicarmi quale sarebbe il vostro consiglio in proposito?» «Ci avrò pensato» rispose, «quando verrete la prossima volta.» «Già» dissi, «mi avete proibito però di venirci mai più.» «E perché?» chiese, con una faccia sbigottita.


«Perché» gli dissi, «non potete pensare che io vi faccia visita a quel proposito del quale parlate.» «Ebbene» disse, «promettetemi di tornare ancora, comunque, e io non ve ne parlerò più fino a che non avrò ottenuto il divorzio. Ma vi prego di perpararvi ad essere meglio disposta, una volta che sarà fatto; poiché proprio voi sarete la donna o diversamente non chiederò nemmeno il divorzio: debbo questo alla vostra inopinata bontà, non fosse che a questa, ma ho pure altri motivi.» Non avrebbe potuto dirmi cosa al mondo più gradita; tuttavia, sapevo che il modo di assicurarmelo era di tenerlo a distanza fin che il successo era così remoto come appariva, e che ci sarebbe stato tutto il tempo di accettare, una volta che lui fosse in grado di effettuare la cosa. Così gli risposi con molto rispetto che avremmo avuto tutto il tempo di pensarci quando fosse in condizioni di parlarne più seriamente; intanto, gli dissi, io sarei andata molto lontano, né a lui sarebbero mancati soggetti in abbondanza da soddisfarlo anche di più. Per il momento la lasciammo lì, e lui mi fece promettere che sarei tornata l'indomani per quella mia faccenda, cosa che ottenne con qualche fatica; mentre, se avesse potuto leggermi più dentro, non aveva bisogno di fatica alcuna per convincermi.


Venni la sera successiva, secondo l'intesa, e mi feci accompagnare dalla cameriera, per mostrargli che avevo una cameriera. Egli mi fece intendere che era suo desiderio che la cameriera mi aspettasse, ma non ne volli sapere e le ordinai a voce alta di tornare a prendermi verso le nove. Questo egli lo rifiutò e mi disse che mi avrebbe riaccompagnata lui, cosa che non mi piacque eccessivamente, immaginando che volesse fare questo per venire a conoscenza del mio domicilio e indagare sul mio carattere e stato. Tuttavia, mi ci arrischiai, poiché tutto quanto la gente laggiù sapeva nei mie confronti, ridondava a mio vantaggio; e lui di me non sapeva altro se non che ero una donna di fortuna, e una creatura molto modesta e posata; cosa che, vera che fosse o meno in assoluto, pure vedete anche voi quanto importi per tutte le donne che sperano qualcosa nel mondo, se vogliono preservare il nome della loro virtù, quand'anche ne abbiano sacrificato la sostanza.


Vidi, e mi piacque non poco, che aveva provveduto a prepararmi una cena. Vidi pure che se la passava molto bene e aveva una casa discretamente ricca e tale che me ne rallegrai di cuore, dato che consideravo già tutto come roba mia.


Avemmo un secondo colloquio sullo stesso argomento dell'altro. Egli ribadì senza infingimenti il suo proposito; mi protestò tutto il suo affetto e in verità non avevo motivo di dubitarne; dichiarò che esso risaliva al primo istante che gli avevo parlato, e molto prima che avessi accennato all'intenzione di lasciargli i miei averi. "Non importa a quando risale" pensavo, "purché duri poi, sarà sempre sufficiente." Poi passò a spiegarmi quanto l'avesse catturato la mia profferta di affidargli ogni avere "Così volevo infatti" pensai, "ma allora credevo anche che fosse scapolo." Una volta cenato, notai che insisteva molto per farmi bere due o tre bicchieri di vino; io però non volli saperne e non bevvi che un bicchiere o due. Allora mi disse che aveva una proposta da farmi, che dovevo promettergli di non prendere in cattiva parte, quand'anche non accettassi. Gli risposi che speravo che non stesse per propormi niente di disonorevole, specialmente in casa sua, e che se tale era la presente, preferivo non ne facesse parola per non trovarmi nella necessità di mostrargli un risentimento che disdiceva alla stima che gli portavo e alla fiducia che in lui avevo riposto, entrandogli in casa. E lo pregavo di darmi licenza di andarmene, dopo di che presi a infilarmi i guanti e a prepararmi per la partenza, benché tuttavia non ne avessi l'intenzione più che lui non intendesse permettermelo.


Ed ecco: mi scongiurò di non parlare di partenza, mi assicurò che era lontano le mille miglia dal volermi proporre checchessia di disonorevole e che, se così pensavo, anch'egli preferiva non dirne altro.


Qui non mi garbò più per niente. Gli risposi che ero disposta ad ascoltare qualunque discorso volesse farmi, convinta che non avrebbe detto niente che fosse indegno di sé o sconveniente per me che l'ascoltavo. Allora, mi disse che la proposta era la seguente: io avrei dovuto sposarlo, quantunque non avesse ancora ottenuto il divorzio da quella baldracca di sua moglie, e per assicurarmi che le sue intenzioni erano onorevoli, mi prometterebbe di non pretendere che gli coabitassi o dormissi insieme, fin che non fosse pronunciato il divorzio. Fin dalla prima parola di quest'offerta il mio cuore gridò sì, ma era necessario fare ancora un poco l'ipocrita con lui; così finsi di respingere con un certo calore la richiesta come assurda, gli dissi che una simile proposta non poteva avere altro senso che d'invilupparci tutti e due in un groviglio di difficoltà; poiché se alla fin fine poi non otteneva il divorzio, il matrimonio non avremmo però potuto scioglierlo e nemmeno starvi dentro, in modo che lasciavo a lui di riflettere in quale condizione ci saremmo venuti a trovare nel caso che le sue speranze di divorzio andassero frustrate.


Insomma, portai così a fondo l'argomento in contro che lo convinsi che la sua proposta non aveva il minimo buon senso; egli allora passò a un'altra, e fu che dovessi firmare e sigillare con lui un contratto, che pattuisse che l'avrei sposato non appena pronunciato il divorzio, nullo nel caso che non glielo concedessero.


Gli dissi che questa era più ragionevole della precedente; ma che, dato che era la prima volta che potevo supporlo tanto dimentico di sé da parlare sul serio, non era mia abitudine rispondere affermativamente a una prima sollecitazione: ci avrei pensato su.


Scherzavo con quest'innamorato come il pescatore alla lenza fa con la trota: sentivo di averlo solidamente all'amo: così mi presi gioco anche di questa proposta, e lo frustrai. Gli dissi che di me sapeva troppo poco e gli consigliai di raccogliere informazioni; e lasciai che mi riaccompagnasse a casa, pur non invitandolo a entrare, poiché gli osservai che non sarebbe stato conveniente.


A farla breve, osai rifiutare di firmare quel contratto, e il motivo fu questo: la dama che mi aveva invitata ad andare con lei nel Lancashire, insisteva tanto ostinatamente e mi faceva balenare lassù fortune così mirabolanti e cose tanto belle, che non resistetti alla tentazione di andare a provare. «Può darsi» dicevo, «che mi rimetta in sesto per bene»; e, su questo, non mi facevo scrupolo di abbandonare il mio galantuomo di città, di cui non ero innamorata al punto di non poterlo lasciare per uno più ricco.


In una parola, rifiutai di impegnarmi; ma gli dissi che sarei andata nel nord, e che avrebbe saputo dove indirizzarmi le lettere per l'incarico che gli avevo affidato; che gli avrei concesso un pegno sufficiente della mia stima, lasciando nelle sue mani quasi tutto quello che possedevo al mondo; e che per il momento gli davo la mia parola che, non appena fosse finita la causa di divorzio, se me ne avesse mandato un ragguaglio, sarei ritornata a Londra e finalmente avremmo parlato sul serio della cosa.


Era un basso disegno, bisogna pure che lo confessi, quello con il quale partivo, benché mi avessero invitata lassù con un disegno anche peggiore, come il seguito della storia chiarirà. Andai dunque con la mia amica, come la chiamavo, nel Lancashire. Per tutto il percorso del viaggio lei mi vezzeggiò con ogni apparenza di un sincero e schietto attaccamento; per tutto il percorso, pagò le spese, tranne il nolo della carrozza; e suo fratello venne a incontrarci a Warrington con una carrozza signorile donde proseguimmo fino a Liverpool accompagnate da tutte le cerimonie che potevo desiderare.


Fummo pure ospitate con grande liberalità tre o quattro giorni nella casa di un mercante di Liverpool; tralascio di scrivere il suo nome, a motivo di quello che seguì. Poi la dama mi disse che voleva portarmi nella casa di un suo zio dove saremmo state splendidamente ospitate; e lo zio, come essa lo chiamava, mandò una carrozza con quattro cavalli a prenderci, e viaggiammo per una quarantina di miglia non so in che direzione.


Arrivammo a buon conto in una villa signorile, piena di una famiglia numerosa, con un vasto parco, una società veramente straordinaria, e dove la dama era chiamata cugina. Le dissi che, se aveva pensato di portarmi tra una società come quella, avrebbe dovuto avvertirmi che mi provvedessi di un miglior guardaroba. Le dame di lassù ascoltarono le mie parole e mi spiegarono con molto tatto che nel loro paese non valutavano soltanto le persone dal vestire come si faceva a Londra; che la cugina aveva dato loro un pieno ragguaglio della mia condizione, e che per brillare a me non occorrevano abiti; insomma mi trattarono non per quella che ero ma per quella che pensavano fossi, vale a dire, una dama di grande fortuna.


La prima cosa che scoprii qui fu che tutta la famiglia era cattolica romana, e così pure la cugina; tuttavia nessuno al mondo avrebbe potuto comportarsi meglio con me, e ricevevo tutte quelle cortesie che avrei ricevuto se fossi stata della loro confessione. Vero si è che non avevo in me quel tanto di principi da rendermi puntigliosa in fatto di religione; e senz'altro imparai a parlare favorevolmente della Chiesa Romana; in particolare, espressi l'idea che vedevo poco più che un pregiudizio di educazione in tutte le differenze che correvano fra i cristiani sulle cose di fede, e che, se per caso mio padre fosse stato cattolico romano, non dubitavo che sarei stata altrettanto soddisfatta della loro religione che della mia.


Questo piacque loro moltissimo e, come ero assediata giorno e notte da una eccellente compagnia e da una conversazione festosa, così ebbi pure intorno a me due o tre vecchie dame che mi tastarono sull'argomento della religione. Io fui tanto compiacente che non mi feci scrupolo di assistere alla loro Messa e conformarmi a tutti i gesti dei quali mi diedero l'esempio, ma non volli essere troppo facile, e così in generale le incoraggiavo soltanto a sperare che mi sarei fatta cattolica romana previa istruzione nella dottrina cattolica, com'essi dicono; e la cosa rimase a questo punto.


Mi trattenni lassù circa sei settimane; poi la mia guida mi riportò in un villaggetto di campagna, a circa a sei miglia da Liverpool, dove suo fratello, com'essa lo chiamava, venne a farmi visita nella sua carrozza accompagnato da due lacchè in bella livrea; e senz'altro prese a farmi la corte. Sembrerebbe strano che io mi facessi ingannare come mi capitò, e davvero credevo la stessa cosa anch'io, dato che a Londra possedevo una carta sicura decisa a non buttare, a meno che trovassi da rimettermi molto bene in sesto. Pure, secondo tutte le apparenze, questo fratello era un partito degno della mia considerazione e il meno che si valutassero i suoi possedimenti erano 1000 sterline annue; anzi la sorella diceva che ne fruttavano 1500, e la maggior parte si trovava in Irlanda.


Io, che ero una grande fortuna, e passavo per tale, venivo considerata al disopra di ogni domanda sulle mie sostanze; e la mia falsa amica, fondandosi su di una voce oziosa, le aveva portate da 500 sterline a 5000 e, al tempo che venne in campagna, parlava di 15000. L'irlandese, poiché tale sentii che era, perse la testa a un'esca simile; e insomma mi corteggiò, mi fece regali e si indebitò come un folle, tutto per le spese della sua corte. Debbo però fargli giustizia: aveva una straordinaria eleganza aristocratica, era alto, ben fatto e possedeva un garbo meraviglioso: conversava con tanta naturalezza del suo parco e delle scuderie, dei cavalli e dei guardacaccia, dei boschi, dei fittavoli e dei servitori, come si trovasse nel suo castello e tutte quelle cose io me le vedessi intorno.


Mai neppure mi interrogò sulla mia fortuna né sul mio stato; mi garantì invece che, quando fossimo a Dublino, mi avrebbe dato in sopraddote un'ottima tenuta, che rendeva 600 sterline, e che era disposto a firmare senz'altro l'atto o contratto di dotazione, per assicurarmela in effetto.


Era un linguaggio, questo, che davvero non c'ero abituata e mi sconvolse tutti i criteri; avevo poi all'orecchio un demonio in gonnella, che di ora in ora andava ripetendomi che specie di gran vita conducesse il fratello. Ora veniva a prendere i miei ordini, come desiderassi far dipingere la carrozza e come la volessi arredata; ora quale livrea doveva indossare il mio paggio; ero insomma abbacinata, e avevo perso ogni facoltà di rispondere no; a farla breve, acconsentii a sposarlo; tuttavia, perché la cosa riuscisse più intima, andammo nell'interno della campagna e ci sposò un sacerdote, che, me n'ero accertata, poteva unirci altrettanto effettivamente che un parroco anglicano.


Non posso negare di aver fatto durante quest'impresa certe riflessioni sul mio vergognoso abbandono del devoto segretario, che mi amava tanto sinceramente e che andava tentando di liberarsi da quella scandalosa baldracca che l'aveva trattato in modo così barbaro, ripromettendosi dalla nuova scelta un'infinita felicità; la quale nuova scelta si concedeva intanto a un altro in maniera quasi altrettanto scandalosa quale era stata quella della moglie.


Ma la scintillante lustra di una grande ricchezza e di tante cose belle, che quell'ingannata creatura occupata a ingannarmi dipingeva di ora in ora alla mia fantasia, mi spronò, senza lasciarmi il tempo di pensare a Londra né a nessuna cosa di laggiù, e tanto meno agli obblighi che mi legavano a un uomo che valeva infinitamente più di colui che ora mi stava davanti.


Ma la cosa era fatta; ero ormai tra le braccia del mio nuovo sposo che conservava tuttora il suo sfoggio: magnifico di grandezza e tale che non meno di un migliaio di sterline all'anno avrebbero potuto mantenere l'ordinario apparecchio in cui si mostrava.


Dopo un mese circa di matrimonio, egli incominciò a parlare del mio viaggio a West Chester per imbarcarci alla volta dell'Irlanda.


Tuttavia non mi fece nessuna fretta, poiché restammo dov'eravamo per altre tre settimane e poi mandò a Chester a prendere una carrozza che ci venisse incontro alla Rupe Nera, come la chiamano, dirimpetto a Liverpool. Qui ci recammo su di una bella imbarcazione che chiamano pinaccia, spinta a sei remi; i servitori, i cavalli e il bagaglio traversando in chiatta. Egli si scusò con me del fatto che non aveva conoscenze a Chester, ma mi avrebbe preceduta e cercato un qualche elegante appartamento in una casa privata. Gli chiesi quanto ci saremmo fermati a Chester. Mi rispose: non certo più di una notte o due; avrebbe noleggiato subito una carrozza per portarci a Holyhead.


Gli dissi allora che non doveva assolutamente incomodarsi a cercarmi un alloggio privato per una o due notti, giacché essendo Chester una vasta città non avevo nessun dubbio che avremmo trovato ottime locande e di che sistemarci benissimo. Scendemmo infatti a una locanda non lontano dalla Cattedrale; non ricordo più a quale insegna.


Qui il mio sposo, parlando del mio viaggio in Irlanda, mi chiese se non avevo affari da assestare a Londra prima della partenza. Gli risposi che no, o almeno non di molto importanti, tutte cose alle quali si poteva benissimo attendere per lettera da Dublino. «Signora» mi disse con molto rispetto, «la maggior parte, suppongo, della vostra sostanza, che a quanto sento da mia sorella consiste principalmente in denaro liquido depositato alla Banca d'Inghilterra, è certo al sicuro; ma, nel caso che si richiedesse un trasferimento o una qualunque mutazione di proprietà, potrebbe essere necessario andare a Londra e assestare ogni cosa prima del viaggio.» Io ebbi un'aria trasecolata a questo discorso, e gli risposi che non capivo; che, a mia conoscenza, non avevo depositi alla Banca d'Inghilterra, e speravo che non potesse affermare che gli avessi mai raccontata una cosa simile. No, mi rispose, non gli avevo detto questo, ma sua sorella aveva detto che la maggior parte della mia sostanza era depositata là; «e ho voluto parlarvene, mia cara» mi disse, «semplicemente perché se si presentasse l'occorrenza di assestarla e di provvedervi in qualche modo, non ci toccasse il rischio e l'incomodo di un'altra traversata»; giacché, aggiunse, non ci teneva a espormi troppo in viaggi di mare.


Mi sorprese molto questo discorso, e cominciai a chiedermi che potesse voler dire; e subito mi resi conto che la mia amica, quella che chiamava fratello il mio sposo, doveva avermi descritta con colori che non erano i miei; e decisi che avrei visto in fondo alla faccenda prima di lasciare l'Inghilterra e prima di mettermi in paese sconosciuto nelle mani di chi sa chi.


A questo proposito l'indomani chiamai in camera mia la sorella e mettendola al corrente del colloquio che avevamo avuto il fratello ed io, la scongiurai di ripetermi che cosa gli avesse detto e quale fosse il fondamento sul quale aveva concluso il nostro matrimonio. Lei ammise di avergli detto che valevo una fortuna; e allegò che così aveva sentito a Londra. «Sentito a Londra?» scattai vivamente; «l'avete mai sentito da me?» No, rispose, riconosceva di non averlo mai sentito da me, ma però le avevo detto parecchie volte che quanto possedevo era a mia intera disposizione. «Certamente» ribattei con vigore, «ma non vi dissi mai che possedessi qualcosa come una fortuna; no, nemmeno che avessi al mondo 100 sterline o il valore di 100 sterline. E come si sarebbe accordato con la mia fortuna» continuai, «che io volessi venire qui nel nord con voi, semplicemente avendo sentito che la vita era a buon mercato?» A queste parole, che pronunciai con voce alta e fremente, entrò mio marito, e lo pregai di farsi avanti e sedersi, poiché avevo qualcosa della massima importanza da dire in presenza di tutti e due, qualcosa che era assolutamente necessario ascoltasse anche lui.


Ebbe un'aria un po' sconcertata alla sicurezza con la quale sembravo parlare, e si fece avanti e mi sedette vicino, non senza aver prima chiuso l'uscio; dopo di che, dato che ero irritatissima; cominciai e, rivolgendomi a lui, dissi: «Temo, mio caro» (perché a lui parlai con benevolenza) «che con il nostro matrimonio vi sia stato usato un grandissimo inganno, e un torto del quale non sarete risarcito mai più; ma dato che io non vi ho avuto parte, voglio esserne scagionata secondo quanto è giusto, e che la colpa ricada dove deve e non altrove, poiché io mi lavo le mani di tutto.» «Quale torto può essermi stato fatto, mia cara, nel nostro matrimonio?» rispose. «Io sono convinto che ritorna tutto a mio onore e vantaggio.» «Ve lo spiegherò subito» dissi, «e ho una grande paura che non avrete motivo di ritenervi ben trattato; ma vi convincerò, mio caro, che io non vi ho avuto parte.» Allora si mostrò sbigottito e ansioso, e cominciò, credo, a sospettare quello che seguì; pure, guardandomi e dicendo soltanto: «Continuate» sedette muto, come in attesa di quello che avevo da dire. Continuai.


«Vi chiesi ieri sera» dissi volgendomi a lui, «se mai mi fossi vantata con voi della mia ricchezza e se mai vi avessi detto di possedere una fortuna alla Banca d'Inghilterra o in qualche altro luogo, e voi ammetteste che mai avevo fatto questo, com'è la verità. Ora desidero che mi diciate qui, in presenza di vostra sorella, se vi ho mai dato qualche motivo di pensare una cosa simile o se mai neanche vi abbia fatto intorno parola» ed egli ammise un'altra volta che era vero, ma disse che mi ero sempre mostrata una donna ricca e lui ci contava, e sperava di non essersi ingannato. «Io non chiedo ora se siete stato ingannato» ribattei, «temo che lo siate stato, ed io con voi; ma voglio scagionarmi dall'aver preso parte all'inganno.


«Ho chiesto poco fa a vostra sorella se mai le ho parlato di ricchezze o di beni di mia proprietà, o se mai gliene ho fatto l'inventario, e mi ha ammesso di no. E vi prego, signora» dissi, «siate con me tanto leale da incolparmi, se potete, qualora io vi abbia mai affermato di possedere una sostanza; e come, se l'avessi avuta, mi sarei mai decisa a venire in questo paese con voi allo scopo di risparmiare quel poco di mio, e vivere meno dispendiosamente?» Di tutto questo non poté contestare una parola, ma ripeté di aver sentito a Londra che ero padrona di un'immensa fortuna, la quale era depositata alla Banca d'Inghilterra.


«E ora, signor mio» dissi rivolgendomi un'altra volta al mio sposo novello, «usatemi la giustizia di dirmi chi è che ci ha ingannati tutti e due al punto da farvi credere che io valessi una fortuna, e da decidervi a corteggiarmi e sposarmi?» Egli non poté articolare parola, ma indicò la sorella, e trascorso un momento di silenzio, scoppiò nella più furibonda collera alla quale abbia mai visto in vita mia abbandonarsi un uomo, vituperandola e dandole della baldracca e ogni nome più brutto che gli venne in mente; e che l'aveva rovinato, e dichiarò che a sentire lei io valevo 15000 sterline, e 500 ne aveva promesse a lei per il matrimonio procacciato.


Poi aggiunse, rivolgendosi a me, che quella non era affatto sua sorella, ma era stata per due anni la sua baldracca; che in acconto del mercato aveva già ricevuto da lui 100 sterline, e se le cose stavano davvero come io dicevo, egli era perduto senza remissione; e nella sua frenesia giurò che le avrebbe senz'altro spaccato il cuore, cosa che ci atterrì tutte e due. La donna si mise a piangere, e disse che ogni cosa l'aveva sentita in quella casa dove abitavo. Ma questo non ebbe altro effetto che di esasperarlo maggiormente: che lei dovesse fargliela tanto grossa e spingere le cose a tal punto sulla semplice fede di un sentito dire. Poi rivolgendosi a me un'altra volta, mi avvertì con tutta onestà che temeva assai non fossimo tutti e due perduti: «Perché a dirtela chiara, chiarissima, io non possiedo un soldo. Quel poco che avevo, questa strega me l'ha fatto buttare nell'apparecchio che vedi». La donna colse il momento che lui era intento a parlarmi, uscì da quella stanza e non la vidi mai più.


Io ora ero smarrita quanto lui e non sapevo che dire. Pensavo che la mia sorte era stata peggiore, per molti rispetti; ma sentirgli dire che era perduto e insieme che nemmeno aveva un soldo, mi cacciò veramente fuori di me. «Ma dunque» gli dissi, «tutto non è stato che un'infernale impostura: noi siamo sposati sul fondamento di una doppia frode; tu con questa delusione a quanto pare sei rovinato; e anch'io, se avessi avuto una sostanza, sarei rimasta truffata, visto che dici che non possiedi niente.» «Veramente, saresti stata truffata, carissima» mi disse; «ma non rovinata, dato che 15000 sterline ci avrebbero permesso di vivere benissimo in questo paese; e io ero deciso a consacrartene fino l'ultimo quattrino; non ti avrei fatto torto di un solo scellino, e per il resto avrei supplito con il mio amore per te e la mia tenerezza fino all'estremo dei miei giorni.» Tutto questo era assai onesto, e credo veramente che dicesse quello che pensava e fosse un uomo tanto adatto a rendermi felice per carattere e modi, quanto altri mai; ma il fatto che non possedesse niente e si fosse indebitato in paese per quel ridicolo motivo, rendeva desolato e tremendo il nostro futuro, e davvero non sapevo che dirmi o che cosa pensare.


Gli risposi che era troppo penoso che tanto amore e tante buone intenzioni quanto ne trovavo in lui, dovessero a questo modo precipitare nell'infelicità; che sulla nostra strada non vedevo se non desolazione, perché quanto a me, la mia disgrazia era questa: quel poco che avevo non sarebbe bastato a soccorrerci per una settimana, e in così dire tirai fuori una polizza di 20 sterline e undici ghinee, che, gli dissi, avevo risparmiato sul mio piccolo reddito, e dalla descrizione che quell'essere mi aveva fatto del modo di vita di quel paese avevo sperato dovessero bastarmi per tre o quattro anni. Dissi che separandomi da quella somma, io restavo priva di mezzi, e lui sapeva certo quale sia la condizione di una donna che non abbia un soldo in tasca; eppure, gli dissi, se li voleva, eccoli.


Mi rispose con grande sollecitudine, e credo che gli vidi le lacrime agli occhi, che mai li avrebbe toccati; che aborriva l'idea di spogliarmi e cacciarmi nella miseria, che gli restavano cinquanta ghinee al mondo, e le tirò fuori e le buttò sul tavolo, invitandomi a prenderle, anche se privo di quelle dovesse morire di farne.


Gli risposi, con la stessa sollecitudine, che non potevo reggere a sentirlo parlare in quel modo; che, al contrario, se aveva da proporre un qualche piano di vita praticabile, io avrei fatto tutto quello che mi si chiedesse e sarei vissuta quanto modestamente lui avrebbe desiderato.


Mi supplicò di non parlare più con quel tono, altrimenti gli dava di volta il cervello; disse che era stato tirato su da gentiluomo, benché era ridotto in basso stato, e che ormai non restava se non una strada da prendere, ma anche questa non avrebbe giovato, se io prima non rispondevo a una sua domanda, cosa tuttavia alla quale non intendeva forzarmi. Gli dissi che avrei risposto francamente; fosse o non fosse poi di suo gradimento la risposta, questo non sapevo.


«Ebbene allora, carissima» disse, «dimmi chiaro se quel poco che possiedi ci può consentire una certa figura nel mondo, un qualche stato, oppure no?» Fu mia fortuna che io non mi fossi manifestata, né me né la mia condizione, per niente, e anzi nemmeno avessi rivelato il mio nome; poiché vedendo che da quell'uomo, per quanto buono e per quanto onesto apparisse, niente potevo attendermi altro se non di vivere con quello che sapevo che sarebbe presto finito, decisi di tenergli tutto nascosto tranne la polizza e le undici ghinee; e sarei stata lieta di perdere quelli e ritrovarmi nel luogo da dove lui mi aveva tolta. In verità avevo su di me un'altra polizza di 30 sterline, che era tutto quello che mi ero portata dietro, per tirare avanti in quel paese, visto che non sapevo quello che avrei potuto trovarci; poiché quella donna, la mezzana che ci aveva in quel modo traditi, mi aveva ficcato in testa strane speranze di un vantaggioso matrimonio e io non volevo restare a corto di denari, qualunque cosa potesse succedermi. Gli tenni nascosta questa polizza, e questo mi rese anche più liberale quanto al resto, in considerazione del suo stato, giacché di vero cuore lo commiseravo.


Ma per tornare a quella domanda, gli risposi che mai l'avevo intenzionalmente ingannato e mai mi ci sarei decisa. Ero dolente di dovergli dire che quel poco di mio non ci sarebbe bastato; che non era nemmeno sufficiente a me sola nell'Inghilterra meridionale, e per questa ragione mi ero messa nelle mani di quella donna che lo chiamava fratello, avendomi essa assicurato che avrei potuto alloggiarmi a dozzina signorilmente per 6 sterline all'anno in una città detta Manchester, dove non ero stata ancora; e non superando tutta la mia rendita le 15 sterline annue, io avevo pensato che quella vita mi sarebbe stata facile e avrei intanto aspettato di meglio.


Egli crollò il capo e rimase muto. Passammo una serata molto triste; cenammo insieme tuttavia e insieme dormimmo quella notte. La cena era quasi finita che il volto gli si schiarì e rallegrò, e fece portare una bottiglia di vino. «Suvvia, carissima» disse, «se anche il caso è grave, non giova a niente accasciarsi. Via, prendila come meglio sai; mi ingegnerò a trovare un modo o l'altro per vivere; se soltanto puoi mantenere te, è meglio che niente. Io dovrò ritornare alla lotta; un uomo deve pensare da uomo; chi si scoraggia, piega il capo alla sfortuna»; così dicendo, riempì un bicchiere e lo vuotò alla mia salute, tenendomi la mano per tutto il tempo che mandò giù il vino e affermando che ero io il suo più grande pensiero.


Era veramente una natura schietta e indomita, e questo mi riusciva anche più doloroso. C'è un certo sollievo perfino nel dovere la propria rovina a un uomo d'onore piuttosto che a un furfante; ma nel nostro caso la delusione più grande era la sua, poiché realmente aveva speso una grossa somma e vale la pena di notare come quella donna avesse agito per delle bagatelle. Anzitutto, la bassezza di costei va osservata, che pur di intascare 100 sterline, fu contenta di fargliene spendere tre o quattro volte tanto, malgrado fossero probabilmente tutto quello che aveva al mondo, e più ancora; e intanto niente, oltre un pettegolezzo da salotto, le dava affidamento di affermare che io possedessi una sostanza o valessi una fortuna, o simili cose. E' bensì vero che il disegno di ingannare una donna ricca, se tale fossi stata, era sufficientemente infame; il mascherare con grandi apparenze una povera realtà era una frode, e sufficientemente grave; ma il nostro caso aveva pure qualche singolarità, e questo a discarico del mio uomo, poiché egli non era uno scapestrato che facesse il mestiere di ingannare le donne e, come a qualcuno è riuscito, mettere le mani successivamente sopra sei o sette partiti, e svaligiarle e abbandonarle. Egli era un gentiluomo, sfortunato e abbassato, ma aveva visto altri tempi; e benché, se io avessi avuto una sostanza, sarei stata indignata contro quella sgualdrina per il suo tradimento, pure in verità, quanto all'uomo, su di lui una sostanza non sarebbe stata mal spesa, visto che era davvero un'incantevole persona, di principi generosi, di buon senso e abbondanza d'umore geniale.


Per gran parte di quella notte continuammo l'intima conversazione, poiché nessuno di noi due dormì molto; egli era altrettanto pentito di avermi giocato tutti quegli inganni, quanto se avesse commesso un delitto capitale e stesse per andare al supplizio; tornò a offrirmi fino all'ultimo scellino che aveva in tasca e dichiarò che si sarebbe arruolato nell'esercito per guadagnarne altri.


Gli chiesi perché era stato tanto crudele da volermi portare in Irlanda, quando doveva pur pensare che laggiù non avrebbe potuto mantenermi. Mi prese tra le sue braccia. «Carissima» mi disse, «non ho mai avuto intenzione di andare in Irlanda, e tanto meno di portarci te; semplicemente sono venuto qui per sfuggire alla curiosità della gente che avevano sentito delle mie intenzioni, e perché nessuno potesse chiedermi quattrini prima che io ne fossi provvisto.» «Ma dove dunque saremmo andati» dissi, «via di qui?» «Senti, carissima» mi rispose, «ti confesserò tutto il piano come l'avevo predisposto: contavo, una volta qui di farti qualche domanda sulla tua fortuna, come vedi che ho fatto, e quando tu, come mi ripromettevo, mi avessi dato qualche dato più preciso, avrei accampato qualche scusa per differire a un'altra volta il viaggio in Irlanda, e così ce ne saremmo andati a Londra. Allora, carissima» disse, «mi ero deciso a confessarti in tutto e per tutto lo stato dei miei affari, e palesarti sì che mi ero servito di questi artifici per ottenere il tuo consenso a sposarmi, ma che ora non avevo più nessun altro pensiero se non di implorare il tuo perdono e di ripeterti quanto mi sarei sforzato di farti dimenticare quello che era stato con la felicità dei giorni futuri.» «Veramente» gli dissi, «vedo che avresti presto fatto di conquistarmi; e questa è la mia infelicità: che non ho la possibilità di dimostrarti con quanta condiscendenza mi sarei riconciliata con te, perdonandoti tutti i tiri che mi avevi giocato, per ricompensarti di tanta amabilità. Ma, caro» dissi, «che possiamo fare ora? Tutti e due siamo rovinati; e che pro ci viene dal fatto che ci siamo riconciliati, visto che non abbiamo di che vivere?» Almanaccammo un sacco di progetti, ma niente poteva servire dove non c'era di che cominciare. Alla fine mi pregò di non parlarne più, poiché, mi disse, gli avrei spezzato il cuore; e così parlammo un po' di altre cose, fin che alla fine prese da me un coniugale commiato e si addormentò.


Si alzò prima di me il giorno dopo e in verità, dato che ero stata sveglia quasi tutta la notte, io ero tutta assonnata e rimasi a letto fin quasi alle undici. Intanto lui prese i cavalli, i tre servi, tutta la sua biancheria e il bagaglio, e se ne andò, lasciandomi sul tavolo una breve ma commovente lettera, la seguente:

"Carissima - sono un mostro; ti ho ingannata, ma ci sono stato spinto da un'abietta creatura, contrariamente ai miei principi e al costume di tutta la mia vita. Perdonami, carissima! ti chiedo perdono con la più assoluta sincerità: mi sento il più miserabile degli uomini, avendoti così ingannata. Ero così felice di possederti, e ora sono tanto tormentato che non posso fare a meno di fuggire lontano da te.


Perdonami, carissima; ancora una volta, perdonami! Non reggo a vederti rovinata per opera mia, mentre io sono incapace di aiutarti. Il nostro matrimonio è nullo, io non mi sentirò mai più la forza di rivederti; da questo momento te ne dispenso; se trovi da rimaritarti con tuo vantaggio, non rifiutare per riguardo a me. Ti giuro qui sulla mia fede e sulla parola di un uomo d'onore, che non disturberò mai la tua pace, quando pure lo venissi a sapere, cosa che tuttavia non è probabile. E parimenti, se tu non ti rimariterai e se io trovassi la buona fortuna, questa sarà anche tua, dovunque tu sia.


Ti ho messo in tasca qualcosa del fondo di denaro che mi rimane; fissate due posti per te e la cameriera sulla diligenza e andate a Londra. Spero che quanto ti lascio basterà alle spese, senza che tu debba intaccare il tuo. Ancora una volta imploro sinceramente il tuo perdono e così farò tutte le volte che in futuro penserò a te. Addio, carissima, per sempre! Sono il tuo affezionatissimo J. E."Niente mai di quello che mi capitò in vita mi lacerò così a fondo il cuore come questo addio. Gli rimproverai nei miei pensieri mille volte di avermi lasciata, poiché con lui sarei andata in capo al mondo, pur mendicando il pane. Mi tastai in tasca e ci trovai dieci ghinee, il suo orologio d'oro, e due anellucci, uno di brillanti, del valore di circa 6 sterline, e l'altro una semplice verga d'oro.


Mi sedetti e per due ore non smisi di fissare questi oggetti, e quasi non dissi parola, finché la mia cameriera non mi richiamò annunciandomi che il pranzo era servito. Mangiai pochissimo e dopo il pasto mi prese una crisi violenta di pianto, durante la quale ogni tanto lo lo chiamavo per nome, e il suo nome era James. "Oh Jemmy!" dicevo, "ritorna, ritorna. Ti darò tutto il mio, mendicherò, digiunerò con te." E corsi a questo modo, farneticando, parecchie volte intorno alla camera, e di tanto in tanto mi sedevo e poi ricominciavo a piangere; e passai così il pomeriggio, fino quasi alle sette, che la serata andò imbrunendo, perché era agosto, quando con mia indicibile sorpresa, rieccolo che ritorna alla locanda e mi sale dritto in camera.


Provai il massimo immaginabile rimescolio e così anche lui. Non arrivavo a capire il motivo di quel ritorno, e mi cominciò nell'animo il contrasto se dovessi rallegrarmi o affliggermi; pure, il mio affetto prevalse su ogni cosa e non mi fu possibile nascondere la mia gioia, che era troppo grande per sorridere e si manifestò in uno scoppio di lacrime. Egli non appena fu entrato nella stanza, mi corse incontro e mi abbracciò tenendomi stretta e quasi mozzandomi il fiato con i baci: ma non diceva una parola. Alla fine io parlai. «Caro» dissi, «come hai potuto andartene?» Ma a questo non diede risposta, perché gli era impossibile parlare.


Sfogato il nostro primo rapimento, mi disse che si era allontanato più di quindici miglia, ma che gli era mancata ogni forza di continuare se non ritornava a vedermi e prendere ancora una volta commiato da me.


Gli raccontai come avevo passato il mio tempo e quanto forte avessi invocato il suo ritorno. Mi rispose che mi aveva chiaramente sentita giunto nella foresta Delamere, in un punto che distava dodici miglia.


Io sorrisi. «No» disse, «non credere che scherzi, perché se mai nella mia vita ho sentito la tua voce, stavolta ti ho sentita chiamarmi forte e mi è sembrato spesso di vederti che mi correvi dietro.» «E dimmi» gli feci, «che cosa dicevo?» poiché non gli avevo riferito le mie parole. «Chiamavi a voce alta» rispose, «e dicevi: Oh Jemmy, oh Jemmy! ritorna, ritorna.» Io mi misi a ridere. «Carissima» mi disse, «non ridere, perché ti assicuro che sentii la tua voce tanto chiaramente quanto adesso senti la mia; se ti fa piacere, possiamo andare davanti a un magistrato, e te lo giurerò.» Cominciai allora a trasecolare e stupire, e in verità a sbigottirmi, e gli riferii quello che avevo realmente fatto e come l'avevo invocato, secondo che ho detto. Dopo che ci fummo un po' divertiti di questo, gli dissi: «E ora, non ti allontanerai più da me; verrò piuttosto con te fino in capo al mondo».


Mi rispose che sarebbe stato per lui ben difficile lasciarmi, ma, poiché si doveva, sperava che avrei preso la cosa con quanta calma avrei potuto; quanto a sé, lo presentiva, quella sarebbe stata la sua fine.


Mi disse tuttavia di aver riflettuto che mi aveva lasciata sola a fare il viaggio per Londra, viaggio non breve; e che, dato che per lui era uguale mettersi su quella come su un'altra strada, si era deciso ad accompagnarmici o almeno fin nelle vicinanze; e se poi se ne fosse andato senza neppure salutarmi, io non avrei dovuto volergliene male:

così mi fece promettere.


Mi raccontò come aveva licenziato i suoi tre servitori, venduto i loro cavalli e spedito i tre in cerca di miglior fortuna, tutto in un breve spazio, in una città dov'era passato, non so quale; «e questo» disse, «mi costò qualche lacrima: piansi tutto solo, pensando quanto fossero più felici del loro padrone, poiché loro non avevano che da bussare alla porta del più vicino gentiluomo, chiedendo di un posto, mentre io» disse, «non sapevo né dove andare né che fare di me».


Gli dissi che mi ero sentita tanto completamente infelice separandomi da lui, che peggio non poteva essere; e adesso che era ritornato, non volevo più lasciarlo, se accettava di prendermi con sé, dovunque stesse per dirigersi. Accettavo per il momento di andare insieme a Londra; ma non era possibile che acconsentissi a separarmi da lui alla fine senza che ci salutassimo: gli dissi scherzando che, se faceva così, l'avrei richiamato con quella stessa voce di prima. Poi tirai fuori il suo orologio e glielo restituii, e insieme i due anelli e le dieci ghinee; ma non ne volle sapere, cosa che mi fece sospettare fortemente che fosse deciso ad andarsene durante il viaggio e abbandonarmi.


Valga la verità: le condizioni in cui si trovava, le frasi appassionate della sua lettera, l'affabile e cavalleresco trattamento che da lui avevo ricevuto in tutta la faccenda, con la sollecitudine che in essa mi aveva dimostrato e il suo modo di rinunciare a quella grossa porzione, donata a me, del piccolo fondo che gli era rimasto, tutto questo si fondeva a farmi una tale impressione, che l'idea di separarmi da lui mi riusciva insopportabile.


Due giorni dopo lasciammo Chester, io sulla carrozza di posta e lui a cavallo. A Chester licenziai la cameriera. Egli era decisamente contrario a che restassi senza cameriera, ma dato che l'avevo assunta in campagna (a Londra ne facevo senza), gli spiegai che sarebbe stato barbaro portare con noi quella povera ragazza e poi mandarla via non appena giunti in città; e inoltre sarebbe stato un inutile aggravio di spesa durante il viaggio. Lo contentai così e a questo proposito si arrese.


Mi accompagnò fino a Dunstable, a un trenta miglia da Londra, e qui mi disse che il destino e le sue disgrazie gli imponevano di lasciarmi e che non era opportuno per lui entrare a Londra, per motivi che non poteva importarmi di conoscere; e vidi che si preparava a partire. La mia carrozza di posta di solito non fermava a Dunstable, ma pregandoli io di un quarto d'ora, acconsentirono ad aspettare un po' alla porta di una locanda, dove noi scendemmo.


Una volta nella locanda, gli dissi che non avevo più che una grazia da chiedergli e cioè, che dato che non voleva saperne di proseguire, mi concedesse di restare con lui in quella cittadina una o due settimane, perché intanto potessimo pensare un qualche modo di sfuggire a una sorte così spietata come sarebbe stata per tutti e due la separazione definitiva; e che avevo qualcosa di una certa importanza da proporgli, che forse anche lui avrebbe giudicato praticabile a nostro vantaggio.


La proposta era troppo ragionevole per rifiutarvisi, e così chiamò la padrona e le disse che sua moglie si era ammalata, ammalata al punto di riuscirle impossibile di proseguire in diligenza, dov'era quasi morta dallo strapazzo; e le chiese se non poteva trovarci per due o tre giorni un alloggio in qualche casa privata, dove avessi agio di riposarmi un po', poiché il viaggio mi aveva veramente sfinita. La padrona, un ottimo tipo di donna, costumata e cortese, venne subito a vedermi; mi informò che aveva due o tre buonissime camere in una parte silenziosa della casa: era certa, se le vedevo, che le avrei trovate di mio gradimento, e mi avrebbe affidata a una delle sue cameriere alla quale sarebbe toccato soltanto di attendere ai miei ordini.


Questo mi sembrò tanto gentile che non potetti se non accettare; andai quindi a vedere le camere, che mi piacquero molto, e davvero erano estremamente ben ammobiliate e con una posizione incantevole; pagammo quindi la nostra corsa, tirammo giù il bagaglio e ci decidemmo a fermarci qualche giorno.


Qui gli dissi che ormai avrei vissuto con lui fino al mio ultimo soldo, ma non gli avrei permesso che spendesse neanche un solo scellino dei suoi. Ci fu a questo proposito un po' di affettuosa contesa, ma gli dissi che era l'ultima volta che avrei goduto della sua compagnia, e lo pregavo di lasciarmi il comando in quell'unica cosa soltanto, in tutto il resto sarebbe stato il padrone: allora si contentò.


Qui una sera, che eravamo a passeggio per i campi, gli dissi che volevo fargli la proposta di cui gli avevo fatto cenno; e, conformemente, gli raccontai com'ero vissuta nella Virginia, e che laggiù avevo una madre che pensavo fosse ancora in vita, sebbene mio marito fosse morto da qualche anno. Gli dissi che se i miei averi non si fossero perduti, averi che tra parentesi magnificai abbastanza, avrei potuto portargli tanto, che ora non saremmo stati nella necessità di separarci in quel modo. Poi entrai a parlare del modo come la gente faceva la piantagione in quei paesi, come la costituzione del posto concedeva loro un appezzamento di terra; o, almeno, che si poteva acquistarne a un prezzo così basso che non metteva neanche conto di parlarne.


Gli diedi poi un pieno e particolareggiato ragguaglio del modo che si richiede per coltivare la terra; come, portandosi dietro non più del valore di due o trecento sterline in merci inglesi, con qualche servitore e qualche strumento, un uomo attivo poteva in breve gettare le fondamenta di una famiglia, e passati pochi anni ammassare un patrimonio.


Lo misi al corrente dei prodotti di quella terra, come il suolo andava accudito e preparato e quale fosse il suo reddito solito; dimostrandogli che, nello spazio di pochi anni da un simile inizio, era altrettanto certo che noi saremmo stati ricchi come attualmente eravamo certi di essere poveri.


Questo mio discorso lo sorprese; poiché ne facemmo l'unico argomento delle nostre conversazioni per quasi una settimana di seguito, e in questo spazio di tempo gli mostrai come un libro stampato, come si usa dire, che era moralmente impossibile, presumendo una normale e ragionevole buona condotta, che noi non ce la cavassimo laggiù e non prosperassimo.


Allora gli spiegai a quali ripieghi avrei avuto ricorso per mettere insieme una simile somma di 300 sterline o circa, e gli dimostrai che metodo eccellente sarebbe stato questo per mettere fine alle nostre disgrazie e rifarci uno stato nel mondo che si avvicinasse a quello che tutti e due avevamo sperato. Aggiunsi che dopo sette anni saremmo stati in grado di affidare la nostra piantagione in buone mani e ritornare a riceverne il frutto in Inghilterra, dove ce lo saremmo goduto; e gli citai esempi di certuni che così avevano fatto e vivevano ora facendo una bellissima figura a Londra.


Insomma, insistetti tanto che lui era sul punto di acconsentire, ma ora una cosa ora un'altra ci ostacolava; finché alla fine egli mi cambiò le carte in tavola e si mise a parlare, quasi allo stesso effetto, dell'Irlanda.


Mi disse che un uomo che sapesse confinarsi in un'esistenza campagnuola, purché trovasse i fondi per intraprendere una coltivazione, poteva avere laggiù poderi per 50 sterline all'anno, non inferiori a quelli affittati per 200; che il frutto era tale, e così ricco il suolo, che se pure non si metteva gran che da parte, era però certo che si vivrebbe con esso altrettanto bene quanto un gentiluomo di 3000 sterline di rendita in Inghilterra; e che aveva fatto il progetto di lasciarmi a Londra e lui recarsi per tentare in Irlanda, dove, se trovava di poter gettare una base discreta d'esistenza, appropriata al rispetto che nutriva per me, e su questo non nutriva dubbi, sarebbe venuto a prendermi per portarci anche me.


Ebbi un orribile spavento che, dopo una proposta simile, egli mi prendesse in parola, vale a dire, pretendesse di convertire in contante il mio reddito e portarselo in Irlanda per tentare il suo esperimento; ma era troppo onesto per volere o potere accettare una cosa simile, quand'anche gliela proponessi; e in questo mi prevenne, poiché aggiunse che sarebbe sì partito a tentare la fortuna come aveva detto e, se trovava di poter fare qualcosa di utile, allora con l'aggiunta del mio, una volta che fossi andata anch'io, saremmo vissuti da nostri pari, ma però non avrebbe arrischiato dei miei scellini neppure uno, se non dopo aver sperimentato in piccolo, e mi assicurò che, non concludendo niente in Irlanda, mi avrebbe allora raggiunta e aiutata nel mio progetto della Virginia.


Si mostrò così deciso nell'idea di sperimentare prima il suo progetto, che non seppi resistergli; mi promise però di mandarmi al più presto sue notizie, una volta che fosse arrivato, e di farmi sapere se le speranze rispondevano al suo piano, a fine che, mancando ogni probabilità di successo, io potessi prendere l'opportunità di prepararmi a quell'altro nostro viaggio e questa volta, mi assicurava, sarebbe venuto con me in America con tutto il cuore.


Più di questo non seppi strappargli, e la cosa ci tenne occupati quasi un mese, per tutto il quale mi godetti la sua compagnia, di cui la più gradita non avevo incontrato mai fino ad allora. Durante questo tempo mi fece conoscere la storia della sua vita, che davvero era stupenda e piena di un'infinita varietà, bastevole a comporre un racconto ben più vivace, per via di tutte quelle avventure e di quei casi, che qualunque mi sia mai capitato di vedere in un libro; ma di lui avrò occasione di parlare ancora in seguito.


Ci separammo alla fine, benché da parte mia con la massima riluttanza; e in verità anche lui si accomiatò da me assai mal volentieri, ma la necessità lo forzava, dato che le ragioni per cui non voleva entrare a Londra erano di molta importanza, come in seguito potetti convincermi a fondo.


Gli diedi un indirizzo dove scrivermi, benché tuttora conservassi il principale segreto, che consisteva nel tenerlo sempre all'oscuro del mio vero nome, chi fossi e dove potesse cercarmi; parimenti anche lui mi lasciò detto dove potevo indirizzargli una lettera, così che fosse sicuro di riceverla.


Entrai a Londra l'indomani del giorno della nostra separazione, ma non andai direttamente nel mio antico alloggio: per una mia particolare ragione presi un alloggio privato in Saint John's Street, ovvero, come viene volgarmente chiamata, Saint Jones's, presso Clerkenwell, dove, essendo completamente sola, ebbi modo di fermarmi a riflettere seriamente sui miei sette mesi passati di vagabondaggio, poiché tanto tempo ero stata fuori. Con infinito piacere mi volgevo a considerare le ore deliziose passate con il mio ultimo marito; ma questo piacere scemò di molto quando poco dopo mi accorsi che insomma ero incinta.


Il caso era piuttosto inquietante, per via della difficoltà, che prevedevo, dove mai avrei potuto aver agio di partorire, essendo in quei tempi un punto molto delicato, per una donna che fosse forestiera e priva di amicizie, come essere curata in quel frangente senza una garanzia, che io infatti non avevo né sapevo dove trovare.


Per tutti questi mesi avevo avuto cura di tenermi in corrispondenza con il mio amico della banca, o piuttosto lui aveva avuto cura di corrispondere con me, poiché mi aveva scritto una volta ogni settimana; e quantunque non avessi speso i miei denari tanto rapidamente da avere bisogno di altri, pure gli avevo scritto anch'io spesso perché sapesse che ero in vita. Lasciai istruzioni nel Lancashire, in modo che mi vennero inoltrate le sue lettere; e nel tempo che stetti ritirata in Saint Jones's, ne ricevetti da lui una molto affabile, dove mi assicurava che il suo processo di divorzio era a buon punto, benché nel corso di esso fossero nate difficoltà che lui non si aspettava.


Non mi dispiacque la novità che questo processo fosse più lento di quanto lui non s'aspettasse; perché, sebbene non fossi ancora in stato di sposarmelo (non ero tanto sciocca da mettermi con lui quando sapevo di essere incinta di un altro, come certe donne di mia conoscenza avrebbero arrischiato), pure non ero disposta a perderlo, e, in una parola, contavo, non appena alzata dal letto, di non lasciarmelo sfuggire, se lui era sempre della vecchia idea. Capivo chiaramente infatti che dell'altro mio marito non avrei sentito parlare più, e dato che lui aveva tanto insistito a che mi rimaritassi, assicurandomi che la cosa non l'avrebbe offeso e che nemmeno avrebbe preteso di riavermi, così non mi feci scrupolo di decidermi al nuovo passo, se mi fosse stato possibile e se l'amico avesse mantenuto la parola; e che l'avrebbe mantenuta, avevo grandi motivi di essere certa dalle lettere che mi scriveva, lettere che più tenere e affettuose non avrei potuto ricevere.


Cominciò a ingrossarmisi il ventre e la gente della casa accorgendosene prese a farmelo osservare e, nei limiti consentiti dalla creanza, mi dichiarò che pensassi a cambiare alloggio. Questo mi metteva in un bell'impiccio, e diventai parecchio malinconica, poiché seriamente non sapevo a che santo votarmi; non mi mancavano i denari ma gli amici, e ora sembrava probabile che avrei avuto sulle braccia un figlio da mantenere, difficoltà che fino ad allora non mi si era mai parata davanti, come quanto fin qui detto fa fede.


Nel corso della faccenda mi ammalai gravemente e in verità la mia malinconia aumentava la malattia. Questa alla fine si rivelò una semplice febbre, ma i miei "timori" erano davvero che dovessi abortire. Non dovrei dire timori, poiché sarei stata ben felice di abortire, ma non potetti mai nemmeno accogliere il semplice pensiero di prendere qualcosa che favorisse l'aborto; mi rivoltava, ripeto, anche il solo pensarci.


Tuttavia, parlandomene, quella signora che teneva la casa mi propose di mandare per la levatrice. Nicchiai all'inizio, ma dopo un po' acconsentii; le dissi però che non conoscevo nessuna levatrice, e lasciavo quindi che ci pensasse lei.


Sembra che la padrona di quella casa non fosse tanto nuova, quanto avevo prima pensato, a un caso come il mio, e sarà chiaro subito:

mandò infatti per la levatrice che ci voleva; quella, voglio dire, che ci voleva per me.


Costei sembrava molto navigata nel suo mestiere, intendo come levatrice; ma aveva pure un'altra professione della quale era esperta quanto la maggior parte delle donne, se non di più. La mia padrona le aveva detto che ero parecchio malinconica e che, secondo lei, questo appunto mi aveva fatto male; una volta, in mia presenza, le disse:

«Signora ..., credo che l'incomodo di madama sia di quelli che vi riguardano, vi prego perciò, nel caso che possiate aiutarla in qualche modo, di aiutarla, perché mi sembra una signora molto per bene» e con queste parole lasciò la camera.


Veramente io non ci capii nulla, ma la mammana cominciò con tutta serietà a spiegarmi, appena quella se ne fu andata, quello che aveva voluto dire «Signora» mi fece, «sembra che non capiate il discorso della vostra padrona; e quand'anche capiste, non ci sarebbe nessun bisogno di farglielo sapere.


«Voleva dire che vi trovate in una condizione che forse vi rende difficile questo parto, e che vi seccherebbe se la cosa si risapesse.


Non è necessario che aggiunga altro, devo dirvi soltanto che, se stimaste opportuno farmi conoscere tutto quanto del vostro caso è indispensabile che io sappia (perché di ficcare il naso in queste cose non ho desiderio), potrebbe anche darsi che io sarei in grado di assistervi, e agevolarvi le cose e scacciarvi tutti i brutti pensieri.» Ogni parola che quella donna pronunciava era per me un balsamo e m'infondeva nel vivo del cuore nuovo animo e nuova vita: il sangue riprese senz'altro a circolare e ridiventai un'altra; mi rimisi a mangiare e ben presto migliorai. Quella mi andava dicendo parecchie cose a questo stesso proposito e, avendomi sollecitata a non avere riguardi con lei e promesso nel più solenne dei modi di conservare il segreto, tacque un attimo come in attesa di sentire che impressione mi avesse fatto e che cosa avrei detto.


Ero troppo consapevole del bisogno in cui versavo di una donna simile, per non accettare le sue profferte; le risposi che il mio caso era in parte come aveva immaginato e in parte no, poiché in verità ero sposata e un marito l'avevo, per quanto in quei giorni fosse tanto lontano da non potere pubblicamente comparire.


Lei tagliò corto e mi ribatté che la cosa non la riguardava; tutte le dame che ricorrevano alle sue cure erano per lei donne sposate. «Ogni donna incinta» disse, «ha un padre del suo bambino»; e che il padre fosse o non fosse un marito non la riguardava; il compito suo era di assistermi nel mio stato presente, avessi o no un marito; «poiché, signora mia» disse, «avere un marito che non può comparire è come non averlo, e perciò che siate moglie o mantenuta è tutt'uno per me.» Ebbi presto occasione di accorgermi che, fossi baldracca o fossi moglie, qui mi toccava di passare per baldracca, cosicché lasciai stare. Le risposi che quanto diceva era vero, ma che tuttavia, se dovevo aprirle il mio caso, dovevo pure dirle le cose come stavano e non diversamente; e così glielo raccontai quanto più brevemente seppi, e la feci finita «Vi importuno con tutto questo, signora» le dissi, «non perché, come dicevate anche voi, la cosa abbia molto a che fare con l'ufficio vostro; ma questo ci ha a che fare che non mi preoccupa per niente l'idea di essere vista o tenuta nascosta, anzi mi è del tutto indifferente: mi imbarazza il fatto che non ho conoscenze di di nessun tipo in questa parte del paese.» «Vi capisco, signora» rispose; «non avete nessuna garanzia da offrire per venire incontro all'importunità della parrocchia, usuale in questi casi, e forse» continuò, «non sapete nemmeno troppo bene che fare del bambino, una volta che sia nato.» «Non tanto mi preoccupa la seconda quanto la prima cosa» dissi. «Ebbene, signora» mi rispose la levatrice, «volete fidarvi e mettervi nelle mie mani? Io sto nel tal luogo; se anche non prendo informazioni sul vostro conto, voi potete prenderne sul mio. Mi chiamo B...; abito in via tale» nominò la via «all'insegna della Culla. Di professione, levatrice; ci sono molte dame che vengono a partorire in casa mia. Ho dato garanzia generale alla parrocchia, per tranquillizzarli che nessun aggravio loro destinato verrà alla luce sotto il mio tetto. Ho ancora soltanto una domanda da farvi per tutta la faccenda, signora, e se la risposta sarà soddisfacente, non dovrete più preoccuparvi di niente.» Capii senz'altro che cosa volesse dire e le risposi: «Signora, credo di capire. Grazie a Dio, se mi mancano gli amici in questa parte della terra, non mi mancano i quattrini, quanti ne saranno necessari, benché neppure di questi non abbondi»; cosa che aggiunsi, perché non si attendesse grandi cose.


«Ebbene, signora» mi disse, «è questo il punto, senza di questo niente può farsi in questi casi; però» aggiunse, «vedrete che non vi farò torto né vi chiederò un'esagerazione, e saprete tutto in anticipo, così che possiate prendere le vostre misure, e fare le cose in grande o con economia, secondo come vi sembrerà il caso.» Le dissi che lei mi sembrava che conoscesse così bene le mie condizioni, che altro non volevo chiederle se non questo: che, dato che avevo denaro a sufficienza, ma non eccessivamente, facesse lei in modo che io dovessi spendere quanto meno era possibile del superfluo.


L'altra rispose che mi avrebbe prodotto il conto delle spese in questione, in due o tre forme: scegliessi a mio gradimento; e di questo la pregai anch'io. L'indomani portò il conto con sé: ecco la copia delle tre liste:

1. Per un soggiorno di tre mesi in casa sua, incluso il vitto, a 10 scellini la settimana: 6 sterline, 0 scellini, 0 d.


2. Per un'infermiera nell'ultimo mese e biancheria puerperale: 1 sterlina, 10 scellini, 0 d.


3. Per il pastore che battezzi il bimbo, e i padrini e lo scrivano: 1 sterlina, 10 scellini, 0 d.


4. Per una cena di battesimo, intervenendo cinque miei invitati: 1 sterlina, 0 scellini, 0 d.


Per il suo onorario di levatrice, e l'intesa con la parrocchia: 3 sterline, 3 scellini, 0 d.


Alla cameriera per il servizio: 0 sterline, 10 scellini, 0 d.


Totale: 13 sterline, 13 scellini, 0 d.


Questa era la prima lista; la seconda era concepita negli stessi termini:

1. Per un soggiorno e il vitto di tre mesi, eccetera, 20 scellini la settimana: 12 sterline, 0 scellini, 0 d.


2. Per un'infermiera nell'ultimo mese, e biancheria e trine: 2 sterline, 10 scellini, 0 d.


3. Per il pastore che battezzi il bimbo, eccetera, come sopra: 2 sterline, 0 scellini, 0 d.


4. Per una cena, e confetture: 3 sterline, 3 scellini, 0 d.


Per il suo onorario, come sopra: 5 sterline, 5 scellini, 0 d.


Per una cameriera: 1 sterlina, 0 scellini, 0 d.


Totale: 25 sterline, 18 scellini, 0 d.


Quest'era la lista di second'ordine; la terza, mi disse, era di un grado più alta, per quando intervenissero il padre o persone amiche:

1. Per un soggiorno e il vitto di tre mesi, occupando due camere, e una soffitta per la donna: 30 sterline, 0 scellini, 0 d.


2. Per un'infermiera nell'ultimo mese, e un finissimo corredo di biancheria puerperale: 4 sterline, 4 scellini, 0 d.


3. Per il pastore che battezzi il bimbo, eccetera: 2 sterline, 10 scellini, 0 d.


4. Per una cena, e quello che provvede il vino: 6 sterline, 0 scellini, 0 d.


Per il mio onorario, eccetera: 10 sterline, 10 scellini, 0 d.


Per la cameriera, oltre la propria, soltanto: 0 sterline, 10 scellini, 0 d.


Totale: 53 sterline, 14 scellini, 0 d.


Io scorsi tutte e tre le liste, e mi venne da sorridere: le dissi che non mi sembrava proprio che non fosse ragionevole nelle sue richieste, ogni cosa considerata, e che non dubitavo che la sua ospitalità sarebbe stata eccellente.


Mi rispose che di questo sarei stata giudice io stessa, una volta visto con i miei occhi. Le dissi che ero molto spiacente, ma temevo di dover essere una cliente dell'ultimissimo ordine; «e può darsi, signora» aggiunsi, «che per via di questo non mi farete la migliore accoglienza». «Macché, niente affatto» rispose, «dato che per una cliente della terza lista, ne ho due della seconda e quattro della prima, e prendo in proporzione altrettanto da queste ultime che da qualunque altra. Se però dubitate del mio trattamento, sarà libera qualunque persona di vostra fiducia di sincerarsi se avremo o no cura di voi.» Poi passò a spiegarmi le particolarità della lista. «In primo luogo, signora» disse, «vorrei che osservaste come dice tre mesi di vitto e alloggio a soli 10 scellini per settimana; oso garantire che non avrete da lamentarvi della mia tavola. Immagino» disse, «che non viviate con meno, dove state ora.» «No davvero» risposi «non a questo prezzo, visto che pago 6 scellini la settimana per la camera, e penso io al vitto, che mi viene a costare molto di più.» «Allora, signora» continuò, «se il bambino venisse a mancare, come succede a volte, ecco che risparmiamo l'articolo del pastore; e se non avete conoscenze da invitare, si risparmia la spesa della cena; cosicché levati questi articoli, signora mia, il vostro parto vi costerà non più di 5 sterline e 3 scellini oltre la vostra spesa ordinaria.» Era questa la cosa più ragionevole che avessi mai sentito; per cui sorrisi, e le dissi che sarei diventata sua cliente; ma le dissi pure che dato che avevo ancora due mesi e più da aspettare, mi sarebbe forse toccato di restare da lei oltre i tre mesi, e volevo sapere se non sarebbe poi stata costretta di mettermi fuori prima del tempo. Mi rispose che no: la sua casa era vasta, e d'altronde non aveva l'abitudine di mettere fuori nessuna che avesse partorito, finché essa stessa non ci fosse disposta: quanto poi al caso che altre dame si presentassero, non era tanto malvista nel vicinato da non poter trovare ricovero anche per venti, se fosse necessario.


Mi convinsi che nel suo genere era una donna egregia, e, a farla breve, convenni di mettermi nelle sue mani. Lei allora mi parlò d'altro, diede un'occhiata all'appartamento che mi ospitava, trovò da ridire sulla mancanza di servizio e di comodità e mi assicurò che in casa sua avrei goduto di un ben altro trattamento. Le spiegai che mi peritavo di parlare, perché, da quando mi ero ammalata, la padrona di casa mi sembrava, o almeno così pensavo, più arcigna, per il fatto che fossi incinta; e temevo da lei qualche affronto, nel caso supponesse che fossi incapace di dare sufficientemente conto di me.


«Santo cielo» mi rispose quella, «sua signoria non è nuova a queste cose; ha cercato anzi di ospitare delle dame nel vostro stato, ma non aveva modo di rispondere per la parrocchia; e d'altronde, una così distinta signora come voi la conoscete! Tuttavia, visto che ora ve ne andate, non impicciatevene; provvederò io che siate trattata un po' meglio finché rimarrete, e non vi costerà neppure niente in più.» Non capii che volesse dire; tuttavia la ringraziai e ci lasciammo.


L'indomani mattina mi mandò un pollo arrosto caldo e una bottiglia di "sherry", incaricando la fantesca di dirmi che sarebbe rimasta ai miei ordini ogni giorno finché abitavo là.


Questo mi sembrò straordinariamente per bene e cortese, e accettai di buona voglia. Alla sera quella mandò un'altra volta, per sentire se non mi serviva niente e comandare alla fantesca di passare da lei l'indomani per il pranzo. La fantesca aveva avuto l'ordine di prepararmi la cioccolata al mattino prima di uscire, e a mezzogiorno mi portò un'animella di vitello intera, e un piatto di brodo per il pranzo; e in questo modo la mia levatrice mi sostentava a distanza, così che ne fui felicissima e mi ristabilii rapidamente, essendo state in verità le mie angosce di prima il motivo principale del mio malanno.


Mi aspettavo, come in genere accade tra quel tipo di gente, che la cameriera da me inviata fosse una di quelle sfrontate sgualdrine venute su in Drury Lane, e a questo proposito ero piuttosto inquieta; tanto che non la lasciai dormire in casa mia la prima notte, ma le tenni gli occhi addosso altrettanto attentamente che se fosse stata una ladra manifesta.


Madama comprese presto l'antifona e rimandò la ragazza con un bigliettino che sull'onestà della sua cameriera potevo contare; che ne avrebbe risposto lei in tutto; e che non era sua abitudine assumere persone di servizio senza le massime garanzie. Questo mi rimise tranquilla; e in verità il contegno della cameriera parlava di per se stesso, poiché mai entrò in nessuna famiglia una ragazza più modesta, più tranquilla e posata, ed ebbi in seguito occasione di convincermene.


Non appena mi fui tanto rimessa da poter uscire, venni con la cameriera a visitare la casa e vedere l'appartamento che mi sarebbe toccato; e trovai tutto così leggiadro e pulito che insomma niente ebbi da ridire, ma provai un meraviglioso piacere di quello che mi si offriva e che, tenute presenti le mie tristi condizioni, era più di quanto avessi sperato.


Ci si aspetterà forse che dia qualche ragguaglio sulla natura delle inique pratiche di quella donna nelle mani della quale ero caduta; ma sarebbe troppo incitamento al vizio far conoscere al mondo quali facili misure si prendessero in quella casa per togliere alle donne il fastidio di un figlio clandestinamente generato. Quell'austera mammana faceva ricorso a vari mezzi e uno era questo, che, nato il bimbo, magari non nella sua casa (poiché le capitava che si rivolgessero a lei per molti parti privati), aveva sempre persone pronte che per una qualche somma toglievano il bimbo dalle braccia della cliente, e altresì dalle braccia della parrocchia; e di questi bimbi, diceva lei, si prendevano una cura scrupolosa. Che cosa ne facessero di tanti, considerato il numero del quale secondo la sua stessa ammissione si occupava, non so immaginarmi.


Mi trovai a discutere molte volte con lei su questo punto; ma lei abbondava del seguente argomento, che insomma in quel modo salvava la vita di più di un innocente agnellino, come li chiamava, che forse sarebbe stato assassinato, e di più di una donna che, messa alla disperazione dalla propria disgrazia, poteva diversamente sentirsi tentata di distruggere la prole. Mi dicevo d'accordo su questo, che era una cosa molto lodevole, purché quei poveri bambini capitassero poi in buone mani e non fossero maltrattati e trascurati dalle balie.


Mi rispose che di questo si prendeva sempre cura e in quella faccenda non si serviva che di balie onestissime e tali da potersene fidare.


Non seppi contrapporle nulla, e fui così costretta a dire: «Signora, non metto in dubbio che voi facciate il dovere vostro, ma il grande punto è ciò che fanno quelle altre» e lei tornò a richiudermi la bocca dicendo che ci metteva la massima cura.


La sola cosa che mi offese nelle conversazioni di quella donna su questi argomenti, fu che una volta discorrendo dell'avanzato stato della mia gravidanza, si lasciò sfuggire qualcosa come significando che con il mio permesso avrebbe potuto liberarmi anticipatamente del fardello; o, in parole povere, che poteva darmi qualcosa per farmi abortire, se desideravo mettere fine così ai miei fastidi; ma subito le lasciai intendere che aborrivo anche il semplice pensiero, e quella - a dire il vero - lasciò cadere il tentativo con tanta abilità che non avrei potuto affermare se davvero se lo fosse proposto o semplicemente avesse accennato a quel ripiego come a un'orribile azione; poiché girò tanto bene la frase e afferrò con tanta prontezza quello che io pensavo che stava già parlando negativamente prima che io mi fossi spiegata.


A restringere questa parte nel più breve spazio possibile, lasciai l'alloggio di Saint Jones's e raggiunsi la mia nuova governante, come la chiamavano in quella casa, e qui in verità venni trattata con tanta cortesia, e servita con tanta cura e ogni cosa era così eccellente, che ne fui sbalordita e all'inizio non potevo capire quale vantaggio ne venisse alla mia governante. Ma scoprii in seguito che ella professava di non trarre profitto dalla pensione dei clienti né in verità avrebbe potuto ricavarne molto. Il suo profitto stava invece negli altri articoli del trattamento e qui guadagnava parecchio, vi assicuro; poiché non è quasi credibile quanto lavoro avesse, tanto in casa che fuori, e tutto sempre di tipo privato o, per dirla in chiare parole, di tipo meretricio.


Durante il tempo che le stetti in casa, che furono all'incirca quattro mesi, vennero non meno di dodici donne di piacere a partorire da lei, e calcolo che ne avesse altre trentatré, più o meno, sotto le sue cure fuori; una delle quali alloggiava presso la mia antica padrona di Saint Jones's, malgrado tutta la distinzione di quest'ultima.


Strana testimonianza, questa che ho detto, della crescente corruzione dei nostri tempi e che, perversa come io ero stata, pure mi rivoltava ogni sentimento. Cominciò il posto dov'ero, e soprattutto le abitudini, a ributtarmi: eppure devo riconoscere che mai io vidi, e neppure credo che sarebbe stato possibile vedere, la minima sconvenienza in quella casa per tutto il tempo che ci rimasi.


Nessun uomo fu mai visto salire quelle scale, tranne che per visitare le dame degenti nel mese di convalescenza, e anche allora, sempre in compagnia della vecchia, la quale si faceva un punto d'onore nel suo governo che nessun uomo dovesse toccare una donna, nemmeno la moglie, nel mese di convalescenza; e sotto nessun pretesto al mondo avrebbe permesso a un uomo di dormire nella casa, quand'anche fosse con la moglie; e il suo motto in proposito era questo, che non le importava quanti bambini nascessero in casa sua, ma finché poteva non voleva che ve ne fossero di concepiti.


Poteva darsi che spingesse la cosa più in là del necessario, ma, ammesso che fosse un errore, era però un felice errore, poiché in questo modo lei manteneva, qual era infatti, la reputazione del proprio mestiere, e si fregiava di questo vanto, che anche se si occupava di donne depravate, pure non era per niente uno strumento della loro depravazione. Ciò nonostante era una parte ben indegna la sua.


Durante il mio soggiorno e prima che fossi costretta a letto, ricevetti una lettera dal mio fiduciario della banca, piena di cose tenere e gentili, e di vive istanze per il mio ritorno a Londra; mi arrivò con un ritardo di una quindicina di giorni, poiché prima era andata nel Lancashire e poi mi era stata girata. Concludeva comunicandomi che aveva ottenuto la sentenza contro la moglie e che sarebbe stato in grado di mantenermi la parola, quando io avessi voluto; e aggiungeva un sacco di proteste d'amore e d'affetto, quali si sarebbe guardato bene dal farmi se avesse saputo dei fatti miei, e che io, a dire il vero, non avevo proprio meritato.


Scrissi la risposta a questa lettera e la datai da Liverpool, la inviavo però per mezzo di un messaggero, allegando che era stata inoltrata a persona amica in città.


Mi rallegravo con lui per la sua liberazione, ma sollevavo certi scrupoli sulla legittimità di un secondo matrimonio e gli dicevo che ero certa che avrebbe riflettuto con molta serietà su questo punto prima di decidersi, troppo grande essendo l'importanza del passo agli occhi di un uomo del suo discernimento per avventurarcisi avventatamente. E concludevo augurandogli ogni bene qualunque decisione prendesse, senza scoprirgli niente della mia intenzione né di dare nessuna risposta alla sua richiesta che lo raggiungessi a Londra: soltanto menzionavo alla lontana un progetto di ritornare nel corso dell'anno, portando la mia lettera la data d'aprile.


Mi misi a letto verso la metà di maggio, e diedi alla luce un altro bellissimo maschietto, continuando nella buona salute che mi è solita in questi casi. La mia governante fece la sua parte di levatrice con la massima arte e abilità immaginabili, e superò di gran lunga tutto quanto avessi mai sperimentato in passato.


La sollecitudine che ebbe per me nel tempo del parto, e poi nella convalescenza, fu tale, che non avrebbe potuto fare di meglio se fosse stata mia madre. Ma che nessuna si senta incoraggiata alle opere licenziose dal trattamento di questa abile signora, poiché essa è passata a miglior vita e oso dire che non si è lasciata dietro persona che possa o voglia eguagliarla.


Credo che fossi a letto da una ventina di giorni, quando mi arrivò un'altra lettera dell'amico della banca con la stupefacente notizia che aveva ottenuto la definitiva sentenza di divorzio contro la moglie, che gliel'aveva partecipata il tale giorno, e che per venire incontro a tutti i miei scrupoli sul suo nuovo matrimonio aveva una risposta quale io non mi aspettavo di certo, né lui avrebbe desiderato; poiché sua moglie, che già prima soffriva di rimorsi per il modo come l'aveva trattato, una volta sentito che lui aveva causa vinta, si era miserabilmente quella sera stessa data la morte.


Si esprimeva con molta generosità quanto alla parte che poteva avere avuto nella triste fine di quella donna, ma negava di averci avuto mano e diceva che egli si era soltanto fatto giustizia in un caso in cui manifestamente era stato danneggiato e oltraggiato. Tuttavia riconosceva di esserne molto addolorato e che in questo mondo non gli restava più prospettiva di contentezza se non nella speranza che io sarei venuta a confortarlo con la mia compagnia; e qui insisteva violentemente perché gli dessi qualche speranza che almeno sarei ritornata in città e mi sarei fatta vedere, e allora mi avrebbe parlato più a lungo della cosa.


La notizia mi lasciò sbalordita e cominciai subito a riflettere seriamente sul fatto mio, e quale inesprimibile sventura fosse di avere un bimbo sulle braccia. A che partito appigliarmi, però, non lo sapevo. Scoprii infine alla lontana il mio caso alla governante; da parecchi giorni avevo un'aria malinconica e lei non smetteva di starmi intorno per conoscere che cosa mi angustiasse. A nessun costo potevo rivelarle di aver ricevuta una proposta di matrimonio, dopo che tanto spesso le avevo ripetuto di essere maritata, in modo che non sapevo proprio cosa dirle. Ammettevo che c'era qualcosa che mi preoccupava parecchio, ma nello stesso tempo le dicevo che quello non potevo dirlo ad anima viva.


Lei continuò a sollecitarmi per molti giorni, ma non era possibile, le ripetevo, che confidassi il mio segreto a qualcuno. E questo, invece di accontentarla, aumentò le sue insistenze; essa invocò il fatto che le erano stati confidati in questo campo i maggiori segreti, che nascondere tutto era il suo mestiere e che svelare cose di simile natura per lei sarebbe stata la rovina. Mi chiese se mi fosse mai successo di coglierla a spettegolare delle faccende del prossimo: come dunque potevo sospettarla? Mi disse che aprirmi con lei, era come non parlarne con nessuno; che essa era una tomba; e che davvero il mio doveva essere un caso ben strano, se neppure lei poteva trarmi d'impaccio; mentre tenendolo nascosto mi privavo di ogni possibile aiuto, o mezzo d'aiuto, e le toglievo l'occasione di rendermi un servigio. Insomma, ebbe un'eloquenza tanto ammaliatrice e un potere di persuasione tanto grande, che non ci fu modo di nasconderle niente.


Così mi decisi di aprirle il mio cuore. Le raccontai la storia del mio matrimonio nel Lancashire e la delusione di tutti e due; come c'eravamo trovati e lasciati, come lui mi aveva sciolta, per quanto la cosa stava in suo potere, e data ogni libertà di rimaritarmi, giurando che, anche venendone a conoscenza, non mi avrebbe mai richiesta né disturbata né messa in piazza; e che ero convinta di essere libera, ma mi atterriva indicibilmente il rischio, temendo le possibili conseguenze di una scoperta.


Poi passai a dirle dell'ottima proposta che mi era stata fatta, le mostrai le lettere dell'amico che mi invitavano a Londra; con quanta passione fossero scritte, ma cancellai il nome e anche la storia della mala fine della moglie, dissi solo ch'era morta.


La mia governante si mise a ridere dei miei scrupoli riguardo al matrimonio, e mi disse che quell'altro non era un matrimonio, ma una semplice truffa da una parte e dall'altra; e che, dato che c'eravamo separati di comune accordo, l'essenza del contratto era caduta e l'obbligazione scambievolmente rimessa. Su questa questione aveva gli argomenti sulla punta delle dita; e, a farla breve, mi dimostrò l'indimostrabile; non però che a questo fine non operassero anche i miei desideri.


Ma ecco che sorgeva la grande e cruciale difficoltà, voglio dire il bambino; di esso, mi disse, bisognava disfarsi e questo in modo che nessuno mai potesse scoprirlo. Sapevo che non c'era da pensare a maritarmi se non tenendo nascosto che avevo avuto un bambino, poiché l'amico avrebbe potuto accorgersi dalla sua età ch'esso era nato, e anzi era stato concepito, dopo il nostro abboccamento, e questo avrebbe mandato a monte ogni cosa.


Pure, mi stringeva tanto vivamente il cuore l'idea di separarmi senza scampo dal bimbo e, per quanto potevo saperne io, di lasciarlo assassinare o deperire nell'abbandono e nei maltrattamenti - che era su per giù la stessa cosa - che non potevo fermarvi il pensiero senza inorridire. Vorrei che tutte quelle donne che accettano di togliersi di torno i loro bimbi, come si dice per amore del decoro, riflettessero che questo è soltanto un concertato metodo d'assassinio, vale a dire, un modo d'ammazzarli senza pagarne lo scotto.


E' chiaro a chiunque capisca qualcosa dei bimbi, che noi tutti veniamo al mondo miserabili e inetti tanto a soddisfare i nostri bisogni quanto anche solo a manifestarli; e che privi di aiuto siamo destinati a morire: e questo aiuto non solo esige una mano soccorritrice, sia della madre sia di qualche altro, ma due cose sono necessarie in questa mano soccorritrice, e cioè, sollecitudine e capacità; senza di che una metà dei bimbi che vengono al mondo morirebbero, morirebbero anche se non si lasciasse loro mancare il cibo, e un'altra metà dei rimanenti finirebbero storpi o scemi, perderebbero l'uso di qualche arto o magari il cervello. E non dubito neppure che queste siano in parte le ragioni per cui la natura ha posto l'affetto verso i figli nel cuore delle madri; senza di che mai esse sarebbero in grado di dedicarsi, com'è necessario, alle cure e alle veglie penose indispensabili al sostentamento dei bimbi.


Poiché questa sollecitudine è necessaria alla conservazione dei bimbi, il trascurarli è un assassinarli, e, ripeto, darli da governare a gente che non abbia un briciolo di quell'indispensabile affetto impartito dalla natura, è un trascurarli al grado estremo; per alcuni, anzi, la cosa va più lontano e si propongono di distruggerli; cosicché, muoia il bimbo o sopravviva, quello che si commette è sempre un intenzionale assassinio.


Tutte queste considerazioni mi si presentavano alla mente, e nella forma più nera e terribile. Siccome avevo molta fiducia nella mia governante, che avevo ormai imparato a chiamare madre, le feci presenti tutti i cupi pensieri che mi nascevano a quel riguardo e le dissi l'angustia in cui versavo. Lei sembrò ascoltare con molta maggiore serietà questa che non l'altra parte; ma dato che in queste cose era indurita al di là di ogni possibilità di lasciarsi commuovere dalle ragioni religiose e dagli scrupoli di commettere assassinio, così fu lo stesso impenetrabile a quelle ragioni che nascevano dal sentimento. Mi chiese se non era stata sollecita e tenera con me durante la mia degenza, come fossi davvero una sua figlia. Le risposi che infatti lo ammettevo. «Ebbene, mia cara» disse, «e quando ve ne andrete, che cosa sarete ancora per me? E a me, che importerebbe se anche vi impiccassero? Credete che non vi siano donne che, secondo che porta il loro mestiere con cui si guadagnano il pane, non si pregino di essere altrettanto sollecite dei bimbi quanto le madri stesse?

Andiamo, figliola» disse, «non abbiate timore; chi sarà stata la nostra balia? Voi siete sicura di essere stata allattata da vostra madre? eppure siete grassottella e ben fatta, figliola» continuò la vecchiaccia, e in così dire mi accarezzava sul viso. «Non datevi pensiero» riprese con il suo fare canzonatorio; «qui non ho assassini; mi servo delle migliori balie che ci siano, e altrettanto pochi bambini fanno una cattiva riuscita nelle loro mani, quanti ne fallirebbero se le madri stesse li allattassero. Qui non ci fanno difetto la sollecitudine e la capacità.» Mi punse sul vivo quando mi chiese se ero sicura di essere stata allattata da mia madre. Io, al contrario, ero sicura di no; e cominciai a tremare e ad impallidire alle semplici parole. Certamente, mi dicevo, costei non può essere una strega, o avere rapporti con qualche spirito in grado di informarla su chi io fossi prima di poterlo sapere io stessa; e le fissai gli occhi addosso come in preda allo spavento; ma riflettendo che era impossibile che lei sapesse qualcosa di me, l'idea mi lasciò e mi ritrovai a mio agio, per quanto non di colpo.


La governante notò la mia agitazione, ma non ne sapeva il significato; e tirò avanti nelle sue folli parole sulla insipienza che dimostravo credendo che, non facendoli allattare tutti dalla madre, si assassinassero i bambini, e voleva convincermi che i bimbi dei quali lei si incaricava erano trattati con altrettanto riguardo che se le madri stesse ne avessero avuto cura.


«Può darsi, mamma» le risposi, «per quanto so io; ma i miei dubbi hanno un solido fondamento.» «Avanti, allora» disse, «sentiamone qualcuno.» «Ecco, prima di tutto» risposi, «voi date un tanto a quella gente perché tolgano il figlio dalle braccia dei genitori, e se ne occupino finché campi. E noi sappiamo, mamma» dissi, «che quella è povera gente, di cui tutto il profitto consiste nel liberarsi dell'impiccio non appena possibile, come si può quindi dubitare che, dato che è molto meglio per loro che il bimbo muoia, non siano poi tanto solleciti della sua esistenza?» «Vapori e fantasie» mi rispose; «vi dico che tutto il loro credito sta nella vita del bimbo, e sono altrettanto sollecite che voialtre madri.» «Ah, mamma» dissi, «se solo voi foste certa che il mio piccolo sarà tenuto con ogni cura, secondo che merita, io sarei felice; ma non è possibile che mi contenti su questo punto, a meno che non veda io stessa, e nel mio caso presente voler vedere sarebbe per me la rovina e la distruzione; quindi non so come fare.» «Belle ragioni!» disse la governante, «vorreste vedere il bambino e non vederlo, vorreste essere nello stesso tempo nascosta e visibile.


Queste cose sono assurde, mia cara, e bisogna quindi che facciate come altre madri altrettanto coscienziose hanno fatto prima di voi, e accontentarvi delle cose come devono essere, se anche non vanno come vorreste voi.» Capii che cosa intendesse con "madri coscienziose": avrebbe detto "puttane coscienziose" sennonché non voleva indispormi, visto che veramente in quel caso io non ero puttana, essendo una donna legittimamente sposata, ove non si volesse invocare il mio precedente matrimonio.


Ad ogni modo, qualsiasi cosa io fossi, non ero arrivata a quel colmo d'indurimento che di solito accompagna la professione; voglio dire che non ero snaturata e noncurante della sicurezza di mio figlio; e continuai in quest'onesto sentimento tanto a lungo che fui lì lì per rinunciare al mio amico della banca, il quale insisteva tanto decisamente perché lo raggiungessi e sposassi, che non c'era quasi più rifiuto possibile.


Alla fine la vecchia governante mi venne a cercare con la sua solita baldanza. «Ascoltate, figliola» disse, «ho scoperto un modo con il quale avrete la certezza che il vostro bimbo sarà ben trattato, mentre quelli che se ne occuperanno non sapranno mai niente di voi.» «Ah, mamma» dissi, «se potete fare questo, vi sarò per sempre obbligata.» «Ebbene» mi disse, «siete disposta a sborsare una sommetta annuale, più forte di quanto passiamo solitamente alle persone che si impegnano con noi?» «Sì» risposi, «e con tutto il cuore, purché possa mantenere l'incognito.» «Quanto a questo» mi disse, «state pur sicura:

la balia non oserà mai chiedere di voi; e una volta o due all'anno voi verrete con me a vedere il bambino, a vedere come lo trattano e ad accontentarvi di saperlo in buone mani, senza che nessuno sappia di voi.».


«Come» dissi, «credete che, quando verrò a vedere il mio bimbo, sarò capace di tenere nascosto che sono sua madre? Credete possibile questo?» «Ebbene» mi rispose, «se paleserete la cosa, la balia non ne saprà di più per questo: le sarà proibito di accorgersene. Se vorrà farlo, ci rimetterà la somma che crederà voi le paghiate, e inoltre le verrà tolto il bambino.» Tutto questo mi piacque molto. E così la settimana successiva venne chiamata una contadina da Hertford, o di quei paraggi, che per 10 sterline in denaro avrebbe preso interamente su di sé il governo del bimbo. Ma se le concedevo in più 5 sterline all'anno si sarebbe impegnata a portare il bimbo in casa della mia governante tutte le volte che avremmo desiderato oppure noi saremmo andate laggiù a visitarlo e ad assicurarci se lo trattava bene.


Questa donna aveva un aspetto molto sano e promettente. Era la moglie di un campagnuolo, ma portava vesti e biancheria ottime, e ogni cosa appuntino; fu con il cuore che scoppiava e molte lacrime che le lasciai il bimbo. Ero stata a Hertford e avevo visto lei e la sua casa, che mi piacque abbastanza: le promisi grandi cose se avesse trattato il bimbo con bontà, così capì fin dalla prima parola che ero io la madre. Tuttavia mi sembrò così fuori mano e lontana dalla possibilità di informarsi sul mio conto, che pensai di essere sufficientemente al sicuro. E così, a farla breve, acconsentii che tenesse il bambino e le diedi 10 sterline, cioè, le diedi alla mia governante che le consegnò alla poveretta sotto i miei occhi: questa accettò di non mai più restituirmi il bambino né pretendere altro per mantenerlo e allevarlo; le promisi solo, quando ne avesse una grandissima cura, di darle qualcosetta in più tutte le volte che sarei venuta a trovarli, cosicché non mi impegnai a pagare le 5 sterline e promisi soltanto alla governante di farlo.


Mi liberai così di quel gran cruccio in un modo che, se anche non mi soddisfaceva del tutto, pure per me, visto come mi andavano le cose allora, era il più conveniente di qualunque si sarebbe potuto escogitare per il momento.


Incominciai allora a corrispondere con il mio amico della banca in uno stile più affettuoso, e in particolare verso i primi di luglio gli mandai una lettera che contavo di essere a Londra in 'agosto. Mi scrisse una risposta concepita nei più appassionati termini del mondo, e mi chiedeva di avvertirlo del mio ritorno in tempo utile: mi sarebbe venuto incontro a due giornate di cammino. Questo mi imbarazzò tremendamente, e non sapevo che risposta dargli. Un bel giorno mi decisi a prendere la carrozza di posta per West Chester; all'unico scopo di darmi la soddisfazione dell'arrivo, perché lui potesse davvero vedermi tornare in quella stessa carrozza; poiché mi era nato un geloso sospetto, quantunque non ne avessi nessun fondamento, che lui sapesse che io non ero in campagna.


Cercai di vincere quest'idea con ogni ragionamento, ma tutto fu inutile: quell'impressione mi pesava così tanto sullo spirito, che resisterle era impossibile. Alla fine mi ricordai, come un ulteriore vantaggio del mio nuovo piano di uscire da Londra, che questa sarebbe stata una lustra eccellente per la vecchia governante e avrebbe interamente nascosto tutti i miei altri intrighi, dato che lei non sapeva affatto se il mio nuovo adoratore stesse a Londra o nel Lancashire; e, quando le dissi del mio proposito, fu pienamente convinta che vivevo nel Lancashire.


Fatti i preparativi per questo viaggio, ne informai l'amico, e mandai la cameriera che fin dall'inizio mi aveva servita, a fissarmi un posto sulla carrozza. La governante avrebbe voluto che mi facessi accompagnare dalla cameriera fino all'ultima posta e la rimandassi poi sulla vettura, ma la convinsi che non era una cosa conveniente. Quando ci separammo, mi disse che non pensassi a prendere accordi per la corrispondenza, poiché vedeva manifesto che l'amore per il mio bimbo mi avrebbe costretta a scriverle, e a farle visita inoltre, una volta che fossi di ritorno a Londra. Le assicurai che così sarebbe stato e mi accommiatai, ben contenta di essermi liberata di una dimora simile, per quanto squisiti fossero le comodità che ci avevo trovato.


Mi servii del posto sulla carrozza solo parzialmente, scendendo in un posto chiamato Stone, nel Cheshire, dove non solo non avevo niente da fare, ma neppure la minima conoscenza. Sapevo però che, con dei quattrini in tasca, ci si ritrova dappertutto; così vi alloggiai due o tre giorni e infine, cogliendo l'occasione, trovai un posto in un'altra carrozza e mi pagai il passaggio fino a Londra, non senza inviare al mio uomo una lettera, come sarei arrivata il tal giorno a Stony-Stratford, dove il cocchiere mi aveva detto che doveva pernottare.


Accadde che la mia era una carrozza speciale che, noleggiata apposta per trasportare a West Chester certi gentiluomini che andavano in Irlanda, ritornava ora indietro e non si teneva legata a coincidenze esatte di tempo e di luogo, come le solite postali; così, essendo toccato al mio uomo di aspettare tutta la domenica, ebbe tempo di prepararsi a partire, cosa che diversamente non avrebbe potuto.


Ma il preavviso era così breve che non gli riuscì di giungere a Stony- Stratford in tempo per incontrarsi con me alla sera; mi incontrò invece in un luogo detto Brickhill la mattina successiva, proprio mentre facevamo il nostro ingresso nella cittadina.


Confesso che fui assai felice di vederlo, poiché la sera prima ero rimasta un po' delusa. E mi piacque doppiamente per la forma in cui venne, dato che arrivò con una bellissima carrozza signorile, a quattro cavalli, e un servitore ai suoi servizi.


Mi fece subito lasciare la carrozza di posta, che si fermò a una locanda di Brickhill; e scendendo in quella stessa locanda, fece staccare la sua carrozza e ordinò il pranzo. Gli chiesi che intendeva con ciò, visto che io pensavo di continuare il viaggio. Mi rispose che no, avevo bisogno di prendermi un po' riposo e quella era un'ottima locanda, nonostante la città fosse piccola; non avremmo quindi proseguito oltre, quella sera, qualsiasi cosa dovesse accadere.


Non volli insistere troppo, perché, visto che aveva fatta tanta strada per incontrarmi e affrontato così grandi spese, era soltanto ragionevole che ora lo accontentassi un po'; su questo punto fui quindi arrendevole.


Dopo il pranzo uscimmo a passeggio per la cittadina, a vedere la chiesa e contemplare l'aperta campagna com'è abituale per i forestieri; ci fu di guida nella visita alla chiesa il nostro albergatore. Notai che il mio uomo si informava molto della persona del parroco, e capii subito l'antifona: senza dubbio mi avrebbe chiesto che ci sposassimo. A questa idea seguì subito l'altra, che insomma non l'avrei più respinto; poiché, a dirla chiara, nelle attuali circostanze non avevo più la possibilità di rispondergli picche; non avevo ormai motivo di arrischiare ancora una cosa così poco sicura.


Mentre simili pensieri mi correvano per il capo, che fu questione di pochi istanti, osservai che l'albergatore se lo prendeva in disparte e gli bisbigliava qualcosa, non però tanto a bassa voce che non sentissi questo: «Signore, se mai vi occorresse...». Non colsi il resto, ma mi sembra che volesse dire questo: "Signore, se mai vi occorresse un pastore, io ho un amico un po' fuori mano che vi servirà a meraviglia, e sarà segreto quanto vorrete". E il mio compagno rispose tanto forte che sentii: «Va benissimo, credo di sì».


Ero appena ritornata alla locanda che l'amico mi si mise intorno con parole irresistibili a questo effetto che, dato che aveva avuto la buona fortuna di incontrarmi e tutto concorreva, avrei accelerato la sua felicità se avessi voluto concludere senz'altro la faccenda sul posto. «Che volete dire?» gli feci, arrossendo un po'o. «Come, in una locanda e in viaggio? Che Dio ci assista, ma come è possibile che diciate simili cose?» «Posso dirle benissimo» mi rispose, «sono venuto apposta per dirvele, e ora vi mostro quello che ho fatto» e in così dire estrasse un grande involto di carte. «Voi mi spaventate» replicai; «che cos'è tutta questa roba?» «Non abbiate paura, mia cara» disse, e mi diede un bacio. Era questa la prima volta che si prendeva tanta libertà da chiamarmi "mia cara"; poi continuò: «Non abbiate paura; vedrete di che si tratta, dalla prima all'ultima» e aprì l'involto.


C'era prima di l'atto o sentenza di divorzio contro sua moglie e la piena testimonianza che era stata una baldracca; poi venivano i certificati del pastore e dei funzionari della parrocchia dove aveva vissuto, comprovanti che era stata sepolta e dichiaranti il modo del decesso; la copia dell'autorizzazione del procuratore ai giurati di radunarsi, e la risposta dei giurati espressa con la formula: "Non compos mentis". Tutto questo, allo scopo di darmi intera soddisfazione, per quanto, a dire il vero, io non fossi tanto scrupolosa, se mi avesse a fondo conosciuta, da non poterlo accettare anche senza tutti quei documenti. Li scorsi tuttavia a uno a uno, quanto meglio seppi; e gli dissi che i documenti erano realmente molto chiari, ma che non avrebbe dovuto portarseli dietro, visto che avevamo tempo a sufficienza. Sì, mi rispose, io forse avevo tempo a sufficienza, ma nessun altro tempo se non il presente era sufficiente per lui.


C'erano altre carte arrotolate e gli chiesi che fossero. «Finalmente» mi disse, «era questa la domanda che volevo mi faceste»; e tirò fuori un astuccetto di zigrino, e ne tirò fuori, presentandomelo, un bellissimo anello di diamanti. Non avrei potuto rifiutarlo, se anche avessi voluto, perché me lo infilò nel dito; gli feci quindi semplicemente una riverenza. Poi tirò fuori un altro anello: «E questo» disse, «è per un'altra occasione» e se lo ficcò in tasca.


«Bene, mostratemelo almeno» gli dissi sorridendo; «immagino che cos'è; e credo proprio che siate ammattito.» «Sarei ammattito se avessi fatto di meno» mi rispose; ma tuttavia non lo mostrava, e io avevo una gran voglia di vederlo; per cui dissi: «Bene, mostratemelo dunque». «Ferma» esclamò, «prima guardate qua» e riprese in mano il rotolo, lo lesse e, guarda un po'! era una licenza di matrimonio per noi due. «Ma insomma» dissi, «avete perso il cervello? Eravate convinto, a quanto pare, che avrei ceduto alla prima parola, o deciso a non sentir rifiuti.» «Quest'ultima è certo la verità» ribatté. «Ma potrebbe darsi che vi sbagliaste» gli dissi. «No, no» mi rispose, «non si può respingermi, non si deve respingermi» e così dicendo prese a baciarmi con tanta violenza che non seppi liberarmi da lui.


Nella camera c'era un letto e noi passeggiavamo avanti e indietro, assorti nel colloquio; alla fine egli mi afferrò di sorpresa tra le braccia e mi gettò sul letto, e se stesso con me, e sempre tenendomi stretta ma senza prendersi la minima licenza, mi sollecitò ad acconsentire con tante suppliche e argomentazioni ripetute, protestando il suo amore e giurando che non mi avrebbe lasciata se non gli davo la mia promessa, che alla fine dissi: «Insomma, a quanto pare siete davvero deciso a non lasciarvi respingere». «No, no» mi disse, «non si può, non si deve, non bisogna respingermi.» «E va bene» risposi dandogli un bacio leggero, «vuol dire che non vi respingeranno; lasciate che mi alzi.» Fu talmente rapito dal mio consenso e dal modo gentile con il quale lo diedi, che cominciai a un tratto a credere che lo prendesse per un matrimonio, senza aspettare altre formalità; ma gli facevo torto perché egli mi diede la mano, mi rialzò e dandomi due o tre baci mi ringraziò per la mia resa gentile; e tanto era sopraffatto da questa soddisfazione che gli vidi salire le lacrime agli occhi.


Girai la testa dall'altra parte perché mi si riempivano di lacrime gli occhi anche a me, e gli chiesi il permesso di ritirarmi un istante in camera mia. Se mai ebbi un grano di pentimento sincero per la mia abominevole vita dei ventiquattr'anni trascorsi, fu allora. Quale fortuna per il genere umano, dissi tra me, che nessuno giunga a vedere nel cuore del prossimo! Come sarebbe stato bello se fin dall'inizio fossi stata la moglie di un uomo tanto onesto e tanto innamorato!

Poi mi venne da pensare: "Quale abominevole creatura sono io mai! e quale torto non farò a quest'uomo innocente! Quanto poco egli sospetta che, divorziato da una baldracca, sta buttandosi tra le braccia di un'altra! che sta per sposare una donna che ha dormito con due fratelli, e partorito tre figli al suo stesso fratello! una donna venuta al mondo a Newgate, figlia di una baldracca che adesso è deportata per ladra! Una donna che ha dormito con tredici uomini, e partorito un bambino dopo il nostro ultimo incontro! Povero diavolo!" dissi, "che cosa farà mai?". Finito che ebbi di rimproverarmi in questo modo, continuai così: "Ebbene, se devo essere sua moglie, se piacerà a Dio di farmi la grazia, sarò per lui una moglie fedele e lo amerò proporzionatamente allo strano eccesso della sua passione per me; lo risarcirò con quanto vedrà, dei torti che gli faccio, i quali non vedrà".


Egli aspettava con impazienza che uscissi dalla camera, ma vedendo che tardavo, scese dabbasso e cominciò a parlare del parroco con l'albergatore.


L'albergatore, un tipo servizievole, bene intenzionato però, aveva già mandato per l'ecclesiastico; e non appena il mio pretendente cominciò a parlargli di mandarlo a cercare: «Signore» gli disse, «l'amico mio è qui»; e così, non essendoci bisogno di altre parole, li presentò l'uno all'altro. Una volta davanti al pastore, il mio uomo gli chiese se si sentiva di sposare una coppia di forestieri, tutti e due d'accordo.


Il parroco rispose che il Signor... gliene aveva accennato; che sperava non si trattasse di un affare clandestino; che gli sembrava un signore serio e, quanto alla dama, pensava bene che non fosse una ragazzina tale da rendere necessario il consenso di persone amiche.


«Per togliervi ogni dubbio a questo riguardo» disse il mio pretendente, «leggete questo foglio» e tirò fuori la licenza. «Basta» disse il pastore: «dov'è la dama?» «Ve la porto subito» rispose il mio amico.


Detto questo, salì le scale; io intanto ero uscita dalla camera; venne e mi disse che il pastore era giù e che, vista la licenza, era disposto di tutto cuore a sposarci, «ma prima vuole vederti»; mi chiese perciò se volevo che salisse.


«Ci sarà tutto il tempo domattina» gli risposi «no?» «Vedi» mi disse, «mia cara, sembrava avesse scrupolo che tu fossi una qualche ragazzina rapita ai genitori, e io lo rassicurai che eravamo tutti e due in età da disporre del nostro consenso; per questo mi ha chiesto di vederti.» «Va bene» dissi, «fa come vuoi»; e così mi portarono il parroco, che era un brav'uomo, di cuor contento. Gli avevano raccontato, sembra, che noi ci eravamo incontrati in quel posto per caso; che io ero arrivata su di una carrozza di Chester e il mio compagno appositamente sulla propria; che avremmo dovuto trovarci la sera prima a Stony- Stratford, sennonché non gli era stato possibile spingersi fin laggiù.


«Ebbene, signore» disse il parroco, «ogni brutta avventura ha un lato bello. La delusione, caro signore» rivolgendosi al mio compagno, «è stata per voi, ma la bella avventura per me, dato che se vi foste incontrati a Stony-Stratford non avrei avuto l'onore di unirvi in matrimonio. Padrone, avete un Libro delle Preghiere Comuni?» Scattai come spaventata. «Ma, signore» esclamai, «che volete dire?

Come? sposarci in una locanda, e per di più nottetempo!» «Madama» rispose il pastore, «se volete la cerimonia in chiesa, possiamo accontentarvi; ma vi assicuro che il vostro matrimonio sarà altrettanto valido celebrato qui come in chiesa; i canoni non ci fanno obbligo di celebrarli esclusivamente in chiesa; e quanto all'ora tarda, in questo caso non è di nessuna importanza: i nostri principi vengono uniti in matrimonio nelle loro stanze, e alle otto o alle dieci di sera.» Ci misi un bel pezzo a lasciarmi convincere, e ostentai di non volere assolutamente sposarmi che in chiesa. Ma era tutta una finta: e così in fine ebbi l'aria di lasciarmi piegare, e l'albergatore con moglie e figlia vennero fatti salire. L'albergatore fece da padrino e da scrivano in una volta sola; così fummo sposati, e non ci mancò l'allegria; benché debba confessare che i rimproveri inflitti a me stessa precedentemente mi pesassero sul cuore strappandomi ogni tanto un profondo sospiro, del quale il mio sposo si accorgeva, e si sforzava allora di infondermi coraggio, credendo - poveretto - che mi restasse qualche esitazione verso il passo che avevo fatto tanto affrettatamente.


Quella sera ce la godemmo senza risparmio, eppure tutta la faccenda passò così segreta nella locanda, che neppure uno della servitù ne seppe nulla, poiché mi servirono l'albergatore e sua figlia, e non permisero a nessuna delle cameriere di salire. La figlia dell'albergatrice la feci mia damigella d'onore; e l'indomani mattina, mandato per un bottegaio, regalai alla giovane una bella gala, la migliore che trovai in città, e dato che vi regnava l'industria delle trine, regalai alla madre un pezzo di merletto per farsene una cuffia.


Una ragione per cui l'albergatore faceva tanto mistero era che gli sarebbe dispiaciuto se il pastore della parrocchia ne avesse saputo qualcosa; ma tuttavia qualcosa si riseppe, e così ci fu un grande scampanio l'indomani di buon'ora, e una musica, quale la città poteva offrire, suonò sotto la nostra finestra. Ma l'albergatore sostenne con faccia tosta che c'eravamo sposati prima di entrare in città e semplicemente, essendo suoi antichi avventori, avevamo celebrato in casa sua il banchetto nuziale.


Non ci bastò il cuore di muoverci il mattino seguente; poiché insomma, tra il disturbo delle campane mattutine e tra perché forse non avevamo dormito quel tanto, ci prese in seguito un tale sonno che restammo a letto fin quasi a mezzogiorno.


Io pregai la padrona che facesse smettere in città ogni musica e ogni scampanio, e questa seppe fare tanto bene che sopravvenne una grande quiete; ma un caso bizzarro troncò per un bel pezzo ogni mia felicità.


La grande sala della locanda guardava verso la strada, e io, spintami fino in fondo alla sala, dato che era una calda e bella giornata, avevo aperto la finestra e vi stavo a prendere un po' d'aria, quando vidi tre signori che passarono a cavallo, entrando in una locanda proprio di fronte a noi.


Non era possibile nasconderselo né avevo dubbi: il secondo dei tre era il mio marito del Lancashire. Provai uno spavento di morte: mai finora mi ero trovata in una tale costernazione; mi sembrò che la terra dovesse inghiottirmi; il sangue mi si agghiacciò nelle vene e cominciai a tremare come assalita da un freddo accesso di febbre.


Ripeto che non avevo proprio dubbi; riconobbi i suoi abiti, riconobbi il cavallo, e riconobbi il viso.


Il primo pensiero che feci, fu che mio marito non era presente e non poteva sorprendere il mio turbamento, e di questo fui molto contenta.


Non era passato molto tempo dalla loro entrata nella casa, che i tre vennero alla finestra della loro stanza, come si fa sempre; ma la finestra della mia era chiusa, ve l'assicuro. Non seppi tuttavia trattenermi dallo sbirciare verso di loro ed ecco che lo rividi, lo sentii chiamare uno dei servitori per qualcosa che gli serviva, e mi ebbi tutte le più spaventose conferme possibili che lui era proprio la stessa persona.


La mia successiva ansia fu di sapere che cosa mai venisse a fare in quel posto, ma questo non era possibile. A volte la mia immaginazione foggiava l'idea di una qualche cosa tremenda; a volte, di un'altra; un momento pensavo che mi avesse scoperta e fosse venuto a rinfacciarmi l'ingratitudine e la mancanza di fede; poi immaginavo che stesse salendo le scale per venirmi a oltraggiare; e pensieri innumerevoli mi correvano per la testa, di cose che per il suo capo non erano mai passate né mai sarebbero, a meno che il diavolo non gliele avesse scoperte.


Continuai in quello spavento per circa due ore e non distolsi quasi mai l'occhio dalla finestra e dalla porta della locanda dov'erano i tre. Alla fine, sentendo un grande strepito nel viottolo davanti alla loro locanda, corsi alla finestra e, con mia grande soddisfazione, li vidi tutti e tre uscirsene e dirigere il trotto verso occidente. Se avessero preso la strada di Londra, il mio spavento non sarebbe cessato, per paura di rincontrarlo e di essere da lui riconosciuta; ma prese invece per la via opposta e questo vinse il mio turbamento.


Ci decidemmo a partire l'indomani, ma verso le sei della mattina ci allarmò un gran tumulto nella strada, e gente che passava a cavallo come fossero fuori di sé; e che altro era, se non lo schiamazzo dell'inseguimento di tre banditi che avevano svaligiato due carrozze e parecchi viaggiatori presso Dunstable Hill, e si era sparsa la voce, sembra, che fossero stati visti a Brickhill, nella tale locanda, proprio in quella dov'erano scesi quei tre signori.


La casa venne subito circondata e frugata, ma si trovarono testimoni a sufficienza, che i tre signori se n'erano andati da più di tre ore.


Siccome si raccolse una gran folla, sapemmo subito la notizia; e stavolta mi prese una grande ansia d'altro tipo. Dissi senz'altro alla gente di casa, che potevo affermare che quei tre erano persone oneste, poiché conoscevo uno di quei signori per onestissimo e padrone di una certa sostanza nel Lancashire.


Il sergente che era arrivato insieme con gli inseguitori venne subito informato di ciò, e venne a cercarmi per sentirlo dalla mia stessa bocca; io lo assicurai che avevo visto quei tre signori stando alla finestra; che li avevo in seguito visti alle finestre della stanza dove pranzavano; che li avevo visti salire a cavallo, e potevo assicurarlo che uno di essi era la tal persona, padrone di una bella sostanza, molto considerato nel Lancashire, da dove appunto venivo io allora.


La sicurezza con la quale dichiarai queste cose rintuzzò un po' il popolaccio minuto e soddisfece talmente il sergente, che subito batté la ritirata, disse alla folla che i tre non erano i loro, ma aveva raccolto l'informazione che erano invece onesti gentiluomini; e tutti così se ne tornarono per la loro strada. Quale fosse la verità della storia io non lo sapevo, ma certo è che le carrozze vennero svaligiate a Dunstable Hill e rubate 560 sterline in denaro; e inoltre era stato fermato anche qualcuno dei mercanti di trine che viaggiano sempre per quella strada. Quanto ai tre signori, rimando a più tardi ogni spiegazione.


E così quell'allarme ci fermò per un'altra giornata, per quanto il mio sposo andasse dicendomi che era sempre la cosa migliore viaggiare dopo una rapina, poiché era certo che i ladri se l'erano battuta lontano, una volta allarmata tutta la regione; ma io non ero tranquilla e questo essenzialmente per paura che la mia antica conoscenza fosse ancora in viaggio e dovesse per caso vedermi.


Non ho mai passato quattro giorni di seguito più deliziosi in tutta la mia vita. Non ero che una semplice sposina in quei giorni, e il mio novello marito si ingegnava di rendermi tutto facile. Oh, se questo stato di vita avesse potuto continuare! come tutti i miei crucci passati li avrei dimenticati, ed evitati gli affanni futuri! Ma io avevo un passato dei più indegni, del quale rispondere parte in questo mondo e parte nell'altro.


Ce ne venimmo via il quinto giorno; e l'albergatore, vedendomi inquieta, salì di persona a cavallo insieme con suo figlio e tre onesti paesani, muniti di buone armi da fuoco; e senza dirci niente seguirono la carrozza e vollero vederci arrivare sani e salvi a Dunstable.


Non potemmo fare a meno di invitarli a pranzo con una certa generosità, una volta arrivati, e questo costò al mio sposo un dieci o dodici scellini, e qualcosa inoltre dovemmo dare agli uomini per risarcirli del tempo perduto; soltanto l'albergatore non volle saperne di accettare niente.


Quanto ho raccontato, fu il più felice dei casi che potesse capitarmi; perché se fossi arrivata a Londra non ancora maritata, avrei dovuto o scendere in casa sua per l'ospitalità della prima notte o palesargli che non avevo un solo conoscente in tutta la città, che potesse offrire a una povera sposa in compagnia del marito l'alloggio della prima notte. Ma ora non ebbi scrupolo di andargli direttamente in casa insieme, e qui senz'altro presi possesso di una dimora ben arredata e di un marito discretamente facoltoso, cosicché mi si apriva la prospettiva di una vita di gioia, a patto che ci sapessi fare; ed ebbi tutto l'agio di riflettere sul reale valore dell'esistenza che, potevo credere, avrei condotto adesso. Sarebbe stata ben differente dalla dissoluta parte da me recitata in precedenza; e quanto è più felice una vita virtuosa e temperata che non quella che si chiama una vita di piacere!

Ah, se quella particolare scena della vita fosse durata oppure io avessi appreso, da quel tempo in cui la conobbi, a gustarla nella sua vera dolcezza, e non fossi caduta in quella povertà che è il veleno infallibile della virtù: quanto felice sarei stata, e non solo allora, ma forse per sempre! poiché, fin che vissi in quel modo, io fui davvero penitente di tutta la mia esistenza passata. Mi giravo a guardarla con orrore e si sarebbe con verità potuto dire che odiavo me stessa per colpa sua. Meditavo spesso come il mio amante di Bath, colpito dalla mano di Dio, si era pentito e mi aveva abbandonata, rifiutando di vedermi ancora, sebbene mi amasse alla follia; mentre io, sospinta da quel pessimo fra tutti i demoni, la povertà, ero tornata a quell'abietta professione; e avevo fatto del vantaggio di quello che chiamano un bel viso il rimedio dei miei bisogni, e della bellezza una mezzana del vizio.


Sembrava proprio che adesso fossi entrata in un porto sicuro, dopo il tempestoso viaggio della mia esistenza passata, e cominciai a provare riconoscenza per la mia liberazione. Stavo seduta tutta sola per ore e ore, e piangevo al ricordo delle passate follie e delle orribili stravaganze di una vita perversa, e a volte mi lusingavo di essermi sinceramente pentita.


Ma vi sono tentazioni, alle quali non è dato all'umana natura di resistere, e ben pochi sanno quale sarebbe il loro contegno, se fossero ridotti alle stesse necessità. Come la cupidigia è alla radice di ogni male, così la povertà è la peggiore di tutte le insidie. Ma non insisterò su questo discorso fin che non sarò venuta al punto.


Me ne vivevo con questo marito nella massima tranquillità; egli era un uomo calmo, giudizioso e posato: fatto di virtù, di modestia e di sincerità e, negli affari diligente e scrupoloso. Il giro di questi affari non era molto ampio, e il suo reddito sufficiente a un ordinario tenore di vita molto comoda. Non dico sufficiente a tenere un equipaggio, e a fare bella figura come dice il mondo, cosa che non avevo sperato né desideravo; perché, come ora aborrivo dalla leggerezza e stravaganza della mia vita passata, così avevo ormai deciso di starmene ritirata e sobria sotto il mio tetto. Non frequentavo la società, non facevo visite; mi occupavo della famiglia, mi davo tutta a mio marito; e questo tipo di vita diventò per me una gioia.


Vivemmo per cinque anni che furono un seguito ininterrotto di pace e di gioia, quando un colpo improvviso di una mano quasi invisibile distrusse ogni felicità e mi ricacciò per il mondo in una condizione che era il rovescio di tutto quanto avevo sperimentato.


Mio marito affidò a un collega scrivano una somma di denaro troppo forte perché le nostre sostanze potessero sopportarne la perdita: lo scrivano lo tradì e la perdita ricadde schiacciante sulle spalle di mio marito. Pure non era grande al punto che lui, se avesse avuto il coraggio di guardare in faccia la sfortuna, non potesse, come io gli dicevo, facilmente recuperarla, dato l'ottimo credito di cui godeva:

poiché accasciandosi sotto l'affanno si viene soltanto a raddoppiare il peso, e chi si mette in testa di morirci, ci muore.


Non servì a niente dargli parole di conforto; il colpo era penetrato troppo in profondità, come una pugnalata che gli avesse toccato le viscere; si fece malinconico e sconsolato, in seguito cadde in stato letargico, e morì. Io avevo previsto la botta: e mi aveva invaso una tremenda oppressione di spirito, dato che vedevo chiaro che se lui moriva, io ero perduta.


Da lui avevo avuto due figli, e niente più, perché cominciavo a entrare in un'età che dovevo ormai smettere: avevo quarantott'anni, e immagino che, se anche mio marito fosse vissuto, non ne avrei fatti altri.


Mi trovavo ora in una condizione davvero paurosa e sconsolata, e per molti aspetti peggiore che mai. Anzitutto, era ormai passata la mia età fiorita nella quale potevo sperare che qualcuno mi cercasse come amante; tutto quel grato pregio da qualche tempo era scaduto, e non apparivano più che le rovine di quello che era stato; e peggio di ogni altra cosa era questa, che mi trovavo a essere la più abbattuta e sconsolata delle creature viventi. Io che avevo fatto coraggio a mio marito e tentato di rianimare i suoi spiriti oppressi dal dolore, non sapevo ora rianimare i miei; mancavo proprio di quella forza nel dolore, che gli avevo detto essere tanto necessaria per reggere al peso.


Ma il mio caso era poi davvero deplorevole, restando io interamente priva di amicizie e di aiuti, e la perdita sofferta da mio marito aveva di tanto abbassato i suoi mezzi che, sebbene a dire il vero non fossi in debito, pure non mi era difficile prevedere che quanto restava non mi sarebbe bastato a lungo; che giorno per giorno il capitaluccio andava consumato nel mantenermi, cosicché ben presto sarebbe sfumato tutto, e allora non mi vedevo davanti altra prospettiva che l'estrema miseria. Questa mi si rappresentava così vividamente al pensiero, che sembrava mi fosse già sopraggiunta, prima ancora che fosse nemmeno vicina; e inoltre le mie stesse paure raddoppiavano la mia angoscia, poiché mi immaginavo che ogni quattrino che spendevo per una pagnotta fosse l'ultimo che mi restasse al mondo, e che l'indomani avrei dovuto rimanere a bocca asciutta e insomma morire di fame.


In questa angoscia non avevo assistenza, non avevo nessuna amicizia che mi potesse confortare né consigliare; stavo seduta a piangere e tormentarmi notte e giorno, torcendomi le mani e a volte delirando come una donna forsennata; e in verità, spesso mi sono stupita che non mi abbia dato di volta il cervello, perché provavo quei vapori con una tale intensità, che non di rado il mio intelletto era completamente stravolto in chimere e fantasie.


Passai in questo stato spaventoso due anni, spendendo quel poco che mi restava, piangendo di continuo sulla mia paurosa condizione, ma non avendo la minima speranza o prospettiva di aiuto; posso ben dire che andavo soltanto dissanguandomi a morte; e ormai avevo pianto da tanto tempo e tanto spesso, che di lacrime non me ne venivano più, e cominciavo a disperare, poiché rapidamente impoverivo.


Per avere un po' di respiro, mi ero sbarazzata della casa e stavo in un appartamento; e dato che andavo riducendo il mio tenore di vita, vendetti la maggior parte della roba, raggranellando così un po' di danaro, con il quale vissi quasi un anno, spendendo con la massima parsimonia e stiracchiando quanto potevo ogni cosa; ma sempre, se guardavo al futuro che mi aspettava, mi veniva meno il cuore nel petto all'inevitabile avvicinarsi della povertà e del bisogno. Oh, che nessuno legga questa parte della storia senza riflettere seriamente alla condizione di una creatura desolata, e come esso stesso si dibatterebbe, mancando di ogni amico e mancando del pane: arriverà certo alla decisione non solo di risparmiare quello che possiede, ma di alzare gli occhi al cielo in cerca di appoggio e si ricorderà la preghiera del saggio: "Non ridurmi in miseria, Signore, perché potrei rubare".


Ricordino tutti che il tempo della miseria è un tempo di tentazione orribile, e che viene a mancare ogni forza di resistenza: la povertà incalza, l'anima è gettata nella disperazione dal bisogno, che cosa si può fare?

Fu una sera, quando ridotta, posso dire, all'ultimo anelito - credo di non esagerare se dico che ero pazza e farneticante - sospinta da non so quale impulso e non sapendo, insomma, quel che facessi o perché lo facessi, mi vestii bene (avevo ancora qualche buon abito) e uscii per le strade. Sono certissima che non avevo intenzioni di nessun tipo quando uscii; e nemmeno sapevo né riflettevo dove sarei andata o per che cosa; ma come il demonio mi spinse fuori, preparando per me la sua esca, così fu lui di certo a portarmi sul posto, dato che io non sapevo dove andavo né cosa facessi.


Errando così senza meta, passai davanti alla bottega di uno speziale in Leadenhall Street, dove vidi deposto su uno sgabello proprio davanti al banco un fagottino avvolto in tela bianca; dall'altra parte, volgendogli le spalle, stava una cameriera che alzava gli occhi alla sommità della bottega dove il garzone dello speziale, suppongo, dritto in piedi sul banco, anche lui volgendo le spalle alla porta, e con una candela in mano, guardava e tastava sull'ultimo scaffale in cerca di qualcosa, cosicché tutti e due erano impegnati, e in bottega non c'era nessun altro.


Fu quella l'esca; e il demonio che tese l'insidia mi incitò come se avesse parlato, poiché ricordo, e non lo dimenticherò mai, che fu come una voce pronunciata alla mia spalla: "Prendi il fagotto; svelta; fallo subito". Non era ancora finito, che misi il piede sulla soglia e volgendo la schiena alla ragazza, come se mi fossi scostata da un carretto che passava, allungai la mano dietro di me, e presi il fagotto e me ne andai stringendolo, e né la cameriera né il garzone né altri si accorsero di me.


Non è possibile esprimere l'orrore che avevo nell'anima in tutto quel frattempo. Quando me ne venni via, non avevo più cuore di mettermi a correre e nemmeno di modificare il passo. In verità attraversai la via e girai alla prima svolta che mi si parò davanti, credo fosse una via che attraversava Fenchurch Street; di là attraversai e girai per tante vie e tante svolte, che non seppi mai ricordare quale cammino abbia fatto né dove sia andata; non sentivo la terra sotto i piedi, e più mi allontanavo fuori da ogni pericolo, più svelta camminavo, finché stanca e trafelata non fui costretta a sedermi su di una panchina davanti a una porta, e qui mi accorsi che ero arrivata in Thames Street, presso Billingsgate. Presi un po' di fiato, e mi rimisi in cammino; avevo il sangue tutto in fiamme; mi batteva il cuore come fossi sorpresa da un improvviso spavento. Insomma, provavo un tale sbigottimento, che non sapevo né dove andare né che fare.


Dopo che mi fui così spossata a camminare in giro tanto tempo e con tanta smania, cominciai a riflettere, e mi diressi a casa nel mio appartamento, dove arrivai circa alle nove di sera.


A che scopo fosse stato fatto quel fagottino, o per quale ragione deposto dove l'avevo trovato, io non lo sapevo, ma quando mi decisi ad aprirlo, ci trovai un corredo di pannolini infantili, buonissimi e quasi nuovi di cui la trina era finissima; poi una scodella in argento della capacità di una foglietta, un boccaletto d'argento, e sei cucchiai con qualche altro po' di biancheria, una camicia da donna, tre fazzoletti di seta, e nel boccale una carta, 18 scellini e 12 soldi in danaro.


Per tutto il tempo che andai scoprendo questi oggetti, ero sotto un così spaventoso carico di terrore e in un tale panico mentale, benché fossi completamente al sicuro, che non so esprimerne la natura. Mi sedetti piangendo con grande trasporto "Signore" dicevo, "che cosa sono ora? una ladra? Dunque la prossima volta mi prenderanno e mi porteranno a Newgate, e mi faranno il processo capitale!" E in così dire ripresi a piangere e fu a lungo, e sono certa che, povera com'ero, se avessi vinto la paura, avrei certo riportato indietro quegli oggetti; ma dopo un po' mi passò la voglia. Per quella notte mi misi a letto, ma dormii molto poco; mi stava ancora sul cuore il senso orribile della mia azione, e non so quel che abbia detto o fatto in quella notte e tutto il giorno seguente. Poi mi giunse un'impazienza di sapere com'era andato il furto; e avrei pure voluto sapere come stavano le cose, se quella era roba di qualche poveretta o di una persona ricca. "Magari" dissi, " sarà qualche vedova disgraziata come me, che aveva fatto su questi oggetti con l'intenzione di andarli a vendere per un po' di pane da sfamare sé e un povero bimbo, e adesso digiunano e scoppia loro il cuore per il bisogno di quel poco che avrebbero potuto ricavarne." E questo pensiero mi tormentò peggio che tutto il resto, per tre o quattro giorni.


Ma le mie proprie angustie fecero tacere tutte queste riflessioni, e la prospettiva che morissi anch'io di fame (di giorno in giorno quest'idea mi si faceva più terribile) gradatamente mi indurì il cuore. Ciò che in modo speciale mi pesava allora sullo spirito, era il fatto che già mi ero emendata e, secondo quanto speravo, pentita di tutte le mie passate iniquità; che avevo vissuto per vari anni un'esistenza posata, austera e solitaria, ma ora le tremende necessità del mio stato mi avrebbero sospinta corpo e anima alle porte della distruzione; e due o tre volte caddi in ginocchio, rivolgendo a Dio, come meglio seppi, la preghiera che mi liberasse; ma non posso tacere che dietro le mie preghiere non c'era speranza. Non sapevo che fare; fuori, soltanto terrori; dentro, tenebre; e riconsideravo la mia vita passata come non me ne fossi pentita, riflettevo che il Cielo cominciava ora a castigarmi e mi avrebbe resa altrettanto infelice quant'ero stata perversa.


Se, arrivata a questo punto, non mi fossi fermata, avrei forse trovato un pentimento sincero; ma dentro al cuore avevo un perfido consigliere, che di continuo mi istigava a ricorrere per mio sollievo ai mezzi peggiori; e una sera, con quello stesso impulso perverso che aveva detto: "Prendi quel fagotto" tornò a tentarmi che uscissi e mi mettessi in cerca di quel che potevo trovare.


Stavolta uscii che era ancora chiaro, e andai vagabondando senza meta, alla ricerca non sapevo di che, quando il demonio mi tese sui miei passi un laccio di natura veramente orribile, e quale né prima né in seguito non ho incontrato mai più. Traversando Aldersgate Street, vidi una bella bambina che era stata alla scuola di ballo e se ne tornava a casa tutta sola; e il mio istigatore da vero demonio mi gettò su questa innocente creatura. Le rivolsi la parola ed essa mi rispose con la sua ciancetta; la presi per mano e la guidai finché non giunsi a un viottolo lastricato che porta in Bartholomew Close, dove la feci entrare. La bimba mi disse che non era quella la strada di casa sua.


Le risposi: «Sì, tesoro, è questa; ti porterò io a casa». La bimba aveva al collo un piccolo vezzo di palline d'oro, sul quale avevo posto gli occhi e nell'oscurità del viottolo mi curvai fingendo di aggiustare l'incastro che si era allentato, le tolsi la collanina e la bimba non se ne accorse: poi la feci proseguire. Vi dico che a questo punto il demonio mi suggerì di uccidere la bimba nel viottolo scuro, perché non piangesse, ma il semplice pensiero mi spaventò talmente che fui sul punto di cadere a terra. Feci invece girare la bimba e le dissi di tornare indietro, perché quella non era la strada di casa sua: la bimba disse che sarebbe andata; e io presi per Bartholomew Close, poi girai verso un altro passaggio che porta in Long Lane, e poi avanti in Charterhouse Yard, riuscendo in Saint Johns's Street; quindi traversando verso Smithfield, discesi per Chick Lane, entrai in Field Lane, alla volta del ponte di Holborn, dove, mescolandomi alla folla che vi passa d'ordinario, non era più possibile che mi si rintracciasse. Fu questa la mia seconda sortita nel mondo.


I pensieri suggeritimi da questo bottino sgominarono tutti i pensieri suggeriti dall'altro, e le riflessioni che avevo fatto si dileguarono immediatamente: la povertà mi rendeva di pietra il cuore, e il bisogno in cui mi trovavo mi rendeva incurante di tutto il resto. L'ultima impresa non mi lasciò troppo rimorso, poiché dato che del male a quella povera bambina non ne avevo fatto, pensai piuttosto che avevo inflitto ai genitori un meritato castigo per la loro negligenza di lasciare la povera creatura tornare sola a casa, e mi dicevo che così avrebbero imparato a stare più attenti un'altra volta.


Questa collana di palline poteva valere un 12 o 14 sterline. Immagino che un tempo fosse stata della madre, poiché era troppo larga per l'uso della bimba, ma che forse la vanità che la bambina comparisse bene alla scuola di ballo aveva indotto la madre a fargliela portare; e non c'è dubbio che a riprendere la figlia aveva mandato una cameriera, ma costei, spensierata sgualdrina, si era forse soffermata con qualcuno di passaggio, e così la povera bimba aveva gironzolato fino a cadere nelle mie mani.


Tuttavia, alla piccola non feci nessun male; non le feci nemmeno paura, dato che avevo ancora in me moltissimi delicati pensieri, e non facevo se non quanto, posso ben dire, la necessità mi costringeva a fare.


Ebbi un sacco di avventure dopo quest'ultima. Ma ero giovane del mestiere, e non sapevo comportarmi diversamente da come il demonio mi suggeriva; e realmente, molto di rado mi veniva a mancare la sua tentazione. Mi capitò un'avventura, che fu per me un'insperata fortuna. Stavo attraversando nell'ombra della sera Lombard Street, proprio all'estremità di Three Kings Court, quando d'improvviso mi giunge al fianco un tale che correva come il lampo e mi getta un fagotto, che teneva in mano, dietro i piedi là dov'ero contro l'angolo della casa, alla svolta del viottolo. Nell'istante che lo buttò, mi disse: «In nome del cielo, signora, lasciatelo stare dov'è» e scappò via. Dietro gli sbucarono altri due, e subito dopo un giovanotto senza cappello, che gridava: «Ferma, al ladro!». Inseguirono così da vicino i due ultimi, che questi dovettero buttare quanto avevano preso e per soprammercato uno dei due venne raggiunto; l'altro scampò.


Tutto il tempo io stetti come impietrita, fin che non ritornarono, sospingendo il poveretto catturato e trascinando le robe che avevano ripreso, contenti e felici di aver recuperato il bottino e agguantato il ladro; e così mi passarono davanti, poiché io avevo solo l'aria di una che stesse ferma mentre la gente sfollava.


Una o due volte chiesi cos'era successo, ma la gente non diede segno di rispondermi e nemmeno io fui troppo insistente; dopo però che la folla fu tutta passata, colsi l'occasione per rigirarmi e raccogliere quanto mi stava ai piedi e filare via. Tutto questo, in verità, mi riuscì con minore turbamento che non le altre volte, poiché quel fagotto io non lo rubavo, ma mi pioveva bell'e rubato nelle mani.


Arrivai al sicuro nel mio alloggio con il fardello, che consisteva in una pezza di bel lustrino nero e una pezza di velluto; quest'ultima, un avanzo di circa undici jarde; la prima invece, pezza intera di quasi cinquanta. Sembra che avessero saccheggiato la bottega di un setaiolo. Dico saccheggiato perché le merci perdute erano tanto considerevoli e quelle ricuperate abbondantissime: credo che ammontassero a circa sei o sette pezze diverse di seta. Come avessero fatto a mettere le mani su tanta roba, non so; ma dato che io non avevo derubato se non il ladro, non mi feci scrupolo di impossessarmi della merce, e di andarne anche molto soddisfatta.


Finora avevo avuto una discreta fortuna, e mi indussi a parecchie altre imprese che, sebbene non fossero di grande guadagno, pure mi riuscirono bene; ma attraversavo un quotidiano spavento di capitare male un giorno o l'altro, sicura di finire una buona volta sulla forca. L'impressione che tutto questo mi faceva era troppo forte perché non ne tenessi conto, e mi impediva di mettermi in tentativi che, per quanto sapevo io, avrei potuto effettuare con molta sicurezza; ma un'impresa non posso passare sotto silenzio, visto che per lunghi giorni fu la mia tentazione. Mi spingevo spesso fin nei villaggi intorno a Londra a esplorare se nulla lì mi venisse a tiro; e passando davanti a una casa presso Stepney, vidi sul davanzale di una finestra due anelli, uno piccolo di brillanti e l'altro una semplice verga d'oro, posati là di certo da qualche noncurante dama, ricca più di quattrini che di cervello, magari solo per il tempo di lavarsi le mani.


Passeggiai diverse volte davanti alla finestra per osservare se mi veniva fatto di scorgere qualcuno dentro la stanza, e non vedevo nessuno. Pure non ero sicura. Mi balenò subito in mente di tamburellare sul vetro, come se volessi parlare con qualcuno, e se qualcuno era là, sarebbe certo venuto alla finestra, e allora gli avrei detto di mettere al sicuro quegli anelli, perché avevo visto due tipi loschi che vi avevano messo l'occhio addosso. Detto fatto.


Tamburellai una volta o due e nessuno si fece vedere: battei allora forte contro il riquadro di vetro, che si ruppe con poco rumore, presi i due anelli e me ne andai; quello di brillanti valeva 3 sterline, e l'altro 9 scellini.


E ora non sapevo come trovare uno spaccio per la mia roba, specialmente le due pezze di seta. Non avevo nessuna voglia di disfarmene per una bagatella, come solitamente fanno questi poveri disgraziati di ladri, i quali dopo che hanno arrischiato la vita per un oggetto di qualche valore, sono costretti, una volta riusciti, a rivenderlo per un boccone di pane; io invece ero decisa a fare diversamente, comunque avessi dovuto arrabattarmi; tuttavia non sapevo bene che modo avrei tenuto. Alla fine mi decisi ad andare a cercare la mia antica governante e accordarmi un'altra volta con lei.


Puntualmente le avevo mandato ogni anno le 5 sterline per il mio bambino, finché ero stata in grado di farlo, ma alla fine mi ero vista costretta a smettere. Le avevo però scritto una lettera dove le spiegavo come la mia condizione si era abbassata; che avevo perso il marito e non mi trovavo più in grado di continuare, e imploravo che quel poverino non avesse troppo a patire per le sventure di sua madre.


Ora le feci una visita e la trovai che esercitava ancora un po' l'antico mestiere, ma non era più nelle floride condizioni di una volta; poiché un certo signore al quale era stata rapita la figlia - e sembra che la mia governante vi avesse avuto mano - l'aveva citata in giudizio; e per il rotto della cuffia soltanto lei aveva scansato la forca. Le spese inoltre l'avevano divorata viva, cosicché la sua casa non era più arredata che molto poveramente e lei non aveva più quel gran nome di una volta nel suo lavoro; pure, si teneva in piedi, come si dice, sulle proprie gambe, e dato che era una faccendona e le restava un capitaluccio, si era fatta usuraia e tirava avanti discretamente.


Mi accolse con tutta civiltà e nel suo solito modo accattivante mi disse che non mi avrebbe tolto per nulla il rispetto perché fossi decaduta; che aveva badato a che il mio bimbo non mancasse di cure, se anche io non potevo più pagare, e che la donna che lo teneva aveva di che vivere, sicché non avevo motivo di preoccuparmene fino a che non fossi meglio in grado di farlo effettivamente.


Le dissi che non mi restava gran che in denaro, ma mi restavano certi oggetti che potevano valere qualcosa, se lei mi sapesse dire come dovevo fare per venderli. Mi chiese che oggetti fossero. Tirai fuori la collana di palline d'oro e le dissi che era uno dei regali fattimi da mio marito; poi le mostrai i due pacchi di seta, che le dissi venivano dall'Irlanda e mi ero portati dietro a Londra, e infine l'anelluccio di brillanti. Quanto al pacchetto del vasellame e dei cucchiai, avevo io stessa trovato il modo di disfarmene; e quanto ai pannolini, si offrì di prenderli lei convinta che fossero roba mia. Mi spiegò che si era fatta usuraia e che avrebbe venduto per me quegli oggetti come fossero pegni a lei affidati; e mandò subito a cercare i suoi intermediari che li comprarono dalle sue mani senza scrupolo alcuno, e li pagarono anche bene.


Cominciai allora a pensare che quella donna indispensabile avrebbe potuto aiutarmi un po', nello stato in cui versavo, a trovare un'occupazione, poiché mi sarei data con gioia a qualunque onesto lavoro se l'avessi trovato; ma di lavoro onesto a lei non ne capitava.


Se fossi stata più giovane avrebbe forse potuto aiutarmi, ma ormai i miei pensieri si erano allontanati da quella specie di occupazione, come cosa che era del tutto fuori luogo dopo la cinquantina, qual era il caso mio, e non glielo nascosi.


Alla fine mi invitò a stabilirmi in casa sua fino a che non trovavo qualcosa: mi sarebbe costato molto poco; e accettai di gran cuore.


Ora, vivendo un po' più a mio agio, presi qualche misura per allontanare il bimbo avuto dal mio ultimo marito; e anche questo la mia governante mi agevolò, pattuendo un versamento di sole cinque sterline all'anno, se pure le trovavo. Questo mi fu di tale aiuto che per un bel po' smisi quel brutto mestiere al quale mi ero data ultimamente, e con gioia avrei accettato un lavoro, ma era una cosa ben difficile per una che non conosceva nessuno.


Trovai tuttavia finalmente lavori di trapunto per letti di dame, sottane e simili; e l'occupazione non mi dispiaceva affatto, lavoravo con impegno e in questo modo cominciavo a vivere, sennonché quel diligente demonio che aveva deciso che dovessi continuare al suo servizio, di continuo mi istigava che uscissi a passeggio, vale a dire, a vedere se nulla nell'antico genere mi venisse a tiro.


Una sera obbedii ciecamente alla sua intimazione, e feci un lungo giro per le vie, ma non mi imbattei in nessuna occasione. Non contenta ancora, la sera successiva tornai a uscire e, passando davanti a una birreria, vidi spalancata la porta di una stanzetta, quasi sulla strada, e sul tavolino un boccale d'argento, suppellettile molto in uso nelle taverne di quei tempi. Pare che ci fosse stata a bere qualche brigata, e i garzoni negligenti avessero poi dimenticato di riporlo. Entrai nel camerino decisamente e, posando il boccale d'argento sull'angolo della panca, mi ci sedetti davanti, e bussai con il piede; accorse un garzone e gli comandai di portarmi una foglietta di birra calda, perché faceva molto freddo; il garzone partì, e lo sentii scendere in cantina a spillare la birra. Durante la sua assenza, ne venne un altro, gridando: «Avete chiamato?». Gli risposi con un'aria malinconica dicendo: «No, il garzone è già andato a prendermi una foglietta di birra».


Me ne stavo così seduta, quando sentii la donna del banco dire: «Se ne sono andati tutti dal cinque?» ch'era il camerino dove mi trovavo, e il garzone rispose: «Sì». «Chi ha ritirato il boccale?» chiese la donna. «Io» rispose un altro dei garzoni; «eccolo là» additando evidentemente un altro boccale, che aveva riportato per sbaglio da un altro camerino; o può anche darsi che il mariolo non ricordasse più di non averlo preso, come certamente non aveva.


Ascoltai tutto questo con molta soddisfazione, poiché mi accorsi chiaramente che non si erano accorti della mancanza, pur credendo che il boccale fosse stato ritirato; e allora bevetti la mia birra, chiesi di pagare e andandomene dissi: «Attento all'argenteria, ragazzo» intendendo il gotto d'argento da una foglietta che mi aveva portato per berci. Il garzone rispose: «Sissignora, arrivederci» e me ne uscii.


Tornai a casa dalla mia governante, e mi sembrò questa volta l'occasione di metterla alla prova, affinché potesse prestarmi soccorso se cadessi nella necessità di essere scoperta. Da un po' ero in casa e, quando trovai l'opportunità di parlarle, le dissi che avevo un segreto della massima importanza da confidarle, se lei mi rispettava abbastanza per conservarmi ii segreto. Mi rispose che aveva conservato fedelmente uno dei miei segreti: perché dovevo dubitare che non me ne avrebbe conservato un altro? Le dissi che mi era capitato il più strano caso del mondo, proprio impensatamente, e così le raccontai per filo e per segno la storia del boccale: «E l'hai portato via con te, mia cara?» mi chiese. «Proprio così» le risposi, mostrandoglielo.


«Ma ora che debbo fare?» continuai; «non debbo riportarlo?» «Riportarlo?» esclamò lei. «Ma certamente, se vuoi finire a Newgate.» «Come?» le dissi, «non saranno tanto vili da prendermi, visto che glielo riporto.» «Tu non conosci quella razza di gente, figliola» mi disse; «non soltanto ti porteranno a Newgate, ma ti faranno anche impiccare, senza tenere il minimo conto della tua onestà nel restituirlo; o magari presenteranno una lista di tutti gli altri boccali che hanno perduto, per farteli pagare.» «E allora, che cosa devo fare?» chiesi. «Ecco» mi rispose, «visto che l'hai fatta da furba nel portartelo via, devi continuare a tenerlo: tornare indietro non si può. E d'altra parte, figliola» mi disse, «non ne hai bisogno tu più di loro? Vorrei augurarti di mettere le mani su un affare simile tutte le settimane.» Il colloquio mi diede un nuovo concetto della governante e mi accorsi che, da quando si era fatta usuraia, le bazzicava intorno un tipo di gente del tutto diversa dalle oneste persone che incontravo in passato in casa sua.


Ero con lei soltanto da poco tempo, che di questo mi accorsi anche più chiaramente che non in passato, poiché tutti i momenti vedevo arrivare else di spade, cucchiai, forchette, boccali e simili oggetti, non per impegnarli, ma senz'altro da vendere; e la mia governante li comperava tutti senza fare domande, e a buonissimi patti per sé, secondo quanto traspariva dalle sue parole.


Mi accorsi pure che nell'esercizio del suo mestiere essa faceva fondere tutta l'argenteria acquistata, al fine che nessuno potesse reclamarla; e una mattina venne a dirmi che stava per iniziare la fusione e, se volevo, avrebbe disposto anche del mio boccale, così che nessuno potesse riconoscerlo. Le risposi che ero contentissima; e allora me lo pesò e me ne ripagò intero il valore come argento, cosa che non faceva per il resto dei suoi avventori.


Qualche tempo dopo, una volta che stavo lavorando con molta malinconia, cominciò a chiedermi che mai avessi. Le risposi che avevo il cuore gonfio; il lavoro scarseggiava e mi mancavano i mezzi, non sapevo a che partito appigliarmi. Quella si mise a ridere e mi disse che dovevo uscire un'altra volta a tentare la fortuna: poteva darsi che mi imbattessi in un altro pezzo d'argenteria. «Ah, mamma» le risposi, «è un mestiere questo che non ci ho nessuna capacità, e se mi beccano, per me è la fine.» Mi disse: «Io posso trovarti una maestra che ti renderà tanto abile quanto lei». La proposta mi fece tremare, perché fin da allora non avevo avuto né conoscenti né complici in questo ceto. Ma la governante l'ebbe vinta su tutta la mia ritrosia e i miei timori; e in pochissimo tempo, con l'aiuto di quella complice, diventai una ladra altrettanto temeraria e abile quant'era mai stata Moll la Tagliaborse, per quanto, se la sua fama non mente, bella nemmeno la metà di lei.


La compagna che lei mi trovò, esercitava tre rami dell'arte, e cioè:

il furto nelle botteghe, il furto dei cassetti e dei portafogli, e la sottrazione degli orologi d'oro dal fianco delle dame; lavoro quest'ultimo che eseguiva con tanta destrezza che mai nessuna donna giunse alla perfezione dell'arte come lei. Mi piacevano molto la prima e l'ultima di queste attività, e per un po' l'assistetti nell'esecuzione, all'identico modo che la sostituta assiste una levatrice, senza compensi.


Infine mise anche me al lavoro. Mi aveva insegnato l'arte e parecchie volte le avevo già spiccato un orologio dal fianco con molta maestria.


Finalmente mi indicò la vittima, che fu una giovane signora incinta, fornita di un bellissimo orologio. Bisognava perpetrare il furto mentre quella usciva di chiesa. La mia complice si mise al fianco della dama e finse, proprio mentre quella si avvicinava agli scalini, di cadere; e cadde contro quell'altra con tanta violenza che le fece uno spavento terribile, e tutte e due cacciarono uno strillo. E proprio nell'istante che l'altra urtava la dama, io mi impossessavo dell'orologio e, tenendolo nel modo giusto, lo strattone stesso della dama liberò l'uncino, e quella nemmeno se ne accorse. Mi allontanai subito e lasciai la mia maestra rimettersi a poco a poco dallo spavento e così pure la dama; che subito si accorse della scomparsa dell'orologio. «Ahi» disse la mia collega, «allora erano quei furfanti che mi hanno buttata a terra, state certa; mi meraviglio che la signora non si sia accorta del furto prima: avremmo potuto agguantarli.» Seppe colorare così bene la cosa che nessuno pensò a sospettarla, e io giunsi a casa una buon'ora prima di lei. Fu questa la mia prima impresa in compagnia. L'orologio era davvero molto fino, e accompagnato da molti pendagli, e la governante ce lo pagò 20 sterline, di cui ebbi la metà. Passai così ladra intera, incallita a un grado tale d'insensibilità, che vinceva ogni rimorso di coscienza o di modestia, e a un punto che non avrei mai creduto di poter raggiungere.


In questo modo il demonio che aveva cominciato servendosi di un'irresistibile povertà, a suggerirmi queste male azioni, mi portò a un punto di là dalla media, proprio quando le mie condizioni non erano più tanto terribili; poiché ora avevo trovato un filone di lavoro e, dato che a maneggiare l'ago non ero incapace, sembrava assai probabile che mi sarei potuta guadagnare il pane abbastanza onestamente.


Devo pur dire che se una simile speranza di lavoro mi si fosse presentata al bel principio, quando cominciavo a sentire l'approccio delle tristi condizioni: se una simile speranza, dico, di guadagnarmi il pane lavorando, mi si fosse presentata allora, mai sarei caduta in quell'infame mestiere o fra una banda tanto infame come quella con la quale mi ero imbarcata; ma l'esercizio mi ci aveva incallita, e io mi feci temeraria all'estremo; e ciò tanto più perché da molto tempo ormai continuavo, e mai mi avevano presa; dato che, a farla breve, con la mia nuova socia in nequizie continuammo tanto a lungo insieme, senza che mai fossimo scoperte, che non soltanto imbaldanzimmo, ma arricchimmo, e ci fu una volta che avevamo in mano ventuno orologi d'oro.


Ricordo un giorno che, sentendomi un po' più seriamente disposta che al solito, e vedendo che mi stava davanti un così discreto capitale, poiché avevo di mia spettanza circa 200 sterline in denaro, mi entrò un energico pensiero - non dubito che venisse da qualche spirito buono, se pure ce n'è - che, come all'inizio la povertà mi aveva istigata, e le mie angustie sospinta a quegli orribili ripieghi, così, visto ora che quelle angustie erano alleviate, e inoltre che con il lavoro potevo guadagnare qualcosa allo scopo di mantenermi e avevo una così solida banca che mi appoggiava, perché non potevo dunque smettere, finché mi andava bene? che certo non potevo aspettarmi di passarla sempre liscia; e, una volta sola che fossi sorpresa, per me sarebbe stata la fine.


Fu questo senza dubbio l'istante felice che, se avessi dato ascolto a quel celeste suggerimento, da qualsiasi parte mi venisse, mi sarebbe ancora rimasta una speranza di vita migliore. Ma il mio destino era segnato diversamente: l'attento demonio che mi aveva indotto al male aveva su di me una presa troppo salda per lasciarmi andare; invece, come la povertà mi aveva indotta a quel punto, così l'avarizia mi ci mantenne, fin che non fu più possibile uscirne. Quanto agli argomenti che la ragione mi dettava per convincermi a smettere, si faceva avanti l'avarizia dicendo: "Continua; hai avuto fortuna; continua fin che non avrai quattrocento o cinquecento sterline: allora devi smettere, e ti sarà facile allora vivere senza più lavorare del tutto".


E così io, che ero entrata una volta negli artigli del demonio, vi rimanevo trattenuta solidamente come da un incantesimo, e non avevo nessun potere di uscire dal cerchio, fin che non fui subissata in labirinti di disgrazie troppo grandi per uscirne mai più.


Tuttavia, queste riflessioni non passarono in me senza lasciare traccia e fecero sì che mi comportassi con una maggiore cautela che per il passato, più di quanto non usassero per sé le mie stesse iniziatrici. La mia collega, come la chiamavo (avrebbe dovuto chiamarsi la mia maestra), fu la prima a capitare male con un'altra delle sue allieve: poiché, un giorno che si trovavano in traccia di bottino, fecero un tentativo nella bottega di un mercante di tele di Cheapside, ma vennero beccate da un lavorante dagli occhi di lince, e arrestate con due pezze di cambraia addosso.


Questo fu sufficiente per spedirle tutte e due a Newgate, dove ebbero la disgrazia che certi dei loro precedenti misfatti vennero a galla.


Formate contro di esse due altre accuse, le disgraziate, potute convincere anche di queste, vennero condannate a morte. Tutte e due invocarono lo stato di gravidanza e tutte e due vennero riconosciute incinte, quantunque la mia maestra fosse incinta quanto me.


Io andavo molto di frequente a visitarle e condolermi con loro, aspettandomi che la prossima volta sarebbe toccata a me; ma quella dimora mi ispirava tanto orrore, se riflettevo che era il luogo della mia infelice nascita e delle sventure di mia madre, che non potevo più reggerci, sicché smisi di andarle a trovare.


E, ahimè! se soltanto avessi saputo ascoltare l'ammonimento della loro sciagura, potevo ancora essere felice, poiché ancora ero libera e nessuna accusa mi era stata fatta; ma questo era impossibile, la mia misura non era ancora colma.


La mia collega, che aveva il marchio per delitti passati, venne giustiziata; la delinquente più giovane si salvò, avendo ottenuto un rinvio, ma languì di fame in carcere per molto e molto tempo, finché finalmente non inclusero il suo nome in quello che chiamano un condono generale, e lei poté uscire.


Questo tremendo esempio della mia collega mi spaventò di cuore, e per un bel pezzo smisi le scorrerie; ma una notte, nelle vicinanze della casa della governante, si sentì il grido: «Al fuoco!». La governante guardò in istrada, poiché saltammo tutte in piedi, e subito esclamò che la casa della tal dama aveva il tetto tutto in fiamme, e così era veramente. Allora mi diede una spinta. «Senti, figliola» disse, «è un'occasione rara, visto che l'incendio è così vicino che tu ci puoi arrivare prima che la calca blocchi la via.» E senz'altro mi diede l'imbeccata. «Va', figliola» disse, «a questa casa e precipitati dentro e racconta alla signora, o a chiunque ti si pari davanti, che tu vieni in loro soccorso e che ti manda la signora tale» una sua conoscente, cioè, più a monte nella stessa via.


Uscii fuori e, arrivata a quella casa, li trovai tutti sottosopra, come potete immaginare. Mi precipitai e imbattendomi in una delle cameriere le dissi: «Ahimè, ragazza! com'è stata questa tremenda disgrazia? Dov'è la tua padrona? E' salva? E dove sono i bimbi? Vengo da parte di Madama... per darvi aiuto». La cameriera scappò via.


«Signora, signora» diceva strillando con quanto fiato aveva in corpo, «c'è una signora da parte di Madama... che viene ad aiutarci.» Quella povera donna mezza fuori di senno, con un fagotto sotto il braccio e due bimbi, mi venne incontro. «Signora» le dissi, «lasciate che porti questi poverini da Madama...; vi prega di mandarglieli: penserà lei a questi due innocenti» e in così dire gliene tolgo uno di mano, e lei mi depone l'altro tra le braccia. «Sì, sì, per amore del Cielo» diceva, «portateli via. Ah! ringraziatela per la sua bontà.» «Non avete altro da mettere in salvo, signora?» le chiesi; «Madama... ne avrà cura.» «Oh Dio!» mi disse, «che il Cielo la benedica; prendete questo involto di argenteria e portatele anche questo. Oh, quant'è buona! Ahimè, quest'è la fine, la rovina!» E scappò via fuori di sé, e le cameriere dietro, e io me ne partii coi due bambini e con il fagotto.


Ero appena uscita in istrada che vidi un'altra donna avvicinarsi. «Ah, signora» mi disse, in tono pietoso, «questo bambino vi cadrà. Via, via, che brutta giornata: lasciate che vi aiuti» e dà tosto di piglio al mio fagotto per portarselo lei. «No, no» dissi, «se volete aiutarmi, prendete il bambino per mano e conducetelo voi fino in fondo alla strada; verrò con voi e vi compenserò del disturbo.» Quella non poté più tirarsi indietro, dopo quanto le avevo detto; ma anche lei, insomma, era venuta per la mia stessa bisogna e non mirava ad altro che al fagotto; venne tuttavia con me fino alla porta, non potendo esimersi. Una volta giunte, le bisbigliai: «Fila, ragazza, capisco cosa cerchi; ce n'è in abbondanza anche per te».


Mi capì al volo e se ne andò. Io bussai con grande baccano alla porta, e dato che la casa era già tutta in piedi per il fragore dell'incendio, mi venne senz'altro aperto e dissi: «E' sveglia la signora? Ditele, vi prego, che Madama... la supplica che le faccia il favore di prendere i due bambini; povera signora, sarà la rovina, hanno la casa tutta in fiamme». Accolsero i bambini con molta umanità, commiserarono la sciagura della famiglia, e io me ne tornai con il mio fagotto. Una delle cameriere mi chiese se non dovevo lasciare anche il fagotto. Risposi: «No, tesoro, questo va altrove, non è roba loro».


Ero ormai lontana dalla confusione, e proseguii portando il fagotto dell'argenteria, di un volume considerevole, direttamente a casa, dalla vecchia governante. Mi disse che non l'avrebbe aperto subito:

ritornassi laggiù e cercassi altro.


Mi suggerì un consimile approccio presso la dama della casa contigua a quella in fiamme, e io feci il tentativo di arrivarci, ma l'allarme dell'incendio era ormai tanto esteso e tante trombe gettavano acqua e la via era talmente ingombra di calca, che non riuscii, per quanto facessi, ad avvicinarmi; e allora tornai dalla governante e, portato il fagotto in camera mia, mi misi a esaminarlo. E' con orrore che riferisco quale tesoro vi trovai; basti dire che, oltre la massima parte dell'argenteria di quella famiglia, già considerevole, ci trovai una catena d'oro, di foggia antica, di cui il castone era rotto, sicché immagino che da qualche anno non fosse più portata, ma ciò nonostante l'oro era sempre oro; e poi una scatoletta di anelli da lutto, la fede nuziale della dama, qualche frammento di antiche gioie d'oro, un orologio d'oro, una borsa che conteneva un valore di circa 24 sterline in vecchie monete d'oro, e svariati altri oggetti preziosi.


Era il più grande e il peggiore dei bottini che mai mi fosse toccato; perché davvero, se anche negli altri casi, come ho già detto, fossi ormai incallita di là da ogni capacità di riflessione, pure mi rimescolò fino in fondo all'anima, quando gettai lo sguardo su questo tesoro, il pensiero di quella povera sconsolata signora che aveva già perduto tanto del resto e che certo si riteneva sicura di aver salvato almeno l'argenteria e le cose più preziose. Pensavo al suo smarrimento quando avrebbe scoperto che l'avevano ingannata, e che la persona che si era occupata dei bambini e della roba, era venuta, secondo l'affermazione, da parte della dama della via contigua, ma però i bambini erano stati affidati a quest'ultima senza che lei ne sapesse niente.


Ammetto, ripeto, che l'inumanità di quest'azione mi commosse molto e mi ammollì indicibilmente, tanto che per quel riguardo mi salirono le lacrime agli occhi; ma, con tutto che mi accorgessi di fare una cosa crudele e inumana, non mi sentii il minimo impulso a restituire niente. I buoni pensieri si dileguarono, e subito dimenticai anche le circostanze che li avevano suggeriti.


Né questo fu tutto; perché per quanto con l'ultima impresa fossi diventata considerevolmente più ricca di prima, pure la mia decisione precedente, di abbandonare quell'orrendo mestiere non appena avessi guadagnato un po' di più, non mi tornò; sentii anzi il bisogno di guadagnare dell'altro; e l'avarizia ebbe questa riuscita, che non pensai più di giungere un giorno a un tempestivo cambiamento di vita, benché, fin che non ci fossi arrivata, non potessi aspettarmi né sicurezza né tranquillo possesso di quello che avevo guadagnato.


Dell'altro e dell'altro ancora: questo era diventato il mio motto.


Alla fine, cedendo alle sollecitazioni del mio delitto, mi liberai di ogni rimorso e tutte le mie riflessioni su questo punto si ridussero solo a questo: che poteva forse succedermi di mettere le mani su di un bottino che finisse ogni cosa; ma sebbene io senza dubbio avessi trovato questo bottino straordinario, pure ogni buon colpo ne prometteva un altro, e mi riusciva di un tale incoraggiamento a continuare il mestiere, che proprio non sentivo nessuna inclinazione a smettere.


In una simile circostanza, incallita dal buon successo, e decisa a continuare, caddi nella trappola nella quale era deciso che dovessi trovare l'estremo frutto di quel genere di vita. Ma anche di questo non era ancora giunta l'ora, poiché mi toccarono nel genere molte altre avventure fortunate.


La mia governante nutrì per un certo tempo una vera ansia sulla sorte disgraziata di quella mia collega che venne impiccata; poiché costei ne sapeva di lei quanto bastava per farle fare la stessa fine e questo disturbava parecchio i sonni della governante: la gettava anzi in un grande spavento.


Bisogna però dire che, quando morì senza aver rivelato quanto sapeva, la mia governante si sentì al sicuro a questo proposito, e forse fu anche felice che l'avessero impiccata, poiché dipendeva solo dalla vittima di guadagnarsi un condono a spese degli amici; tuttavia la perdita di lei e la coscienza della sua generosità nel tralasciare di fare mercato di quanto sapeva, indussero la governante a piangerla con grande sincerità. Io cercai di confortarla quanto meglio seppi e lei mi contraccambiò indurandomi a meritare anche più compiutamente la stessa sorte.


Come ho già detto, tuttavia, il fatto mi rese più guardinga, e in particolare diventai restia ai furti nelle botteghe specialmente di setaioli e mercanti di tele, che sono un tipo di gente che tengono gli occhi molto aperti. Mi arrischiai una volta o due fra i rivenditori di trine e i merciai, e in particolare in una bottega che due donne giovani avevano aperto da poco, senza troppa esperienza del loro commercio. Ne portai via una pezza di merletto del valore di sei o sette sterline e una cartina di refe. Ma non fu che una volta sola: un simile scherzo non mi poteva riuscire la seconda.


Consideravamo sempre sicuro il colpo, quando sentivamo di una nuova bottega, e specialmente quando i proprietari fossero gente non esperta della vendita. Simili negozianti devono convincersi che una volta o due agli inizi gliela vorranno fare e bisogna che siano davvero persone scaltre per riuscire a impedirlo.


Dopo di questi, mi riuscirono ancora due o tre colpi ma erano bazzecole di poco conto. Siccome per un pezzo non si presentarono occasioni notevoli, cominciai a pensare che sul serio dovevo ritirarmi dagli affari; ma la mia governante, che non aveva nessuna voglia di perdermi e si riprometteva da me grandi cose, mi fece fare un giorno la conoscenza di una ragazza e di un tale che passava per il marito, benché, come si vide poi, quella non fosse sua moglie, ma si fossero semplicemente associati nel lavoro al quale attendevano, e anche in qualcos'altro. A farla breve, quei due rubavano insieme, dormivano insieme, vennero presi insieme e alla fine salirono alla forca insieme.


Entrai in una specie di lega con costoro per i buoni uffici della governante, e mi portarono con sé in tre o quattro spedizioni, dove più che altro assistetti a certe inette e grossolane ruberie, nelle quali nient'altro che un enorme fondo d'impudenza da parte loro e una cieca trascuraggine da parte dei derubati poterono dare loro il successo. Per cui mi decisi a stare in futuro molto attenta al modo come mi arrischiassi in compagnia di quei due; e in verità, per due o tre disgraziati progetti che mi vollero proporre, rifiutai l'offerta, e li convinsi essi stessi a non mettercisi. Una volta in particolare mi proposero di derubare un orologiaio di tre orologi d'oro che avevano adocchiato durante il giorno notandone il ripostiglio. L'uomo aveva un tale assortimento di chiavi di ogni tipo che non dubitava neppure di aprire il ripostiglio dove l'orologiaio li aveva chiusi; fissammo così una specie di piano; ma quando ripensai meglio alla faccenda, mi accorsi che si proponevano di scassinare la casa, e non volendo io sapere di mettermi in una simile impresa, vi andarono senza di me. Riuscirono a introdursi nella casa forzandola, e scassinarono il ripostiglio dov'erano chiusi gli orologi, ma non ve ne trovarono che uno di quelli d'oro e un altro d'argento, dei quali si impadronirono, tornando fuori con la massima facilità. Ma qui la gente di casa allarmata si mise a gridare: «Al ladro!» e dei due, l'uomo venne inseguito e catturato; la ragazza, che aveva potuto battersela, venne disgraziatamente fermata a qualche distanza e aveva indosso gli orologi. Era così la seconda volta che scampavo, perché tutti e due vennero presi e impiccati sebbene tanto giovani, vista la loro qualità di delinquenti vecchi; e così, come dicevo prima, insieme rubavano e insieme salirono la forca. Fu questa la fine della mia nuova associazione.


Presi ora a comportarmi con la massima cautela, visto che l'avevo scampata per il rotto della cuffia e mi stava davanti agli occhi un simile esempio; ma avevo una nuova tentatrice che ogni giorno mi istigava; intendo parlare della governante. Finalmente si presentò un colpo che, dato che era dovuto alla sua preparazione, lei se ne aspettava una bella parte di bottino. C'era una grossa partita di merletto di Fiandra tenuta in una casa privata, dove appunto lei ne era stata informata, e dato che il merletto di Fiandra era merce di contrabbando, era una gran preda per quell'ufficiale di dogana che avesse potuto metterci le mani. Ebbi un completo ragguaglio dalla governante, a proposito tanto della quantità quanto del posto preciso dove stava nascosta; cosicché andai da un ufficiale di dogana e gli raccontai che avevo una denuncia da fargli, se mi assicurava che mi sarebbe toccata la debita parte del compenso. La mia offerta era tanto ragionevole, che nulla poteva dirsi più giusto, sicché il doganiere accettò e, preso con sé un sergente, mosse con me all'assalto della casa. Siccome gli avevo detto che ero in grado di trovare senz'altro il nascondiglio, egli mi lasciò fare; e dato che l'apertura era molto buia, mi ci ficcai dentro con una candela in mano, e in questo modo gli tendevo le pezze, badando, mentre gliene consegnavo, di nascondermene addosso quante più potevo convenientemente. In tutto c'era un valore di circa 300 sterline di merletti, e me ne conservai un valore di 50 per me sola. I proprietari del merletto non erano quelli di casa, ma bensì un mercante che l'aveva loro affidato, e così quelli non provarono lo sbigottimento che mi ero aspettato.


Lasciai il doganiere in preda alla gioia più viva e arcicontento del bottino conquistato, dandogli appuntamento in una casa indicata da lui stesso, dove andai non appena mi fui disfatta della mercanzia che avevo indosso, cosa che egli non sospettò neppure. Quando giunsi, incominciò a discutere, convinto che io non sapessi di avere un diritto sul bottino, e molto volentieri mi avrebbe spacciata con 20 sterline; ma io gli feci intendere che non ero tanto ignorante come immaginava; ma insieme ero pure contenta che mi proponesse una somma sicura. Chiesi 100 sterline, e quello salì a 30; io discesi a 80; lui salì a 40: a farla breve, me ne offrì 50, e io accettai, soltanto chiedendogli una pezza di merletto, che stimai dovesse valere 8 o 9 sterline, visto che intendevo servirmene per me ed egli me l'accordò.


Così intascai, quella stessa notte, 50 sterline in denaro e posi fine al negozio; e l'ufficiale di dogana non seppe mai chi fossi né dove chiedere di me, in modo che, se anche scopriva che mi ero appropriata di parte della mercanzia, non avrebbe saputo come venirmi a incolpare.


Divisi molto scrupolosamente il bottino con la governante, e da questa volta passai, presso di lei, per una che sapeva comportarsi con grande abilità nei casi più delicati. Avevo trovato che quest'ultimo lavoro era il migliore e il più facile che mi si offrisse, e mi diedi di proposito a investigare sulle merci di contrabbando. Ne compravo in parte, poi di solito tradivo i proprietari, ma nessuna di queste denunce ammontò a niente di considerevole, com'era quella prima raccontata. Mi guardavo però dal correre i grandi rischi come vedevo fare agli altri, che ogni giorno finivano male.


La successiva impresa di qualche importanza fu il tentativo contro l'orologio d'oro di una dama. Ebbe luogo in mezzo alla folla di una conventicola, dove io corsi il grandissimo rischio di essere beccata.


Avevo già in pugno l'orologio, ma, dando alla dama un forte urto come se qualcuno mi ci avesse sospinta e in quell'istante imprimendo all'orologio uno strattone, mi accorsi che non veniva via, cosicché subito lasciai la presa e mi misi a strillare, come se mi avessero sgozzata, che qualcuno mi aveva pestato il piede e che certo là c'erano borsaioli, perché qualcuno aveva dato uno strattone al mio orologio. Bisogna osservare che in simili avventure noi ci si abbigliava con ogni cura, e io indossavo un buon abito e avevo al fianco un orologio d'oro che era da signora come le altre.


Appena detto questo, sento che pure l'altra dama strilla: «Al ladro!» giacché, disse, qualcuno aveva tentato di strappare anche a lei l'orologio.


Quando le avevo toccato l'orologio, io le stavo addosso, ma quando gridai, mi ero fermata, si può dire, di botto, e la calca sospingendola un po', anche la dama fece baccano, ma questo avvenne a qualche distanza da me, tanto che non si insospettì per niente; e anzi quand'ella strillò: "Al ladro!" qualcun altro gridò: «Sicuro, e qui ce n'era un altro: anche con questa dama hanno tentato».


Proprio in quell'istante, un po' più oltre fra la calca, e fu una gran ventura, tornarono a gridare: «Al ladro!» e stavolta davvero.

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