Jack London



IL VAGABONDO DELLE STELLE

 

 

 

 

1. SONO DARRELL STANDING


Molte volte, nella mia vita, ho provato la straordinaria sensazione che il mio "io" si sdoppiasse, che altri esseri vivessero o fossero vissuti in lui, in altre epoche o in altri luoghi. Non stupirti, mio futuro lettore; ma indaga nella tua stessa coscienza. Ritorna indietro con il tuo pensiero, ai giorni in cui il tuo corpo e il tuo spirito non erano ancora cristallizzati; in cui, materia plasmabile, anima fluttuante come le onde in movimento, avvertivi appena, nel ribollire del tuo essere, il formarsi della tua identità.


Allora, leggendo queste righe, forse ricorderai delle cose dimenticate, delle visioni incerte e nebulose, che passarono davanti ai tuoi occhi di bambino e che, oggi, non ti sembrano che sogni irreali, un parto della fantasia, e che ti fanno sorridere.


Eppure, in queste lontane visioni del tuo essere, non tutto era sogno. Quando, da bambino, ti sembrava, durante il sonno, di precipitare nel vuoto da altezze infinite; quando credevi di volare, oppure osservavi con orrore, intorno ai tuoi piedi immersi nel fango, arrampicarsi migliaia di ragni odiosi e ripugnanti; quando davanti ai tuoi occhi si libravano forme sconosciute, degli incubi, e vedevi sorgere e tramontare degli strani soli di un altro mondo; tutto questo, forse, non era una proiezione della tua fantasia febbrile e innocente.


Sai tu, da dove provenissero queste conturbanti immagini, e se non avessero origine in altre vite anteriori, da te vissute in altri mondi? Forse, quando avrai ultimato queste pagine, ti sarai fatta un'idea più precisa su tutti questi sconcertanti problemi che, senza dubbio, ti hanno lasciato finora perplesso, irritato.


In verità, la cortina invisibile della nostra nuova prigione ci avvolge fin dalla nascita, e subito dimentichiamo il passato. E quando, a volte, esso si ripresenta mentre siamo ancora in braccio alla madre o camminiamo carponi sul pavimento domestico, questo ricordo ancestrale ci procura soltanto un vago senso di paura...


Per quanto mi riguarda, ricordo perfettamente che nei giorni lontani in cui non ero che un piccolo essere balbettante che emetteva dei vagiti per esprimere la sua fame o il desiderio di dormire, mi ricordo, dicevo, che avevo la netta sensazione di esistenze anteriori. Io, che non avevo mai detto la parola "Re", e che non l'avevo mai udita pronunciare, ricordavo d'essere stato, in un tempo lontano, il figlio di un Re. E così pure di essere stato uno schiavo e un figlio di schiavo, e di aver sopportato un collare di ferro intorno al collo.


Raggiunti i quattro o cinque anni, mi sembrò che migliaia di esseri diversi lottassero dentro di me, che tutte quelle vite preesistenti cercassero d'inserirsi nella mia vita presente, di cui tentavano di modellare lo stampo nei sensi più diversi. E nella mia anima acerba ne risultava un disordine indefinibile.


Mi sembra quasi di vederti, amico lettore, mentre alzi le spalle e giudichi assurde le mie parole. Cercherò di trascinarti con me, attraverso il tempo e lo spazio; ma non dimenticare che per tanti anni, attraverso notti piene d'angoscia, ho meditato nel buio, a faccia a faccia con i molteplici "io" che mi tormentavano. Ho ripercorso gli inferni di tutte le mie esistenze, e te ne faccio ora il racconto, in questo libro che leggerai per passare il tempo, nella quiete domestica.


Ma torniamo al discorso iniziato. All'età di quattro o cinque anni, avvertivo dunque quel passato indistruttibile incidere le profondità del mio essere, per imprimergli la forma sconosciuta che doveva assumere nel suo eterno divenire. Era quel passato che provocava le mie collere infantili, i miei affetti e le mie gioie, che mi faceva ridere o piangere. Il mio temperamento era nervoso, eccitabile, e con la mia voce si esprimevano mille eredità scomparse, diventate ormai delle ombre. Nei miei furori infantili, gridavano mille voci ataviche, contemporanee di Adamo e di Eva, mille grida selvagge di animali preistorici, ancora più antiche. E quando vedevo rosso, era il sangue che riaffluiva in me, il sangue di quelle epoche...


Ecco svelato il grande segreto. La collera rossa! Essa ha forgiato la mia perdita, in questa vita che attualmente è la mia. Per causa sua, fra poche settimane, sarò strappato dalla cella in cui scrivo, per essere portato sopra un palco, sotto un braccio di legno al quale è fissata una solida corda. E mi impiccheranno.


La collera rossa! E' stata all'origine di tutte le mie disavventure, in tutte le mie vite! E' la mia eredità paurosa che risale ai tempi in cui delle ombre incerte, fluide e viscide, preparavano l'avvento del mondo.


Ma ormai è ora che mi presenti. No, non sono pazzo. E' necessario che tu sia ben persuaso di questo, per credere ciò che ti racconterò.


Sono Darrell Standing. Sentendo questo nome, alcuni di voi che mi hanno conosciuto si ricorderanno di me. Agli altri, che sono poi la grande maggioranza, permettetemi di presentarmi.


Otto anni fa, insegnavo agronomìa all'Università di Berkeley, in California. In quel periodo, il torpore pesante di quella piccola città fu scosso da un avvenimento improvviso: l'uccisione del professor Haskell, in un laboratorio dell'Università. Darrell Standing era l'assassino.


Io sono Darrell Standing. Fui arrestato, con le mani ancora rosse di sangue. Non intendo discutere su chi avesse torto o ragione in quella discussione fra me e il professor Haskell. La cosa non ha più importanza. Il fatto è che in un impeto di collera, di quella collera rossa che è stata la mia dannazione attraverso tutte le epoche, io ho ucciso il mio collega. I verbali del processo dimostrano che sono stato io a compiere quest'azione; e non lo nego.


Tuttavia, non è per questo delitto che dovrò morire sulla forca.


No. Venni condannato all'ergastolo. A quell'epoca avevo trentasei anni. Oggi ne ho quarantaquattro.


Questi otto anni li ho trascorsi nelle prigioni della California, a San Quintino. Cinque, li ho passati nel buio di una cella, di segregazione cellulare, come vuole la legge. Gli uomini che la conoscono la chiamano "la morte vivente".


Nel corso di questi cinque anni, sono riuscito tuttavia ad evadere dalla mia tomba, in un incredibile volo che ben pochi uomini liberi hanno conosciuto. Rido di quelli che han creduto di seppellirmi in quella cella e che hanno invece aperto i secoli davanti a me. In quei cinque anni, ho percorso tutte le mie esistenze anteriori. Ve lo racconterò. Ho tante cose da dirvi, che non so come cominciare...


Sono nato nel Minnesota. Mia madre era figlia di un immigrato svedese: il suo nome era Hilda Tonesson. Mio padre, Chauncey Standing, apparteneva al vecchio ceppo americano. Suo nonno, Alfred Standing, era un "servo vincolato per contratto", in altre parole uno schiavo trasportato dall'Inghilterra alle piantagioni della Virginia, nel tempo lontano in cui Washington faceva l'agrimensore ed era impegnato a misurare le immense solitudini della Pensilvania.


Un figlio di Alfred Standing prese parte alla guerra d'Indipendenza; un suo nipote combatté in quella del 1812. Gli Standing fecero tutte le guerre.


Io, ultimo della famiglia, che morirò senza figli, mi sono battuto nelle Filippine, contro la Spagna; per farlo diedi le dimissioni, quando ero già nel pieno della carriera, da professore all'Università del Nebraska. A quel tempo ero sul punto di esser nominato Decano alla Facoltà d'Agricoltura; proprio io, l'anima vagabonda, l'avventuriero marchiato dal segno del delitto, il Caino errabondo dei secoli, il testimone dei tempi più lontani, il sognante poeta delle vecchie lune, delle ere dimenticate.


E ora sono qui, in questa cella, nel reparto degli assassini, nella prigione di Folssom! E aspetto il giorno e l'ora in cui i servitori della giustizia mi caleranno nel buio, in quel buio di cui essi hanno tanta paura; in quella notte che li spinge, sgomenti, verso gli altari dei loro Dei dal volto umano, costruiti dal loro terrore e dalla loro viltà!


Non sarò mai il Decano di nessuna Facoltà d'Agricoltura. Eppure conoscevo il mio mestiere alla perfezione. L'agricoltura era la mia passione e la mia forza.


Su questo argomento, che è stato sempre presente nel mio cuore, ho messo insieme degli appunti in un quaderno, con delle tabelle comparative. Su queste pagine, prima di andare a dormire, si sono chinati ogni sera centomila fittavoli, con la pipa tra le labbra.


E se ne sono trovati contenti...


Mi accorgo che devo chiudere qui il primo capitolo del mio racconto. Sono ormai le nove di sera e nel quartiere degli Assassini è l'ora del coprifuoco. In questo stesso istante, sento avvicinarsi il passo del mio guardiano, che viene certo a rimproverarmi perché la mia lampada ad olio arde ancora. Come se un semplice vivente avesse il diritto di rivolgere dei rimproveri a chi è in procinto di oltrepassare la soglia della morte!




2. LA DINAMITE SEPOLTA


Sono Darrell Standing. Fra non molto mi trascineranno via di qui, per impiccarmi. Intanto, ne approfitto per dire ciò che ho sul cuore; e riempio queste pagine come testamento.


A San Quintino sono diventato quel che si dice un "incorreggibile". Nel gergo particolare delle prigioni, un incorregibile è un essere temuto da tutti. Vi spiegherò ora perché mi hanno classificato in questa categoria.


Io odio lo spreco del movimento, l'inutile perdita del lavoro. E in questa prigione, come del resto in tutte le prigioni, simili princìpi sono una legge.


Ero stato aggregato al laboratorio di tessitura della juta. Lo sperpero dei movimenti vi regnava sovrano. Questo delitto a discapito di un lavoro ben ordinato, mi esasperava. Naturalmente, constatarlo e combatterlo rientrava pienamente nel mio carattere.


Prima che inventassero la macchina a vapore e i mestieri da essa derivati, tremila anni fa, ero già rinchiuso in una galera dell'antica Babilonia. E vi assicuro che in quei giorni lontani, con i nostri sistemi manuali, ottenevamo un rendimento superiore a quello che produce l'apparecchiatura a vapore installata nella prigione di San Quintino.


Indignato di fronte a questo sperpero di energie, mi ribellai.


Tentai di esporre ai sorveglianti una ventina di sistemi che avrebbero assicurato un maggior rendimento. Per tutta risposta, venni segnalato come indisciplinato al direttore della prigione.


Mi buttarono in una cella, dove provai che cosa significava la mancanza del cibo e della luce.


Una volta ritornato nel laboratorio, tentai di riprendere il lavoro in quel caos indescrivibile di disordine e rilassatezza.


Impossibile. Mi ribellai di nuovo. Mi rimandarono in cella e, per giunta, mi misero la camicia di forza. Venni disteso sul suolo, con le braccia in croce, e appeso per i pollici sulla punta dei piedi. Fui persino picchiato dai guardiani. Stupidi bruti, che possedevano appena l'intelligenza per comprendere la mia superiorità morale e il disprezzo che provavo per loro!


Subii questa tortura per due anni. Anche i bambini sanno che non c'è nulla di più terribile, per un uomo, di esser rosicchiato vivo dai topi. Ebbene! quei guardiani erano per me dei veri topi, che rodevano il mio essere pensante, che laceravano tutto quello che c'era d'intelligenza viva nella mia mente. E io, che un tempo avevo combattuto come un soldato, avevo ora perduto ogni coraggio per lottare.


Combattere come un soldato... L'avevo fatto alle Filippine, perché era una tradizione degli Standing quella di battersi. Ma senza convinzione. Trovavo veramente sciocco occupare il mio tempo a ficcare, per mezzo di un fucile, delle sostanze esplosive nella carne di altri esseri umani.


Per natura, ero un ottimo agricoltore, un uomo ormai sistemato, curvo sulla sua cattedra, schiavo dei suoi studi di laboratorio, e che aveva il solo desiderio di scoprire i mezzi per migliorare la terra e i suoi frutti.


In guerra, scoprii ben presto che non avevo alcuna attitudine per questo mestiere. I miei ufficiali se ne resero conto subito. Mi trasformarono in uno scribacchino, e fu così che io feci la guerra ispano-americana.


Non è già perché avessi un carattere impossibile ma, al contrario, perché osavo ancora pensare, che mi ribellai all'anarchia del laboratorio. Ed è per questo che i guardiani cominciarono a odiarmi, e fui dichiarato "incorreggibile"; è per questo, infine, che il direttore Atherton, persa ogni speranza nei miei confronti, mi fece chiamare un giorno nel suo gabinetto particolare.


Alle domande che mi pose, agli argomenti che illustrò per dimostrarmi che avevo torto, io risposi press'a poco così:


- Come potete lontanamente supporre che i vostri sorveglianti, questi topi famelici, possano riuscire, con le loro torture, a distruggere nel mio cervello le idee che vi si trovano? Tutta l'organizzazione di questa prigione è sbagliata. Voi siete, senza dubbio, un politicante molto abile. Conoscete certamente alla perfezione come si manipolino certe elezioni nei bassi fondi di San Francisco. D'altronde, la vostra abilità in questa materia vi ha procurato per ricompensa il posto che occupate qui. Ma siete del tutto digiuno sulla tessitura della juta. I vostri laboratori sono in ritardo di almeno cinquant'anni.


Rinuncio a descrivervi il seguito del mio discorso. Il risultato fu che il direttore si convinse del tutto che io ero un "incorreggibile" senza speranza.


Il direttore Atherton pronunciò il suo verdetto finale: ero un cane arrabbiato. Egli aveva d'altra parte buon gioco.


Più d'una infrazione al regolamento, commessa da altri reclusi, mi venne imputata dai guardiani, e così fui rimesso in cella, a pane e acqua, sospeso per i pollici. Il supplizio si prolungava per ore, e ognuna mi sembrava eterna, più lunga di ciascuna vita che avevo già vissuto.


Anche gli uomini più intelligenti sono a volte crudeli. Gli imbecilli lo sono in modo abnorme. Ora, gli aguzzini che mi tenevano in loro potere, dal direttore all'ultimo secondino, erano degli abissi d'idiozia...


Tra gli ospiti della prigione c'era un recluso che era un vecchio poeta, un degenerato dalla fronte bassa e dal mento sfuggente. Si trovava in carcere come falsario. Impossibile trovare un uomo più bugiardo e vile di lui. Era sempre di una docilità incredibile e faceva la spia.


Questo poeta falsario si chiamava Cecil Winwood. Era recidivo, ma essendo un leccapiedi, un ipocrita piagnucoloso, la sua ultima condanna era stata limitata a sette anni di reclusione. Con la buona condotta, poteva sperare anche in una riduzione della pena.


Io ero condannato a vita. Per accelerare la sua liberazione, quella canaglia riuscì ad aggravare ancora la mia già precaria situazione.


Ma ecco come andarono le cose. Me ne resi conto soltanto più tardi.


Cecil Winwood, per accattivarsi la simpatia del capo reparto, del direttore della prigione e della Commissione delle grazie e del governatore della California, inventò di sana pianta un progetto d'evasione.


Notate bene: prima di tutto, Cecil Winwood era talmente disprezzato dai compagni che nessuno voleva avere il minimo contatto con lui; in secondo luogo, io ero considerato un cane idrofobo; infine, Cecil Winwood aveva bisogno, per il suo diabolico intrigo, di cani idrofobi, ossia di me e di alcuni condannati a vita, incorreggibili e disperati come il sottoscritto.


Inutile aggiungere che questi cani arrabbiati odiavano cordialmente Cecil Winwood e ne diffidavano. Quando cominciò ad accennare al suo piano di rivolta e d'evasione in massa, gli voltarono la schiena, insultandolo e trattandolo come un agente provocatore.


Ma Cecil tornò nuovamente alla carica e tanto fece che, alla fine, raggruppò intorno a sé una quarantina degli elementi più scalmanati.


E, poiché si faceva forte delle facilitazioni che godeva come uomo di fiducia del direttore e del gerente del Dispensario, Long Bill Hodge gli ribatté:


- Provalo un po'!


Long Bill Hodge era un montanaro condannato a vita per aver fatto deragliare un treno, e che pensava soltanto a evadere, per poter ammazzare il complice che lo aveva tradito.


Cecil Winwood accettò la prova. E assicurò che avrebbe potuto addormentare i guardiani la notte dell'evasione.


- A parole, è facile! - esclamò Long Bill Hodge. - Ci vogliono dei fatti. Prova a cloroformizzare, stanotte stessa, uno dei nostri guardiani, per esempio Barnum! E' una canaglia che non vale la corda per impiccarlo. Ieri, nel reparto dei matti, ha picchiato a sangue quel poveretto di Chink. E non era di servizio! E' di guardia proprio stanotte. Se lo addormenti, gli fai perdere il posto. Poi, se ci riuscirai, potremo parlare dell'affare.


Tutto questo, l'ho saputo più tardi da Long Bill, quando ci rinchiusero insieme. Io avevo rifiutato di prender parte al tentativo.


Cecil Winwood esitava. Gli venne concessa una settimana di tempo e, otto giorni dopo, egli comunicò ai compagni d'esser pronto.


E ci riuscì. Barnum si addormentò durante il suo turno di guardia.


Venne scoperto e licenziato dal posto.


Questo primo successo finì col convincere i congiurati, anche i più restii. Contemporaneamente, Cecil Winwood pensava a informare il capo del reparto. Quotidianamente, gli faceva il suo rapporto sullo sviluppo del complotto, di cui era egli stesso l'animatore.


Anche il capo esigeva naturalmente delle prove. Egli le fornì, e i particolari che dava non lasciavano niente a desiderare.


Un mattino, Winwood comunicò al capo che i quaranta congiurati, che gli confidavano tutto, erano già così avanti da potersi provvedere, per mezzo di un guardiano loro complice, di rivoltelle automatiche.


- Provalo! - doveva essere stata la risposta del capo. E il poeta falsario l'aveva provato.


Regolarmente, tutte le notti, delle squadre si alternavano ai forni. Un recluso, che faceva parte dei fornai, era una spia al servizio del capo. Winwood lo sapeva.


- Stasera, - disse al capo, - il guardiano che noi chiamiamo "Faccia d'Estate", introdurrà in prigione una dozzina di rivoltelle. Tutto il resto, con le munizioni, arriverà in seguito con lo stesso sistema. L'incaricato deve consegnargli il pacco, al forno. Voi avete qui un confidente. Avvisatelo. Verrà e vi farà in mattinata il suo rapporto.


"Faccia d'Estate" era un vecchio contadino, dal viso aperto, originario del distretto di Humboldt. Era un povero di spirito, un bonaccione che cercava di guadagnarsi qualche dollaro in più fornendo ai prigionieri del tabacco di contrabbando.


Quella notte, di ritorno da San Francisco, aveva con sé quindici libbre di tabacco. Non era la prima volta che lo faceva, e aveva sempre consegnato la merce, nel forno, a Cecil Winwood. Messo sull'avviso, il fornaio-spione lo vide mentre consegnava a Winwood un pacco voluminoso e avvolto in carta da imballaggio. Al mattino fece il suo rapporto al capo.


L'indomani, quando incontrò il capo, Cecil Winwood aveva un aspetto quasi trionfante.


- Allora, - chiese, - il vostro confidente ha potuto vedere?


- Sì, è andato tutto come avevate detto.


- Lo credo bene! E il suo contenuto basta per far saltare in aria mezza prigione!


Il capo sbiancò.


- Cosa dici? Che cosa contiene?


- Ho aperto il pacco, e...


L'imbecille prese un tono misterioso e aggiunse:


- Non c'erano rivoltelle, ma dinamite. Trentacinque libbre ! E ci sono anche i detonatori.


Poco mancò che al capo non venisse un colpo.


Trentacinque libbre di dinamite nella prigione! Mi è stato riferito che il capitano Jamie, - così si chiamava, - si lasciò andare sopra una seggiola a corpo morto, tenendosi la testa fra le mani.


- Dov'è, adesso? - gridò. - La voglio! Portami subito dove si trova!


Cecil Winwood capì finalmente la gravità della situazione.


- L'ho sotterrata, - rispose quel maledetto bugiardo, che aveva già distribuito il tabacco contenuto nel pacco tra gli abituali consumatori.


- Benissimo! - disse il capitano. - Portami sul posto. Avanti, in marcia!


In se stessa la cosa non era inverosimile. In una prigione come San Quintino, vi sono sempre dei nascondigli.


Ma questa volta si trattava d'una pura fantasia di Cecil Winwood.


Quando il fatto provocò poi un'inchiesta, Jamie e Winwood testimoniarono entrambi che il poeta falsario aveva dichiarato al capitano che lui e io avevamo sotterrato, insieme, la dinamite.


Winwood condusse il capitano fino al presunto nascondiglio.


Naturalmente, di dinamite nemmeno l'ombra.


- Santo Dio! - gridò Winwood, - Standing me l'ha fatta! Ha preso il pacco, per nasconderlo in un altro posto.


Così, per togliersi dal pasticcio in cui s'era cacciato, il maledetto mi prese come capro espiatorio.


Il capitano Jamie, credendo d'essere stato giocato, ricondusse Winwood nel suo ufficio, chiuse a chiave la porta e gli saltò addosso.


Sotto i colpi Winwood continuava a sostenere di aver detto la verità. Tanto che Jamie ne rimase convinto e credette davvero che esistessero trentacinque libbre di dinamite nascoste in qualche parte della prigione, e che quaranta incorreggibili erano sul punto di far saltare l'intero edificio.


"Faccia d'Estate" fu sottoposto a un martellante interrogatorio.


Il poveraccio giurò su quanto aveva di più sacro che il famoso involto conteneva solo tabacco. Winwood, da parte sua, giurò che conteneva esplosivi, e fu lui a essere creduto.


A questo punto, entrai in scena io. O meglio, sparii nuovamente dalla luce del giorno. Infatti mi accolse nuovamente la cella di rigore, dalla quale non dovevo mai più uscire.


Ero sbalordito. Mi avevano appena tolto da quell'antro, sfinito e a pezzi; e la storia ricominciava!


- Adesso, - fece Winwood al capitano Jamie, - anche se non sappiamo dov'è finita la dinamite, non c'è più nessun pericolo.


Standing è il solo a conoscere il nascondiglio, e da dove si trova, non può far niente. Invece, per quanto riguarda i quaranta uomini di cui vi ho parlato, stanno per concretizzare il loro piano d'evasione. Niente di più semplice che coglierli sul fatto.


Sono io che devo fissare l'ora per la fuga. Dirò che è per la prossima notte, alle due, e che aprirò io stesso le loro celle e distribuirò le rivoltelle. Il resto sarà un gioco, per voi. La dinamite, la cercheremo dopo.


Ma naturalmente, da sei anni a questa parte, nessuno è mai riuscito a scoprire un'oncia di esplosivo, benché la prigione sia stata messa sottosopra almeno un centinaio di volte.


Il direttore Atherton, fino all'ultimo giorno in cui terrà il suo posto, continuerà però a credere nell'esistenza di quella famosa dinamite. Il capitano Jamie, che è sempre a capo del reparto, non dispera, un giorno o l'altro, di metterci le mani sopra.


Tutti quei gentiluomini respireranno liberamente soltanto il giorno in cui penzolerò in aria, con un cappio al collo.




3. ROTTAMI UMANI


Riprendo il filo del mio racconto.


Per tutto il giorno, rimasi nella mia cella a scervellarmi per scoprire la ragione di questa nuova e inspiegabile punizione.


Arrivai a concludere che tutto ciò doveva essere opera di una spia, di uno sporco essere che per ingraziarsi qualche guardiano, mi aveva denunciato per qualche immaginaria infrazione ai regolamenti. Nel frattempo, il capitano Jamie si preparava a reprimere la rivolta di cui Winwood doveva dare il segnale.


Quella notte non un solo guardiano dormì. Le squadre diurne rimasero in servizio, come quelle notturne; e quando si avvicinarono le due, tutti si nascosero vicino alle celle occupate dai quaranta congiurati.


Le cose andarono com'era stato previsto. All'ora convenuta, Winwood, munito di grimaldello, aprì le celle, chiamando per nome gli occupanti uno dopo l'altro, e questi sgusciarono fuori. Si riunirono tutti nel corridoio; e per i guardiani fu uno scherzo riprenderli, in un colpo solo.


Le menzogne di Winwood davano i loro frutti. Inutilmente i quaranta denunciarono la parte avuta dal falsario in tutta la vicenda. Il Consiglio dei Direttori della prigione non si smosse dalla convinzione che mentissero tutti per costruirsi delle attenuanti. E così l'Ufficio preposto alle grazie e, nel giro di tre mesi, quella canaglia di Cecil Winwood venne graziato e rimesso in libertà. Ho già detto che ero stato subito rinchiuso in cella.


Era notte e dormivo, quando sentii la porta esterna cigolare sui cardini. Mi svegliai.


- Qualche disgraziato, - pensai, - che trasloca... Poi udii distintamente un rumore di percosse e grida di dolore, imprecazioni e il fruscìo sordo d'un corpo che si trascina per terra.


Una dopo l'altra, le porte che si susseguivano lungo il corridoio si aprirono sbattendo, mentre i corpi venivano buttati o trascinati nelle celle. Squadre di guardiani arrivavano continuamente, e ancora altri uomini che continuavano a picchiare, e altre porte si spalancavano davanti a sagome sanguinolenti, distrutte dalla violenza. Ma ritorniamo indietro, a quel che successe nelle celle quando i cospiratori mi raggiunsero dopo che la porta esterna del corridoio si era chiusa alle loro spalle.


I quaranta si precipitarono alle inferriate dei finestrini. Da una cella all'altra cominciarono a farsi tra loro un mucchio di domande. Era un vociare indescrivibile.


Ma subito risuonò un urlo taurino. Era la voce del vecchio marinaio Skysail Jack, una sorta di gigante, che dominava il clamore. Comandò il massimo silenzio, mentre si accingeva a fare l'appello di tutti i presenti. E i quaranta, uno per uno, urlarono i loro nomi. Erano tutti uomini sicuri, incapaci di vendersi per fare la spia.


Il solo sul quale si avesse qualche sospetto, ero io. E subii un interrogatorio in piena regola. Raccontai allora che il mattino stesso ero uscito dalla mia cella e che senza un motivo apparente, mi ci avevano ricondotto, prima di loro. Non sapevo altro. La mia reputazione d'incorreggibile li tranquillizzò tutti. Allora si tenne consiglio.


Ascoltavo. E per la prima volta, venni a conoscenza della famosa cospirazione. Chi aveva fatto la spia? Si brancolava nel buio.


Cecil Winwood non si trovava tra i segregati e tutti i sospetti si appuntarono finalmente su di lui. In tutta questa faccenda, gridò Skysail, - una sola cosa è importante. Tra poco farà giorno. Ci preleveranno e ci faranno passare un brutto quarto d'ora. Siamo stati presi sul fatto. Non è il caso di negare. E' meglio dire la verità, tutta la verità. Spiegheremo che Cecil Winwood aveva organizzato tutto e che poi ci ha traditi. Poi, sarà quel che Dio vorrà. Siamo d'accordo?


Suonarono le nove, quando i secondini fecero irruzione nelle celle e si precipitarono addosso a noi.


Non erano molti. A che sarebbe servito? Non potevamo certo resistere! Del resto, essi aprivano le celle una dopo l'altra, armati di manichi di piccone. Uno strumento ideale per ricondurre alla ragione un uomo indifeso.


Appena si apriva una cella, cominciavano a picchiare. Ogni recluso ebbe la sua parte. Fummo serviti tutti imparzialmente, e non era davvero il caso d'esser gelosi... Io ebbi la mia razione, come gli altri. Non era che un inizio, una preparazione all'interrogatorio che ognuno avrebbe dovuto subire da parte degli alti funzionari, ingrassati dal governo.


Il ballo durò parecchi giorni, e l'orrore di quelle giornate superò largamente tutto ciò che avevo fino allora conosciuto in fatto di crudeltà.


Long Bill Hodge fu interrogato per primo. Ne ebbe per due ore, dopo di che lo riportarono, o meglio lo ributtarono sul pavimento della sua cella.


Passò del tempo, prima che Long Bill Hodge rinvenisse. Dalla sua cella, gridò:


- Che cos'è, questa faccenda della dinamite? Chi ne sa qualcosa?


Nessuno, ovviamente, ne sapeva niente.


Poi fu la volta di Luigi Polazzo, uno spostato, figlio d'italiani immigrati. Rideva in faccia ai giudici, si burlava di loro, li sfidava a inventare contro di lui le peggiori violenze. Riapparve due ore dopo. Non era che uno straccio, uno straccio che balbettava nel delirio. Per tutto ii giorno fu incapace di rispondere alle domande degli altri reclusi, ansiosi di sapere, prima del loro turno, che trattamento aveva subìto, quali domande gli avevano fatto.


Nelle quarantott'ore che seguirono, Luigi venne richiamato due volte e interrogato. Dopo di che, persa completamente la ragione, fu spedito nel reparto dei pazzi.


A ognuno dei quaranta toccò lo stesso trattamento, o quasi. E ognuno venne ridotto allo stato di rottame umano, urlante nelle tenebre. Io, sdraiato sul pavimento, ascoltavo quei pianti, quei lamenti, quel vaneggiare di cervelli offuscati dal dolore. E mi sembrava, in qualche angolo del passato nebuloso, di udire il coro di quegli stessi lamenti salire fino a me, che allora non ero nel numero dei sofferenti ma ero il padrone orgoglioso e senza pietà.


Più tardi, identificai questo vago ricordo col tempo in cui, capitano di una galera dell'antica Roma, navigavo verso Alessandria e Gerusalemme. Il coro era dei galeotti che remavano e gemevano, sotto di me, avvinti ai lunghi remi.


Ma vi racconterò tutto questo, e a lungo. Per il momento...




4. "PARLA, STANDING!"


Nelle celle, le urla continuavano senza tregua, e durante quelle infinite ore d'attesa il mio spirito era fissato unicamente al pensiero che stava per venire il mio turno, che anch'io sarei stato trascinato fuori, che avrei subìto le torture di quella nuova inquisizione e che mi avrebbero ributtato poi sul pavimento della mia cella, di questa cella odiosa dalla porta di ferro e dalle mura di pietra. E giunse il mio turno. Fui afferrato e portato brutalmente fuori, fra percosse e bestemmie. Mi trovai, non so come, di fronte al capitano Jamie e al direttore Atherton, circondati da una mezza dozzina di aguzzini pagati dai contribuenti che aspettavano solo un segnale per mettermi addosso le loro zampe.


Il loro aiuto fu superfluo.


- Siediti, Standing! - mi ordinò il direttore Atherton, indicandomi una seggiola enorme.


Ero là, in piedi, pesto, con tutte le membra indolenzite, morente di fame e di sete, già sfinito dai cinque giorni precedenti di segregazione e da ottanta ore di camicia di forza. Tremavo.


Battevo i denti al pensiero di ciò che stava per succedere, a me, ignobile rottame d'uomo, vecchio professore d'agronomia in un tranquillo centro universitario. Esitavo a sedermi.


Il direttore, per statura e forza, era un vero colosso. Poiché tardavo a obbedire, si slanciò su di me, afferrandomi per le ascelle. Poi, come se fossi stato un bambino, mi sollevò da terra e mi incastrò nel seggiolone.


- E adesso, - riprese, mentre io boccheggiavo, - dimmi tutto, Standing! Sputa fuori! E' il modo migliore per migliorare la tua situazione.


- Ma... ma io non so niente di quel che è successo... - balbettai.


Un attimo dopo, il direttore Atherton balzò nuovamente su di me, mi alzò per aria schiacciandomi un'altra volta sulla seggiola.


Finiscila con la commedia, Standing! continuò. - E' inutile!


Parla! Dov'è la dinamite?


Protestai che non sapevo un accidenti della dinamite.


Fui sollevato una terza volta ricadendo come frantumato. Questo genere di tortura era completamente nuovo per me. Paragonato agli altri che avevo già subito, si può dire che fosse nettamente peggiore.


Il seggiolone, sotto gli urti ripetuti del mio corpo, cominciò a rompersi. Ne portarono un altro ma anche questo fu ben presto mal ridotto. Poi un terzo. E sempre quella dannata domanda sulla dinamite.


Quando il direttore Atherton fu esausto, il capitano Jamie lo sostituì. E quando Jamie, dopo un bel po', fu stanco a sua volta, l'esercizio lo continuò il guardiano Monohan. - "Dov'è la dinamite?" - E su, per aria; poi giù, sulla seggiola! - "Parla:


dov'è la dinamite... La dinamite... La dinamite..." In tutta coscienza, avrei barattato volentieri una buona parte della mia anima immortale per qualche libbra di questo fantomatico esplosivo, che avrei potuto dare in pasto ai miei torturatori.


Quante seggiole furono spezzate? Non lo so. Arrivò infine un momento in cui ero in pieno delirio. Addormentato o sveglio? Chi lo sa. Persi i sensi dalla debolezza, più volte. Per finire, venni ributtato nella mia cella. Quando rinvenni, mi vidi accanto un agente provocatore. Era un condannato a tempo, un ometto dalla faccia livida, un eteromane pronto a tutto per procurarsi la droga preferita.


Non appena lo riconobbi, mi trascinai verso il finestrino della mia cella, e urlai nel corridoio:


- State in guardia, amici! C'è una spia fra noi! E' Ignazio Irvine. Attenti a quello che dite!


L'inferno di imprecazioni che scoppiò avrebbe fatto tremare i polsi di un uomo ben più coraggioso di questo Ignazio Irvine. Era disgustoso nel suo terrore, mentre tuonavano le voci dei quaranta reclusi, che gli promettevano per l'avvenire le più orrende vendette.


Se ci fosse stato qualche segreto da mantenere, la presenza di una spia sarebbe stata sufficiente a chiudere tutte le bocche. Ma non c'era nessun segreto, e le conversazioni ripresero, da un finestrino all'altro.


L'indomani e i giorni seguenti, gli interrogatori ripresero, sempre con il solito sistema. Quando gli uomini non riuscivano più a camminare, venivano trasportati. Corse persino la notizia che il direttore Atherton e il capitano Jamie dovessero darsi il cambio ogni due ore, tanto erano stanchi.


Nel nostro reparto, la follia cresceva di giorno in giorno, d'ora in ora.


Capite bene quello che stava accadendo? La verità, che tutti noi dicevamo, era la nostra condanna. Di fronte a questi quaranta incorreggibili, che ripetevano continuamente le stesse cose, il direttore Atherton e il capitano Jamie pensavano, convinti, che mentivamo tutti d'accordo, come un pappagallo ripete una lezione imparata.


La situazione delle autorità era senza via d'uscita come la nostra. Come venni a sapere in seguito, il Consiglio dei Direttori della prigione era stato convocato telegraficamente, e così due compagnie di milizia, per fronteggiare ogni evento.


Nelle nostre celle, non avevamo né materassi né coperte. Poiché chiedevamo continuamente un po' d'acqua, i guardiani si divertivano ad azionare le pompe antincendio. Dai finestrini, i getti d'acqua si abbattevano su di noi, colpendo con forza i nostri corpi doloranti, e facendoci saltare come cavallette impazzite fra le nostre quattro mura.


Dei quaranta uomini che subirono questi trattamenti, non uno uscì incolume. Luigi Polazzo, come ho già detto, fu il primo a impazzire e non recuperò mai più la ragione. Long Bill Hodge la perse lentamente, e raggiunse Luigi nel reparto dei pazzi. Altri ancora lo seguirono. Altri, la cui salute era stata profondamente minata, rimasero vittime della tubercolosi. In tutto, un buon quarto dei quaranta ci lasciò la pelle.


Quanto a me, venni portato due volte davanti al Gran Consiglio dei Direttori. Potevo scegliere fra due alternative. Se avessi svelato dov'era la dinamite, avrei avuto una punizione puramente nominale di trenta giorni di cella, e poi sarei stato nominato sorvegliante della Biblioteca. Se invece avessi insistito a non voler rivelare dov'era la famosa dinamite, allora sarei stato inviato in segregazione cellulare fino al termine della mia condanna. Ossia in eterno, dato che ero condannato a vita.


Incredibile! Nessun codice ha mai stabilito una legge così. La California è un paese civile, o almeno si vanta d'esserlo. La segregazione cellulare a vita è una pena mostruosa, fuori da ogni legge morale o scritta. Eppure io sono il terzo uomo in California, che ha udito pronunciare contro di sé una simile condanna. Gli altri due sono Giacomo Oppenheimer ed Edoardo Morrell. Fra non molto vi farò fare la loro conoscenza, perché ho passato in loro compagnia ben cinque anni, nella mia cella oscura...


Il Gran Consiglio mi concesse dunque la scelta: un'occupazione gradevole se restituivo una dinamite che non esisteva; la segregazione cellulare a vita, se rifiutavo.


Mi furono affibbiate ventiquattr'ore di camicia di forza, affinché potessi riflettere con calma. Poi, fui ricondotto davanti a quei signori. Che potevo fare? Ripetei, per la centesima volta, che non potevo consegnare una cosa che non esisteva. Ribatterono che ero un bugiardo. Mi dissero inoltre che ero un flagello vivente, un degenerato, il peggior criminale del secolo, e tanti altri complimenti del genere.


In conclusione, mantennero la parola, e invece che nelle celle comuni, mi trasferirono nel reparto di segregazione cellulare. Mi sbatterono nella cella numero 1. Il numero 5 era occupato da Edoardo Morrell. Il numero 15 da Giacomo Oppenheimer, che c'era già da dieci anni; Morrell da un anno soltanto. Doveva scontare una pena di cinquant'anni, mentre Oppenheimer era a vita, come me.


A prima vista, tutto faceva pensare che avremmo dovuto soggiornare in quegli antri per lungo tempo. Eppure, sono trascorsi soltanto sei anni, e nessuno di noi ci si trova più. Oppenheimer è stato impiccato; Morrell, per buona condotta, è diventato uomo di fiducia a San Quintino, e poi è stato graziato. Io sono qui, a Folsom, in attesa che il giorno stabilito dal giudice Morgan sia il mio ultimo giorno.


Quando, dopo sei anni di segregazione, uscii dalla prigione di San Quintino per essere trasferito qui ed esservi giudicato, come poi vi dirò, rividi Skysail. Lo rividi..., per modo di dire. Dopo sei anni di buio assoluto, chiudevo gli occhi alla luce del sole, come un pipistrello. Lo incontrai, nel cortile della prigione, e lo riconobbi, pur attraverso una specie di nebbia opaca. Quello che intravidi bastò a stringermi il cuore. I suoi capelli erano tutti bianchi ed era precocemente invecchiato. Il petto incavato e le guance smunte. E la mano gli tremava furiosamente per la paralisi.


Camminando, vacillava.


Mi riconobbe, e i suoi occhi, nel volgersi verso di me, si riempirono di lacrime.


Ma anch'io non ero ormai che un fetido rottame. Non pesavo che una trentina di chili. I miei capelli, spruzzati di bianco come i baffi e la barba, erano irsuti, non avendo più conosciuto un paio di forbici. Barcollavo come lui, e a tal punto che per farmi attraversare quella fetta di cortile, smagliante di sole, i guardiani dovevano sostenermi sotto le braccia.


Il mio sguardo e quello di Skysail s'incrociarono.


Sapeva bene che, parlandomi, infrangeva le regole. Ma il suo spirito indomabile non si curava di ciò.


- I miei complimenti, Standing, - mormorò con voce spezzata. - Sei veramente un uomo. Non hai detto niente della dinamite...


Con quel filo di voce che mi restava in corpo, mormorai a mia volta:


- Non ne ho mai saputo niente, della dinamite... Credo proprio che non sia mai esistita...


- Bene... - mi rispose, scuotendo la testa come un bambino. - Tu non vuoi parlare, l'ho capito... Sei veramente un uomo, Standing, e meriti rispetto...


I guardiani mi trascinarono via, e non ebbi più modo di rivedere Skysail. Era però evidente che anche lui aveva finito con il credere a quella dinamite fantasma.


Perché, ora, mi trovo qui, a Folsom, e perché, fra poco, penderò dalla forca? Adesso ve lo racconto. Non è per quella vecchia storia del professor Haskell, che ho ucciso; ma perché sono stato dichiarato colpevole d'aggressione contro uno dei miei guardiani.


E qui è la mia disgrazia. Nell'epoca in cui uccisi il professore Haskell, questa legge non esisteva. Fu approvata soltanto dopo la mia prima condanna. E' chiaro allora, per quanto mi riguarda, che l'applicazione retroattiva di questa legge è incostituzionale. E non c'è uomo di buon senso che non sia del mio parere.


Ma quale effetto può avere un argomento del genere sullo spirito di sedicenti uomini di legge, che vogliono sbarazzarsi a ogni costo del noto e rispettabile professore d'agronomia Darrell Standing? Del resto devo riconoscere che c'è un precedente. Un anno fa, è stato impiccato Giacomo Oppenheimer, proprio qui, a Folsom, e per un delitto uguale. La sola differenza tra i due casi è che lui non aveva fatto sanguinare con il suo pugno il naso d'un guardiano. No. Ma, con il suo coltello per il pane, aveva tagliuzzato un po' di pelle a un altro guardiano.


La nostra esistenza quaggiù, i rapporti tra gli uomini, il groviglio inestricabile delle leggi... mio Dio! com'è buffo e strano tutto ciò! Scrivo queste righe nella stessa cella che occupava Oppenheimer. L'hanno fatto uscire di qui per impiccarlo.


Così faranno con me.


Come se voi foste in grado, branco di idioti, banda di cialtroni, di strangolare la mia anima immortale, con la vostra corda e la vostra forca! A dispetto di tutti, io calpesterò ancora, e più d'una volta, questa nostra terra. E vi camminerò, in carne e ossa, come per il passato, principe o contadino, sapiente o stupido; a volte sulla vetta della scala sociale, a volte stritolato dalla ruota del destino.




5. IN SEGREGAZIONE


Tutto quello che scrivo risente naturalmente della situazione, e potrà apparire un po' sconnesso...


Ritorniamo a San Quintino e alla cella numero 1, dove mi avevano rinchiuso.


Mi sentivo disperatamente solo, e le prime ore passarono con una lentezza estenuante, i primi giorni mi sembrarono senza fine.


Il battito del tempo era segnato soltanto dal cambio regolare dei guardiani, e dal succedersi del giorno e della notte. Il giorno non era che una luce debole e confusa, che tuttavia mi consolava della totale oscurità della notte. Una luce che filtrava appena, attraverso uno spiraglio, e che portava con sé ben poco del solare chiarore del mondo esterno.


La luce non era mai abbastanza perché fosse possibile leggere. Del resto, non avevo niente da leggere. Potevo soltanto sdraiarmi e pensare. Era ormai evidente che, a meno di fabbricare dal nulla trentacinque libbre di dinamite, tutta la mia vita sarebbe trascorsa in questo ottuso e oscuro silenzio.


L'arredamento della cella consisteva soltanto in un sottile pagliericcio marcito, steso sul pavimento, e di una coperta, ancora più evanescente e d'una sporcizia obbrobriosa. Né una sedia, né un tavolo. Niente di niente.


In vita mia, ho sempre dormito poco, con il cervello in eterno movimento. In una cella, ci si stanca presto a pensare, e il solo sistema per sfuggire al pensiero consiste nel dormire. Decisi di coltivare il sonno, come una specie di scienza. Arrivai a dormire dieci ore su ventiquattro, poi dodici, e infine quattordici o quindici ore. E' il limite estremo al quale si può giungere. Con questo regime, un cervello attivo non tarda a dissolversi, a spappolarsi nel nulla.


Ricorsi a tutti i trucchi che mi permettessero di sopportare le ore di veglia. Con l'immaginazione cercai di risolvere le radici quadrate e cubiche d'una lunga serie di numeri; con una concentrazione assoluta della volontà, riuscii a risolvere i problemi geometrici più complicati.


Tentai persino di trovare la quadratura del cerchio. Mi ci ostinai sopra fino a quando il problema apparve anche a me insolubile. Poi capii che ostinandomi su questa strada, mi sarei imbattuto nel ghigno atroce della follia. Rinunciai pertanto a interessarmi di questa quadratura misteriosa. Fu per me un enorme sacrificio, dato che lo sforzo mentale necessario per una tale ricerca mi serviva egregiamente ad ammazzare il tempo.


Ricorsi ad altri artifici. Così sotto le mie palpebre, creai la visione artificiale di un gioco di dama, sul quale, facendo un doppio gioco, svolgevo interminabili partite, che duravano ore e ore. Ma quando diventai abilissimo in questo finto gioco, anch'esso perse ogni attrattiva.


Così il tempo mi pesava sempre di più, eterno. Allora incominciai il gioco con le mosche.


Erano mosche simili a tutte le altre. Entravano nella cella sulla scia del sottile raggio di luce. E imparai che le mosche avevano il gusto del gioco. Sdraiato per terra, tracciavo sulla parete davanti a me, con un dito, una linea immaginaria, lontana circa tre piedi dal suolo. Quando le mosche si posavano sul muro, al di sopra di questa linea, le lasciavo in pace. Al contrario, se scendevano sotto, facevo finta di volerle acchiappare. Avevo cura però di non far loro del male, e con il tempo esse conobbero quanto me dove fosse la linea immaginaria.


Ma la cosa più sorprendente era che quando esse volevano giocare, venivano apposta a posarsi al di sotto della linea. Le allontanavo, e vi tornavano ancora. Accadeva spesso che una mosca ripetesse lo stesso gioco per un'ora. Quando ne aveva abbastanza andava a riposarsi in territorio neutro, al di sopra della linea divisoria.


Una quindicina di mosche mi facevano così compagnia. Ce n'era una sola che non s'interessava al gioco, ostinatamente. Dal giorno in cui aveva compreso il pericolo in cui incorreva scendendo al di sotto della linea, aveva evitato con cura di posarsi nella zona proibita.


Sulle mie mosche, sul mio modo di vivere, sui loro giochi, ho fatto ben altre osservazioni, con cui non voglio però importunarvi oltre.


Così trascorreva il mio tempo, interminabile. Non potevo dormire continuamente, e per quanto fossero intelligenti non potevo sempre giocare con le mosche. Perché le mosche sono mosche, e io ero un uomo, con un cervello umano. E questo cervello abituato a pensare, colmo di cultura e di scienza, lavorava comunque senza sosta. Era nato per l'azione, e io ero condannato a una passività totale.


Il mondo era morto per me. Nessuna notizia di un certo interesse riusciva a valicare i muri della mia cella.


Ma nel mio angusto sepolcro, non tutto era silenzio.


Fin dall'inizio della mia segregazione, avevo sentito, a intervalli regolari, risuonare dei battiti soffocati. Provenienti da più lontano, ne avevo uditi degli altri, ancora più ovattati.


Regolarmente, venivano sempre interrotti dai grugniti del secondino di guardia. A volte, quando i colpi continuavano troppo a lungo, arrivavano altri guardiani, e dai rumori che seguivano indovinavo facilmente che a qualcuno veniva imposta la camicia di forza.


La faccenda era facilmente spiegabile. Sapevamo tutti che i due uomini in cella isolata erano Morrell e Oppenheimer. Erano loro due che comunicavano insieme, battendo contro il muro; e per questo venivano puniti.


Il loro codice doveva essere indubbiamente molto semplice. Eppure, non aveva per me alcun significato. Lo studiai attentamente, e quando ne scoprii la chiave, mi sembrò infantile, di una semplicità elementare. A ogni colloquio, cambiavano la lettera iniziale del loro alfabeto, il che lo modificava. Spesso, operavano tale cambiamento in piena conversazione.


Così venne il giorno in cui compresi due frasi, chiarissime.


- Di' un po', Edoardo, che cosa daresti per qualche cartina e un pacchetto di tabacco Bull Durham? - chiedeva quello che batteva i colpi più lontani.


Fui sul punto di gridare tutta la mia gioia. Intorno a me, c'erano degli altri esseri umani! E si poteva comunicare con loro!


Tesi avidamente l'orecchio. Altri colpi più vicini, che dovevano provenire da Edoardo Morrel, rispondevano:


- Farei venti ore di seguito in camicia di forza, per un po' di tabacco.


Poi ci fu il grugnito del guardiano:


- Basta, Morrell!


Chi è estraneo a cose del genere crederà che un condannato a vita abbia ormai patito il peggio e che, quindi, un semplice guardiano non abbia nessun potere per costringerlo a obbedire, quando gli proibisce di parlare. Non è così. Rimane ancora la camicia di forza. Restano la fame, la sete, le percosse. E l'uomo rinchiuso in una cella come in una trappola, è impotente a reagire.


Il picchiettìo cessò. Poi, quando riprese, la notte seguente mi inserii nella conversazione.


- Olà! - battei.


- Olà, straniero!... - rispose Morrell, battendo a sua volta.


E Oppenheimer:


- Benvenuto nella nostra confraternita!


Ovviamente erano curiosi di sapere chi fossi, da quanto tempo ero segregato in cella e perché. Ma prima di rispondere chiesi loro d'insegnarmi la chiave che permetteva di modificare a piacimento il codice alfabetico. Me lo spiegarono, e cominciammo a discorrere.


Rimasi sorpreso, e anche lusingato, di sapere che i miei due compagni non ignoravano il mio nome, e che la mia reputazione d'incorreggibile era giunta fino a loro...


Avevo parecchio da raccontare, ma soprattutto sul complotto per l'evasione dei quaranta condannati, sulla ricerca della dinamite, e sulle macchinazioni di Cecil Winwood. Tutte notizie nuove di zecca, per loro. Da due mesi erano completamente isolati, tagliati fuori dal mondo. L'attuale squadra in servizio era severa e crudele in modo particolare. - Taci, per adesso, - mi comunicò Morrell. - Aspetta che stasera sia di guardia "Testa di torta".


Dorme quasi sempre, e potremo discutere finché vogliamo.


"Testa di torta" era un uomo decisamente brutto e crudele, malgrado la sua pinguedine. Ma era proprio questa sua mole che lo intorpidiva a tal punto da fargli sentire, irresistibile, il bisogno di dormire.


Quanto parlammo quella notte! E il sonno com'era lontano da noi!


Quando si fece giorno, fummo tutti e tre denunciati per il rumore che avevamo fatto. Evidentemente "Testa di torta" dormiva con un occhio solo! E pagammo cara la nostra piccola festa. Era la camicia di forza. Ne sopportammo la tortura per ventiquattr'ore, fino all'indomani alle nove, legati sul pavimento, senza mangiare né bere. Fu il prezzo che pagammo in contanti per la nostra notte felice...


E malgrado la camicia di forza continuammo a comunicare tra noi, specialmente di notte, quando la sorveglianza si allentava.


Così, ci raccontammo l'un l'altro buona parte della nostra vita.


Per ore, Morrell e io ascoltavamo Oppenheimer narrarci la sua esistenza. Dal tempo della sua gioventù, trascorsa miseramente a San Francisco; dagli anni del suo noviziato nel vizio fino alla sua prima infrazione della legge; poi, tutti i suoi furti e le sue rapine; il tradimento di un complice; San Quintino; e i suoi omicidi, tra le mura stesse del carcere.


Giacomo Oppenheimer era soprannominato la "tigre umana". Il nomignolo doveva essere stato inventato da un sudicio reporter...


In verità ho trovato in Oppenheimer tutte le caratteristiche di una vera umanità. Era fedele ai suoi amici, e leale. Aveva subìto delle punizioni durissime, piuttosto che testimoniare contro un compagno. Aveva coraggio e sapeva soffrire. L'amore per la giustizia era in lui una vera frenesìa. Gli omicidi che aveva compiuto nella prigione erano dovuti interamente a questo concetto esaltato della giustizia. Era un cervello di prim'ordine, che una vita intera trascorsa in galera e dieci anni di segregazione non avevano minimamente oscurato.


Morrell possedeva anche lui un'anima incorruttibile.


Prossimo alla morte, non esitò a proclamarlo ad alta voce: i tre più nobili spiriti che conteneva la prigione di San Quintino, dal direttore Atherton fino all'ultimo servo erano i tre uomini che languivano nel buio di queste tre celle.


Nell'ora estrema, la verità mi induce a dichiarare che gli spiriti più temprati sono pure i meno docili. Gli stupidi, i vigliacchi, tutti quelli che non possiedono una giusta coscienza del loro valore, sono dei prigionieri modello.


Giacomo Oppenheimer, Edoardo Morrell e io, grazie al cielo, non siamo fra questi.




6. "SAMARIA!"


Il fanciullo, la cui anima è stata risparmiata dalla vita, possiede il dono prezioso di dimenticare. Nell'uomo, riuscire a dimenticare è segno di uno spirito forte ed equilibrato, mentre l'ossessione di un ricordo è l'inizio preciso di una mente malata.


Per questo, nella mia cella, cercavo con tutte le mie forze di annullare la sofferenza e i rancori che mi assalivano. Per questo, giocavo con le mosche o facevo con me stesso delle interminabili partite a scacchi, o comunicavo battendo con le dita.


Ma dimenticavo solo parzialmente. Altri ricordi più lontani salivano continuamente in me. Erano quelli d'altri tempi e d'altri luoghi, di cui i miei anni verdi avevano conservato memoria.


Questi ricordi incoscienti di un essere nato da poco tempo meritano forse d'essere cancellati, come se non avessero alcun significato?


C'è chi ha visto dei condannati, graziati, ritornare a vivere e alzare nuovamente gli sguardi verso il sole. E allora, perché questi ricordi infantili non potrebbero essi pure risvegliarsi, e le altre vite, già vissute, risuscitare ai nostri occhi?


Che cosa si può tentare? Che cosa si può fare perché le porte sprangate del nostro cervello si aprano, e il passato riaffiori improvvisamente al sole? Questi, erano i pensieri che rimuginavo senza tregua nella mia cella.


Ma prima, lasciatemi raccontare una curiosa e autentica avventura.


Ero nel Minnesota, nella vecchia fattoria dove sono nato. Allora avevo quasi sei anni. Un giorno, venne a trovarci un missionario per la Cina che il Consiglio delle Missioni inviava nelle fattorie, per una raccolta di fondi. I miei gli offrirono ospitalità per la notte.


Dopo cena, mentre eravamo tutti in cucina, e mentre mia madre si preparava a spogliarmi per mettermi a letto, il missionario levò di tasca delle fotografie della Terrasanta, che ci fece vedere.


Improvvisamente, vedendo una di quelle fotografie, lanciai un grido.


Sulle prime (così dissi quando fui interrogato), mi era sembrata completamente familiare, tanto nota come se avesse rappresentato la fattoria di mio padre. Poi mi era sembrata del tutto estranea.


Tuttavia, dopo averla riguardata, l'impressione di avere di fronte l'immagine di un luogo da me conosciuto, ritornò più viva che mai nella mia mente acerba.


- La Torre di Davide... - disse il missionario.


- No! - esclamai con tono sicuro.


- Pretendi forse che si chiami altrimenti? - chiese il missionario.


Accennai di sì col capo.


- Allora, ragazzo mio, come si chiama?


- Si chiama... - cominciai.


Ma non potei continuare. Balbettando, aggiunsi:


- L'ho dimenticato...


Rimasi in silenzio un istante, poi ripresi in mano la fotografia, e dissi:


- La torre non è più come una volta. E' completamente diversa.


Il missionario mostrò a mia madre un'altra fotografia.


- Ecco, - disse, - dov'ero sei mesi fa.


E segnando un punto col dito:


- Questa è la porta di Giaffa. Ci sono passato sotto, per salire alla Torre di Davide. Sono tutti d'accordo su questa identificazione. Si chiamava El Kulalh...


Lo interruppi di nuovo. Indicai sul lato sinistro della fotografia dei residui di pilastri in muratura, e dissi:


- No, la porta che voi dite era là. Il nome che avete detto è quello che le davano gli Ebrei. Ai miei tempi, si chiamava diversamente. Si chiamava... L'ho dimenticato.


- Sentitelo un po'! - esclamò mio padre, ridendo. - Non sembra che ci sia stato davvero?


Mio padre continuava a ridere. Il missionario doveva pensare che io volessi prenderlo in giro.


Mi fece vedere una terza fotografia.


Raffigurava un paesaggio aspro, quasi privo d'alberi e senza vegetazione, una valle rocciosa, con poche miserabili casupole in pietra, coi tetti a terrazza.


- Adesso, - disse il missionario in tono leggermente canzonatorio, - che cos'è questa secondo te?


Risposi senza esitare:


- Samaria!


- Ha ragione il ragazzo, - disse il missionario. - E' Samaria, in Terrasanta. Ho attraversato io stesso il villaggio, e ho comprato questa fotografia per ricordo. Il ragazzo deve averne visto un altro esemplare. E' la sola spiegazione possibile.


Mio padre e mia madre giurarono che non era possibile. Io intervenni.


- Anche qui, è tutto diverso da come ricordo... - Dentro di me, cercavo di ricostruire il paesaggio che ricordavo solo confusamente. Nell'insieme, non era cambiato. - Le case, - dissi, - non erano qui... Un po' più in là. Gli alberi erano più fitti.


Un bosco intero e molte capre. Mi sembra di vederle, con due pastori che le guidavano. In questo punto, un gruppo di vagabondi, vestiti di stracci. Sono tutti ammalati. Il loro viso, le loro gambe, sono pieni di piaghe...


Il missionario sorrise e dichiarò:


- In chiesa o da qualche altra parte, deve aver sentito parlare del miracolo dei lebbrosi.... Quanti erano, questi vagabondi con le piaghe?


All'età di cinque anni, sapevo contare fino a cento. Risposi:


- Sono dieci. Agitano le braccia, e gridano, urlano contro altri uomini che stanno intorno.


- Continua... - fece il missionario. - E' tutto qui? E quello che si trova di fronte a loro, che cosa fa?


- Si è fermato. E tutti si sono fermati, come lui. I caprai si sono avvicinati per vedere. Guardano tutti. - E dopo?


- Niente. I malati se ne tornano a casa. Non urlano più. Non sembrano più ammalati. Mi alzo sul mio cavallo, e guardo anch'io!


I miei tre ascoltatori scoppiarono in una sonora risata.


Allora mi prese la collera, ed esclamai, convinto:


-Sì, sono sul mio cavallo, sono un uomo, e porto al fianco una spada.


- Evidentemente, - spiegò il missionario, - il ragazzo sta parlando dei dieci lebbrosi che Cristo incontrò sulla via di Gerusalemme, e che guarì. Vostro figlio avrà visto questa scena riprodotta da qualche lanterna magica. Cercate di ricordarvi...


Ma mio padre e mia madre non ricordavano affatto che io avessi assistito a qualche proiezione di lanterna magica.


- Mettetelo alla prova ancora una volta, - propose mio padre.


Il missionario mi allungò una quarta fotografia, che esaminai con attenzione. Poi dissi:


- Il paesaggio è tutto diverso da quello di prima... Qui, nel centro, c'è una collina... Verso destra, una strada campestre, dei giardini, degli alberi... A sinistra, delle grotte nelle rocce, dove si seppellivano i morti... Qui, invece si scagliavano delle pietre a delle persone, finché non morivano... Non l'ho mai visto... Me l'hanno solo raccontato...


- Ma questa collina al centro... - chiese il missionario, indicandomela. - Lo sai il suo nome?


Esitai, scrollando il capo.


- L'ho dimenticato. Ma ricordo che proprio lì si uccidevano i condannati.


- Perfetto! Benissimo! - esclamò il missionario. - Tutti i competenti sono d'accordo. La collina è il Golgota e la sua sommità è la piazza dei Crani... Lassù è stato crocifisso...


Si voltò verso di me.


- Ci sai dire chi è stato crocifisso in questo punto? Ti ricordi anche di Lui?


Oh, se lo ricordavo! Mio padre, quando raccontava più avanti questa storia, affermava che i miei occhi si dilatavano stranamente...


Ma non risposi alla domanda. Dissi soltanto:


- Questo nome, non lo pronuncerò; vi burlereste soltanto di me.


Sì, lo ricordo... Lo vedo, e ci sono tanti uomini che lo circondano, e due altri come Lui, uno alla sua destra e uno alla sinistra... Li inchiodavano su tre croci... Ho visto... Ma non dirò il Suo nome... Direste che io mento. Ma io non mento mai.


Chiedetelo a loro, alla mamma e al papà se non è vero...


Da quel momento, il missionario non riuscì più a cavarmi di bocca una parola.


Baciai mio padre e mia madre, augurando la buona notte. E mentre mi avviavo verso la mia stanza, il missionario concluse:


- Diventerà un teologo di prim'ordine sui problemi biblici. A meno che, con la fantasia che possiede, non diventi un grande romanziere...


Un missionario stupido e delle profezie idiote. La prova è che sono qui, a Folsom, nel recinto degli assassini, e sto scrivendo tutto questo in attesa che vengano a prelevare Darrell Standing, per poi inviarlo nel regno delle tenebre, attaccato a una corda.


Una pretesa che mi fa alzare le spalle!


Sono in questa cella della prigione di Folsom, e mi fermo un attimo nella stesura di queste "Memorie", per ascoltare, nella calura pomeridiana, il tranquillante ronzìo delle mosche nell'aria stagnante. Non sono le mie mosche di San Quintino, e queste non mi conoscono per niente. Come compagni, nel reparto dei condannati a morte, non ho più Oppenheimer e Morrell; ma, alla mia destra, Giuseppe Jackson, il negro assassino, e alla mia sinistra Bambeccio, l'italiano omicida.


Nella mano, tengo la penna stilografica, alzata sulla carta, e penso che nel corso delle mie vite passate, altre mie mani hanno agitato dei pennelli, delle penne d'oca, e tutti i più strani e diversi strumenti di cui l'uomo, sin dalla più remota antichità, si è servito per scrivere...


Ma torniamo a San Quintino.


La distrazione procurata dalle conversazioni con i miei due compagni di carcere non durò a lungo. E ricominciai a soffrire per la mia solitudine e per la continua meditazione interiore.


Allora, per sfuggire al presente, tentai la strada dell'auto- ipnotismo. Ottenni soltanto un successo parziale. Il mio subcosciente, ritornando autonomo, si perdeva in vaneggiamenti incoerenti, in mille fantasie disordinate, degne tutt'al più di un semplice incubo.


Il mio metodo d'auto-ipnosi era semplicissimo. Seduto alla turca sul pagliericcio, fissavo un filo di paglia che avevo applicato sul muro, dove la luce era più viva. Fissavo a lungo questo punto brillante, a cui avvicinavo insensibilmente i miei occhi, finché le mie pupille si velavano. Contemporaneamente, lasciavo languire ogni altra volontà e mi abbandonavo a una sorta di vertigine, che non mancava mai d'impadronirsi di me. Veniva il momento in cui vacillavo. Allora chiudevo le palpebre e mi lasciavo inconsciamente cadere sulla schiena, sul pagliericcio.


Da questo momento, per un tempo che poteva variare da dieci minuti a mezz'ora, fino a un'ora, vagavo attraverso i ricordi sovrapposti delle mie riapparizioni vitali su questa terra. Ma tempi e luoghi si succedevano nella mia mente con eccessiva rapidità, confusamente e senza un ordine.


Tutto ciò che sapevo, quando rientravo in me, era che Darrell Standing era il filo che collegava fra loro tutte quelle visioni fantastiche, ondeggianti. Niente di più. Non riuscivo a vivere interamente nel tempo e nello spazio nessuno dei miei sogni, se così posso definire queste evocazioni allucinate.


Così, dopo un quarto d'ora circa dell'ipnosi, avevo l'impressione, quasi simultanea, di strisciare e grugnire nel fango primitivo, e di volare, in pieno secolo ventesimo, sul monoplano del mio amico Hoos. Rientrato nella realtà del carcere, mi ricordavo perfettamente che nell'anno precedente alla mia incarcerazione a San Quintino, avevo infatti volato con Hoos sopra il Pacifico, a Santa Monica. Al contrario, non ricordavo più di avere strisciato e grugnito nel fango primordiale. Ma ragionando, mi persuadevo che entrambe le azioni dovevano essere egualmente reali, dal momento che s'erano presentate tutte e due, contemporaneamente, alla mia memoria. Soltanto, una era più lontana dell'altra, e così il suo ricordo s'era offuscato, come ingiallito.


Che caleidoscopio di immagini, in quelle ore rubate alla mia triste realtà!


Mi sono seduto alla tavola dei grandi della terra, come buffone, scrivano e uomo d'armi, e Re io stesso, al posto d'onore, a capo del tavolo. Ho riunito, dietro le mura robuste del mio palazzo, il potere temporale, rappresentato dalla spada che avevo al fianco e dagli innumerevoli armati che avevo ai miei ordini, e il potere spirituale, di cui testimoniavano i monaci incappucciati e i grassi abati che sedevano alla mia tavola, bevendo il mio vino e rimpinzandosi del mio cibo. Talvolta, con voce grave, pronunciavo delle sentenze. Condannavo e imponevo la morte legale a degli uomini che, come Darrell Standing, avevano oltraggiato lo spirito eterno della legge.


Mi vedevo poi, alternativamente, mentre languivo portando intorno al collo il collare degli schiavi, in gelide regioni desolate; o, sotto le calde e profumate notti tropicali, amato da stupende principesse di sangue reale, mentre intorno degli schiavi negri agitavano con grandi ventagli l'aria sonnolenta. E fra il mormorìo delle fontane, sotto gli immobili rami delle palme, si udiva, in lontananza, il grido acuto degli sciacalli e il ruggito dei leoni.


E ancora... sperduto nelle desolate steppe dell'Asia mi scaldavo le mani davanti a grandi fuochi alimentati da escrementi secchi di cammello. E, quasi subito, mi ritrovavo nel torrido deserto d'Asia, sdraiato all'ombra tisica dei cespugli di salvia, maculati di sole, accanto a pozzi disseccati. Imploravo, con la lingua gonfia, una goccia d'acqua, mentre intorno a me si allineavano, classificate in capaci contenitori, ossa d'uomini e di bestie, calcinate dal sole...


Ero corsaro, assassino a pagamento e pirata, o monaco curvo su testi manoscritti, pergamene, enormi volumi, antichi e saturi di muffa.


Poi, di colpo, capo di barbari, comandante di orde urlanti, guidavo file innumerevoli di carri per strade impervie, e calpestavo il suolo di antiche città dimenticate. Mi battevo disperatamente, su quei campi di battaglia d'altre epoche. E nemmeno quando il sole calava oltre l'orizzonte, cessava la vermiglia carneficina. Continuava nelle ore della notte, al cospetto delle stelle che brillavano in cielo. E la freschezza del vento notturno bastava ad asciugare il sudore della battaglia.


Marinaio senza paura, arrampicato sulle sartìe che oscillavano sul ponte delle navi, amavo contemplare sotto di me l'acqua del mare, trasparente sotto il sole, in cui foreste rossastre di corallo tralucevano negli abissi color turchese. Poi, tornato al timone, conducevo la mia nave, con mano sicura, nel porto tranquillo, scintillante come uno specchio, nei golfi sereni, dove i flutti si spezzano eternamente, con rumore sordo, sui banchi a fior d'acqua dei coralli aggrovigliati.


Più prossima nella sua origine, un'altra vita trascorsa: quella dei giorni della mia infanzia. Ritornavo il piccolo Darrell Standing che correva a piedi nudi, nella fattorìa paterna, sull'erba umida della rugiada primaverile. O nei freddi mattini d'inverno portavo il fieno alle bestie, nella stalla tiepida del loro alito fumoso. E mi sembrava di sedermi, la domenica, dinanzi al predicatore, ascoltando con sgomento infantile i suoi discorsi immaginifici sulla felicità della Nuova Gerusalemme e sulle sofferenze orribili del fuoco eterno.


Da dove provenivano queste visioni, mentre nella mia cella mi sprofondavo in un torpore pesante dopo avere fissato un filo di paglia, luccicante in un raggio di sole?


Io, Darrell Standing, nato e cresciuto in un angolo isolato del Minnesota, già professore d'agronomia e poi galeotto incorreggibile a San Quintino, e oggi condannato a morte, nella prigione di Folsom; io, Darrell Standing, che fra poco morirò impiccato, non ho mai amato, in questa presente esistenza, delle figlie di re. Non sono mai stato sul trono, con la spada al fianco. Non ho mai navigato, né unito la mia voce a quella dei marinai.


Ma allora, come ho potuto conoscere tutte queste cose? Esse sono estranee alla mia esperienza in questa vita. Eppure, fluiscono dal mio cervello, come la parola "Samaria!" proruppe dalle mie labbra infantili, al cospetto di una semplice fotografia.


Dal nulla non nasce nulla. Come non mi era possibile creare dal nulla le trentacinque libbre di dinamite che il capitano Jamie e il direttore Atherton esigevano da me a ogni costo, così non posso aver costruito, in tutti i loro particolari, queste visioni accecanti. Esse erano in agguato e latenti nel mio spirito, e io non ho fatto altro che portarle alla luce del giorno.




7. L'ODIOSA TORTURA


Questa era la mia situazione, irritante e abnorme, dalla quale non riuscivo a evadere.


Sapevo che esisteva in me una Golconda di memorie latenti d'altre esistenze. Ma ero impotente a rovistare e a mettere in luce simili tesori. Malgrado i miei tentativi, non riuscivo che a barcollare malamente, come un ubriaco, in mezzo a questi ricordi.


Paragonavo il mio caso con quello del pastore Stainton Moses, che giurava sulla Bibbia di avere incarnato Sant'Ippolito, vescovo greco e martire, Plotino, filosofo neo-platonico, Atenedoro, filosofo stoico; e, più vicino a noi, Grocinio, un amico di Erasmo da Rotterdam. E non dubitavo minimamente che le asserzioni di Stainton Moses non fossero nel vero.


Le esperienze del colonnello francese De Rochas mi confermavano nelle mie convinzioni, oltre ad attirarmi in modo particolare. Ne avevo letto il racconto, quando ero ancora agli inizi in questa materia, negli intervalli che le mie antiche occupazioni mi concedevano. Egli raccontava che impiegando dei soggetti particolarmente idonei, nel corso del sonno ipnotico aveva penetrato le loro antiche personalità.


Così era stato per una certa Giuseppina, che abitava a Voiron, nel dipartimento dell'Isère. Egli l'aveva portata a rivivere la sua vita e le sue emozioni d'adolescente, poi la sua infanzia, l'epoca in cui succhiava ancora il latte, e quella in cui era ancora nel seno materno. Risalendo più indietro, era penetrato nelle sue incarnazioni viventi, in quella dove il suo essere, mescolando i due sessi, aveva animato un vecchio scorbutico, certo Gian Claudio Bourdon, ex soldato nel settimo reggimento d'artiglieria, a Besançon, dov'era morto all'età di settant'anni, paralitico. - OUI, OUI, PARFAITEMENT...


E il colonnello De Rochas, interrogando a sua volta la proiezione ipnotizzata di questo Gian Claudio Bourdon, l'aveva seguito fino alla radice della sua vita, palpitante nel segreto del seno materno. E così, seguendo questo esile filo, aveva trovato un'altra vecchia, Filomena Carteron...


Per quanto mi riguarda, non arrivavo a realizzare con altrettanta precisione le mie passate personalità. Preso dallo sconforto, finii con il persuadermi che solo la morte avrebbe riportato un po' di luce e di coerenza nel caos in cui mi dibattevo.


Ma la vita continuava a scorrere in me prepotentemente, e malgrado le sue sofferenze Darrell Standing si rifiutava ancora di morire.


Egli negava al direttore Atherton e al capitano Jamie il diritto di ucciderlo.


Ho sempre amato la vita, svisceratamente, e soltanto la forza vitale che era in me mi aveva permesso di esistere ancora. E per essa, soltanto per essa, ero ancora in questa cella, a mangiare e a bere malgrado tutto, a pensare e a scrivere queste pagine, in attesa dell'inevitabile corda che metterà fine all'attuale ed effimero spettacolo della mia esistenza.


Non è lontano il momento in cui penetrerò in questo mistero che mi tormenta, in cui saprò finalmente come dovevo agire, per vedere e sapere. Vi racconterò ogni cosa fra non molto...


Il direttore Atherton e il capitano Jamie ne furono indubbiamente la prima causa.


Dovevano aver subìto una recrudescenza di panico al pensiero della dinamite che credevano sempre nascosta in qualche posto del loro fetido regno. Un giorno ricomparvero nella mia cella e mi dissero senza complimenti che dovevo decidermi a parlare; altrimenti, la camicia di forza mi avrebbe accompagnato fino alla morte. Una morte che sarebbe stata annotata sui registri della prigione come dovuta a cause naturali, e i loro superiori avrebbero detto: AMEN.


Non ignoravo che cosa fosse la camicia di forza e tutto ciò che rappresentava di spaventoso, di dolore e d'agonìa. Avevo visto gli uomini più robusti cedere di schianto, alcuni di loro rimanere storpiati per tutta la vita, e quegli stessi che avevano resistito, fino ad allora, alla tubercolosi, deperire poi, e morire in sei mesi di questa stessa malattia.


Ho conosciuto personalmente Wilson, chiamato "l'uomo dagli occhi storti", che aveva un vizio cardiaco e che nel giro di un'ora era morto nella camicia di forza, mentre il medico della prigione lo osservava sorridendo. Ne ho conosciuto un altro che dopo mezz'ora confessò tutto quello che gli si voleva far dire, il falso come il vero, il che gli valse stima e fiducia, e una serie infinita di favori.


Infine, tocco con mano la mia esperienza. Mentre scrivo queste righe, il mio corpo è segnato da un migliaio di cicatrici. Esse mi seguiranno sino al palco fatale.


Ma lasciate che vi spieghi un po' in che cosa consiste questa camicia di forza. Allora comprenderete come, immerso nella sofferenza, io sono fuggito vivente da questa vita; e diventato padrone dello spazio e del tempo, ho potuto volare fuori delle mura della gehenna, fino alle stelle.


Suppongo che voi abbiate già visto dei grossi copertoni di tela ruvida o di caucciù, i cui orli sono forniti di solidi occhielli di rame. Immaginate dunque una di queste tele, lunga all'incirca quattro piedi e mezzo. La sua larghezza non raggiunge completamente la circonferenza d'un corpo umano, di cui la tela segue press'a poco la sagoma. Così è più larga alle spalle e ai fianchi, più stretta al petto e alle gambe.


La tela è distesa per terra. Il prigioniero che dev'essere punito, o torturato perché confessi, riceve l'ordine di distendervisi sopra, bocconi. Se rifiuta viene picchiato. Allora, obbedisce.


L'uomo è dunque bocconi. Gli orli della camicia di forza vengono avvicinati uno all'altro, in modo da congiungersi lungo la schiena. Una corda, che funziona come il laccio d'una scarpa, viene passata attraverso gli occhielli, e l'uomo viene stretto dentro la tela.


A volte, se gli aguzzini sono crudeli di natura, o quando l'ordine viene dall'alto, essi operano una legatura più stretta, mettendo il loro piede sulla schiena dell'uomo, e puntandovi contro, mentre stringono.


Ricordo ancora la prima volta in cui fui costretto a subire il supplizio della camicia di forza. Era all'inizio della mia incorreggibilità.


Il pretesto, come testimoniano i registri della prigione, era che il mio lavoro nel laboratorio della juta era scarso e mal fatto.


Era un pretesto idiota, naturalmente.


Mi portarono nei sotterranei, e mi ordinarono di stendermi sulla tela, faccia a terra. Rifiutai. Uno degli aguzzini, un certo Morrisson, premette i suoi pollici sulla mia carotide. Un altro, Mobins, anch'egli galeotto ma diventato uomo di fiducia, mi colpì ripetutamente con i pugni. Fui costretto a cedere, e feci quello che mi comandavano. La mia resistenza non era andata a genio ai miei carnefici; per questo, strinsero i lacci più forte. Poi mi rotolarono sulla schiena, come avrebbero fatto con un tronco di legno. Andandosene, richiusero la porta della cella, misero i chiavistelli, e mi lasciarono nella più completa oscurità. Erano le undici del mattino.


Per qualche minuto, provai soltanto una scomoda costrizione di tutto il corpo, che pensai si sarebbe attenuata quando mi ci fossi abituato.


Ma avvenne esattamente il contrario. Il mio cuore si mise a battere con violenza, mentre i polmoni sembravano diventati impotenti ad assorbire l'aria necessaria per permettermi di respirare. Questa sensazione di soffocamento era terribile.


Dopo una mezz'ora, incominciai a gridare, a lanciare urli di terrore, a ruggire, in una autentica demenza di agonizzante. Il dolore, dallo stato sordo, era passato a quello acuto. Mi credevo investito da una pleuresìa artificiale, e il cuore sembrava dover cedere da un momento all'altro.


Morire di colpo è niente. Ma questo tipo di morte, lenta e raffinata, era spaventoso. Mi sentivo come una belva presa in trappola, e scoppiavo, dopo brevi pause di silenzio, in nuovi urli e gemiti. Poi mi persuasi che tutto ciò non faceva che aggravare il mio stato, consumando ancor più l'aria rarefatta dei miei polmoni.


Tacqui ordinando a me stesso di restare tranquillo. Vi riuscii, a forza di volontà, per un periodo di tempo che mi parve eterno ma che in effetti non superò il quarto d'ora. Poi fui sommerso da una vertigine, il cuore si mise a pulsare come se volesse fare scoppiare la tela; semi-asfissiato, persi ogni controllo di me.


Ricominciai a urlare, chiamando soccorso.


Nel pieno della crisi, udii una voce che proveniva dalla cella vicina. Filtrava attraverso lo spessore dei muri e mi giungeva appena.


- Sta' zitto! - diceva. - Mi stai scocciando, hai capito?


- Muoio!... - gridai.


- Non è niente... Lascia perdere! - fu la risposta.


- Sto per morire... - ripetei.


- Allora, di che ti lamenti? - ribatté la voce. - Quando sarai crepato, non soffrirai più... E del resto, grida, se ti piace, ma non così forte! Ti chiedo soltanto di lasciarmi dormire...


Una così stolida indifferenza mi irritò, e ripresi il dominio dei miei nervi. Non articolai più che dei gemiti soffocati. Questa nuova fase durò anch'essa un'eternità. Forse dieci minuti. E i miei tormenti presero un'altra direzione.


Adesso erano degli aghi che mi bucavano da tutte le parti. Poi le punture cessarono, e furono sostituite da un intorpidimento generale, che mi sembrò mille volte più spaventoso. Ricominciai a urlare.


E il mio vicino ricominciò a protestare.


- Accidenti, non si riesce a chiudere un occhio!... Ti assicuro che io non sto meglio di te... La mia camicia è stretta come la tua!


- Da quanto tempo sei dentro? - chiesi.


- Dall'altro ieri.


- Dall'altro ieri nella camicia di forza?


- Precisamente, fratello.


- Oh, Dio mio!


- Ma sì, fratello. Da cinquanta ore di seguito. Eppure non mi lamento e non urlo. Mi hanno legato puntando i piedi sulla mia schiena. Sono conciato con i fiocchi, puoi credermi! Non sei il solo a trovarti così. Ti lamenti, e non è ancora un'ora che ci sei dentro...


Protestai:


- Ti sbagli, sono un mucchio di ore.


- Fratello mio, te lo immagini. Sei in buona fede, ma non è così.


Ti assicuro che non è ancora un'ora: li ho sentiti quando ti legavano.


Mi sembrava impossibile. In meno di sessanta minuti ero già morto mille volte...


Domandai:


- Per quanto tempo ti terranno qui?


- Dio solo lo sa. Il capitano Jamie ce l'ha con me. Non mi farà sciogliere prima che sia in agonìa. E adesso io ti do un buon consiglio. La cosa migliore da fare, è di chiudere gli occhi e dimenticare. Gridare non serve a niente. Cerca di pensare ad altro; per esempio, a tutte le donne che hai avuto: passerai il tempo. Se ti senti girare la testa, lasciala girare. Sarà tutto tempo guadagnato. E quando avrai finito con le tue donne, pensa a tutti i bastardi che hanno tentato di soffiartele. Pensa un po' a quello che avresti fatto se ti fossero capitati sotto le mani...


L'uomo che mi parlava in questo modo si chiamava Filadelfia Red.


Era un recidivo che scontava cinquant'anni di galera per rapina a mano armata, in piena via d'Alameda. Ne aveva già fatto dodici.


Era tra i congiurati traditi da Cecil Winwood. Se riuscirà a sopravvivere, il giorno in cui verrà rimesso in libertà sarà ormai un vecchio.


Trascorsi, senza morirne, le mie ventiquattr'ore di camicia di forza. Ma devo aggiungere che dopo d'allora non mi sono mai più sentito lo stesso uomo. E non parlo tanto del mio stato fisico.


L'indomani mattina, quando mi sciolsero, ero mezzo paralizzato e mi trovavo in un tale stato di debolezza che i guardiani dovettero darmi dei calci nelle costole per farmi rialzare sulle quattro zampe. Ma soprattutto ero cambiato dentro, moralmente e mentalmente.


Il trattamento che avevo subìto mi umiliava e mi rivoltava al tempo stesso. Avevo smarrito il senso della giustizia. L'amarezza e l'odio si erano introdotti nel mio cuore; e da allora, con il passare degli anni, si sono sempre più ingigantiti.


Quella mattina, non pensavo certamente che sarebbe venuto un giorno in cui ventiquattr'ore di camicia di forza non sarebbero state niente per me; che, terminate, cento ore di questa stessa tortura mi avrebbero trovato sorridente; che duecentoquaranta ore dello stesso trattamento mi avrebbero fatto egualmente sorridere!


Sì, duecentoquaranta ore. Dieci giorni e dieci notti! Tu scrolli le spalle, caro lettore, certo che in nessuna parte del mondo civile, millenovecento anni dopo la venuta di Cristo, simili orrori possono accadere. Non sforzarti di crederlo. Non lo credo io stesso. So solo che io li ho subiti a San Quintino, e che sono sopravvissuto, per sghignazzare in faccia ai miei carnefici e costringerli a liberarsi di me, con l'aiuto d'una corda e d'una forca; con il pretesto che io, con un pugno, ho fatto sanguinare il naso a uno di loro. Scrivo queste pagine nell'anno del Signore 1913; e in questo stesso anno, nelle celle di San Quintino, ci sono altri uomini, legati nella camicia di forza, come lo fui io.


Non dimenticherò mai, né in questa vita, né in quelle che seguiranno, l'addio di Filadelfia Red, quando lo liberarono, quel mattino, insieme a me, dopo settantaquattr'ore di camicia di forza.


Mentre mi spingevano, barcollante, nel corridoio, egli mi gridò:


- Che ti dicevo? Non sei morto, e ti muovi ancora!


- Silenzio, Red - brontolò il sergente.


- Dimentica questo brutto quarto d'ora! - riprese Red.


Il sergente minacciò:


- Red, ti metto a posto io!


- Davvero? - chiese Red, con strana dolcezza.


Poi, la sua voce si fece roca e selvaggia:


- Sei un buono a niente, un bruto! Da solo saresti stato incapace di guadagnarti il pane, e meno ancora di avere il posto che occupi qui. E' tuo padre, che ti ha dato lo spintone. E lo sanno tutti con quali sporchi sistemi tuo padre è riuscito a farsi i quattrini!


La scena era di una grandezza esaltante. L'uomo colpito e torturato si elevava al di sopra del suo carnefice e sfidava l'odio a cui si esponeva.


Poi, rivolgendosi a me:


- Arrivederci, fratello! - disse Red. - Arrivederci, e cerca di fare il bravo, d'ora in poi. Mi raccomando, ama il nostro direttore... Se lo incontri digli che m'hai visto, e che non sono cambiato per niente...




8. LA DINAMITE O LA MORTE


Sono qui, nella mia cella numero 1, alla mercé di rinnovate minacce da parte del direttore Atherton e del capitano Jamie.


- Standing , - mi disse il direttore, - bisogna farla finita una volta per sempre con questa dinamite, o ti faccio morire in camicia di forza! Altri, più in gamba di te, hanno finito per confessare, prima che fosse troppo tardi. Devi scegliere. La dinamite, o crepare!


- Io non ne so niente, della dinamite!


Il direttore fece un cenno, e la tela fu stesa per terra.


- Sdraiati, Standing! - ordinò.


Obbedii. Ormai sapevo che era una vera follia resistere a tre o quattro energumeni riuniti. Fui legato. Cento ore da fare. Ogni ventiquattr'ore, un bicchiere d'acqua. Di cibo, non avevo nessuna voglia, e del resto non me ne diedero. Verso la fine della centesima ora, il medico del carcere, il dottor Jackson, esaminò, più di una volta, le mie condizioni fisiche.


Ma ormai mi ero già troppo abituato alla camicia di forza perché cento ore di quella tortura potessero danneggiare seriamente la mia costituzione. Per non parlare poi dei sotterfugi muscolari che l'esperienza mi aveva fatto scoprire e che mi permettevano di rubare un po' di spazio, mentre mi legavano.


Dopo ventiquattro ore che mi vennero accordate per recuperare le forze, mi fu inflitta una seconda punizione, di centocinquanta ore. Ne derivò un intorpidimento generale, e per il mio cervello un incosciente abbrutimento. Riuscii a strappare al tempo delle ore di sonno.


Poi il direttore Atherton escogitò alcune varianti alla cura.


Ossia, a intervalli, la camicia di forza e un po' di riposo. A volte riposavo per dieci ore e ne facevo venti legato; oppure non mi lasciavano che quattro ore per riprendere fiato. In piena notte quando meno me l'aspettavo, la porta della mia cella si apriva e la squadra di turno mi legava. Oppure, per tre giorni e tre notti consecutive, otto ore del supplizio si alternavano regolarmente con otto ore di riposo. E, proprio quando cominciavo a fare una certa abitudine a questo ritmo, i miei aguzzini lo modificavano improvvisamente, infliggendomi, d'un colpo, due giorni e due notti di camicia di forza. E, sempre, tornava a galla l'eterna domanda:


- Dov'è la dinamite?


E sempre, non sapendo più a quale santo votarsi, il direttore Atherton passava dalla collera più sfrenata alla supplica più patetica.


Il dottor Jackson, che di medicina doveva intendersene piuttosto poco, non nascondeva il suo scetticismo sul risultato del trattamento usato nei miei confronti. Egli insisteva nel dire che la camicia di forza non sarebbe mai riuscita a uccidermi. Più si intestardiva in questa opinione, e più il direttore Atherton si ostinava al gioco e continuava.


- I tipi di questo genere, - diceva, - sono duri a morire. Ma io sarò ancora più duro. Senti, Standing: quello che hai passato finora non è che un gioco da ragazzi di fronte a ciò che t'aspetta! Sai che io sono un uomo di parola. Te l'ho già detto:


"La dinamite, o la morte!". E te lo confermo ancora una volta. A te la scelta.


Mentre "Faccia di torta", con i piedi puntati sulla mia schiena, stringeva forte, e io gonfiavo i muscoli al massimo per guadagnare un po' di spazio ai miei polmoni, balbettai:


- Vi ripeto che non c'è niente da confessare. Mi taglierei la mano destra, pur di portarvi verso una dinamite qualunque, se sapessi dov'è.


Atherton sogghignò:


- D'accordo... Ne ho già visti degli altri, con la testa dura come la tua. Sei come i cavalli selvaggi: più si battono e più recalcitrano... Jones, stringi ancora un po'... Un occhiello di più! Standing, se non confessi ci lascerai la pelle. E' una promessa.


Durante questo trattamento, imparai varie cose. Più l'uomo s'indebolisce, meno sente il dolore. In un corpo debole la sofferenza si attenua. E man mano che l'energia vitale si prosciuga, le reazioni diventano meno violente. Così successe anche a me. Diventai, a poco a poco, una specie di larva inerte, che si ostinava a vivere.


Morrell e Oppenheimer, che sapevano bene a quale trattamento ero sottoposto, erano addolorati per me. Mi mandavano, con continui picchiettii, i loro consigli e i segni della loro simpatia.


Oppenheimer mi assicurava che aveva subito ancora di peggio, eppure non ne era morto.


- Non permettere che ti dominino, Standing! - mi diceva con le dita. Tieni duro, e non lasciarti morire. Sarebbero troppo contenti, quei porci. E soprattutto non parlare !


Nella mia camicia di forza, non potevo rispondere che con il piede. Con la punta della scarpa, picchiettai la risposta:


- Ti ho già detto che non posso dire niente... Non so niente, niente di niente.


- Inteso e capito! - approvò Oppenheimer.


E continuò, rivolto a Morrell:


- Questo Standing è fantastico!


Come potevo arrivare a convincere il direttore Atherton, dal momento che lo stesso Oppenheimer non faceva che ammirare la mia forza d'animo nel conservare il presunto segreto ?


Quando riuscivo a dormire, incominciavo subito a sognare. Fondati su una base reale, questi sogni mi riconducevano sempre alla mia antica professione di agronomo...


Parlavo davanti a un'assemblea di scienziati, riuniti per ascoltarmi. Leggevo delle relazioni... E, quando mi svegliavo, il sogno era stato così preciso che mi sembrava ancora di sentir risuonare la mia voce.


Oppure vedevo distendersi davanti ai miei occhi delle immense terre coltivabili, molto simili a quelle della California, con la loro flora e la loro fauna. E in tutti i miei sogni mi muovevo sempre in questo scenario...




9. VOLONTA' DI MORIRE


Non è poi poi una cosa facile dominare il dolore fisico con la sola forza d'animo, mantenere la mente serena a tal punto che dimentichi completamente l'atroce urlio dei nervi torturati. Ma ho imparato a subire passivamente il dolore, senza dubbio come tutti coloro che sono passati attraverso le diverse fasi della camicia di forza.


Una notte, mentre stavo per essere slegato dopo cento ore di trattamento, udii picchiettare. Era Morrell.


- A che punto sei? - mi chiedeva. - Sempre fermo?


Risposi:


- Mi sembra di non esistere che a tratti. Avranno la mia pelle, se continuano così..


- Non dar loro questa gioia! - replicò Morrell. - C'è un sistema... L'ho provato io stesso durante un periodo di cella in cui avevo per vicino Massie. Tutti e due in camicia di forza... Io tenni duro, mentre Massie urlava come se lo scannassero. Se non avessi conosciuto il trucco, avrei fatto come lui. Ecco in che cosa consiste: prima di tutto, per provarlo, bisogna essere in uno stato di debolezza estrema. Se si tenta quando si è ancora abbastanza forti, non riesce, e poi non se ne vuol più sentir parlare. E' il caso di Jake. Stava troppo bene, così non ci riuscì. Più tardi, quando il mio sistema gli sarebbe andato a pennello, non era più il caso. Per questo adesso lo nega e dice che gli racconto delle storie. Non è vero, Jake?


Dalla cella numero 13 Oppenheimer picchiettò:


- Non dargli retta, Darrell! E' un sistema che non funziona...


- Morrell, - picchiai con le dita, - spiegamelo lo stesso.


- Ecco di che si tratta. Bisogna morire artificialmente... Non capisci? Pazienza! Ascoltami bene: quando sei nella camicia di forza, le tue braccia, le gambe e altre parti del corpo s'intorpidiscono, non le senti più. S'intorpidiscono da sole, senza la tua volontà. Ma prendi come base questo esempio, e cerca di migliorarlo. Devi fare così: stenditi sulla schiena e subito, prima che le braccia o le gambe abbiano perso la sensibilità, comincia a far agire la tua volontà. Ma, ricordati, devi aver fede. Sennò, non c'è niente da sperare. Devi credere con tutte le tue forze che il tuo corpo è una cosa, e la tua anima un'altra. La tua anima è tutto. Il tuo corpo, non conta. T'ingombra soltanto. E la tua anima ordina di morire. Cominci l'operazione dal pollice dei piedi. Li fai morire, uno dopo l'altro; poi tutte le altre dita dei piedi. Tu ordini loro di morire. E se hai fede e volontà, moriranno. Naturalmente l'inizio è la parte più difficile. Quando il primo dito è morto, il resto diventa facile. Perché allora, per credere, non dovrai più tormentarti il cervello. La tua volontà agirà senza fatica per tutto il resto del corpo. L'ho provato già tre volte, e mi è sempre riuscito. La cosa più curiosa è che mentre il tuo corpo sta morendo, il tuo spirito rimane sempre lucido, presente. La tua personalità permane. Dopo i piedi, sono le tue gambe che muoiono. Poi i ginocchi; poi le cosce. E man mano che la morte sale, tu continui a essere Darrell Standing. Solo il tuo corpo si annulla, pezzo per pezzo.


Gli chiesi:


- E dopo, che succede?


- Quando tutto il corpo è morto, e il tuo spirito si sente integro, non hai che da uscire dalla tua pelle e lasciare la tua carcassa alle tue spalle. E lasciarla significa abbandonare anche la cella. I muri e le porte possono rinchiudere il corpo, non l'anima.


Oppenheimer batté la sua risata.


- Ah! ah! ah!


- Lo senti? - rispose Morrell, - continua a non credere. Quella volta che ha provato era ancora troppo forte per riuscirci.


- Quando si è morti, si è morti e basta! - ribatté Oppenheimer. - I morti non ritornano in vita.


- Io sono morto tre volte...


- Hai voglia di scherzare!


Morrell non insisté e continuò a parlarmi.


- Non dimenticare, Darrell, che l'operazione non è difficile. Ci sono dei rischi. Io, per esempio, ho sempre avuto la sensazione che se fossero venuti a togliere il mio corpo dalla mia cella, mentre la mia anima se n'era uscita, non sarei più stato capace di rientrarci dentro... Ma torniamo a noi. Una volta che sei riuscito ad abbandonare il tuo involucro materiale, che ti lascino nella camicia di forza, uno o più mesi non ha più nessuna importanza.


Non soffri più... Ci sono stati dei tipi che sono rimasti in letargo per un anno. E così sarà del tuo corpo. Resterà per terra, stretto nella tela, aspettando il tuo ritorno. E' la sola via da seguire. Prova, Darrell.


- E se non ritorna nel suo corpo? - chiese Oppenheimer.


- Allora è evidente che non c'è più nulla da dire...


Qui la conversazione finì..


Rimasi per ore disteso sulla schiena, nel silenzio e nel buio, dimenticando persino le mie sofferenze, mentre riflettevo a quanto mi aveva detto Morrell.


Giunsi alla conclusione che l'esperienza valeva almeno la spesa di un tentativo. L'uomo di scienza che era in me rimaneva scettico.


Ma ebbi la volontà sufficiente per credere. Ebbi fede. E riuscii.


Come vi racconterò.




10. UN SORRISO A OGNI COSTO


Il mattino dopo (e fu questo che mi fece decidere), il direttore Atherton entrò nella mia cella con delle chiare intenzioni nei miei riguardi.


Era accompagnato dal capitano Jamie, dal dottor Jackson, da "Faccia di torta" e da un certo Hutchins.


Hutchins, che stava scontando una condanna a quarant'anni, faceva di tutto per essere graziato. Era il capo dei cosiddetti uomini di fiducia.


I propositi del direttore apparirono subito evidenti.


- Esaminatelo, - ordinò al dottor Jackson.


Fui costretto a spogliarmi, e quel miserabile aborto mi strappò con le sue mani la camicia, incrostata di sudiciume, che portavo fin dalla mia entrata in cella d'isolamento. La mia pelle era grinzosa, incartapecorita. E in tutti i punti, straziata da piaghe e da cicatrici lasciate come ricordo dalle numerose punizioni con la camicia di forza.


L'esame era una pura formalità e venne condotto con una spudorata ipocrisia.


- Resisterà? - domandò il direttore Atherton.


- Sì, - rispose il dottore.


- E il cuore?


- Magnifico.


- Ritenete che possa sopportare senza eccessivo danno dieci giorni consecutivi di camicia di forza?


- Certamente.


Il direttore Atherton sogghignò.


- Ebbene, - disse, - io non ci credo. Ma questo non c'impedirà certo di tentare l'esperimento.. A terra, Standing!


Obbedii, sdraiandomi con la faccia a terra, sulla tela già pronta.


- Avvolgiti dentro! - ordinò.


Tentai di farcela, ma la mia debolezza era giunta a tal punto che non riuscii ad avvoltolarmi bene.


- Bisogna aiutarlo, borbottò il dottor Jackson.


Atherton scrollò le spalle.


Ben presto non avrà più bisogno d'aiuto, disse. - Va bene! Dategli una mano. Ho altro da fare, io, che perdere qui il mio tempo.


Venni legato, poi voltato sulla schiena. Fissai Atherton, che continuava a sogghignare.


- Standing, - disse lentamente, - ho esaurito tutta la mia pazienza, con te. Ora basta! Sono stufo della tua testardaggine.


Il dottor Jackson afferma che sei in condizioni di sopportare dieci giorni di camicia di forza. Pensaci bene: dieci giorni sono lunghi... Ma ti voglio offrire una via d'uscita. Dimmi dove si trova la dinamite. Appena sarà nelle mie mani lascerai questa cella. Potrai prenderti un bagno, raderti, e metterti dei vestiti puliti. Ti farò avere sei mesi di riposo, e col vitto dell'infermeria. Dopo, sarai addetto alla Biblioteca. Più gentile di così si crepa! Parlando, non tradisci nessuno. Tu sei il solo, a San Quintino, che sa dov'è la dinamite. E nessuno dei tuoi compagni ci andrà di mezzo. Se parli, hai tutti i vantaggi. In caso contrario...


Vi fu un attimo di silenzio, e il direttore fece un gesto piuttosto significativo.


- In caso contrario... ricomincerai immediatamente i tuoi dieci giorni di camicia di forza.


Era una prospettiva orribile. Mi sentivo così debole da essere certo che questi dieci giorni equivalevano per me a una condanna a morte.


In quell'attimo tremendo, mi ricordai del sistema Morrell. Era giunto il momento di metterlo in pratica. Non abbassai lo sguardo e sorrisi al direttore Atherton.


- Signor direttore! Osservate il mio sorriso, - dissi. - Se fra dieci giorni, quando mi slegherete, lo vedrete ancora sulle mie labbra, siete disposto a regalarmi un buon pacchetto di tabacco, e altri due a Morrell e a Oppenheimer ?


- Questi intellettuali! - brontolò il capitano Jamie. - Si credono superiori a tutti gli altri... Orgogliosi come principi.


Il direttore Atherton prese la mia proposta per una presa in giro e gridò:


- Questo, Darrell, ti frutterà un occhiello di più!


- Ho parlato seriamente, signor direttore... - risposi, conservando tutta la mia calma. - Potete farmi stringere quanto vi piace. Se, fra dieci giorni, ho ancora questo sorriso... darete a noi tre, io, Morrell e Oppenheimer, i tre pacchetti di tabacco?


Rispose:


- Sembri sicuro di te!


- E' la fede che è ancora nel mio cuore, direttore.


- Allora ti sei convertito? - ghignò.


- Naturalmente... Ritengo di possedere più vita di quanto non crediate, e che di questa vita non riuscirete a vedere la fine. Se lo credete opportuno datemi pure cento giorni di camicia di forza.


Dopo cento giorni, guardandovi, sorriderò ancora.


- Cento giorni... Dopo dieci, avrai dato le tue dimissioni da questo mondo!


- Se la pensate così, promettetemi i tre pacchetti di tabacco. Che cosa rischiate?


- Vuoi invece un pugno sulla faccia?


- Se vi fa piacere, accomodatevi pure, - replicai, sempre con la stessa voce soave. - E picchiate forte, mi raccomando! Anche ridotta in poltiglia, la mia faccia continuerà a sorridere.


Coraggio, non abbiate timore... Ma accettate la scommessa.


La rabbia del direttore aveva raggiunto un tale livello, che m'avrebbe fatto ridere, se la mia situazione non fosse stata così precaria. Aveva il viso stravolto, stringeva i pugni, e stava per saltarmi addosso.


Ma riuscì a dominarsi.


- Basta, Standing! Domeremo anche te. E lasciando da parte il tabacco, sono pronto a farmi tagliare la mano, se fra dieci giorni sorriderai ancora... Avanti, ragazzi, stringetelo ancora, finché sentite scricchiolare le ossa! Hutchins, fagli vedere come sai fare.


L'uomo di fiducia mi dimostrò, senza dubbio possibile, la sua abilità. Come al solito, tentai di guadagnare spazio contraendo i muscoli. Ma, oltre a essere ormai troppo magro per ottenere un buon risultato, fui giocato anche da Hutchins, che aveva imparato da tempo tutte le astuzie della camicia di forza.


In realtà, quello di Hutchins fu nei miei confronti un vero e proprio tentato omicidio. Col piede puntato sulla mia schiena, tirava il laccio sempre di più; si fermava, poi tirava ancora. Era come se la mia carcassa dovesse cedere da un momento all'altro sotto quella tremenda pressione, e mi sembrava che tutti i miei organi vitali si disintegrassero. Sapevo che non sarei morto, sì lo sapevo, eppure mi sembrava che la morte fosse china su di me.


La testa mi girava, il sangue pulsava follemente nelle arterie e le vene, dalla punta delle dita dei piedi fino alla radice dei capelli.


- E' stretto abbastanza, - disse a malincuore il capitano Jamie.


- Lo credo anch'io, - dichiarò il dottor Jackson.


Il direttore si chinò su di me. Sforzandosi, riuscì a inserire il suo indice fra la tela e la mia schiena. Ma non riuscì a stringermi di un millimetro in più. - Hutchins, - disse, - mi congratulo con voi! Ve ne intendete davvero. E adesso giratelo, così vediamo il suo grugno.


Mi voltarono sulla schiena.


Il direttore Atherton sogghignò:


- Ridi un po' adesso, se ci riesci ! Sorridi se puoi...


I miei polmoni schiacciati bramavano soltanto un filo d'aria. Il mio cuore minacciava di scoppiare. La mia mente vacillava.


Tuttavia, un leggero sorriso all'indirizzo del direttore Atherton prese forma sulle mie labbra.




11. ATTRAVERSO LE STELLE


La porta si richiuse lasciandomi solo, sdraiato come al solito sulla schiena.


Grazie ad alcuni trucchi escogitati nelle precedenti sedute, riuscii, torcendomi come un serpente, ad arrivare con l'estremità della mia scarpa fino a un muro della cella. Non ero già più completamente solo. Se volevo, potevo parlare con Morrell e Oppenheimer.


Ricordo che in quell'ora la serenità del mio spirito era totale.


Essa andava oltre le sofferenze del mio corpo sopportate passivamente. E a questa serenità si univa una specie di esaltazione verso il sogno, che era al suo parossismo. E più che mai mi sentivo pronto per affrontare la grande prova.


Concentrai su di essa tutti i miei pensieri. Puntai la mia volontà verso il pollice del mio piede destro. Gli ordinai di morire. Ed esso morì.


Tutto il resto, come aveva detto Morrell, fu facile. L'operazione risultò lenta, ma uno dopo l'altro, le dieci dita dei miei piedi cessarono, non furono più. Poi, membro dopo membro, giuntura dopo giuntura, la morte continuò ad avanzare, progressiva.


Essa salì al collo del piede, poi fino alle gambe e ai ginocchi.


Era tale la mia concentrazione che non conobbi neppure la gioia del successo. Avevo un solo obiettivo: ordinare al mio corpo di morire, ed esso obbediva.


Non era trascorsa un'ora, e la morte aveva raggiunto i miei fianchi, e io seguitavo a volere che salisse ancora, sempre più su.


Quando raggiunse il cuore, il mio essere cosciente cominciò a oscurarsi, mentre le prime vertigini mi assalivano. Temendo che si smarrisse del tutto, indirizzai la mia volontà verso il cervello, che si rischiarò nuovamente. Poi, ordinai di morire alle mie spalle, alle mie braccia, alle mani.


Nel mio corpo, le sole cose viventi erano ormai il mio cranio e una minuscola parte del mio petto. Il battito del cuore era quasi cessato. Batteva ancora, regolarmente, ma con estrema debolezza.


Il mio stato era molto simile a quello che si può rilevare in un uomo che si trovi sulla frontiera tra veglia e sonno. Ed era come se il mio cervello si dilatasse prodigiosamente nella mia scatola cranica. A tratti, bagliori di luce, simili a lampi, mi invadevano le pupille.


Questa dilatazione del cervello mi lasciava perplesso. Mi sembrava che i suoi lembi estremi non solo superassero la cavità del mio cranio, ma che continuassero addirittura a estendersi.


Contemporaneamente, si espandevano intorno a me il tempo e lo spazio. Avevo gli occhi chiusi, e tuttavia avevo la coscienza precisa che i muri della cella si fossero spostati, al punto che essa formava ora un vasto salone. Per un attimo, pensai che se i muri della prigione si fossero comportati nello stesso modo, sarebbero arrivati ben più in là di San Quintino, per prolungarsi, da una parte, fino all'Oceano Pacifico, e dall'altra fino alle Montagne Rocciose.


Anche l'espansione del tempo era notevole. Il mio cuore non batteva che a lunghi intervalli. Provai a contare i secondi fra una pulsazione e l'altra. Calcolai, come intervallo, fino a cento secondi. Poi mi sembrò che le pause si dilatassero smisuratamente, tanto che mi stancai di calcolarle.


A questo punto, iniziai l'ultima parte dell'operazione, come mi aveva detto Morrell...


Cominciai con la la piccola parte del mio petto ancora viva e con il cuore. La concentrazione della mia volontà ottenne subito il suo effetto. Il cuore cessò di battere.


Non fui più che un puro spirito, un'anima, una coscienza morale.


Chiamatela come volete questa cosa senza nome, che occupava sempre un punto del mio cranio, ma che continuava a espandersi, ad andare oltre.


E arrivò l'istante in cui mi sciolsi dalla terra e partii. D'un solo balzo, mi trovai oltre il tetto della prigione, nel cielo della California, e fui tra le stelle...


Le stelle. Vagavo fra esse. Ero un adolescente, vestito con un abito dai colori delicati, che brillava dolcemente alla fredda luminosità stellare. Uno strano vestito, il mio... Una reminiscenza di quelli che nella mia infanzia avevo visto indossare alle cavallerizze dei circhi, e di quello che portavano gli angeli. Così mi avevano insegnato.


Percorrevo lo spazio interstellare, tenendo in mano una luccicante bacchetta di cristallo, e avevo la consapevolezza interiore che doveva toccare ogni stella, quando le passavo davanti. E non meno precisa era in me la certezza che se avessi evitato di toccarne una, una sola, sarei precipitato nell'abisso senza fondo dei castighi eterni.


A lungo, camminai fra le stelle. Mi parve di errare per secoli nello spazio, con l'occhio attento e la mia bacchetta in mano, con la quale toccavo, senza mai mancarne uno, tutti gli astri che incontravo sulla mia strada.


La via celeste si accendeva sempre più di uno splendore abbagliante. E vedevo avvicinarsi la meta inebriante dell'infinita sapienza. Ma la mia personalità non si era annullata.


Ero perfettamente cosciente che ero io, Darrell Standing, che camminavo fra le stelle, con una bacchetta di cristallo in mano.


Mi rendevo anche conto che vivevo nell'irreale, che il mio sogno non era che una proiezione fantastica della mia immaginazione, simile alle fantasie provocate dalle droghe. A un tratto, nel tentativo di toccare una stella, sbagliai; e il colpo andò a vuoto. Compresi subito che l'inevitabile era vicino... E sentii un colpo, come una mano che bussava...


L'intero sistema astrale esplose, vacillò sul suo piedestallo, e precipitò in fiamme. Provai una sofferenza atroce che mi dilaniava. Un attimo dopo, non ero più che Darrell Standing, il galeotto che giaceva sul pavimento della sua cella, nella camicia di forza.


Un altro colpo, questo battuto da Morrell, e che indicava qualche messaggio urgente, mi fornì immediatamente la spiegazione del mio brusco ritorno su questa lurida terra.


Più tardi, chiesi a Morrell qualche altra informazione. Seppi così che già una prima volta aveva battuto contro la parete queste parole:


- Standing, sei ancora lì?


Attenzione, amico lettore! Proprio in quell'istante partivo per la mia escursione stellare, con il mio abito lieve; e con la bacchetta in mano, correvo verso il mistero supremo della Vita.


Non risposi.


Morrell, un minuto dopo, non ricevendo risposta, ripeté la domanda. Fu così che avvenne l'orribile richiamo alla terra, la tortura atroce, e il mio ritorno nella cella di San Quintino. Tra la prima e la seconda domanda di Morrell, non era trascorso più di un minuto. E io avevo creduto di vagare per interi secoli, attraverso le stelle!


Questa era la realtà: ero diventato incapace di riprendere la mia corsa attraverso il cielo. Il picchiettio di Morrell mi tratteneva nuovamente al mondo d'orrore da cui ero fuggito. Cercai di rispondergli per pregarlo di cessare con le sue domande. Ma invano. Ero talmente svincolato dal mio corpo che questo non mi obbediva più. Giaceva morto, sul pavimento della cella, e io non ne occupavo che una piccola parte: il cranio. Comandai al mio piede di battere il mio messaggio. Si rifiutò. La mia ragione continuava a dirmi che possedevo un piede. Eppure, in pratica, non avevo più piedi.


Quando Morrell la smise con il suo picchiettio, vedendo che non rispondevo, la gioia mi travolse.


Ed evasi nuovamente dalla mia prigione.




12. LA CAROVANA VERSO L'OVEST


La prima sensazione che mi avvolse fu quella d'una nuvola di polvere. Acre e secca, mi saliva per le narici, copriva il mio viso, le mie mani...


Intorno a me tutto oscillava in ampie ondate. Gli urti e le spinte si susseguivano, mentre udivo uno stridere di perni, il gemere delle ruote su un terreno a volte sabbioso, a volte pietroso. Mi giungevano anche delle voci di uomini stanchi che imprecavano al ritmo lento e ottuso delle bestie.


Ero un ragazzo dagli otto ai nove anni e mi sentivo sfinito come la donna dal viso coperto di polvere, seduta accanto a me, che invano tentava di consolare un marmocchio in lacrime che teneva in braccio.


La donna era mia madre. L'uomo, che conduceva il carro e di cui scorgevo soltanto le spalle all'estremità del tunnel di tela, era mio padre.


Incominciai a strisciare fra i sacchi accatastati sul carro, e mia madre mi disse, con voce stanca:


- Non puoi startene un po' tranquillo, Jesse?


Jesse era il mio nome. Sentii mia madre che chiamava Giovanni mio padre. Non conoscevo il cognome di famiglia, non avendolo mai sentito pronunciare. Tutto ciò che sapevo, era che altri uomini della carovana d'emigranti chiamavano mio padre "capitano". Era il capo, e tutti ricevevano ordini da lui.


Raggiunsi l'estremità del carro e riuscii a sedermi a cassetta, accanto a lui.


L'aria, impregnata dalla polvere sollevata dai carri e dalle zampe degli animali che li trainavano, era soffocante, spessa come nebbia.


E intorno un paesaggio sinistro, desolato. Ai lati si rincorreva una teoria di basse colline, con rari cespugli bruciati dal sole.


E alla base soltanto sabbia, ciottoli e spuntoni di rocce.


Di acqua, neanche il minimo segno.


Il nostro carro era il solo tirato da cavalli. Gli altri, in una lunga fila simile a un serpente, erano tirati da buoi. E ne occorrevano tre o quattro coppie per muovere, con estrema fatica e lentezza, ogni carro.


In una curva avevo contato i carri che ci precedevano e che ci seguivano. In tutto erano quaranta, compreso il nostro.


Ai due lati della carovana avanzavano dodici o quindici giovani che si trascinavano dietro i rispettivi cavalli. Sulle loro selle erano appoggiate lunghe carabine. Ogni volta che uno di loro si avvicinava, potevo scorgere distintamente i suoi lineamenti contratti e inquieti, del tutto simili a quelli di mio padre che teneva anch'egli, a portata di mano, una carabina.


Lontano, molto lontano da quel desolato paesaggio, mi ricordavo di aver vissuto, piccolissimo, in un paese ridente, in riva a un fiume dalle sponde ricche di alberi. E mentre il carro avanzava a scossoni, il mio spirito tornava indietro, verso quelle acque gioiose e fresche che scorrevano sotto gli alberi verdi. Ma tutto ciò era lontano, tanto lontano...


La colonna sembrava seguire un funerale. Non una risata, non una voce allegra si levava dai carri. La pace e la tranquillità erano come echi spezzati, e non camminavano con noi. I visi di tutti riflettevano tristezza e disperazione. Un brivido sembrò improvvisamente percorrere l'intera carovana.


Mio padre alzò la testa. Io lo imitai. E anche i nostri cavalli.


Fiutarono l'aria con le narici allargate, frementi, e incominciarono a tirare con rinnovato vigore. I buoi staccati, che si trascinavano a stento, partirono tutti al galoppo. Le povere bestie, ridotte a pelle e ossa, galoppavano come potevano, scheletri viventi avvolti in una pelle rognosa. Ma questo impeto non durò molto. E tornarono a trascinare lentamente le loro povere carcasse.


- Che succede? - chiese mia madre.


- L'acqua è vicina, - rispose mio padre. - Dobbiamo arrivare a Nephi.


- Dio sia lodato! Forse là ci venderanno qualcosa da mettere sotto i denti.


Era proprio Nephi. Vi entrammo avvolti in una nuvola di polvere rossa, sotto un sole rosso, tra i cigolii infernali dei nostri carri.


Il villaggio era costituito da una dozzina di abitazioni, semplici capanne sparse qua e là. Il paesaggio era del tutto simile a quello che avevamo lasciato alle nostre spalle. Neanche un albero.


Nient'altro che ciuffi rachitici, in un deserto di sabbia e di pietre. Ma si vedevano, anche se rari, dei campi coltivati chiusi in parte da siepi.


Una vera magra d'acqua, nel letto asciutto del torrente.


Tuttavia, qualche segno di umidità lo mostrava ancora. Un po' d'acqua filtrava in certi punti, in buche che erano state scavate, e dove le bestie e i cavalli da sella pestavano con gioia, sprofondandovi il muso e la testa.


Mia madre si trascinò fino a noi. Guardò al di sopra delle nostre spalle. Mio padre le mostrò un grande fabbricato, accanto alla riva, e disse:


- Dev'essere il mulino di Bill Black.


In quello stesso momento, uno dei nostri che s'era portato in avanguardia, tornò verso di noi.


Comunicò qualcosa a mio padre, che diede subito il segnale della fermata, e i carri di testa cominciarono a distendersi in cerchio.


I quaranta carri, abituati alla manovra, l'effettuarono in fretta, senza incidenti. Quando si fermarono, formavano sul terreno un cerchio completo.


Dai carri, una frotta di bambini si slanciarono a terra seguiti dalle donne. Immediatamente, incominciarono a occuparsi dei preparativi per la cena.


Mentre l'accampamento si animava di mille diverse attività, mio padre, seguito da parecchi altri uomini, si diresse a piedi verso il mulino.


Durante la loro assenza, degli stranieri, gli abitanti del deserto di Nephi, cominciarono a circolare all'interno dell'accampamento con aria spavalda.


Erano dei bianchi, come noi. Ma il loro volto severo era cupo e duro, e sembravano tutt'altro che ben disposti nei nostri confronti. L'ostilità stagnava nell'aria.


Uno di loro si fermò davanti a mia madre che stava cucinando.


Rimasi immobile, guardando fisso l'intruso, che odiavo, perché sentivo l'odio nell'aria, perché sapevo che non c'era nessuno fra noi che non odiasse quegli uomini dalla pelle come la nostra, e per i quali avevamo dovuto fissare in cerchio il nostro accampamento.


Lo straniero aveva gli occhi azzurri, gelidi occhi senza un barlume d'amore o di simpatia. I suoi capelli erano color pepe, il suo viso raso fino al mento. Al di sotto, coprendo tutto il collo e risalendo a collare fino alle orecchie, faceva mostra di sé una frangia di barba, setolosa e brizzolata.


Mia madre fece finta di non averlo neppure visto. Lui non salutò, contentandosi di squadrarla per bene. Poi disse con voce di scherno:


- Scommetto che in questo momento preferireste essere sulle rive del Missouri!


- Siamo dell'Arkansas, - rispose mia madre.


E lui:


- Se avete ripudiato il paese che vi ha dato i natali, avrete avuto delle buone ragioni per farlo, voi che avete scacciato dalle rive del Missouri il popolo eletto dal Signore.


Mia madre non rispose.


Egli proseguì:


- Certo, delle ottime ragioni, perché adesso venite a mendicare del pane proprio da quelli che avete perseguitato.


Anche se piccolo, gli istinti atavici della collera non mi difettavano. Perciò risposi, gridando:


- Voi mentite! Non siamo del Missouri e non mendichiamo. Noi non siamo dei mendicanti! Possiamo pagare.


- Taci, Jesse, - mi interruppe mia madre, posando la sua mano sulla mia bocca.


Poi, rivolgendosi allo straniero:


- Andatevene, - disse, - e lasciate in pace questo ragazzo!


Con mossa rapida sfuggii a mia madre e urlai, singhiozzando:


- Vi caccerò in corpo del piombo, dannato Mormone!


Lo straniero mi ignorò completamente, fissando un punto lontano alle nostre spalle.


Infine si decise a parlare, in tono solenne, come un giudice in tribunale:


- Tali padri, tali figli! L'intera razza è degenerata e dannata!


Per essa non c'è redenzione possibile, espiazione sufficiente. Lo stesso sangue di Cristo non riuscirebbe a lavarne le iniquità.


Alle sue parole risposi, singhiozzando:


- Dannato Mormone! Dannato Mormone! Dannato Mormone!


E continuai a maledirlo, finché egli si allontanò scuotendo gravemente il capo.


Quando mio padre padre tornò con gli altri, il lavoro nell'accampamento era ultimato. Tutti si strinsero intorno a lui.


Egli scrollò la testa con un'aria che non faceva presagire niente di buono.


Uno degli uomini incominciò a parlare.


- Essi dichiarano, - disse, - di possedere farina e provviste per tre anni. Fino a ieri ne avevano sempre venduto agli emigranti.


Adesso non ne vogliono sapere. E non solo a noi, ma come regola generale. Sembra che abbiano delle questioni con il governo, e in questo modo dichiarano il loro malcontento. E noi ne facciamo le spese. Non è giusto, capitano! Abbiamo delle donne e dei bambini da sfamare. La California è ancora lontana! Ci arriveremo soltanto fra qualche mese, e l'inverno è vicino. E davanti a noi non c'è che deserto. Come potremo affrontarlo se non abbiamo viveri?


S'interruppe un attimo, poi riprese, fissando la folla:


- Voi non sapete cosa sia il deserto. Ve lo dico io: questo è il paradiso, in confronto!


Si voltò nuovamente verso mio padre.


- Capitano, lo ripeto: dobbiamo ottenere della farina. Se non vogliono vendercene, non ci resta che andare a prenderla!


Molti dei presenti, uomini e donne, lanciarono delle grida d'approvazione. Mio padre allargò le braccia su di essi e li fece tacere.


- Sono d'accordo con voi, Hamilton... - disse.


Le grida ripresero più forti.


-... eccetto su un punto! - continuò imponendo il silenzio. - Un punto che ha la sua importanza... Brigham Young ha proclamato la legge marziale in tutto il paese. E dispone di un esercito. Certo, potremmo cancellare Nephi dalla faccia del mondo, e impadronirci di tutte le provviste! Ma non andremo troppo lontano. I soldati di Brigham ci sarebbero subito addosso e saremmo a nostra volta distrutti. Questo lo sapete, Hamilton, e anche gli altri.


Tutti, infatti, lo sapevano. E solo la disperazione era riuscita a farlo dimenticare.


Mio padre continuò:


- Sono prontissimo a battermi per ciò che è giusto. Ma ora non è il caso. Non possiamo permetterci il lusso di una battaglia perduta in anticipo. Non abbiamo nessuna probabilità in nostro favore. E il nostro dovere è di non esporre a un pericolo inutile le nostre famiglie. Dobbiamo restare calmi e sopportare in silenzio anche delle eventuali angherie. Non ci resta altro da fare.


- Ma che ne sarà di noi, con il deserto da attraversare? - chiese una donna che stava allattando un piccolo.


- Prima del deserto, - rispose mio padre, - ci sono altre colonie.


Fillmore, a sessanta miglia verso sud. Poi viene Corn Cruk, e a quaranta miglia di distanza, Beaver. Infine c'è Parowan. Allora ci separeranno da Cedar City non più di venti miglia. Più ci allontaneremo dal Lago Salato, e maggiori probabilità avremo di rifornirci.


La donna insisté.


- E se dappertutto si rifiutano di venderci dei viveri?


- Allora non dovremo più trattare con i Mormoni. Cedar City è la loro ultima base. Non abbiamo altra scelta: continuare la nostra strada, e ringraziare la nostra buona stella quando non li avremo più tra i piedi. A due giornate da qui ci sono buoni pascoli e dell'acqua. Il posto si chiama "Praterie delle Montagne". E' un territorio che non appartiene a nessuno, dove non c'è anima viva.


Dobbiamo arrivare là, prima di tutto. Ci riposeremo e potremo far mangiare le nostre bestie, prima di affrontare il deserto. Forse troveremo anche della selvaggina. Alla peggio, cammineremo finché ci sarà possibile. E se sarà necessario, abbandoneremo i nostri carri, caricheremo sulle bestie il loro contenuto, e faremo a piedi le ultime tappe. Lungo la strada, potremo sempre mangiare le nostre bestie. E' meglio arrivare in California nudi come vermi che lasciare qui la nostra carcassa. E questo sarebbe il destino che ci spetterebbe, se scatenassimo adesso una battaglia.


Mio padre ripeté le sue esortazioni alla calma, e l'improvvisato comizio si sciolse.


Quella notte, tardai più del solito ad addormentarmi. La mia rabbia contro il Mormone aveva a tal punto eccitato il mio cervello che questo mi ribolliva ancora quando, dopo un'ultima ronda, mio padre si arrampicò a sua volta sul carro.


I miei genitori mi credevano addormentato. Ma non lo ero, e udii mia madre che chiedeva a mio padre se credeva che i Mormoni ci avrebbero permesso di lasciare in pace il loro territorio. Le rispose, mentre si toglieva gli stivali, che aveva piena fiducia, e che certo i Mormoni ci avrebbero lasciato partire in pace se nessuno della carovana li avesse provocati.


Si voltò e, alla luce d'una piccola candela di sego, scorsi il suo viso, la cui espressione smentiva le sue parole rassicuranti.


Quella notte mi addormentai angustiato dal pensiero del pericolo che pendeva sulle nostre teste, sognando di Brigham Young... Un essere straordinario che nella mia fantasia surriscaldata, assumeva delle proporzioni enormi, eguale in tutto a un vero diavolo, spaventoso e crudele, con le corna e una lunga coda.




13. IL GRANDE TRADIMENTO DEI MORMONI


Mi risvegliai nella mia cella, oppresso dalla consueta tortura della camicia di forza. Mi facevano corona i quattro personaggi di sempre: il direttore Atherton, il capitano Jamie, il dottore Jackson e Hutchins.


Accennai un sorriso, lottando con tutte le mie forze per non perdere il controllo dei miei nervi straziati dall'atroce dolore della circolazione compressa, che avvertivo di nuovo.


Buttai giù l'acqua che mi tendevano, ma rifiutai il pane, e non risposi alle domande che mi facevano.


Avevo richiuso le palpebre, e tentavo di ritornare a Nephi, nel cerchio dei carri. Ma con loro presenti, non potei evadere dalla mia cella.


Ogni tanto afferravo qualche brano della loro conversazione.


- Assolutamente come ieri, - diceva il dottor Jackson. - Non è cambiato in niente...


- Allora può continuare a sopportarla? - chiedeva Atherton.


- Senza alcun dubbio. Ha il cervello completamente atrofizzato. Se non sapessi che è materialmente impossibile, direi che ha preso degli stupefacenti.


Il direttore adottò un tono burlesco, nel rispondere:


- La droga che usa, la conosco! E' la sua volontà. Scommetto che, se lo volesse, sarebbe capace di camminare a piedi nudi sopra un tappeto di pietre ardenti, come fanno i sacerdoti dei Canachi, nei mari del sud.


- Se la ride di noi, - intervenne il dottor Jackson.


- Eppure rifiuta del tutto il cibo, - osservò il capitano Jamie.


Il dottore Jackson crollò le spalle, annoiato.


- Bah! Se volesse, potrebbe digiunare quaranta giorni, senza sentire il minimo dolore.


Approvai il dottore:


- Sì, quaranta giorni e quaranta notti! Vi prego, stringetemi ancora un po' la mia camiciuola, e poi uscite subito di qui.


L'uomo di fiducia cercò di infilare il suo dito fra i lacci.


- Neanche con un argano, - affermò, - si potrebbe stringere di più.


- Hai qualche reclamo da fare, Standing? - chiese il direttore Atherton.


Gli risposi:


- Sì.


- Quale?


- Innanzi tutto, la camicia di forza è troppo larga. Hutchins è un vero idiota. Potrebbe guadagnare ancora un pollice, se sapesse fare il suo mestiere.


- E poi?


- Siete tutti figli del demonio!


Il capitano Jamie e il dottore accennarono un sorrisetto ironico.


Poi Atherton aprì la marcia, e lo squallido quartetto se ne andò.


Rimasto finalmente solo, mi concentrai per ripiombare nell'oscurità e ripartire per Nephi. Volevo conoscere a ogni costo il destino dei quaranta carri, lanciati attraverso una terra ostile e inospitale.


Una parola soltanto, prima di riprendere il mio racconto. In tutti i viaggi effettuati attraverso le mie esperienze passate, non ho mai potuto guidarne nessuno verso uno scopo determinato. Queste reviviscenze si sono sempre sviluppate al di fuori di ogni influenza della mia volontà. Ho reincarnato il piccolo Jesse almeno una dozzina di volte. Mi è capitato di riprendere involontariamente il filo della sua esistenza quando era ancora bambino nell'Arkansas.


In questo caso come negli altri, per una maggior chiarezza del racconto, ho riunito insieme tutte le diverse fasi di queste successive resurrezioni del passato.


Molto prima che spuntasse il sole, l'accampamento di Nephi era già in piena attività. Il bestiame era stato fatto uscire dal cerchio dei carri, per esser condotto a bere e a pascolare. Gli uomini liberavano le ruote dalle catene che li avevano tenuti accostati durante la notte, e preparavano ogni cosa affinché i buoi da tiro potessero essere poi comodamente aggiogati.


Le donne preparavano la colazione, affaccendate intorno a quaranta fuochi. I ragazzi si raccoglievano intorno alla fiamma, facendo posto agli uomini dell'ultimo turno di guardia che aspettavano il caffè, con gli occhi ancora pieni di sonno.


I preparativi della partenza erano necessariamente lunghi per una carovana come la nostra. Così il sole era già sorto da un'ora, quando ci incamminammo fuori di Nephi, verso il deserto di sabbia e di pietra.


Alla nostra partenza, non assistette un solo abitante del posto.


Preferirono rinchiudersi nelle loro case, come se fossimo stati degli appestati.


Le ore scorrevano interminabili, sotto un sole a piombo e la polvere che ci raschiava gli occhi, senza misericordia. Per tutto il giorno, non incontrammo una casa, né bestiame, né un segno qualsiasi di vita. Al calar della notte ci fermammo, e come il giorno precedente, formammo il nostro cerchio di carri a pochi passi da un ruscello divorato dall'arsura, dove ricominciammo a scavare numerose buche, che lentamente si riempirono d'acqua.


Tappe del genere si ripeterono parecchie volte, sempre uguali.


In media, percorrevamo quindici miglia al giorno. Questo voleva dire quattro giorni di viaggio per arrivare a Fillmore, la prossima colonia dei Mormoni.


A Fillmore gli abitanti si rivelarono chiaramente ostili, com'erano stati ovunque, dopo il Lago Salato. Ci prendevano in giro, mentre tentavamo di trattare per acquistare dei viveri. Ci insultavano, trattandoci come "Missuriani".


Quando entrammo in questa località, notammo, legati davanti alla casa dall'aspetto più importante, due cavalli da sella, polverosi e sudati, che apparivano zoppicanti.


Un vecchio dai capelli fluenti bruciati dal sole, e dalla camicia in pelle di daino, che doveva servire a mio padre da luogotenente e da "factotum", e che cavalcava a fianco del nostro carro, indicò con un gesto appena accennato della testa, i due cavalli.


- Capitano, - borbottò a voce bassa, - mi sembra che non risparmino i cavalli... Perché dovrebbero far crepare di fatica le loro bestie, se non per noi?


- Credo proprio, Labano, - rispose mio padre, - che ci stiano sorvegliando.


Accompagnato da Labano e da altri membri della carovana, mio padre si recò al mulino di Fillmore per tentare di acquistare farina. Io li seguii di nascosto, senza farmi vedere.


Durante il colloquio, spalleggiavano il mugnaio quattro o cinque uomini. Uno di questi, che dovevamo ritrovare più tardi sulla nostra strada, era alto, con spalle larghe, e poteva avere una sessantina d'anni.


Contrariamente agli uomini che incontravamo di solito in questa regione, aveva il viso completamente sbarbato.


La sua bocca era larga e stringeva le labbra, come sono soliti fare quelli che hanno perduto i denti davanti. Era possessore di un naso adunco, spesso e massiccio. L'insieme del suo viso era tozzo e quadrato, con gli zigomi sporgenti, e ampie borse di carne che gli pendevano sulle guance. Su tutto, dominava una fronte intelligente, e gli occhi, lontani uno dall'altro, erano del più stupendo azzurro che avessi mai visto.


Come sempre, il colloquio risultò un fallimento, e ce ne tornammo all'accampamento a mani vuote. Sulla via del ritorno, Labano disse a mio padre:


- Avete visto quel tipo dalla faccia glabra?


Mio padre accennò di sì.


- E' Lee. L'avevo già incrociato sul Lago Salato. E' un furfante di tre cotte. Ha diciannove mogli e cinquanta figli. E' un religioso fanatico. Chissà perché ci segue, così, attraverso questo paese abbandonato da Dio?


La nostra marcia riprese il giorno dopo. Dove l'acqua e il suolo lo consentivano, incontravamo delle piccole colonie, separate una dall'altra dalle venti alle cinquanta miglia. Fra loro si stendeva l'allucinante deserto.


E ogni volta chiedevamo umilmente dei viveri. Regolarmente, ci venivano rifiutati, mentre ci sbattevano sulla faccia la solita cantilena del Missouri e del popolo eletto del Signore. Non tentavamo neppure più di spiegare che eravamo dell'Arkansas e non del Missouri. Era la verità, ma i Mormoni si ostinavano a pretendere il contrario.


Giunti a Beaver, a cinque giorni di viaggio a sud di Fillmore, incontrammo di nuovo Lee. E ancora dei cavalli sfiancati attaccati davanti alle case.


Cedar City - la Città del Cedro - fu la nostra ultima tappa in territorio mormone. Labano, che era andato in avanscoperta, tornò con il suo rapporto. Le notizie erano inquietanti.


Disse:


- Ho visto Lee che scappava a gran velocità, quando sono apparso.


Capitano, a Cedar City, ci sono più uomini e cavalli di quanti ce ne possano stare.


Tuttavia, non avemmo noie. Si rifiutarono, naturalmente, di venderci qualsiasi cosa. Ma ci lasciarono in pace.


Cedar City era la cittadella avanzata dei Mormoni. Di lì, incominciava il deserto senza fine; e al di là, la terra agognata e felice della California.


I nostri carri si misero per strada di buon'ora, l'indomani mattina; io ero seduto a cassetta, a fianco di mio padre.


Due giorni di viaggio estenuante ci portarono nella regione chiamata le "Praterie delle Montagne". Per la prima volta da quando avevamo traversato il territorio dei Mormoni, ci accampammo senza formare il cerchio con i nostri carri. E ci preparammo a un soggiorno di almeno una settimana.


Al bestiame occorreva riposo, prima di fargli affrontare l'autentico deserto, alle cui soglie ci trovavamo. A pochi metri da noi c'era una piccola sorgente che bastava appena ai nostri bisogni.


Nell'accampamento l'attività ferveva. E lavoravamo tutti, uomini, donne e bambini.


E fino a tarda notte nessuno si concesse un attimo di riposo.


La mattina dopo, accadde il grande disastro.


Dopo due giorni di viaggio, lontani dal paese dei Mormoni, e persuasi che non ci fossero Indiani nel territorio, avevamo trascurato di formare il solito cerchio completo dei carri, lasciando che il bestiame pascolasse in libertà, senza nessuno a sorvegliarlo.


Mi svegliai improvvisamente, come in preda a un incubo. Fu come uno squillo di tromba, che mi fece sobbalzare e mi lasciò esterrefatto per qualche secondo.


Rimasi come istupidito, identificando a fatica i rumori che formavano nel loro insieme uno spaventoso frastuono: spari, ingiurie di uomini, strilli acuti di donne e di ragazzi. Udii poi il fischio delle pallottole, che rimbalzavano contro il ferro delle ruote e il legno dei carri.


Tentai di alzarmi. Ma mia madre mi costrinse a forza a sdraiarmi di nuovo. Mio padre era già in piedi; vicino al carro, esaminava la situazione.


Corse verso di noi, gridando:


- Fuori tutti, presto. A terra!


Obbedimmo tutti.


- Scava, Jesse! - urlò mio padre. - Fa' come me!


Imitandolo, mi scavai una buca nella sabbia, contro una ruota del carro. Ci servivamo delle mani, con furia selvaggia, e mia madre faceva lo stesso.


- Sbrigati! - gridava mio padre. - Jesse, falla più profonda che puoi!


Poi si allontanò, e lo vidi correre, mentre dava ordini:


- A terra! Riparatevi dietro le ruote dei carri! Scavate delle trincee nella sabbia! Fate uscire dai carri le donne e i ragazzi!


Cessate il fuoco! Tenete pronti i fucili! I celibi con me e Labano! Non in piedi... Avanzate strisciando!


Ma l'attacco non venne. Per circa un quarto d'ora, il fuoco dei nostri assalitori continuò abbastanza nutrito.


Gli Indiani (poiché si trattava d'Indiani, come ci informò Labano) non avevano osato avvicinarsi troppo, e ci tiravano addosso da una buona distanza, sdraiati a terra. Nell'alba che avanzava, potevamo distinguerli nettamente. Vidi anche che mio padre preparava un contrattacco.


Lo sentii urlare:


- Fuoco! Tutti insieme!


Una scarica generale si elevò dalle nostre file. Dal mio rifugio, potei constatare che più di un Indiano era stato colpito. E nel fumo che si diradava, li vidi allontanarsi, tirandosi dietro i loro morti e i loro feriti.


Approfittammo della tregua per sistemarci a difesa. I carri furono serrati l'uno accanto all'altro e incatenati, col timone all'interno del cerchio.


Fatto ciò, contammo le nostre perdite. Parecchi bambini erano già morti, tre erano moribondi. Il piccolo Rish Hardacre era stato colpito al braccio da una pallottola. Non raggiungeva i sei anni, e ricordo d'averlo visto guardare a bocca aperta la sua ferita, mentre sua madre lo prendeva sulle ginocchia per bendarlo. Vedevo le sue guance ancora bagnate dalle lacrime che aveva versato. Ma adesso non piangeva più e fissava, con la meraviglia negli occhi, un frammento d'osso che spuntava dal suo avambraccio.


La signora White fu ritrovata morta nel carro dei Foxwell. Era ormai una donna vecchissima, ridotta all'impotenza e obesa, la cui unica occupazione consisteva nel restare seduta tutto il santo giorno, fumando la pipa. Era la madre di Abby Foxwell.


Anche la signora Grant era tra i caduti. Suo marito stava a fianco del cadavere, calmissimo. Non una lacrima bagnava il suo volto. Se ne stava lì, semplicemente, seduto vicino alla sua donna, con il fucile sulle sue ginocchia, lontano da tutto e da tutti. Lo lasciammo solo al suo dolore.


Sotto la guida di mio padre, che sentii chiamare capitano Francher (conobbi così il cognome della mia famiglia), l'intera carovana lavorava con l'ardore di un branco di castori.


Al centro del recinto formato dai carri fu scavata una trincea.


All'interno, le donne trasportarono i pagliericci, i viveri e gli oggetti di prima necessità.


La grande trincea fu riservata alle donne e ai ragazzi. Una fossa meno profonda venne costruita per i combattenti sotto i carri.


Nel frattempo tornò Labano che era uscito in perlustrazione.


Comunicò che gli Indiani s'erano allontanati di circa mezzo miglio, e discutevano animatamente fra loro.




14. IL SUPPLIZIO DELLA SETE


Durante la mattinata, osservammo più volte dei nugoli di polvere che si alzavano in lontananza, tradendo la presenza di numerosi uomini a cavallo. Convergevano tutti su di noi e sembravano avvolgerci da ogni parte. Ma non vedevamo che polvere, senza poter distinguere nessuno.


E non riuscimmo a vedere di più quando uno dei gruppi si avvicinò, per poi scomparire all'orizzonte. Capimmo che si trattava del nostro bestiame che veniva razziato. I quaranta carri, che avevano attraversato metà del continente americano, erano ormai impotenti.


Le poche bestie rimaste nell'interno dell'accampamento erano fuggite alle prime fucilate.


A mezzogiorno, Labano rientrò da una seconda ricognizione. Aveva avvistato una nuova banda d'Indiani, proveniente dal sud.


Cercavano di circondarci completamente. In quel momento, scoprimmo una dozzina di cavalieri bianchi che ci osservavano dalla cresta d'una vicina collina.


- Ecco la spiegazione! - mormorò Labano a mio padre, mostrandogli il gruppo. - Sono loro, che hanno aizzato gli Indiani contro di noi... Maledetti Mormoni!


La giornata passò senz'altri incidenti.


Quando fu notte fonda, tre dei nostri giovani lasciarono l'accampamento. Erano Guglielmo Aden, Abele Milliken e Timotéo Grant.


- Li ho mandati a Cedar City per chiedere aiuto, - disse mio padre a mia madre, mentre ingoiava frettolosamente un boccone.


Mia madre crollò la testa.


- I Mormoni - disse, - non mancano neanche qui. E non ci danno nessun aiuto. Quelli di Cedar City faranno lo stesso.


Mio padre disse:


- Ci sono Mormoni buoni e cattivi...


- Fino ad oggi, - interruppe mia madre, - di buoni non ne abbiamo ancora trovati!


La mattina dopo, venni a conoscenza di quello che era accaduto ai nostri tre messaggeri.


I tre uomini non avevano percorso che poche miglia, quando furono circondati dai bianchi. Guglielmo Aden gridò che appartenevano alla carovana Francher, e che andavano a Cedar City per chiedere aiuto. Fu abbattuto come un cane con una fucilata. Milliken e Grant voltarono i cavalli e tornarono, a briglia sciolta, a portare la notizia.


Ogni speranza moriva nei nostri cuori. Erano proprio i Mormoni che avevano spinto contro di noi gli Indiani! Il peggiore fra i pericoli si abbatteva così su di noi.


Alcuni dei nostri, abbandonato il riparo dei carri, raggiunsero la sorgente per attingervi dell'acqua. Le pallottole fischiarono sulle loro teste. La sorgente era lontana soltanto una trentina di metri, ma per arrivarci bisognava passare sotto il fuoco degli Indiani, appostati intorno. Per fortuna, non erano dei buoni tiratori, e i nostri riuscirono a portare l'acqua senza esser stati colpiti.


Raggruppati sopra una bassa collina, gli Indiani continuavano intanto a discutere gridando come ossessi. Ma, a parte qualche fucilata ogni tanto, non si decidevano ad attaccarci.


Nel pomeriggio, il caldo nella nostra fossa si fece più intenso.


Da un cielo senza nubi, e senza un alito di vento, il sole ci dominava senza pietà. Gli uomini, sdraiati nella trincea sotto i carri, erano in parte al riparo. Ma nella fossa più grande, in cui si ammucchiavano più di cento fra donne e ragazzi, e che non aveva un riparo, la temperatura era tremenda. Si soffocava, e trovavo sempre nuovi pretesti per andare a raggiungere gli uomini sotto i carri.


Indubbiamente, avevamo commesso un errore gravissimo non includendo la sorgente nel cerchio dei carri. Un errore dovuto al panico durante il primo attacco.


Ora era troppo tardi per rimediare. Esposti al fuoco, non potevamo arrischiarci a spostare i carri e a trasportarli più lontano. Mio padre ordinò a due uomini di scavare il terreno, nel perimetro del recinto, e di farvi un pozzo. Furono anche preparate delle latrine.


Verso il tardo pomeriggio, rivedemmo Lee. Era a piedi e attraversava un tratto di prateria situato a nord-ovest del nostro accampamento. Era proprio al limite della portata dei nostri fucili.


Vedendolo, mio padre afferrò uno dei panni di mia madre, lo legò a un bastone e l'alzò in alto, come bandiera bianca. Ma Lee non se ne diede per inteso e continuò per la sua strada.


Allora, dopo avere strappato un pezzo del drappo bianco, e averlo legato a un'asta più piccola, mi disse:


- Jesse, va' verso di lui. Prendi questa. Cerca di raggiungerlo e di parlargli. Non pensare a quello che è accaduto. Cerca soltanto di convincerlo a venire da noi, per parlare.


Mentre mi accingevo a eseguire la missione affidatami, Jed Durham gridò che voleva accompagnarmi. Jed aveva press'a poco la mia età.


- Durham, - disse mio padre a quello del ragazzo, - vostro figlio vuole seguire Jesse. Lo lasciate andare? E' meglio che siano in due. Si controlleranno a vicenda...


Durham acconsentì. E Jed e io uscimmo dall'accampamento sotto la protezione della bandiera bianca.


Ma Lee non voleva saperne. Non appena ci scorse, se ne scappò via.


Non riuscimmo nemmeno ad arrivargli vicini. Scomparve improvvisamente. Doveva essersi nascosto dietro qualche cespuglio.


Ma eravamo due ragazzi ostinati, e proseguimmo nelle ricerche.


Frugavamo dappertutto, con la massima attenzione. Ma sembrava proprio che Lee fosse stato inghiottito dalla terra. Così, tornammo all'accampamento dopo due ore, con le pive nel sacco.


Però la nostra spedizione non fu del tutto inutile. Andando in giro con la nostra bandiera bianca, scoprimmo che il nostro accampamento era circondato da tutte le parti. A sud, a circa mezzo miglio, scorgemmo un grande accampamento d'Indiani. Quelli che ci avevano attaccato erano invece a est, raggruppati sulla loro bassa collina.


All'incirca, dovevano essere almeno duecento. Fra di loro c'erano dei bianchi, e intuimmo che la discussione era molto animata.


Ma c'era dell'altro. Verso nord-est, sorgeva un accampamento di bianchi, nascosto da una piega del terreno. In disparte, una sessantina di cavalli brucavano l'erba tranquillamente. Verso nord, avanzava un gruppo di cavalieri che si dirigevano verso il campo dei bianchi.


Al nostro ritorno, la prima cosa che ricevetti fu uno schiaffo di mia madre, per punirmi d'essere stato fuori tanto tempo. Mio padre, invece, non ebbe che lodi per Jed e per me, non appena conobbe il nostro rapporto.


- Faremmo bene a prepararci a un attacco, - disse Aronne Cochrane a mio padre.


Verso sera, mi trovavo nella grande fossa, con il fratellino sulle ginocchia, mentre mia madre stendeva delle coperte per preparare un letto.


Vicino a me c'era Silas Dunlap, ormai moribondo. Era stato colpito alla testa, al primo attacco; e per tutto il giorno aveva delirato, borbottando e cantando. Continuava a fischiettare una vecchia canzone:


Il primo diavoletto, al secondo diceva:


Dammi un po' di tabacco dalla tua tabacchiera!


E il secondo rispondeva al primo: Risparmia I tuoi soldi, fratello, e avrai sempre piena Di tabacco la tua tabacchiera!


Come ho detto, ero seduto accanto a Silas Dunlap e tenevo sulle ginocchia il fratellino, quando l'attacco si scatenò. Il sole tramontava, e io fissavo Silas Dunlap, che stava morendo. La mano di sua moglie, Sara, era posata sulla sua fronte. Essa e sua zia Maria piangevano piano, quasi in silenzio. L'attacco venne sferrato proprio in quel momento.


Centinaia di fucili sparavano insieme, sommergendoci di proiettili. Nella grande fossa, ci sdraiammo ventre a terra. I bambini incominciarono a urlare.


Le fucilate si infittivano. Avrei dato la mano destra pur di trascinarmi fino ai carri, dove i nostri uomini sostenevano un fuoco tambureggiante, micidiale. Ma mia madre non me lo permise.


Osservavo Silas Dunlap. Agonizzava ancora, quando il bambino dei Castleton fu ucciso. La piccola Dorotea Castleton, di soli dieci anni, teneva il piccolo fra le braccia. Lei non fu colpita.


Tornai a guardare Silas Dunlap. Non si muoveva più.


La piccola Dorotea Castleton ebbe una crisi di nervi. Urlò così a lungo da contagiare la signora Hastings.


La notte era già avanzata quando il fuoco degli assalitori cessò.


Due dei nostri uomini risultarono feriti e vennero portati nella grande fossa. Bill Tyler rimase ucciso. Fu seppellito insieme a Silas Dunlap e al piccolo Castleton.


Per tutta la notte, squadre di uomini si diedero il cambio per scavare più profondamente il pozzo. Ma incontrarono soltanto della sabbia umida. Altri tentarono di raggiungere la sorgente. Ma dovettero rinunciarvi, dopo che Geremia Hopkins ebbe la mano sinistra attraversata da una pallottola all'altezza del polso.


L'indomani (erano già tre giorni che durava l'assedio), il caldo e la siccità avevano raggiunto livelli insostenibili. Ci svegliammo arsi di sete, e la cucina non funzionò. Le nostre bocche erano talmente secche, che non saremmo stati in grado di mangiare.


Cercai di mordere un pezzo di pane, ma dovetti rinunciare. Le munizioni scarseggiavano, e non rispondemmo ai colpi isolati che ci venivano tirati contro.


Intanto, si continuava a scavare il pozzo. Era ormai così profondo che dovevamo tirarne su la sabbia con corde e secchi.


Verso mezzogiorno, il pozzo franò. Soltanto dopo un'ora riuscimmo a liberare Amos Wentworth che c'era rimasto sotto. Il pozzo fu rinforzato con delle tavole tolte ai carri, ma a venti piedi di profondità, non trovammo che la solita sabbia umida. L'acqua non filtrava ancora.


La vita, nella grande fossa, si faceva sempre più intollerabile.


I ragazzi chiedevano da bere piangendo, e i più piccoli strillavano in continuazione.


Roberto Carr, un altro ferito che era sdraiato a due passi da me, aveva perso la ragione. Gesticolava e chiedeva acqua con urla disumane. Anche delle donne erano ormai prossime al delirio.


Altre, invece, come le tre sorelle Demdike, cantavano dei salmi, insieme alla loro madre. Altre ancora raccoglievano della sabbia umida, estratta dal pozzo, e l'ammassavano sul corpo dei loro bambini, tentando di rinfrescarli e di calmarli.


Esasperati dalla sofferenza, i due fratelli Fairfax corsero verso la sorgente. Giller non era ancora a metà strada, quando cadde.


Ruggero riuscì invece a tornare, quasi incolume. I due secchi che aveva portato con sé erano pieni soltanto a metà; una parte l'aveva persa correndo. Strisciò nuovamente sotto i carri e scese nella grande fossa. La sua bocca era tutta insanguinata.


Due mezzi secchi erano insufficienti per tante persone. Solo i piccoli e i feriti ne ebbero una piccola parte. Io non ne ottenni una sola goccia.


Nel pomeriggio, la situazione si fece ancora più grave. Il sole spietato continuava a sfolgorare in un cielo terso, senza nubi, trasformando la nostra fossa di sabbia in una fornace. Intanto, la fucileria si faceva nuovamente nutrita, mentre gli Indiani lanciavano le loro laceranti grida di guerra.


Durante una pausa, mio padre scese nella grande fossa e si sedette accanto a mia madre e a me. Con il viso contratto, ascoltava i lamenti, i singhiozzi della sua gente che reclamava acqua.


Improvvisamente, si diresse verso Jed e sua madre, e mandò a chiamare il padre di Jed.


- Jesse, - mi chiese, - hai paura degli Indiani?


Crollai il capo con forza, presagendo di essere destinato a un'altra missione, non meno gloriosa della precedente.


- Jesse, - continuò, - hai per caso paura di quei cani di Mormoni?


- No! Non ho affatto paura di quei cani rognosi di Mormoni!


Un triste sorriso sfiorò le labbra di mio padre. Egli continuò:


- In questo caso, te la senti di andare alla sorgente, con Jed, a prendere dell'acqua?


Accettai senza esitare, esultante.


- Vi vestiremo da bambine. Può darsi che in questo modo non vi tirino addosso.


Invano protestai che potevo andare benissimo così, come mi trovavo, con i miei calzoni, come un vero uomo. Mio padre fu irremovibile, e dovetti cedere.


Una volta vestiti con abiti femminili, ricevemmo le ultime istruzioni. Poi, strisciando, superammo la linea dei carri e ci trovammo allo scoperto.


Entrambi avevamo lo stesso vestito: calze bianche, gonne bianche, con una grande cintura azzurra, e cappelli bianchi da estate. Con noi, portavamo ciascuno due piccoli secchi.


- Non abbiate fretta! - gridò mio padre. - Andate piano! Camminate come se foste delle bambine...


Nessuno ci sparò addosso.


Raggiungemmo sani e salvi la sorgente, riempimmo i nostri secchielli e prima di tornare bevemmo a volontà alla stessa sorgente. Poi, con un secchiello pieno in ogni mano, tornammo verso i carri. E, ancora, nemmeno una fucilata!


Il numero esatto di viaggi che effettuammo così, non lo ricordo.


Ma furono almeno quindici o venti. Camminavamo lentamente, tenendoci per mano nell'andata. Poi tornavamo, con i nostri quattro secchielli pieni.


Ma ogni cosa ha un termine. Jed e io stavamo per incamminarci per compiere un nuovo viaggio, quando si udì una fucilata, poi un'altra.


- Ritorna! - gridò mia madre.


Ci guardammo. I nostri pensieri s'incrociarono come i nostri sguardi. Eravamo due bambini ostinati, ed eravamo decisi entrambi a restare, se uno si fosse ritirato.


Mi rimisi in cammino, e Jed mi imitò.


- Qui, Jesse! - gridò di nuovo mia madre.


Jed m'interrogò con uno sguardo. Crollai la testa, e dichiarai:


- Andiamoci!


Corremmo veloci sulla sabbia, e ci sembrò che tutte le fucilate degli Indiani fossero dirette contro di noi. Arrivai alla sorgente per primo. Riempiti i secchielli, riprendemmo la nostra corsa, uno a fianco all'altro.


- Non andare così svelto! - dicevo a Jed. - Finirai per rovesciare metà della tua acqua!


L'osservazione produsse il suo effetto, poiché egli rallentò subito il passo.


A metà strada, inciampai e finii lungo disteso, a testa avanti.


Una pallottola, rimbalzando per terra proprio davanti a me, mi aveva riempito gli occhi di sabbia, tanto che per un momento credetti che mi avessero colpito.


Jed rimase in piedi, aspettandomi.


- L'hai fatto apposta! - ghignò, mentre mi rialzavo.


Afferrai subito il concetto. Egli era convinto che mi fossi lasciato cadere apposta, per rovesciare l'acqua e avere così l'alto onore di tornare a prenderne dell'altra.


Questa specie di gara di coraggio stava diventando una cosa seria.


Tanto seria che non me la sentii di dargli una smentita e tornai, di corsa, verso la sorgente. E Jed Durham, malgrado i proiettili che gli cadevano attorno, rimase in piedi, sempre allo stesso posto, bene in vista, aspettandomi.


Quando rientrammo, solo io avevo i secchielli pieni. Un colpo aveva bucato, proprio vicino al fondo, uno dei secchi di Jed.


Tralascio di descrivere le geremiadi di mia madre, e l'evidente fierezza di mio padre.


Comunque, quando ritornammo nella grande fossa, Jed e io fummo acclamati come due eroi. Le donne, con le lacrime agli occhi, ci colmavano di benedizioni e si gettavano letteralmente su di noi, coprendoci di baci.


Nella grande fossa la situazione era leggermente migliorata.


Ognuno aveva potuto calmare con l'acqua l'arsura che lo divorava.


E malgrado si presentasse il problema di come procurarci l'acqua per i giorni successivi, si tornava a sperare. Il punto dolente erano le munizioni. Nei carri, rimanevano soltanto cinque libbre di polvere, mentre nelle fiaschette degli uomini non ce n'era quasi più.


L'attacco si scatenò, come previsto, al tramonto, e migliaia di fucilate investirono da ogni parte l'accampamento. Per il momento, nessuno dei nostri venne colpito. Rispondemmo soltanto, data la scarsezza di polvere, con una trentina di colpi.


Sin dal principio dell'assedio, solo gli Indiani ci avevano sparato addosso. Era una cosa sorprendente. Perché i bianchi agivano così? Non ci davano nessun aiuto, ma non ci attaccavano.


Tuttavia, erano in continua comunicazione con gli Indiani che ci assalivano. Cos'era questo mistero?


Al mattino del quarto giorno, la sete incominciò di nuovo a torturarci. Durante la notte era caduto un abbondante strato di rugiada, e noi la leccammo sui timoni dei carri, e sui cerchi delle ruote.


Nel corso della mattinata tutto rimase tranquillo, senza un solo colpo di fucile. Il sole incombeva nell'aria immobile. La nostra sete aumentava. I più piccoli si misero a piangere, i ragazzi a lamentarsi.


Verso mezzogiorno, Guglielmo Hamilton prese due secchi e si accinse a partire per la sorgente. Mentre strisciava sotto un carro, Anna Demdike lo raggiunse, lo circondò con le braccia e tentò di trattenerlo.


Egli le parlò, l'abbracciò e continuò ad avanzare. Non un colpo di fucile gli fu indirizzato contro, né all'andata, né alla sorgente, né al ritorno.


- Sia lodato il Cielo! - esclamò la vecchia Demdike. - La grazia del Signore li ha toccati.


Verso le due del pomeriggio, dopo un pasto frugale che ci aveva rimessi un po' in forze, apparve un uomo con una bandiera bianca.


Guglielmo Hamilton gli andò incontro. Dopo qualche minuto di colloquio, tornò indietro da mio padre e dagli altri uomini. Alle spalle del parlamentare, avevamo scorto Lee, che ci fissava intensamente.


Un'intensa emozione percorse tutta la carovana. Le donne, ritenendosi alla fine delle loro sofferenze, piangevano e si abbracciavano. Alcune, come la vecchia Demdike, cantavano l'ALLELUIA e benedivano la volontà del Signore.


La proposta fatta dai Mormoni, e che i nostri uomini avevano accettata, era che noi ci rimettessimo immediatamente in marcia sotto la protezione loro e della bandiera bianca.


Intesi mio padre che diceva a mia madre:


- Non ci restava che accettare. Era necessario...


- Che cosa succederebbe se ci tradissero? - replicò mia madre.


Mio padre rispose:


- Dobbiamo affrontare il rischio... Le nostre munizioni sono esaurite.


Alcuni dei nostri uomini tolsero le catene che tenevano legati i carri e li spostarono, praticando delle brecce nel cerchio. Io osservavo attentamente.


Comparve Lee, seguito da due carri vuoti trainati da cavalli.


Tutti gli si fecero intorno. Disse che gli Indiani erano inquieti e che gli davano parecchio da fare per tenerli lontani, e che il maggiore Higbee, con cinquanta uomini della milizia dei Mormoni, era pronto a prenderci sotto la sua protezione.


Ma dove il sospetto si insinuò in mio padre, in Labano e in molti dei nostri, fu quando Lee ci annunciò che dovevamo separarci dai nostri fucili, e ammucchiarli in uno dei carri. Il pretesto era che non dovevamo eccitare l'animosità degli Indiani. In questo modo, invece, avremmo avuto l'aria d'essere prigionieri della milizia dei Mormoni, e ci avrebbero lasciati partire senza creare incidenti.


Mio padre sembrò irrigidirsi contro una proposta del genere e stava per rifiutare. Scambiò un'occhiata con Labano, che gli rispose, bisbigliando:


- Nelle nostre mani non ci saranno più utili che nei carri... Non abbiamo più munizioni.


Due dei nostri feriti che non potevano camminare, furono issati su uno dei carri condotti da Lee, ognuno dei quali aveva a cassetta un Mormone. Con loro vi presero posto i bambini più piccoli. Jed e io avevamo già nove anni, ed eravamo piuttosto sviluppati per la nostra età. Così, Lee ci mise nel gruppo dei grandi, dicendo che dovevamo camminare a piedi, insieme alle donne.


Lee indicò poi quale doveva essere l'ordine di marcia. Le donne e i ragazzi per primi, in fila, dietro i carri. Poi gli uomini in fila indiana.


La carovana si mise in marcia, carica di tutti i bagagli che poteva portare. Abbandonavamo tutti i nostri carri, seguendo i due portati da Lee. Donne e ragazzi li seguivano da vicino. Quando fummo duecento metri avanti, i nostri uomini si misero in marcia a loro volta.


A destra e a sinistra, stava allineata la milizia dei Mormoni.


Mentre sfilavamo davanti a loro notai la cupa gravità segnata sui loro volti. Erano lugubri come dei becchini. Alcune donne si misero a piangere.


Camminavo a due passi da mia madre. Dietro di me venivano le tre sorelle Demdike, che sostenevano la vecchia madre. Un uomo, che secondo una delle sorelle Demdike doveva essere il maggiore Higbee, era immobile, sul suo cavallo, alle spalle dei soldati, e ci guardava passare. Nessun Indiano in vista.


Mentre voltavo la testa in cerca di Jed Durham, accadde l'irreparabile.


Udii il maggiore Higbee gridare con voce stentorea:


- Fate il vostro dovere!


Mi sembrò che tutti i fucili dei Mormoni sparassero all'unisono con un solo boato! I nostri uomini caddero in una frazione di secondo. Poi fu la volta delle donne, con una nuova scarica. Le sorelle Demdike e la loro madre caddero tutte nello stesso istante. Cercai con gli occhi mia madre. Era riversa a terra.


Intorno a noi, apparivano centinaia d'Indiani, che sparavano senza interruzione. Vidi le due sorelle Dunlap che cercavano uno scampo correndo, e io le seguii, perché bianchi e Indiani ci stavano ammazzando, tutti insieme.


Correndo, vidi uno dei conduttori dei carri che sparava sui due nostri feriti sdraiati all'interno.


E mentre correvo seguendo le sorelle Dunlap, mi invase una grande oscurità. I miei ricordi si fermano a questo punto. Jesse Francher cessa di esistere e scompare per sempre, e il suo corpo non fu più.


Ma lo spirito immortale che l'animava è sopravvissuto. E nella sua reincarnazione successiva, egli ha dato vita al corpo visibile, conosciuto sotto il nome di Darrell Standing; il quale sta per essere impiccato e lanciato in quel nulla dove tutte queste effimere apparizioni si spengono.


Qui, nella prigione di Folsom, c'è un condannato a vita, Matteo Davies, che appartiene alla più vecchia generazione dei prigionieri e che fa da aiutante nelle esecuzioni capitali.


Quest'uomo ha vissuto nei territori dove venne ucciso il giovane Jesse Francher. E' per mezzo suo che ho potuto controllare gli avvenimenti che ho raccontato. Quando egli era bambino, si parlava spesso del grande massacro delle "Praterie delle Montagne".


Tuttavia, questi avvenimenti, nella camicia di forza della prigione di San Quintino, sono riaffiorati alla mia memoria.


Se ho avuto conoscenza di questi fatti, la sola spiegazione possibile è che essi non si erano cancellati nella mia anima immortale, la quale, contrariamente alla materia, non può morire.


Matteo Davies mi ha riferito anche questo. Qualche anno dopo il massacro, Lee fu arrestato e condannato a morte. Venne giustiziato sulla stessa spianata in cui la nostra carovana si era accampata prima del massacro.




15. TRA SOGNO E REALTA'


Quando, finiti i miei primi dieci giorni di camicia di forza, aprii gli occhi, avevo di fronte il dottor Jackson e il direttore Atherton. Come avevo promesso, gli sorrisi.


- Troppo miserabile per vivere e troppo vigliacco per morire! - fu il commento del direttore.


- I dieci giorni sono finiti... - mormorai.


- Sta bene, - brontolò. - Adesso vi slegheremo.


- Non si tratta di questo, - gli dissi. - Avete certamente notato che vi ho sorriso. Spero non abbiate dimenticato la nostra piccola scommessa. Prima di slegarmi, date a Morrell e a Oppenheimer il tabacco che avete promesso. Guardate, eccovi un altro sorriso...


- Sì, conosco i bluff degli animali della vostra specie, - borbottò il direttore Atherton. - Non vi serviranno a niente! Non so che cosa mi tenga dal darvele di santa ragione, voi che battete tutti i "records" della camicia di forza!


- Il fatto è, - intervenne il dottore Jackson, - che io non ho mai visto un uomo sorridere dopo dieci giorni di camicia di forza.


- E' un bluff... - ribatté il direttore. - Slegalo, Hutchins.


A bassa voce, raccogliendo tutte le poche forze residue, mormorai:


- Perché tanta fretta, direttore? Non ho nessun treno da prendere... E mi trovo così comodo, che preferisco non esser disturbato.


Mi slegarono ugualmente e mi rotolarono sul pavimento, fuori dalla camicia di forza, come un pacco di merce qualsiasi.


Il capitano Jamie si chinò su di me.


- Non mi stupisco che si trovasse bene là dentro. Non sente niente. E' paralizzato.


- Paralizzato come vostra nonna! - sogghignò il direttore. - Vi dico che è tutto un bluff! Mettetelo in piedi, e vedrete se non si regge.


Hutchins e il dottore si misero d'impegno per raddrizzarmi.


Quando fui in posizione verticale, Atherton disse:


- Adesso, lasciate andare!


Naturalmente, non essendo ancora padrone della mia povera materia, vacillai sulle ginocchia, barcollai e andai a sbattere la fronte contro il muro della cella.


- Vedete? - disse il capitano Jamie.


- Sì, ben imitato! - ribatté, ostinato, il direttore Atherton. - Quest'uomo è veramente coriaceo, lo riconosco. E' un magnifico simulatore!


- Parole d'oro, direttore, - mormorai, sdraiato per terra. - L'ho fatto apposta. E' una caduta per burla. Rialzatemi, e ricomincerò.


Riuscirò a farvi ridere quanto volete...


Non mi dilungherò sulla tortura che dovetti sopportare in seguito al ritorno della circolazione del sangue. Era una vecchia storia, che si ripeteva puntualmente ogni volta.


Una volta sola, rimasi disteso per terra per tutto il resto della giornata, in stato semi-comatoso. Esiste una specie di anestesia del dolore, prodotta dal dolore stesso quando raggiunge i livelli più alti. Ho conosciuto questa anestesìa.


Il programma allestito per me dal direttore Atherton, non era mutato. Permettermi di riposarmi e di recuperare un po' di forza, per qualche giorno; poi, se non confessavo dov'era nascosta la dinamite, regalarmi un'altra razione di dieci giorni di camicia di forza.


Me l'aveva ripetuto ancora una volta, e io gli avevo risposto:


- Mi dispiace proprio di recarvi tanto disturbo, signor direttore.


Peccato che mi ostini ancora a vivere! La mia morte vi libererebbe da un sacco di guai. Che volete farci? Se non muoio, non è davvero colpa mia.


A quell'epoca, non dovevo pesare più di novanta libbre. Due anni prima, quando si erano rinchiuse alle mie spalle le porte della prigione di San Quintino, raggiungevo le centosessanta libbre.


Avevo dunque perso tutto ciò che potevo perdere. Umanamente, non sembrava possibile che potessi perdere un'oncia di più, e continuassi a vivere ugualmente. Tuttavia, nei mesi che seguirono, continuai a diminuire di peso, e non per questo cessai di vivere... Malgrado le cure assidue del direttore Atherton!


Morrell moriva dalla voglia di sapere se avevo continuato con esito felice le mie esperienze. Ma soltanto la notte seguente, quando "Faccia di torta" diede il cambio a Smith, riuscii a iniziare la conversazione coi miei due compagni. Quand'ebbi ultimato il mio racconto, Oppenheimer dichiarò, scettico:


- Sogni d'oppio!


Poi, dopo un lungo silenzio, continuò:


- Una volta, molto tempo fa, ho fumato dell'oppio. Posso allora assicurarti, Standing, cose ancora più strane delle tue. Credo che sia il trucco che usano i romanzieri per montarsi l'immaginazione.


Morrell, invece, la pensava come me. Non dubitava minimamente di quello che raccontavo. Soltanto, i suoi risultati, erano diversi dai miei. Quando il suo corpo moriva, egli restava sempre Edoardo Morrell. Non ritornava mai a vite anteriori. Quando la sua anima si era liberata dalla materia, vagabondava nel tempo presente.


Così, poteva contemplare il suo corpo disteso sul pavimento della cella, e poi vagare per San Francisco e vedere quello che succedeva. Aveva visitato due volte sua madre, e tutt'e due le volte l'aveva trovata che dormiva.


Ma, ugualmente, non aveva nessun potere sulle cose materiali. Non poteva aprire una porta, né spostare un oggetto, né manifestare la sua presenza in qualsiasi modo.


D'altra parte, muri e porte non erano per lui degli ostacoli. Egli era soltanto spirito e pensiero.


- In una di queste passeggiate a San Francisco, - ci raccontò, - da una nuova insegna attaccata davanti alla bottega di commestibili che faceva angolo con la casa abitata da mia madre, venni a sapere che questa bottega aveva cambiato proprietario. Sei mesi dopo, non appena fui in grado di inviare a mia madre una lettera, m'informai se quello che avevo visto era esatto. Mi rispose che effettivamente la bottega di commestibili aveva cambiato proprietario.


- Così, - chiese Oppenheimer, - tu avevi letto quello che c'era scritto sull'insegna?


- E' evidente, - rispose Morrell. - Altrimenti, come avrei potuto sapere che il nome del proprietario era cambiato?


- D'accordo! - ribatté Oppenheimer, incredulo. - Il tuo ragionamento non fa una grinza. Ma vorrei ancora una prova. Fra un po', quando avremo dei guardiani più ragionevoli, ti farai mettere la camicia di forza, abbandonerai il tuo corpo, e andrai a fare un giretto a San Francisco. Verso le tre del mattino, fai un salto nei dintorni della Terza Strada; è l'ora in cui escono i giornali del mattino. Leggi le ultime notizie. Poi torna a San Quintino, precedendo il rimorchiatore che attraversa la Baia e che porta i giornali. Informami sulle ultime notizie. Io mi procurerò uno di questi giornali. Se le notizie corrisponderanno, accetterò come verità di Vangelo tutto ciò che mi racconterai delle tue passeggiate.


Era, infatti, una prova decisiva, e io approvai Oppenheimer, dichiarando a mia volta che tale esperienza avrebbe eliminato qualsiasi dubbio. Morrell accettò. Ma era contrario a lasciare inutilmente il suo corpo. Perciò decise che lo avrebbe fatto soltanto se un giorno avesse meritato la camicia di forza, al di fuori della sua volontà, e se realmente avesse sofferto troppo.


A questo punto, finì la nostra conversazione...




16. TERRA DI COREA


Una volta, fui Adamo Strang, un inglese. L'epoca approssimativa di questa mia vita posso stabilirla fra il 1550 e il 1650, e vissi questa esistenza fino a un età molto avanzata, come apprenderete dal mio racconto.


I ricordi della mia vita come Adamo Strang non cominciano che verso i trent'anni. Nella camicia di forza, Adamo Strang mi è apparso parecchie volte. Ma sempre nel pieno della sua virilità, coi muscoli robusti, uomo in tutta la pienezza dei suoi trent'anni.


Lo "Sparviero", sul quale navigavo come marinaio, era un bastimento olandese partito per le Indie, e che si era avventurato molto al di là, in mari sconosciuti, alla ricerca di nuove ricchezze.


Il vecchio Giovanni Maartens, che lo comandava, e la cui faccia animalesca non aveva in apparenza niente di romantico, sognava la scoperta di terre vergini, inesplorate, di una nuova Golconda che lo rifornisse abbondantemente di seta e di spezie.


La realtà delle cose mi obbliga a dire che trovammo soprattutto la febbre, le morti violente, e dei paradisi pestilenziali la cui bellezza ricopriva dei veri carnai. E anche dei cannibali che soggiornavano sugli alberi e che erano per di più degli arrabbiati cacciatori di teste. Sbarcammo in varie isole, battute furiosamente dalle onde, con delle alte montagne su cui fumavano dei vulcani. Là, degli uomini nani, dai capelli crespi, che assomigliavano piuttosto a delle scimmie, delle quali possedevano il grido lamentoso e insopportabile, vivevano al riparo delle foreste e della giungla, da cui c'inviavano, nell'ombra della sera, dei nugoli di frecce avvelenate. Chiunque di noi fosse stato punto con una di queste frecce, sarebbe morto immancabilmente, fra sofferenze orribili.


Altrove, uomini più grandi e ancora più feroci ci affrontavano sulla riva. Scagliavano su di noi frecce e giavellotti, al suono di guerra dei loro tam-tam e dei loro tamburi. E ovunque, s'imboscavano sul nostro passaggio, fra tronchi d'alberi, mentre da una collina all'altra salivano delle colonne di fumo, che chiamavano alle armi tutta la popolazione.


L'ufficiale che fungeva da commissario di bordo, Hendrick Hamel, era anche comproprietario dello "Sparviero"; tutto ciò che non era suo apparteneva al capitano Maartens, e viceversa. Questi bestemmiava un po' l'inglese, e Hamel non molto di più. I marinai parlavano soltanto l'olandese. Ma da parte mia facevo presto a imparare tutte le lingue, prima l'olandese, poi, come vi racconterò, anche il coreano!


Dopo una navigazione burrascosa, arrivammo a un'isola di proprietà giapponese che non era segnata sulla nostra carta. Gli abitanti rifiutarono ogni rapporto con noi. Due funzionari vennero a bordo e ci invitarono, molto gentilmente, ad allontanarci al più presto.


Sotto l'apparenza cortese delle loro maniere e dei loro discorsi, traspariva l'ardore guerriero della loro razza, e noi ci affrettammo a salpare.


Attraversammo senza difficoltà gli arcipelaghi giapponesi, e arrivammo nel Mar Giallo, con rotta verso la Cina.


Dopo un tremendo uragano che per due giorni ci aveva fatto rollare spaventosamente, il vento era improvvisamente cambiato. Lo "Sparviero" si era rifiutato di obbedire al timone e se ne andava alla deriva.


Ci dirigemmo verso terra, nel chiarore attonito di un'alba plumbea, su un mare infuriato, le cui onde si alzavano alte come montagne. Eravamo d'inverno. Attraverso una tormenta di neve, potevamo intravedere, a tratti, una costa. Se si può chiamare costa un insieme di scogli spumeggianti, d'innumerevoli rocce paurose, al di là delle quali apparivano delle spiagge sassose, dei promontori che sprofondavano i loro speroni aguzzi nel mare.


Oltre questo temibile riparo, si profilava una catena di montagne, candida di neve.


La prua dello "Sparviero" urtò in pieno contro uno scoglio, e il nostro albero di bompresso si spezzò alla base, come un giunco.


L'albero di trinchetto subì la stessa sorte, precipitando in acqua con tutte le sartìe.


Inzuppato fradicio e sbattuto sul ponte dalle ondate, riuscii a raggiungere Giovanni Maartens, sul cassero. Altri uomini dell'equipaggio seguirono il mio esempio, e come me si legarono solidamente con delle corde. Ci contammo. Eravamo diciotto: tutti gli altri erano scomparsi.


Maartens non aveva perso il suo sangue freddo. Mi indicò una cascata d'acqua salata, che precipitava da un'anfrattuosità della costa rocciosa.


Capii subito che cosa voleva dire. Desiderava sapere se mi sentivo capace di scalare l'albero maestro, miracolosamente ancora in piedi, e saltare di là sulla piccola piattaforma che a venti piedi al di sopra del cassero dominava quell'incavo, nella roccia a picco.


Naturalmente, la larghezza del salto variava di secondo in secondo, a causa delle oscillazioni dell'albero. A volte era di sei piedi, a volte raggiungeva i venti.


Mi slegai, e cominciai a salire. Giunto sulla cima dell'albero, misurai con un'occhiata la larghezza del salto, e mi slanciai.


L'acrobazìa riuscì, e atterrai nell'anfrattuosità. Là, mi misi bocconi, pronto a tendere la mano ai miei compagni che intanto avevano scalato anch'essi l'albero. Non c'era tempo da perdere; da un momento all'altro, lo "Sparviero" poteva sprofondare nei gorghi.


Il cuoco di bordo fu il primo a saltare. Vidi il suo corpo che girava su se stesso, poi un'ondata lo afferrò, mentre cadeva, fracassandolo contro la roccia. Uno dei mozzi, un ragazzo di vent'anni, fu scagliato dall'albero contro uno spigolo roccioso.


Morì sul colpo. Due altri uomini finirono nel vuoto, come il cuoco. I quattordici che rimanevano e il capitano Maartens, che saltò per ultimo, riuscirono a saltare senza inconvenienti. Un'ora dopo, lo "Sparviero" veniva inghiottito dalle onde.


Per due giorni e due notti, rimanemmo aggrappati alla scogliera, senza una via d'uscita.


All'alba del terzo giorno, un battello da pesca ci avvistò nel rifugio in cui eravamo appollaiati.


Gli uomini del battello erano vestiti completamente di bianco, anche se la sporcizia rendeva i loro abiti di un effettivo color grigio. I capelli erano annodati sulla sommità del loro cranio.


Questo nodo, venni a sapere dopo, distingueva quelli che erano sposati.


Il battello tornò verso il villaggio a cercare dei rinforzi.


Accorsero tutti, con delle corde, e fu necessario lavorare quasi tutta la giornata per toglierci dalla nostra scomoda posizione.


Dopo di che, ci condussero con loro.


Era gente povera, e il loro nutrimento era di difficile digestione, anche per lo stomaco d'un marinaio. Il loro riso, incredibilmente sporco, era scuro come cioccolato. Si nutrivano anche d'una specie di miglio, impastato con cetrioli d'una qualità speciale e di un sapore così acre che appestavano la bocca.


Le case erano di fango seccato, con un tetto di paglia. Nelle pareti interne erano praticate delle aperture, che lasciavano passare il fumo della cucina. In questo modo, si riscaldava la stanza in cui si dormiva.


Ci riposammo così per diversi giorni, consolandoci della nostra disgrazia col loro tabacco dolcissimo e con una specie di beveraggio lattigginoso fortemente alcoolico. Naturalmente, le sbornie erano all'ordine del giorno...


Ciò che avevamo visto fino ad allora della terra di Cio-Sen, - (che bel nome! non si poteva proprio scegliere meglio...) - non era fatto davvero per suscitare il nostro entusiasmo. Se quei disgraziati pescatori erano un campione dell'intera popolazione, non ci voleva molto a capire perché quel paese avesse attirato così poco i navigatori stranieri.


Ma ci sbagliavamo. Il nostro villaggio faceva parte di un'isola, e quelli che lo dirigevano dovevano aver spedito un messaggio sul continente. Un mattino, infatti, tre enormi giunche a due alberi gettarono l'àncora poco lontano dalla spiaggia.


Quando i canotti di bordo approdarono, gli occhi del capitano Maartens si spalancarono a dismisura su una seta magnifica che gli splendeva davanti.


Era sbarcato un Coreano, vestito appunto di seta da capo a piedi, d'una seta multicolore, dai mille riflessi. Alto e di bell'aspetto, il Coreano era circondato da una mezza dozzina di servitori, vestiti anch'essi di seta.


Questo nobile personaggio si chiamava Kwan-Yung-Jin, come seppi più tardi. Era un YANG-BAN, cioè un nobile. Esercitava le funzioni di magistrato o governatore della provincia da cui dipendeva l'isola.


Un centinaio di soldati sbarcarono al suo seguito, dirigendosi con lui verso il villaggio. Alcuni erano armati di lance, altri di antidiluviani fucili a miccia.


I capi del villaggio tremavano di paura al suo cospetto, e senza dubbio non avevano torto. A nome dei miei compagni mi feci avanti, balbettando le parole di coreano che conoscevo.


Kwan-Yung-Jin assunse un'aria sdegnosa e mi fece segno di allontanarmi. Obbedii senza alcun timore. Perché avrei dovuto temerlo? Ero grande come lui; e in quanto a peso, lo superavo.


Egli mi voltò la schiena e si diresse verso il capo del villaggio, mentre i servitori formavano fra lui e noi un cordone protettivo.


Mentre lui parlava, parecchi soldati si fecero avanti portando sulle loro spalle delle assicelle lunghe circa sei piedi e larghe circa due, che erano curiosamente tagliate nel senso della lunghezza. All'estremità era stato praticato un foro rotondo, d'un diametro inferiore a quello della testa d'un uomo.


Kwan-Yung-Jin diede un ordine. Due soldati, muniti d'una di quelle tavole, si avvicinarono a Tromp che se ne stava seduto per terra, tutto occupato a esaminarsi un panereccio che aveva in un dito.


L'olandese Tromp era lento nei gesti come nei riflessi. Prima ancora che riuscisse a rendersi conto di che cosa si trattava, la tavola si aprì come le forbici; poi si richiuse intorno al suo collo.


Tromp si mise a urlare come un ossesso, e a girare in tondo come una trottola impazzita.


Da quel momento, la situazione precipitò. Era evidente che Kwan- Yung- Jin aveva intenzione di metterci tutti alla gogna; e la battaglia ebbe inizio. Ci battevamo a pugni nudi contro un centinaio di soldati armati, per non parlare degli abitanti del villaggio, che davano loro man forte, mentre Kwan-Yung-Jin se ne stava in disparte, avvolto nella sua seta, con fiero distacco.


Fu in quell'occasione che mi guadagnai l'appellativo di Yi-Yong- ik, l'Onnipotente. I miei compagni erano già stati sopraffatti e messi alla gogna, quando io lottavo ancora. Avevo dei pugni duri come magli, e per dirigerli possedevo dei solidi muscoli e una volontà altrettanto solida. Con mia grande gioia avevo capito che i Coreani ignoravano completamente l'arte del pugilato. Così, li abbattevo come tanti birilli, ed essi cadevano in serie, gli uni sugli altri.


Ma alla fine fui letteralmente soffocato dal numero, e costretto come gli altri compagni alla gogna.


Ci caricarono tutti, e incominciarono quell'imprevisto viaggio.


- Buon Dio! - chiese Vandervoot, - che cosa ci aspetta ancora?


Pigiati come pollame in un giorno di mercato, eravamo seduti sul ponte, uno attaccato all'altro. E a più riprese, a ogni inclinazione della giunca, rotolammo sul ponte come barili vuoti.


Giunti sul continente, ci gettarono in una prigione puzzolente, infestata di pidocchi.


Questa fu la nostra entrata in suolo coreano, e il nostro primo contatto coi funzionari di quel paese.


Restammo in questa prigione per parecchi giorni. Kwan aveva inviato un messaggero a Keijo, la capitale, per conoscere la decisione del sovrano nei nostri confronti.


Nel frattempo eravamo diventati oggetto di una vera e propria esibizione esotica. Dall'alba al tramonto, le sbarre delle nostre finestre erano assediate dagli indigeni, i quali evidentemente non avevano mai visto degli esemplari della nostra razza.


Da parte sua, Kwan-Yung-Jin non ci dimenticava. Tutte le volte che gliene veniva il capriccio, ordinava di farci uscire dalla prigione e di bastonarci per la strada, fra le grida di gioia della plebaglia.


Finalmente, con nostro grande sollievo, le bastonature cessarono.


Il motivo fu l'arrivo di Kim.


Chi era Kim? Di lui dirò soltanto che era il cuore più generoso che avessimo incontrato in Corea. Allora era capitano e comandava cinquanta uomini. Poi diventò comandante delle Guardie del Palazzo. E, infine, morì per amore della signora Om, e mio. Chi era Kim? Era Kim, e basta!


Appena egli giunse, i nostri colli furono liberati dalla gogna e fummo alloggiati nel migliore albergo del luogo. Senza dubbio eravamo ancora dei prigionieri, ma dei prigionieri con una guardia d'onore di cinquanta cavalieri.


L'indomani, percorrevamo la grande strada reale; sedici marinai sopra sedici cavalli nani diretti verso Keijo. L'Imperatore, mi spiegò Kim, aveva espresso il desiderio di abbassare il suo sguardo sugli strani "Diavoli dei Mari".


Il viaggio durò parecchi giorni, poiché dovevamo attraversare completamente, da nord a sud, metà del territorio coreano.


Alla prima fermata, essendo disceso di sella, andai a rifocillare le nostre cavalcature. Gli uomini della scorta nutrivano i loro cavalli con una specie di minestra di fave, ben calda. E durante tutto il nostro viaggio, i cavalli ebbero sempre una razione abbondante di questa minestra calda di fave.


Come ho detto, erano dei cavalli nani, piccolissimi. Avendo fatto una scommessa con Kim, ne sollevai uno. Nonostante i suoi nitriti e la resistenza che oppose, lo alzai sopra le mie spalle, dove lo sostenni a lungo. Dopo di ciò, gli uomini di Kim, che avevano già sentito parlare del mio soprannome di "Yi-Yong-ik", l'Onnipotente, mi diedero, da allora in poi, solo quel nome.


Kim era piuttosto grande per essere un Coreano. Egli si riteneva inoltre di una robustezza eccezionale. Ma, gomito contro gomito e palma contro palma, io gli facevo abbassare il braccio come volevo. Così i soldati e tutti quelli che si radunavano al nostro passaggio, mi guardavano a bocca aperta, mormorando: "Yi-Yong- ik!". La mia fama mi aveva preceduto.


Di pane non ne vedevamo neppure l'ombra, ma avevamo in abbondanza del riso bianchissimo, come pure una carne, che scoprii immediatamente essere carne di cane, animale che viene regolarmente macellato nelle botteghe coreane. Il tutto era condito con spezie fortissime, che finirono però con il piacermi moltissimo. Come bevanda avevamo un liquido bianco, limpido, che dava rapidamente alla testa, proveniente dalla distillazione del riso, e del quale una sola pinta sarebbe stata sufficiente ad uccidere un uomo non in gamba, mentre eccitava meravigliosamente un uomo forte, al punto da renderlo quasi pazzo.


A Ciong-ho, una città fortificata che attraversammo, in seguito a una straordinaria bevuta di questo liquore, vidi Kim e i notabili coreani rotolare sotto la tavola. Dovrei dire sopra la tavola, visto che questa non era altro che il pavimento, su cui eravamo accoccolati, e dove, per la millesima volta, fui colto ai garretti da crampi feroci.


Anche qui, tutti mormoravano: "Yi-Yong-ik!"; e la gloriosa fama mi precedette alla stessa Corte dell'Imperatore.


In verità, ero ormai diventato un prigioniero soltanto di nome, e ne approfittavo per cavalcare quasi sempre al fianco di Kim. Kim era giovane. Kim era un uomo unico, universale. E in ogni circostanza, non smentiva mai se stesso. Tutta la giornata e una buona metà della notte, discorrevamo e scherzavamo fra noi. Dovevo aver ricevuto il dono delle lingue, perché imparai il coreano con estrema rapidità. Kim si meravigliava continuamente dei miei progressi.


Mi teneva anche al corrente sui costumi e sul carattere degli indigeni, sulle loro virtù e sui loro difetti. M'insegnò diverse canzoni, canzoni di fiori, canzoni d'amore, e canzoni... per bevitori. Eccone una da lui composta, e di cui tenterò di tradurvi la strofa finale.


Kim e Pak, nella loro giovinezza, hanno firmato fra loro un patto, secondo cui d'ora in avanti si sarebbero astenuti dal bere. Il patto non tarda a essere spezzato, ed entrambi cantano in coro:


No, non mi trattenere!


La coppa affascinante sopra ogni altra cosa al mondo, dove tanto bevetti, mi renderà giocondo; la coppa del buon vino color del rubino!


Dimmi, amico: dov'è?


vicino a quel pesco rosa?


Buona fortuna a te:


io voglio bere a iosa...


Hamel, tipo decisamente intrigante e scaltro, m'incoraggiava nei miei scherzi che mi attiravano la benevolenza di Kim e, di riflesso, giovavano notevolmente a tutta la compagnia. Hamel non smise d'essere il mio consigliere; e fu seguendo i suoi consigli che guadagnai in seguito il favore di Yunsan, il cuore della signora Om e la benevolenza dell'Imperatore.


Fino a Keijo, i territori che percorrevamo erano dominati da alte montagne nevose, sul fianco delle quali si aprivano numerose e fertili vallate, cosparse di città fortificate. Ogni sera, di cima in cima, si accendevano dei segnali fiammeggianti. Kim non mancava mai d'osservare con attenzione queste catene di fuoco che rosseggiavano dalle coste alla capitale, portando all'Imperatore il loro messaggio. Una sola fiamma significava che il paese era in pace. Due fiamme annunciavano una rivolta o un'invasione straniera. Durante il nostro viaggio, non vedemmo mai più d'una sola fiamma.


Mentre cavalcavamo, Vandervoot, che chiudeva la marcia, non cessava di meravigliarsi. E continuava a domandare:


- Dio del cielo? Cos'altro ancora?...




17. LA SIGNORA OM


Keijo, la capitale, era una grande città, dove tutta la popolazione, eccettuati i nobili, o "yang-bans", era vestita di bianco. Questo, mi spiegò Kim, permetteva di riconoscere a prima vista, secondo il grado di pulizia o di sudiciume dei vestiti, la posizione sociale di ogni persona. Soltanto i nobili, con le loro sete multicolori, erano molto al di sopra di questa volgare classifica.


Dopo esserci riposati per parecchi giorni in un albergo, dove riparammo alla meglio i guasti causati dal naufragio e dal lungo viaggio al nostro abbigliamento, fummo chiamati alla presenza dell'Imperatore.


Un grande piazzale si apriva di fronte al Palazzo imperiale, che era preceduto da cani colossali in pietra scolpita.


I muri di pietra del palazzo, coperti di sculture complicate, erano così robusti da sfidare i più potenti cannoni di un esercito assediante. Dei soldati dalle uniformi sgargianti montavano la guardia davanti a una grande porta. Erano, mi informò Kim, quelli che essi chiamavano i "cacciatori di tigri", cioè i guerrieri più valorosi e più temuti di tutta la Corea.


Invece che in una sala d'udienza, fummo condotti direttamente in una Sala da pranzo, dove ci attendeva l'Imperatore.


Il banchetto era alla fine e la folla degli invitati era d'umore eccellente. Una folla formicolante e superba! Alti dignitari, Principi del sangue, Nobili, Sacerdoti, Ufficiali superiori, Dame di corte a viso scoperto, Ballerine imbellettate, Dame d'onore, governanti, eunuchi, servitori e schiavi.


Tutta questa folla si scostò quando l'imperatore, accompagnato dai suoi familiari, si avanzò per esaminarci. Era, soprattutto per un asiatico, un monarca amabile. Non doveva oltrepassare i quarant'anni, e la sua pelle chiara non aveva mai conosciuto la sferza del sole. Era obeso, quasi rachitico su due gambe deboli e sottili. Tuttavia, la sua fronte conservava un'aria di estrema nobiltà. Ma i suoi occhi erano cisposi, coperti da palpebre rugose, e le sue labbra si contraevano in un tremito continuo.


Come seppi poi, era l'effetto degli eccessi a cui si abbandonava, incoraggiato in questo da Yunsan, il Gran sacerdote buddista e provveditore imperiale, del quale riparleremo.


Coi nostri poveri vestiti facevamo, i miei compagni e io, una ben meschina figura, nell'ambiente che ci circondava. Dapprima vi furono delle esclamazioni di stupore, poi delle risate. Le ballerine ci circondarono. Trascinandoci nelle loro evoluzioni come degli orsi da circo.


Era una cosa umiliante. Ma che cosa potevano fare i poveri lupi di mare?


Per quanto mi riguarda, ritenni infamante la parte di buffone che si pretendeva di farmi rappresentare. Resistetti alla scherzosa Ki-sang. Irrigidito sulle gambe, le braccia incrociate, ignorai pizzicotti e carezze. Mi abbandonarono, per rivolgersi agli altri.


Hamel, portandosi dietro le ballerine che l'avevano preso di mira, si precipitò verso di me, dicendomi a strappi:


- Per amor di Dio, cerca di fare qualcosa, e di togliermi da questo impaccio...


Ho detto "a strappi", perché ogni volta che apriva la bocca per parlare, le tre ballerine gliela empivano di dolciumi.


Continuò a parlare alla meglio, schivando la testa a destra e a sinistra, per evitare quelle mani accanite e piene di dolciumi.


- Queste buffonate sono deleterie per la nostra dignità. Ci rovineranno. Siamo ridotti allo stato di animali domestici.


T'invidio e mi rincresce di non poter imitare la tua resistenza.


Ah, queste cretine! Continua a farti rispettare da loro; e se puoi facci rispettare anche noi...


L'ilarità della Corte aumentava, e con essa si accrebbe anche la mia audacia. Un eunuco che, alle mie spalle, mi solleticava il collo con una lunga piuma, mi fece decidere. Non lasciai trasparire niente dei miei propositi. Ma, improvvisamente, rapido come un lampo, senza nemmeno voltare la testa e il corpo, gli allungai in piena faccia un potentissimo ceffone.


Si udì uno scricchiolio, e l'eunuco rotolò su se stesso, come una palla, fermandosi contro una parete a dodici piedi di distanza.


Le risate cessarono. Udii mormorare: "Yi-Yong-ik!". Incrociai le braccia e rimasi immobile, pieno d'orgoglio dalla testa ai piedi, affrontando senza abbassare lo sguardo, le centinaia d'occhi che mi fissavano. E fui io che li feci abbassare tutti. Tutti, salvo due.


Erano quelli d'una giovane donna, che dai vestiti e dai servi che la circondavano, giudicai immediatamente come una signora di alto lignaggio. Infatti, era Lad Om, un'autentica principessa, appartenente alla Famiglia dei Min. Sembrava avere la mia età, quasi trent'anni. E benché avesse tutte le doti per essere sposata, tuttavia non lo era.


Mi fissava, gli occhi negli occhi, senza battere ciglio, finché mi costrinse a sfuggire il suo sguardo. Nel suo sguardo non c'era insolenza, né ostilità, né una sfida qualsiasi. Non vi scorsi che un immenso fascino.


Mi dispiaceva confessarmi vinto da quella piccola donna. Così, voltando la testa, finsi di portare la mia attenzione sul gruppo poco decoroso dei miei compagni, in preda alle ballerine. Poi battei le mani, alla maniera asiatica, gridando in coreano, con voce secca, come quando si parla a dei subalterni:


- Voialtre, lasciateli tranquilli!


La sala intera ne rimase come pietrificata. Le donne tremavano dallo sgomento. Le piccole ballerine lasciarono i marinai e il loro capitano, indietreggiando impaurite e gridando. Soltanto la signora Om non sembrò turbata e continuò a fissarmi tranquillamente senza scomporsi!


Il silenzio si fece pesante, come se tutti si aspettassero qualcosa di eccezionale. Tutti gli occhi correvano furtivamente dall'Imperatore a me, e da me all'Imperatore.


Infine, l'Imperatore parlò.


- Conoscete la nostra lingua... - disse semplicemente.


Io non sapevo che cosa rispondere. Mi afferrai alla prima idea che mi passò per la mente.


- Questa lingua, - dichiarai, - è la mia lingua nativa.


L'Imperatore fece una smorfia e le sue labbra si contrassero. Poi mi disse:


- Spiegati!


- E' la mia lingua madre. La parlavo ancora in fasce, e la mia precocità meravigliava tutti quelli che mi avvicinavano. Un giorno fui rapito da pirati e condotto in un paese lontano, dove compii la mia educazione. Dimenticai, così, le mie origini. Ma non appena ho rimesso piede sul suolo coreano, ho riparlato spontaneamente il mio antico linguaggio. Sono Coreano di nascita, e solo adesso mi sento veramente a casa.


Fra i presenti, si alzò un diffuso mormorio. L'Imperatore interrogò Kim.


Questo imprevedibile e straordinario uomo non esitò ad appoggiare le mie parole senza il minimo timore di mentire in mio favore.


- Attesto, - egli disse, - che parlava la nostra lingua, quando lo incontrai, appena uscito dal mare.


Lo interruppi:


- Portatemi degli abiti degni di me!


E voltandomi verso le ballerine aggiunsi:


- Lasciate in pace i miei schiavi! Hanno fatto un lungo viaggio e sono stanchi.


Kim mi portò in un'altra stanza, dove mi aiutò a cambiare vestito.


Poi, rimasto solo con me, mi diede una breve lezione su come esprimermi e comportarmi.


Non sapeva dove mirassi, ma era anche lui pieno di speranza.


Tornai nella Grande Sala.


- Io sono, - annunciai, - del nobile sangue della Casa di Koryu, che un tempo regnava su Songdo.


E raccontai, alla meglio, una vecchia storia che Kim m'aveva raccontato durante le nostre cavalcate.


L'Imperatore mi chiese qualche altra informazione sui miei compagni di sventura. Risposi:


- Come ho già detto, sono i miei schiavi. Tutti, salvo quel vecchio (indicai con il dito Maartens), che è figlio di un uomo libero.


Feci segno a Hamel di avvicinarsi.


- Quest'uomo, - continuai, - è nato nella casa di mio padre, da una razza di schiavi. Mi è particolarmente caro. Siamo della stessa età, nati lo stesso giorno; e in quel giorno, mio padre me lo regalò.


In seguito, quando raccontai a Hamel questa storia, egli mi rimproverò.


- Che vuoi farci? - gli risposi. - Ho detto così, per dire qualcosa. Ormai, quel che è fatto, è fatto! Dobbiamo continuare a recitare la nostra parte...


Taiwun, fratello dell'Imperatore, era decisamente un grande sciocco. Mi sfidò a bere. All'Imperatore piacque l'idea e ordinò a una mezza dozzina dei suoi nobili di partecipare all'orgia. Le donne furono escluse. Per i miei compagni, ottenni che fossero alloggiati a Palazzo, ma chiesi e ottenni che venissero allontanati. Per contro, chiesi a Kim di rimanere vicino a me.


Dopo di che, cominciò la sfida.


Il giorno dopo, tutto il Palazzo parlava delle mie imprese. Avevo ridotto Taiwun e e gli altri campioni in tali condizioni che russavano, ubriachi fradici, quando io mi ero ritirato per andarmene tranquillamente a dormire. Da allora in poi, Taiwun non mise più in dubbio che io fossi un Coreano autentico. Soltanto un compatriota, - secondo lui, - era capace di bere impunemente quanto avevo bevuto io.


Il Palazzo imperiale formava da solo una vera città, e io venni alloggiato, con i miei compagni, in una specie di Padiglione d'Estate, completamente isolato. Scelsi per me l'appartamento migliore. Hamel, Maartens e i marinai dovettero accontentarsi di ciò che lasciai loro disponibile.


Non era ancora trascorso il primo giorno, che Yunsan, il Gran sacerdote, mi faceva chiamare. Quando gli fui davanti, ordinò che fossimo lasciati soli. Eravamo seduti su delle stuoie robuste, in una camera scura.


Che uomo, questo Yunsan! Si mise immediatamente a scrutare la mia anima in tutte le sue profondità. Credeva alla favola della mia nascita? Non potei mai scoprirlo. Come non riuscii mai a penetrare nel suo spirito. Il suo viso, impassibile, non lasciava indovinare nulla dei suoi sentimenti più segreti.


Quello che pensava Yunsan, lo sapeva solo lui. Ma dietro questo sacerdote vestito dimessamente, sentivo il potere effettivo che comandava tutta la Corea. Compresi anche che egli si proponeva di servirsi di me, pensando che potessi essergli utile.


Agiva di sua iniziativa, o per conto della signora Om? Era una questione che per il momento non mi ponevo. Vivevo, secondo il mio temperamento, nel presente, senza preoccuparmi dei fastidi futuri.


Poi, fu la signora Om che mi mandò a chiamare.


Era alloggiata in un vero palazzo, circondato da un parco da Mille e una notte.


La testa mi girava. Non ero indifferente alle belle donne, e penetrando in quella stupenda dimora, provavo un sentimento che era ben diverso da una banale curiosità.


La signora Om non perse tempo in presentazioni superflue. Era circondata da uno stuolo delle sue damigelle. Ma non prestò loro maggiore attenzione di quella che presta un carrettiere al suo cavallo. Mi fece sedere al suo fianco, sopra morbide stuoie, poi ordinò che mi si portassero del vino e dei dolci.


Signore Iddio! Mi bastava guardare i suoi occhi per capire i suoi sentimenti verso di me. Ma, un momento. La signora Om non era una sciocca. Aveva la mia età, e tutta la serietà che si addice a questa età. Sapeva quello che voleva, e quello che non voleva.


Proprio per questo non s'era mai sposata, malgrado tutte le pressioni esercitate su di lei da una Corte asiatica.


Avevano cercato di costringerla a sposare un suo lontano cugino, un certo Ciong-Mong-ju. Tutt'altro che sciocco, quest'ultimo aveva sperato, con questo matrimonio, d'impadronirsi effettivamente del potere detenuto dal Gran sacerdote.


Yunsan, che non voleva cedergli il posto di comando, era anch'egli candidato segreto alla mano della signora Om e faceva ovviamente tutto il possibile per allontanarla da suo cugino. Premetto che non scoprii subito questo intrigo. L'indovinai, in parte, per certe confidenze della signora Om. Il fiuto di Hamel indovinò il resto.


La signora Om era un essere raro. Donne del suo valore, ne nascono due per ogni secolo, nel mondo intero. Lei non si curava delle regole e delle convenzioni sociali. La religione, come la praticava solitamente, era una serie d'astrazioni spirituali, in parte imparate nelle lezioni di Yunsan, in parte estratte dalla sua coscienza. Per quanto concerne la religione comune, quella che s'insegnava al popolo, affermava che era tutta una invenzione destinata a mantenere sotto il tallone migliaia d'uomini, che lavoravano per gli altri.


La signora Om era bella, d'una bellezza che trascendeva le razze.


I suoi grandi occhi neri erano splendidi, tagliati a mandorla, e il battito leggero delle palpebre riusciva a dar loro un fascino speciale.


Principessa e marinaio! Un sogno a occhi aperti! E mi torturavo il cervello per non passare da sciocco e spingere a fondo il mio romanzo. Giocavo con il fuoco, e ne ero felice.


Così, cominciai con il ripetere la storia piuttosto confusa che avevo raccontato in presenza di tutta la Corte.


Lei m'interruppe, dandomi sulle labbra dei lievi colpettini con il suo ventaglio piumato.


- Va bene! - disse. - Ma non raccontatemi delle storie per bambini. Sappiate che per me voi siete qualcosa di meglio che un discendente della casata dei Koryu. Voi siete...


Si interruppe, e io attesi, osservando incantato il crescente ardore del suo sguardo. Dopo un istante, finì la frase:


- Tu sei un uomo! Un uomo come non ne ho mai immaginato, nemmeno nei sogni più arditi delle mie notti.


Che cosa poteva fare, in una simile situazione, un povero marinaio, se non arrossire terribilmente sotto quello sguardo? Gli occhi della signora Om diventarono due pozzi di malizia provocante, mentre, con tutte le mie forze mi trattenevo dall'abbracciarla.


Finalmente, si mise a ridere, e batté le mani. Era un segnale:


l'udienza era terminata.


Andai a trovare Hamel, con la mente ancora sconvolta.


- Ah, le donne! - esclamò, dopo una lunga ed esasperante meditazione.


Poi sorrise, e mi chiese:


- Ami veramente la signora Om?


- Che io l'ami o no, poco importa! - risposi.


Fissò su di me i suoi occhi acuti come spilli, e disse:


- L'ami o no?


- Eh!... abbastanza... - risposi.


- Allora, cerca di conquistarla. E per mezzo suo, un giorno potremo forse ottenere un battello e andarcene da questa terra maledetta.


Ricominciò a fissarmi, come per indovinare il mio pensiero.


- Credi, - mi chiese, - di poterci riuscire?


La domanda mi fece sussultare. Egli sorrise, con aria soddisfatta.


Poi ci lasciammo.


Nei giorni che seguirono, divisi il mio tempo fra le mie udienze con l'Imperatore, le mie bevute con Taiwun, i miei colloqui con il Gran sacerdote, e le ore deliziose che passavo in compagnia della signora Om. Inoltre, spinto da Hamel, imparavo da Kim i mille dettagli dell'etichetta, le maniere della Corte, la storia della Corea e della sua religione, e tutte le raffinatezze del linguaggio. Una fatica infernale...


In realtà, ero una marionetta nelle mani di Yunsan, che si serviva di me per i suoi segreti fini. Egli muoveva i fili, senza che io capissi niente dell'intero intrigo. Con la signora Om, invece, ero un uomo e non una marionetta. Tuttavia, quando ripenso a quei giorni, ho dei dubbi su questo punto... Pur cercando di soddisfare con me la sua passione, credo che essa mi guidasse secondo un suo preciso disegno. Con tutto ciò, ci comprendevamo. Il reciproco desiderio era così ardente, che nessuna volontà, nemmeno quella di Yunsan, vi si poteva opporre.


L'intrigo di palazzo, che indovinavo soltanto vagamente, era diretto contro Ciong-Mong-ju. Ma c'erano tanti di quei fili, che io mi perdevo in questo labirinto! Anche se non me ne preoccupavo troppo.


Mi contentavo di riferire a Hamel tutti i dettagli interessanti che riuscivo a scoprire, e parte dei colloqui che avevo con la signora Om. Omettendo, naturalmente, i più teneri che non lo riguardavano affatto.


Non entrerò nei particolari del mio amore per la signora Om. Dirò soltanto che ci amavamo perdutamente, e che niente e nessuno sembrava in grado di poterci dividere.


Poi, a poco a poco, si presentò il problema del nostro matrimonio.


In principio, con semplici chiacchiere di Corte, con bisbigli a bassa voce fra eunuchi e domestiche. Ma a Palazzo, non c'era chiacchiera che non finisse per arrivare fino al trono.


Questa voce non era più un segreto per nessuno. Il Palazzo intero entrò in una grande agitazione. Per Ciong-Mong-ju, poi, una prospettiva del genere era un vero pugno fra gli occhi.


Egli affrontò, contro Yunsan, la battaglia decisiva. Riuscì ad attirare a sé metà del clero della provincia, e l'Imperatore sgomento vide sfilare interminabili processioni di sacerdoti che protestavano.


Yunsan tenne duro. L'altra metà del clero gli restava fedele, come tutte le grandi città dell'Impero, quali Keijo, Fusan, Song-do, Pyen- Yang, Cenampo e Cemulpi. Yunsan e la signora Om affrontarono l'Imperatore. Yunsan finì col vincere la partita organizzando per quel povero monarca nuove orge, preparate su misura allo scopo.


Così arrivò un bel giorno in cui Yunsan mi disse:


- Dovete lasciarvi crescere i capelli, per il nodo del matrimonio.


Dato che non era nell'ordine logico delle cose che una Principessa di sangue imperiale sposasse un marinaio, anche se questi affermava di essere un discendente dei Principi di Koryu, l'Imperatore promulgò un decreto che dichiarava che tale era la mia autentica ascendenza. Contemporaneamente, essendo stati decapitati i Governatori ribelli di cinque province, ne fui nominato Governatore unico.


Le province che mi erano state affidate, erano situate alla frontiera settentrionale della Corea. Al di là, si estendeva il paese che oggi viene chiamato Manciuria, e che allora era conosciuto sotto il nome di Paese degli Hongdas, o delle "Teste Rosse".


Le "Teste Rosse"! Erano degli audaci predoni a cavallo, che a volte attraversavano lo Yalu per abbattersi come cavallette sul territorio coreano. Per esperienza personale, posso dire che erano degli ottimi combattenti, e che non era facile batterli.


L'anno che seguì si rivelò molto difficile. Mentre, a Keijo, Yunsan e la signora Om finivano con il mettere a tacere completamente Ciong- Mong-ju, da parte mia, come governatore, mi facevo un nome glorioso. Era sempre Hamel, nell'ombra, che mi spingeva e dirigeva. Ma per tutti, ero io l'uomo abile e valoroso che comandava e agiva.


In mio nome, Hamel insegnò alle mie truppe la tattica europea e le condusse a combattere contro le Teste Rosse. Fu una lotta magnifica ed estenuante che durò un anno. Ma alla fine, la frontiera settentrionale della Corea era pacificata, e sulla riva coreana non si trovava più una sola Testa Rossa, all'infuori dei morti lasciati dal nemico.


Ma torniamo a Keijo e alla signora Om.


Era veramente una gran donna! E per quattro anni, potei possederla in pace. Tutta la Corea aveva ormai accettato il nostro matrimonio. Ciong-Mong-ju, caduto del tutto in disgrazia, s'era ritirato sulla costa dell'estremo nord-est per guarire le sue ferite. Yunsan comandava da dittatore.


La pace regnava sul paese dove, tutte le notti, correvano i segnali che la proclamavano.


L'Imperatore, immerso nelle sue orge, s'indeboliva sempre più, e i suoi occhi si facevano sempre più cisposi. Kim comandava le guardie del Palazzo.


Anche Maartens non era stato dimenticato e salì di grado. Che vecchia volpe! Non sospettavo certo le sue intenzioni, quando mi chiese d'essere nominato governatore della piccola e povera provincia di Kyong-ju. La residenza era veramente una tomba, una tomba sacra, perché sulla montagna di Tabong erano seppellite, in ricche urne, le ossa degli antichi Re di Silla. Maartens mi disse che preferiva essere il primo nella insignificante provincia di Kjong-ju, anziché l'aiutante di Adamo Strang. E io ero ben lontano dal sospettare che se egli conduceva con sé quattro marinai, ciò non fosse unicamente per rompere la solitudine...


I primi tempi della mia alta carica furono stupendi. Governavo le province settentrionali servendomi di Nobili decaduti, scelti per me da Yunsan. Essi svolgevano tutto il lavoro, e la mia opera consisteva nel fare, ogni tanto, qualche ispezione in compagnia della signora Om. Possedevamo, sulla costa meridionale, un Palazzo d'Estate stupendo, dove risiedevamo di preferenza.


Nel frattempo, Hamel si preparava ad agire, e i suoi progetti si precisavano ogni giorno di più. In mancanza delle nuove Indie che non avevamo trovato, voleva rifarsi sulla Corea. Non si confidava molto con me, ma quando incominciò a manovrare perché diventassi ammiraglio della flotta di giunche del Cio-sen, e a informarsi ripetutamente sui segreti del Tesoro imperiale, potei indovinare facilmente quali erano i suoi progetti.


Quanto a me, non desideravo affatto lasciare la Corea, se non in compagnia della signora Om. Ne parlai con lei. Mi rispose, stringendomi fra le braccia, che ero io il suo re, e che mi avrebbe seguito dovunque fossi andato.




18. QUARANT'ANNI DI VAGABONDAGGIO


Yunsan aveva commesso un grave errore, lasciando in vita Ciong- Mong-ju. Un errore! In realtà, non aveva potuto agire altrimenti.


Caduto in disgrazia e bandito dalla Corte, Ciong-Mong-ju, mentre sembrava essersi ritirato del tutto a covare il suo livore sulla costa nord-est, aveva proseguito nei suoi intrighi, conservando intatta la sua popolarità tra il clero della provincia. Dei sacerdoti buddisti gli servivano come propagandisti. Continuavano a percorrere il paese, guadagnando alla sua causa tutti i funzionari imperiali, ottenendo da loro un giuramento d'obbedienza in suo favore. Yunsan non ignorava certo quello che si ordiva nell'ombra; ma non osava intervenire.


Nello stesso Palazzo imperiale, il partito di Ciong-Mong-ju cresceva di numero, molto più di quanto Yunsan potesse immaginare.


Le stesse guardie del Palazzo, i famosi "Cacciatori di tigri", comandati da Kim, furono guadagnati alla sua causa.


Quando la tempesta si scatenò, fu veramente un uragano, in tutti i sensi. E fu Maartens che fece scoppiare la congiura prima della scadenza stabilita da Ciong-Mong-ju, fornendogli una magnifica occasione per agire.


E' risaputo che i Coreani hanno per gli antenati un culto fanatico; ebbene, quel vecchio pirata, in compagnia dei suoi quattro marinai, nella provincia sperduta di Kyong-ju, commise la follia di profanare le tombe degli antichi Re di Silla, sepolti da secoli, nei loro feretri d'oro!


L'operazione venne compiuta durante la notte e, prima dell'alba, i cinque congiurati si mettevano già in strada per guadagnare la costa.


Il giorno seguente, però, si abbatté sulla zona un fitto nebbione, ed essi si smarrirono. Così, non poterono raggiungere la giunca che li aspettava, e che Maartens aveva noleggiato per l'occasione.


Un funzionario locale, un certo Yi-Sun-Sin, fedelissimo a Ciong- Mong-ju, si lanciò al loro inseguimento con dei soldati. Furono circondati e fatti prigionieri. Soltanto Ermanno Tromp riuscì a fuggire, e in seguito poté raccontarmi i particolari del fatto.


Per tutta quella notte, quantunque la notizia si fosse già propagata attraverso le province del nord, le quali si sollevarono in massa contro i funzionari imperiali, Keijo e la Corte dormirono tranquillamente, in una completa ignoranza degli avvenimenti. Per ordine di Ciong-Mong-ju, i fuochi di pace continuarono a brillare su tutte le montagne della Corea. Così accadde anche nelle notti seguenti, mentre i messaggeri di Ciong galoppavano ventre a terra, per portare ovunque i suoi ordini sovrani.


Mentre uscivo da Keijo, verso il crepuscolo, per un giro a cavallo in campagna, vidi abbattersi, alla porta della città, la cavalcatura sfinita d'uno di questi messaggeri. Proseguii per la mia strada, senza preoccuparmi di sapere chi fosse quell'uomo, e senza dubitare che egli portasse con sé il mio destino.


Il messaggio che recava fece scoppiare la rivoluzione al Palazzo imperiale. Quando rientrai, a mezzanotte, tutto era già terminato.


Fin dalle prime ore della notte, i congiurati s'erano impadroniti dell'Imperatore. I suoi ministri vennero uccisi. Anche i "Cacciatori di tigri" s'erano uniti agli insorti! Yunsan e Hamel furono fatti prigionieri, e picchiati ferocemente a piattonate di sciabola. Gli altri otto marinai riuscirono a fuggire dal Palazzo, trascinando con loro la signora Om. Ciò fu possibile grazie a Kim che, con la spada in pugno, aprì loro un varco. Kim cadde nella lotta. Ma, disgraziatamente per lui, non morì per le ferite riportate.


Fin dall'indomani, Ciong-Mong-ju tornò onnipotente. L'Imperatore accettò tutte le sue condizioni, e Ciong-Mong-ju fu acclamato dappertutto come un vincitore.


Maartens e i tre marinai catturati con lui furono sepolti, fino al collo, nella Grande Piazza, davanti al Palazzo imperiale, e lasciati morire d'inedia davanti a piatti succulenti che non potevano toccare. Il vecchio Maartens morì per ultimo, e rese l'anima soltanto dopo quindici giorni.


Sapienti torturatori spezzarono le ossa di Kim, una ad una; anch'egli fu molto lento a morire.


Hamel fu battuto a morte, fra i clamori gioiosi della plebaglia di Keijo.


Il Gran sacerdote Yunsan morì coraggiosamente, e la sua fine fu degna di lui. Stava giocando a scacchi con il custode della prigione, quando un messo di Ciong-Mong-ju gli presentò una coppa di veleno. Yunsan lo pregò di aspettare un momento.


- Avete dei modi poco cortesi, - gli disse. - Non si disturba un uomo nel bel mezzo d'una partita a scacchi. Berrò appena avrò finito.


Il messaggero attese; Yunsan finì e vinse la partita; poi vuotò la coppa.


Su me e la signora Om, la vendetta di Ciong si abbatté inesorabile, anche se diversa... Non ci uccise. Non ci fece nemmeno imprigionare. Ma, mentre la signora Om era dichiarata decaduta dal suo grado e privata di tutti i suoi beni, un decreto imperiale informava il popolo che io appartenevo alla Casa dei Koryu, e di conseguenza nessuno doveva uccidermi. Anche gli otto marinai sopravvissuti, essendo miei schiavi, non dovevano essere molestati. Come me, e come la signora Om, sarebbero rimasti, per tutta la vita, dei mendicanti...


E così fu, per quarant'anni; perché l'odio di Ciong-Mong-ju era inestinguibile, e il destino volle che egli vivesse lunghi e felici anni, mentre noi trascinavamo la nostra miserabile esistenza.


Tutti gli sforzi che feci per sfuggire alla mendicità furono annullati dall'odio di Ciong-Mong-ju. A Song-ho feci il facchino, usando come abitazione una misera capanna. Ciong-Mong-ju ci scoprì. Fui battuto e ributtato sulla strada. Fu un inverno orribile, incredibilmente rigido, durante il quale il povero Vandervoot - "Che cos'altro ancora?" - morì assiderato nelle vie di Keijo.


A Pyeng-yang, trovai lavoro come portatore d'acqua. Esercitai questo mestiere fino a quando Ciong-Mong-ju mi scoprì. Fui nuovamente battuto, espulso da Pyeng-yang, e ributtato sulla strada.


E sempre così. Nella città di Wiju, feci il macellaio di cani. E fui scoperto.


Poi, diventai apprendista tintore a Pyonhan, cercatore d'oro a Kang- Wun, fabbricante di corde a Ciksan. Intrecciai cappelli di paglia a Padok, falciai il fieno a Wang-hai. A Masempo, curvai la schiena nelle risaie.


Ma non trovai mai un posto dove la lunga mano di Ciong-Mong-ju non mi raggiungesse, e non tornasse a ridurmi un mendicante.


Per intere stagioni, la signora Om e io, cercammo ovunque e riuscimmo a trovare un'unica e preziosa radice di "ginseng", quella pianta selvatica di montagna tanto rinomata tra i medici, col prezzo della cui vendita avremmo avuto di che vivere un anno intero. Ma, proprio nel momento in cui stavo per trattarne la vendita, fui arrestato. La radice fu confiscata, e per di più fui battuto e messo alla gogna per un tempo più lungo del solito.


I membri della Corporazione dei merciai ambulanti informavano sempre Ciong-Mong-ju sui miei movimenti e sulle mie azioni, avvertendo a ogni mia mossa i governatori e i loro agenti.


Qualunque cosa si facesse, era impossibile fuggire, sia attraverso le frontiere settentrionali, sia imbarcandoci per mare.


Una sola volta, prima di quella che fu poi l'ultima, incontrai Ciong- Mong-ju. Accadde in una notte d'inverno, mentre soffiava una violenta tempesta, sulle montagne di Kong-wu. Un piccolo gruzzolo, messo da parte con grandi sacrifici, ci aveva permesso di affittare un ricovero per la notte, nell'angolo più lontano e più sudicio dell'unica grande sala di un albergo. Stavamo per consumare il nostro pasto, composto di fave e d'aglio selvatico, annegati in una orribile brodaglia, con un minuscolo pezzo di carne di bue, così coriacea, che l'animale da cui proveniva doveva essere morto certamente di vecchiaia. In quel momento, udimmo tintinnare fuori le campanelle di bronzo e risuonare gli zoccoli di alcuni cavalli.


La porta si spalancò, e comparve Ciong-Mong-ju, personificazione vivente del benessere, della prosperità e della potenza, scuotendo la neve dai suoi magnifici calzari.


Improvvisamente, i suoi occhi si fermarono, - credo per puro caso, perché l'albergo era pieno di gente, - sopra di noi.


- Sbarazzatemi di quei vermi là, in quell'angolo... - ordinò.


Allora i suoi uomini ci colpirono con le loro fruste, e ci cacciarono fuori, in piena tempesta.


Non esiste, o Corea, una sola delle tue strade, un sentiero di montagna, un paese qualsiasi, che non m'abbia conosciuto! Per quarant'anni ho calpestato il tuo suolo e ho conosciuto la fame, e la signora Om ha diviso con me la mia miseria. Spinti dalla disperazione, che cosa mai non abbiamo mangiato? Sì, ho disputato le ossa ai cani, raccolto dei chicchi di riso caduti sulla strada, rubato ai cavalli la loro zuppa di fave.


Per quarant'anni, conoscemmo gli angoli più luridi della Corea, gli insulti e le percosse della plebaglia...


Più d'una volta, i "coolies" che ingiuriavano a sangue la signora Om, conobbero la violenza del mio pugno, la collera della mia mano che li schiaffeggiava. Talvolta, nelle montagne, in villaggi sperduti, abbandonati da Dio, incontravamo delle vecchie che quando vedevano passare al mio fianco la signora Om, la Principessa decaduta, sospiravano, crollando il capo, mentre i loro occhi si velavano di lacrime. Altre donne, giovani, si muovevano a pietà nel vedere le mie larghe spalle, i miei lunghi capelli chiari, dell'uomo che un tempo era stato il Principe di Koryu e il governatore di intere province. Frotte di monelli ci seguivano lungo la strada. Essi non avevano nessuna pietà e ci bersagliavano d'insolenze e di parole oscene.


Oltre lo Yalu, si stendeva una pianura deserta che dal Mare del Giappone al Mar Giallo costituiva la frontiera settentrionale della Corea. Anche se deserta, non era una regione anticamente sterile, ma era stata resa tale dalla politica d'isolamento condotta dalla Corea. Su questa pianura, città, villaggi, tutto era stato distrutto. Era la terra di nessuno, infestata da bestie feroci, e percorsa soltanto dai "Cacciatori di tigri" a cavallo, che avevano il compito di uccidere tutti gli esseri umani che v'incontravano. Non c'era pertanto alcuna speranza di fuggire in questa direzione.


Dopo aver vagabondato a lungo, come me, i miei otto compagni portarono di preferenza i loro passi verso la costa sud, dove il clima era più dolce. Inoltre era la regione più vicina al Giappone, le cui coste erano visibili al di là dello stretto che le separava.


La sola speranza di salvezza proveniva da quella parte. Forse qualche nave europea vi sarebbe apparsa, un giorno. E vedo ancora, in piedi sulle coste rocciose di Fusan, quegli otto vecchi che sospiravano la patria perduta.


Gli anni passavano. La signora Om e io, come gli altri, eravamo ormai vecchi. Anche noi ci recavamo spesso a Fusan, dove ci si trovava tutti insieme.


Poi, con il passare degli anni, qualcuno mancava all'abituale raduno.


Giovanni Amden fu il primo a lasciarci. Giacomo Brinker ci portò la notizia. Brinker fu l'ultimo degli otto. Aveva quasi novant'anni quando morì.


Mi ricordo, come se fosse ieri, di questi due amici che al termine ormai della loro vita, deboli e accasciati, si riscaldavano al sole, sulle rive di Fusan, con la loro ciotola di mendicanti accanto. Parlavano con le loro voci acute, che somigliavano a quelle dei bambini, raccontandosi mille cose del tempo trascorso.


Tromp ripeteva continuamente come Maartens e i suoi quattro marinai, fra cui si trovava anch'egli, avevano violato le tombe dei Re, sulla montagna di Tabong, come avevano trovato ogni salma imbalsamata nel suo involucro d'oro, fra due vergini imbalsamate come loro; come, infine, quelle secolari mummie, riaffiorate alla luce, si dissolvevano subito in polvere, mentre Maartens e i suoi marinai imprecavano e sudavano, nello spezzare i feretri.


Era stato veramente un colpo magnifico. Maartens avrebbe potuto fuggire con il suo bottino, se non fosse stato per un nebbione che lo portò a smarrirsi. Da un simile avvenimento nacque una canzone che udii cantare in Corea, fino all'ultimo giorno della mia vita.


Diceva: "Yanggukeni ciajin anga


Wheanpong tora deunda..." e si poteva tradurre così: "Sulla cima del Whean c'è una densa nebbia, per gli uomini dell'Occidente..." Sì, per quarant'anni - quarant'anni di miseria e di stenti - fui mendicante in terra di Corea. Fra tutti i miei compagni di dolore, fui l'ultimo a sopravvivere. La signora Om aveva la mia stessa resistenza, e invecchiammo insieme.


Se il mio viso era diventato rugoso, se i miei capelli biondi erano diventati bianchi e le mie spalle s'erano curvate, sopravviveva ancora, nei miei muscoli, una buona parte dell'antica forza. E fu proprio per questo che potei compiere ciò che adesso vi racconterò.


In una mattina di primavera, ero seduto con la signora Om sugli scogli di Fusan. Ci scaldavamo al sole, a pochi passi dalla strada principale. Eravamo stracciati, sporchi, miserabili. Eppure ridevamo di cuore, per una frase scherzosa della signora Om.


A un tratto, un'ombra ci coprì. Era la lettiga di Ciong-Mong-ju, scortata da servi e da cavalieri.


Egli poteva avere allora ottant'anni. Quel mattino, fece un segno con la mano quasi paralizzata, e la lettiga si fermò. Voleva contemplare ancora una volta coloro che da tanto tempo perseguitava.


La signora Om mi mormorò all'orecchio:


- Adesso, o mio Re...


Poi, si voltò per implorare un'elemosina da Ciong-Mong-ju, fingendo di non riconoscerlo.


Io sapevo quello che le passava nella mente. Questo pensiero era stato, per entrambi, come un'idea fissa, durante quarant'anni! E l'ora era giunta, finalmente.


Finsi anch'io di non riconoscere il mio nemico. Strisciai nella polvere verso la lettiga, chiedendo lamentosamente la grazia di un'elemosina.


I servitori si preparavano già a respingermi. La voce chioccia del padrone li trattenne. Lo vidi sollevarsi sopra un gomito, mentre con l'altra mano allargava le cortine della lettiga. Il suo volto incartapecorito s'illuminò d'un lampo crudele, mentre ci covava con lo sguardo.


E la collera rossa mi sommerse. Tentai invano di lottare contro di essa; in questa lotta con me stesso, fui colto da un tremito in tutto il mio corpo.


Tesi verso Ciong la mia ciotola di rame, gemendo pietosamente.


Prima di balzare, calcolai la distanza e le mie forze.


Fu come un colpo di fiamma rossa. Vi fu un gran rumore di cortine che si laceravano, poi degli urli e delle esclamazioni, dei servitori atterriti, mentre le mie mani si stringevano intorno alla gola di Ciong-Mong-ju. La lettiga si rovesciò. Ma le mie dita non lasciavano la presa.


Ben presto, i pesanti manichi delle fruste dei cavalieri s'abbatterono sulla mia testa.


Una vertigine mi oscurò la mente. Conservavo tuttavia abbastanza coscienza per sentire che le mie vecchie dita erano solidamente affondate in quella magra gola, che cercavo da tanto tempo...


Ciong-Mong-ju non poteva più sfuggirmi; capii che era morto prima che la notte scendesse definitivamente su di me, come una sorsata d'etere, sugli scogli di Fusan, in faccia al Mar Giallo.




19. MI CHIAMAVO RAGNAR LODBROG


Il lettore non ha certamente dimenticato l'inizio di questo racconto. Quand'ero bambino, e mi mostravano delle fotografie della Terrasanta, riconoscevo i luoghi che esse raffiguravano, e indicavo i mutamenti che avevano subito.


Si ricorderà anche che descrivendo la scena della guarigione dei lebbrosi, operata da Gesù, e di cui ero stato testimone, avevo dichiarato al missionario che ero un uomo grande e grosso a cavallo, con una spada al fianco...


Questo episodio della mia prima infanzia non era allora, per me, che una vaga luce avvolta di vapori. Il piccolo Darrell Standing, venendo al mondo, non aveva completamente scordato il passato. Ma questi ricordi d'altri tempi e d'altri luoghi oscillavano nella mia coscienza infantile, e la loro tenue luce non aveva tardato a svanire. Per me, come per tutti i bambini, le ombre della prigione del mio nuovo corpo si serravano sopra le mie esistenze anteriori.


Ogni uomo possiede, come me, un lungo passato. Ma pochissimi hanno avuto in sorte di conoscere la segregazione della cella e l'esperienza distruttiva e purificante a un tempo, della camicia di forza. Questa fu la mia fortuna. Ecco ciò che mi permise di rivivere alcune delle mie esistenze anteriori, e fra queste quella del cavaliere contemporaneo di Cristo.


Quei confusi ricordi hanno preso corpo una volta nella camicia di forza, nitidi e precisi...


Mi chiamavo allora Ragnar Lodbrog. Ero un autentico colosso e superavo di mezza testa i più aitanti Romani della Legione. Di tutte le mie reincarnazioni, questa è forse la più avventurosa e la più strana.


Ragnar Lodbrog non aveva conosciuto sua madre. M'hanno detto poi che ero nato in mezzo a una tempesta, nei mari del Nord Europa, su una nave dalla prora snella e tagliente. Nato da una donna strappata alla sua casa dopo una razzia sulla costa.


Di mia madre non ho mai saputo il nome. Il vecchio Lingaard m'ha detto soltanto che era morta, durante la tempesta, dopo avermi messo al mondo, e che era d'origine danese.


Il vecchio Lingaard, troppo vecchio per remare, svolgeva a bordo svariati incarichi, fra cui quello di chirurgo e, occorrendo, di levatrice. Egli dunque mi mise al mondo fra gli elementi scatenati, che si abbattevano sopra mia madre, sopra di lui e sopra di me.


Ho la piena coscienza del mio essere, dal momento in cui i miei occhi si aprirono sul mondo.


Avevo soltanto poche ore, quando Tostig Lodbrog mi osservò. Tostig Lodbrog era il capitano della nave sulla quale ci trovavamo, e delle altre sette che la seguivano, e che avevan preso parte all'incursione.


Tostig Lodbrog era soprannominato "Muspell", "Fuoco ardente", perché in lui ardeva sempre lo spirito infuocato della collera.


Era coraggioso e crudele, e non sapeva cosa fossero né pietà né misericordia.


Fu proprio a lui, sul ponte oscillante, che mi portò il vecchio Lingaard. Ero nudo, avvolto in una pelle di lupo, tutta impregnata di sale marino. Nato prematuramente, ero piuttosto gracile.


- Oh! un nano! - esclamò Tostig.


Il freddo era acuto, ma questo non impedì a Tostig Lodbrog di togliermi, tutto nudo, fuori dalla pelle di lupo. Poi, mi tenne sospeso per aria, esposto ai morsi del vento.


- Oh! - esclamò, - Un pesciolino! un piccolo granchio!


E mi fece dondolare, con la testa in basso, tenendomi fra il pollice e l'indice.


Dopo di che, gli venne in mente un'idea decisamente originale.


- Il piccolo ha sete! - disse. - Voglio fargliene gustare una sorsata!


Mi portò sopra un vaso d'idromele e mi lasciò cadere.


Fortunatamente per me, Lingaard si precipitò in mio aiuto, mi tirò fuori dal vaso, poi mi riavvolse subito nella pelle di lupo.


Tostig Lodbrog se la prese. Ci spinse con forza e ci mandò a rotolare contro il parapetto. I suoi cani, simili a orsi, si precipitarono su di noi.


- Oh! oh! - urlava Tostig.


Non senza fatica, il mio protettore riuscì a strapparmi ai molossi, ai quali abbandonò la pelle di lupo.


Tostig Lodbrog s'era rimesso a bere. A poco a poco si calmava, senza che il vecchio intervenisse, per chiedergli una pietà che sapeva impossibile.


Tostig riprese:


- Le donne danesi! Mettono al mondo dei nani, e non degli uomini!


Che cosa potremo farne di questo aborto? A ogni modo, Lingaard, lo alleverai; una volta cresciuto mi servirà da coppiere.


E fu il vecchio Lingaard che si prese cura di me, riempiendo la mia infanzia. Seguivo il destino di Tostig Lodbrog, sia a terra, combattendo, sia sulle navi sbattute nelle tempeste. Crebbi rapidamente, malgrado le profezie di Tostig.


Così, iniziai a compiere le mie mansioni di coppiere. E mi vedo ancora, nella grande sala di Brunanbuhr, mentre tenevo in mano un cranio umano pieno di vino caldo profumato, che presentavo poi a Tostig, seduto a capo tavola.


Tostig Lodbrog, completamente ubriaco, sbraitava; e tutti i commensali facevano lo stesso. Si sarebbe detto un manicomio.


Vivevo tra uomini feroci, altrettanto spietati nei loro giochi come nei loro combattimenti; non conoscendone altri, trovavo naturale la loro compagnia.


Venne il momento in cui provai anch'io la mia collera, la collera rossa. Avevo soltanto otto anni quando mostrai per la prima volta i denti. Fu durante una grande bevuta, a Brunanbuhr, a cui Lodbrog aveva invitato il capo danese Agard, suo alleato. Tra i due uomini non tardò a nascere una discussione sul valore dei combattenti delle due nazioni. Improvvisamente, Tostig Lodbrog, a cui mi trovavo vicino, con il cranio ricolmo, incominciò a insultare le donne danesi.


Allora, ricordandomi di mia madre, vidi rosso. Sollevai il cranio e assestai un violento colpo sulla testa di Tostig Lodbrog, che fu scottato e mezzo accecato dal vino caldo.


Mentre barcollava, annaspando per l'aria con le braccia, per trovarmi e schiacciarmi, estrassi la piccola daga che portavo al fianco. Lo colpii a tre riprese, al ventre, alla coscia ed alle natiche, non essendo abbastanza alto per colpirlo più in su.


Ma Tostig Lodbrog mi era addosso...


E nella sala di Brunanbuhr, si vide il piccolo scudiero di razza danese ingaggiare un combattimento in piena regola contro l'enorme Tostig Lodbrog, che non riusciva a raggiungerlo.


Finalmente riuscì ad afferrarmi, lanciandomi dall'altro lato della tavola.


- Buttatelo fuori! Datelo in pasto ai cani! - urlò.


Ma Agard si intromise, e mi chiese per sé, come segno d'amicizia.


Quando giunse il disgelo e le navi poterono uscire dai fiordi, partii sulla nave di Agard, che mi nominò suo coppiere e mi mise nome Ragnar Lodbrog.


Per tre anni, vissi con il mio nuovo padrone, seguendolo ovunque, sia che cacciasse il lupo nelle paludi, sia che bevesse nella grande sala del suo palazzo, in cui Elgiva, la sua giovane sposa, veniva spesso a sedersi, circondata dalle sue ancelle.


Lo accompagnai in una delle sue spedizioni, verso sud, e bordeggiammo quelle che oggi si chiamano le coste di Francia.


Abbordammo e demmo battaglia. Agard fu ferito a morte. Lo riconducemmo nel suo paese, dove spirò. Fu alzato un gran rogo, vicino al quale stava Elgiva, nel suo corsetto tessuto d'oro, cantando. Essa quindi salì sul rogo, e con lei tutti i servitori del padrone, tutti i suoi schiavi.


Ma io, il coppiere Ragnar Lodbrog, non bruciai. Mentre le fiamme del rogo tingevano di rosso il cielo, mentre gli schiavi urlavano disperatamente, spezzai i miei legami. Poi, con una corsa veloce, raggiunsi rapidamente le paludi, portando ancora il collare d'oro della mia schiavitù, e lottando in velocità con i cani lanciati alle mie calcagna.


Nelle paludi, trovai altri uomini che vivevano allo stato selvaggio, ma liberi; schiavi fuggiti e fuori legge, ai quali si dava la caccia come a dei lupi.


Vissi con loro per tre anni, senza tetto né fuoco, allenandomi alle privazioni e al freddo. Poi, durante una scorreria, fui catturato, dopo un inseguimento di due giorni.


Fui venduto, in cambio di due cani lupi, al sassone Edwy; poi passai nelle mani di Athel, un capo del paese degli Angli.


Divenni uno schiavo combattente, finché non fui catturato in combattimento e venduto agli Unni, che mi trasformarono in un guardiano di porci. Riuscii a fuggire verso le grandi foreste a sud della Germania, dove fui raccolto e liberato dai Teutoni.


E un giorno, scendendo sempre più verso il sud, incontrai i Romani, le cui legioni ci ricacciarono verso gli Unni. Durante una mischia, fui fatto prigioniero e condotto a Roma.


Sarebbe troppo lungo raccontare come diventai un uomo libero, cittadino e soldato romano, e in che modo, quando raggiunsi l'età di trent'anni, raggiunsi Alessandria e poi Gerusalemme.


Se vi ho raccontato la mia giovinezza, è perché sappiate esattamente chi era l'uomo che passava a cavallo sotto la porta di Giaffa; un uomo che, per la sua alta statura, faceva voltare tutte le teste.




20. COM'E' MORTO GESU'


Avevano ben ragione di volgere la testa al mio passaggio. Gli Ebrei, minuti d'ossa e di muscoli, non avevano mai visto degli uomini biondi e aitanti come me.


Quando ne incontravo qualcuno, si scansava al mio passaggio, poi si fermava con gli occhi spalancati, per vedere quella specie d'essere selvaggio, giunto dal Nord o da chissà dove.


Quasi tutti i soldati di cui disponeva Ponzio Pilato erano ausiliari. C'era soltanto un nucleo di Romani, a piedi, che faceva la guardia al palazzo del Proconsole, e venti cavalieri dei quali io ero il capitano.


Alla Corte d'Erode, c'era una donna molto amica della sposa di Pilato. Io la conobbi da lui, la sera stessa del mio arrivo. La chiameremo Miriam, perché l'ho amata sotto questo nome. Possedeva quel fascino speciale, che è molto più della bellezza, e che è impossibile descrivere.


C'era in lei qualcosa che sfiorava il sublime. Il suo corpo era superbo. Tutto, in lei, era aristocratico; la casta alla quale apparteneva, i suoi modi e il suo contegno. Il suo viso di un ovale perfetto aveva una tinta ambrata, la sua opulenta capigliatura era nera, con riflessi azzurrini, e i suoi occhi sembravano due pozzi profondi, pieni di mistero.


Fin dal primo incontro comprendemmo subito, entrambi, che eravamo fatti uno per l'altro. I nostri sguardi s'incrociarono, e non si abbandonarono più, fino al momento in cui la sposa di Pilato, una donna magra e rugosa, ci separò, con una risata nervosa.


Conoscevo Pilato da molto tempo, prima che egli fosse mandato in Giudea, in quel vulcano che era Gerusalemme.


La conversazione fra noi si protrasse fino a tarda notte, in presenza delle due donne. Pilato m'intrattenne sulla situazione politica del paese, che lo preoccupava moltissimo.


Appariva inquieto, e desideroso di trovare un confidente delle sue preoccupazioni, e anche di avere un consiglio. Pilato era il tipo di Romano duro e calmo, capace di mantenere con un pugno di ferro l'autorità di Roma. Ma quando lo si spingeva agli estremi, alla sua calma abituale si sostituiva rapidamente la collera.


Quella notte, era visibilmente preoccupato. L'atteggiamento della popolazione gli urtava profondamente i nervi. Secondo lui, era gente turbolenta e impulsiva quanto mai, e inoltre sottilissima nell'animo. I Romani trattavano le cose con la massima energia, mirando diritti allo scopo. Gli Ebrei, invece, piegavano apparentemente la schiena e, quando attaccavano, lo facevano alle spalle, avvicinandosi di fianco. Da tutto ciò, l'irritazione di Pilato contro di loro.


Essi lavoravano sott'acqua per diminuire la sua autorità e, di riflesso, quella di Roma. Non avevano che uno scopo: fare di lui, prendendo a pretesto i loro dissensi religiosi, un capro espiatorio.


Roma non si occupava mai delle lotte religiose dei popoli conquistati. Ma gli ebrei, per mille vie tortuose e diverse, riuscivano a dare un aspetto politico ad avvenimenti completamente estranei alla politica.


Esponendo la situazione, con le sollevazioni e le sommosse che avvenivano per istigazione delle diverse sette religiose, la voce di Pilato assunse un tono eccitato, velato d'ira.


- Lodbrog, - mi disse, - malgrado i miei sforzi, la Giudea non è che un vespaio in continua agitazione. Preferirei mille volte governare gli Sciti, o i Bretoni... In questo momento, m'inquieta specialmente un uomo: un pescatore di pesci che è diventato pescatore d'anime, e che va ovunque, predicando e compiendo miracoli. Chi mi assicura che domani non trascinerà dietro di sé tutto questo popolo, e non provocherà sopra di me il malcontento di Roma?


Era la prima volta che sentivo nominare Gesù, e questa conversazione mi tornò in mente, quando questa piccola nuvola che offuscava allora il cielo si tramutò in tempesta.


- Secondo gli ultimi rapporti, - proseguì Pilato, - Gesù non si occupa di politica. Ma temo che Caifa e Hannan possano trasformarlo in una spina aguzza, destinata a pungere Roma e a rovinare la mia reputazione.


- Caifa, - dissi, - è il Gran sacerdote a quanto ne so. Ma Hannan, chi è?


- Hannan, suocero di Caifa, è il vero Gran sacerdote, una specie di vecchio pontefice da cui dipendono tutte le decisioni importanti. E' una volpe matricolata, di cui Caifa non è che lo strumento...


Pilato non credeva né a Dio né al Diavolo e tanto meno all'immortalità dell'anima. Per lui, la morte non era che buio e sonno eterno. Da questo si capisce come tutte quelle discussioni religiose, da cui era circondato e oppresso a Gerusalemme, dovessero infastidirlo. Durante un viaggio in Idumea, mi fu dato come valletto una specie di cretino che non riuscì mai a imparare a sellare come si deve un cavallo. Invece, gli riusciva benissimo discutere dalla mattina alla sera sull'insegnamento dei rabbini di tutta la Giudea. In materia religiosa, era inoltre un sottilissimo sofista.


Ma torniamo a Miriam. Dalla moglie di Pilato, venni a sapere che essa apparteneva a un'antica stirpe regale. Sua sorella era la moglie di Erode Filippo, Tetrarca dei Gauloniti e di Batanea e fratello di Erode Antipa, Tetrarca di Galilea. Questi due erano figli di Erode il Grande, che aveva ucciso sua moglie e tre altri suoi figli, e ricostruito, poco prima di morire, il Tempio di Gerusalemme. Da ciò proveniva la sua popolarità in tutta la Giudea.


Rividi parecchie volte Miriam, che non s'era sposata, non avendo mai incontrato un marito degno di lei. Era probabilmente un effetto dell'ambiente, dell'aria che respiravamo, ma, appena ci si trovava insieme, cominciavamo a discutere di religione.


Furono discussioni lunghe e appassionate, in cui la mia anima nordica si scontrava con la sua, dolce e poetica. Ma non per questo diminuiva la straordinaria attrattiva che ci legava ogni giorno di più, reciprocamente...


Purtroppo, le missioni che dovevo compiere per Pilato spesso mi allontanavano, più di quanto non desiderassi, da Gerusalemme e da Miriam.


Mi recai in Idumea, e in Siria, e ovunque, sulla mia strada, incontravo degli Ebrei che discutevano animatamente di religione.


Era la caratteristica della loro razza. Invece di lasciare ai preti, come accade altrove, le discussioni teologiche, ogni ebreo si trasformava in prete e, non appena trovava un ascoltatore (il che non era difficile), cominciava a predicare. Per questo, abbandonavano le loro occupazioni, per errare attraverso il paese come dei mendicanti, intenti soltanto a discutere e litigare coi rabbini e i talmudisti, nelle sinagoghe e sotto i portici dei templi.


Fu in Galilea che per la prima volta trovai una traccia di Gesù. A quanto si diceva, era un falegname diventato poi pescatore, che i suoi compagni di pesca, abbandonando lavoro e famiglie, avevano seguito nella sua vita errabonda.


Alcuni lo ritenevano un autentico profeta, altri lo credevano pazzo. Quel deficiente del mio valletto, che si vantava di conoscere a fondo il Talmud, rise ironicamente, quando passò Gesù, trattandolo da "Re dei Mendicanti", perché, - mi spiegava - secondo la dottrina che predicava il Galileo, il Cielo era riservato soltanto ai poveri, mentre i ricchi e i potenti sarebbero arsi eternamente nelle fiamme.


Mi accorsi che era nel costume del paese, di trattare facilmente come pazzo il proprio simile. Secondo me, pazzi lo erano un po' tutti. C'era come un'epidemia di profeti, che scacciavano i demoni con sistemi magici, guarivano gli infermi con l'imposizione delle mani, assorbivano impunemente dei veleni mortali, e maneggiavano con la massima indifferenza i serpenti più velenosi.


- Per Odino! - dicevo spesso a Pilato. - Un po' del nostro gelo del Nord farebbe meraviglie! Il clima, qui, è troppo clemente.


Invece di abbattere degli alberi per costruirsi dei tetti, essi costruiscono delle dottrine! Se riesco a uscire, sano di mente, da questo paese di pazzi, farò a pezzi il primo chiacchierone che verrà a parlarmi del mio destino dopo la morte.


Intanto l'agitazione aumentava. I Proconsoli e i Governatori inviati da Roma erano odiati, e con loro le aquile romane, gli stessi scudi votivi sospesi davanti all'abitazione di Pilato, in cui il popolo vedeva un offesa alle proprie credenze.


Il prelevamento del "censo" era considerato come un supremo abominio; eppure il censo era alla base dell'imposta romana. Ma gli Ebrei dichiaravano che il censo era contrario alla legge divina, alla loro Legge...


Quando rientrai a Gerusalemme l'agitazione era al colmo. La folla correva per le strade, gridando, declamando. Alcuni annunciavano che la fine del mondo era prossima. Altri dichiaravano imminente soltanto la rovina del Tempio. I rivoluzionari proclamavano la fine della dominazione romana e il prossimo avvento d'un nuovo Regno di Giudea.


Pilato era a sua volta inquieto e irritato.


- Se Roma, - mi diceva, - mi mandasse soltanto una mezza legione, prenderei Gerusalemme alla gola, e la farei tacere!


Fui alloggiato nel suo stesso Palazzo. Con mia grande gioia vi ritrovai Miriam. Ma la situazione politica era troppo grave perché avessimo molto tempo da dedicare all'amore.


La città rumoreggiava. La grande festa di Pasqua era vicina, e migliaia di persone affluivano dalla campagna per celebrarla a Gerusalemme, secondo la tradizione.


Chiesi a Pilato se tutta quell'effervescenza era causata dagli insegnamenti di quel Pescatore, o dall'odio degli Ebrei contro Roma.


Mi rispose:


- Un decimo, forse meno, di questo rumore è dovuto a Gesù. Ma Caifa e Hannan ne sono la causa principale. Sono loro che sobillano il popolo. A che scopo? Non lo so proprio.


Miriam lo interruppe.


- E' certo, - disse, - che in questa agitazione Caifa e Hannan hanno la loro parte di responsabilità. Ma voi, Ponzio Pilato, siete un Romano, e non potete vedere la situazione nella sua vera luce. Se foste Ebreo, comprendereste che il Gran sacerdote, i Farisei, Erode Antipa, Erode Filippo, e io stessa, lottiamo per la nostra esistenza. Quel pescatore può essere un pazzo; ma la sua pazzia non manca di fascino. Egli predica la dottrina dei poveri.


Minaccia la nostra Legge. E la nostra Legge è la nostra stessa vita, preziosa come l'aria che respiriamo.


La moglie di Pilato ascoltava avidamente, come rapita da un'estasi.


- In verità, - disse, - è strano che un semplice pescatore abbia una simile potenza. Da dove proviene il suo potere? Sarei curiosa di conoscere quest'uomo, e di vederlo con i miei occhi.


La fronte di Pilato si aggrondò maggiormente, mentre Miriam esclamava con un riso sprezzante e gelido:


- Se ci tenete tanto a vederlo, andate a scovarlo nelle baracche della città. Lo troverete ubriaco, in compagnia di meretrici. A Gerusalemme, non si ha ricordo di un profeta così strano!


Protestai:


- Bere del vino nelle catapecchie non è un delitto. Io stesso l'ho fatto migliaia di volte, in passato. Non è un motivo sufficiente per condannare un uomo...


- E' un elemento pericoloso! - insisté Miriam. - E' un rivoluzionario che distruggerà ciò che rimane dello Stato ebraico, e annienterà il Tempio. Bisogna sbarrargli la strada.


Invischiato dalla disputa, presi le parti di Gesù e dichiarai:


- Da quello che ho sentito dire, quest'uomo è un semplice, ha il cuore buono, e non ha mai fatto del male.


E raccontai la guarigione dei dieci lebbrosi, a cui ero stato presente in Samaria, sulla strada di Gerico.


- E credete a questo miracolo? - mi chiese Pilato, mentre dall'esterno giungevano i clamori della folla, trattenuta dai nostri soldati. - Voi credete proprio, Lodbrog, che in un istante le piaghe purulenti di quegli infelici siano scomparse?


- Li ho visti guariti, - risposi. - Me ne sono voluto assicurare con i miei occhi.


- Ma li avevate visti malati?


- No. Ma tutti l'hanno affermato, e loro fra i primi.


Pilato ebbe un sorriso incredulo, imitato subito da Miriam. La moglie di Pilato, invece, si suggestionava sempre più. Respirava appena, con le pupille dilatate..


- State in guardia, Pilato! - concluse Miriam. - Egli scalzerà la vostra autorità, come quella di Caifa e di Hannan. In nome di Tiberio e di Roma, avete un compito da eseguire, e non potete sottrarvi.


- E quale sarebbe? - chiese Pilato.


- Giustiziare quel pescatore.


Pilato alzò le spalle e la conversazione finì.


Dal giorno dopo, gli avvenimenti precipitarono.


A mezzogiorno, quando uscii a cavallo con una mezza dozzina dei miei uomini, le strade erano così formicolanti di folla, che facevo fatica ad aprirmi un varco. Notai tra la gente un'ostilità maggiore del solito; se gli sguardi avessero potuto uccidere, sarei subito morto.


Incontrai Miriam, il giorno dopo, nel Palazzo di Pilato. Mi parve come immersa in un sogno. Il suo sguardo, perduto in immagini lontane, mi ricordò quello dei lebbrosi sulla strada di Gerico.


- L'ho visto, Lodbrog, - mormorò infine. - L'ho visto.


- Speriamo, - risposi ridendo, - che vedendovi, Egli non abbia sentito intenerirsi eccessivamente il cuore...


Non prestò la minima attenzione al mio scherzo. I suoi occhi rimasero pieni della visione che li abbagliava, ed essa fece per andarsene. La trattenni.


- E' Lui, - le chiesi, - che ha creato nei vostri occhi questa luce singolare?


- Sì, è Lui! - mi rispose. - Lui che ha risuscitato i morti. E' veramente il Principe della Luce e il Figlio di Dio. L'ho visto, e adesso non ne dubito più. Il Figlio di Dio... capite, Lodbrog; il Figlio di Dio!


La collera si impadronì di me. Ed esclamai:


- Allora, vi ha affascinata!


I suoi occhi si velarono di pianto, mentre mi rispondeva:


- Oh, Lodbrog! Il fascino che è in Lui supera ogni pensiero...


L'ho visto. L'ho udito. Distribuirò ai poveri tutte le mie ricchezze, e Lo seguirò.


Risposi, ghignando:


- Seguitelo, quel profeta ambulante! Quando sarà Re, dividerà con voi la sua corona.


E mi scansai, per lasciarla passare. Lei si allontanò, mormorando:


- Il suo Regno non è di questo mondo...


Quello che successe poi, è noto a tutti. Dopo che Gesù, arrestato per ordine di Caifa, fu condannato a morte dal Sinedrio, venne inviato a Pilato per l'esecuzione della sentenza, tra una plebaglia urlante.


Pilato non pensava affatto a uccidere Gesù, che continuava a considerare come un semplice visionario, e non come un rivoluzionario pericoloso. La vita di un uomo, per se stessa, gli importava poco, e ne avrebbe mandati a morte cento, se lo avesse ritenuto utile per la propria sicurezza e nell'interesse di Roma.


Ma non sopportava che gli si volesse forzare la mano.


Uscì dunque dal suo palazzo, con il volto rabbuiato, per andare incontro al prigioniero. E subito, il fascino che Egli emanava s'impadronì di lui. Io lo so; ero presente.


Era la prima volta che vedeva Gesù, e ne rimase soggiogato. Una plebaglia rumorosa riempiva il cortile del palazzo, trattenuta a fatica dai soldati. E l'urlo di quelle bocche era uno solo:


"Crocifiggilo!". Pilato, fissando lo sguardo sul pescatore, lo condusse con sé, nel pretorio. Che cosa si dissero? Lo ignoro. So soltanto che quando Pilato tornò, era deciso a salvare il condannato.


Ma inutilmente cercò di allontanare la tempesta, presentando Gesù come un fanatico inoffensivo, poi proponendo di lasciarlo libero, in omaggio alla festa di Pasqua. Le sobillazioni dei sacerdoti, mescolati alla folla, decisero anziché la liberazione di Gesù, quella di Barabba.


Il tumulto cresceva. Dal cortile si estendeva ormai a tutta la città. Quando, in un estremo tentativo per salvare il pescatore, Pilato dichiarò che Gesù, essendo nato suddito di Erode Antipa, doveva essergli rinviato, e non poteva esser giudicato né giustiziato a Gerusalemme, un grido furioso salì dalla folla, che io e i miei venti legionari riuscimmo a stento a trattenere.


Un fanatico pidocchioso, con una lunga barba, si agitava freneticamente, gridando:


- L'imperatore è Tiberio! Non esiste un Re dei Giudei! Tiberio soltanto è imperatore!


Vidi Pilato, l'uomo di ferro, esitare. I suoi occhi si rivolsero verso di me, come per chiedermi consiglio. Io e i miei legionari eravamo talmente nauseati da quello spettacolo di viltà, che aspettavamo solo un ordine: spazzare il terreno da quella canaglia. Gesù mi guardava. Mi comandava la bontà, il perdono...


Il resto è ormai affidato alla storia. La prudenza vinse Pilato, che si lavò le mani della morte del pescatore, mentre la plebaglia accettava che il Suo sangue innocente ricadesse sulla loro testa e su quella dei suoi figli.


Per il momento, la tempesta era placata. Il cortile del palazzo si svuotò. La folla e i sacerdoti erano soddisfatti.


Mentre trascinavano via Gesù, una delle donne di Miriam venne a cercarmi, per condurmi da lei.


Quando restammo soli, mi attirò a sé, e lasciandosi cadere fra le mie braccia, disse:


- So che Pilato ha ceduto ai sacerdoti, e ha dato ordine di crocifiggerlo. Ma si può ancora salvarlo. I vostri uomini, Lodbrog, vi sono fedeli, e sono soltanto gli ausiliari che lo condurranno alla croce. L'orribile corteo non deve raggiungere il Golgota. Aspettate che abbia varcato le mura della città, poi liberate il Figlio di Dio. Prendete per Lui un altro cavallo, e portatelo con voi in Siria, o non importa dove, purché Egli sia salvo!


Mi allacciò il collo con le sue braccia splendide, alzò i suoi occhi profondi verso i miei, e il suo viso sfiorò le mie guance.


- Fai come ti chiedo, e sono tua! - sembrava dicesse.


Rimasi frastornato. Questa donna stupenda mi prometteva il suo amore... se tradivo Roma!


- Prenderete un cavallo in più - continuò Miriam. - Sarà per me.


Partirò con voi... E vi seguirò ovunque, dove vorrete!


Non rispondevo. Ero triste, immensamente triste. Non che avessi delle esitazioni per il mio dovere! Ma capivo che stavo per perdere per sempre colei che mi stava dinanzi.


Essa riprese, con rinnovata insistenza:


- Non esiste che un uomo, a Gerusalemme, in grado di salvarlo. E quest'uomo, siete voi, Lodbrog!


Vedendo che rimanevo immobile e silenzioso, mi afferrò e mi scosse con tanta violenza che le mie armi tintinnarono.


- Parlate, Lodbrog! Parlate! - ordinò. - Voi siete un uomo forte e coraggioso! Voi non avete certo paura di quei miserabili che vogliono ucciderlo. Dite "sì", ed Egli è salvo. E io, per ciò che farete, vi amerò in eterno!


Infine risposi, con lentezza:


- Sono un soldato romano...


Essa s'inalberò:


- Siete uno schiavo di Tiberio, un cane da guardia di Roma... Voi non siete Romano! Siete un gigante barbaro del Nord!


Crollai la testa.


- Mi sono impegnato lealmente, - risposi. - Porto le armi e mangio il pane di Roma. Non voglio essere ingrato. Se non sono Romano, i Romani sono miei fratelli... E poi, perché tanta agitazione per la vita o la morte di un uomo? Dobbiamo morire tutti. Un po' prima o un po' dopo, che differenza fa?


- Voi non capite, Lodbrog! - gridò Miriam. - Non è un uomo come gli altri. Fra gli uomini, è un Dio vivente!


La strinsi forte contro di me.


- Dimenticatelo! - pregai. - Viviamo la nostra vita, senza occuparci degli altri! Lasciamo da parte il mondo dei morti.


Lasciamo che i pazzi inseguano i loro sogni. Lasciamoli fare! Ma noi, restiamo nella dolcezza che abbiamo scoperto, uno nell'altro...


Essa cercò di svincolarsi.


- Voi non capite! Non capite nulla! - disse con enfasi. - Non volete capire che quest'uomo è Dio, e che la morte infamante che lo attende è quella degli schiavi e dei ladroni! Egli non è né l'uno né l'altro. E' immortale! E' Dio!


- Ma allora, - ripresi, - se è immortale, che cosa può importargli di morire? La sua immortalità, nel tempo che non ha fine, non sarà scalfita di un minuto. Voi affermate che è Dio? Secondo quello che m'hanno insegnato, un Dio non può morire.


Lei non faceva che esaltarsi sempre più.


- Oh! - gemette, - voi non volete capirmi. Voi non siete che una massa di carne.


Tentai di lottare ancora. Ricordandomi alcune lezioni sottili dei rabbini ebrei, domandai:


- Questo evento, non era per caso predetto nelle antiche profezie?


- Sì, nelle più antiche profezie, che ci annunziavano la venuta d'un Messia.


- Lasciate allora che le profezie si compiano! - esclamai trionfante. - Chi sono io, per cercare di ostacolarle? Ciò che si deve compire, si compirà. Io non devo né posso oppormi alla volontà di Dio.


Lei ripeté:


- Voi non capite... Voi non capite...


Poi si gettò indietro, sfuggendo alla presa delle mie braccia, e rimanemmo lontani uno dall'altra, in silenzio, ascoltando il tumulto che proveniva dalla strada e i clamori assordanti che accompagnavano Gesù, che in quel momento stesso veniva portato al supplizio.


La sua voce si fece improvvisamente carezzevole, suadente. I suoi occhi si tuffavano nei miei. Si offriva, in una promessa immensa, talmente grande e profonda, che nessuna parola umana potrebbe esprimerla.


- Mi amate? - domandò.


- Sì, vi amo! - risposi. - Vi amo infinitamente. Ma Roma è la mia nutrice. Se la tradissi, diventerei indegno del vostro amore...


Fuori, il clamore che accompagnava Gesù s'era allontanato. Il silenzio regnava in Gerusalemme. Miriam si svincolò dalle mie braccia, e si diresse verso la porta, per andarsene.


Un'ondata di desiderio mi travolse. Le corsi dietro e la strinsi fra le braccia, mentre si dibatteva. La strinsi quasi da soffocarla.


Mi colpì al viso. Ma io non la lasciai. Allora cessò di lottare; e diventò fredda e inerte. E compresi che colei che stringevo non mi amava più. Fra le braccia, avevo soltanto il suo cadavere.


Lentamente, allargai la stretta. E lentamente, lei indietreggiò, e sollevando le cortine della porta, scomparve...


Questi sono gli avvenimenti ai quali io, Ragnar Lodbrog, ho assistito. Così come li ho raccontati adesso, li riferii a Sulpicio Quirino, inviato di Roma in Siria, a cui venni inviato da Ponzio Pilato, per metterlo al corrente dei fatti che s'erano svolti a Gerusalemme.




21. UN NUOVO ROBINSON


Dopo Oppenheimer e Morrell, ero considerato come il più pericoloso prigioniero di San Quintino. E più di loro, ero ritenuto refrattario alle peggiori punizioni, tenace e testardo come un mulo.


Più efferate erano le torture dei miei carnefici, e più resistevo.


"La dinamite, o la morte!" era stato l'ultimatum di Atherton. Io non potevo creare la dinamite, e il direttore non era capace d'uccidermi. Le mie esistenze precedenti m'avevano reso più duro dell'acciaio.


Permettetemi di descrivervene ancora una. E sarà tutto, prima che mi impicchino...


Me ne ricordo come di un incubo senza fine. Mi trovavo su una piccola isola rocciosa, battuta dalle onde, e così poco elevata sul mare, che durante le tempeste le onde l'inondavano con i loro spruzzi salati. Vivevo tra mille sofferenze, senza fuoco e nutrendomi esclusivamente di carne cruda.


La mia unica distrazione erano un remo e il mio coltello, con cui segnavo sul remo una nuova tacca per ogni settimana che passava.


Questo coltello rappresentava per me un tesoro inestimabile.


Sul mio remo, incisi questa iscrizione:


"Questo scritto serve a informare la persona nelle cui mani cadrà questo remo. Daniele Foss, nato a Elkton, nello Stato di Maryland, negli Stati Uniti d'America, s'imbarcò a Filadelfia nel 1809, a bordo del NEGOCIATOR, diretto alle Isole Amiche. Nel febbraio successivo, fu gettato sopra quest'isola deserta, dove si costruì una capanna, e visse un certo numero di anni, nutrendosi di foche.


E' il solo superstite di quel brick, che urtò contro un banco di ghiaccio e affondò, il 25 novembre 1809".


Del naufragio, dello sfasciarsi della nave contro l'"iceberg", in piena notte, e del suo successivo affondamento, avevo conservato un ricordo indelebile. Il vento urlava furiosamente e le vele, i cordami e tutta l'alberatura del brick che affondava, apparivano coperti di ghiaccioli. La grande scialuppa era stata calata in mare, e tutto l'equipaggio, eccetto alcuni uomini che annegarono, vi s'imbarcò. Il freddo era spaventoso. Mentre il capitano Nicoll teneva il timone, io continuavo a strofinarmi il naso per impedirgli di gelare.


Facemmo rotta verso nord-est. Ma nella scialuppa, interamente scoperta, la morte non tardò a mietere le prime vittime. Al mattino, uno di noi fu trovato completamente gelato e stecchito.


Uno dei mozzi fu la seconda vittima. Poi fu la volta dell'altro mozzo. Nel giro di dieci o quindici giorni, altri uomini lo seguirono.


Trascorsero cinque settimane. Non restavano a bordo che il capitano, il chirurgo e io. Il gelo era tale che la birra e l'acqua gelarono.


Il 27 febbraio, si scatenò una furiosa tempesta di neve. I nostri viveri erano completamente esauriti. Io stavo al timone, e i miei due compagni giacevano in fondo alla scialuppa come due cadaveri, quando scorsi terra. Era un'isoletta rocciosa, flagellata dalle onde. A pochi metri dalla costa, la scialuppa sfuggì al mio controllo. In un attimo, si rovesciò e sentii l'acqua salata entrarmi in gola, soffocandomi.


Non rividi più i miei due compagni. Riuscii ad aggrapparmi a un remo, mentre un colpo di mare mi lanciava lontano, sulla roccia.


Mi alzai tutto indolenzito, ma senza ferite gravi.


Mi rialzai, ringraziando Dio di avermi mantenuto in vita. Sapevo che la scialuppa era stata rotta in mille pezzi, e indovinavo la fine che avevano dovuto fare il capitano Nicoll e il chirurgo. Poi barcollai e svenni.


Rimasi svenuto per tutta la notte, avvertendo confusamente l'umidità e il freddo che mi avvolgevano.


Al mattino, vedendo la desolazione del posto in cui ero finito, provai uno sgomento indicibile. Nessuna pianta, non un filo d'erba spuntavano su quell'escrescenza rocciosa dell'oceano. Per un quarto di miglio di larghezza e mezzo di lunghezza, non c'erano che rocce.


Per tutto il giorno, mi trascinai sulle ginocchia insanguinate, alla vana ricerca di un po' d'acqua potabile. Della scialuppa, non rimaneva che l'unico remo al quale mi ero aggrappato e che era stato sbattuto a terra con me.


Il secondo giorno, le mie condizioni peggiorarono ancora. Non avevo mangiato da un mucchio di tempo, e cominciai a gonfiare. Le mie gambe, le mie braccia, tutto il mio corpo si gonfiò. Ma continuai a lottare, deciso a compiere fino all'ultimo la volontà di Dio, che mi ordinava di vivere.


Durante la notte, fui svegliato da uno scroscio di pioggia.


Strisciai da un buco all'altro delle rocce, bevendo la pioggia, o leccandola. Era ancora salmastra, ma tollerabile. Essa mi salvò.


Mi riaddormentai, e quando al mattino mi risvegliai, il delirio che mi aveva squassato, era finito.


Quando scoprii il cadavere d'una foca, lasciato dalle ondate sulla costa, mi sentii rinascere.


Nessun mercante che rientra nel proprio porto dopo un vantaggioso viaggio, carico di ricche derrate, con la cassaforte ricolma di denaro, si ritenne mai, ne sono più che certo, altrettanto ricco come io mi sentii in quel momento. Mi buttai in ginocchio per ringraziare vivamente il Signore che, - ne ero persuaso più che mai, - aveva deciso, fin dall'inizio, che io non dovessi morire.


Raccolsi delle alghe marine, che asciugai al sole, e che distese la sera sulla roccia, sostituirono il materasso, con enorme sollievo del mio povero corpo tutto indolenzito. Per la prima volta dopo molte settimane, i miei vestiti erano asciutti. Così, mi addormentai d'un sonno di piombo, causato a un tempo dalla mia stanchezza e dalla salute che ritornava.


Quando, dopo una notte di riposo, mi risvegliai, ero un altro uomo. La costa era gremita di foche. Mi sfregai gli occhi, per assicurarmi che non fosse un sogno. Ma non sognavo... Erano là a migliaia, e altre sguazzavano in mare. Il mio primo pensiero fu che avevo a disposizione più carne di quanta me ne occorresse.


Afferrai la sola arma che possedevo, il remo, e avanzai con prudenza verso quell'immenso carnaio. Ma mi resi conto che tutti quegli esseri marini ignoravano l'esistenza dell'uomo. Non manifestavano alcun timore vedendomi avvicinare, e perciò non mi fu difficile assestare sulle loro teste dei vigorosi colpi di remo.


Ne uccisi una, due, cinque, continuando a colpire e a uccidere, come in preda a una vera pazzia. Continuai così per due ore. Poi, le foche si precipitarono tutte in mare, scomparendo in un baleno.


Avevo ucciso più di duecento foche. Le scuoiai; poi, con il coltello, tagliai la loro carne in grossi pezzi che misi ad asciugare al sole, che fortunatamente era ricomparso. Nelle spaccature delle rocce, scoprii dei piccoli depositi di sale formati dal mare. Lo raccolsi e ne cosparsi la carne, per conservarla.


Questo lavoro richiese quattro giorni, e quando finii, la mia opera mi riempì di soddisfazione. Mai, durante tutti gli otto anni trascorsi su quell'isolotto, il tempo fu così soleggiato come dopo quel massacro, adatto in tutto a far seccare la mia provvista di carne. E non mancai di vedere in questo un'altra prova della Provvidenza.


Una volta pensato al cibo, mi costruii una capanna di pietre e un magazzino per tenerci la mia carne salata, che ricopriii con le pelli degli animali uccisi.


Una delle mie prime preoccupazioni fu di trovare un mezzo qualsiasi che mi permettesse di calcolare il tempo.


Mi sforzai di ricordarmi il numero dei giorni trascorsi dopo il naufragio della scialuppa. Quando riuscii a stabilirlo, costruii con sette pioli il mio calendario settimanale. Per ogni settimana, feci un intaglio sul mio remo, e un altro per i mesi. Per i giorni dedicati al Signore, incisi una specie di Cantico, che non mancai di recitare ogni domenica.


Non è minimamente immaginabile quale mole di lavoro sia necessaria all'uomo rimasto solo, perché soddisfi i bisogni più elementari dell'esistenza. In effetti, non ebbi tempo da perdere durante tutto il primo anno. La costruzione della capanna, che era soltanto una specie di caverna, richiese sei settimane di duro lavoro. Per parecchi mesi, fui costretto a sorvegliare i miei preziosi depositi di carne e rinnovare le provviste di sale. Poi, dovetti grattare e ammorbidire un certo numero di pelli di foca, per potermi fabbricare alla meno peggio dei vestiti.


Il problema dell'acqua dolce mi procurò parecchie preoccupazioni.


I fori delle rocce, in cui la conservavo, erano poco profondi.


Strofinando una pietra più tenera con una più dura, riuscii a costruirmi una specie di vaso. Poi ne feci altri di diverse misure.


Un bel giorno, dopo quattro anni, le foche riapparvero. Venivano sempre dalla stessa isola, ma ora erano diffidenti. Costruii dei muri, che limitavano il passaggio delle rocce da cui arrivavano a terra. In questo modo tagliai loro la ritirata e le uccisi, senza che potessero fuggire a destra o a sinistra. Così, per sei mesi, avevo a disposizione viveri secchi e salati.


Anche se del tutto privo di qualsiasi compagnia umana, e persino di quella d'un cane o d'un gatto, accettai il mio destino con una rassegnazione maggiore di quanto non facciano quasi tutti gli uomini. Innanzi tutto, la mia coscienza era tranquilla, a posto, il che è già molto. E spesso mi veniva da pensare a quanti criminali, oppressi in una cella dal rimorso di un'azione orrenda, dovevano essere mille volte più infelici di me.


Anche se mancavo d'ogni compagnia e d'ogni vera comodità, dovevo ammettere che la mia situazione aveva pur dei vantaggi. La mia isola era piccola, ma io ne ero il padrone assoluto. D'altra parte, essendo l'isola inaccessibile, il mio riposo era totale, tranquillo e sicuro.


Ma l'uomo è una creatura strana, e il desiderio di avere sempre di più lo tormenta sempre. Io, che per tanto tempo avevo chiesto alla Provvidenza solo un po' di carne putrefatta per saziarmi, e una goccia d'acqua salmastra per dissetarmi, quando fui padrone d'una riserva di eccellente carne salata e d'una provvista d'acqua dolce, cominciai a sentirmi scontento. Volevo del fuoco, volevo sentire sotto i denti il sapore della carne cotta. Da qui a sognare piatti succulenti, il passo è breve! Lo varcai presto, e vidi ondeggiare nei miei sogni un numero infinito di piatti deliziosi, ai quali mi promettevo di far ampiamente onore, se fossi riuscito ad abbandonare la mia isola...


Dedicandomi alla costruzione di un'alta torre, avevo contribuito a conservarmi in buona salute, fisica e morale, e a tener lontane le tentazioni. Tuttavia, durante il sonno, continuavano a perseguitarmi le visioni fantastiche di cibi succulenti e di quella foglia perniciosa che si chiama tabacco.


Il 18 giugno del sesto anno, avvistai in lontananza una nave. Ma la distanza era troppo grande perché potesse scorgermi. Invece di buttarmi nella disperazione, questa momentanea apparizione mi fu di grande conforto. Non potevo più dubitare che le navi solcassero qualche volta quei mari.


Continuai dunque ad aspettare con pazienza gli eventi. Continuai ad annotare sul mio remo le date più importanti, dopo la mia partenza dall'America. Per guadagnare spazio, usai la scrittura più minuta possibile.


Così, quando fu ricoperto interamente della mia scrittura, mi divenne ancora più prezioso. Non volendo più usarlo per uccidere le foche, mi costruii una specie di guaina in pelle di foca. E lo usavo soltanto, quando faceva bel tempo, come asta di una bandiera che issavo sulla mia torre.


Nel corso dell'inverno seguente, dovetti subire una tempesta particolarmente spaventosa. Si scatenò verso le nove di sera, preceduta da enormi nuvole nere e da un gelido vento di sud-ovest che diventò poi furioso, accompagnato da tuoni e da lampi paurosi.


Temetti persino per la mia sopravvivenza. Le onde scatenate coprirono del tutto l'isola e, se non mi fossi rifugiato sulla mia torre, senza dubbio sarei morto annegato. Essa mi salvò. La mia capanna fu interamente sommersa e l'intera provvista di carne di foca fu distrutta.


Ma, ancora una volta, la mia buona stella mi venne in aiuto. Il mare, ritirandosi, aveva cosparso la superficie dell'isola d'una gran quantità di pesci, che somigliavano a delle triglie. Ne riuscii a raccogliere più di milleduecento, che mi affrettai a sventrare, a salare e a mettere a seccare al sole, come si fa di solito col merluzzo. Questo opportuno cambiamento della mia dieta venne giusto in tempo per risvegliarmi l'appetito. Ma non seppi resistere alla gola, e mangiai tanto che la notte seguente rischiai quasi di morire.


All'inizio del mio settimo anno di soggiorno forzato nell'isola, si scatenò una formidabile tempesta. Quando ritornò il sereno, scoprii sulle rocce il cadavere fresco d'una gigantesca balena.


Capirete la mia gioia quando trovai, incastrato nelle sue viscere, un grosso arpione, munito d'una corda lunga parecchie braccia.


La carne del cetaceo mi fornì il nutrimento per un anno, e si alternò con quella dei pesci e delle foche. Dal suo grasso, estrassi l'olio in cui inzuppavo le mie fette di carne e i pesci.


Io, Darrell Standing, che scrivo queste righe nella prigione di Folsom, desidero fare, a questo punto, una riflessione personale.


Dopo aver vissuto, in un'esistenza anteriore, la vita che ho narrato, con tutte quelle torture del mio corpo, tutte quelle privazioni del mio stomaco, come avrei potuto ancora impressionarmi delle torture che m'infliggeva Atherton? La mia vita attuale è costruita, attraverso i secoli, dalle mie vite trascorse. Che cosa potevano rappresentare, per me, dieci giorni e dieci notti di camicia di forza? Per me che quando ero Daniele Foss, avevo sofferto, per otto eterni anni, sopra un isolotto roccioso, sperduto nell'oceano!


L'ottavo anno era finito, e io avevo concepito il progetto di alzare la mia torre fino a sessanta piedi di altezza. Ma un mattino, appena sveglio, scorsi una nave che sembrava ispezionare la riva, quasi a portata di voce.


Per farmi scorgere, mi arrampicai sulla torre agitando il remo e la sua bandiera in pelle di foca. Poi corsi sulla costa, gridando e ballando. Fui scorto, e scorsi il capitano e il suo secondo che mi osservavano dal ponte con i loro cannocchiali.


Una scialuppa venne calata in mare. Come seppi più tardi, era stata la mia torre che aveva attirato la loro curiosità.


Ma la forza delle onde rendeva impossibile l'attracco; e dopo parecchi tentativi, i marinai che la governavano mi fecero segno che dovevano ritornare a bordo.


Potete immaginarvi la mia disperazione! Afferrai il mio remo (che avevo deciso di offrire al Museo di Filadelfia, se mi fossi salvato) e mi buttai in acqua. La mia buona stella e la mia abilità, con la protezione di Dio, fecero sì che riuscissi a raggiungere l'imbarcazione.


Dopo mezz'ora ero a bordo, di nuovo tra i miei simili...


Il mio primo impulso fu di lasciarmi andare a una delle mie più irresistibili passioni. Immediatamente, al secondo ufficiale, domandai un pezzo di tabacco da masticare, di quel tabacco che sognavo da otto anni. Mi porse la sua pipa, carica di ottimo tabacco di Virginia.


Cominciai a fumare. Ma dopo cinque minuti soltanto, la testa cominciò a girarmi, e mi sentii svenire. Non c'era da stupirsene.


Il mio organismo si era totalmente purificato del fatale veleno, il quale ora agiva in me come fa di solito con un ragazzo alla prima fumata.


Restituii la pipa e da quel giorno rinunciai per sempre a quella foglia dannosa, guarito del tutto e ringraziando Dio per quest'ultimo beneficio concessomi.


Io, Darrell Standing, devo completare adesso il racconto di questa esistenza, rivissuta nella camicia di forza della prigione di San Quintino, aggiungendo che mi sono spesso chiesto, risvegliandomi nella mia cella, se Daniele Foss avesse poi mantenuto la sua promessa di regalare il suo remo al Museo di Filadelfia.


Per un prigioniero com'ero io, era estremamente difficile comunicare con il mondo esterno. Tuttavia, un giorno, affidai a un guardiano una lettera che avevo scritto a tale proposito al Conservatore del Museo di Filadelfia. La lettera, malgrado le promesse, non giunse a destinazione.


Ma venne un giorno in cui, per una strana coincidenza del destino, Edoardo Morrell, terminato il suo periodo di segregazione, fu nominato uomo di fiducia della prigione. Gli feci avere un'altra lettera, che ebbe maggior fortuna. Ecco la risposta che ricevetti, e che Morrell mi consegnò di nascosto:


"In questo Museo si trova un remo come quello che voi descrivete.


Lo conoscono in pochi, perché non è esposto nelle sale destinate al pubblico. Io stesso, che dirigo questo Museo da diciotto anni, ne ignoravo l'esistenza.


Dopo aver consultato i nostri vecchi registri, ho trovato una nota intorno a questo remo, che ci è stato offerto da un certo Daniele Foss, oriundo di Elkton, nello Stato del Maryland, nel 1821. Dopo lunghe ricerche, riuscii a trovare questo oggetto in un ripostiglio. Le incisioni e le iscrizioni sono intagliate nel legno, esattamente come voi me le descrivete.


Ho pure trovato, nei nostri archivi, una relazione consegnataci dallo stesso Daniele Foss, e che era stata pubblicata a Boston dalla libreria N. Coverly e figli, nel 1834. Questa relazione racconta gli otto anni della vita di un uomo naufragato su un'isola deserta. E' evidente che questo marinaio, spinto dal bisogno, offriva in vendita l'opuscolo alle persone che passavano per la strada.


M'interesserebbe sapere come voi avete avuto notizia di questo remo, di cui tutti ignoravano l'esistenza. Ho ragione di supporre che l'opuscolo di Daniele Foss vi sia venuto fra le mani, e che l'abbiate letto? Sarei lieto di avere delle informazioni in proposito; intanto, prendo le disposizioni necessarie perché il remo e l'opuscolo siano nuovamente esposti al pubblico.


Osea Salsburty"




22. UNA VISITA A OPPENHEIMER


Ma torniamo nella mia cella. I periodi di camicia di forza diventavano sempre più lunghi, ma inutilmente il direttore Atherton sperava di trovarmi stecchito, una mattina o l'altra.


Così, anche per via di certe inchieste svolte nelle prigioni americane, un bel giorno decise che era inutile continuare nella cura, e me ne dispensò.


Privo delle mie sedute in camicia di forza, mi sentii disorientato. All'inizio, non sapevo più come creare in me la morte provvisoria e volare nel sogno attraverso le stelle. Poi, scoprii che con la sola forza di volontà e premendo la coperta sul petto, potevo ugualmente cadere in "trance" catalettica. I risultati fisiologici e psicologici erano gli stessi, e ne fui più che soddisfatto. Così, un giorno, potei far visita a Oppenheimer, nella sua cella.


Come ho già detto, Morrell credeva ciecamente a tutte le mie avventure dell'aldilà; ma Oppenheimer persisteva sempre nel suo scetticismo.


Un giorno, dunque, mentre giacevo nella morte apparente, mi trovai, senza averlo voluto, trasportato accanto a lui. Il mio corpo, - me ne rendevo conto, - era nella cella. Ma con lo spirito ero vicino a Oppenheimer. Malgrado non avessi mai visto quell'uomo, lo riconobbi facilmente, e seppi che era veramente lui.


Era estate. Egli giaceva, completamente nudo, sulla sua coperta.


Fui colpito dall'aspetto cadaverico del suo viso, e da quello del suo corpo scheletrito. Era una carcassa umana. Le sue ossa erano avvolte soltanto da una pelle tesa e rugosa, simile a una pergamena.


In seguito, una volta rientrato nella mia cella e quando mi ricordai, mi resi conto che lo stato fisico di Oppenheimer doveva essere uguale, sotto ogni aspetto, al mio e a quello di Edoardo Morrell. E mi sembrava impossibile che le nostre intelligenze potessero ancora sopravvivere in così tristi carcasse. Esiste della gente che ammira e adora la carne, questa carne nata dal fango, e che nel fango è destinata a ritornare. Se conoscessero le celle della prigione di San Quintino, capirebbero la superiorità dello spirito sulla materia.


Ma torniamo a Oppenheimer.


Il suo corpo faceva pensare a un uomo morto da molto tempo, e abbrustolito dal sole del deserto. Gli occhi, spalancati, sembravano essere l'unica cosa che ancora vivesse in lui. Mentre se ne stava disteso sulla schiena, immobile, i suoi occhi seguivano le evoluzioni di un gruppo di mosche che volavano sopra di lui, nella penombra della cella. Notai una cicatrice sul suo gomito destro, e un'altra alla sua caviglia destra.


Dopo un po', si mise a esaminare una piaga, al di sopra dell'anca, che sembrava dargli molto fastidio. Egli cominciò a pulirla con i mezzi rudimentali di cui può disporre un prigioniero. Poi, sbadigliò, si stirò le membra, e batté il suo richiamo destinato a Morrell.


Ascoltai.


- Come stai? - chiedeva. - Dormi, o sei sveglio? Come va il professore?


Confusi, udii i colpi battuti in risposta da Morrell.


- E' un tipo originale! - riprese Oppenheimer. - Ho sempre diffidato della gente istruita. Ma lui non è stato corrotto dall'educazione. E' un uomo tutto di un pezzo. Per nulla al mondo gli faranno dire quello che non vuole. La dinamite, non l'avranno mai. - E sogghignò, mentre con due dita controllava un dente che gli ballava nella gengiva.


Morrell approvò, aggiungendo da parte sua degli elogi.


Sia in questa esistenza, quanto nelle altre anteriori, sono stato preda di molti impulsi d'orgoglio. Ebbene! devo dire che non mi sono mai sentito così lusingato, quanto nel sentire i miei due compagni esprimersi così nei miei confronti; valutandomi loro pari. Precisamente. In nessuna epoca, nulla mi fu mai altrettanto prezioso quanto l'abbraccio morale di quei due condannati a vita, che il mondo considera come degli spregevoli rifiuti umani.


Quando tornai nel mio corpo, nella mia cella, descrissi a Oppenheimer la visita che gli avevo fatto. Ma rimase incrollabile:


non ci credeva, chiamando coincidenze tutti i particolari che gli avevo descritto. Coincidenze o un'acuta immaginazione!


Oppenheimer era tuttavia un uomo straordinariamente onesto.


Ascoltatemi bene.


La notte seguente, mentre stavo per addormentarmi, udii che batteva i soliti colpi. Mi diceva:


- Una cosa mi inquieta, professore. Tu hai detto di avermi visto muovere, fra le dita, uno dei miei denti che scrollava... A questo punto, non so più che cosa dire... E' appena una settimana che quel dente ha cominciato a darmi noia, e non l'ho ancora detto a nessuno!




23. PERCHE' HO UCCISO


Io, Darrell Standing, sono ora tranquillamente seduto nella cella dei condannati a morte, a Folsom. E penso a tutte le donne che ho amato, sia in questa vita, che nelle altre, sin dall'epoca remota in cui facevo pascolare il mio gregge di renne sulle coste allora ghiacciate del Mediterraneo, diventate poi quelle della Francia, dell'Italia e della Spagna.


Rivedo la donna che chiamavo Igar e che, nell'Età del Bronzo, sedeva accanto a me, al crepuscolo, davanti al fuoco, mentre io incurvavo archi di legno odoroso, o fabbricavo, con ossa, delle frecce dentate, destinate ai pesci delle limpide acque.


L'avevo rapita agli uomini di un'altra tribù. E per tre giorni l'avevo battuta, per domarla. Così, era diventata la mia donna, la compagna che condivideva con me la capanna piantata sui pali, in una palude.


Per proteggersi dal freddo, era sommariamente vestita di pelli insanguinate delle bestie che io avevo ucciso. La sua pelle abbronzata era annerita dal fumo del nostro rudimentale focolare.


Quando cessavano le piogge primaverili, stava spesso dei mesi interi senza lavarsi. Aveva mani callose, con dita nodose e unghie ricurve, e i suoi piedi somigliavano piuttosto a delle zampe.


Ma i suoi occhi erano azzurri come il cielo, profondi come il mare, e quando la stringevo a me, quando le sue braccia selvagge mi allacciavano e le nostre gambe s'incrociavano, il suo cuore batteva con lo stesso ritmo del mio.


Avevo un rivale: il vecchio "Dente di sciabola", un uomo dalle lunghe unghie e i fluenti capelli, i cui gridi acuti e i ruggiti, durante la notte, giungevano spesso fino a noi. Allora, per sbarazzarmi di lui, costruii una specie di trappola, simile a quelle che mi servivano a catturare gli orsi e le bestie feroci:


una fossa profonda, ricoperta di arbusti, con un palo aguzzo piantato in fondo.


Igar era una donna meravigliosa ai miei occhi. Ridevamo insieme, al sole del mattino, quando i nostri due bambini, un maschio e una femmina, si rotolavano per terra, giocando come cuccioli.


Avemmo altri figli e figlie; che a loro volta procrearono altri discendenti. Eravamo già vecchi, quando ci venne addosso un'orda di uomini neri, dalla fronte bassa e dai capelli crespi, davanti ai quali fuggimmo su per le colline. Ma ci raggiunsero, e impegnammo una battaglia feroce. Lottai fino all'aurora, con i miei figli e i miei nipoti. Facemmo un grande massacro di quegli uomini neri. Poi, verso la fine della battaglia, fui colpito a morte, e i canti funebri che io stesso avevo composto, risuonarono sul mio cadavere.


Quaggiù, la donna rappresenta tutto per l'uomo. Essa lo avvince a sé come il polo attrae l'ago magnetico. Affascina il suo sguardo con l'ondeggiare meraviglioso e sensuale del suo corpo, con la sua vaporosa capigliatura, bruna o bionda, cupa come la notte, o dorata come il sole d'agosto.


Il suo petto e le sue braccia sono un paradiso di delizie per colui che vi si riposa. Il profumo che essa emana riempie le narici. La sua voce, nel canto o nella risata argentina, al sole o al chiaro di luna, o quando piange d'amore nella notte, presa dalla vertigine, è più cara e dolce di ogni musica, più melodiosa del canto sublime e tremendo delle spade nella battaglia. Le sue parole sono un'esaltazione di tutto il suo essere. Elettrizzano il nostro, facendolo percorrere da brividi di fuoco, più squillante di una tromba d'argento.


Fino in cielo, con le Uri e le Valchirie, l'uomo le ha riservato un posto d'onore. Perché, come in questo mondo, l'uomo non saprebbe concepire un Cielo dove la donna non esistesse.


E sempre, nelle mie innumerevoli vite, ho follemente amato questa mia donna. In questa cella, dove aspetto di essere impiccato, rivedevo chinarsi sul mio giaciglio Igar, la donna selvaggia, la signora Om, la compagna incantevole di Corea; e Miriam, che mi chiedeva di tradire il mio giuramento a Roma; e la madre del piccolo Jesse, massacrata a tradimento nelle "Praterie delle Montagne".


Molte volte, nelle mie esistenze passate, per possedere la donna che amavo ho ucciso, e ho celebrato le mie nozze nel sangue ancora caldo.


E se sono qui, in questa cella, aspettando la morte a cui m'ha condannato la legge, è ancora perché ho amato!


Non è stato per mio piacere che ho ucciso il mio collega, il professore Haskell. Egli era un uomo, come me. E fra noi due c'era una donna, che io amavo; che amavo con tutta l'eredità d'amore che era in me, dall'epoca del caos urlante, in cui l'uomo e l'amore non avevano ancora assunto una forma...


E ho ucciso il professore Haskell, come avevo straziato altri uomini, tante altre volte.


Dodici giurati si sono riuniti. Dodici giurati, pieni di zelo, per giudicarmi e condannarmi. Dodici, è sempre stato un numero fatidico. Molto prima delle dodici tribù d'Israele, i Magi avevano situato in cielo i dodici segni dello Zodiaco. E nell'Olimpo scandinavo, quando Odino giudicava gli uomini, aveva intorno a sé, me ne ricordo, dodici Dei come consiglieri...




24. UNA FUGA INUTILE


Il tempo che mi rimane da vivere ormai è breve! Questo manoscritto uscirà di contrabbando dalla prigione, affidato a mani sicure. E qualcuno penserà a pubblicarlo.


Non sono più nel reparto assassini, ma nella Cella della Morte, dove sono stato trasferito.


Per tenermi d'occhio, mi hanno messo accanto la guardia della Morte. Una guardia che veglia, notte e giorno, senza mai allontanarsi, e la sua funzione davvero paradossale è quella di assicurarsi che non cerchi di attentare ai miei giorni. A ogni costo devo essere conservato in vita, per la forca. Altrimenti il pubblico verrebbe ingannato, la legge distorta, e il direttore di questa prigione riceverebbe una nota di biasimo, perché il suo primo dovere è quello di far sì che i condannati a morte siano debitamente e regolarmente impiccati. Ci sono degli uomini, - e io li ammiro, - che hanno un modo singolare di guadagnarsi la vita.


Queste pagine sono le ultime. L'ora è stata fissata per domattina.


I "reporters" dei giornali sono già arrivati. Li conosco tutti. Se fra loro vi sono dei padri di famiglia, la descrizione dell'esecuzione del professore Standing pagherà le scarpe e i libri di scuola dei loro figli. Strano! Scommetterei che a cose finite, essi staranno peggio di me.


Mentre, in questa cella, sono immerso nei miei pensieri, sento andare e venire nel corridoio il passo pesante e regolare del mio guardiano. Quando passa davanti al finestrino, scorgo il suo occhio diffidente che mi osserva.


Ho vissuto ormai tante vite, che in certi momenti mi sento profondamente stanco di questo eterno ricominciare. Quanto affannarsi inutile su questa terra! Quello che mi augurerei, nella mia prossima vita, sarebbe di occupare semplicemente il corpo, non più d'un professore, ma d'un modesto e tranquillo fattore di campagna.


Delle grandi distese, delle solide mucche, dei pascoli sulle pendici delle colline; acqua fresca in abbondanza, che porterei verso i miei campi, con canali d'irrigazione... Perché osservate questo. L'estate, che in California dura a lungo ed è asciutta, rappresenta un notevole ostacolo per una coltura intensiva. Un terreno irrigato a dovere potrebbe facilmente produrre, con un buon concime, tre raccolti all'anno. Ecco quale sarebbe, ormai, il mio sogno.


Ho subìto poco fa, - dico: "subìto" - una visita del direttore.


Egli è del tutto diverso dal direttore Atherton di San Quintino.


Egli appariva commosso, preoccupato, e sono stato io che ho dovuto invitarlo a parlare. E' la sua prima impiccagione. Me l'ha confessato. Io, per tenerlo allegro, gli ho risposto che anche per me, era la prima volta. Ma egli rimase taciturno e triste...


E' un uomo, questo direttore, che ha delle noie domestiche. Ha due figli: una femmina che frequenta i corsi della Scuola secondaria, e un maschio, che fa il primo anno all'Università di Stanford. Non possiede una fortuna personale, e vive esclusivamente del suo stipendio. Per di più, sua moglie è ammalata, e anche la salute di lui è piuttosto malandata. Ha cercato persino di fare un'assicurazione sulla vita, ma i medici della Società assicuratrice non hanno voluto accettare il rischio. E' stato lui stesso che mi ha confidato tutti questi suoi grattacapi.


Una volta cominciato a parlare, non la smetteva più, e non s'accorgeva che tutte queste cose mi annoiavano a morte. Ho dovuto concludere cortesemente il colloquio: sennò, chissà quanto sarebbe andato avanti.


Ma mi accorgo solo ora che ho dimenticato di raccontarvi come mai mi trovi qui, nella Cella della Morte.


Liberato dalla camicia di forza, trascorsi ancora due anni nella cella di segregazione di San Quintino. Morrell era stato tolto dalla sua cella, e nominato uomo di fiducia.


Quando se ne andò, mi sentii solo. Oppenheimer, che marciva da troppo tempo nel suo antro, con l'andar del tempo aveva acquistato un carattere intrattabile. Per otto mesi, si rifiutò di parlare con chiunque, anche con me.


Un bel giorno, venni informato che Cecil Winwood, il falsario- poeta, il traditore e spione, l'inventore della storia della dinamite, era tornato a San Quintino per scontarvi una nuova condanna.


Decisi di uccidere Cecil Winwood.


De resto, la situazione non era allegra... Morrell era partito; Oppenheimer s'era immerso nel mutismo. Continuò così fino al giorno in cui, per aver malmenato un guardiano, che colpì con il coltello, se ne andò anch'egli, ma per essere impiccato, come accadrà a me. Da un anno ero solo. Dovevo bene occuparmi di qualcosa.


Riuscii a procurarmi quattro seghetti. Ero talmente magro che mi bastava segare quattro sbarre del mio finestrino perché il mio corpo potesse passarvi.


Segai quelle sbarre. Mi occorsero in tutto otto mesi di lavoro per aprirmi un passaggio.


Avevo fatto i miei calcoli. E avevo la certezza d'incontrare Cecil Winwood nel refettorio, all'ora di colazione. Attesi il momento in cui "Faccia di torta", a mezzogiorno, prendesse servizio. Faceva caldo, ed egli non tardò ad addormentarsi. Strappai le sbarre e sgusciai attraverso il finestrino. Poi, passai davanti a "Faccia di torta", raggiunsi l'estremità del corridoio, e mi trovai libero... nella prigione.


Ma allora accadde la sola cosa che non avevo previsto. Ero rinchiuso in cella di segregazione da cinque anni. Ero spaventosamente debole. Il mio peso era sceso a sessantaquattro libbre. Ed ero quasi cieco.


Trovandomi fuori, fui colpito da agorafobia. Lo spazio mi spaventò. Cinque anni di quell'inferno mi avevano reso incapace di scendere la scala che mi stava dinanzi.


Ma tentai, e vi riuscii. Arrivai così in uno dei cortili della prigione.


Il cortile a quell'ora era deserto. Il sole era abbagliante. Per tre volte, tentai invano di attraversarlo. La testa mi girava, e fui costretto a cercare una protezione nell'ombra di un muro.


Traballai, poi caddi. Allora, come un uomo che sta per annegare, che compie ogni sforzo per raggiungere la riva, strisciai sulle ginocchia verso l'ombra agognata del muro.


Mi accostai, e mi misi a piangere. Erano tanti anni che non avevo versato delle lacrime! Ricordo ancora il sapore salato quando raggiunsero le mie labbra.


Fui scosso da un fremito, come un accesso di febbre. E ammisi che attraversare il cortile era un'impresa disperata, per me.


Vacillando, mi misi a seguirlo, appoggiandomi con le mani al suo ruvido intonaco.


Ero in questa posizione, quando il guardiano Thurston, che da qualche tempo seguiva i miei movimenti, venne a impadronirsi di me. Lo vidi, deformato dai miei occhi malati, come una specie di mostro enorme, pauroso, che si precipitava contro di me con la violenza di un ariete.


Doveva pesare all'incirca centosettanta libbre, ed è facile capire, nelle condizioni in cui eravamo, che cosa potesse essere una lotta fra noi. Fu durante questa breve colluttazione che egli giurò di aver ricevuto da me un pugno sul naso, un pugno così forte che il sangue si mise a colare, copioso.


Ero un condannato a vita, e per un condannato a vita che passa a vie di fatto, la legge di California prevede come condanna la pena di morte. Fui dichiarato colpevole e condannato a essere appeso.


Legalmente, i giudici non potevano accontentarsi delle sole affermazioni di Thurston, ma a esse si aggiunsero quelle di altri cani da guardia della prigione, che non ci pensarono due volte ad accusarmi. La sentenza era perciò inevitabile.


Durante tutto il percorso che dovetti fare in senso inverso per rientrare nella mia cella, e specialmente salendo la vertiginosa e ripida scala, fui cortesemente massacrato di colpi, sia da Thurston quanto dalla muta dei suoi aiutanti, accorsi a prestargli man forte. Piovevano pugni, schiaffi e calci da ogni parte, come se grandinasse.


Se il naso di Thurston ha veramente sanguinato, - ciò che mi guardo bene dall'affermare, - dovette essere, probabilmente, durante la mischia, per opera d'uno di quegli accoliti troppo zelanti che picchiavano a dritto e a rovescio. Ma il pretesto era pur sempre eccellente, per impiccarmi!




25. CHI SARO' DOMANI?


Ho appena avuto uno scambio di idee con la Guardia di servizio che mi sorveglia. Ha conosciuto Oppenheimer, che occupava questa stessa cella, un anno fa, prima di andare al patibolo.


E' un vecchio soldato. Mastica continuamente tabacco.


E' vedovo, con quattordici figli vivi, tutti sposati; è nonno di trentun nipoti, e bisnonno di quattro nipotine.


E' un essere primitivo, di scarsissima intelligenza. I problemi dello spirito non lo hanno mai tormentato. Ed è per questo, credo, che è vissuto tanto a lungo e che, senza preoccuparsi, ha messo al mondo tanti figli.


Mi chiedo se io non debba augurarmi, per la prossima reincarnazione, un'esistenza come la sua, puramente vegetativa, che mi darebbe finalmente un po' di tranquillità.


Dopo essere stato tempestato di pugni e di calci da Thurston e dagli altri guardiani, provai un'immensa soddisfazione, quando mi ritrovai nella mia cella.


Là, tutto mi appariva sicuro, inamovibile. Ero come un fanciullo smarrito che, dopo una fuga, torna alla casa paterna. Sentivo una strana affezione verso quei muri che per tanti anni avevo odiato con tutte le mie forze.


Quei muri, larghi e solidi, che mi stringevano a destra e a sinistra, impedivano allo spazio di lanciarsi su di me come una belva feroce. L'agorafobia è una malattia terribile, indescrivibile. Compiango sinceramente quelli che ne soffrono. Da quel poco che ne ho provato, posso tranquillamente affermare che è più difficile affrontare una simile bestia che la forca.


Mi sono fatto un po' di buon sangue... Il medico delle carceri, una persona a posto e molto simpatica, è entrato nella mia cella della Morte, per far due chiacchiere con me, e offrirmi eventualmente i suoi buoni uffici... Ossia, una dose di morfina.


Domattina, - egli assicura, - non mi renderei nemmeno conto di camminare verso la forca.


Ho declinato la sua offerta; e ne ho riso da morire.


Mi viene in mente il caso di Oppenheimer, che mi è stato raccontato. Anche lui, non ha voluto la morfina.


Giunta la sua ultima mattina, e terminata la colazione, quando già aveva indossato la camicia senza colletto, i "reporters" furono introdotti nella sua cella, ansiosi di raccogliere le sue ultime parole. Ascoltate come li prese in giro.


Dato che gli chiedevano che cosa pensasse della pena di morte, egli, burlone com'era sempre stato per tutta la vita, rispose:


- Signori, io penso di vivere abbastanza per vederla abolita un giorno...


Dopo le mie innumerevoli vite, posso dire che dalla creazione del mondo, la barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progresso. Nel corso dei secoli, l'abbiamo soltanto ricoperta con una mano di vernice; nient'altro.


"Non uccidere!" dice la Legge Divina. Storie!... La prova è che domani mattina sarò impiccato. In questo momento, negli arsenali di tutto il mondo si costruiscono cannoni, corazzate, e mille altri raffinati strumenti destinati a uccidere. "Non ucciderai!".


Che razza di bluff!...


Le nostre donne, nell'Età della Pietra, erano più virtuose di quelle d'oggi. Non ingurgitavano cibi avvelenati da un mercantilismo sfrenato. Le figlie dei poveri disgraziati non erano condannate, per vivere, all'avvilente stato della prostituzione:


questa piaga dei nostri tempi era sconosciuta.


Vi ho narrato per sommi capi quello che, all'inizio del ventesimo secolo dopo Cristo, ho patito nella mia cella, e tutti gli ignobili tormenti della camicia di forza. Mai, nei secoli passati, ho conosciuto delle torture simili.


Un secolo fa, cinquant'anni fa, le vie di fatto non erano punite con la morte, negli Stati Uniti. Oggi, Oppenheimer è stato impiccato, in California, per questo delitto. E io lo sarò fra poco per un pugno sul naso di un uomo. Bontà divina: il progresso!


Se le scimmie e le tigri fossero state sottoposte a un simile regime, da un mucchio di tempo la loro razza sarebbe scomparsa.


Non è così? Come diceva un giorno Edoardo Morrell, picchiettando sul muro: "il peggior uso che si possa fare di un uomo, è quello d'impiccarlo".


No, non ho nessun rispetto per la pena capitale. Non soltanto è una malvagità per quei cani d'impiccatori che la eseguiscono, dietro pagamento d'un salario; ma è una vergogna per la società che la tollera, e paga per questo delle tasse.


"Essere appeso per il collo, fino a che ne segua la morte...".


Così recita il nostro Codice, nella sua fantasiosa fraseologia. Ma l'impiccagione è una cosa idiota, e oltre tutto, antiscientifica.


Per questo mi ripugna.


Il mattino fatale è giunto. Il mio ultimo mattino. Ho dormito saporitamente tutta la notte, come un bambino. Così pacificamente, che a un certo punto il guardiano s'è spaventato. Ha creduto che mi fossi soffocato con le coperte.


Lo spavento del pover'uomo faceva pena. Era in gioco il suo posto.


Se realmente mi fossi ucciso, sarebbe stato forse licenziato, e la prospettiva di andare ad aumentare il numero dei disoccupati è oggi poco gradevole...


Mi hanno portato la colazione. Sembrerà stupido, ma l'ho mangiata con gusto. Il direttore mi ha offerto personalmente un litro di whisky.


L'ho ringraziato, e l'ho pregato di regalarlo, da parte mia, al reparto degli assassini. Povero direttore! Egli teme, senza quel whisky, che dia in escandescenze e turbi la cerimonia...


Mi hanno messo addosso una camicia senza colletto...


Sembra che io sia diventato improvvisamente un personaggio importante. E' incredibile quanta gente s'interessa a me...


Il dottore è uscito un minuto fa. Gli ho chiesto di sentirmi il polso. Pulsazioni normali.


Sono l'uomo più tranquillo di questa prigione. Ho quasi l'aria d'un ragazzo in procinto di intraprendere un viaggio. Ho fretta di andarmene, sono curioso dei paesi nuovi che devo ancora vedere.


Perché dovrei aver paura della morte, io che sono entrato nelle tenebre della morte volontaria tante volte, per poi riuscirne subito?


Il direttore, anziché il litro di whisky, mi ha mandato una bottiglia di "champagne". L'ho fatta avere al reparto degli assassini. Quanti riguardi, per me, in queste ultime ore! Strano!


Questi uomini, che stanno per uccidermi, sembrano spaventati dalla mia morte.


Morrell mi ha fatto avere sue notizie. Dice che ha passeggiato tutta la notte, fuori del muro della mia prigione.


L'amministrazione gli ha negato il permesso di venirmi a fare i suoi addii. Razza di banditi! Che gente! Sono certo che la notte prossima, quando mi avranno tirato il collo, avranno paura a restar soli al buio.


Ecco il messaggio di Morrell: "La mia mano nella tua, vecchio compagno! So che, anche con la corda al collo, sarai tu ad aver vinto la partita. Non avranno la dinamite!".


I reporters se ne sono andati. Non li vedrò di nuovo che dall'alto del patibolo, prima che il boia mi nasconda il viso sotto il cappuccio nero.


Poche righe ancora...


Scrivendole, ritardo la cerimonia. Il corridoio è zeppo di funzionari e di autorità. Sono tutti nervosi. Evidentemente, vogliono farla finita al più presto. Senza dubbio, molti di loro sono aspettati a colazione...


Il prete ha rinnovato la sua preghiera di restarmi accanto sino alla fine. Poveretto! Perché rifiutargli questa consolazione?


Ho acconsentito, ed egli è felice. Mio Dio, ci vuole così poco, per rendere contenti gli uomini! Qui finisco. Non posso che ripetere quanto ho detto. La morte assoluta non esiste. La vita è Spirito, e lo Spirito non può morire.


Soltanto la carne muore e passa; e si dissolve, per poi rinascere sotto forme nuove e diverse. Forse effimere, che a loro volta periranno, per rinascere ancora.


Chi sarò, nella mia prossima vita? Ecco il punto interrogativo che mi preoccupa. Chi sarò, quali donne mi ameranno?


Sono curioso, veramente curioso...

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