William Shakespeare

 

AMLETO

 

 

 

PERSONAGGI

 

CLAUDIO, re di Danimarca

AMLETO, figlio del re defunto, e nipote del presente

FORTEBRACCIO, principe di Norvegia

ORAZIO, amico di Amleto

POLONIO, Lord Ciambellano

LAERTE, suo figlio

VOLTIMANDO, CORNELIO, ROSENCRANTZ, GUILDENSTERN, OSRIC: cortigiani

Un Gentiluomo

Un Sacerdote

MARCELLO, BERNARDO: ufficiali

FRANCESCO, soldato

RINALDO, servo di Polonio

Un Capitano

Ambasciatori d'Inghilterra

Attori

Due Villani, Becchini

GERTRUDE, regina di Danimarca, e madre di Amleto

OFELIA, figlia di Polonio

Dame, Gentiluomini, Ufficiali, Soldati, Marinai, Messaggeri e Servitori. Lo Spettro del padre di Amleto

 

 

 

Scena: Elsinore

 

 

 

ATTO PRIMO

 

SCENA PRIMA - Elsinore. Un terrapieno innanzi al Castello

(FRANCESCO al suo posto di guardia. Entra, verso di lui BERNARDO)

 

BERNARDO: Chi è là?

FRANCESCO: Anzi, rispondete a me; fermatevi, e svelate chi siete.

BERNARDO: Viva il re!

FRANCESCO: Bernardo?

BERNARDO: Lui.

FRANCESCO: Voi venite assai esattamente alla vostr'ora.

BERNARDO: Son sonate ora le dodici; vattene a letto, Francesco.

FRANCESCO: Molte grazie per questo cambio; fa un freddo pungente ed io mi sento abbattuto.

BERNARDO: Ditemi, avete avuto una tranquilla guardia?

FRANCESCO: Non s'è mosso un topo.

BERNARDO: Bene, buona notte. Se voi incontrate Orazio e Marcello, i compagni della mia vigilia, dite loro d'affrettarsi.

 

(Entrano ORAZIO e MARCELLO)

 

FRANCESCO: Mi pare di udirli. Fermatevi, oh! Chi è là?

ORAZIO: Amici di questo paese.

MARCELLO: E vassalli del re di Danimarca.

FRANCESCO: Dio vi dia la buona notte.

MARCELLO: Oh, addio, onesto soldato: chi vi ha dato il cambio?

FRANCESCO: Bernardo ha il mio posto. Dio vi dia la buona notte.

 

(Esce)

 

MARCELLO: Olà! Bernardo!

BERNARDO: Dite... che, è Orazio costà?

ORAZIO: Un pezzo di lui.

BERNARDO: Benvenuto, Orazio; benvenuto, buon Marcello.

ORAZIO: Ebbene, quella cosa è apparsa di nuovo stanotte?

BERNARDO: Io non ho visto nulla.

MARCELLO: Orazio dice che non è che la nostra fantasia, e non vuole lasciarsi dominare dalla credenza riguardo a questo orrendo spettacolo, due volte veduto da noi; perciò io l'ho supplicato d'accompagnarci per vegliare con noi i minuti di questa notte, che se di nuovo questa apparizione venisse, egli possa far fede al nostri occhi, e parlarle.

ORAZIO: Via, via, non apparirà.

BERNARDO: Sedetevi un poco; e lasciate che ancora una volta assaliamo i vostri orecchi, che son così fortificati contro la nostra storia, con quel che noi abbiamo veduto due notti.

ORAZIO: Bene, sediamoci, e sentiamo che ce ne dice Bernardo.

BERNARDO: L'ultima notte fra tutte, quando quella medesima stella ch'è a occidente del polo era giunta nel suo corso a illuminare la parte del cielo dove arde adesso, Marcello ed io, la campana allora battendo l'una...

 

(Entra lo Spettro)

 

MARCELLO: Zitto; interrompiti; guarda, rieccolo che viene!

BERNARDO: Con lo stesso aspetto, simile al re che è morto.

MARCELLO: Tu sei uomo di lettere; parlagli, Orazio.

BERNARDO: Non assomiglia al re? osservatelo, Orazio.

ORAZIO: Moltissimo; mi rimescola di paura e di stupore.

BERNARDO: Vorrebbe che gli si parlasse.

MARCELLO: Interrogalo, Orazio.

ORAZIO: Chi sei tu che usurpi questo tempo della notte, insieme con quella aitante forma guerriera in cui la maestà del sepolto re di Danimarca marciò una volta? per il cielo io te lo ingiungo, parla!

MARCELLO: E' offeso.

BERNARDO: Vedete, s'allontana a gran passi.

ORAZIO: Resta! parla, parla: io te lo ingiungo parla!

 

(Esce lo Spettro)

 

MARCELLO: Se n'è andato, e non vuol rispondere.

BERNARDO: Ebbene, Orazio? voi tremate e impallidite; non è questo qualcosa di più che fantasia? che ne pensate?

ORAZIO: Innanzi al mio Dio, io non avrei potuto crederlo senza la sensibile e vera testimonianza dei miei propri occhi.

MARCELLO: Non assomiglia al re?

ORAZIO: Come tu a te stesso. Tale proprio era l'armatura che egli indossava quando die' battaglia all'ambizioso re di Norvegia; così corrugò le ciglia egli una volta, quando, in un iroso colloquio, abbatté sul ghiaccio i Polacchi nelle loro slitte. E' strano.

MARCELLO: Così già due volte, e proprio a questa morta ora con passo marziale egli è passato innanzi alla nostra guardia.

ORAZIO: Che cosa pensarne precisamente io non so; ma, a quel che posso congetturare, questa cosa presagisce qualche singolare commovimento al nostro stato.

MARCELLO: Di grazia, sediamo, e mi dica chi lo sa, perché questa rigida e attentissima guardia così ogni notte affatica i sudditi del paese, e perché tal cotidiana fusione di cannoni di bronzo, e acquisto d'armamenti su mercati forestieri; perché un tal reclutamento di calafati, la cui faticosa bisogna non distingue la domenica dalla settimana; che cosa possa essere imminente, che questa sudata fretta debba far della notte la compagna di lavoro del giorno; chi è che può informarmi?

ORAZIO: Io lo posso; almeno così se ne sussurra. Il nostro ultimo re, la cui immagine pur ora è apparsa a noi, fu, come voi sapete, da Fortebraccio di Norvegia, a ciò spronato da un invidiosissimo orgoglio, sfidato al combattimento; nel quale il nostro valoroso Amleto (perché tale lo stimava questa parte del nostro mondo conosciuto) uccise questo Fortebraccio; che, per un patto sigillato ben ratificato secondo la legge e la consuetudine araldica, rassegnò, con la sua vita, tutte quelle sue terre di cui egli aveva il possesso, al vincitore; contro le quali, una congrua porzione fu data in pegno dal nostro re, e questa sarebbe passata al retaggio di Fortebraccio, se egli avesse vinto; come, per lo stesso contratto e a tenore dell'articolo designato, la sua toccò ad Amleto. Ora, signore, il giovine Fortebraccio, caldo e pieno di non castigato umore, ha qua e là sui confini della Norvegia trangugiato una torma di arditi senza legge per cibo e vitto ad un'impresa che vuole stomaco; che non è altro (come è ben manifesto al nostro stato) che di riconquistar da noi, per forza di mano e coercizione, quelle sopraddette terre così perdute dal padre suo. E questo, com'io l'intendo, è il principale motivo delle nostre preparazioni, la fonte di questa nostra vigilia, e la prima ragione di questo frettoloso affaccendamento nel paese.

BERNARDO: Io credo che non sia altrimenti che proprio così: ben s'accorda con ciò che questa portentosa figura traversi armata la nostra guardia, così simile al re che fu ed è la causa di queste guerre.

ORAZIO: E' bene un fuscello da turbar l'occhio della mente. Nel più alto e felice Stato di Roma, un poco prima che cadesse il potente Giulio, le tombe restarono vacanti, e i morti nei loro sudari stridettero e squittirono nelle vie di Roma: e proprio un simile precorrimento di fieri eventi, come araldi che sempre precedono i fati e come prologo alla sventura che s'avanza, hanno cielo e terra insieme dimostrato ai nostri climi e ai nostri compatrioti, come le stelle con code di fuoco e rugiade di sangue, maligni aspetti nel sole; e l'umida stella, sull'influenza della quale si fonda l'impero di Nettuno, patì quasi il finimondo per un'eclissi.

 

(Entra di nuovo lo Spettro)

 

Ma, piano, guardate! ecco, ritorna! Io gli attraverserò il passo, dovesse anche incenerirmi. Fermati, illusione! (Lo Spettro allarga le braccia) Se tu hai alcun suono od uso di voce, parlami: se vi è alcuna cosa buona da farsi, che possa a te dar conforto e grazia a me, parlami: se tu sei a parte del fato del tuo paese, che, per avventura, il conoscerlo innanzi possa stornare, oh, parla! o se tu hai ammucchiato in vita tesori estorti nel seno della terra, per la qual cosa. dicono, voi spiriti spesso camminate in morte (il gallo canta) parlane: fermati, e parla! Fermalo. Marcello.

MARCELLO: Debbo colpirlo con la mia partigiana?

ORAZIO: Fallo, se non vuol fermarsi.

BERNARDO: E' qui!

ORAZIO: E' qui!

MARCELLO: E' andato! (Esce lo Spettro) Noi gli facciam torto, essendo così maestoso, a far mostra di usargli violenza; poiché esso è, come l'aria, invulnerabile, e i nostri colpi vani una maligna beffa.

BERNARDO: Stava sul punto di parlare quando il gallo ha cantato.

ORAZIO: E allora ha trasalito come un essere colpevole a una spaventosa ingiunzione. Io ho udito che il gallo, ch'è la tromba del mattino, con la sua gola dal suono alto e acuto, risvegli il dio del giorno; e, al suo richiamo, o nel mare o nel fuoco, o in terra o in aria, lo spirito vagante ed errabondo s'affretta al suo confino: e della verità di ciò ha dato la riprova quel che abbiam visto ora.

MARCELLO: Esso è svanito sul cantar del gallo. Alcuni dicono che ogniqualvolta s'approssima la stagione in cui si celebra la nascita del nostro Salvatore, l'uccello dell'alba canta tutta la notte; e allora, dicono, nessuno spirito può muoversi attorno; le notti sono salubri; allora nessun pianeta assidera, nessuna fata incanta, né alcuna strega ha potere d'affatturare, così santo e pieno di grazie è quel tempo.

ORAZIO: Così ho udito anch'io, ed in parte lo credo. Ma guardate, il Mattino, vestito d'un manto rossiccio, cammina sulla rugiada di quell'alto colle volto ad oriente; poniam termine alla nostra guardia; e secondo il mio avviso, comunichiamo quel che abbiamo visto stanotte al giovine Amleto; perché, sulla mia vita, questo spirito, muto per noi, parlerà a lui. Consentite che lo informiamo di questo, come cosa che il nostro amore richiede, e si conviene al nostro dovere?

MARCELLO: Facciamolo, di grazia, ed io stamane so dove lo troveremo più facilmente.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Una sala di cerimonia nel Castello

(Squillo di tromba. Entrano il RE, la REGINA, AMLETO, POLONIO, LAERTE, VOLTIMANDO, CORNELIO, Signori, e il Seguito)

 

RE: Benché il ricordo della morte del nostro caro fratello Amleto sia ancora verde e a noi si convenga vestire di cordoglio i nostri cuori, e a tutto il nostro reame contrarsi in un sol cipiglio d'affanno, pure la discrezione ha tanto combattuto con la natura, che noi con più savio dolore pensiamo a lui e insieme ci ricordiamo di noi stessi.

Pertanto la nostra già sorella, ora regina, l'imperiale erede di questo Stato guerriero, noi, per così dire con una sfigurata gioia, con un occhio fausto ed uno lagrimoso, con letizia nei funerali e lamento nelle nozze, in equa bilancia pesando diletto e duolo, l'abbiam presa in moglie: né abbiamo in ciò escluso il vostro miglior senno, col quale avete liberalmente assistito questo negozio: per tutto, le nostre grazie. Ora segue quel che sapete: il giovine Fortebraccio, facendo debole conto del nostro valore, o pensando che per la scomparsa del nostro caro fratello defunto il nostro Stato sia sconnesso e fuor di sesto, associandovi quel ch'egli sogna della sua superiorità, non ha mancato di molestarci con messaggi, che importan la consegna di quelle terre perdute da suo padre, con tutti i termini di legge, in favore del nostro valorosissimo fratello. Tanto per quel che lo riguarda. Ora quanto a noi stessi, e a questa riunione, ecco di che si tratta: noi abbiamo qui scritto al re di Norvegia, zio del giovine Fortebraccio, il quale, impotente e infermo, quasi non si accorge di questo proposito di suo nipote, perché impedisca ch'egli proceda oltre in questa cosa; in quanto le leve, le liste e i pieni quadri, son tutti tratti dai suoi sudditi: e noi qui spediamo voi, buon Cornelio, e voi, Voltimando, come latori di questo saluto al vecchio re di Norvegia, non dando a voi nessun ulteriore potere personale di negoziare col re più di quanto permetta il senso di questi articoli che voi portate. Addio, e che la vostra premura faccia risaltare il vostro ossequio.

CORNELIO e VOLTIMANDO: In questa e in ogni cosa mostreremo il nostro ossequio.

RE: Noi non ne dubitiamo punto: cordialmente addio. (Escono Voltimando e Cornelio) Ed ora, Laerte quali notizie avete voi? Voi ci diceste d'una supplica; che è, Laerte? Voi non potete parlar di ragione al re danese, e perder la vostra voce: che vorresti tu implorare, Laerte, che non sia la mia offerta anzi che la tua richiesta? Il capo non è più imparentato col cuore, la mano più solidale con la bocca, di quel che non sia il trono di Danimarca col padre tuo. Che cosa vorresti, Laerte?

LAERTE: Mio temuto signore, la vostra licenza e il vostro favore per tornare in Francia, donde benché di buon grado io venissi in Danimarca, per rendere il mio omaggio nella vostra incoronazione, pure ora, debbo confessarlo, fatto il mio dovere, i miei pensieri e desideri piegan di nuovo verso la Francia, e s'inchinano alla vostra graziosa licenza e degnazione.

RE: Avete voi licenza da vostro padre? Che dice Polonio?

POLONIO: Egli m'ha, mio signore, strappata la mia riluttante licenza con laboriosa petizione, e finalmente sulla sua volontà ho messo il suggello del mio duro consentimento: io vi supplico, dategli licenza d'andare.

RE: Prendi la tua bella ora, Laerte; il tempo sia tuo e le tue doti migliori lo spendano secondo la tua volontà! Ma ora mio nipote Amleto, e mio fìgliuolo...

AMLETO (a parte): Un po' più che della stessa gente, e men che gentile.

RE: Com'è che siete ancora rannuvolato?

AMLETO: Non così, mio signore; io son troppo nel sole.

REGINA: Buon Amleto, spogliati del tuo notturno colore, fa' che il tuo occhio guardi da amico il re di Danimarca. Non cercar sempre con le tue palpebre abbassate il tuo nobil padre nella polvere; tu sai che è cosa comune, tutto ciò che vive deve morire, passando all'eternità attraverso la natura.

AMLETO: Sì, signora, è cosa comune.

REGINA: Se è tale, perché sembra essa così particolare a te?

AMLETO: Sembra, signora! anzi, è; io non conosco "sembra". Non è soltanto il mio tenebroso mantello, buona madre, né i consueti abiti d'un nero solenne, né il ventoso sospirare d'uno sforzato respiro, no, né il copioso fiume dell'occhio, né l'afflitto portamento del volto, insieme con tutte le forme, i modi, le mostre dell'affanno, che possan fedelmente esprimermi; queste cose davver "sembrano", perché sono azioni che un uomo potrebbe contraffare; ma io ho tal cosa in me che passa ogni mostra; questi non sono più che le gualdrappe e gli abiti del dolore RE: E' dolce cosa e degna d'elogio nella vostra natura, Amleto, il render questo tributo di lutto al padre vostro: ma, voi dovete saperlo, vostro padre perse un padre, quel padre perduto perse il suo; e il sopravvivente è tenuto come obbligo filiale per un certo termine a far esequie di dolore: ma il perseverare in un'ostinata doglianza è un procedere d'empia caparbietà; è un non virile affanno: mostra una volontà molto ribelle al cielo, un cuore non fortificato, un animo impaziente, un intendimento semplice e non disciplinato: perché quel che noi sappiamo dover essere, ed è comune come la cosa più familiare ai sensi, perché dovremmo noi nella nostra petulante opposizione prenderlo a cuore? Ohibò! è una colpa verso il cielo, una colpa contro i morti, una colpa verso la natura, quanto mai assurda verso la ragione, il cui tema usuale è la morte dei padri, e che sempre ha gridato, dal primo cadavere fino a colui che è morto oggi: "Così dev'essere". Noi vi preghiamo, gettate a terra questo inutile affanno, e pensate a noi come ad un padre: perché, che il mondo lo sappia, voi siete il più immediato erede del nostro trono; e con non minore nobiltà d'amore di quella che il più caro padre porta al suo figliuolo, io mi rivolgo a voi. Quanto alla vostra intenzione di ritornare a scuola in Vittemberga, essa è assai contraria ai nostri desideri: e noi vi supplichiamo, piegatevi a rimanere qui sotto la festevolezza e il conforto dei nostri occhi, il nostro primo cortigiano, parente e nostro figlio.

REGINA: Non fare che tua madre perda le sue preghiere, Amleto: ti prego, resta con noi; non andare a Vittemberga.

AMLETO: Io v'obbedirò del mio meglio, signora RE: Bene, è un'amorosa e bella risposta: siate come noi stessi in Danimarca. Signora, venite: questo cortese e spontaneo consentimento d'Amleto porta un sorriso al mio cuore; e in grazia di ciò, nessun giocondo brindisi il re di Danimarca berrà oggi, senza che il grande cannone lo ridica alle nuvole e senza che i cieli rimbombino della regia baldoria, echeggiando il tuono terrestre. Venite via.

 

(Squilli di tromba. Escono tutti meno Amleto)

 

AMLETO: Oh! così questa troppo solida carne potesse fondersi, dimoiare e dissolversi in rugiada: o che l'Eterno non avesse stabilito la sua legge contro l'uccisione di sé! O Dio! o dio! come tediosi, vieti, insipidi e non profittevoli sembrano a me tutti gli usi di questo mondo! Come l'ho a schifo! O schifo! è un giardino non sarchiato che va in seme; piantacce andate in rigoglio e grossolane lo posseggono tutto. Che si dovesse venire a questo! Morto da soli due mesi! anzi, non da tanto, nemmeno due: un re così eccellente: ch'era, rispetto a questo, quel ch'è Iperione a un satiro; così amorevole per mia madre, che non poteva permettere che i venti del cielo visitassero troppo rudemente la sua faccia. Cielo e terra! debbo io ricordare? ebbene, ella pendeva da lui, come se il desiderio si fosse accresciuto di ciò di cui si pasceva; e pure, entro un mese! Ch'io non ci pensi:

Fragilità, il tuo nome è donna! Un mesetto! prima che fossero vecchie quelle scarpe con le quali ella seguì il corpo del mio povero padre, come Niobe, tutta lacrime, ebbene lei proprio lei - o Dio! una bestia, a cui manca il discorso della ragione, avrebbe pianto più a lungo - sposata a mio zio, il fratello di mio padre, ma non più simile a mio padre che io ad Ercole. Entro un mese! prima ancora che il sale di quelle inique lagrime avesse lasciato il rossore nei suoi occhi gonfi, ella si è sposata. Oh, malvagia fretta, accorrere così lestamente a lenzuola incestuose! Non è bene e non può venire a bene; ma spezzati, mio cuore, perché io debbo frenare la lingua!

 

(Entrano ORAZIO, MARCELLO e BERNARDO)

 

ORAZIO: Salute a Vostra Signoria!

AMLETO: Sono lieto di trovarvi bene: Orazio, o io m'inganno.

ORAZIO: Quello stesso, mio signore, e sempre il vostro povero servitore.

AMLETO: Signore, il mio buon amico; io scambierò quel nome con voi: e che fate voi lontano da Vittemberga, Orazio? Marcello!

MARCELLO: Mio buon signore!

AMLETO: Son molto lieto di vedervi. (A Bernardo) Buona sera, signore.

Ma che cosa, in fede, fate voi lontano da Vittemberga?

ORAZIO: Un umor vagabondo, mio buon signore.

AMLETO: Non vorrei udire il vostro nemico dir così, né farete voi al mio orecchio questa violenza, di fargli credere al vostro proprio rapporto contro voi stesso. Io so che voi non siete un discolo; ma che avete voi a fare in Elsinore? Noi vi insegneremo a bere profondo prima che partiate.

ORAZIO: Mio signore, io venni per vedere i funerali di vostro padre.

AMLETO: Ti prego, non ti far beffe di me, compagno studente, io credo che fu per vedere il matrimonio di mia madre.

ORAZIO: Infatti, mio signore, questo seguì subito dopo.

AMLETO: Economia, economia. Orazio! i pasticci del funerale guarnirono freddi le tavole nuziali. Così avessi io incontrato il mio più cordiale nemico in cielo prima d'aver mai veduto quel giorno, Orazio!

Mio padre... mi pare di veder mio padre.

ORAZIO: O dove, mio signore?

AMLETO: Nell'occhio della mia mente, Orazio.

ORAZIO: Io lo vidi una volta; egli era un bel re.

AMLETO: Egli era un uomo, preso tutto insieme, ch'io non vedrò il suo simile un'altra volta.

ORAZIO: Mio signore, io credo d'averlo veduto iersera.

AMLETO: Veduto? chi?

ORAZIO: Signore, il re vostro padre.

AMLETO: Il re mio padre!

ORAZIO: Temperate il vostro stupore per un po' con un orecchio attento, finché io possa annunziare, sulla testimonianza di questi gentiluomini, questa maraviglia a voi.

AMLETO: Per amor di Dio, fatemi udire.

ORAZIO: Due notti di seguito avevan questi gentiluomini, Marcello e Bernardo, nella loro vigilia nel mezzo del silenzioso deserto della notte, fatto questo incontro: una figura simile a vostro padre, armata di tutto punto, da capo a piè, apparisce a loro, e con solenne andatura passa lenta e maestosa innanzi a loro; tre volte egli ha camminato innanzi ai loro occhi oppressi e sorpresi dalla paura, alla distanza della sua mazza; mentre essi, quasi liquefatti in gelatina per opera della paura, stan muti, e non parlano a lui. Questo a me essi han comunicato in tremenda segretezza; ed io con essi la terza notte ho fatto la guardia, dove, come avevano annunziato tanto per il tempo come per la forma della figura, ogni parola avverata e confermata, viene l'apparizione. Io ho riconosciuto vostro padre; queste mani non sono più simili.

AMLETO: Ma dove è stato questo?

ORAZIO: Mio signore, sul terrapieno dove noi eravamo di guardia.

AMLETO: Voi non le avete parlato?

ORAZIO: Mio signore, io le ho parlato; ma non ha fatto risposta alcuna; pure una volta, mi è parso, ha levato su il capo e dato principio a un movimento, come se volesse parlare; ma proprio allora il gallo mattutino ha cantato forte, e a quel suono essa si è ritratta rapidamente, ed è svanita dal nostro sguardo.

AMLETO: E' molto strano.

ORAZIO: Com'io vivo, mio onorato signore, è vero, e noi abbiamo creduto che fosse scritto nel nostro dovere di farvelo noto.

AMLETO: Davvero, davvero, signori, ma questo mi turba. Montate la guardia stanotte?

MARCELLO e BERNARDO: Sì, mio signore.

AMLETO: Armato, voi dite?

MARCELLO e BERNARDO: Armato, mio signore.

AMLETO: Dalla testa al calcagno?

MARCELLO e BERNARDO: Mio signore, da capo a piedi.

AMLETO: Allora non avete veduto la sua faccia?

ORAZIO: Oh, sì, mio signore; egli portava la visiera alzata.

AMLETO: E che, aveva uno sguardo corrucciato?

ORAZIO: Un volto più addolorato che iroso.

AMLETO: Pallido o rosso?

ORAZIO: Anzi, pallidissimo.

AMLETO: E fissava gli occhi su di voi?

ORAZIO: Continuamente.

AMLETO: Così foss'io stato là!

ORAZIO: Vi avrebbe assai sbigottito.

AMLETO: Molto probabilmente, molto probabilmente. Si è fermato a lungo?

ORAZIO: Tanto che si sarebbe potuto contare con moderata fretta fino a cento.

MARCELLO e BERNARDO: Di più, di più.

ORAZIO: Non quando l'ho visto io AMLETO: La sua barba era brizzolata? no?

ORAZIO: Era, com'io l'ho veduta mentre viveva, d'un nero argentato AMLETO: Io veglierò stanotte; forse camminerà di nuovo.

ORAZIO: Io garantisco di sì.

AMLETO: Se esso assumerà la persona del mio nobile padre, io gli parlerò anche se l'inferno stesso si spalancasse per ordinarmi di tacere. Io prego voi tutti, se avete finora tenuta celata questa vista, fate che sia serbata nel vostro silenzio ancora; e qualunque altra cosa accadesse questa notte, prestate ad essa comprensione, ma non lingua: io ripagherò il vostro amore. Così statevi bene: sul terrapieno, tra le undici e le dodici, verrò a visitarvi.

TUTTI: Il nostro omaggio a Vostra Signoria.

AMLETO: Il vostro amore, come il mio a voi addio. (Escono Orazio, Marcello e Bernardo) Lo spirito del padre mio in armi! non tutto è bene; io sospetto qualche iniquità: così la notte fosse già venuta!

Fin allora tienti tranquilla, anima mia: le turpi azioni risorgono, benché tutta la terra le sopraffaccia, agli occhi degli uomini.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA TERZA - Una stanza nella casa di Polonio

(Entrano LAERTE ed OFELIA)

 

LAERTE: Il mio bagaglio è imbarcato; addio; e, sorella, quando i venti sian favorevoli e ci sia un convoglio a disposizione, non dormite ma fatemi aver vostre notizie.

OFELIA: Ne dubitate?

LAERTE: Quanto ad Amleto, e a questo scherzo del suo favore, tenetelo per una galanteria, e un capriccio del sangue, una violetta nella giovinezza della natura primaverile, precoce, non permanente, dolce, non duratura, il profumo e il sollazzo d'un istante; non più.

OFELIA: Non più di questo?

LAERTE: Non lo stimate di più: perché la natura in crescenza non cresce soltanto di nerbo e di mole; ma, come questo tempio s'espande, il servizio interiore della mente e dell'anima si fa insieme più vasto. Forse egli vi ama ora, ed ora nessuna macchia o frode lorda la sua virtuosa volontà; ma voi dovete temere, considerata la sua grandezza, che la sua volontà non gli appartenga; poiché egli stesso è soggetto alla sua nascita; egli non può, come fan le persone dappoco, fare a suo piacimento, perché dalla sua scelta dipende la salvezza e il benessere di tutto questo Stato, e pertanto la sua scelta deve essere subordinata alla voce e al consenso di quel corpo di cui egli è il capo. Dunque se egli dice che v'ama, conviene alla vostra saggezza crederlo secondo che egli nella sua particolare operazione e posizione possa fare della sua parola un fatto; che non è oltre quanto la voce universale di Danimarca vi s'accordi. Dunque pesate qual perdita il vostro onore potrebbe sostenere se con troppo credulo orecchio date ascolto alle sue canzoni, o perdete il vostro cuore, o aprire il vostro casto tesoro alla sua sfrenata sollecitazione. Temetelo, Ofelia, temetelo, mia cara sorella, e tenetevi alla retroguardia dei vostri affetti, fuori dal tiro e dal pericolo del desiderio. La più modesta fanciulla è prodiga abbastanza, se ella smaschera la sua bellezza alla luna; la stessa virtù non sfugge ai colpi della calunnia; il verme guasta i figliuoli della primavera troppo spesso innanzi che i loro boccioli sian dischiusi, e nel mattino e nella liquida rugiada della giovinezza più sovrasta la minaccia d'influssi contagiosi. Siate cauta dunque; la miglior salvezza sta nella paura:

la giovinezza concupisce se stessa anche se nessun altro sia vicino.

OFELIA: Io terrò la sostanza di questa buona lezione, come guardiana del mio cuore. Ma, mio buon fratello, non mi mostrate, come fanno certi sgraziati pastori, l'erta e spinosa via del cielo, mentre come un tronfio e temerario libertino, egli stesso calca il fiorito sentiero dei godimenti e non bada al suo proprio consiglio.

LAERTE: Oh, non temete per me.

 

(Entra POLONIO)

 

Io m'indugio troppo; ma ecco viene mio padre. Una doppia benedizione è una doppia grazia; l'occasione arride a un secondo commiato.

POLONIO: Ancora qui, Laerte? a bordo, a bordo, vergogna! Il vento siede sulla spalla della vostra vela, e per voi s'attende. Ecco la mia benedizione a te! E vedi d'imprimere questi pochi precetti nella tua memoria. Non dar voce ai tuoi pensieri, né la tua azione ad alcun pensiero smisurato. Sii tu familiare, ma per nessun conto volgare; quegli amici che tu hai, e di cui hai provato l'adozione, agganciali alla tua anima con uncini d'acciaio ma non t'intorpidire la palma intrattenendo ogni implume camerata col guscio in capo. Guardati dall'entrare in una lite, ma, essendovi, conducila così che il tuo avversario debba guardarsi da te. Da' ad ognuno il tuo orecchio, ma a pochi la tua voce, accogli l'opinione d'ognuno ma riserva il tuo giudizio. Prezioso il tuo abito quanto la tua borsa può comprarlo ma non stravagante; ricco, ma non vistoso; perché l'abbigliamento spesso rivela l'uomo; e in Francia le persone di più alto rango e posizione sono assai distinte e generose, specie in questo. Non far debiti e non prestar denaro; perché un prestito spesso perde se stesso e l'amico e il far debiti fa perdere il filo all'economia. Questo sopra tutto: a te stesso sii fedele, e deve seguirne, come la notte al giorno, che tu non puoi allora esser falso per nessuno. Addio: la mia benedizione faccia maturare in te questi consigli!

LAERTE: Umilissimamente prendo il mio commiato, mio signore.

POLONIO: Il tempo v'invita; andate, i vostri servi attendono.

LAERTE: Addio, Ofelia, e ricordate bene quello ch'io v'ho detto.

OFELIA: E' serrato nella mia memoria, e voi stesso ne terrete la chiave.

LAERTE: Addio.

 

(Esce Laerte)

 

POLONIO: Che è, Ofelia, ch'egli v'ha detto?

OFELIA: Piacendo a voi, qualcosa riguardo al principe Amleto.

POLONIO: Diamine, ben pensato: mi si dice che sull'ultimo egli si è trattenuto privatamente con voi assai spesso, e voi stessa siete stata assai libera e generosa della vostra udienza: s'egli è così (poiché così mi si dà a credere, e questo in via di ammonimento), io debbo dirvi che non comprendete voi stessa così chiaramente quel che s'addice alla mia figliuola e al vostro onore. Che c'è fra voi?

confidatemi la verità.

OFELIA: Egli ha, mio signore, ultimamente fatto molte profferte del suo affetto verso di me.

POLONIO: Affetto! puh! voi parlate come una ragazza ingenua, non esperta di così pericolose circostanze. Credete voi alle sue profferte, come voi le chiamate?

OFELIA: Io non so, mio signore, che cosa pensare.

POLONIO: Diamine, v'insegnerò io: consideratevi una bambina. che avete preso queste profferte, che non son di zecchino, per buon pagamento.

Tenetevi da conto più caramente; o (per non togliere il fiato alla povera frase, facendola correr tanto) voi mi profferirete un grosso.

OFELIA: Mio signore, egli mi ha mostrato il suo amore in maniera onorevole.

POLONIO: Sì, potete chiamarla una mostra; andate, andate.

OFELIA: E ha confortato il suo discorso, mio signore, con quasi tutti i santi voti del cielo.

POLONIO: Sì, laccioli da acchiappar merli. Io so, quando il sangue arde, come è prodiga l'anima a prestar voti alla lingua: queste fiammate, figlia, che dan più luce che calore, estinte in ambedue, nella loro stessa promessa, mentre la si fa, non dovete prenderle per fuoco. D'ora innanzi siate un po' più avara della vostra virginea presenza; ponete i vostri trattenimenti a un prezzo più alto che un ordine d'udienza. Quanto al principe Amleto, credete in lui non più di questo: ch'egli è giovine, e può camminare con un più lungo guinzaglio di quel che possa darsi a voi: in breve, Ofelia, non credete ai suoi voti; ché son mezzani, non di quella tinta che le loro vesti mostrano, ma semplici supplicatori di profani amoreggiamenti, che spirano come santi e pii legami, per invescar meglio. Insomma: io non vorrei, in chiari termini, da ora in avanti, che voi così diffamaste, sia pure l'agio d'un momento, da dar parole, o conversare col principe Amleto.

Badateci, ve lo comando; venite via.

OFELIA: Obbedirò, mio signore.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Il terrapieno

(Entrano AMLETO, ORAZIO e MARCELLO)

 

AMLETO: L'aria taglia di buono; fa molto freddo.

ORAZIO: E' un'aria aspra e frizzante.

AMLETO: Che ora è adesso?

ORAZIO: Credo che non siano le dodici.

MARCELLO: No, son sonate.

ORAZIO: Davvero? io non le ho udite: allora s'avvicina il tempo, in cui lo spirito era solito andar attorno. (Uno squillo di trombe e due cannoni sparano, al di dentro) Che vuol dir questo, mio signore?

AMLETO: Il re veglia stanotte e tien la sua gozzoviglia, fa lo stravizio, e balla il dondolante saltinsù; e come egli tracanna i suoi sorsi di vin del Reno, il tamburo e la tromba così sbraitano il trionfo dei suoi brindisi.

ORAZIO: E' questa l'usanza?

AMLETO: Sì, perdio, è questa; ma al mio parere, benché io sia nativo di qui, e uso a questi modi fin dalla nascita, è un'usanza meglio onorata con l'infrangerla che con l'osservarla. Queste orge che intontiscono fan di noi a oriente e a occidente la favola e il ludibrio delle altre nazioni; ci chiamano ubriaconi, e con una sozza parola macchiano il nostro epiteto; e davvero ciò toglie alle nostre imprese, benché compiute eccellentemente, il nerbo e il midollo della nostra reputazione. Così spesso accade in certi uomini, che per qualche maligno neo di natura in essi, come, nella loro nascita, in cui non han colpa (poiché la natura non può scegliere la propria origine), per l'eccessivo sviluppo di qualche umore, che spesso abbatte gli steccati e i baluardi della ragione, o per qualche abito che dà troppo risalto alla forma delle maniere ben accette, che questi uomini, portando, dico, il marchio d'un sol difetto, che sia la livrea della natura, o la stella della fortuna, tutte le altre loro virtù, sian esse pure come la grazia, infinite per quanto l'uomo n'è capace, nella generale opinione saran corrotte da quel particolare mancamento:

una dramma di male riduce tutto ciò che è nobile, per un sospetto, alla sua propria infamia.

 

(Entra lo Spettro)

 

ORAZIO: Guardate, mio signore, viene!

AMLETO: Angeli e ministri della grazia, difendeteci! Sia tu uno spirito salvato o un folletto dannato, porti con te aure dal cielo o raffiche dall'inferno, siano le tue intenzioni malvagie o caritatevoli, tu vieni in aspetto così accostabile ch'io voglio parlarti: io ti chiamerò Amleto, re, padre, re di Danimarca: oh, rispondimi! non mi lasciar scoppiare nell'ignoranza; ma di' perché le tue ossa consacrate, composte nella morte, hanno lacerato le loro bende funebri, perché il tuo sepolcro, in cui noi ti vedemmo quietamente deposto, ha aperto le sue ponderose mascelle marmoree, per ributtarti su. Che può significare questo, che tu, morto cadavere, di nuovo, tutto in acciaio, rivisiti così i bagliori della luna, facendo la notte spaventosa; e che noi zimbelli della natura così orribilmente scotiamo la nostra fibra con pensieri di là dai limiti delle nostre anime? Di', perché è questo? a che fine? che dovremmo noi fare?

 

(Lo Spettro fa cenno ad Amleto)

 

ORAZIO: Vi fa cenno d'andar via con lui, come se desiderasse comunicare qualcosa a voi solo.

MARCELLO: Guardate, con che cortese gesto vi invita ad un luogo più remoto: ma non andate con lui.

ORAZIO: No, in nessun modo.

AMLETO: Non vuol parlare; dunque io lo seguirò.

ORAZIO: Non lo fate, mio signore.

AMLETO: Perché, che dovrei temere? io non pongo la mia vita al prezzo d'una spilla; e quanto alla mia anima, che può egli farle, dacché è una cosa immortale come lui? Mi fa cenno d'avanzare di nuovo; io lo seguirò.

ORAZIO: E che, se vi tentasse verso il flutto, mio signore, e all'orrida sommità della roccia che s'aggrotta sulla sua base entro il mare, e quivi assumesse qualche altra orribile forma, capace di spodestare la sovranità della vostra ragione, e di trarvi alla pazzia?

pensateci: il luogo stesso mette estri di disperazione, senz'alcun altro motivo, in ogni cervello che guardi da tante braccia nel mare e l'oda ruggire di sotto.

AMLETO: Mi fa cenno ancora. Va' innanzi; io ti seguirò.

MARCELLO: Voi non andrete, mio signore.

AMLETO: Giù le mani!

ORAZIO: Lasciatevi convincere; voi non dovete andare.

AMLETO: Il mio fato grida forte, e fa ogni minuta arteria in questo corpo vigorosa come il nerbo del leone nemeo. Ancora mi si chiama?

Lasciatemi, signori; per il cielo, io farò un fantasma di colui che mi trattiene: via, dico! Va' innanzi; io ti seguirò.

 

(Escono lo Spettro ed Amleto)

 

ORAZIO: Egli divien forsennato per immaginazione.

MARCELLO: Seguiamolo; non è bene obbedirlo così.

ORAZIO: Andiamogli appresso. A che fine verrà questo?

MARCELLO: V'è qualcosa di putrido nello Stato di Danimarca.

ORAZIO: Il cielo lo guiderà.

MARCELLO: Però, seguiamolo.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUINTA - Un'altra parte del terrapieno

(Entrano lo Spettro ed AMLETO)

 

AMLETO: Dove vuoi tu condurmi? parla; io non verrò più innanzi.

SPETTRO: Stammi attento.

AMLETO: Ci starò.

SPETTRO: La mia ora è quasi giunta, in cui io debbo consegnarmi alle sulfuree fiamme tormentatrici.

AMLETO: Ahimè, povero fantasma!

SPETTRO: Non mi compatire, ma presta seriamente ascolto a ciò ch'io svelerò.

AMLETO: Parla; t'ascolto con impegno.

SPETTRO: E così sei impegnato a vendicarmi, quando avrai ascoltato.

AMLETO: Che cosa?

SPETTRO: Io sono lo spirito di tuo padre; dannato per un certo termine a camminar la notte e per il giorno confinato a digiunare nel fuoco, finché i turpi delitti commessi nei miei giorni di natura siano arsi e purgati. Se non mi fosse vietato di narrare i segreti della mia prigione, io potrei svelare una storia la cui più lieve parola ti strazierebbe l'anima, agghiaccerebbe il tuo giovine sangue e farebbe i tuoi due occhi, come stelle, balzare dalle loro orbite, le tue ciocche annodate e intricate dividersi, e ogni singolo capello rizzarsi, come gli aculei sull'irritabile istrice: ma questa divulgazione dell'eternità non dev'essere per orecchi di carne e sangue. Ascolta, ascolta, oh, ascolta! Se tu hai amato mai il tuo caro padre...

AMLETO: O Dio!

SPETTRO: Vendica il suo infame e snaturato assassinio.

AMLETO: Assassinio?

SPETTRO: Assassinio oltremodo infame, com'è nel miglior caso, ma in questo oltremodo infame, strano, e snaturato.

AMLETO: Affrettati a farmelo conoscere, ch'io con ali rapide come la meditazione, o i pensieri d'amore, possa scattare alla mia vendetta.

SPETTRO: Io ti trovo disposto; e più insensibile tu dovresti essere della grassa erba che si infracida a suo agio sulla riva di Lete, se tu non t'agitassi per questa cosa. Ora Amleto, odi: s'è propalato che, dormendo io nel mio giardino, un serpente mi punse; così tutto l'orecchio di Danimarca è da un falso racconto della mia morte sconciamente ingannato; ma sappi, tu nobile giovine, il serpente che punse la vita di tuo padre ora porta la sua corona.

AMLETO: O mia profetica anima! Mio zio?

SPETTRO: Sì, quella incestuosa, quell'adultera bestia, con la malìa del suo ingegno, con doti traditrici - o malvagio ingegno e malvagie doti, che han potere di così sedurre! - conquise alla sua vergognosa libidine la volontà della mia regina così piena di virtù apparente: o Amleto, che caduta fu quella! da me - il cui amore era di tanta dignità che andava tenendosi per mano col voto stesso ch'io feci a lei nel matrimonio - abbassarsi a un miserabile, i cui doni naturali eran poveri al paragone dei miei! Ma come la virtù mai non si lascia muovere benché la licenza la corteggi in forma celeste, così la libidine, benché congiunta a un angelo fulgente, farà crapula in un letto celestiale, e si rinzepperà di lordure! Ma, adagio! mi pare d'odorar l'aria mattutina, ch'io sia breve. Dormendo io nel mio giardino, com'era sempre mio costume nel pomeriggio, nell'ora in cui ero senza sospetto, tuo zio s'insinuò, col sugo del maledetto tasso in una fiala, e nelle conche de' miei orecchi versò quella lebbrosa distillazione; il cui effetto è tanto nemico al sangue dell'uomo che rapido come l'argento vivo percorre le porte e i tramiti naturali del corpo; e con subitaneo vigore rapprende e caglia, come gocce d'acido nel latte, il sangue limpido e sano: così fece del mio, e un'istantanea scabbia incrostò, a guisa di Lazzaro, con una trista e schifosa squama tutto il mio liscio corpo. Così, dormendo, dalla mano d'un fratello io fui tutt'insieme privato della vita, della corona, della regina, reciso proprio in sul fiore dei miei peccati, non comunicato, impreparato, senza l'estrema unzione; senza aver fatto computo alcuno, ma mandato a rendere i miei conti con tutte le mie imperfezioni sul mio capo: oh, orribile! oh, orribile! quanto orribile! Se hai in te natura, non lo sopportare, non lasciare che il regio letto di Danimarca sia il giaciglio della lussuria e del dannato incesto. Ma, comunque tu persegua quest'atto, non ti macchiare l'animo, né far che il tuo spirito disegni contro tua madre cosa alcuna; lasciala al cielo, e a quelle spine che nel suo seno albergano, per pungerla e trafiggerla. Addio senz'altro! La lucciola mostra che il mattino è prossimo, e incomincia a smorzare il suo fuoco inefficace, addio, addio! ricordati di me.

 

(Esce. Amleto cade in ginocchio)

 

AMLETO: O voi tutte, legioni del cielo! o terra! che più? e aggiungerò l'inferno? oh, vergogna! Reggi, reggi, mio cuore; e voi miei nervi, non invecchiate all'improvviso, ma tenetemi su rigido. (Si alza) Ricordarmi di te? Sì, tu povero fantasma, finché la memoria tien seggio in questo globo impazzito. Ricordarmi di te? Sì, dalla tavola della mia memoria io cancellerò tutti i ricordi triviali e frivoli, tutti i detti dei libri, tutte le forme, tutte le impressioni passate, che la giovinezza e l'osservazione copiarono quivi; e il tuo comandamento tutto solo vivrà nel libro e nel volume del mio cervello, non commisto a più vile materia; sì, per il cielo! O perniciosissima donna! o scellerato, scellerato, sorridente, maledetto scellerato! le mie tavolette... è bene ch'io metta giù questo, che uno può sorridere, e sorridere, ed essere uno scellerato; almeno son sicuro che può essere così in Danimarca. (Scrive) Così, zio, lì voi siete. Ora al mio motto; è: "addio, addio! ricordati di me". Io l'ho giurato.

ORAZIO e MARCELLO (di dentro): Mio signore, mio signore!

 

(Entrano ORAZIO e MARCELLO)

 

ORAZIO: Principe Amleto!

MARCELLO: Il cielo lo protegga!

AMLETO: Così sia!

ORAZIO: Alò, oh, oh, mio signore!

AMLETO: Alò, oh, oh, ragazzo! vieni, uccello, vieni!

MARCELLO: Come va, mio nobile signore?

ORAZIO: Che notizie mio signore?

AMLETO: Oh, meravigliose!

ORAZIO: Mio buon signore, ditele.

AMLETO: No, voi le rivelerete.

ORAZIO: Non io, mio signore, per il cielo!

MARCELLO: Né io, signore.

AMLETO: Che dite voi, dunque; potrebbe cuore d'uomo mai pensarlo? Ma voi terrete il segreto?

ORAZIO e MARCELLO: Sì, per il cielo, mio signore.

AMLETO: Non v'è un sol furfante in tutta la Danimarca che non sia un briccone matricolato.

ORAZIO: Non c'è bisogno che un fantasma, signore, venga dalla tomba per dirci questo.

AMLETO: Bene, giusto; voi siete nel giusto; e così, senza più alcuna circonlocuzione, io stimo conveniente che ci stringiamo la mano e ci separiamo; voi, come le vostre faccende e i vostri desideri vi guideranno; poiché ogni uomo ha faccende e desideri, quali che si siano; e, per la mia povera parte, guardate, io andrò a pregare.

ORAZIO: Questa non è che una ridda di parole forsennate, mio signore.

AMLETO: Mi duole che vi offendano, di cuore; sì, in fede, di cuore!

ORAZIO: Non v'è offesa, mio signore.

AMLETO: Sì, per San Patrizio che v'è, Orazio, e grave offesa anche.

Riguardo a questa visione qui, è un onesto fantasma, lasciate ch'io ve lo dica, quanto al vostro desiderio di sapere che cosa c'è fra di noi, dominatelo come potete. Ed ora buoni amici da quegli amici, da studiosi e soldati che siete, accordatemi una povera richiesta.

ORAZIO: Che cosa è, mio signore? noi lo faremo.

AMLETO: Non fate mai noto quel che avete veduto questa notte.

ORAZIO e MARCELLO: Mio signore, non lo faremo.

AMLETO: Sì, ma giuratelo.

ORAZIO: In fede, mio signore, non io.

MACELLO: Né io, mio signore, in fede.

AMLETO: Sulla mia spada.

MARCELLO: Noi abbiamo già giurato, mio signore.

AMLETO: Davvero, sulla mia spada, davvero.

 

(Lo Spettro grida sotto la scena)

 

SPETTRO: Giurate.

AMLETO: Ah, ah, giovanotto! dici così? sei tu costà, galantuomo?

Andiamo; voi udite questo buon uomo in cantina; consentite a giurare.

ORAZIO: Proponete il giuramento, mio signore.

AMLETO: Di non mai parlare di questo che voi avete veduto, giurate per la mia spada.

SPETTRO: Giurate.

AMLETO: "Hic et ubique"? allora noi muteremo luogo. Venite qui, gentiluomini, e ponete le vostre mani di nuovo sulla mia spada:

giurate per la mia spada, di non mai parlare di questo che voi avete udito.

SPETTRO: Giurate per la spada.

AMLETO: Ben detto, vecchia talpa! puoi scavar nella terra così presto?

un bravo zappatore! Ancora una volta allontaniamoci, buoni amici.

ORAZIO: O giorno e notte, ma questo è meravigliosamente strano!

AMLETO: E perciò come a straniero dategli il benvenuto. Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra filosofia. Ma venite; qui, come dianzi, mai, così la grazia vi assista, per strano o bizzarro che sia il mio comportamento - com'io forse d'ora in poi crederò conveniente affettare un umore fantastico - giammai, vedendomi in tali momenti non dovete, con le braccia così intrecciate o questo scuoter del capo, o col pronunciare qualche frase dubbiosa, come "Bene, bene noi sappiamo", o "Noi potremmo, se volessimo", o "Se ci piacesse di parlare", o "Ce n'è, se potessero", o simili espressioni ambigue, dar a vedere che voi sappiate cosa alcuna di me: di non far questo, così grazia e misericordia v'assistano quando più occorra, giurate.

SPETTRO: Giurate.

AMLETO: Riposa, riposa, turbato spirito! (Giurano) Così, signori, con tutto il mio amore a voi mi raccomando, e quel che un così pover uomo com'è Amleto può fare, per esprimere il suo amore e la sua amicizia per voi, Dio volendo, non mancherà. Entriamo insieme; e sempre il dito sulle labbra, prego. I tempi sono scombinati: o maledetta ùggia, che mai io debba essere nato per rimetterli in sesto! Su, venite, andiamo insieme.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO SECONDO

 

SCENA PRIMA - Una stanza nella casa di Polonio

(Entrano POLONIO e RINALDO)

 

POLONIO: Dategli questo danaro e questi fogli, Rinaldo.

RINALDO: Lo farò, mio signore.

POLONIO: Voi farete cosa saggia a maraviglia, buon Rinaldo prima di visitarlo, informandovi del suo comportamento.

RINALDO: Mio signore, tale era la mia intenzione.

POLONIO: Voi farete cosa saggia a maraviglia, buon Rinaldo, prima di visitarlo, informandovi del suo comportamento.

RINALDO: Mio signore, tale era la mia intenzione.

POLONIO: Diamine, ben detto, assai ben detto. Guardate, messere, fatemi inchiesta prima di quali danesi siano in Parigi; e come, e chi, quali mezzi, e dove stanno, quale brigata, con che spese; e trovando con dimandare così all'intorno e sulle generali, ch'essi conoscono mio figlio, fatevi più da presso di quanto le vostre particolari domande possano giungere; assumete, per così dire, una remota conoscenza di lui, come "Io conosco suo padre, e i suoi amici, e in parte lui". Fate attenzione a questo, Rinaldo?

RINALDO: Sì, assai bene, mio signore.

POLONIO: "E in parte lui, ma - potete dire - non bene: ma se gli è quello che io intendo, egli è assai sfrenato, dedito" così e così, e lì attribuitegli quali falsità vi piaccia; diamine, nessuna così turpe che possa disonorarlo; badate a questo; ma, messere, di tali lascivi, sfrenati e consueti trascorsi che son compagni notori e ben conosciuti della giovinezza e della libertà.

RINALDO: Come giocare, mio signore.

POLONIO: Sì, o bere, far di scherma, bestemmiare, rissare, andare a donne; potete giungere fin là.

RINALDO: Mio signore, questo lo disonorerebbe.

POLONIO: In fede, no; ché voi potete temperarlo nell'accusa. Voi non dovete apporgli un alto scandalo, ch'egli sia soggetto all'incontinenza; questo non è quel ch'io intendo; ma sussurrate i suoi difetti con tale tatto ch'essi possan sembrare le mende della libertà, la vampa e l'eruzione d'un animo infocato, una selvatichezza in sangue non mansuefatto, che assale quasi ognuno RINALDO: Ma, mio buon signore...

POLONIO: Perché dovreste far ciò?

RINALDO: Già, mio signore, questo io vorrei sapere.

POLONIO: Affé, messere, ecco il mio disegno, e io la credo un'astuzia garantita; voi apponendo queste lievi macchie al mio figliuolo, come fosse una cosa un po' sporcata mentre la si lavorava (badate bene) il vostro interlocutore, quegli che voi vorreste sondare, se ha mai veduto il giovine di cui voi mormorate colpevole dei prenominati delitti, siate sicuro ch'egli attacca con voi nel modo seguente: "Buon signore", o così, o "amico", o "gentiluomo", a seconda dell'epiteto, o del titolo dell'uomo e del paese RINALDO: Benissimo, mio signore.

POLONIO: E poi, messere, fa egli questo? Egli... che cosa stavo dicendo? Per la messa, io stavo per dir qualche cosa: dove ho lasciato?

RINALDO: A "attacca con voi nel modo seguente", a "amico, o così", e "gentiluomo".

POLONIO: A "attacca con voi nel modo seguente", sì, perdio, egli attacca con voi così: "Io conosco quel gentiluomo; o l'ho veduto ieri, o l'altro giorno, o allora, o allora, coi tali e tali, e come voi dite, là stava giocando, là còlto a gozzovigliare, la rissando alla pallacorda"; o forse "Io l'ho veduto entrare nella tal casa di vendita", 'id est', un bordello, e così via. Vedete ora; la vostra esca di falsità piglia questo carpione di verità; e così noi gente savia e preveggente, per vie tortuose e con assaggi di sbieco, indirettamente scopriamo le direzioni: così, secondo il mio precedente discorso e consiglio, voi farete del mio figliuolo. Voi m'avete capito, no?

RINALDO: Mio signore, sì POLONIO: Dio sia con voi; statevi bene.

RINALDO: Mio buon signore!

POLONIO: Osservate la sua disposizione da voi stesso.

RINALDO: Lo farò, mio signore.

POLONIO: E lasciate che attenda alla sua musica.

RINALDO: Bene, mio signore.

POLONIO: Statevi bene.

 

(Esce Rinaldo. Entra OFELIA)

 

Ebbene, Ofelia, che c'è?

OFELIA: Oh, mio signore, mio signore, ho preso tanta paura!

POLONIO: Di che, in nome di Dio?

OFELIA: Mio signore, mentre io cucivo nella mia stanzetta, il principe Amleto, col giustacuore tutto slacciato, senza cappello in testa, le calze sporche, slegate, e cascanti come ceppi alle caviglie, pallido come la sua camicia, le ginocchia battenti l'una contro l'altra, e con uno sguardo di così pietosa espressione come s'egli fosse stato liberato dall'inferno per parlare di orrori, mi viene davanti.

POLONIO: Pazzo per amor tuo?

OFELIA: Mio signore, non so, ma veramente lo temo POLONIO: Che ha detto?

OFELIA: Egli mi ha presa per il polso, e mi ha tenuta forte; poi s'allontana della lunghezza di tutto il suo braccio, e, con l'altra mano così sopra la fronte, si pone a esaminare la mia faccia come se volesse disegnarla. A lungo è stato così; da ultimo, un poco scotendomi il braccio, e tre volte col capo accennando in su e in giù cosi, egli ha levato un sospiro così pietoso e profondo che pareva spezzargli tutta la persona e finire l'essere suo; ciò fatto, egli mi lascia e col capo rivolto sopra la sua spalla è parso trovare la sua strada senza gli occhi; perché è andato fuori di casa senza il loro aiuto, e fino all'ultimo ha fissato la loro luce su di me.

POLONIO: Orsù, vieni con me; andrò a cercare il re. Questa è la vera frenesia d'amore, la cui violenta qualità distrugge se stessa e conduce la volontà a disperate imprese, così spesso come qualsiasi passione sotto il cielo che affligge la nostra natura. Mi duole... e che, gli avete voi dato qualche parola dura ultimamente?

OFELIA: No, mio buon signore, ma, come voi comandaste, io respinsi le sue lettere e gli negai l'accesso a me.

POLONIO: Questo lo ha fatto impazzire. Mi duole che con miglior cura e giudizio io non l'abbia osservato: io temevo ch'egli non facesse che scherzare, e intendesse rovinarti: maledetta la mia gelosia! Per il cielo, egli è così proprio della nostra età l'andare oltre il segno nelle nostre opinioni, com'è comune per i più giovani il mancar di discernimento. Vieni, andiamo dal re: questa cosa dev'esser conosciuta; la quale, tenuta segreta, potrebbe produrre più dolore a nascondere, che odio a rivelare l'amore. Vieni.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Una stanza nel Castello

(Squillo di tromba. Entrano il RE, la REGINA, ROSENCRANTZ, GUILDENSTERN, e il Seguito)

 

RE: Benvenuti, cari Rosencrantz e Guildenstern! Oltre che noi molto bramavamo di vedervi, il bisogno che noi avevamo dei vostri servigi è stato causa del nostro affrettato richiamo. Qualche cosa voi avete udito della trasformazione di Amleto; così chiamatela, poiché né l’uomo esterno né l'interiore assomiglia a ciò ch'egli fu. Che cosa possa essere, più della morte dl suo padre, che così l'abbia distolto di tanto dall'intendimento di se stesso, io non so immaginare: io supplico voi due, che essendo stati da così giovine età allevati con lui, e da allora così vicini alla sua giovinezza e ai suoi umori, vi degniate soggiornare qui alla nostra corte per un po' di tempo; per così con la vostra compagnia attrarlo ai piaceri, e per raccogliere, per quanto vi si porga occasione di spigolare, se cosa alcuna a noi ignota l'affligga così, la quale, rivelata, sia in nostro potere di rimediare.

REGINA: Buoni gentiluomini, egli ha molto parlato di voi, e io son sicura che non vivono due uomini ai quali egli sia più legato. Se vi piacerà di mostrare tanta cortesia e buona volontà da spendere il vostro tempo con noi per un po' in soccorso e per vantaggio della nostra speranza, la vostra visita riceverà tali grazie quali si convengono alla memoria d'un re.

ROSENCRANTZ: Ambo le vostre maestà potrebbero per il sovrano potere che voi avete su di noi, porre il vostro temuto piacere più in un comando che in una supplica.

GUILDENSTERN: Ma noi entrambi obbediamo, e qui dedichiamo noi stessi, con la piena intenzione di porre i nostri servigi ai vostri piedi, per esser comandati.

RE: Grazie, Rosencrantz e gentile Guildenstern.

REGINA: Grazie, Guildenstern e gentile Rosencrantz; ed io vi supplico di visitare immediatamente il mio troppo mutato figliuolo. Andate, qualcuno di voi, e conducete questi gentiluomini dov'è Amleto.

GUILDENSTERN: I cieli faccian la nostra presenza e i nostri atti piacevoli e giovevoli a lui!

REGINA: Sì, amen!

 

(Escono Rosencrantz e Guildenstern. Entra POLONIO)

 

POLONIO: Gli ambasciatori della Norvegia, mio buon signore, sono gioiosamente ritornati.

RE: Tu sempre sei stato il padre di buone notizie.

POLONIO: Sì, mio signore? Siate certo, mio buon sovrano, ch'io debbo il mio omaggio, com'io debbo la mia anima, insieme al mio Dio e al mio grazioso re; ed io penso, o altrimenti questo mio cervello non segue la traccia dell'astuzia così sicuramente come era usato di fare, d'aver trovato la vera causa della pazzia d'Amleto.

RE: Oh, parla di questo; questo io bramo d'udire.

POLONIO: Date prima accesso agli ambasciatori; le mie notizie saran le frutta di quel gran festino.

RE: Tu stesso fa' loro onore, e introducili. (Esce Polonio) Egli mi dice, mia cara Gertrude, d'aver trovato l'origine e la fonte di tutta la malinconia di vostro figlio.

REGINA: Io sospetto che non sia altro che la principale: la morte di suo padre, e il nostro troppo affrettato matrimonio.

RE: Bene, noi lo vaglieremo.

 

(Entrano POLONIO, VOLTIMANDO e CORNELIO)

 

Benvenuti, miei buoni amici! Di', Voltimando, che notizie dal nostro fratello di Norvegia?

VOLTIMANDO: Il più schietto ricambio di saluti e di auguri. Alla nostra rimostranza egli mandò a reprimere le leve di suo nipote, che a lui parevano essere una preparazione contro il re di Polonia, ma, meglio considerando, egli veramente trovò ch'era contro Vostra Altezza, al che, afflitto che così la sua malattia, vecchiezza, ed impotenza, fossero falsamente ingannate, spedisce ordini d'arresto contro Fortebraccio: ai quali egli, in breve, obbedisce, riceve il rimprovero del re di Norvegia, e, finalmente, fa voto innanzi a suo zio di non più mai far la prova dell'armi contro Vostra Maestà. Per la qual cosa il vecchio re di Norvegia, sopraffatto dalla gioia, gli dà sessantamila corone d'annuo appannaggio, e la sua commissione d'impiegar quei soldati, così arruolati come per l'innanzi, contro il re di Polonia; con una supplica, qui più ampiamente dimostrata (dando un foglio) che possa piacervi di dar passaggio indisturbato attraverso i vostri domini per quest'impresa, con tali termini di sicurezza e di concessione quali son qui esposti.

RE: Ne siamo ben contenti, e quando avremo miglior agio per considerare, leggeremo, risponderemo, e penseremo a questa faccenda.

Frattanto noi vi ringraziamo per la vostra ben condotta fatica; andate al vostro riposo; a notte faremo festa insieme: molto benvenuti in patria!

 

(Escono gli Ambasciatori)

 

POLONIO: Questa faccenda è ben conchiusa... Mio sovrano, e signora, il dissertare che cosa la maestà debba essere, che cosa sia il dovere, perché il giorno sia giorno, la notte notte, e il tempo sia il tempo, non sarebbe altro che sciupare la notte, il giorno, il tempo.

Pertanto, poiché la brevità è l'anima del senno, e la prolissità le membra e gli ornamenti esteriori, io sarò breve. Il vostro nobile figliuolo è pazzo: pazzo io lo chiamo; perché, a definire la vera pazzia, che è se non esser pazzo e nient'altro? Ma lasciamo andare.

REGINA: Più sostanza, e meno arte.

POLONIO: Signora, io giuro ch'io non uso punta arte. Ch'egli sia pazzo è vero; è vero che sia un peccato; ed è un peccato che sia vero: una stolida figura; ma diamole l'addio, perché io non voglio usar punta arte. Pazzo concediamo dunque che sia; ed ora rimane che noi scopriamo la causa di questo effetto, o diciam piuttosto, la causa di questo difetto, poiché questo effetto difettivo vien da una causa: così la cosa rimane, e il rimanente è questo. Ponderate: io ho una figlia - la ho, finché ella è mia- che, per suo dovere e obbedienza, osservate, m'ha dato questo; ora ascoltate e deducete. (Legge) "Alla celestiale, e idolo dell'anima mia, la molto abbellita Ofelia". Questa è una cattiva espressione, una vile espressione; "abbellita" è una vile espressione, ma voi dovete udire. Ecco: (legge) "Nel suo eccellentemente bianco seno, queste, eccetera".

REGINA: E venuto questo da Amleto a lei?

POLONIO: Buona signora, attendete un poco; leggerò proprio come sta scritto. (Legge) "Nega degli astri il fuoco nega il raggio del vero nega del sole il moto, ma non negare l'amor mio sincero.

O cara Ofelia, io son maldestro a scrivere versi; io non ho l'arte di scandire i miei gemiti, ma ch'io t'ami ottimamente, o ottima, credilo.

Addio. Il sempre più tuo, carissima signora, finché questa macchina del corpo gli appartiene, Amleto". Questo in segno d'obbedienza m'ha la mia figliuola mostrato, e in soprappiù, ha le sue sollecitazioni, com'esse accaddero in tempo, in modo, e luogo, tutte date al mio orecchio.

RE: Ma come ella ha accolto il suo amore?

POLONIO: Che pensate voi di me?

RE: Che siete un uomo fedele e onorato.

POLONIO: Io vorrei pur mostrarmi tale. Ma che potreste voi pensare se, veduto che io ebbi svolazzare questo caldo amore, com'io me n'accorsi, bisogna che ve lo dica, prima che mia figlia me lo dicesse; che potreste voi, o la mia cara maestà, la vostra regina qui, pensare, s'io avessi fatto da scrittoio o da taccuino, o ammiccato al mio cuore, zitto e cheto, o considerato quest'amore con sguardo noncurante; che potreste voi pensare? No, io mi posi allora, senza preamboli, e alla mia damigella tenni questo discorso: "Monsignor Amleto è un principe, fuori della tua stella; questo non dev'essere"; e poi le prescrissi ch'ella dovesse appartarsi dalle sue visite, non ammettere alcun messaggero, non accogliere alcun pegno d'amore. Fatta la qual cosa, ella colse i frutti del mio consiglio; ed egli, respinto, per far breve la storia, cadde nella tristezza, poi nel digiuno, indi nella veglia, indi nella debolezza, indi nel vaneggiamento, e per questa declinazione nella pazzia nella quale egli ora delira, e per la quale tutti siam dolenti.

RE: Credete voi che sia questo?

REGINA: Potrebb'essere, assai probabilmente.

POLONIO: V'è mai stato un tempo, vorrei pur saperlo, ch'io abbia positivamente detto "è così", e poi la cosa stesse altrimenti?

RE: Non ch'io sappia.

POLONIO: Togliete questa da questo, se la cosa sta altrimenti. Se le circostanze mi guidano, io troverò dove la verità è nascosta, se pur fosse nascosta veramente al centro della terra.

RE: Come potremo provarlo, ancora?

POLONIO: Voi sapete, qualche volta egli cammina quattr'ore di seguito qui nella galleria.

RE: Così egli fa, infatti.

POLONIO: A un tal tempo io lascerò libera mia figlia per lui; mettiamoci allora voi ed io dietro un arazzo; osserviamo l'incontro; s'egli non l'ama, e non è uscito di senno per questo, fate ch'io non sia più il ministro d'uno Stato, ma badi a una fattoria e a barrocciai.

RE: Faremo la prova.

 

(Entra AMLETO leggendo un libro)

 

REGINA: Ma guardate come il povero infelice viene leggendo triste triste.

POLONIO: Via, io vi supplico, via entrambi. (Escono il Re, la Regina e il Seguito) Io l'abborderò subito, oh, datemi licenza. Come sta il mio buon principe Amleto?

AMLETO: Bene grazie a Dio.

POLONIO: Mi conoscete, mio signore?

AMLETO: Ottimamente, voi siete un pescivendolo.

POLONIO: Non io, mio signore.

AMLETO: Allora io vorrei che voi foste un così onest'uomo.

POLONIO: Onesto, mio signore?

AMLETO: Sì, messere; essere onesto, a come va questo mondo, è essere un uomo scelto fra diecimila.

POLONIO: Questo è verissimo, mio signore.

AMLETO: Poiché se il sole genera vermi in un cane morto, ch'è una carogna buona a baciarsi... Avete voi una figlia?

POLONIO: Sì, mio signore.

AMLETO: Non la fate camminare al sole: il concepire è una benedizione; ma siccome vostra figlia potrebbe concepire, amico, stateci attento.

POLONIO (a parte): Che ne dite? sempre batte sulla mia figliuola: e pure non mi ha riconosciuto dapprima; ha detto ch'ero un pescivendolo:

egli è assai innanzi, assai innanzi; e veramente nella mia gioventù io ebbi estreme sofferenze per amore; molto simili a queste. Gli parlerò di nuovo... Che cosa leggete, mio signore?

AMLETO: Parole, parole, parole.

POLONIO: Qual è la questione, mio signore?

AMLETO: Fra chi?

POLONIO: Voglio dire la questione di ciò che voi leggete, mio signore.

AMLETO: Calunnie, signore: perché questo briccone satirico dice qui che i vecchi han la barba grigia, che le loro facce sono rugose, i loro occhi spurgano una densa ambra, e gomma di susini, e ch'essi hanno una copiosa mancanza di senno, insieme con debolissimi lombi; tutte le quali cose, signore, benché io assai potentemente e possentemente le creda, pure non ritengo onesto metterle giù così; perché voi stesso, messere, sareste vecchio come me, se come un granchio poteste andare all'indietro.

POLONIO (a parte): Benché questa sia pazzia, pure c'è metodo in essa.

Volete venir via dall'aria, mio signore?

AMLETO: Nella mia tomba.

POLONIO: Infatti, questa è fuori dell'aria. (A parte) Come appropriate talvolta sono le sue risposte! una felicità che spesso la follia azzecca, che la ragione e la sanità non potrebbero così prosperamente partorire. Io lo lascerò, e subito diviserò il mezzo di far ch'egli e mia figlia s'incontrino. Mio onorato signore, io voglio molto umilmente prender congedo da voi.

AMLETO: Voi non potete, messere, prendere da me cosa alcuna da cui io più volentieri mi separi; fuorché la mia vita, fuorché la mia vita, fuorché la mia vita.

POLONIO: Statevi bene, mio signore.

AMLETO: Questi noiosi vecchi scemi!

 

(Entrano ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN)

 

POLONIO: Voi andate a cercare il principe Amleto; eccolo là.

ROSENCRANTZ (a Polonio): Dio vi salvi, signore! (Esce Polonio)

GUILDENSTERN: Mio onorato signore!

ROSENCRANTZ: Mio carissimo signore!

AMLETO: Miei ottimi amici! Come stai, Guildenstern? Ah, Rosencrantz?

Buoni ragazzi. come state voi due?

ROSENCRANTZ: Come i comuni figli della terra.

GUILDENSTERN: Felici in quanto non siamo troppo felici; sulla berretta della Fortuna noi non siamo proprio il bottone.

AMLETO: Né le suole delle sue scarpe?

ROSENCRANTZ: Neppure, mio signore.

AMLETO: Allora voi le vivete intorno alla vita, o nel bel mezzo dei suoi favori?

GUILDENSTERN: In fede, siamo i suoi intimi.

AMLETO: Nelle segrete parti della Fortuna? oh, verissimo; ella è una bagascia. Che notizie?

ROSENCRANTZ: Nessuna, mio signore, se non che il mondo è diventato onesto.

AMLETO: Allora è vicino il finimondo; ma la vostra notizia non è vera.

Lasciatemi interrogare più particolarmente: che avete voi, miei buoni amici, meritato dalla Fortuna, ch'ella vi manda in prigione qui?

GUILDENSTERN: In prigione, mio signore?

AMLETO: La Danimarca è una prigione.

ROSENCRANTZ: Allora anche il mondo è una prigione.

AMLETO: Una vaga prigione, in cui vi sono molte celle, carceri, e segrete; e la Danimarca è una delle peggiori.

ROSENCRANTZ: Noi non la pensiamo così, signore.

AMLETO: Ebbene, allora non è una prigione per voi, perché non v'è nulla di buono o di cattivo, che il pensiero non renda tale; per me è una prigione.

ROSENCRANTZ: Ebbene, allora la vostra ambizione fa ch'ella lo sia; è troppo angusta per il vostro animo.

AMLETO: O Dio, io potrei esser confinato in un guscio e tenermi re dello spazio infinito, se non fosse che io ho cattivi sogni.

GUILDENSTERN: I quali sogni infatti sono ambizione; poiché la stessa sostanza degli ambiziosi non è che l'ombra d'un sogno.

AMLETO: I sogni stessi non sono che ombre.

ROSENCRANTZ: Veramente, ed io ritengo l'ambizione di qualità così aerea e leggera ch'ella non è che l'ombra d'un'ombra.

AMLETO: Allora i nostri mendicanti sono corpi e i nostri monarchi e dilatati eroi le ombre dei mendicanti. Vogliamo andare alla corte?

perché, per la mia fede, io non so ragionare.

ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN: Ci mettiamo al vostro fianco.

AMLETO: Nulla di simile; io non voglio porvi col rimanente dei miei servitori; poiché, per parlare a voi da uomo onesto, io son servito orribilmente. Ma, per star sulla carreggiata dell'amicizia, che fate voi ad Elsinore?

ROSENCRANTZ: Siam venuti a visitarvi, mio signore: nessun altro motivo.

AMLETO: Mendicante com'io sono, io son povero anche di grazie; ma io vi ringrazio; e certo, cari amici, le mie grazie son troppo care per mezzo soldo. Non foste mandati a chiamare? E' la vostra propria inclinazione? E' una libera visita? Via, comportatevi con me giustamente, andiamo, su, parlate.

GUILDENSTERN: Che dovremmo dire, mio signore?

AMLETO: Ebbene, qualunque cosa, eccetto che a proposito. Vi si mandò a chiamare; e c'è una sorta di confessione nei vostri sguardi, che la vostra modestia non ha arte bastevole a colorare: io so che il buon re e la regina v'han mandati a chiamare.

ROSENCRANTZ: A che scopo, mio signore?

AMLETO: Questo voi dovete insegnarmelo. Ma lasciate ch'io vi scongiuri, per i diritti della nostra solidarietà, per la consonanza della nostra giovinezza, per l'obbligazione del nostro sempre serbato amore, e per tutto quello che un miglior oratore potrebbe invocare di più caro da voi, siate franchi e diritti con me: siete stati mandati a chiamare o no?

ROSENCRANTZ (a Guildenstern): Che dite voi?

AMLETO (a parte): Ah sì? allora io tengo un occhio su di voi. Se voi m'amate, non indugiate.

GUILDENSTERN: Mio signore, noi fummo mandati a chiamare.

AMLETO: Io vi dirò perché, così la mia anticipazione preverrà la vostra confessione, e la vostra segretezza per il re e la regina non muterà penna. Io ho ultimamente, ma perché non so, perso tutta la mia allegria, abbandonato ogni costume d'esercizi; e per vero io son così aggravato nel mio umore che questa vaga fabbrica, la terra, sembra a me uno sterile promontorio, questo eccellentissimo padiglione, l'aria, badate, questa splendida volta del firmamento, questo tetto maestoso ageminato d'aurei fuochi, ebbene, non pare nulla a me se non una sozza e pestilente congregazione di vapori. Quale opera d'arte è un uomo, come nobile per la sua ragione, come infinito nelle sue facoltà nella forma e nel movimento, come preciso e ammirevole nell'azione, come simile a un angelo nell'intendimento, come simile a un dio: la bellezza del mondo; il paragone degli animali; e pure, per me, che è questa quintessenza di polvere? l'uomo non mi diletta, no, e la donna nemmeno, benché dal vostro sorriso voi sembriate dire così.

ROSENCRANTZ: Mio signore, non c'era nulla di simile nei miei pensieri.

AMLETO: Perché avete riso allora, quando io ho detto "l'uomo non mi diletta"?

ROSENCRANTZ: Pensando, mio signore, se voi non vi dilettate degli uomini, che trattenimento quaresimale gli attori riceveranno da voi; noi li oltrepassammo per istrada; e qui essi vengono, per offrirvi i loro servigi.

AMLETO: Colui che fa la parte del re sarà il benvenuto, sua maestà avrà tributo da me; il cavaliere avventuroso userà il suo fioretto e la sua targa; l'amoroso non sospirerà gratis, il caratterista finirà la sua parte in pace, il buffone farà ridere quelli che hanno i polmoni facili a scattare, e la dama dirà l'animo suo liberamente, o il verso sciolto ne zoppicherà. Che attori sono?

ROSENCRANTZ: Proprio quelli di cui voi eravate solito dilettarvi tanto, i tragici della città.

AMLETO: Come va che viaggiano? Lo starsene in città era meglio per essi, tanto per la reputazione che per il guadagno.

ROSENCRANTZ: Credo che il divieto che li ha colpiti sia una conseguenza della recente innovazione.

AMLETO: Godono essi della stima che godevano quando io ero nella città? hanno altrettanto seguito?

ROSENCRANTZ: No, davvero, non l'hanno.

AMLETO: Come accade? s'arrugginiscono?

ROSENCRANTZ: Anzi, i loro sforzi tengono il passo consueto, ma c'è, signore, una nidiata di fanciulli, piccoli falconcelli che strillano al culmine del diverbio e ricevon per questo i più tirannici applausi; questi sono ora alla moda, e tanto vituperano i teatri comuni (così li chiamano), che molti che portano stocco han paura delle penne d'oca, e appena osano recarvisi.

AMLETO: E che, sono fanciulli? chi li mantiene? come sono pagati? Non seguiteranno la professione se non fin quando possan cantare? non diranno essi poi, se dovessero essi stessi diventare attori comuni (com'è assai probabile, se i loro mezzi non sono migliori), che i loro scrittori fanno loro torto facendoli gridare contro il loro stesso avvenire?

ROSENCRANTZ: In fede, c'è stato un gran da fare da ambo le parti, e la nazione non ritiene sia peccato aizzarli alla controversia; per un certo tempo non vi fu offerta di danaro per un intreccio, a meno che il poeta e l'attore non facessero a pugni su questa quistione.

AMLETO: E' possibile?

GUILDENSTERN: Oh, c'è stato un grande arrabattarsi di cervelli.

AMLETO: I ragazzi la vincono?

ROSENCRANTZ: Sì, la vincono, mio signore; e si portan via Ercole, e la sua soma anche.

AMLETO: Non è molto strano, poiché mio zio è re di Danimarca, e quelli che gli avrebbero fatto le boccacce mentre mio padre era vivo, dan venti, quaranta, cinquanta, cento ducati l'uno, per i suoi ritratti in piccolo. Per il sangue, c'è qualcosa in ciò di più che naturale, se la filosofia potesse scoprirlo.

 

(Uno squillo di tromba)

 

GUILDENSTERN: Ecco gli attori.

AMLETO: Signori, voi siete i benvenuti ad Elsinore. Le vostre mani, via; gli accessori del benvenuto sono i bei modi e le cerimonie; lasciate ch'io le osservi con voi in questa guisa, affinché la mia accoglienza agli attori, la quale, io vi dico, deve avere una bella apparenza, non sembri più premurosa di quella che fo a voi. Voi siete benvenuti; ma il mio zio-padre e la mia zia-madre si ingannano.

GUILDENSTERN: In che, mio caro signore?

AMLETO: Io non sono pazzo che a nord-nord-ovest; quando il vento è dal sud, io conosco un falco da un airone.

 

(Entra POLONIO)

 

POLONIO: Sia bene a voi, signori!

AMLETO: Ascoltate, Guildenstern, e voi pure: ad ogni orecchio un uditore: quel gran bambolo che voi vedete là non è ancora uscito dalle fasce.

ROSENCRANTZ: Forse egli c'è entrato per la seconda volta; perché, dicono, un vecchio è due volte bambino.

AMLETO: Io voglio profetare: egli viene a dirmi degli attori; osservate... Voi dite giusto, signore; lunedì mattina: fu proprio allora.

POLONIO: Mio signore, io ho notizie da darvi.

AMLETO: Mio signore, io ho notizie da darvi. Quando Roscio era un attore in Roma...

POLONIO: Gli attori sono venuti qui, mio signore.

AMLETO: Evvia!

POLONIO: Sul mio onore...

AMLETO: "Ogni attor giunto è allora sul suo ciuco"...

POLONIO: I migliori attori del mondo, sia per tragedia, commedia, istoria, pastorale, pastorale comica, storico-pastorale, tragico- istoria, tragico-comico-istorico-pastorale, scena indivisibile, o poema illimitato. Seneca non può esser troppo pesante, né Plauto troppo leggero per il regolamento e la licenza... Questi sono i soli attori.

AMLETO: O Jefte, giudice d'Israele, quale tesoro avevi tu!

POLONIO: Quale tesoro aveva egli, mio signore?

AMLETO: Ebbene, Bella figlia avea soltanto ch'egli amava a dismisura.

POLONIO (a parte): Sempre su mia figlia.

AMLETO: Non ho io ragione, vecchio Jefte?

POLONIO: Se voi mi chiamate Jefte, mio signore, io ho una figlia ch'io amo a dismisura.

AMLETO: No questo non segue.

POLONIO: Che cosa segue allora, mio signore?

AMLETO: Ebbene, Come a sorte, lo sa Iddio, e poi, voi sapete.

Quello accadde che attendevasi...

La prima stanza della pia canzone vi mostrerà di più, poiché ecco che viene il mio intermezzo.

 

(Entrano gli Attori)

 

Voi siete benvenuti, signori benvenuti, tutti. Io sono contento di vedervi in buona salute: benvenuti, buoni amici. Oh, mio vecchio amico! Ebbene, la tua faccia s'è ornata d'una frangia dall'ultima volta ch'io t'ho veduto; vieni tu a tirarmi per la barba in Danimarca?

Come, mia giovane donna e signora! Per la Madonna, la vostra signoria è più vicina al cielo, rispetto a quando io la vidi l'ultima volta, dell'altezza d'una pianella di Spagna. Pregate Dio, che la vostra voce, come una moneta d'oro fuori corso, non sia fessa dentro il cordone. Signori, voi siete tutti benvenuti. Noi ci verremo diritti come falconieri francesi, getteremo per qualunque cosa vediamo:

vogliamo un discorso subito; via, dateci un saggio della vostra arte; via, un discorso appassionato.

PRIMO ATTORE: Qual discorso, mio buon signore?

AMLETO: Io t'udii una volta declamarmi un discorso, ma non fu mai recitato sulla scena, o, se mai, non più d'una volta; perché il dramma, ricordo, non piacque alla moltitudine, era caviale pel volgo; ma era (secondo che l'intesi io, e altri, il cui giudizio in tali materie aveva assai maggior grido del mio), un dramma eccellente, ben distribuito nelle scene, esposto con tanta modestia quanto artificio.

Ricordo che uno disse che non c'era nulla di piccante nei versi, per far la materia saporosa, né cosa alcuna nel fraseggiare che potesse accusare l'autore di affettazione; ma lo chiamò un metodo pulito, tanto sano quanto dolce, e più decoroso assai che raffinato. Un discorso in esso io soprattutto amavo, era il racconto d'Enea a Didone; e quella parte specialmente, dov'egli parla dell'eccidio di Priamo. Se vive nella vostra memoria, cominciate a questo verso:

vediamo, vediamo:

"Lo scabro Pirro come tigre Ircana..." non è così; comincia con Pirro:

"Lo scabro Pirro, ch'avea l'armi negre come il suo intento, simili alla notte, mentr'era còrco nel fatal cavallo, l'orrenda e nera tinta or ha imbrattato di più truce livrea; da capo a piedi tutto è vermiglio, è l'orrido suo addobbo sangue di padri, madri, figlie, figli, cotto e incrostato dalle arsive strade che all'eccidio del lor signore prestano cruda e dannata luce. Cosi, spesso dell'accigliato sangue, ed arrostito d'ira e di fiamma, due piròpi gli occhi, l'infernal Pirro il veglio Priamo cerca ".

Così, seguitate voi.

POLONIO: Innanzi a Dio, mio signore, ben recitato, con buon accento e discernimento.

PRIMO ATTORE: "Ecco, ei lo trova che dà vani colpi ai Greci; giace la sua spada antica ribelle al braccio suo, là dove cade, restìa al comando: in disugual tenzone Pirro a Priamo s'avventa: nella rabbia colpisce a vuoto, ma pel soffio e il vento dell'empia spada lo spossato padre procombe. Allor, come sentisse il colpo l'esanime Ilio la fiammante cima china alla base, e con orrendo schianto di Pirro fa prigion l'orecchio. Il ferro sul latteo capo al venerando Priamo già declinante, par nell'aria figgersi; e Pirro sta qual dipinto tiranno e, il suo volere e il fin posti in non cale nulla fa.

Ma come spesso, innanzi a un temporale, tacciono i cieli, immote stan le nubi, e muti i venti, e l'orbe sottostante par morto; ed ecco il tuono spaventoso squarcia l'aria; così, dopo la pausa, la ridesta Vendetta incita Pirro; né mai cadder martelli di Ciclopi sull'usbergo di Marte, eterna tempra, con men rimorso, che il cruento ferro cade su Priamo.

Via bagascia Fortuna! O iddii, voi tutti, toglietele il potere in pien consesso, spezzate i raggi e i cerchi alla sua ruota, e pel clivo del cielo il tondo mozzo giù lanciate, che ròtoli ai demoni!".

POLONIO: Questo è troppo lungo.

AMLETO: Andrà dal barbiere, insieme con la vostra barba. Di grazia, continua, egli vuole una farsa, o una novella salace, o altrimenti dorme: continua, vieni ad Ecuba.

PRIMO ATTORE: "Oh, al veder la regina imbacuccata...".

AMLETO: La "regina imbacuccata"?

POLONIO: Questa è buona: "regina imbacuccata" va bene.

PRIMO ATTORE: "... correr scalza qua e là, con cieco pianto minacciando le fiamme, un cencio in capo ov'era un diadema, e come veste intorno ai fianchi affaticati e scarni una coltre raccolta nel trambusto...

Chi, ciò vedendo, reo di tradimento non avrebbe il poter della Fortuna detto, con lingua nel veleno intinta?

Ma se gli stessi iddii l'avesser vista mirar di Pirro l'esecrabil gioco nel tagliuzzar le membra del suo sposo, il subito ululato ch'ella fece (se mai da umane cose essi son tocchi) inumidito avrebbe gli occhi ardenti del cielo ed a pietà mossi gli dèi".

POLONIO: Vedete, se non ha cambiato colore e ha le lagrime agli occhi.

Di grazia, non più. AMLETO: Sta bene; io ti farò presto recitare quel che rimane di questo. Mio buon signore, volete vedere che gli attori sian bene alloggiati? Udite, fate ch'essi siano trattati bene, poiché sono i compendi e le brevi cronache del tempo; dopo la vostra morte sarebbe meglio per voi avere un cattivo epitaffio che la loro mala voce finché vivete.

POLONIO: Mio signore, io li tratterò secondo il loro merito.

AMLETO: Cospetto di Dio, compare, molto meglio! Trattate ogni uomo secondo il suo merito, e chi sfuggirà alla frusta? Trattateli secondo il vostro proprio onore e la vostra dignità; quanto meno essi meritano, tanto maggiore è il pregio della vostra generosità.

Conduceteli dentro.

POLONIO: Venite, signori.

AMLETO: Seguitelo, amici: noi vogliamo udire un dramma domani. (Esce Polonio, con tutti gli Attori, fuor che il Primo) Ascoltami, vecchio amico; puoi tu recitare l'"Assassinio di Gonzago"?

PRIMO ATTORE: Sì, mio signore.

AMLETO: Noi lo vogliamo domani sera. Voi potreste, al bisogno, studiare un discorso d'un dodici o sedici versi, ch'io metterei giù e inserirei in esso, non potreste?

PRIMO ATTORE: Sì, mio signore AMLETO: Benissimo. Seguite quel signore; e state attento a non canzonarlo. (Esce il Primo Attore) Miei buoni amici, io vi lascerò fino a sera, voi siete i benvenuti ad Elsinore.

ROSENCRANTZ: Mio buon signore!

AMLETO: Sì, dunque, Dio sia con voi! (Escono Rosencrantz e Guildenstern) Ora son solo. Oh, che furfante e bifolco son io! Non è mostruoso che quest'attore qui, solo in una finzione, in una passione immaginaria, possa forzare la sua anima così al suo proprio concetto, che per opera di quella tutto il suo volto impallidisca; lagrime ne' suoi occhi, smarrimento nel suo aspetto, una rotta voce, e tutto il suo contegno rispondente nei modi al suo concetto? E tutto per nulla!

Per Ecuba! Che cosa è Ecuba per lui, o egli per Ecuba? ch'egli debba piangere per lei? Che farebbe egli se avesse il motivo e l'incentivo che ho io alla passione? Inonderebbe la scena di lagrime, e spaccherebbe l'orecchio del pubblico con orrendo discorso, farebbe impazzire i colpevoli e sbigottire gl'innocenti, confonderebbe gli ignoranti e lascerebbe attonite davvero le stesse facoltà degli occhi e degli orecchi. Pur io, ottuso briccone limaccioso, vo vagolando, come un che viva nel mondo della luna, non compreso della mia causa, e non so dir nulla; no, nemmeno per un re, sulla cui proprietà e sulla cui preziosissima vita fu compiuto un dannato misfatto. Sono io un vile? chi mi chiama furfante? mi spacca la testa? mi strappa la barba, e me la butta in faccia? mi tira per il naso? mi dà la mentita per la gola, sin giù ai polmoni? chi mi fa questo? Ah! Per le piaghe di Cristo, io lo soffrirei, perché bisogna bene ch'io abbia fegato di colomba, e manchi di fiele per render amaro l'insulto: o prima d'ora io avrei ingrassato tutti gli avvoltoi dell'aria coi resti di questo ribaldo; sanguinario, osceno furfante! spietato, perfido, lussurioso, snaturato furfante! O Vendetta! Ebbene, che asino son io! Bella prodezza, che io, figlio d'un caro padre assassinato, spinto a vendicarmi dal cielo e dall'inferno, debba, come una puttana, scaricarmi l'anima con le parole e darmi a bestemmiare, come una vera baldracca, un bagascione! Vergogna! poh! Al lavoro, mio cervello! Hem!

io ho udito che persone colpevoli, assistendo a un dramma, sono state, per lo stesso artificio della scena, colpite così fino all'anima che subito han proclamato le loro malefatte; perché l'assassinio, benché non abbia lingua, parla con miracolosissimo organo. Io farò recitare a questi attori qualcosa di simile all'assassinio di mio padre innanzi a mio zio; osserverò il suo aspetto; lo saggerò sul vivo; se ha solo un fremito, io so quel che debbo fare. Lo spirito ch'io ho veduto potrebbe essere un diavolo, e il diavolo ha potere d'assumere una piacevole forma, sì, e forse per la mia debolezza e per la mia malinconia, com'egli è potentissimo su tali spiriti, m'inganna per dannarmi. Avrò motivi più rilevanti di questo. Il dramma è la cosa in cui io accalappierò la coscienza del re.

(Esce)

 

 

 

ATTO TERZO

 

SCENA PRIMA - Una stanza nel Castello

(Entrano il RE, la REGINA, POLONIO, OFELIA, ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN)

 

RE: E non potete voi, per nessuna via indiretta, cavar da lui perché egli affetti questo smarrimento, che irrita così aspramente i suoi giorni tranquilli con una turbolenta e pericolosa follia?

ROSENCRANTZ: Egli confessa di sentirsi dissennato, ma per qual causa non vuol dire in alcun modo.

GUILDENSTERN: Né lo troviamo noi disposto a lasciarsi sondare, ma, con un'astuta pazzia, si tien sulle sue, quando noi vorremmo indurlo a qualche confessione del suo vero stato.

REGINA: Vi ha egli accolti bene?

ROSENCRANTZ: Proprio da gentiluomo.

GUILDENSTERN: Ma assai forzando la sua inclinazione.

ROSENCRANTZ: Avaro di domande, ma alle nostre richieste liberalissimo nel rispondere.

REGINA: Lo avete voi allettato a qualche passatempo?

ROSENCRANTZ: Signora, ci è accaduto di sopravanzare per istrada certi attori; di questi noi gli abbiam parlato, e in lui è apparsa una certa gioia nell'udirne; essi sono qui, alla corte, e, com'io penso, han già l'ordine di recitare stasera al suo cospetto.

POLONIO: E' verissimo; ed egli mi ha chiesto di supplicare le Vostre Maestà di udire e vedere la cosa.

RE: Con tutto il cuore; e mi fa assai piacere d'udire ch'egli è così inclinato. Buoni signori, continuate ad aguzzarlo, e spingete il suo proposito verso questi diletti.

ROSENCRANTZ: Noi lo faremo, mio signore.

 

(Escono Rosencrantz e Guildenstern)

 

RE: Dolce Gertrude, lasciateci anche voi; perché abbiamo segretamente mandato a chiamar qui Amleto, sicché egli, come fosse per accidente, possa qui imbattersi in Ofelia. Il padre di lei, ed io stesso, legittime spie, ci collocheremo così che, vedendo non veduti, possiamo liberamente giudicare del loro incontro, e apprender da soli, secondo ch'egli si comporta, se è per l'afflizione del suo amore, o no, che così egli soffre.

REGINA: Vi obbedirò. E quanto a voi, Ofelia, io m'auguro che le vostre egregie bellezze siano la felice causa della stravaganza d'Amleto; così potrò sperare che le vostre virtù lo riconducano a' suoi modi usati, per l'onore di tutti e due voi.

OFELIA: Signora, io desidero che così sia.

 

(Esce la Regina)

 

POLONIO: Ofelia, voi camminate qui. Vostra Grazia, se vi piaccia, noi prenderemo posto. (A Ofelia) Leggete in questo libro, che il far mostra d'un tale esercizio possa dar colore alla vostra solitudine.

Noi siamo spesso da biasimare in ciò (è troppo provato), che col volto della devozione e con gesti di pietà inzuccheriamo lo stesso demonio.

RE (a parte): Oh, è troppo vero! che cocente sferzata di questo discorso alla mia coscienza! La gota della meretrice, abbellita col liscio, non è più brutta rispetto alla cosa che l'aiuta che non sia la mia azione rispetto alla mia dipinta parola. O greve peso!

POLONIO: Io l'odo venire, ritiriamoci, mio signore.

 

(Escono il Re e Polonio. Entra AMLETO)

 

AMLETO: Essere o non essere: questo è il problema; s'egli sia più nobile soffrire nell'animo le frombole e i dardi dell'oltraggiosa Fortuna, o prender armi contro un mare di guai, e contrastandoli por fine ad essi. Morire, dormire... nient'altro; e con un sonno dire che noi poniam fine alla doglia del cuore, e alle mille offese naturali, che son retaggio della carne; è un epilogo da desiderarsi devotamente, morire e dormire! Dormire, forse sognare, sì, lì è l'intoppo; perché in quel sonno della morte quali sogni possan venire, quando noi ci siamo sbarazzati di questo terreno imbroglio, deve farci riflettere; questa è la considerazione che dà alla sventura una sì lunga vita; perché chi sopporterebbe le sferzate e gl'insulti del mondo, l'ingiustizia dell'oppressore, la contumelia dell'uomo orgoglioso, gli spasimi dell'amore disprezzato, l'indugio delle leggi, l'insolenza di chi è investito d'una carica, e gli scherni che il paziente merito riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe fare la sua quietanza con un semplice pugnale? chi vorrebbe portar fardelli, gemendo e sudando sotto una gravosa vita, se non che il timore di qualche cosa dopo la morte, il paese non ancora scoperto dal cui confine nessun viaggiatore ritorna, confonde la volontà e ci fa piuttosto sopportare i mali che abbiamo, che non volare verso altri che non conosciamo? Così la coscienza ci fa tutti vili, e così la tinta nativa della risoluzione è resa malsana dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e importanza per questo scrupolo deviano le loro correnti e perdono il nome d'azione... Adagio voi ora!

La vaga Ofelia! Ninfa, nelle tue orazioni siano ricordati tutti i miei peccati.

OFELIA: Mio buon signore, come è stato Vostro Onore tutti questi giorni?

AMLETO: Umilmente vi ringrazio; bene, bene, bene.

OFELIA: Mio signore, io ho certi vostri ricordi, ch'io ho da molto desiderato di restituire; io ve ne prego ora, accoglieteli.

AMLETO: No, non io; io non vi ho mai dato nulla.

OFELIA: Mio onorato signore, voi sapete benissimo che me li avete dati; e con essi, parole composte di così dolci fiati che resero questi oggetti più preziosi; perduto il loro profumo, riprendeteli; perché per l'animo nobile i ricchi doni divengon poveri quando i donatori si mostrano crudeli. Ecco, mio signore.

AMLETO: Ah, ah! siete voi onesta?

OFELIA: Mio signore?

AMLETO: Siete voi bella?

OFELIA: Che vuol dire Vostra Signoria?

AMLETO: Che se voi siete onesta e bella, la vostra onestà non dovrebbe ammettere alcun discorso con la vostra bellezza.

OFELIA: Potrebbe la Bellezza, mio signore, aver miglior commercio che con l'Onestà?

AMLETO: Sì, veramente; perché il potere della Bellezza prima trasmuterà l'Onestà da ciò che ella è in una ruffiana, che la forza dell'onestà possa ridurre la Bellezza alla sua somiglianza; questo era una volta un paradosso, ma ora i tempi ne danno la prova. Io vi amavo una volta.

OFELIA: Infatti, mio signore, voi me lo faceste credere.

AMLETO: Non avreste dovuto credermi, perché la virtù non può innestarsi sul nostro vecchio ceppo senza che di questo serbiamo il gusto, io non v'amavo.

OFELIA: Io son rimasta tanto più ingannata.

AMLETO: Vattene in un convento, perché vorresti esser generatrice di peccatori? Io stesso sono discretamente onesto, ma pure potrei accusarmi di tali cose che sarebbe meglio che mia madre non m'avesse partorito. Sono oltremodo orgoglioso, vendicativo, ambizioso; con più colpe ai miei cenni ch'io non abbia pensieri in cui metterle, immaginazione da dar forma ad esse, o tempo per attuarle. Che ci sta a fare la gente come me, a strisciare fra il cielo e la terra? Noi siamo tutti furfanti matricolati; non credere a nessuno di noi. Va' per la tua strada, in un convento. Dov'è vostro padre?

OFELIA: A casa, mio signore.

AMLETO: Fate che le porte sian chiuse su di lui, ch'egli non possa fare lo sciocco altrove che a casa sua. Addio.

OFELIA: Oh, aiutatelo, voi clementi cieli!

AMLETO: Se tu ti mariti, io ti darò questo flagello per dote: sii tu casta come il ghiaccio, pura come la neve, tu non sfuggirai alla calunnia. Vattene in un convento, va', addio. O se vuoi per forza maritarti, sposa uno sciocco; perché gli uomini savi sanno abbastanza che mostri voi fate di loro. In un convento, va'; e presto, anche.

Addio.

OFELIA: Celesti potenze, risanatelo!

AMLETO: Io ho udito anche dei vostri belletti, parecchio; Dio v'ha dato una faccia e voi ve ne fate un'altra; voi saltellate e molleggiate, voi scilinguate, voi date nomignoli alle creature di Dio e vorreste far passare per ignoranza la vostra lascivia. Va', io non voglio parlarne più, questo mi ha fatto impazzire. Io dico che non avremo più matrimoni; quelli che sono sposati già, tutti meno uno, vivranno, gli altri staranno come sono. In convento, va'.

 

(Esce)

 

OFELIA: Oh, quale nobile animo è qui sconvolto! l'occhio, la lingua, la spada del cortigiano, del soldato, del dotto, la speranza e la rosa del buon governo, lo specchio della moda, e il modello delle creanze, osservato da quanti fanno osservanza, del tutto, del tutto caduto! Ed io la più afflitta e infelice delle donne, che succhiai il miele delle sue musicali promesse, ora vedo quella nobile e veramente sovrana ragione, stonata e stridula come dolci campane sbatacchiate; quella impareggiata forma e figura di fiorente giovinezza annichilita dalla follia; oh, misera me, che ho visto quel che ho visto, che vedo quello che vedo!

 

(Esce)

(Rientrano il RE e POLONIO)

 

RE: Amore? I suoi affetti non son volti da quella parte; né quel ch'egli ha detto, benché difettasse un poco di forma, era da pazzo.

C'è qualche cosa nella sua anima, su cui la sua malinconia siede a covare; ed io dubito che la covata che se ne schiuderà sarà qualche pericolo; a prevenire il quale, io ho con rapida decisione così disposto: egli andrà sollecitamente in Inghilterra per domandare il nostro tributo negletto: forse i mari e i paesi differenti con gli svariati oggetti espelleranno questa cosa, che in qualche modo ha preso radice nel suo cuore; sulla quale il suo cervello sempre battendo lo fa così diverso da quel ch'egli soleva essere. Che ne pensate voi?

POLONIO: Sarà bene; ma tuttavia io credo che l'origine e il principio del suo affanno provengano da un amore negletto.

 

(Rientra OFELIA)

 

Ebbene, Ofelia? Non c'è bisogno che ci narriate che cosa ha detto il principe Amleto; noi l'abbiamo udito tutto. (Esce Ofelia) Mio signore, fate come a voi piace; ma, se voi lo ritenete opportuno, dopo il dramma, fate che la regina sua madre, da sola a solo, lo supplichi di svelare il suo affanno; fate ch'ella sia franca con lui; ed io sarò posto, se così vi piaccia, a portata d'orecchio di tutto il loro colloquio. Se ella non lo scopre, mandatelo in Inghilterra, o confinatelo dove la vostra saggezza crederà meglio.

RE: Così sarà: la pazzia nei grandi non deve lasciarsi non vigilata.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Una sala nel Castello

(Entrano AMLETO e tre degli Attori)

 

AMLETO: Dite il discorso, vi prego, come io ve l'ho recitato, quasi vi danzasse sulla lingua; ché se voi lo vociate, come fanno molti dei nostri attori, sarebbe per me tutt'uno che il pubblico banditore dicesse i miei versi. E non fendete troppo l'aria con la vostra mano, così; ma trattate tutto con discrezione; perché nel torrente stesso, nella tempesta e, com'io potrei dire, nel turbine della passione, voi dovete acquistare e generare una temperanza che dia ad essa morbidezza. Oh, m'offende fin nell'anima udire un truculento individuo imparruccato lacerare una passione a brandelli, ridurla in stracci per spaccare gli orecchi della platea, la quale, per la più parte, non comprende null'altro che inesplicabili pantomime e rumore; io farei frustare un tale individuo per aver sopravanzato Termagante; questo è un farla da Erode più di Erode stesso; di grazia, evitatelo.

PRIMO ATTORE: Me ne fo garante a Vostro Onore.

AMLETO: Non siate troppo blandi nemmeno, ma lasciate che il vostro discernimento vi sia maestro; accordate l'azione alla parola, la parola all'azione, con questo particolare accorgimento, che voi non passiate oltre i limiti della moderazione della natura; perché ogni cosa così strafatta è contraria allo scopo dell'arte drammatica, il cui fine, tanto agli inizi che ora, fu ed è di reggere, per così dire, lo specchio della natura; di mostrare alla virtù le sue proprie fattezze, allo scorno la sua immagine, e alla tempra e alla fisionomia stesse dell'epoca la loro forma ed impronta. Ora questo, esagerato, o stentato, benché faccia ridere l'inesperto, non può che affliggere l'uomo di giudizio; la censura del quale deve, nella vostra opinione, pesar più d'un intero teatro degli altri. Oh, ci sono attori ch'io ho visti recitare, e uditi lodare dagli altri e altamente, per non dir la cosa in maniera profana, i quali non avendo né l'accento di cristiani né il portamento di cristiani, di pagani, né d'uomini, si pavoneggiavano e muggivano così ch'io pensavo che qualcuno dei manovali della natura avesse fatto degli uomini, e non li avesse fatti bene, così abominevolmente essi imitavano l'umanità.

PRIMO ATTORE: Io spero che noi abbiamo riformato discretamente codesto tra di noi, signore.

AMLETO: Oh, riformatelo del tutto. E procurate che quelli che fan le parti dei buffoni non dicano più di quanto è scritto per loro; perché ce n'è di quelli che ridono essi stessi, per indurre una certa quantità di stupidi spettatori a rider pure, benché frattanto debba prestarsi attenzione a qualche battuta essenziale del dramma; questa è una birbonata e mostra un'assai pietosa ambizione nello sciocco che ne fa uso. Andate, preparatevi.

 

(Escono gli Attori. Entrano POLONIO, ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN)

 

Ebbene, mio signore! vuole il re ascoltare questo lavoro?

POLONIO: E la regina anche, e immediatamente.

AMLETO: Ordinate agli attori di affrettarsi.

 

(Esce POLONIO) Volete voi aiutarli a sbrigarsi

 

ROSENCRANTZ: e GUILDENSTERN: Sì, mio signore.

 

(Escono Rosencrantz e Guildenstern)

 

AMLETO: Ohé! Orazio!

 

(Entra ORAZIO)

 

ORAZIO: Eccomi, dolce signore, al vostro servizio.

AMLETO: Orazio, tu sei proprio l'uomo più equilibrato col quale mi sia mai accaduto d'aver commercio.

ORAZIO: Oh, mio caro signore...

AMLETO: No, non creder ch'io aduli; poiché quale avanzamento posso io sperare da te che non hai altra rendita che le doti del tuo spirito, per nutrirti e vestirti? Perché si dovrebbe adulare il povero? No, che la lingua inzuccherata lecchi lo stravagante fasto, e pieghi le proficue giunture del ginocchio dove il guadagno possa seguire alla piaggeria. M'intendi? Da quando la mia cara anima fu signora della sua scelta, e seppe tra gli uomini distinguere la sua elezione, ti ha suggellato per lei; perché tu sei stato come uno che, tutto soffrendo, di nulla soffre; un uomo che gli schiaffi e i premi della Fortuna hai presi con eguali grazie; e beati son quelli ne' quali le passioni e il giudizio sono così ben mescolati ch'essi non sono un flauto su cui il dito della Fortuna possa premere il tasto che le piace. Datemi l'uomo che non è schiavo della passione, ed io lo terrò nell'intimo del cuore, sì, nel cuor del mio cuore, come io fo di te. Ma già troppo di questo. Si darà un dramma stasera alla presenza del re: una scena s'avvicina alle circostanze che io t'ho narrate della morte di mio padre: ti prego, quando vedi quell'atto in corso, proprio con tutto l'acume dell'anima tua osserva mio zio; se la sua colpa occulta non si stana a un certo discorso, è uno spettro dannato quello che noi abbiam visto e le mie immaginazioni sono luride come la fucina di Vulcano.

Scrutalo attentamente, perché io i miei occhi gli ficcherò sulla faccia, e dopo metteremo insieme le nostre osservazioni, per dar giudizio del suo aspetto.

ORAZIO: Bene, mio signore; se egli sottrae qualche cosa mentre questo dramma si rappresenta, e non si fa discoprire, io pagherò per il furto.

 

(Trombe e temburi. Entrano il RE, la REGINA, OFELIA, POLONIO, ROSENCRANTZ, GUILDENSTERN, e altri Signori del seguito, con la Guardia, che reca le torce)

 

AMLETO: Vengono per il dramma; io debbo fare il pazzo: procuratevi un posto.

RE: Come vive il nostro nipote Amleto?

AMLETO: Ottimamente, in fede; del piatto del camaleonte: io mangio l'aria, infarcita di promesse; non potete nutrire i capponi così.

RE: Io non cavo nulla da questa risposta, Amleto; queste parole non appartengono a me.

AMLETO: No, e neanche a me. (A Polonio) Ora, mio signore, voi recitaste una volta all'Università, voi dite?

POLONIO: Sicuro, mio signore, e fui giudicato un buon attore.

AMLETO: E che cosa rappresentaste?

POLONIO: Io rappresentai Giulio Cesare, io fui ucciso in Capitolio; Bruto m'uccise.

AMLETO: Fu un'azione brutale da parte sua uccidere là un sì capital pecorone. Sono pronti gli attori?

ROSENCRANTZ: Sì, mio signore; essi aspettano il vostro permesso.

REGINA: Vieni qui, mio caro Amleto, siedi accanto a me.

AMLETO: No, buona madre, qui c'è metallo più attraente.

POLONIO (al Re): Oh, oh! osservate questo!

AMLETO: Signora, posso giacervi in grembo?

OFELIA: No, mio signore.

AMLETO: Voglio dire, col capo sul vostro grembo?

OFELIA: Sì. mio signore AMLETO: Pensate ch'io volessi dire cosa da ribotta?

OFELIA: Io non penso nulla, mio signore.

AMLETO: Questa è una bella idea a star fra le gambe delle fanciulle.

OFELIA: Quale, mio signore?

AMLETO: Nulla.

OTELLO: Voi siete allegro, mio signore.

AMLETO: Chi, io?

OFELIA: Sì, mio signore.

AMLETO: O Dio, il vostro solo autore di farse. Che si dovrebbe fare se non stare allegri? perché, guardate come appare lieta mia madre, e mio padre è morto soltanto da due ore.

OFELIA: No, son due volte due mesi, mio signore.

AMLETO: Tanto? E allora, che il diavolo si vesta di nero, perché io voglio farmi un abito di zibellino. O cieli! morire due mesi or sono, e non esser dimenticato ancora? Allora c'è speranza che la memoria d'un grand'uomo possa sopravvivere alla sua vita un mezzo anno; ma, per la Madonna. egli deve costruir chiese allora, o altrimenti egli soffrirà che a lui non si pensi, come il cavalluccio di legno, il cui epitaffio è "Ohimè! ohimè! scordato è il cavalluccio". (Suonano le trombe)

 

PANTOMIMA
(Entrano un Re e una Regina, con dimostrazioni d'affetto; la Regina abbracciando lui, ed egli lei. Ella s'inginocchia e fa mostra di dichiararglisi devota. Egli la solleva, e reclina il capo sul collo di lei. Egli si pone a giacere su una proda fiorita. Ella, vedendolo addormentato, lo lascia. Di lì a poco entra un altro uomo, gli toglie la corona, la bacia, versa il veleno nelle orecchie del dormiente, lo lascia. La Regina ritorna, trova il Re morto, e fa una mimica appassionata. L'avvelenatore, con tre o quattro comparse, rientra e sembra condolersi con lei. Il cadavere vien portato via.
L'avvelenatore corteggia la Regina con doni, ella, aspra per un po', accetta infine il suo amore). (Escono)

 

OFELIA: Che significa questo, mio signore?

AMLETO: Diamine, questo è un maleficio subdolo; significa malanno.

OFELIA: Forse questa pantomima rappresenta l'argomento del dramma.

AMLETO Lo sapremo da costui.

 

(Entra il Prologo)

 

Gli attori non sanno tenere il segreto.

OFELIA: Ci dirà egli che cosa significava questo spettacolo?

AMLETO: Sì, o qualsiasi spettacolo che voi gli mostrerete; se voi non avete vergogna di mostrare, egli non si vergognerà di dirvi che cosa significa.

OFELIA: Voi siete cattivo, voi siete cattivo: io voglio stare attenta al dramma.

PROLOGO: Per noi, per la tragedia vostra clemenza supplico, con pazienza uditeci!

AMLETO: E' un prologo o un motto d'anello?

OFELIA: E' breve, mio signore.

AMLETO: Come amore di donna.

 

(Entrano due Attori, un RE e una REGINA)

 

RE ATTORE: Ben trenta volte il carro di Febo è andato attorno al salso flutto di Nettuno e al rotondo suolo della Terra, e trenta dozzin di lune con splendore d'accatto intorno al mondo han fatto dodici volte trenta giri, da quando Amore i nostri cuori e Imene le nostre mani unirono mutuamente in santissimi vincoli.

REGINA ATTRICE: Altrettanti viaggi possano il sole e la luna farci ricontare prima che l'amore sia finito! Ma ahimè! voi siete stato così male in questi ultimi tempi, così remoto dalla letizia e dal vostro primiero stato, che io temo per voi. Pure, benché io tema, questo non deve punto sconfortarvi, mio signore; perché la paura e l'amore delle donne han questa misura, che son l'una e l'altro nulla, o in estremo grado. Ora, che cosa sia il mio amore, l'esperienza vi ha fatto sapere, e quale è il mio amore, tale è la mia paura; dove l'amore è grande, i minimi sospetti sono paura, dove le piccole paure si fan grandi un grande amore cresce.

RE ATTORE: In fede, io ti debbo lasciare, amore, e fra breve anche; le mie potenze operanti cessano di compiere le loro funzioni, e tu vivrai in questo vago mondo dopo di me, onorata, amata; e forse uno non meno buono per marito tu...

REGINA ATTRICE: Oh, in malora gli altri! Un tale amore dovrebbe per forza esser tradimento nel mio petto; in un secondo marito ch'io sia maledetta! Non sposa un secondo se non chi ha ucciso il primo.

AMLETO: (a parte) Assenzio, assenzio!

REGINA ATTRICE: I motivi che a un secondo matrimonio inducono sono vili riguardi d'interesse, ma non d'amore; una seconda volta io uccido il mio marito morto, quando un secondo marito mi bacia nel letto.

RE ATTORE: Io credo che voi pensate ciò che ora dite, ma a ciò che noi risolviamo, spesso veniam poi meno. Il proposito non è che lo schiavo della memoria, di violenta nascita, ma di scarsa vitalità; che ora, finché il frutto sia acerbo, resta attaccato all'albero, ma cadono senza essere scossi quando sono maturi. E' assai naturale che noi dimentichiamo di pagare a noi stessi quello che è un debito verso noi stessi; ciò che a noi stessi nella passione proponiamo, col finire della passione perde il suo proposito. La violenza o del dolore o della gioia distrugge da sé le sue proprie decisioni; dove la gioia fa più baldoria, il dolore più si lamenta; il dolore gioisce, la gioia s'addolora, per lieve cagione. Questo mondo non è per sempre, né è strano che anche i nostri amori debbano con le nostre fortune mutare, perché è un problema che ancora dobbiamo risolvere, se l'Amore guidi la Fortuna, oppure la Fortuna l'Amore. Quando il grande cade, voi osservate che il suo favorito fugge; il povero beneficato, si fa amici i nemici, e fin qui l'Amore segue la Fortuna; perché chi non ne ha bisogno, non mancherà mai d'amici; e chi nella necessità un falso amico mette a prova, immediatamente lo trasforma in un nemico. Ma per finire ordinatamente dove ho cominciato, le nostre volontà e i nostri fati hanno corsi così contrari, che i nostri disegni son sempre rovesciati: i nostri pensieri son nostri, ma i loro fini non ci appartengono: così tu pensi che non sposerai un secondo marito, ma muoiono i tuoi pensieri quando il tuo primo signore è morto.

REGINA ATTRICE: Né la terra mi dia cibo, né il cielo luce! Sollazzo e riposo tolgano a me il giorno e la notte! In disperazione si volgano la mia fiducia e la mia speranza! Il sedile d'un anacoreta in prigione, sia la mia libertà! Ogni contrario che imbianca il volto della gioia, incontri ciò ch'io ben vorrei, e lo distrugga! E qui e altrove mi persegua perpetua rissa, se, una volta vedova, io sia mai una moglie!

AMLETO: Se ora ella dovesse romperlo!

RE ATTORE: E' un giuramento profondo. Diletta, lasciami qui un poco; i miei spiriti si fan gravi, ed io vorrei pure ingannare il tedio del giorno col sonno.

 

(Dorme)

 

REGINA ATTRICE: Il sonno culli la tua mente e mai venga sventura fra noi due!

 

(Esce)

 

AMLETO: Signora, come vi pare questo dramma?

REGINA: La dama fa troppo grandi proteste, mi pare.

AMLETO: Oh, ma ella terrà la sua parola.

RE: Avete udito l'argomento? Non c'è nulla che possa recare offesa?

AMLETO: No, no, non fanno che scherzare, avvelenano per scherzo; nulla affatto che possa recare offesa.

RE: Come chiamate questo dramma?

AMLETO: La Trappola pei Topi. Diamine, come? Metaforicamente. Questo dramma è l'immagine d'un assassinio fatto a Vienna: Gonzago è il nome del duca, la moglie Battista: vedrete subito: è un'azione da ribaldi; ma che importa? Vostra Maestà e noi abbiamo l'animo sgombro, esso non ci tocca; lasciate che la rozza piena di guidaleschi tiri calci, il nostro garrese non è piagato.

 

(Entra LUCIANO)

 

Questo è un certo Luciano, nipote del re.

OFELIA: Fate assai bene le veci del coro, mio signore.

AMLETO: Io potrei far da interprete fra voi e il vostro innamorato se potessi vedere trastullarsi le marionette.

OFELIA: Voi siete tagliente, mio signore, siete tagliente.

AMLETO: Vi costerebbe un gemito a smussarmi il filo.

OFELIA: Di bene in meglio, e in peggio.

AMLETO: Così voi prendete a inganno i vostri mariti. Incomincia, assassino, canchero! smetti le tue dannate smorfie, e incomincia. Via:

il corvo crocidante mugghia per la vendetta.

LUCIANO: Neri pensieri, mani adatte, e idonee droghe, e tempo conveniente; complice momento, niun'altra creatura vedendoci; tu fetida miscela, stillata da erbe notturne, dalla maledizione di Ecate tre volte guasta, tre volte infetta, la tua magia naturale e le tue crudeli proprietà usurpino immediatamente la salubre vita.

 

(Versa il veleno nelle orecchie del dormiente)

 

AMLETO: Lo avvelena nel giardino per la sua signoria. Il suo nome è Gonzago; la storia si conserva ed è scritta in un italiano molto elegante; vedrete fra poco come l'assassino ottiene l'amore della moglie di Gonzago.

OFELIA: Il re s'alza!

AMLETO: Come? spaventato da un tiro di salva!

REGINA: Come si sente il mio signore?

POLONIO: Interrompete il dramma!

RE: Fatemi luce. Via!

POLONIO: Lumi, lumi, lumi! (Escono tutti meno Amleto ed Orazio)

AMLETO: Ferito daino, ebben, che pianga e scherzi il cervo mondo.

Ch'un dorma, e l'altro in piè rimanga:

così trascorre il mondo.

Non varrebbero questi versi, messere, insieme con una foresta di penne, e due rose damaschine sulle mie scarpe traforate, a ottenermi, se le altre mie fortune mi rinnegassero, una compartecipazione in un branco d'attori?

ORAZIO: Una mezza quota.

AMLETO: Una intera, io.

Perché spogliato di Giove istesso, tu sai, Damon mio caro, fu questo regno; or n'ha il possesso un egregio... pavone.

ORAZIO: Voi avreste potuto rimare.

AMLETO: O buon Orazio, io punterò sulla parola del fantasma mille sterline. Hai visto?

ORAZIO: Benissimo, mio signore.

AMLETO: Quando si parlava dell'avvelenamento?

ORAZIO: Io l'osservai molto bene.

AMLETO: Ah, ah! Via, un po' di musica; via, i pifferi!

Perché se la commedia piace al re probabilmente... non gli piace, affé.

Via, un po' di musica.

 

(Rientrano ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN)

 

GUILDENSTERN: Mio buon signore, concedetemi ch'io vi dica una parola.

AMLETO: Messere, una intera storia.

GUILDENSTERN: Il re, messere...

AMLETO: Sì, messere, che ne è?

GUILDENSTERN: E' nelle sue stanze turbato a meraviglia.

AMLETO: Per aver bevuto, signore?

GUILDENSTERN: No, mio signore, per la collera.

AMLETO: La vostra saggezza si mostrerebbe più preziosa se voi faceste saper questo al dottore; perché la purga ch'io gli ordinerei forse lo tufferebbe in una collera maggiore.

GUILDENSTERN: Mio buon signore, date un qualche ordine al vostro discorso, e non saltate via dalla mia faccenda in modo così stravagante.

AMLETO: Io son mansueto, signore; parlate.

GUILDENSTERN: La regina vostra madre, in grandissima afflizione di spirito, mi ha mandato a voi.

AMLETO: Voi siete il benvenuto.

GUILDENSTERN: No, mio buon signore, questa cortesia non è di buona lega. Se vi compiacerete di darmi una risposta sana, io farò il comandamento di vostra madre, se no, la vostra licenza e il mio ritorno saran la fine del mio negozio.

AMLETO: Messere, non posso.

ROSENCRANTZ: Che cosa, mio signore?

AMLETO: Darvi una risposta sana; il mio senno è malato; ma messere, una risposta quale io posso darla è ai vostri comandi; o piuttosto, come voi dite, di mia madre, perciò non più; ma veniamo alla cosa; mia madre, voi dite...

ROSENCRANTZ: Dunque ella dice così: il vostro contegno l'ha colpita di stupore e di meraviglia.

AMLETO: O mirabile figlio, che può far stupire così una madre! Ma non c'è un seguito alle calcagna di questa materna meraviglia? Comunicate.

ROSENCRANTZ: Ella desidera parlare con voi nel suo gabinetto prima che voi andiate a coricarvi.

AMLETO: Noi obbediremo, fosse ella dieci volte nostra madre. Avete voi altro da trattare con noi?

ROSENCRANTZ: Mio signore, voi una volta m'amavate.

AMLETO: E v'amo ancora, per queste pigliatrici e rubatrici.

ROSENCRANTZ: Mio buon signore, qual è la causa del vostro perturbamento? di certo voi sbarrate la porta alla vostra libertà, se negate i vostri affanni al vostro amico.

AMLETO: Signore, io manco d'avanzamento.

ROSENCRANTZ: Come può essere se voi avete il voto del re stesso per la vostra successione al trono di Danimarca?

 

(Rientrano gli Attori con pifferi)

 

AMLETO:. Sì, signore? ma "mentre l'erba cresce"... il proverbio è un po' ammuffito. Oh, i pifferi! fatemene vedere uno. Mettiamoci in disparte; perché vi date da fare per venirmi sopravvento, come se voleste cacciarmi in una rete?

GUILDENSTERN: Oh, mio signore, se il mio dovere mi fa troppo ardito, il mio amore mi rende troppo scortese.

AMLETO: Questa non la capisco bene. Volete sonare questo zufolo?

GUILDENSTERN: Mio signore, non posso.

AMLETO: Vi prego.

GUILDENSTERN: Credetemi, non posso.

AMLETO: Vi supplico.

GUILDENSTERN: Io non me n'intendo affatto, mio signore.

AMLETO: E facile come il dir bugie; governate questi fori con le dita e i pollici, dategli fiato con la bocca, e favellerà una musica eloquentissima. Guardate, questi sono i fori.

GUILDENSTERN: Ma io non so far esprimere ad essi alcuna armonia; io non ho l'arte.

AMLETO: Ebbene, guardate ora, come dappoco voi mi stimate! Voi vorreste sonare su di me; vorreste parer di conoscere i miei tasti, vorreste strappare il cuore del mio mistero; vorreste sonarmi dalla mia nota più bassa fino alla cima del mio registro, e c'è molta musica, una voce eccellente, in questo piccolo organo, e pure voi non potete farlo parlare. Per il sangue di Cristo, credete che io sia più facile a sonarsi d'uno zufolo? Datemi il nome dello strumento che volete, benché voi mi pizzichiate, voi non potete sonarmi.

 

(Rientra POLONIO)

 

Dio vi benedica, messere!

POLONIO: Mio signore, la regina vorrebbe parlare con voi, e subito.

AMLETO: Vedete voi quella nuvola che ha quasi la forma d'un cammello?

POLONIO: Per la messa, e assomiglia a un cammello davvero.

AMLETO: Mi pare che assomigli a una donnola.

POLONIO: Ha il dorso come una donnola.

AMLETO: O come una balena.

POLONIO: Proprio come una balena.

AMLETO: Allora verrò da mia madre fra poco. (A parte) Si fan beffe di me fin che l'arco quasi si spezza. Verrò fra poco.

POLONIO: Dirò così.

 
(Esce)

 

AMLETO: "Fra poco" è presto detto. Lasciatemi, amici. (Escono tutti meno Amleto) Ecco è proprio l'ora magica della notte quando i cimiteri si spalancano, e l'inferno stesso spira un contagio su questo mondo; ora io potrei bere caldo sangue, e fare azioni così crudeli che il giorno tremerebbe a guardarle. Calma! ora andrò da mia madre. O cuore, non perdere il tuo affetto naturale; non lasciar mai entrare l'anima di Nerone in questo petto risoluto; ch'io sia crudele, ma non snaturato: io la pugnalerò con le parole, ma non con la mano; la mia lingua e la mia anima in questo siano ipocrite; comunque nelle mie parole ella sia ripresa, non consentir mai, anima mia, a metter loro il suggello.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA TERZA - Una stanza nel Castello

(Entrano il RE, ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN)

 

RE: Non mi piace, e non è cosa sicura per noi lasciar andare attorno la sua pazzia. Pertanto preparatevi, io farò allestire immediatamente la vostra commissione, ed egli verrà in Inghilterra con voi; le condizioni del nostro Stato non possono sopportare un pericolo così vicino a noi quale d'ora in ora cresce dal suo umore rissoso.

GUILDENSTERN: Noi ci apparecchieremo. Egli è un santissimo e religioso timore, salvaguardare quei molti e molti esseri che ricevon vita e nutrimento dalla vostra maestà.

ROSENCRANTZ: La vita individuale e privata è tenuta a guardarsi dai danni con tutta la forza e l'armatura dell'animo, ma molto più quello spirito dal cui benessere dipendono le vite di molti. Quando la maestà s'estingue, non muore sola, ma come un vortice attrae con sé ciò che le è vicino; è una ruota massiccia, fissata sulla vetta del più alto monte, ai cui vasti raggi diecimila minori oggetti sono incastrati e congiunti; la quale, quando cade ogni piccolo annesso, ogni minuta dipendenza, ne segue la fragorosa rovina. Non mai da solo sospirò il re, ma con un gemito universale.

RE: Armatevi, vi prego, per questo spedito viaggio; poiché noi vogliamo por ceppi attorno a questa paura che ora va troppo a piede libero.

ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN: Ci affretteremo.

 

(Escono Rosencrantz e Guildenstern. Entra POLONIO)

 

POLONIO: Mio signore, egli si reca allo studiolo di sua madre io mi collocherò dietro l'arazzo per ascoltare ciò che ne seguirà; garantisco ch'ella lo redarguirà ben bene; e come voi diceste, e saviamente fu detto, è bene che un altro ascoltatore oltre a una madre, poiché la natura le fa parziali, debba udire di nascosto il discorso, per soprammercato. Statevi bene, mio sovrano; io verrò a visitarvi prima che voi andiate a letto, e vi dirò quello che so.

RE: Grazie. caro mio signore. (Esce Polonio) Oh, il mio delitto è fetido, manda il suo puzzo fin su al cielo; esso ha sopra di sé l'antichissima maledizione originaria, l'assassinio d'un fratello!

Pregare non posso, benché l'inclinazione sia acuta quanto una volontà; la mia colpa, più forte, sconfigge la mia forte intenzione, e come un uomo volto a un duplice negozio, io sto esitando dove prima comincerò, e trascuro l'uno e l'altro. E che, se questa mano maledetta fosse fatta due volte più spessa di sangue fraterno, non v'è pioggia abbastanza nei clementi cieli per lavarla bianca come la neve? A che serve la misericordia, se non ad affrontare il volto del delitto? E che c'è in una preghiera se non questa duplice forza d'esser prevenuti prima che ci accada di cadere, o perdonati quando siamo caduti? Dunque io guarderò in alto; la mia colpa è passata. Ma oh! quale forma di preghiera può giovare al mio intento? "Perdonatemi il mio turpe assassinio!". Questo non può essere, poiché io sono ancora in possesso di quegli oggetti pei quali io commisi l'assassinio, la mia corona, la mia propria ambizione e la mia regina. Si può esser perdonati e serbare il delitto? Nelle corrotte correnti di questo mondo, la dorata mano del delitto può spinger da parte la giustizia, e spesso si vede che lo stesso malvagio guiderdone compra la legge; ma non è così lassù; là non ci son sotterfugi; lassù, l'atto si mostra nella sua vera natura, e noi stessi siam costretti, proprio in faccia e di fronte alle nostre colpe, a render testimonianza. E allora? che resta?

prova che cosa possa il pentimento: che cosa non può esso? pure, che cosa può quando non ci si può pentire? O miserando stato! o petto nero come la morte! o inviscata anima, che lottando per liberarsi più t'inviluppi! Aiuto, angeli, fate impeto! piegatevi, ginocchia ostinate, e, cuore con corde d'acciaio, sii molle come le giunture dell'infante appena nato! Tutto può volger a bene. (S'inginocchia)

 

(Entra AMLETO)

 

AMLETO: Ora potrei farlo a punto, ora ch'egli sta pregando; ed ora lo farò; e così egli va in cielo e così io son vendicato. Questo vuol ponderazione: un ribaldo uccide mio padre; e per questo io, suo figliuolo, questo stesso ribaldo mando in cielo... Ebbene, questo è ristoro e salario, non vendetta. Egli colse mio padre in un atto materiale, sazio di cibo, con tutti i suoi misfatti in pieno fiore, rigogliosi come il maggio: e come stia il conto di costui, chi lo sa se non il cielo? Ma secondo i nostri indizi e il nostro modo di pensare, egli ha un grave peso; e io son dunque vendicato, cogliendolo mentre si purga l'anima, quando egli è disposto e maturo per il trapasso? No. Su, spada, e cogli un più orribile destro; quando egli è ubriaco fradicio, o nella sua furia o nel piacere incestuoso del suo letto, tra il giuoco, le bestemmie, o in qualche atto che non abbia in sé alcun gusto di salvazione; allora dàgli lo sgambetto, che le sue calcagna tirin calci verso il cielo, e che la sua anima sia dannata e nera come l'inferno, dov'egli va. Mia madre aspetta. Questa medicina non fa che prolungare i tuoi giorni infermi.

 

(Esce)

 

RE (s'alza): Le mie parole volan su, i miei pensieri restano al basso; parole senza pensieri mai non giungono in cielo.

 
(Esce)

 

 

 

SCENA QUARTA - Lo studiolo della Regina

(Entrano la REGINA e POLONIO)

 

POLONIO: Verrà subito. Guardate di non toccarlo sul vivo, ditegli che le sue stravaganze son state troppo audaci perché si possa tollerarle e che Vostra Grazia l'ha protetto e s'è interposta fra una grande ira e lui. Io mi starò in silenzio proprio qui. Vi prego, siate schietta con lui.

AMLETO (di dentro): Madre, madre, madre!

REGINA: Ve lo garantisco; non temete di me. Ritiratevi, l'odo venire.

 

(Polonio si nasconde dietro l'arazzo. Entra AMLETO)

 

AMLETO: Ora madre, che c'è?

REGINA: Amleto, tu hai molto offeso tuo padre.

AMLETO: Madre, voi avete molto offeso mio padre.

REGINA: Via, via, voi rispondete stravagantemente.

AMLETO: Andate, andate, voi interrogate malignamente.

REGINA: Ebbene, come, Amleto?

AMLETO: Che c'è ora?

REGINA: Avete dimenticato chi sono?

AMLETO: No, per la croce, no: voi siete la regina, la moglie del fratello di vostro marito; e, così non fosse! voi siete mia madre.

REGINA: Allora io vi metterò di fronte a tali che sappian parlare.

AMLETO: Via, via, sedetevi; non dovete muovervi; voi non ve ne andrete finché io non vi metterò dinanzi uno specchio in cui voi possiate vedere la più segreta parte di voi stessa.

REGINA: Che vuoi tu fare? tu non vuoi mica assassinarmi? Aiuto, aiuto, oh!

POLONIO (di dietro): Olà! aiuto, aiuto, aiuto!

AMLETO (sguainando la spada): Come! un topo? Morto, scommetto un ducato, morto!

 

(Tira un colpo di spada attraverso l'arazzo)

 

POLONIO (di dietro): Oh, m'ammazzano!

 

(Cade e muore)

 

REGINA: Ohimè, che hai tu fatto?

AMLETO: Mah, io non lo so; è il re?

REGINA: Oh, che temeraria e sanguinosa azione è questa!

AMLETO: Una sanguinosa azione! quasi tanto cattiva, mia buona madre, come uccidere un re e sposarne il fratello.

REGINA: Come uccidere un re!

AMLETO: Sì, signora, questa è stata la mia parola. (Solleva l'arazzo e scopre Polonio) Tu sciocco miserabile, temerario, importuno, addio! Io t'avevo scambiato per uno da più di te; prendi la tua fortuna; lo vedi che il darsi troppo da fare è di qualche pericolo. Smettete di torcervi le mani. Silenzio! sedetevi, e lasciate ch'io vi torca il cuore; perché questo io farò, se esso è fatto di materia penetrabile, se il dannato costume non l'ha indurito così che sia corazzato e fortificato contro ogni sentimento.

REGINA: Che ho io fatto che tu osi menar la lingua in così aspro tono contro di me?

AMLETO: Una tale azione che offusca la grazia e il rossore della modestia, chiama la virtù ipocrita, rapisce la rosa dalla vaga fronte d'un amore innocente, e vi mette una pustola; rende i voti del matrimonio falsi come i giuramenti dei giocatori; oh, una tale azione che dal corpo d'un contratto svelle l'anima stessa, e della dolce religione fa una rapsodia di parole; la faccia del cielo s'imporpora, sì, questa massa solida e composita, con doloroso viso, come prima del Giudizio, intristisce al pensiero di quest'atto.

REGINA: Ahimè, quale atto, che rugge così forte e tuona nel prologo?

AMLETO: Guardate qui, questa pittura, e questa; le immagini in ritratto di due fratelli. Vedete quale grazia era assisa su questo volto, i ricci d'Iperione, la fronte di Giove stesso, un occhio come Marte, per minacciare e comandare; un portamento come l'araldo Mercurio appena sceso su un colle che bacia il cielo; una combinazione e una forma veramente, in cui ogni dio pareva porre il suo suggello per assicurare il mondo che questo era un uomo: questo era il vostro marito. Guardate ora quel che vien dopo: ecco il vostro marito, che, come una spiga guasta dalla ruggine, infetta il suo fratello sano.

Avete voi occhi? Avete potuto cessar di pascervi su questa vaga montagna, per ingrassare su questa landa? Ah, avete voi occhi? Voi non lo potete chiamare amore, perché alla vostra età il parossismo del sangue è placato, è umile, e segue il giudizio; e quale giudizio vorrebbe passare da questo a questo? Sentimento voi di certo avete, altrimenti voi non potreste avere impulsi; ma per certo quel sentimento è paralizzato, perché la pazzia stessa non errerebbe, né il sentimento fu mai così asservito alla follia da non riservarsi una certa misura di discernimento, quanta occorre a percepire una così gran differenza. Quale diavolo fu che così v'ha truffato a mosca cieca? Gli occhi senza il tatto, il tatto senza la vista, gli orecchi senza le mani o gli occhi, l'odorato senza tutti questi, o solo una parte inferma d'un sol vero senso non avrebbero potuto vaneggiare così. O Vergogna, dov'e il tuo rossore? Inferno ribelle, se tu puoi insorgere nelle ossa d'una matrona, la virtù sia come cera alla fiammante giovinezza, e si strugga nel suo proprio fuoco; proclama che non è vergogna quando il prepotente ardore dà l'assalto, poiché il gelo stesso non meno attivamente arde e la ragione fa da mezzana al desiderio.

REGINA: O Amleto, non parlar più; tu rivolgi i miei occhi stessi al fondo dell'anima mia, ed io vi scorgo macchie così nere e tenaci che vi lasciano la loro tinta.

AMLETO: No, ma vivere nel fetido sudore d'un letto unto di grasso, crogiolata nella corruzione, dicendo parole melliflue e facendo all'amore sul sudicio brago...

REGINA: Oh, non mi parlare più; queste parole come pugnali m'entrano negli orecchi; non più, dolce Amleto.

AMLETO: Un assassino e un ribaldo, un manigoldo che non è il ventesimo della decima parte del vostro precedente signore; un buffone tra i re, un tagliaborse dell'impero e del governo, che ha rubato da uno scaffale il prezioso diadema, e se l'è messo in tasca!

 

(Entra lo Spettro)

 

AMLETO: Un re di ritagli e di pezze! ... Salvatemi, e libratevi su di me con le vostre ali, voi celesti guardie! Che chiede la vostra graziosa figura?

REGINA: Ahimè, egli è pazzo!

AMLETO: Non venite voi a rimproverare il vostro negligente figliuolo, che, fallendo nel tempo e nell'ardore, trascura l'urgente esecuzione del vostro temuto comando? Oh dite!

SPETTRO: Non dimenticare: questa visita non è che per aguzzare il tuo proposito che è quasi spuntato. Ma guarda, lo smarrimento è sul volto di tua madre; oh, interponiti fra lei e la sua anima che si dibatte; l'immaginazione nei più deboli corpi opera più forte: parlale, Amleto.

AMLETO: Che avete, signora?

REGINA: Ahimè, che avete voi, che fissate occhi nel vuoto, e discorrete con l'aria incorporea? i vostri spiriti fieramente s'affacciano fuori ai vostri occhi; e come dormienti soldati all'allarme, i vostri capelli distesi si levano e stan ritti, quasi animate escrescenze. O gentile figliuolo, sul calore e sulla fiamma del tuo turbamento aspergi fresca pazienza. Che cosa guardate?

AMLETO: Lui, lui! Guardate, di che pallida luce egli arde! Il suo aspetto e la sua causa congiunti, predicando alle pietre, le potrebbero render trattabili. Non mi guardate, ché con questo atto pietoso non convertiate i rigidi sensi; allora ciò ch'io debbo fare mancherà del suo vero colore; lagrime forse in luogo di sangue.

REGINA: A chi dite voi questo?

AMLETO: Non vedete niente, là?

REGINA: Proprio niente; eppure vedo tutto quello che c'è.

AMLETO: Né avete udito niente?

REGINA: No, niente fuori di noi stessi.

AMLETO: Ebbene, guardate là! guardata, come s'allontana! Mio padre nei suoi abiti come da vivo, guardate, che esce, proprio ora, dalla porta!

 

(Esce lo Spettro)

 

REGINA: Questo è tutto di conio del vostro cervello; la follia ha molta parte in questa creazione senza scopo.

AMLETO: La follia! Il mio polso, come il vostro, va regolarmente a tempo, e fa una musica altrettanto sana; non è demenza quel ch'io ho pronunciato; mettetemi alla prova, ed io ripeterò la cosa parola per parola, mentre la demenza ne schizzerebbe via. Madre, per amor della grazia, non ponete questo lusinghiero unguento sulla vostra anima, che non sia la vostra colpa ma la demenza a parlare; non farà che coprire d'una sottile pelle il luogo ulceroso, mentre la fetida corruzione, minando tutto dentro, infetta non veduta. Confessatevi al cielo; pentitevi di ciò che è passato, schivate ciò ch'è a venire; e non spargete il letame sulla gramigna per renderla più rigogliosa.

Perdonatemi questa mia virtù, poiché nella poltroneria di questi tempi bolsi, la virtù stessa deve chiedere perdono al vizio, sì, curvarsi e impetrar licenza di beneficarlo.

REGINA: O Amleto, tu m'hai spaccato il cuore in due.

AMLETO: Oh, gettatene via la parte peggiore, e vivete di tanto più pura con l'altra metà. Buona notte: ma non andate al letto di mio zio, simulate una virtù se non l'avete. Quel mostro, il costume, che divora ogni sentimento di male abitudini, pure in questo è un angelo, che alla pratica delle azioni belle e buone esso egualmente dà un saio o una livrea, che agevolmente s'indossa. Astenetevi questa notte, e questo darà una sorta di facilità alla prossima astinenza; la successiva sarà più facile; perché l'uso quasi può mutare lo stampo della natura, e, o soggiogare il diavolo, o cacciarlo fuori con meraviglia e potenza. Ancora una volta, buona notte: e quando voi avete desiderio d'esser benedetta, io chiederò che voi mi benediciate.

Quanto a questo signore (additando Polonio), io mi pento; ma al cielo è così piaciuto, per punir me con costui, e costui con me, ch'io dovessi essere il suo flagello e ministro. Io lo porterò altrove, e risponderò bene della morte ch'io gli ho data. Così, di nuovo, buona notte. Io debbo esser crudele, solo per esser buono; così il male comincia, e il peggio resta indietro. Ancora una parola, buona signora.

REGINA: Che debbo io fare?

AMLETO: Non questo, per alcun modo, ch'io vi dico di fare: lasciate che il gonfio re vi tenti di nuovo nel suo letto, vi pizzichi lascivamente le guance, vi chiami il suo topolino; e lasciate che, per un paio di sozzi baci, o tastandovi il collo con le sue dita dannate, vi faccia dipanare tutta questa faccenda, che io essenzialmente non son pazzo, ma pazzo per artificio. Sarebbe bene che glielo faceste sapere; perché chi, non essendo se non una regina, bella, sobria, saggia, nasconderebbe sì gelosi negozi a un rospo, a un pipistrello, a un gatto? chi lo farebbe? No, a dispetto del buon senso e della segretezza, spiccate la cesta dalla cima della casa, fate volare gli uccelli, e come la famosa scimmia, per provare le conseguenze, entrate nella cesta, e rompetevi il collo cadendo.

REGINA: Sta' sicuro, se le parole sono fatte di fiato, e il fiato di vita, io non ho vita per fiatare ciò che tu m'hai detto.

AMLETO: Io debbo andare in Inghilterra; voi sapete questo?

REGINA: Ahimè, io l'avevo dimenticato; così è deciso.

AMLETO: Vi sono lettere suggellate; e i miei due compagni di scuola, de' quali io mi fiderò come di vipere dal dente velenoso, portano il mandato; essi debbono spazzare il cammino innanzi a me, e guidarmi alla trappoleria. Lasciate fare; perché è uno spasso veder l'ingegnere andare in aria per il suo proprio petardo; e sarà proprio una disdetta se io non scaverò d'un metro sotto alle loro mine, e li farò saltare fino alla luna; oh, è cosa assai dolce, quando due trame direttamente s'incontrano su una stessa linea. Quest'uomo mi costringerà a sloggiare; io trascinerò il budellame nella stanza vicina. Madre, buona notte. Davvero questo consigliere è ora assai cheto, assai segreto, ed assai grave, lui che era in vita uno stolido ribaldo ciarliero... Suvvia, messere, per finir il discorso con voi... Buona notte, mamma.

 

(Escono separatamente, Amleto trascinando dentro Polonio)

 

 

 

ATTO QUARTO

 

SCENA PRIMA - Una stanza nel Castello

(Entrano il RE e la REGINA, con ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN)

 

RE: C'è qualche cosa in codesti sospiri; codesti profondi aneliti voi dovete tradurli, è bene che noi li comprendiamo. Dov'è vostro figlio?

REGINA: Concedeteci questo luogo per un poco.

 

(Escono Rosencrantz e Guildenstern) Ah, mio signore, che cosa ho io veduto questa notte!

 

RE: Che cosa, Gertrude? Come sta Amleto?

REGINA: Pazzo come il mare e il vento, quando l'uno e l'altro contendono quale sia più possente: nel suo sfrenato accesso, udendo qualcosa muoversi dietro l'arazzo, sguaina lo stocco, grida: "Un topo, un topo!" e con quest'idea cervellotica uccide il buon vecchio invisibile.

RE: O trista azione! Sarebbe stato così di noi se noi fossimo stati là; la sua libertà è piena di minacce per tutti, per voi stessa, per noi, per ognuno. Ahimè, come si risponderà di questa sanguinosa azione? Essa sarà apposta a noi, la cui preveggenza avrebbe dovuto tenere a guinzaglio, confinato, e segregato, questo pazzo giovine; ma tanto era il nostro amore che noi non volemmo capire che cosa meglio convenisse, ma, come chi è affetto da un turpe morbo, per evitare che si divulghi, lasciammo che si pascesse dal midollo stesso della vita.

Dov'è andato?

REGINA: A trar da parte il corpo ch'egli ha ucciso; sul quale la sua stessa pazzia, come un po' d'oro in una miniera di metalli vili, si mostra pura; egli piange per quel ch'è accaduto.

RE: O Gertrude, venite via! Non appena il sole toccherà le montagne noi l'imbarcheremo di qui, e questa infame azione noi dobbiamo, con tutta la nostra maestà e abilità, insieme coonestare e scusare.

 

(Rientrano ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN)

 

Oh! Guildenstern! Amici, andate tutti e due a cercare qualche altro aiuto: Amleto nella sua pazzia ha trucidato Polonio, e l'ha trascinato via dallo studiolo di sua madre: andate a cercarlo; dategli buone parole, e portate il corpo nella cappella. Vi prego, affrettatevi a questa bisogna. (Escono Rosencrantz e Guildenstern) Venite, Gertrude, noi chiameremo i nostri più savi amici, e farem loro sapere insieme quel che noi intendiamo fare, e ciò ch'è intempestivamente accaduto, così, forse, la calunnia, il cui mormorio trasporta sopra il diametro del mondo il suo colpo avvelenato, diritto come il cannone al suo bersaglio, potrà risparmiare il nostro nome e colpir l'aria che non riceve ferita. Oh, venite via! la mia anima è piena di discordanza e di sgomento.

 
(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Un'altra stanza nel Castello

(Entra AMLETO)

 

AMLETO: Riposto al sicuro.

ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN (di dentro): Amleto! Principe Amleto!

AMLETO: Ma adagio, che rumore? chi chiama Amleto? Oh, eccoli.

 

(Entrano ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN)

 

ROSENCRANTZ: Che avete fatto, mio signore, del cadavere?

AMLETO: L'ho mescolato alla polvere, a cui esso è affine.

ROSENCRANTZ: Diteci dov'è, che noi possiam toglierlo di là e portarlo alla cappella.

AMLETO: Non lo credete.

ROSENCRANTZ: Creder che cosa?

AMLETO: Ch'io possa seguire il vostro avviso e non star sul mio.

Inoltre, a essere interrogato da una spugna, quale replica dovrebbe farsi dal figlio d'un re?

ROSENCRANTZ: Mi prendete voi per una spugna, mio signore?

AMLETO: Sì, signore che s'imbeve del favore del re, delle sue ricompense, dei suoi uffici. Ma tali ufficiali rendono al re infine i migliori servigi; egli li tiene, come una mela renetta, in un angolo della sua mandibola, prima tenuti in bocca, per essere in ultimo ingoiati; quando egli ha bisogno di ciò che voi avete spigolato, non si tratta che di spremervi, e, spugna, voi sarete asciutto un'altra volta.

ROSENCRANTZ: Io non vi comprendo, mio signore.

AMLETO: Ne sono felice, un discorso da ribaldo dorme in un orecchio stolido.

ROSENCRANTZ: Mio signore, voi dovete dirci dov'è il corpo, e venir con noi dal re.

AMLETO: Il corpo è col re, ma il re non è col corpo. Il re è una cosa...

GUILDENSTERN: Una cosa, mio signore?

AMLETO: Da nulla: conducetemi da lui. Celati volpe, e tutti appresso.

 
(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Un'altra stanza nel Castello

(Entrano il RE e due o tre Cortigiani)

 

RE: Io ho mandato a cercarlo, e a trovare il corpo. Com'è pericoloso che quest'uomo sia in libertà! pure non dobbiamo usar la dura legge contro di lui: egli è amato dalla volubile moltitudine, che s'affeziona non secondo il giudizio, ma secondo gli occhi; e dove è così, vien pesato il castigo dell'offensore, ma non mai l'offesa.

Perché tutto vada liscio e piano, questo improvviso mandarlo via deve parere un meritato indugio; malattie divenute disperate con disperati rimedi si alleviano, o niente affatto.

 

(Entrano ROSENCRANTZ e tutti gli altri)

 

Ebbene, che cosa è accaduto?

ROSENCRANTZ: Dove sia collocato il cadavere, mio signore, noi non possiamo cavare da lui.

RE: Ma lui, dov'è?

ROSENCRANTZ: Di fuori, mio signore; custodito, in attesa del vostro piacere.

RE: Conducetelo innanzi a noi.

ROSENCRANTZ: Olà, Guildenstern! introducete il principe.

 

(Entrano AMLETO e GUILDENSTERN)

 

RE: Ebbene, Amleto, dov'è Polonio?

AMLETO: A cena.

RE: A cena? dove?

AMLETO: Non dov'egli mangia, ma dov'è mangiato; una certa assemblea di vermi politici stan proprio addosso a lui. Il verme è l'unico imperatore quanto al vitto; noi ingrassiamo tutte l'altre creature per ingrassarci, c'ingrassiamo noi stessi per i vermi; un re grasso e un mendicante magro, non sono che un servizio variato, due piatti, ma per una sola tavola; questa è la fine.

RE: Ahimè, ahimè!

AMLETO: Un uomo può pescare col verme che s'è cibato d'un re, e mangiar del pesce che s'è pasciuto di quel verme.

RE: Che vuoi tu dire con questo?

AMLETO: Nient'altro che mostrarvi come un re possa fare un solenne viaggio attraverso le budella d'un mendicante.

RE: Dov'è Polonio?

AMLETO: In cielo, mandate colà a vedere: se il vostro messaggero non lo trova là, cercatelo nell'altro luogo voi stesso. Ma se proprio non lo trovate entro questo mese, voi lo annuserete andando su per le scale nella loggia.

RE (ad alcuni del Seguito): Andate a cercarlo là.

AMLETO: Egli aspetterà finché voi arriviate.

 

(Escono i Cortigiani)

 

RE: Amleto, quest'azione, per la tua particolare sicurezza, che ci sta a cuore, siccome noi molto ci affliggiamo per ciò che tu hai fatto, devo mandarti via di qui con la rapidità del fuoco; pertanto preparati; la nave è allestita, e il vento favorevole, i compagni attendono, e ogni cosa è in pronto per l'Inghilterra.

AMLETO: Per l'Inghilterra?

RE: Sì Amleto.

AMLETO: Bene.

RE: Sicuro, se tu conoscessi i nostri propositi.

AMLETO: Io vedo un cherubino che li vede. Ma, andiamo; in Inghilterra!

Addio, cara madre.

RE: Il tuo padre amoroso, Amleto.

AMLETO: Mia madre: padre e madre sono marito e moglie; marito e moglie sono una carne, perciò, mia madre. Andiamo, in Inghilterra!

 

(Esce)

 

RE: Seguitelo alle calcagna; inducetelo a imbarcarsi rapidamente; non indugiate, io voglio che parta questa notte; via! perché ogni altra cosa che riguarda questa faccenda è sigillata e fatta: di grazia, affrettatevi. (Escono Rosencranztz e Guildenstern) E Inghilterra, se del mio amore tu hai conto alcuno - come la mia grande potenza può di ciò darti consiglio, poiché ancora appare fresca e rossa la tua cicatrice per la spada danese, e il tuo timore volontariamente ci rende omaggio tu non puoi prendere alla leggera il nostro sovrano mandato; il quale importa pienamente, per via di lettere che s'accordano a tale effetto, la immediata morte di Amleto. Fallo, Inghilterra; perché come l'etisia nel mio sangue egli infuria e tu devi curarmi. Finché io non so ch'è fatto, qualunque cosa m'accadesse, le mie gioie non sarebbero mai cominciate.

 
(Esce)

 

 

 

SCENA QUARTA - Una pianura in Danimarca

(Entrano FORTEBRACCIO, un Capitano e Soldati, marciando)

 

FORTEBRACCIO: Andate, capitano, da parte mia salutate il re danese; ditegli che, con sua licenza, Fortebraccio desidera il salvacondotto d'una marcia promessa attraverso il suo reame. Voi conoscete l'appuntamento. Se Sua Maestà volesse altro da noi, noi esprimeremo il nostro omaggio alla sua presenza; e fate ch'egli lo sappia.

CAPITANO: Io lo farò, mio signore.

FORTEBRACCIO: Andate innanzi adagio.

 

(Escono Fortebraccio e i Soldati)

(Entrano AMLETO, ROSENCRANTZ, GUILDENSTERN, e altri)

 

AMLETO: Buon messere, di chi son queste forze?

CAPITANO: Son del re di Norvegia, messere.

AMLETO: A che destinate, signore, di grazia?

CAPITANO: Contro una parte della Polonia.

AMLETO: Chi le comanda, messere?

CAPITANO: Il nipote del vecchio re di Norvegia, Fortebraccio.

AMLETO: Va contro il grosso della Polonia, messere, o per qualche frontiera?

CAPITANO: Per dire il vero, e senza alcuna aggiunta, noi andiamo per guadagnare un piccolo pezzo di terra, che non ha in sé altro profitto che il nome. A pagar cinque ducati, cinque, io non lo vorrei in affitto, né esso renderà al re di Norvegia o al re polacco una somma più grossa, se fosse venduto in proprietà assoluta.

AMLETO: Ebbene, allora i Polacchi non lo difenderanno.

CAPITANO: Sì, è di già guernito.

AMLETO: Duemila anime e ventimila ducati non decideranno la questione di questa pagliuzza! Questa è la postema di molta ricchezza e pace, che di dentro si rompe, e non mostra causa alcuna di fuori perché l'uomo muoia... Umilmente vi ringrazio, messere.

CAPITANO: Dio sia con voi, messere.

ROSENCRANTZ: Vi piace che andiamo, messere?

AMLETO: Sarò con voi subito. Andate un poco innanzi.

 

(Escono tutti meno Amleto)

 

Come tutte le occasioni portan l'accusa contro di me, e spronano la mia tarda vendetta! Che è un uomo, se il suo principale bene e il principale acquisto del suo tempo non sia che dormire e nutrirsi? Un bruto, null'altro. Di certo colui che ci fece con un così ampio intendimento atti a guardare innanzi e indietro, non ci diede questa capacità e divina ragione perché ammuffisse in noi non usata. Ora, che sia bestiale oblio, o un codardo scrupolo di pensare troppo minutamente alla riuscita - un pensiero che, diviso in quarti, non ha che una parte di saggezza, e ben tre parti di codardia - io non so perché ancora io viva per dire "Questa cosa s'ha a fare" dal momento che io ho cagione, e volontà, e forza, e mezzi per farla. Esempi, grandi come la terra, m'esortano; testimone questo esercito, cosi ingente e costoso, guidato da un delicato e tenero principe, il cui spirito gonfiato da una divina ambizione fa le boccacce all'invisibile evento; esponendo ciò ch'è mortale e insicuro a tutto quel che la fortuna, la morte e il pericolo osano, foss'anche per un guscio d'uovo L'esser veramente grandi non è già agitarsi senza grande motivo, ma grandemente contendere per una pagliuzza, quando l'onore è in giuoco.

Come sto io dunque, che ho un padre ucciso, una madre macchiata, eccitamenti della mia ragione e del mio sangue, e lascio tutto dormire, mentre per mia vergogna vedo la morte imminente di ventimila uomini, che per una fantasia e un capriccio di fama vanno alle loro tombe come a letti, combattono per un pezzo di terra su cui i loro numeri non possono cimentare la loro causa, che non è sepolcro bastevole e ricettacolo per nascondere gli uccisi? Oh, da quest'ora innanzi i miei pensieri sian sanguinosi, o non valgo nulla!

 

(Esce)

 

 

 

SCENA QUINTA - Elsinore. Una stanza nel Castello

(Entrano la REGINA, ORAZIO, e un Gentiluomo)

 

REGINA: Non voglio parlare con lei.

GENTILUOMO: Ella è insistente, davvero fuor di senno; bisogna pure aver pietà del suo umore.

REGINA: Che cosa vorrebbe?

GENTILUOMO: Ella parla molto di suo padre, dice che ode che ci sono inganni nel mondo: e tossisce, e si batte il cuore; s'indispettisce per delle quisquilie, dice cose ambigue, che non han senso che a metà; i suoi discorsi son nulla, pure l'uso disordinato ch'ella ne fa, muove gli uditori a congetturare; essi cercano di azzeccarci, e rattoppano le parole che convengono ai loro propri pensieri; le quali, come le sue occhiate e i cenni e i gesti che le accompagnano, davvero farebbero pensare che ci potess'esser un pensiero, benché nulla di certo, pure assai di doloroso.

ORAZIO: Sarebbe bene che le si parlasse, perché ella può spargere pericolose congetture in animi disposti al male.

REGINA: Lasciate entrare. (Esce il Gentiluomo) (A parte) Alla mia anima ammalata, secondo che è la vera natura del peccato, ogni bagattella sembra il prologo di qualche grande disgrazia; così piena d'irrefrenabili sospetti è la colpa, ch'ella si scopre da sé per timore d'essere scoperta.

 

(Entra OFELIA)

 

OFELIA: Dov'è la bellissima maestà di Danimarca?

REGINA: Come va, Ofelia?

OFELIA (canta): Come posso scerner dagli altri l'amor tuo verace?

Sul cappello ha il nicchio, ha i sandali e il bordon di pace.

REGINA: Ahimè, dolce signora, che significa questa canzone?

OFELIA: Dite? anzi, vi prego, state attenta. (Canta) Egli è morto, ahi lasso, signora, egli è morto, ahi lasso!

Al suo capo una zolla d'erba, ai suoi piedi un sasso. Oh, oh!

REGINA: Ma via, Ofelia...

OFELIA: Di grazia, state attenta. (Canta) Un lenzuol come neve bianco...

 

(Entra il RE)

 

REGINA: Ahimè, guardate qui, mio signore.

OFELIA (canta):

... pien d'ogni dolce fiore; che alla tomba andò non pianto con onda di vero amore.

RE: Come state, graziosa signora?

OFELIA: Bene, Dio vi rimeriti! Dicono che la civetta era la figlia d'un fornaio. Signore, noi sappiamo che cosa siamo, ma non sappiamo che cosa possiamo essere... Dio sia alla vostra tavola!

RE: Una fantasia a proposito di suo padre.

OFELIA: Di grazia, non parliamo punto di questo, ma quando vi chiedono che cosa significa, dite voi questo: (Canta) Diman ricorre San Valentino; io, che son verginella, vengo per tempo alla sua finestra per esser la sua bella.

Sorse ei dal letto, mise il farsetto, l'uscio di stanza aprì; entrò la vergine, che mai più vergine di fuori non uscì.

RE: Graziosa Ofelia!

OFELIA: Davvero, là, senza bestemmiare, voglio finirla: (canta) O buon Gesù, misericordia, ohibò, e che vergogna!

Lo fanno i giovani, se ci si trovano; perdinci, abbian rampogna!

Dice la tosa, mi volevi sposa prima di stendermi sul dorso.

Egli risponde:

Io l'avrei fatto, pel sol ch'è in alto, se al mio letto non eri corsa.

RE: Da quanto tempo ella sta così?

OFELIA: Spero che tutto andrà bene. Dobbiamo aver pazienza, ma io non posso fare a meno di piangere, a pensare che abbian dovuto deporlo nella fredda terra. Mio fratello lo saprà; e così io vi ringrazio per il vostro buon consiglio. Avanti, il mio cocchio! Buona notte, signore; buona notte, dolci signore, buona notte, buona notte!

 

(Esce)

 

RE: Seguitela da vicino; fatele buona guardia, vi prego. (Esce Orazio) Oh, questo è il veleno d'un affanno profondo; deriva tutto dalla morte di suo padre... ed ora, vedi! O Gertrude, Gertrude, quando i dolori vengono, non vengono come solitarie vedette, ma in battaglioni! Prima, suo padre trucidato; poi, vostro figlio partito; ed egli stesso violentissimo autore del suo proprio giusto allontanamento: il popolo confuso, tumultuante e malsano nei suoi pensieri e mormorii, per la morte del buon Polonio, e noi abbiamo avuto poco senno a seppellirlo alla chetichella; la povera Ofelia divisa da se stessa e dal suo buon giudizio, senza il quale noi siamo simulacri, o mere bestie; infine, cosa grave come tutte queste insieme, suo fratello è segretamente venuto di Francia, si pasce del suo stupore, si tien tra le nuvole, e non manca di sussurratori che gli infettan le orecchie con pestilenti discorsi sulla morte di suo padre; nei quali il bisogno, fatto mendico di materia, non si periterà di accusare la nostra persona di orecchio in orecchio. O mia cara Gertrude, questo, come un cannone a mitraglia, in molte parti mi dà morte superflua.

 

(Un rumore di dentro)

 

REGINA: Ahimè, che rumore è questo?

RE: Dove sono i miei Svizzeri? Che guardino la porta.

 

(Entra un Messaggero)

 

Che c'è?

MESSAGGERO: Salvateci, mio signore; l'oceano, affacciandosi di là dal suo confine, non divora i piani con più impetuosa fretta di quella con cui il giovane Laerte, con una turba sediziosa, sopraffà i vostri ufficiali. La marmaglia lo chiama signore e, come se il mondo dovesse pur ora incominciare, dimenticata l'antichità, ignorato il costume, sanzioni e sostegni di ogni promessa, essi gridano: "Noi scegliamo, Laerte dev'essere re!". Berrette, mani e lingue applaudiscono fino alle nuvole: "Laerte dev'essere re, Laerte re!".

REGINA: Come allegramente gridano sulla falsa pista! (Un rumore di dentro) Oh, quest'è controvia, voi falsi cani danesi!

RE: Han rotto le porte.

 

(Entra LAERTE con altri)

 

LAERTE: Dov'è questo re? Signori, restate voi tutti di fuori.

TUTTI: No, lasciateci entrare.

LAERTE: Vi prego, datemi licenza.

TUTTI: Sì, sì.

 

(Si ritirano fuori della porta)

 

LAERTE: Vi ringrazio: guardate la porta. O tu, infame re, dammi mio padre!

RE: Con calma, buon Laerte.

LAERTE: Quella goccia di sangue ch'è calma mi proclama bastardo, grida cornuto al padre mio, pone il marchio della bagascia proprio qui, in mezzo alla casta fronte immacolata della mia madre fedele.

RE: Qual è la causa, Laerte, che la tua ribellione appare così gigantesca? Lasciatelo, Gertrude: non temete per la nostra persona; una tale divinità ricinge un re, che il tradimento non può che adocchiare ciò che vorrebbe, poco attua della sua volontà. Dimmi, Laerte, perché tu sei così infuriato. Lasciatelo, Gertrude. Parla giovanotto.

LAERTE: Dov'è mio padre?

RE: Morto.

REGINA: Ma non per opera sua.

RE: Lasciate che chieda tutto ciò che vuole.

LAERTE: Come venne a morte? io non voglio esser giocato. All'inferno, la fedeltà! voti al più nero diavolo! coscienza e grazia, ai più profondo abisso! Io sfido la dannazione. In questo punto io sto: che dell'uno e dell'altro mondo io non ho cura, avvenga che può; solo voglio la più completa vendetta per mio padre.

RE: Chi v'arresterà?

LAERTE: La mia volontà, non quella del mondo intiero; e quanto ai miei mezzi, io ne farò così buon uso, che andran lontano con poco.

RE: Buon Laerte, se voi desiderate conoscere la storia certa del vostro caro padre, è egli scritto nella vostra vendetta, che, alla rinfusa, voi torrete amico e nemico, chi vince e chi perde?

LAERTE: Solo i suoi nemici.

RE: Li conoscete voi allora?

LAERTE: Ai suoi buoni amici aprirò le braccia larghe così; e, simile al buon pellicano che dona la vita, li pascerò del mio sangue.

RE: Ebbene, ora parlate come un buon figlio e un vero gentiluomo.

Ch'io sia incolpevole della morte di vostro padre, e ne sia molto sensibilmente afflitto, ciò apparirà tanto lampante al vostro giudizio quanto il giorno al vostro occhio.

UNA VOCE (di dentro): Lasciatela entrare.

LAERTE: Ebbene! che rumore è questo?

 

(Entra OFELIA)

 

O calore, secca le mie cervella! lagrime sette volte salate, bruciate tutto il senso e la virtù de' miei occhi! Per il cielo, la tua pazzia sarà pagata a peso, finché la bilancia trabocchi dalla parte nostra. O rosa di maggio! Cara fanciulla, buona sorella, dolce Ofelia! O cieli!

è egli possibile che il senno d'una fanciulla sia mortale quanto la vita d'un vecchio? Il vincolo naturale s'affina nell'amore, e dove è fino esso manda qualche prezioso pegno di sé dietro alla cosa amata.

OFELIA (canta):

Sulla bara l'han messo a viso nudo; lerì lerà trallerallera; sulla sua fossa il pianto è piovuto...

Statevi bene, mia colomba!

LAERTE: Se tu avessi il tuo senno, e mi spronassi alla vendetta, non potresti commuovermi tanto.

OFELIA: Voi dovete cantare: "Giù giù e chiamatelo giù giù". Oh, come la ruota dell'arcobaleno ci si accorda! E' il maggiordomo infedele che rubò la figlia del suo padrone.

LAERTE: Questo vaneggiare è più che un parlar da senno.

OFELIA: Ecco del rosmarino, questo è per la rimembranza; vi prego, amore, ricordate; ed ecco delle viole, queste per i pensieri.

LAERTE: Un insegnamento nella pazzia: i pensieri e la rimembranza erano a proposito.

OFELIA: Ecco del finocchio per voi, e dell'aquilegia; ecco della ruta per voi, e qui ce n'è un po' per me; noi possiamo chiamarla erba di contrizione le domeniche; oh voi dovete portar la vostra ruta in un modo diverso. Ecco una margherita, vorrei darvi qualche violetta, ma appassirono tutte quando mio padre morì; dicono che abbia fatto una buona fine... (Canta) Ché il vago dolce Ròbin è tutta la mia gioia.

LAERTE: La melanconia e l'afflizione, la sofferenza, l'inferno stesso, ella converte in grazia e leggiadrìa.

OFELIA (canta):

E non ritornerà mai?

E non ritornerà mai?

No, no, egli è morto, la fossa sia il tuo conforto, egli non tornerà mai.

La sua bara era bianca neve, il suo capo color del lino; egli è spento, egli è spento, noi gittiam via il lamento:

gli perdoni l'Amor Divino.

E a tutte l'anime cristiane, io prego Dio. Dio sia con voi!

 

(Esce)

 

LAERTE: Vedete voi questo, o Dio?

RE: Laerte, io debbo prender parte al vostro affanno, o voi mi negate un diritto. Andate pur in disparte, scegliete quali più savi vostri amici volete, ed essi udranno e giudicheranno fra me e voi. Se per via diretta o collaterale essi ci trovan toccati, noi daremo il nostro regno, la nostra corona, la nostra vita e tutto ciò che noi chiamiamo nostro, a voi come soddisfazione; se no, contentatevi di prestarci la vostra pazienza, e noi ci affaticheremo insieme con l'anima vostra per darle il debito contentamento.

LAERTE: Così sia: il modo della sua morte, il suo oscuro seppellimento, nessun trofeo, spada, né insegna sopra le sue ossa, nessun nobile rito, né pompa solenne, gridano per essere uditi come fosse dal cielo alla terra, ch'io debba chiederne conto.

RE: Così farete; e dove è l'offesa là cada la grande scure. Di grazia, venite con me.

 

SCENA SESTA - Un'altra stanza nel Castello.

 

Entrano ORAZIO e un Servo)

 

ORAZIO: Chi son costoro che vogliono parlare con me?

SERVO: Gente di mare, signore; dicono d'aver lettere per voi.

ORAZIO: Lasciateli entrare. (Esce il Servo) Io non so da che parte del mondo mi si mandi a salutare, se non dal principe Amleto.

 

(Entrano i Marinai)

 

MARCELLO: Dio vi benedica, messere.

ORAZIO: Ch'egli benedica anche te.

MARCELLO: Egli lo farà, messere, se gli piaccia. Ecco una lettera per voi, messere - viene dall'ambasciatore ch'era diretto in Inghilterra - se il vostro nome è Orazio, come mi si dice che sia.

ORAZIO (legge la lettera): "Orazio, quando tu avrai dato uno sguardo a questa lettera, da' a questi uomini modo di pervenire al re: essi han lettere per lui. Prima che noi fossimo stati due giorni in mare, una nave corsara armata in guisa assai guerriera ci diede la caccia.

Trovandoci troppo lenti di vela, noi ci vestimmo d'un forzato valore, e nell'arrembaggio io saltai loro a bordo; all'istante essi si scostarono dalla nostra nave, così che io solo divenni loro prigioniero. Essi m'han trattato come ladroni misericordiosi; ma sapevano quel che facevano: io son per rendere loro un buon servigio.

Fa' che il re abbia le lettere ch'io ho mandate; e recati tu da me con tanta prestezza con quanta tu fuggiresti la morte. Io ho parole da dirti all'orecchio che ti faranno ammutolire: eppure son troppo leggere per il calibro della cosa. Questa buona gente ti condurrà dove io sono. Rosencrantz e Guildenstern continuano il loro viaggio per l'Inghilterra; di loro ho molto da dirti. Addio. Quegli che tu sai tuo Amleto".

Venite, io vi darò libero corso per queste vostre lettere; e fatelo quanto più presto, così che possiate guidarmi a colui da cui le avete portate.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SETTIMA - Un altra stanza nel Castello

(Entrano il RE e LAERTE)

 

RE: Ora la vostra coscienza deve suggellare la mia assoluzione, e voi dovete pormi nel vostro cuore come amico, dacché avete udito, e con orecchio avvisato, che colui che ha trucidato il vostro nobile padre attentava alla mia vita.

LAERTE: Ciò bene appare; ma ditemi perché voi non procedeste contro questi misfatti, così delittuosi e così capitali per loro natura, come dalla vostra sicurtà, dalla grandezza, dalla saggezza, e da ogni altra cosa voi eravate potentemente mosso.

RE: Oh, per due speciali ragioni, che possono a voi forse parere di poco nerbo, ma pure per me sono forti. La regina sua madre vive quasi pei suoi sguardi; e quanto a me - mia virtù o mia maledizione, sia l'una o l'altra - ella è in tal congiunzione con la mia vita ed anima, che come la stella non si muove se non nella sua sfera, io non potrei esser mosso se non da lei. L'altro motivo, perché io non possa venire a una pubblica resa di conti, è il grande amore che la gente comune gli porta; che inzuppando tutti i suoi difetti nella loro affezione, come la sorgente che muta il legno in pietra, convertirebbero le sue catene in grazie; così che le mie frecce, dall'asticciola troppo leggera per un vento così forte, si sarebbero volte nuovamente al mio arco, e non dove io le avessi dirette.

LAERTE: E così io ho perduto un nobile padre; e ho una sorella ridotta a termini disperati, il cui pregio, se le lodi possono tornare indietro, lanciava la sfida sul vertice di tutta la nostra età per le sue perfezioni. Ma la mia vendetta verrà.

RE: Non guastatevi i sonni per questo: voi non dovete pensare che noi siam fatti di sostanza così fiacca e inerte, da lasciarci scuotere la barba dal pericolo e crederlo un passatempo. Fra breve udrete dell'altro; io amavo vostro padre, e noi amiamo noi stessi; ciò, spero, varrà a farvi intendere...

 

(Entra un Messaggero che reca lettere)

 

Ebbene! quali nuove?

MESSAGGERO: Lettere, mio signore, da Amleto; questa per la Vostra Maestà; questa per la regina.

RE: Da Amleto? chi le ha portate?

MESSAGGERO: Certi marinai, mio signore, dicono; io non li ho veduti; mi sono state date da Claudio; egli le ha ricevute da colui che le ha portate.

RE: Laerte, voi le udrete... Lasciateci. (Esce il Messaggero. Egli legge) "Alto e possente, voi dovete sapere ch'io son deposto ignudo sul vostro reame. Domani io chiederò licenza di vedere i vostri occhi regali e allora, chiedendone prima perdono a voi, racconterò l'occasione del mio subitaneo e più strano ritorno. Amleto". Che vuol dire questo? Son tutti gli altri ritornati? O è questo un inganno, e non c'è nulla di vero?

LAERTE: Conoscete la mano?

RE: E' il carattere di Amleto. "Ignudo!". E in un poscritto qui, egli dice "solo". Potete voi consigliarmi?

LAERTE: Io mi ci perdo, mio signore. Ma lasciatelo venire. Il pensiero di poter vivere per dirgli in faccia: "Tu hai fatto questo", mi scalda la sofferenza che ho nel cuore.

RE: Se così è, Laerte - poiché, come può esser così? come altrimenti?

- vi lascerete guidare da me?

LAERTE: Sì, mio signore; purché voi non mi costringiate alla pace.

RE: Alla tua pace. S'egli è ora tornato, quasi riprendendosi dal suo viaggio, ed egli intende di non più intraprenderlo, io lo indurrò ad una impresa ora matura ne' miei disegni, per la quale egli non potrà a meno di cadere; e per la sua morte non spirerà neppure un soffio di biasimo, ma la sua stessa madre assolverà lo stratagemma, e lo chiamerà un accidente.

LAERTE: Mio signore, io mi lascerò guidare; e tanto più, se voi poteste divisarla così ch'io possa esser lo strumento.

RE: Questo cade a proposito. Di voi s'è parlato assai dopo il vostro viaggio, e questo in presenza d'Amleto, per una qualità in cui dicono che voi risplendete; tutte le vostre doti insieme non gli han strappato tanta invidia quanto quest'una, e questa, al mio parere, del rango men degno.

LAERTE: Quale dote è questa, mio signore?

RE: Proprio un nastro sulla berretta della giovinezza, e tuttavia necessario; perché alla giovinezza non meno s'addice la leggera e spontanea livrea ch'essa porta, che alla tranquilla vecchiaia i suoi zibellini e le sue gramaglie, dinotanti prosperità e gravità. Or son due mesi fu qui un gentiluomo di Normandia; io stesso ho veduto, e militato contro, i Francesi, ed essi stan bene a cavallo; ma questo valoroso ci aveva una stregoneria; egli diveniva una cosa sola con la sua sella e portava il suo cavallo a far tali meraviglie, come s'egli fosse stato incorporato e connaturato col generoso animale, di tanto sorpassò il mio pensiero, che io, nell'inventar fughe e giuochi, resto al di sotto di quel ch'egli fece.

LAERTE: Era un Normanno?

RE: Un Normanno.

LAERTE: Per la mia vita, Lamord.

RE: Proprio lui.

LAERTE: Lo conosco bene; egli è il gioiello davvero, e la gemma di tutta la nazione.

RE: Egli fece testimonianza dei vostri meriti, e diede un tal ragguaglio di voi come d'un maestro nell'arte e nella pratica della vostra difesa, e nell'uso dello stocco più specialmente, ch'egli gridò, sarebbe uno spettacolo davvero se uno potesse starvi a paro; gli schermidori della loro nazione, egli giurò, non avevano attacco né guardia, né occhio, se voi eravate l'avversario. Messere, questo suo ragguaglio avvelenò Amleto talmente con la sua invidia ch'egli non sapeva far altro che desiderare e invocare che voi ritornaste immediatamente, per battersi con voi. Ora, da questo...

LAERTE: Che cosa da questo, mio signore?

RE: Laerte, vostro padre v'era caro? o siete voi simile alla pittura d'un dolore, un volto senza cuore?

LAERTE: Perché chiedete questo?

RE: Non ch'io pensi che voi non amaste vostro padre, ma perch'io so che all'amore dà principio il tempo, e perché vedo, per casi provati, che il tempo ne modifica la scintilla e il fuoco. Vive entro la fiamma stessa dell'amore una sorta di stoppino o lucignolo che la fa scemare; e non v'è cosa che sia sempre della stessa bontà, perché la bontà, divenendo pletorica, muore del suo proprio eccesso; quel che vorremmo fare dovremmo farlo quando vorremmo; perché questo "vorremmo" muta, e ha tante diminuzioni e indugi quante son lingue, mani, accidenti; e allora questo "dovremmo" è come un prodigo sospiro, che dando sollievo fa male. Ma veniamo al vivo dell'ulcera: Amleto ritorna: che cosa sareste disposto a fare per mostrarvi figlio di vostro padre in fatti più che in parole?

LAERTE: A tagliargli la gola in chiesa.

RE: Nessun luogo, infatti, dovrebbe dare asilo all'assassinio; la vendetta non dovrebbe avere alcun confine. Ma, buon Laerte, volete voi far questo, tenervi chiuso nella vostra camera; Amleto ritornato saprà che voi siete rivenuto in patria; noi gli metteremo attorno di quelli che loderanno la vostra eccellenza, e stenderanno una doppia vernice sulla fama che il Francese vi diede; vi faranno, alla fine, incontrare, e scommetteranno sui vostri capi; egli, essendo remissivo, generosissimo e libero da ogni macchinazione, non osserverà i fioretti, così che agevolmente, o con facile trucco, voi potete scegliere una spada non smussata, e con un colpo mancino ripagarlo per vostro padre.

LAERTE: Io lo farò, e per questo scopo ungerò la mia spada. Io comprai un unguento da un ciarlatano, così mortale che, appena intingendovi un coltello, dov'esso trae sangue, il più prezioso cataplasmo, raccolto da tutti i semplici che han virtù sotto la luna, non può salvare dalla morte l'essere che ne sia stato appena graffiato; io toccherò la mia punta con questo contagio cosicché, s'io lo scortico leggermente, possa esser la morte.

RE: Pensiamoci ancora un poco; pensiamo quale convenienza di tempo e di mezzi ci secondi nel nostro piano. Se questo fallisse, e la nostra intenzione trasparisse per la nostra inettitudine, sarebbe meglio non provarcisi; perciò questo disegno dovrebbe avere un appoggio o sostituto, che potesse reggere, se questo andasse per aria alla prova.

Adagio! vediamo: noi faremo una solenne scommessa sulle vostre abilità... Ci sono! quando nei vostri attacchi voi avrete caldo e sete - e voi fate i vostri assalti più violenti a questo scopo - ed egli chiede una bevanda, io gli farò presentare un calice per l'occasione, per un sorso del quale, se egli per avventura scampasse alla vostra stoccata avvelenata, il nostro proposito possa riuscire. Ma aspettate!

che rumore?...

 

(Entra la REGINA)

 

Ebbene, dolce regina?

REGINA: Una sventura cammina sui calcagni dell'altra, così veloci s'inseguono. Vostra sorella è annegata, Laerte.

LAERTE: Annegata! Oh, dove?

REGINA: C'è un salice che cresce di traverso sul ruscello, e specchia le sue foglie canute nella vitrea corrente: d'esso ella fece fantastiche ghirlande di ranuncoli, ortiche, margherite e quei lunghi fiori color di viola a cui gli sboccati pastori danno un nome più grossolano, ma le nostre fredde fanciulle le chiamano dita di morto.

Qui, arrampicandosi ella per appendere agli spioventi rami le sue coroncine d'erbe, un vimine maligno si spezzò; e giù i suoi erbosi trofei ed ella stessa caddero nel piangente ruscello. Le sue vesti si gonfiarono e a guisa di sirena per un po' la sostennero, e intanto ella cantava frammenti di vecchie arie, come una inconsapevole del suo pericolo, o come una creatura nativa e familiare di quell'elemento; ma non poté passare gran tempo, che i suoi vestiti, pesanti per ciò che avevano imbevuto, trassero la povera infelice dal suo canto melodioso a una fangosa morte.

LAERTE: Ahimè, dunque ella è annegata!

REGINA: Annegata, annegata.

LAERTE: Già tropp'acqua hai tu, povera Ofelia, e perciò io mi vieto le lagrime; ma pure è il nostro vezzo; la natura serba il suo costume, dica la vergogna ciò che vuole; quando queste saran passate, non avrò più nulla della donna in me... Addio, mio signore; ho in me un discorso di fuoco, che vorrebbe pur divampare, se non che questa mia debolezza lo spegne.(Esce)

RE: Seguiamolo, Gertrude; quanto ho avuto da fare per calmar la sua furia! Ora temo che questa cosa non le dia di nuovo l'aire; perciò seguiamolo.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO QUINTO

 

SCENA PRIMA - Un camposanto

(Entrano due Becchini)

 

PRIMO BECCHINO: S'ha a seppellirla in sepoltura cristiana quando ella volontariamente cerca la sua propria salvazione?

SECONDO BECCHINO: Io ti dico di sì; e perciò fa' la sua tomba subito; il giudice ha esaminato il suo caso, e ha dato sentenza di sepoltura cristiana.

PRIMO BECCHINO: Come può essere, a meno ch'ella non si sia annegata per legittima difesa?

SECONDO BECCHINO: Ebbene, questa è la sentenza.

PRIMO BECCHINO: Dev'essere 'se offendendo'; non può essere altrimenti.

Perché questo è il punto, s'io m'annego scientemente, ciò implica un atto; ed un atto ha tre rami; cioè agire, fare, ed eseguire: 'arga', ella s'è annegata scientemente.

SECONDO BECCHINO: Sì, ma ascoltate, bonomo d'uno scavatore...

PRIMO BECCHINO: Datemi licenza. Qui c'è l'acqua: bene; qui sta l'uomo:

bene; se l'uomo va a quest'acqua e s'annega, gli è, voglia o non voglia, che ci va; state attento a questo? Ma se l'acqua viene a lui, e l'annega, egli non s'annega da sé: 'arga', colui che non è colpevole della propria morte non accorcia la propria vita.

SECONDO BECCHINO: Ma è questa la legge?

PRIMO BECCHINO: Sì, diamine; la legge d'inchiesta del giudice.

SECONDO BECCHINO: Volete sapere la verità? se questa non fosse stata una gentildonna, sarebbe stata sepolta fuori dalla sepoltura cristiana.

PRIMO BECCHINO: Ebbene, tu l'hai detto, e tanto più è peccato che ai grandi si permetta in questo mondo di annegarsi o impiccarsi più che al loro prossimo cristiano. Vieni, mia vanga. Non ci son gentiluomini antichi da quanto giardinieri, affossatori e becchini; essi continuano il mestiere d'Adamo.

SECONDO BECCHINO: Era egli un gentiluomo?

PRIMO BECCHINO: Ei fu il primo che mai portasse arme.

SECONDO BECCHINO: Evvia, ch'egli non n'aveva punte.

PRIMO BECCHINO: Che, sei tu un pagano? Come intendi tu la Scrittura?

La Scrittura dice che Adamo zappò; poteva zappare se non era armato delle sue braccia? Ti voglio fare un'altra domanda; se non mi rispondi a proposito, confessati e...

SECONDO BECCHINO: Di' su.

PRIMO BECCHINO: Chi è che costruisce più forte del muratore, del carpentiere o del falegname?

SECONDO BECCHINO: Quegli che fa le forche, perché quella fabbrica sopravvive a mille inquilini.

PRIMO BECCHINO: Mi piace assai il tuo spirito, in fede mia; le forche van bene, ma come van bene? vanno bene per quelli che fanno male; ora, tu fai male a dire che le forche son costruite più forte della chiesa:

'arga', le forche possono andar bene per te. Riprovaci, via.

SECONDO BECCHINO: Chi costruisce più forte d'un muratore, d'un carpentiere o d'un falegname?

PRIMO BECCHINO: Sì, dimmi questo, e levati la cavezza.

SECONDO BECCHINO: Diamine, ora te lo dico.

PRIMO BECCHINO: Su!

SECONDO BECCHINO: Per la messa, non lo so dire.

 

(Entrano AMLETO e ORAZIO, in distanza)

 

PRIMO BECCHINO: Non tartassartici più il cervello, perché l'asino tardo non corregge il passo per le battiture, e quando vi si fa questa domanda un'altra volta, dite "un becchino", le case ch'egli fa durano fino al giorno del Giudizio. Va', recati da Gianni, e portami un boccale di birra. (Esce il Secondo Becchino. Il Primo Becchino zappa e canta):

Da giovin quand'amavo, amavo, pareami dolce assai a scorciare il tempo per mio vantaggio, oh, codesti eran guai.

AMLETO: Non ha costui alcun sentimento del suo mestiere, ch'egli canta mentre scava una fossa?

ORAZIO: Il costume l'ha reso in lui una caratteristica d'indifferenza.

AMLETO: E' proprio così, la mano che poco lavora ha il tatto più delicato.

PRIMO BECCHINO (canta):

Ma l'età col furtivo passo nell'ugne m'ha afferrato, e m'ha imbarcato per quel paese, come se tal non fossi stato.

 

(Trae fuori un teschio)

 

AMLETO: Quel teschio conteneva una lingua, e poteva cantare una volta; come lo scaraventa per terra il briccone, quasi fosse la mandibola di Caino, che fece il primo assassinio. Questa potrebbe esser la zucca d'un politicante, che quest'asino ora mette in mezzo, d'uno che avrebbe saputo convenire Dio, non è vero?

ORAZIO: Potrebbe essere, mio signore.

AMLETO: O d'un cortigiano che sapeva dire "Buon giorno, dolce signore!

Come stai, buon signore?". Questo potrebbe essere Messer Tal dei Tali, che lodava il cavallo di Messer Talaltro, quando voleva farselo donare, no?

ORAZIO: Certo, mio signore.

AMLETO: Ma proprio così; ed ora appartiene a Sua Eccellenza il Verme; senza ganascia, e gli tartassa l'occipite la zappa d'un becchino. Ecco una bella rivoluzione, se noi avessimo l'abilita di vederla. Queste ossa non sono costate tanto a generarle che per servire a giocarci alle bocce? Le mie mi dolgono a pensarci.

PRIMO BECCHINO (canta):

Un piccone e un badile, un badile, e un funebre lenzuolo; per tal ospite è bene d'aprire una fossa nel suolo.

 

(Getta su un altro teschio)

 

AMLETO: Eccone un altro; perché non potrebbe questo essere il teschio d'un avvocato? Dove sono le sue sottigliezze ora, i suoi cavilli, le sue cause, i suoi titoli di proprietà e i suoi espedienti? perché permette egli ora che questo zotico manigoldo gli percuota la zucca con una sudicia pala, e non gli parla d'una denuncia per lesioni? Hem!

Costui fu forse al tempo suo un gran compratore di terre, con le sue obbligazioni, i suoi termini, le sue caparre, le sue doppie garanzie, i suoi riscatti; è questo il termine dei suoi termini, è il riscatto dei suoi riscatti, d'aver la sua bella zucca piena di sterminata immondizia? le sue garanzie, e doppie garanzie anche, non gli garantiscono le sue compere più che per la lunghezza e larghezza d'un paio di pergamene? Gli stessi titoli di cessione delle sue terre a malapena entrerebbero in questa scatola; e deve il proprietario stesso non averne di più, eh?

ORAZIO: Non un dito di più, mio signore.

AMLETO: Non è la pergamena fatta di pelli di pecora?

ORAZIO: Sì, mio signore, e di pelli di vitelli anche.

AMLETO: Son pecore e buaccioli coloro che cercano di codeste sicurtà.

Voglio parlare a costui. Di chi è questa fossa, brav'uomo?

PRIMO BECCHINO: Mia, signore... (Canta) Per tal ospite è bene d'aprire una fossa nel suolo.

AMLETO: Io credo che sia tua, perché ci capisci dentro.

PRIMO BECCHINO: Voi capite lì fuori, e perciò non è vostra; in quanto a me, io non ci capisco dentro eppure è mia.

AMLETO: Tu ci capisci dentro, ché ci stai dentro, e dici ch'è tua; ma non capisci che è per i morti, non per i vivi.

PRIMO BECCHINO: Ma i morti non capiscono; e siccome è un non capire in sé, eccovela di rimbalzo.

AMLETO: Per che uomo stai scavando?

PRIMO BECCHINO: Per nessun uomo, signore.

AMLETO: Che donna, dunque?

PRIMO BECCHINO: Per nessuna, nemmeno.

AMLETO: Chi ci deve esser sepolto?

PRIMO BECCHINO: Una che fu una donna, signore; ma, pace all'anima sua, ella è morta.

AMLETO: Com'è positivo il briccone! dobbiam parlare con le seste, o gli equivoci ci rovineranno. Per il Signore, Orazio, da tre anni vengo notando questo; l'età nostra è divenuta così squisita che la punta del piede del contadino s'avvicina tanto al calcagno del cortigiano, che gli scortica i geloni. Quant'è che tu sei un becchino?

PRIMO BECCHINO: Fra tutti i giorni dell'anno, io mi ci misi nel giorno in cui il nostro ultimo re Amleto sconfisse Fortebraccio.

AMLETO: Quanto tempo è?

PRIMO BECCHINO: Non lo sapete voi? ogni scemo lo può dire; fu quel giorno stesso che il giovine Amleto nacque; quello ch'è pazzo, ed è stato mandato in Inghilterra.

AMLETO: Oh, diamine; perché l'hanno mandato in Inghilterra?

PRIMO BECCHINO: Ebbene, perché era pazzo; ei ricupererà il senno là; o se non lo ricupera non importa gran che, là.

AMLETO: Perché?

PRIMO BECCHINO: Non lo si scorgerà in lui, là; là gli uomini son pazzi quanto lui.

AMLETO: Come divenne pazzo?

PRIMO BECCHINO: Assai stranamente dicono.

AMLETO: Come "stranamente"?

PRIMO BECCHINO: Affé, proprio perdendo il senno.

AMLETO: E la ragione?

PRIMO BECCHINO: La ragione? Ebbene, qui in Danimarca; io sono stato becchino qui, da uomo e da ragazzo, per trent'anni AMLETO: Quanto tempo può restare sottoterra un uomo prima di putrefarsi?

PRIMO BECCHINO: Affé, s'egli non è putrefatto prima di morire ché noi abbiamo molti cadaveri impestati a questi dì, che a mala pena resistono a esser sepolti - ei vi durerà un otto o nove anni; un conciatore dura nove anni.

AMLETO: Perché più degli altri?

PRIMO BECCHINO: Ebbene, messere, la sua cotenna è così conciata dal suo mestiere, che tiene fuori l'acqua per gran tempo, e l'acqua è una gran corruttrice di quel figlio di puttana d'un cadavere. Ecco ora un teschio che è stato in terra ventitré anni.

AMLETO: Di chi era?

PRIMO BECCHINO: D'un pazzo figlio di puttana gli era; di chi pensate che fosse?

AMLETO: Eh, non so.

PRIMO BECCHINO: La peste a lui, pazzo furfante! Ei mi versò una fiasca di vino del Reno sul capo una volta. Proprio questo teschio messere, era, messere, il teschio di Yorick, il buffone del re.

AMLETO: Questo?

PRIMO BECCHINO: Proprio questo.

AMLETO: Fammi vedere. (Prende il teschio) Ahimè, povero Yorick! Io lo conobbi, Orazio; una persona d'infinita arguzia, d'una fantasia eccellentissima; egli m'ha portato sul dorso mille volte; ed ora, come nella mia immaginazione, ne aborrisco! lo stomaco mi si rivolta... Qui pendevano quelle labbra ch'io ho baciato non so quante volte. Dove sono le vostre beffe, ora? le vostre capriole? le vostre canzoni? i vostri lampi d'allegria che usavano far scoppiar dalle risa la tavola?

non un solo ora, per farsi beffe del vostro proprio ghigno? Tutto sganasciato? Ora andate alla camera di madonna, e ditele, che si dipinga pure dello spessore d'un pollice, a questo aspetto conviene ch'ella si riduca; fatela ridere di questo... Ti prego, Orazio, dimmi una cosa.

ORAZIO: Che cosa, mio signore?

AMLETO: Pensi tu che Alessandro avesse questa apparenza sottoterra?

ORAZIO: Proprio questa.

AMLETO: E quest'odore? puah! (Depone il teschio)

ORAZIO: Proprio questo, mio signore.

AMLETO: A quali vili usi noi possiam tornare, Orazio! Perché non potrebbe l'immaginazione seguire la nobile polvere d'Alessandro, fino a trovarla a turar il buco d'una botte?

ORAZIO: Sarebbe una considerazione troppo ricercata, questa.

AMLETO: No, affé, nient'affatto; ma per seguirlo colà con sufficiente moderazione, e guidati dalla probabilità, a questo modo: Alessandro morì, Alessandro fu seppellito, Alessandro torna alla polvere, la polvere è terra, della terra noi facciam creta; e perché con quella creta in cui egli fu convertito, non potrebbero turare un barile di birra?

Il gran Cesare, in cenere converso, tura un buco ed il vento tien lontano; la creta che tremar fe' l'universo, che debba far da schermo al tramontano!

ma adagio! ma adagio! tiriamoci in disparte: ecco il re.

 

(Entrano Preti in corteo col cadavere di Ofelia; e poi LAERTE, il RE, la REGINA e il Seguito)

 

La Regina, i cortigiani; chi è ch'essi seguono? e con riti così monchi? Questo indica che il cadavere ch'essi seguono distrusse la propria vita con disperata mano; era persona d'un certo rango.

Nascondiamoci un poco, e osserviamo. (Va in disparte con Orazio)

LAERTE: Quale altra cerimonia?

AMLETO: Questi è Laerte, un nobilissimo giovine: osserva.

LAERTE: Quale altra cerimonia?

PRETE: Le sue esequie sono state di tanto ampliate di quanto noi abbiamo autorità; la sua morte è stata dubbiosa; e, se non fosse che un gran comando prevale sulla regola, ella avrebbe dovuto albergare in terreno non consacrato fino all'ultima tomba; in luogo di caritatevoli preghiere, cocci, selci e ciottoli dovrebbero esser gettati su di lei; pure, qui le si concedono la sua ghirlanda virginale, la sua infiorata da fanciulla, e l'accompagnamento con campana e funerale.

LAERTE: Non si deve fare nulla più?

PRETE: Nulla più; noi profaneremmo l'ufficio dei morti cantando a lei un solenne requie e tale riposo quale alle anime dipartite in pace.

LAERTE: Deponetela sulla terra; e dalla sua vaga e incontaminata carne possan spuntare le viole! Io ti dico, prete villano, la mia sorella sarà un angelo officiante quando tu giacerai ululando.

AMLETO: Come, la vaga Ofelia?

REGINA: Fiori ad un fiore; addio! (Spargendo fiori) Speravo che tu potessi essere la sposa del mio diletto Amleto; pensavo che avrei adornato il tuo letto di sposa, dolce fanciulla, e che non avrei cosparso la tua tomba.

LAERTE: Oh, triplice affanno cada dieci volte triplice su quel maledetto capo la cui malvagia azione ti privò del tuo nobilissimo senno. Trattenete un momento la terra finché io l'abbia presa ancora una volta fra le mie braccia. (Balza nella fossa) Ora ammucchiate la vostra polvere sul vivo e sulla morta, finché di questo luogo piano abbiate fatto un monte, che superi l'antico Pelio, o il capo celeste dell'azzurro Olimpo.

AMLETO venendo innanzi): Chi è colui il cui dolore si veste di una tale violenza? la cui dolente frase evoca le erranti stelle, e le fa star ferme come ascoltatori feriti dallo stupore? Questo son io, Amleto di Danimarca.

 

(Balza dietro Laerte)

 

LAERTE: Il diavolo prenda l'anima tua!

 

(Si azzuffa con lui)

 

AMLETO: Tu non preghi bene. Di grazia, toglimi le tue dita dalla gola; perché, sebbene io non sia irascibile e temerario, pure ho in me qualcosa di pericoloso, che la tua saggezza farebbe bene a temere.

Togli via la mano!

RE: Separateli!

REGINA: Amleto, Amleto!

TUTTI: Signori !

ORAZIO: Mio buon signore, siate tranquillo.

 

(Alcuni del Seguito li separano, ed essi escono dalla fossa)

 

AMLETO: Ebbene, io combatterò con lui su questo tema finché le mie palpebre non batteranno più.

REGINA: O figlio mio quale tema?

AMLETO: Io amavo Ofelia; quarantamila fratelli non potrebbero con tutta la quantità del loro amore, giungere alla mia somma... Che vuoi tu fare per lei?

RE: Oh egli è pazzo, Laerte.

REGINA: Per amor di Dio, compatitelo.

AMLETO: Per le piaghe di Cristo, mostrami quel che tu vuoi fare; vuoi tu piangere? vuoi tu combattere? vuoi tu digiunare? vuoi farti a brani? vuoi tu tracannare aceto? mangiar un coccodrillo? Io lo farò.

Vieni qui tu per gemere? per svergognarmi saltando nella sua fossa?

fatti seppellire vivo con lei, e così farò io: e se tu ciarli di monti, lascia che gettino milioni di jugeri su di noi, finché il nostro suolo, abbruciacchiandosi il cranio contro la zona ardente, faccia sembrar l'Ossa una verruca! Evvia, se tu vocerai, io strepiterò meglio di te.

REGINA: Questa è mera pazzia; e così per un po' l'accesso opererà su di lui: fra breve, paziente come la colomba quando è uscita dal guscio la sua bionda nidiata, il suo silenzio s'accascerà illanguidito.

AMLETO: Udite, messere; qual è la ragione che voi mi trattate così? Io vi ho sempre amato. Ma non importa; che Ercole stesso faccia quel che può, il gatto deve miagolare, e il cane aver la sua giornata.

 

(Esce)

 

RE: Ti prego, buon Orazio, seguilo. (Esce Orazio. A Laerte) Fortificate la vostra pazienza col nostro discorso di iersera; noi faremo che la cosa venga subito alla prova... Buona Gertrude, fate che qualcuno guardi vostro figlio. Questa tomba avrà un perenne monumento; ben presto noi vedremo un'ora di quiete; fin allora, procediamo con calma.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Una sala nel Castello

(Entrano AMLETO e ORAZIO)

 

AMLETO: Basta di ciò, messere, ora vedrete il resto; voi ricordate tutte le circostanze?

ORAZIO: Se le ricordo, mio signore!

AMLETO: Messere, nel mio cuore c'era una sorta di combattimento, che non mi lasciava dormire; mi pareva di giacere peggio degli ammutinati nei ceppi. Impulsivamente, e lodata ne sia l'impulsività, riconosciamolo pure, la nostra avventatezza qualche volta ci serve bene quando le nostre trame profonde falliscono, e questo ci dovrebbe insegnare che c'è una divinità che dà forma ai nostri fini, comunque noi li abbozziamo...

ORAZIO: Questo è certissimo.

AMLETO: Su dalla mia cabina, con la mia schiavina indosso a guisa di sciarpa, all'oscuro li andai cercando a tentoni; trovai quel che volevo, misi le mani sul plico e finalmente mi ritirai alla mia stanza nuovamente; facendomi tanto ardito, i miei timori dimenticando le buone maniere, da dissuggellare la loro solenne commissione, nella quale io trovai, Orazio - o regale furfanteria! - un ordine preciso, lardellato di molte e diverse speci di ragioni concernenti la salvezza del re di Danimarca, e anche del re d'Inghilterra, con, oh! tali spauracchi e fantasmi s'io continuassi a vivere, che, alla prima lettura, senza torre alcun indugio, no, nemmeno per aspettare che s'affilasse la scure, mi si dovesse mozzare il capo.

ORAZIO: E' possibile?

AMLETO: Ecco la commissione: leggila a miglior agio. Ma vuoi udire ora come io procedetti?

ORAZIO: Ve ne supplico.

AMLETO: Essendo così irretito nelle scellerataggini - prima ch'io potessi fare un prologo pel mio cervello, esso aveva incominciato il dramma - io mi posi a sedere, escogitai una nuova commissione, la scrissi in bella scrittura; una volta io ritenevo, come i nostri uomini di Stato, cosa vile lo scriver bene, e faticai assai per dimenticare quell'arte; ma ora essa mi servì fedelmente. Vuoi tu sapere il senso di ciò ch'io scrissi?

ORAZIO: Sì, mio buon signore.

AMLETO: Una fervida preghiera da parte del re, poiché il re d'Inghilterra era il suo bel tributario, affinché l'amore tra di essi come la palma potesse fiorire, affinché la pace portasse sempre la sua ghirlanda di spighe, e stesse come una virgola in mezzo alla loro amicizia, e molti simili sommari carichi che, veduto e conosciuto il contenuto di questa lettera, senza ulteriore discussione di più o di meno, egli dovesse metter subito a morte quei che la portavano senza dar loro tempo di confessarsi.

ORAZIO: Come fu questa suggellata?

AMLETO: Ebbene, anche in questo il cielo provvide. Io avevo il sigillo di mio padre nella borsa, ch'era il modello di quel sigillo di Danimarca; piegai il documento nella forma dell'altro, lo sottoscrissi, lo suggellai, lo misi al sicuro, senza che alcuno conoscesse il sostituto. Ora, il giorno seguente ci fu la nostra battaglia di mare, e ciò che a questa seguì tu già lo sai.

ORAZIO: Così Guildenstern e Rosencrantz ci vanno.

AMLETO: Ebbene, amico, essi hanno fatto all'amore con questo impiego, io non li ho sulla coscienza; la loro distruzione procede dalla loro inframettenza. E cosa pericolosa quando la natura umana più vile viene a interporsi fra le stoccate e le fiere irate punte di possenti avversari.

ORAZIO: Oh, che re è mai questo!

AMLETO: Non è ora, pensaci! il mio dovere - colui che ha ucciso il mio re e corrotto mia madre, che s'è intruso fra l'elezione al trono e le mie speranze, che ha gettato l'amo per la mia stessa vita, e con tale frode - non è perfetta coscienza ripagarlo con questo braccio? e non è da essere dannati a lasciar questo cancro della nostra natura produr nuovi mali?

ORAZIO: Fra breve egli dovrà sapere dall'Inghilterra quale sia l'esito della faccenda colà.

AMLETO: Sarà tra poco; l'intervallo è mio; e la vita d'un uomo non è che il tempo di dire "uno". Ma io sono assai dolente, buon Orazio, di essermi lasciato andare con Laerte; perché, dall'immagine della mia causa, io vedo il ritratto della sua; io implorerò il suo favore; ma certo l'ostentazione del suo affanno mi fece montare in furore.

ORAZIO: Silenzio! chi viene qui?

 

(Entra il giovane OSRIC)

 

OSRIC: Vossignoria è molto benvenuta al suo ritorno in Danimarca.

AMLETO: Umilmente vi ringrazio, messere. (A parte a Orazio) Conosci questo moscerino?

ORAZIO (a parte ad Amleto): No, mio buon signore.

AMLETO (a parte ad Orazio): Tanto più fortunata è la tua condizione, poiché è un vizio conoscerlo. Egli ha molta terra, e fertile; che una bestia sia signora d'altre bestie, e la sua mangiatoia sarà alla mensa del re: è una cecca, ma, come dico, ha grande spazio di fango in suo possesso.

OSRIC: Dolce signore, se accomodasse a Vossignoria, io comunicherei una cosa a voi da parte di Sua Maestà.

AMLETO: Io la riceverò, signore, con ogni diligenza di spirito. Fate della vostra berretta il giusto uso: è per il capo.

OSRIC: Grazie Vossignoria, fa molto caldo.

AMLETO: No, credetemi, fa molto freddo; il vento è a tramontana.

OSRIC: Fa piuttosto freddo, mio signore, infatti.

AMLETO: Ma pure mi pare che sia molto afoso e caldo per la mia complessione...

OSRIC: Eccessivamente, mio signore, è molto afoso... come fosse... non so dir come. Ma, mio signore, Sua Maestà m'ha ordinato di significarvi ch'egli ha fatto una grande scommessa sul vostro capo. Signore, ecco di che si tratta...

AMLETO: Ve ne supplico, ricordate...

 

(Gli fa cenno di mettersi il cappello)

 

OSRIC: No, mio buon signore, per il mio comodo, in buona fede.

Signore, qui è da poco arrivato alla corte Laerte, credetemi un perfetto gentiluomo, pieno di eccellentissime distinzioni, di assai dolce compagnia e di nobile aspetto; davvero, per parlar di lui con sentimento, egli è il portolano e il calendario della cortesia, perché voi troverete in lui il continente di tutte le qualità che un gentiluomo vorrebbe vedere.

AMLETO: Signore, la sua definizione non soffre alcun detrimento in voi; sebbene, io so, dividerlo inventorialmente darebbe le vertigini all'aritmetica della memoria, e pur non sarebbe che un uscir di rotta rispetto al suo rapido veleggiare. Ma, nella verità dell'esaltazione, io ritengo ch'egli sia un'anima di grand'affare, e la sua essenza di tal valsente e rarità, che, per far di lui vera dizione, il suo simigliante è il suo specchio, e chi altri volesse seguitarlo sarebbe il suo adombramento, nulla più.

OSRIC: Vossignoria parla di lui molto infallibilmente.

AMLETO: La concernenza, signore? perché involger il gentiluomo nel nostro più crudo fiato?

OSRIC: Messere?

ORAZIO: Non è possibile capirsi in un'altra lingua? Voi lo farete, messere, veramente.

AMLETO: Che cosa ímplica la nominazione di questo gentiluomo?

OSRIC: Di Laerte?

ORAZIO (a parte ad Amleto): La sua borsa è già vuota; tutte le sue auree parole sono spese.

AMLETO: Di lui, signore.

OSRIC: Io so che voi non siete ignorante...

AMLETO: Vorrei che lo sapeste, signore; pure, in fede, se voi lo sapeste, non sarebbe per me una grande raccomandazione. Bene, signore?

OSRIC: Voi non siete ignorante di quale eccellenza sia Laerte.

AMLETO: Io non oso confessare ciò, per non gareggiare con lui in eccellenza; il solo conoscere bene un uomo, sarebbe un conoscere se stessi.

OSRIC: Io voglio dire, signore, quanto alla sua arma; ma nella reputazione che gli vien conferita da quelli del suo seguito egli è senza compagni.

AMLETO: Qual è la sua arma?

OSRIC: Stocco e pugnale.

AMLETO: Queste son due delle sue armi; ma sta bene.

OSRIC: Il re, messere, ha scommesso con lui sei cavalli di Barberìa; contro i quali egli ha postato, come io l'intendo, sei stocchi e pugnali francesi, con tutti i loro accessori, come cintura, pendagli, e così via: tre dei tenieri, in fede, sono assai cari alla fantasia, molto ben assortiti alle else, delicatissimi, e d'assai elaborata invenzione.

AMLETO: Che cosa chiamate voi tenieri?

ORAZIO (a parte ad Amleto): Sapevo che avreste dovuto essere edificato dalle chiose prima d'aver finito.

OSRIC: I tenieri, signore, sono i pendagli.

AMLETO: La frase sarebbe più germana alla materia, se noi potessimo tener balestre al fianco; vorrei che fosser pendagli fin allora. Ma, avanti: sei cavalli di Barberìa contro sei spade francesi, i loro accessori, e tre tenieri di elaborata invenzione; questa è la scommessa francese contro la danese, su che è questo "postato", come voi dite?

OSRIC: Il re, messere, ha scommesso, messere, che in una dozzina di assalti fra voi e lui, egli non vi supererà di tre botte; Laerte ha messo come condizione che gli assalti sian dodici anziché nove, e la cosa verrebbe immediatamente alla prova, se Vossignoria volesse degnar la risposta.

AMLETO: E se rispondessi di no?

OSRIC: Io voglio dire l'opposizione della vostra persona nella prova.

AMLETO: Messere, io starò a passeggiare qui nella sala; se a Sua Maestà non dispiace, questo è per me il tempo di respiro nella giornata; si portino i fioretti, il gentiluomo consenta, e il re continui nel suo proposito, io vincerò per lui se posso: se no io non vincerò che la mia vergogna, e le botte in più.

OSRIC: Debbo io riferire proprio così?

AMLETO: A questo effetto, signore; con tutti quei fronzoli che la vostra natura richiede.

OSRIC: Raccomando il mio omaggio alla Vostra Signoria.

AMLETO: Tutto vostro, tutto vostro. (Esce Osric) Egli fa bene a raccomandarlo egli stesso, non c'è altre lingue per fargli questo servigio.

ORAZIO: Questa pavoncella corre via col guscio d'ovo sul capo.

AMLETO: Egli doveva fare i suoi complimenti alla mammella prima di succhiarla. Così egli, e molti altri della stessa covata pei quali io so che la nostra frivola età vaneggia, han solo preso l'aria del tempo e l'abito esteriore della conversazione; una sorta di schiumosa accozzaglia d'idee che li trasporta al di sopra delle opinioni più profonde e vagliate; e se voi pur li soffiate per metterli alla prova, le bolle spariscono.

 

(Entra un Signore)

 

SIGNORE: Mio signore, Sua Maestà vi s'è raccomandata per mezzo del giovine Osric, il quale gli riporta che voi l'attendete nella sala, egli manda a chiedere se è ancora piacer vostro di battervi con Laerte, o se volete prender più tempo.

AMLETO: Io son fermo nei miei propositi; essi seguono il piacere del re; se la sua convenienza parla, la mia è pronta; ora o quando che sia, purché io sia disposto come ora.

SIGNORE: Il re e la regina, e tutti stanno scendendo.

AMLETO: In buon punto.

SIGNORE: La regina desidera che voi usiate qualche cortesia a Laerte prima di cominciare a battervi.

AMLETO: Ella mi consiglia bene.

 

(Esce il Signore)

 

ORAZIO: Voi perderete questa scommessa, mio signore.

AMLETO: Non credo: dacché egli andò in Francia, io sono stato continuamente in esercizio; io vincerò, col vantaggio che mi si offre.

Tu non puoi credere che male io mi senta qui attorno al cuore; ma non importa.

ORAZIO: Ma, mio buon signore...

AMLETO: Non è che stoltezza; ma è una specie di presentimento quale forse potrebbe turbare una donna.

ORAZIO: Se il vostro animo ripugna a una cosa, obbeditegli; io preverrò la loro venuta e dirò loro che voi non siete disposto.

AMLETO: Nient'affatto, noi sfidiamo gli auspici; v'è una speciale provvidenza nella caduta d'un passero. Se è ora, non è a venire; se non è a venire, sarà ora; se non è ora, pure verrà; l'esser pronti è tutto; poiché nessuno sa nulla di ciò ch'egli lascia, che importa il lasciar prima del tempo? Lascia andare.

 

(Entrano il RE, la REGINA, LAERTE, e Signori, con altri del Seguito, con fioretti e pugnali; una tavola e fiasche di vino su di essa)

 

RE: Vieni Amleto, vieni, e prendi questa mano da me. (Il Re pone la mano di Laerte in quella di Amleto)

AMLETO: Datemi il vostro perdono, signore; io v'ho fatto torto; ma perdonatemi da quel gentiluomo che siete. Questa assemblea sa e voi dovete pur aver udito, com'io sia afflitto da una penosa insania. Ciò ch'io ho fatto, che può aver dato una rude scossa alla vostra natura, al vostro onore, al vostro risentimento io qui proclamo che fu pazzia.

Fu Amleto a far torto a Laerte? Non già Amleto; se Amleto è tolto via a se stesso, e quando non è se stesso fa torto a Laerte, allora non è Amleto che lo fa; Amleto lo nega. Chi lo fa dunque? La sua pazzia; s'egli è così, Amleto è della fazione che riceve il torto; la sua pazzia è la nemica del povero Amleto. Signore, alla presenza di costoro, lasciate che la mia sconfessione d'ogni proposito maligno mi liberi di tanto nei vostri generosi pensieri, da farvi immaginare ch'io ho scoccata la mia freccia sopra la casa, e ferito mio fratello.

LAERTE: Io son soddisfatto quanto alla natura, i cui impulsi, in questo caso, dovrebbero muovermi soprattutto alla mia vendetta, ma nei termini dell'onore io mi tengo sulle mie, e non voglio riconciliarmi, finché da qualche maestro anziano nelle questioni d'onore io abbia un consiglio o precedente di pace, per serbare intatto il mio nome. Ma fino allora io ricevo l'amore che m'offrite come amore, e non farò torto ad esso.

AMLETO: Accolgo questo con animo sincero, e lealmente giocherò questa fraterna scommessa... Dateci i fioretti. Avanti.

LAERTE: Via, uno per me.

AMLETO: Io sarò la vostra fiorettatura, Laerte; nella mia ignoranza la vostra maestria, come una stella nella notte più oscura, spiccherà infocata davvero.

LAERTE: Voi vi fate beffe di me, messere.

AMLETO: No, per questa mano.

RE: Date loro i fioretti, giovane Osric. Nipote Amleto, voi conoscete la scommessa?

AMLETO: Benissimo, mio signore; Vostra Grazia ha assegnato condizioni di vantaggio alla parte più debole.

RE: Io non temo; io v'ho visti ambedue; ma poiché egli è migliorato, perciò abbiamo un vantaggio.

LAERTE: Questo è troppo pesante; fatemene vedere un altro.

AMLETO: Questo mi piace. Questi fioretti son tutti d'una lunghezza?

 

(si preparano all'assalto)

 

OSRIC: Sì, mio buon signore.

RE: Ponetemi i boccali di vino su questa tavola. Se Amleto dà la prima o la seconda botta, o ripaghi l'avversario al terzo assalto, fate che tutti gli spalti scarichino le loro artiglierie, il re berrà alla maggior lena d'Amleto; e nella coppa egli getterà una perla, più ricca di quella che quattro re in successione han portata nella corona di Danimarca. Datemi le coppe, e fate che il tamburo parli alla tromba, la tromba al cannoniere di fuori, i cannoni ai cieli, il cielo alla terra: "Ora il re beve alla salute d'Amleto!". Via, incominciate; (tromba) e voi, giudici, abbiate l'occhio vigile.

AMLETO: Venite avanti, messere.

LAERTE: Venite, mio signore. (Si battono)

AMLETO: Una.

LAERTE: No.

AMLETO: Giudizio.

OSRIC: Toccato, molto chiaramente toccato.

LAERTE: Bene; di nuovo.

RE: Aspettate, datemi da bere. Amleto questa perla è tua; alla tua salute. (si batte il tamburo suonano le trombe e si ode sparare il cannone) Dategli la coppa.

AMLETO: Voglio far prima questo assalto; ponetela da canto un poco.

Venite. Toccato un'altra volta; che ne dite?

LAERTE: Toccato, toccato, lo confesso.

RE: Nostro figlio vincerà.

REGINA: Egli è sudato e ha il fiato corto. Qui, Amleto, prendi il mio fazzoletto, asciugati la fronte; la regina brinda alla tua fortuna, Amleto.

AMLETO: Buona signora!

RE: Gertrude, non bere!

REGINA: Io voglio bere, mio signore; di grazia, perdonatemi.

RE (a parte) E' la coppa avvelenata! è troppo tardi !

AMLETO: Io non oso ancora bere, signora; tra poco.

REGINA: Vieni, lascia ch'io t'asciughi la faccia.

LAERTE: Mio signore, io lo colpirò adesso.

RE: Non lo credo.

LAERTE (a parte): E pure è quasi contro la mia coscienza.

AMLETO: Venite, al terzo assalto, Laerte: voi fate da burla, vi prego, tirate con la vostra maggior violenza; ho paura che vi facciate giuoco di me.

LAERTE: Dite voi così? Avanti. (Si battono)

OSRIC: Niente, né dall'una né dall'altra parte.

LAERTE: Questa è per voi, ora!

 
(Laerte ferisce Amleto; in seguito, nella zuffa, si scambiano gli stocchi e Amleto ferisce Laerte)

 

RE: Divideteli! sono infuriati.

AMLETO: Via, venite, di nuovo.

 

(La Regina cade)

 

OSRIC: Guardate la regina là, oh!

ORAZIO: Sanguinano entrambi. Come state, mio signore?

OSRIC: Come state, Laerte?

LAERTE: Ebbene, come un merlo nella mia propria trappola, Osric; io son giustamente ucciso dal mio stesso inganno.

AMLETO: Come sta la regina?

RE: Ella è svenuta a vederli sanguinare.

REGINA: No, no, la bevanda, la bevanda!... O mio caro Amleto... la bevanda, la bevanda! Sono avvelenata (Muore)

AMLETO: O scelleraggine! Oh! fate serrare la porta: tradimento!

cercatelo!

 

(Laerte cade)

 

LAERTE: E' qui, Amleto. Amleto, tu sei ucciso, nessuna medicina al mondo può farti bene; in te non c'è vita per una mezz'ora; lo strumento traditore è nella tua mano, non smussato, e avvelenato; il turpe stratagemma s'è rivolto contro di me; ecco, qui io giaccio, per non levarmi mai più, tua madre è avvelenata; io non posso più... Il re, il re ne ha colpa.

AMLETO: Anche la punta avvelenata!... Allora, veleno, all'opera tua!

 

(Ferisce il Re)

 

TUTTI: Tradimento! tradimento!

RE: Oh, difendetemi ancora, amici; io non son che ferito.

AMLETO: Qui, tu incestuoso, micidiale, dannato Danese, finisci questa pozione! E' la tua perla qui? Segui mia madre! (Il Re muore)

LAERTE: Egli è giustamente servito; è una pozione mescolata da lui stesso. Scambia il perdono con me, nobile Amleto; la morte mia e di mio padre non ricadano su di te né la tua su di me! (Muore)

AMLETO: Il cielo te ne liberi! Io ti seguo... Sono morto, Orazio.

Sciagurata regina, addio! Voi che impallidite e tremate per questa sorte, che non siete se non comparse o spettatori di quest'azione, s'io pur n'avessi il tempo (poi che quest'empia guardia, la Morte, è rigorosa nel suo ufficio), oh, potrei dirvi... ma lasciamo andare.

Orazio, io sono morto, tu vivi, racconta fedelmente di me e della mia causa a chi ne desideri novelle.

ORAZIO: Non lo credere; io sono più un Romano antico che un Danese; qui c'è rimasto ancora un po' di liquido.

AMLETO: Come tu se' un uomo, dammi la coppa: lasciala; per il cielo, io la voglio. O buon Orazio, che nome ferito vivrà dopo di me, se le cose restano così ignote! Se tu mi hai tenuto nel tuo cuore, stai lontano ancora un poco dalla felicità, e in quest'aspro mondo trai il tuo respiro nel dolore, per narrare la mia storia... (Una marcia in lontananza e spari di dentro) Che guerresco rumore è questo?

OSRIC: Il giovine Fortebraccio, tornato vincitore dalla Polonia, agli ambasciatori d'Inghilterra dà queste salve guerresche.

AMLETO: Oh, io muoio, Orazio; il possente veleno trionfa sui miei spiriti, io non posso vivere fino a udir le notizie d'Inghilterra; ma predico che l'elezione scenderà su Fortebraccio, egli ha il mio voto morente; questo digli; con gli avvenimenti maggiori e minori, che mi han spinto... il resto è silenzio. (Muore)

ORAZIO: Ora si spezza un nobile cuore: buona notte, dolce principe, e voli d'angeli ti conducano cantando al tuo riposo! Perché s'avvicina il tamburo?

 

(Entrano FORTEBRACCIO e gli Ambasciatori inglesi, con tamburo, bandiere, e Seguito)

 

FORTEBRACCIO: Dov'è questo spettacolo?

ORAZIO: Che è che vorreste vedere? Se cosa alcuna dolorosa o meravigliosa, ponete termine alla vostra ricerca.

FORTEBRACCIO: Questo mucchio di cadaveri proclama un macello. O orgogliosa Morte! quale festa si prepara nell'eterno tuo antro che tanti principi a un sol colpo così sanguinosamerte hai abbattuto?

AMBASCIATORE: Lo spettacolo è orrendo: e le nostre relazioni d'Inghilterra giungono troppo tardi: sono insensibili gli orecchi che dovrebbero darci ascolto, a dirgli che il suo comando è adempiuto, che Rosencrantz e Guildenstern son morti. Da chi dovremmo ricever ringraziamenti?

ORAZIO: Non dalla sua bocca, se pur avesse la capacità della vita per ringraziarvi; egli non diede mai il comando per la loro morte. Ma poiché così subito dopo questa sanguinosa briga, voi dalle guerre di Polonia, e voi dall'Inghilterra, siete qui arrivati, date ordine che questi corpi siano esposti alla vista in atro su un palco, e lasciate ch'io dica al mondo che ancora non sa, come queste cose avvennero, così voi udrete d'atti carnali, sanguinosi, e contro natura, di giudizi accidentali, eccidi casuali, di morti istigate dall'astuzia e dalla necessità, e, in questo epilogo, di propositi mal compresi, ricaduti sui capi dei loro inventori: tutto questo posso io veridicamente narrare.

FORTEBRACCIO: Affrettiamoci ad ascoltare e chiamiamo i più nobili a udir queste cose. Quanto a me, con dolore io abbraccio la mia fortuna; io ho alcuni diritti non mai dimenticati su questo reame, che ora la mia opportunità m'invita a reclamare.

ORAZIO: Di ciò io avrò anche motivo di parlare, e per istruzione verbale di colui il cui voto ne trarrà altri con sé; ma che questa cosa si faccia subito, mentre ancora gli animi degli uomini sono sossopra, acciocché altre sventure non succedano per intrighi ed errori.

FORTEBRACCIO: Quattro capitani portino Amleto come un soldato sul palco; poiché egli probabilmente posto alla prova, avrebbe mostrato un'indole regale: e per la sua dipartita la musica dei soldati e i riti guerreschi parlino alto per lui. Sollevate i corpi. Uno spettacolo come questo conviene al campo, ma qui è assai fuor di luogo. Andate, ordinate ai soldati di sparare.

 

(Escono marciando: dopo di che, vengono sparate salve d'artiglieria)

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