William Shakespeare

 

IL RACCONTO D'INVERNO

 

 

 

PERSONAGGI

 

LEONTE, re di Sicilia

MAMILLIO, suo figlio

CAMILLO, ANTIGONO, CLEOMENE: baroni di Sicilia

POLISSENE, re di Boemia

FLORIZEL, principe di Boemia

ARCHIDAMO, barone di Boemia

Il Vecchio Pastore, che viene ritenuto padre di Perdita

Il Contadino, suo figlio

AUTOLICO, vagabondo

Un Marinaio

Un Carceriere

ERMIONE, sposa di Leonte

PERDITA, figlia di Leonte ed Ermione

PAOLINA, sposa di Antigono

EMILIA, dama di Ermione

MOPSA, DORCAS: pastorelle

Altri Baroni e Gentiluomini, Dame, Ufficiali, Servi, Pastori e Pastorelle

Il Tempo (Coro)

 

 

 

La scena si svolge in Sicilia e in Boemia

 

 

 

ATTO PRIMO

 

SCENA PRIMA - Anticamera nel Palazzo di Leonte

(Entrano CAMILLO e ARCHIDAMO)

 

ARCHIDAMO: Se vi accadrà, Camillo, di visitare la Boemia per un'occasione simile a quella per cui son ora qui di servizio, voi vedrete, come v'ho detto, una grande differenza tra la nostra Boemia e la vostra Sicilia.

CAMILLO: Credo che nella prossima estate il re di Sicilia intenda ricambiare al re di Boemia la visita che giustamente gli deve.

ARCHIDAMO: Se anche le nostre accoglienze dovranno farci arrossire, ne saremo scusati dal nostro affetto, poiché...

CAMILLO: Vi prego...

ARCHIDAMO: In verità, parlo per l'esperienza che ho fatto: non possiamo con tale splendore, in un così prezioso... non so se mi spiego... Noi vi offriremo beveraggi atti a farvi dormire, affinché i vostri sensi, inconsapevoli della nostra insufficienza, possano, se non lodarci, almeno esimervi dal farci rimprovero.

CAMILLO: Voi pagate troppo caro ciò che vi è offerto spontaneamente.

ARCHIDAMO: Credetemi, parlo come la ragione mi suggerisce e come m'impone la sincerità.

CAMILLO: Non v'è gentilezza del re di Sicilia a quel di Boemia che possa parere eccessiva. I due re furono allevati insieme nell'infanzia; e fra loro, a quel tempo, mise radici un affetto così tenace che oggi non può non dar fronde. Da che le accresciute dignità e le necessità del regno misero fine al loro sodalizio, i loro incontri pur cessando di essere personali avvennero regalmente per procura, attraverso scambi di doni, lettere e affettuose ambasciate; talché i due re parvero ancora insieme pur essendo lontani, quasi si stringessero le mani attraverso lo spazio e si abbracciassero, per dir così, dai punti opposti della rosa dei venti. Il cielo perpetui la loro amicizia!

ARCHIDAMO: Non credo esista al mondo malignità o motivo capace di mutarla. Voi avete una indicibile ragione di compiacimento nel vostro giovane principe Mamillio: è il gentiluomo più promettente ch'io abbia incontrato mai.

CAMILLO: Son d'accordo con voi nell'attendermi molto da lui: è un bravo ragazzo che veramente dà forza al popolo e ravviva i nostri vecchi cuori. Coloro che già si reggevano sulle grucce prima della sua nascita, desiderano ora vivere ancora per vederlo uomo fatto.

ARCHIDAMO: Senza di che sarebbero lieti di morire?

CAMILLO: Sì, se non ci fossero altre scuse per desiderare di vivere ancora.

ARCHIDAMO: Se il re non avesse figli, vorrebbero vivere con le grucce per aspettarne uno.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Una stanza nel Palazzo reale

(Entrano LEONTE, ERMIONE, MAMILLIO, POLISSENE, CAMILLO e persone del Seguito

 

POLISSENE: Nove volte il pastore ha osservato il mutare dell'umido astro dacché abbiamo lasciato il nostro trono inoccupato, e s'anche altrettanto tempo fosse riempito, fratel mio, di ringraziamenti, noi saremmo ancora in debito e per sempre; talché, come si fa con uno zero messo in un posto vantaggioso, io moltiplico con un solo "grazie!" i mille altri che gli vanno innanzi.

LEONTE: Differite i vostri ringraziamenti fino al giorno della vostra partenza.

POLISSENE: Sarà domani, signore. Sono angustiato dal timore dl ciò che può avvenire o maturare in mia assenza: che alcun vento funesto non soffi sulla mia dimora e non mi faccia dire che le mie apprensioni erano anche troppo vere! Senza contare che ho stancato fin troppo la Maestà Vostra.

LEONTE: Siamo induriti a sopportare ben altro, fratello.

POLISSENE: Non più indugi.

LEONTE: Un'altra settimana.

POLISSENE: Con schiettezza, no, sarà domani.

LEONTE: Cediamo ciascuno per metà: non ammetto repliche su questo punto.

POLISSENE: Non insistete, vi prego, così . Non è al mondo una parola, non una dico, che possa vincermi come la vostra; e tale effetto avrebbe pur ora se dietro la vostra preghiera vi fosse una ragione, ancorché in contrasto col mio interesse. I miei affari in verità mi forzano al ritorno e trattenermene lontano sarebbe un castigo che, sebben per amore, m'imporreste; oltreché il mio ulteriore soggiorno diverrebbe un peso e un fastidio per voi. Per risparmiarvi l'uno e l'altro, addio, caro fratello.

LEONTE: E la regina tien chiusa la bocca? Parli!

ERMIONE: Mi proponevo, sire, di starmene muta finché gli aveste strappato giuramento di non restar oltre. Lo pregate troppo freddamente, sire. Ditegli che siete certo che tutto procede bene in Boemia: tal certezza il giorno appena trascorso l'ha confermata. E con ciò lo scalzate dalla sua difesa più valida.

LEONTE: Ben detto, Ermione.

ERMIONE: Se dicesse che non vede l'ora di rivedere il figlio, l'argomento sarebbe forte. Lo dica e potrà partire; lo giuri e non sarà trattenuto: lo cacceremo di qui a colpi di conocchia. E tuttavia io m'attento a chiedervi il prestito della vostra reale presenza per un'altra settimana. Quando il mio signore verrà in Boemia io gli concederò un mese oltre il termine fissato per la partenza: col che, mio caro Leonte, io non sgarro di un secondo su quanto una dama deve al suo signore. Rimarrete?

POLISSENE: No, signora.

ERMIONE: Suvvia, voi resterete.

POLISSENE: Davvero, non posso.

ERMIONE: Davvero! Voi vi sottraete con ben fiacchi pretesti, ma io, aveste voi cercato di smuover gli astri coi vostri giuramenti, vi direi ancora: "Signore, non andate". Davvero non partirete; il "davvero" di una dama è forte quanto quello di un signore. Persistete nel proposito? Mi forzate a tenervi come un prigioniero anziché come un ospite, così che partendo pagherete le spese e risparmierete i ringraziamenti. Che ne dite? Ospite o prigioniero? Col vostro terribile "davvero", sarete l'uno o l'altro.

POLISSENE: Allora il vostro ospite, signora. Restar vostro prigioniero presupporrebbe un'offesa che è per me meno facile commettere che per voi punire.

ERMIONE: Non sarò vostra carceriera dunque, ma ospite gentile. Venite, voglio informarmi sulle gherminelle del mio signore, e vostre, quando eravate ragazzi. Ed eravate due bei prepotentelli, non è vero?

POLISSENE: Eravamo, mia bella regina, due ragazzi i quali credevano che dietro il presente non ci fosse altro giorno che un domani simile all'oggi e di restar per sempre fanciulli.

ERMIONE: Non era il mio signore il più birbante dei due?

POLISSENE: Eravamo come due agnellini gemelli che sgambettano nel sole e belano l'uno all'altro. Si scambiava innocenza con innocenza. Ci era ignota la dottrina del male né si credeva che altri la conoscesse.

Avessimo seguitato tal vita e mai i nostri deboli spiriti fossero stati rinforzati da un sangue più gagliardo, noi avremmo potuto arditamente rispondere al cielo "innocenti" cancellando anche la tara del peccato originale.

ERMIONE: Da ciò si conclude che avete incespicato dopo.

POLISSENE: Oh, mia riverita signora, le tentazioni ci sono nate più tardi: in quei nostri giorni di primo pelo mia moglie era una bimba e la vostra preziosa persona non anche aveva incontrato lo sguardo del mio compagno di giuochi.

ERMIONE: Misericordia! Non traete da ciò conclusione, per timore che non abbiate a dire che la vostra regina ed io siamo dei demoni. Ma continuate; dei peccati che vi abbiamo indotti a commettere risponderemo se il vostro primo peccato fu con noi, e con noi avete proseguito nella colpa, senza scivolare con alcun'altra.

LEONTE: E' già vinto?

ERMIONE: Rimarrà, mio signore.

LEONTE: Non cedette alle mie preghiere. Mia cara Ermione, tu non hai parlato mai a migliore scopo.

ERMIONE: Mai?

LEONTE: Mai, eccetto un'altra volta.

ERMIONE: Come? Ho parlato bene due volte? E quando fu la prima?

Dimmelo, ti prego. Saziami di elogi e rendimi grassa come un animale domestico: una buona azione rimasta senza elogio ne uccide mille che attendono il loro turno. Le lodi sono il nostro compenso; voi potete con un dolce bacio farci correre per mille leghe meglio che con lo sprone farci coprir cento metri. Ma veniamo al fatto: la mia ultima meritoria azione è stata di persuaderlo a restare; e qual fu la mia prima? Questa d'oggi ha una sorella maggiore, se non vi fraintendo.

Vorrei che il suo nome fosse Grazia. Una sola volta, prima d'oggi, m'è accaduto di parlare a buon segno. Quando? Ch'io possa saperlo: ardo dal desiderio.

LEONTE: Ebbene, fu quando tre acerbi mesi si furono inaciditi fino a morirne, prima che io potessi farti aprire la tua bianca mano e darla suggellandoti amor mio; tu dicesti allora: "Sono vostra per sempre".

ERMIONE: Questa è Grazia davvero. Ebbene, come vedete ho parlato a buon segno due volte; la prima mi valse un regale sposo, l'altra un amico per qualche tempo.

LEONTE (a parte): Si riscalda troppo! Mescolar troppo l'amicizia è come mescolare il sangue. Ho il "tremor cordis" in me, il cuore mi danza: ma non di gioia, non di gioia. Una tal cortesia può assumere un viso aperto, attingere una sua freschezza dalla cordialità, dalla generosità, e dalla plenitudine del cuore, e ben si addice a chi l'assume: può, ne convengo. Ma il titillarsi le palme e lo strizzarsi le dita che essi fanno, il sorridersi studiatamente come in uno specchio, il sospirare come se fosse la morte del cervo, oh, questa è cortesia che non piace al mio cuore né al mio ciglio! Mamillio, sei tu, figlio mio?

MAMILLIO: Sì, mio buon signore.

LEONTE: Davvero? Bravo cocco! Come ti sei sporcato il naso? Dicono ch'è una copia del mio. Via, capitano, bisogna essere puliti fin sopra i capelli o meglio un po' sotto... perché sono il toro, la giovenca e il vitello ad aver qualcosa sopra la testa. (A parte) Essa non smette mica di tasteggiare sulla palma di lui! Ebbene, pazzerello d'un vitellino? Non sei tu il mio vitellino?

MAMILLIO: Sì, se così vi piace, mio signore.

LEONTE: Ti manca una zucca arruffata come la mia, con quel che ci cresce su, per somigliarmi del tutto; eppure dicono che ci somigliamo come due uova; lo dicono le donne che dicono qualunque cosa, ma fossero esse false come panni neri ritinti, come il vento e le acque, false come i dadi che desidera chi non pone limiti fra il mio e il tuo, ebbene rimarrebbe sempre vero che questo fanciullo mi somiglia. E dunque, messer paggetto, guardami col tuo occhio di cielo, bricconcello, amor mio, bocconcino della mia carne! Potrebbe tua madre... E' possibile? Desiderio! l'intensità del tuo ardore penetra fin nei più intimi recessi del petto; tu rendi possibili cose non credute tali, partecipi della natura dei sogni. Come può esser questo?

Tu cooperi con ciò che è irreale e ti accompagni col nulla; è quindi assai credibile che tu possa associarti ad alcunché, e lo fai e sorpassi i limiti del lecito ed io me ne avvedo e il mio cervello s'intorbida e la mia fronte s'indurisce.

POLISSENE: Che ha dunque il re di Sicilia?

ERMIONE: Sembra alquanto turbato.

POLISSENE: Ebbene, signor mio come va? Che vi accade, mio diletto fratello?

ERMIONE: Dal vostro viso si direbbe che siate tutto sconvolto. Siete irato, signor mio?

LEONTE: No, in fede mia. Pure, quante volte la natura è soggetta a tradire la sua fragilità, la sua tenerezza e a far di sé un passatempo pei cuori più duri! Guardando i lineamenti della faccia del mio bambino ho creduto di indietreggiare di ventitré anni e di veder me stesso senza calzoncini, nel mio guarnacchino di velluto verde, il mio pugnale nella museruola, sicché non mordesse il suo padrone e non diventasse, come gli ornamenti sono spesso, pericoloso. Oh, mi dicevo, com'ero eguale a questo nocciolino, a questo baccello, a questo gentiluomo! Onesto amico mio, vi piacerà un giorno esser pagato a sole parole?

MAMILLIO: No, mio signore, in tal caso mi batterò.

LEONTE: Batterti? Possa assisterti la fortuna! Fratello, avete per il vostro giovane principe la tenerezza che abbiamo noi per il nostro?

POLISSENE: Quando sono a casa, signore, egli è tutta la mia occupazione, la mia gioia, il mio oggetto, ora il mio amico giurato, ora il mio avversario, il mio parassita, il mio soldato, il mio ministro, tutto. Ed egli fa un giorno di luglio corto come uno di dicembre e con la sua mutevole fanciullezza guarisce in me pensieri che m'ingrosserebbero il sangue.

LEONTE: Tale è l'ufficio di questo scudiero con me. Ora noi due andremo a fare un piccolo giro, signore, e vi lasciamo ai vostri più gravi passi. Ermione, dimostra quanto ci ami con le tue accoglienze al nostro fratello. Ciò che v'è di più caro in Sicilia sia per lui a buon mercato. Dopo di te e di questa giovane birba, egli ha ogni diritto sul mio cuore.

ERMIONE: Se cercaste di noi, saremo al vostro servizio in giardino.

Possiamo attendervi là?

LEONTE: Fate come v'aggrada. Vi troveremo se sarete sotto il cielo. (A parte) Ed ora sto pescando, benché non vi accorgiate di come io vi do lenza. Andate, andate! Com'essa gli porge il muso, il becco, e s'arma dell'arditezza di una sposa verso il suo compiacente marito! (Escono Polissene, Ermione e il Seguito) Son già andati! Fino alla caviglia, fino al ginocchio, fin sui capelli e gli orecchi, cornuto! Va', bambino, giuoca, giuoca, tua madre giuoca e giuoco anch'io, ma recito una sì ingrata parte che alla fine mi spingerà alla tomba a suon di fischi; scherno e irrisione saranno la mia campana a morto. Va', fanciullo, giuoca, giuoca. Ci sono stati, o m'inganno di molto, dei cornuti prima di me. C'è più di un uomo anche in questo momento, che mentre parlo tiene la propria moglie sotto il braccio e non s'immagina neppure che essa in sua assenza è stata fatta uscire dal vivaio e che nel suo stagno il suo prossimo vicino, messer Smorfia, ha fatto buona pesca. E tuttavia c'è un sollievo a pensare che anche gli altri uomini hanno le loro porte e che queste porte sono state aperte, come la mia, contro la loro volontà. Dovessero disperarsi tutti coloro che hanno mogli fuorviate, il decimo dell'umanità s'impiccherebbe. Non c'è farmaco per ciò: si tratta di un pianeta ruffiano che fa guasto là dove predomina, ed è potente, credetelo, a levante, a ponente, a mezzogiorno e a tramontana. Non esistono barriere, insomma, per il ventre, ed è ben noto: il nemico può entrare o uscire con armi e bagagli. Quanti di noi, a migliaia, hanno questo male e non lo avvertono. Che c'è, fanciullo?

MAMILLIO: Io vi somiglio a quel che si dice.

LEONTE: Già, è sempre una consolazione. Camillo, sei qui?

CAMILLO: Sì, mio buon signore.

LEONTE: Va' a giocare, Mamillio. Tu sei un galantuomo. (Esce Mamillio) Camillo, questo grande sovrano rimarrà ancora qualche tempo.

CAMILLO: Vi siete dato molto da fare perché la sua àncora tenesse il fondo. Quando la gettavate voi, però, seguitava a tornar su.

LEONTE: L'hai osservato?

CAMILLO: Alle vostre richieste non voleva restare, ed esagerava l'urgenza dei suoi affari.

LEONTE: Te ne sei accorto? (A parte) Ecco che già mi dàn la baia; sussurrano e ronzano: "Il re di Sicilia e uno di quelli". Le cose devono esser già molto in là, se io ne ho il sentore per ultimo. Come spieghi, Camillo, che ha poi accettato di restare?

CAMILLO: Per le insistenze della buona regina.

LEONTE: Della regina, può darsi. "Buona" dovrebb'essere la parola giusta, ma non va, bisogna dire che non va. Tutto ciò è penetrato in altro cranio pensante oltre il tuo? La tua immaginazione è porosa e assorbe meglio delle zucche ordinarie o fu solo notato dai più sottili, dalle teste fuor del comune, e i subalterni non si sono accorti di nulla? Parla.

CAMILLO: Accorti di che? Credo che i più hanno inteso che il re di Boemia prolunga il suo soggiorno.

LEONTE: Ah !

CAMILLO: Si trattiene qui ancora.

LEONTE: Sì, ma perché?

CAMILLO: Per compiacere Vostra Altezza e le insistenze della nostra graziosa padrona.

LEONTE: Per compiacere alle insistenze della vostra padrona! Per compiacerle! Mi pare che basti. Io t'ho fatto partecipe, Camillo, tanto di ciò ch'era vicino al mio dolore quanto del mio consiglio privato nel quale tu, come un sacerdote, sei entrato a far mondo il mio petto, sì che ti lasciavo contrito e fatto migliore, ma è certo ormai che noi siamo stati ingannati sulla tua integrità o in ciò che le somiglia.

CAMILLO: Lo tolga il cielo, mio signore!

LEONTE: Per insisterci sopra, tu non sei onesto, o almeno, se hai qualche attitudine all'onestà, sei un vile che a questa recide il garretto posteriore per impedirle di fare il cammino dovuto; oppure puoi essere considerato come un servo ch'è addentro alla mia confidenza e tuttavia negligente, o un imbecille che vede il giuoco che si stringe, la ricca posta ch'è in palio, e prende tutto per uno scherzo.

CAMILLO: Mio grazioso signore, posso essere negligente, sciocco e pauroso; nessun uomo è franco di questi difetti così che talvolta negligenza, sciocchezza e pusillanimità, tra gl'infiniti negozi del mondo, non vengan fuori. Nei vostri interessi, mio signore, se ho mostrato qualche deliberata trascuraggine fu per sciocchezza; se accuratamente ho fatto lo sciocco, ciò fu per negligenza e per non aver ben pesati i risultati; se talvolta temetti di far cosa del cui esito dubitavo e il cui compimento smentiva, più tardi, la mia inazione, fu ancora per quella tema che spesso si attacca ai più saggi: queste mio signore, le perdonabili debolezze dalle quali la lealtà non è esente. Ma prego Vostra Grazia di essere più franco con me. Che io conosca il mio trascorso col suo nome: se lo negherò allora non sarà certo il mio.

LEONTE: Avete voi veduto, Camillo: e questo non è dubbio o il cristallino dell'occhio vostro è più spesso di un corno di becco... o avete udito... poiché a uno spettacolo così evidente le chiacchiere non restano mute... o pensato... poiché il giudizio non esisterebbe in colui che non lo pensasse, che mia moglie sta per sdrucciolare? Se tu vuoi confessarlo, a meno che tu non neghi spudoratamente di avere occhi, orecchi, pensiero, di' allora che mia moglie è una giumenta e le spetta lo sconcio nome che compete a qualunque linaiuola che si concede prima delle nozze; di' questo, e trova una scusa.

CAMILLO: Non potrei starmene a sentir offuscare così la fama della mia sovrana, senza trarne subita vendetta. Che sia maledetto il mio cuore, se pronunciaste mai parole che meno vi convenissero di queste, ripeter le quali sarebbe peccato così nero come quel che affermate, anche se fosse vero.

LEONTE: Sussurrare non è nulla? Nulla appoggiare guancia a guancia e toccarsi naso con naso? Baciarsi entro le labbra, interrompere il corso del riso con un sospiro (segno manifesto di una virtù che si infrange) e accavalciar piede su piede? O ficcarsi negli angoli e augurare che gli orologi vadano più svelti e le ore sian minuti e il mezzogiorno mezzanotte e tutti gli occhi siano oscurati dall'albugine e dalla cateratta, eccetto i loro, i loro soli, affinché il lor delitto passi inosservato? E' nulla tutto questo? Ebbene, allora il mondo e tutto quello che rinchiude non è nulla, il cielo che ci copre non è nulla, la Boemia non è nulla, mia moglie non è nulla e nulla è in nulla, se tutto ciò non è nulla.

CAMILLO: Mio buon signore, guaritevi questo malsano pensiero, e tosto, perché esso è assai pericoloso.

LEONTE: Di' che è così, che è la verità.

CAMILLO: No, no, mio signore.

LEONTE: E' la verità: voi mentite, voi mentite; io dico che tu menti, Camillo, e ti detesto: ti proclamo un villanzone, uno stolto marrano oppure un ondeggiante temporeggiatore che sai coi tuoi occhi vedere insieme il bene e il male e inclini a entrambi. Se mia moglie avesse il fegato guasto com'è la sua vita, essa non vivrebbe più del tempo di un voltar di clessidra.

CAMILLO: Chi dunque la corrompe?

LEONTE: Chi? Colui che la porta come una medaglia appesa al collo, il re di Boemia; col quale, avessi io accanto a me servi leali, con occhi pronti a tutelare il mio onore quanto a vedere il loro profitto e il loro guadagno particolare, essi saprebbero far ciò che disfarebbe il far di più. Sicuro! e tu, che sei il suo coppiere e che io da bassa condizione ho innalzato fino al seggio della dignità, tu che potresti vedere chiaramente come il cielo vede la terra e la terra vede il cielo come io sono oltraggiato, tu potresti drogare una coppa che chiudesse per sempre gli occhi del mio nemico; e codesta bevanda sarebbe cordiale per me.

CAMILLO: Sire, mio padrone, io potrei farlo, e non con una pozione fulminea ma con un liquido che operasse lento e non lasciasse tracce di violenza come il veleno; ma non posso credere che una tale incrinatura sia nella mia temuta padrona che è così sovranamente venerabile. Aver amato il...

LEONTE: Continua ancora a dubitare e va' in malora! Credi tu ch'io sia così torbido e dissennato da fissarmi in questa mania e insozzare la purezza e il candore delle mie lenzuola, le quali preservate recano il sonno, e macchiate non son più che aculei, spine, ortiche e pungiglioni; e gettare scandalo sul sangue del principe mio figlio, che credo mio e amo come mio, senza esservi spinto da matura riflessione? Io farei questo? Potrebbe un uomo alienarsi a tal segno?

CAMILLO: Io debbo pur credervi, signore. Vi credo, e per questo spaccerò il re di Boemia, purché, quando egli sarà tolto di mezzo, Vostra Altezza voglia comportarsi con lei come per l'innanzi, non fosse che per riguardo a vostro figlio e insieme per troncare l'insulto delle lingue nelle corti e nei reami in relazione con voi e vostri alleati.

LEONTE: Tu mi consigli proprio come avevo divisato; non infliggerò nessuna nota d'infamia al suo onore, nessuna.

CAMILLO: Mio signore, andate dunque e con la disinvoltura che un amico può avere in una festa, intrattenetevi con il re di Boemia e con la vostra regina. Io sono il suo coppiere: se da me non riceverà un salutare beveraggio, non consideratemi più fra i vostri servi.

LEONTE: Benissimo: fa' questo, e avrai la metà del mio cuore. Non farlo, e spezzerai il tuo.

CAMILLO: Lo farò, mio signore.

LEONTE: Mi mostrerò amichevole, come tu m'hai consigliato.

 

(Esce)

 

CAMILLO: O sfortunata signora! Ma io in qual situazione mi trovo?

debbo avvelenare il buon Polissene e la ragione per farlo è l'obbedienza al mio padrone: un uomo in rivolta contro se stesso e che pretende sian come lui tutti quelli che gli sono intorno. A un atto simile seguirà una promozione. Se potessi trovare esempi di migliaia che hanno prosperato dopo aver colpito re consacrati, non lo farei egualmente; ma poiché né il bronzo ne la pietra né la pergamena ne danno uno, che la stessa scelleraggine si rifiuti di commetterlo.

Debbo lasciare la corte; agire o no mi porterà del pari a rompermi il collo. Una benigna stella regni ora! Ecco giungere il re di Boemia.

 

(Rientra POLISSENE)

 

POLISSENE: E' strano. Mi pare che il mio favore qui cominci a calare.

Perché non mi parla? Buon giorno, Camillo.

CAMILLO: Salute, regale signore!

POLISSENE: Che notizie alla corte?

CAMILLO: Nulla di notevole, signore.

POLISSENE: Il re ha l'aria come se avesse perduto una provincia, una terra che amasse come se stesso; proprio ora mi sono accostato a lui con le gentilezze usate, quand'egli, torcendo gli occhi in opposta direzione e con una smorfia di profondo sdegno, s'allontana da me e mi lascia a riflettere che cosa accada da mutar così le sue maniere.

CAMILLO: Non oso pensarlo, mio signore.

POLISSENE: Come non osate? No? Sapete e non osate? Fatevi capire, è così o press'a poco: perché quanto a voi, ciò che sapete siete obbligato a sapere, e non potete dire che non osate. Buon Camillo, il vostro mutar di viso è uno specchio che mostra il mio, mutato anch'esso, a me; ed io debbo esser certo causa di questo mutamento, trovandomi anch'io così alterato.

CAMILLO: C'è una infermità che travaglia alcuni di noi, ma non posso nominare questa malattia che fu portata da voi, ancorché voi stiate bene.

POLISSENE: Come? Portata da me? Non attribuitemi gli occhi del basilisco: ho guardato migliaia di persone, ed esse hanno avuto la miglior sorte dal mio sguardo e non una ne fu uccisa. Camillo, voi siete di certo un gentiluomo e avete in più la saggezza di un uomo coltivato, la quale adorna la nostra nascita non meno dei titolati nomi dei nostri avi che ci hanno trasmesso per successione la loro nobiltà. Vi prego, dunque, se voi conoscete la più piccola cosa di cui possa importarmi essere informato, non chiudetela in un mistero per me impenetrabile.

CAMILLO: Non posso rispondere.

POLISSENE: Una malattia portata da me, benché io stia bene? Mi dovete rispondere. Intendi, Camillo? Io ti prego, per tutti i doveri ai quali l'onore obbliga l'uomo, il minor dei quali non è questa mia richiesta, che tu mi sveli qual è la perfida congiuntura che tu indovini venirmi addosso di nascosto; e se è prossima o discosta, e se v'è mezzo di prevenirla, e se non v'è, il modo più acconcio di farle fronte.

CAMILLO: Sire, ve lo dirò dacché sono tenuto dall'onore e richiesto da chi credo onorabile. Seguite dunque il mio consiglio, e così rapidamente come io lo proferisco, o a tutti e due, voi e me, non resterà che piangerci perduti, e buona notte!

POLISSENE: Prosegui, buon Camillo.

CAMILLO: Sono stato incaricato di assassinarvi.

POLISSENE: Da chi, Camillo?

CAMILLO: Dal re.

POLISSENE: Per qual motivo?

CAMILLO: Egli crede, anzi giura con ogni certezza come se avesse veduto o fosse stato lo strumento che v'ha condotto a tal punto, che voi avete accostato la regina colpevolmente.

POLISSENE: Oh, in tal caso il mio sangue divenga un'infetta poltiglia e il mio nome sia unito al nome di chi ha tradito il Giusto! E il fiore della mia reputazione renda un tanfo capace di colpire la più ottusa narice là dove io giunga, e il mio accostarsi sia schivato, anzi maledetto come la peggior infezione di cui si sia parlato mai a voce o per iscritto!

CAMILLO: Scongiurare la sua idea chiamando a testimone ogni stella ch'è in cielo e tutto il loro potere... vi riuscirebbe altrettanto facile proibire al mare di obbedire alla luna che non distruggere coi giuramenti o scuotere con le ragioni l'edifizio della sua pazzia, le cui basi poggiano su una certezza e continueranno fin ch'egli si reggerà in piedi.

POLISSENE: Come è potuto intervenire questo?

CAMILLO: Non so, ma so ch'è più sicuro evitare ciò ch'è intervenuto che non studiare come sia nato. Se voi dunque fidate nella lealtà che è racchiusa in questo corpo che voi porterete con voi come pegno, fuggiamo stanotte! Informerò segretamente il vostro seguito della decisione e condurrò gli uomini a due o tre per volta, da varie postierle, fuori della città. Per ciò che mi riguarda metterò la mia fortuna al vostro servizio: io l'ho perduta qui con queste rivelazioni. Non siate incerto: sull'onore dei miei genitori ho detto il vero e se volete assicurarvene io non attenderò la prova e voi non sarete più salvo di quel che può essere un uomo condannato dalla bocca stessa di un re: la cui morte è stata decretata.

POLISSENE: Certo, io ti credo. Gli ho letto il suo cuore sul volto.

Dammi la mano: siimi guida e il tuo posto sarà sempre vicino a me. Le mie navi sono pronte e da due giorni la mia gente s'aspetta di partire. Questa sua gelosia è per una preziosa creatura; e com'ella è cosa rara, tanto la gelosia dev'essere grande, e com'egli è persona potente, tanto dev'esser violenta; e com'egli si crede disonorato da uno che sempre gli si dimostrò amichevole, la sua vendetta deve farsi per ciò più cruda. Il timore getta un'ombra su me: una pronta fuga sarà la mia salvezza e darà sollievo alla graziosa regina, che è parte del suo pensiero dominante, ma nulla del suo ingiusto sospetto! Vieni, Camillo; ti onorerò come un padre se mi porterai lungi di qui. Andiamo via.

CAMILLO: Ho autorità di comandare le chiavi di tutte le postierle; piaccia a Vostra Altezza di profittare d'urgenza di quest'ora. Andiam via, signore!

 

(Escono)

 

 

 

ATTO SECONDO

 

SCENA PRIMA - Una stanza nel Palazzo di Leonte

(Entrano ERMIONE, MAMILLIO e alcune Dame)

 

ERMIONE: Prendete il ragazzo con voi, egli m'indispone così che non ne posso più.

PRIMA DAMA: Venite, mio grazioso signore, volete che io sia la compagna dei vostri giuochi?

MAMILLIO: No, voi non vi voglio, voi.

PRIMA DAMA: Perché, mio dolce signore?

MAMILLIO: Non fate che baciarmi a tutto spiano e mi parlate come se fossi sempre un bambino in fasce. Preferisco voi.

SECONDA DAMA: E perché, mio signore?

MAMILLIO: Non è perché le vostre ciglia son più nere; e tuttavia le ciglia nere sono adatte a certe donne, si dice, purché non sian troppo fitte di pelo e stiano a semicerchio o come una mezzaluna fatta a penna.

SECONDA DAMA: Chi v'ha insegnato questo?

MAMILLIO: L'ho imparato dalla faccia delle donne. Ditemi, di che colore sono le vostre sopracciglia?

PRIMA DAMA: Azzurre, mio signore.

MAMILLIO: Via, questa è una burla. Ho visto un naso di signora ch'era azzurro, ma non le sue ciglia.

PRIMA DAMA: Ascoltatemi un poco. La regina vostra madre si va facendo tonda a vista d'occhio: uno dei prossimi giorni noi offriremo i nostri servizi a un nuovo bel principe e allora paghereste di venire a ruzzare con noi se noi vi si volesse.

SECONDA DAMA: Ella è ben ingrossata in questi ultimi giorni! Che tutto possa svolgersi nel miglior modo!

ERMIONE: Che saggi pensieri andate agitando! Venite, signor mio, sono con voi ancora, sedete, vi prego, e narrateci una storia.

MAMILLIO: Gaia o triste, dev'essere?

ERMIONE: Gaia quanto vi parrà.

MAMILLIO: Una storia triste è meglio per l'inverno. Ne so una di fantasmi e di folletti.

ERMIONE: Sentiamo questa, buon signore. Venite, sedete e fate del vostro meglio per spaventarmi con i vostri spiriti: ci riuscite benissimo.

MAMILLIO: C'era una volta un uomo...

ERMIONE: No, sedetevi qui, continuate.

MAMILLIO: ...che abitava presso un cimitero. La dirò piano, che non mi sentano quelle cicale laggiù.

ERMIONE: Accostatevi, allora, e ditemela in un orecchio.

 

(Entrano LEONTE, ANTIGONO, Signori e altri)

 

LEONTE: E' stato visto là? Col seguito? E Camillo con lui?

PRIMO SIGNORE: Dietro il ciuffo dei pini li ho incontrati e mai non ho visto uomini che corressero così. Li ho seguiti con lo sguardo fino alle navi.

LEONTE: Come mi confermo nel mio giusto giudizio e nella mia vera opinione! Ahimè potessi saperne di meno! E' una maledizione esserne così certo! Ecco, in una tazza potrebbe esserci un ragno annegato, e uno potrebbe bere, andarsene e non aver danno dal veleno perché la sua conoscenza non è infetta, ma se gli mettono sotto gli occhi l'orribile ingrediente e gli fan sapere ciò che ha bevuto, costui si spacca la gola e i fianchi dai violenti sforzi. Io ho bevuto e veduto il ragno.

Camillo è stato il suo complice in questo, il suo mezzano; c'è un complotto contro la mia vita e la mia corona. E' vero tutto ciò che sospettavo: quello sleale furfante era al servizio di lui prima che al mio: ha rivelato i miei piani ed io sono rimasto beccato. Sì, un vero giocattolo col quale essi possono divertirsi a piacere. Come mai le postierle sono state aperte così facilmente?

PRIMO SIGNORE: Per la grande sua autorità che spesso era giunta, per ordine vostro, fino a questo.

LEONTE: Lo so troppo bene. Datemi il fanciullo. Sono lieto che non l'abbiate allattato voi; benché egli porti alcun segno di me, tuttavia c'è troppo sangue vostro in lui.

ERMIONE: Che cos'è questo? Uno scherzo?

LEONTE: Portate via il fanciullo: non deve restar presso di lei.

Portatelo via! E lei si diverta con quello di cui è incinta: poiché è Polissene che t'ha fatta gonfiar così.

ERMIONE: Mi basterebbe dire che non è vero e giurerei che mi credereste sulla parola, per quanto possiate inclinare alla contraddizione.

LEONTE: Voi, miei signori, guardatela, osservatela bene siate pronti a dir solo: "E' una piacente signora", e la lealtà dei vostri cuori aggiungerà anche: "Peccato ch'essa non sia onesta, onorabile"; lodatela solo per questa sua forma esteriore che in fede mia merita alto elogio, e subito un alzar di spalle, gli "uhm" e gli "ah", quei piccoli marchi d'infamia che usa la calunnia - oh mi sbaglio, che usa l'indulgenza, poiché la calunnia bolla la virtù medesima - quelle alzate di spalle, quegli "uhm" e "ah", quando voi avete detto "ella è piacente", si frappongono prima che possiate dire "essa è onesta"; ma sia noto dalla bocca di colui che ha maggior ragione per soffrirne ch'essa è un'adultera.

ERMIONE: Dovesse un furfante dir questo, il più consumato furfante del mondo, sarebbe ancor più furfante... Voi, signor mio, siete solo in errore.

LEONTE: Voi avete scambiato, signora, Polissene per Leonte. O tu razza di... Non voglio qualificare una persona della tua condizione, per tema che il volgare, valendosi del mio precedente, usi un tale linguaggio per tutte le classi, e tralasci la civile distinzione tra principe e pezzente. Ho detto ch'essa è un'adultera, ho detto con chi; per di più, essa è una traditrice e Camillo è in lega con lei, ed è uno che sapeva di lei cosa ch'ella dovrebbe vergognarsi di saper solo per conto suo e col suo maggior complice: ch'ella è fedifraga al letto coniugale, perfida come quelle che il volgo chiama coi nomi più duri; sì, ed è a parte del segreto di questa loro fuga recente.

ERMIONE: No, sulla mia vita, non sono a parte di nulla di simile.

Quanto vi dorrà di avermi messa così in pubblico, quando sarete giunto a maggior discernimento! Gentile mio signore, voi allora potrete appena rendermi giustizia dicendo che vi siete sbagliato.

LEONTE: No, se mi sbaglio su queste fondamenta su cui mi baso, la terra non è abbastanza grande da sopportare la trottola d'uno scolaretto. Portatela via, in prigione. Chi parlerà per lei sarà compromesso solo pel fatto che parla.

ERMIONE: V'è certo l'influsso di un astro maligno; debbo aver pazienza finché il cielo non mostri un aspetto più favorevole. Miei buoni signori, non sono propensa alle lacrime, com'è di solito il nostro sesso, e la mancanza di tal vana rugiada forse disseccherà la vostra pietà; ma io porto con me una siffatta ferita d'onore che brucia troppo per essere lenita dalle lacrime. Vi prego tutti, miei signori, giudicate di me con pensieri temperati secondo che v'ispirerà la carità vostra; e ora che la volontà del re si compia!

LEONTE: Mi si darà ascolto?

ERMIONE: Chi verrà con me? Prego Vostra Altezza che le mie donne restino con me poiché, lo vedete, è necessario al mio stato. Non piangete, sciocchine, non c'è ragione. Quando saprete che la vostra padrona ha meritato la prigione, allora abbondate in lacrime quando uscirò: quest'azione in cui son ora ingaggiata, è per la mia maggior gloria. Addio, mio signore. Non ho mai desiderato vedervi afflitto; ora credo che lo vedrò. Venite, donne, ne avete licenza.

LEONTE: Andate, fate ciò che vi ordino via!

 

(Escono la Regina, scortata, e le Dame)

 

PRIMO SIGNORE: Prego Vostra Altezza di richiamare ancora la regina.

ANTIGONO: Siate ben certo di ciò che fate, sire, se non volete che la vostra giustizia si dimostri violenza che faccia torto a tre grandi:

voi, la regina e vostro figlio.

PRIMO SIGNORE: Quanto alla regina, mio signore, oserei scommetter sulla mia vita, e lo farò se a voi piaccia, ch'ella è immacolata agli occhi del cielo e al vostro cospetto. In quello, intendo, di cui l'accusate.

ANTIGONO: Se sia dimostrato ch'ella non è tale farò le mie stalle dove alloggia mia moglie, e anderò con lei accoppiato al guinzaglio. Non mi fiderò di lei se non in quanto potrò vederla e toccarla, perché ogni palmo di donna al mondo, anzi ogni atomo di carne di donna è falso se essa lo è.

LEONTE: Statevi tranquilli!

PRIMO SIGNORE: Mio buon signore...

ANTIGONO: Per voi parliamo, non per noi. Voi siete ingannato, e da qualche istigatore che sarà dannato per ciò; se conoscessi il furfante lo farei mettere alla gogna. Se si troverà peccato nella regina, io ho tre figlie, la maggiore di undici anni, la seconda e la terza di nove e cinque anni; ebbene, se la colpa c'è, esse la pagheranno; sul mio onore le mutilerò; non arriveranno al quattordicesimo anno per mettere al mondo una progenie di bastardi. Esse sono le mie eredi ed io preferirei castrarmi piuttosto ch'esse non diano una generazione illibata.

LEONTE: Basta, non più. Voi annusate questa faccenda con un naso più freddo di quello di un morto; ma io la vedo e la sento come voi sentite ch'io vi faccio così, e vedete insieme gl'istrumenti che sentono.

ANTIGONO: Se è così, non occorre più tomba per seppellire l'onestà; non ce n'è più un granello per addolcire la faccia di tutta questa terra di letame.

LEONTE: Come? Non sono creduto?

PRIMO SIGNORE: Sarebbe meglio che fossi creduto io e non voi, a questo proposito, mio Signore; sarei più lieto di veder giustificato il suo onore che non il vostro sospetto, qual si sia il biasimo che ve ne verrebbe.

LEONTE: Ma quale bisogno abbiamo noi di discutere di questo con voi, piuttosto che di seguire il nostro irresistibile istinto? E' nostra prerogativa di fare a meno del vostro avviso benché la nostra naturale bontà vi metta a parte di ciò; e su questo punto, se voi per verace o infinita ottusità non potete o non volete gustare come noi la verità, vi piaccia sapere che noi non abbisognamo più del vostro consiglio: la questione, la perdita, il guadagno, il modo di condur la cosa è tutto affar nostro.

ANTIGONO: Avrei voluto, mio sovrano, che voi aveste svolto l'indagine nel vostro silenzioso giudizio, senza aperta pubblicità.

LEONTE: Come ciò poteva avvenire? O tu sei rammollito dall'età ovvero sei nato sciocco. La fuga di Camillo unita alla loro intrinsichezza, così palese quanta poté mai destar sospetto, tanto che solo la vista mancava, non per avere la prova ma solo per dire d'aver visto, tutte le altre circostanze tornando a pennello, ecco ciò che ci forza ad agire in questo modo; e tuttavia ai fini di una maggiore conferma, poiché in un'azione di tanto peso sarebbe deplorevole di procedere in furia, io ho spiccato in fretta verso il tempio d'Apollo in Delfo Cleomene e Dione, dei quali voi conoscete la ridondante perizia. Ora dall'oracolo tutto deve venirci, il cui divino consiglio solo potrà fermarmi o spronarmi. Ho agito bene?

PRIMO SIGNORE: Ottimamente, mio signore.

LEONTE: Benché io ne sappia abbastanza e non m'occorrano altre prove, tuttavia l'oracolo darà la pace agli altri, simili a costui che per cieca credulità non si arrende al vero. Così abbiamo creduto bene che dalla nostra libera persona ella fosse segregata, acciò non potesse compiere il tradimento che i due fuggiaschi le hanno commesso.

Andiamo, seguiteci. Noi dobbiamo parlare in pubblico, perché questa storia ecciterà tutti qui...

ANTIGONO (a parte): Alle risa, credo, se fosse conosciuto il vero.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Una prigione

(Entrano PAOLINA, un Gentiluomo e persone del Seguito)

 

PAOLINA: Chiamate il custode della prigione; fategli sapere chi son io.

(Esce il Gentiluomo) Buona signora! Nessuna corte d'Europa è troppo alta per te! Che fai tu dunque in prigione?

 

(Rientra il Gentiluomo col Carceriere)

 

Ebbene, buon signore, mi conoscete, non è vero?

CARCERIERE: Quale una degna signora che io onoro assai.

PAOLINA: Allora vi prego di condurmi dalla regina.

CARCERIERE: Non posso, signora: ho esplicito ordine di fare il contrario.

PAOLINA: Quante precauzioni per impedire che la virtù e l'onore siano accostati da degni visitatori! E' permesso, ditemi, di vedere una delle sue dame? Una qualunque? Emilia?

CARCERIERE: Piacciavi congedare le persone del vostro seguito e io vi condurrò Emilia.

PAOLINA: Vi prego, chiamatela. E voi ritiratevi.

 

(Escono il Gentiluomo e gli altri del Seguito)

 

CARCERIERE: Ed io, signora, debbo assistere al vostro colloquio.

PAOLINA: Ebbene, sia pure, ve ne prego. (Esce il Carceriere) Tanta briga per fare apparir macchia ciò che non è, sorpassa davvero ogni arte di tintura.

 

(Rientra il Carceriere con EMILIA)

 

Diletta signora, come sta la nostra graziosa regina?

EMILIA: Così bene come possono stare insieme tanta grandezza e tanta sciagura. Tra spaventi e dolori quali mai eletta dama ne sopportò di più grandi ella s'è sgravata un po' prima del tempo previsto.

PAOLINA: Un maschio?

EMILIA: Una bambina. Una bella piccina vispa e vitale; la regina ne ha gran conforto e dice: "Mia povera prigioniera, io sono innocente come te".

PAOLINA: Oh, lo giurerei! Maledette queste pericolose e insane ubbie del re! Egli deve esser informato di tutto, e lo sarà. E' incombenza che si addice ad una donna; me ne occuperò io. Se la mia parola sarà di miele, possa la mia lingua coprirsi di galle e non essere più la tromba della mia infiammata collera. Vi prego, Emilia, esprimete alla regina la mia maggiore devozione: s'ella s'arrischia ad affidarmi la sua piccina, la mostrerò al re e procaccerò con ogni forza di essere il suo avvocato. Non sappiamo com'egli possa addolcirsi alla vista della bimba: spesso il silenzio dell'innocenza immacolata persuade, là dove le parole falliscono.

EMILIA: Mia degna signora, la vostra lealtà e la vostra bontà sono così evidenti che questa generosa impresa non può non avere un esito lieto. Non c'è dama al mondo che sia più adatta per cotesta grande missione. Piaccia a Vostra Signoria di venire nella prossima stanza ed io immediatamente farò conoscere alla regina la vostra nobile offerta:

è quanto ella stessa oggi divisava tra sé e sé, senza che osasse sollecitare alcuno a quest'azione d'onore, nella tema che le fosse negata.

PAOLINA: Ditele, Emilia, che userò tutta la lingua che ho; se lo spirito ne fluirà quanto l'arditezza dal cuore, non c'è da dubitare del mio esito.

EMILIA: Possiate esser benedetta per quanto fate! Vado dalla regina; vi piaccia venire più presso.

CARCERIERE: Signora, se piacesse alla regina di mandare la bambina, io non so in che rischio potrei incorrere, non avendo ordini al riguardo.

PAOLINA: Non abbiate paura per questo, signore. Quella bambina era prigioniera nel seno materno ed è stata poi per legge e corso della gran natura liberata e affrancata; ella non è affatto causa della collera del re né colpevole del trascorso, se trascorso vi fu, della regina.

CARCERIERE: Lo credo anch'io.

PAOLINA: Non temete: sul mio onore, mi frapporrò fra voi e il pericolo.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Una stanza nel Palazzo di Leonte

(Entrano LEONTE, ANTIGONO, Signori e Servi)

 

LEONTE: Né di giorno né di notte, alcun riposo. E' mera debolezza prendersela così, solo debolezza. Se non fosse ch'è ancora in vita la causa, o parte della causa, l'adultera... Poiché quel re da lupanare non è più a mia portata, è fuor di tiro, al sicuro d'ogni trama, ma lei... posso uncinarla. Se fosse scomparsa, se fosse stata data al fuoco, una metà del mio riposo mi tornerebbe ancora. Chi è là?

PRIMO SERVO: Mio signore!

LEONTE: Come sta il bambino?

PRIMO SERVO: Ha riposato bene stanotte, si spera che la sua malattia sia vinta.

LEONTE: Che nobiltà, vedete! Non appena s'accorse del disonore di sua madre, egli decadde subito, languì, s'accorò profondamente, attaccò e fissò a sé l'onta di quel disonore, perdette la vivacità, l'appetito e il sonno, e deperì a vista d'occhio. Lasciatemi solo, andate a vedere come sta. (Esce il Servo) Suvvia, non pensiamo più a lui: il solo pensiero della vendetta, da quella parte, si ritorce contro di me.

Egli è troppo potente in sé, nelle aderenze e nelle alleanze:

lasciamolo stare finché venga l'occasione. L'immediata vendetta sarà su di lei. Camillo e Polissene ridono di me, si trastullano al mio cordoglio; non riderebbero se potessi raggiungerli, né riderà lei, ch'è in mio potere.

 

(Entra PAOLINA con la bimba in braccio)

 

PRIMO SIGNORE: Non potete entrare.

PAOLINA: Oh anzi, miei buoni signori, aiutatemi voi. Temete per la sua ira tirannica piuttosto che per la vita della regina? Un'anima gentile e innocente più monda di colpa, di quanto egli sia geloso.

ANTIGONO: Mi par che basti.

SECONDO SERVO: Signora, non ha potuto dormire stanotte, ha ordinato che nessuno sia introdotto da lui.

PAOLINA: Non tanto zelo, buon signore. Vengo appunto a portargli il sonno. Sono quelli come voi, che strisciano come ombre intorno a lui e sospirano a ognuno dei suoi inutili gemiti, son quelli come voi che alimentano la causa della sua veglia. Io vengo con parole tanto salutari quanto vere, oneste quanto vere e salutari, a liberarlo da quell'umore che lo respinge dal sonno.

LEONTE: Che baccano è questo?

PAOLINA: Nessun baccano, mio signore, ma un colloquio necessario intorno ai compari di battesimo che occorrono a Vostra Altezza.

LEONTE: Come? Cacciate quest'audace dama! Antigono! Ti avevo ordinato di non lasciarla venire. Sapevo che l'avrebbe fatto.

ANTIGONO: Infatti le ho detto, mio signore, sotto pena della vostra ira e della mia, ch'essa non doveva venire.

LEONTE: Come, non puoi trattenerla?

PAOLINA: Dalla disonestà, sì, egli lo può; ma da questo, a meno ch'egli non segua il vostro procedere, di relegarmi per esser rimasta legata all'onore, credete, egli non può.

ANTIGONO: Ecco, vedete, voi la sentite. Quando vuol prendere le redini io la lascio andare; e non c'è rischio che inciampi.

PAOLINA: Mio buon sovrano, io vengo - e vi prego d'ascoltarmi, poiché mi professo vostra serva leale, vostro medico e il più obbediente consigliere, ancorché rischi, nel dare aiuto alle vostre sofferenze, di apparir tale assai meno di quelli che sembrano i più fidi - io vengo, dico, da parte della vostra buona regina.

LEONTE: Buona regina!

PAOLINA: Buona regina, mio signore, buona regina; dico buona regina e vorrei sostenerlo con la prova delle armi, se fossi un uomo, anche il men valido dei vostri.

LEONTE: Fatela uscire a forza.

PAOLINA: Porti la mano su me colui che non tiene ai suoi occhi; andrò via di qui per mia volontà, non appena eseguita la mia missione. La buona regina, poiché essa è buona, vi ha dato una figlia: eccola; e la raccomanda alla vostra benedizione.

 

(Depone la bimba)

 

LEONTE: Fuori! Una malefica virago! Via di qui, fuori della porta, questa intrigante ruffiana!

PAOLINA: Non dite così. Io sono tanto ignara di questa cosa quanto voi lo siete nel chiamarmi così; e onesta quanto voi siete fuor di senno:

che è abbastanza, ve lo garantisco, al modo come vanno le cose quaggiù, per una reputazione di onestà.

LEONTE: Traditori! Non volete metterla fuori! (A Antigono) Rendile la bastarda! Vecchio idiota che ti lasci beccare e cacciar di nido dalla tua signora Chioccia! Prendi la bastarda, ti dico, prendila su, e dalla alla tua arpia.

PAOLINA: Sian per sempre disonorate le tue mani se tu tocchi la principessa or ch'egli l'ha caricata di dissennate ingiurie.

LEONTE: Ha paura di sua moglie.

PAOLINA: Così dovreste far voi e non avreste più il dubbio di poter chiamare vostri i vostri figli.

LEONTE: Un nido di traditori!

ANTIGONO: Non son tale, per la luce del giorno!

PAOLINA: E neppure io; né alcuno all'infuori di uno, ed è lui stesso, perché condanna alla calunnia, il cui pungiglione è più aguzzo di quello della spada, il sacro onore di sé, quello della regina, del figlio pieno di speranze e della sua bimba; e non vuole, e al punto a cui stanno le cose è una maledizione non possa essere obbligato a farlo, estirpare una volta per tutte la radice del suo dubbio, che è marcia come mai furono salde quercia o pietra LEONTE: Una sgualdrina linguacciuta che prima ha battuto suo marito, ed ora si butta su di me! Questo sgorbio non è mio, è frutto di Polissene. Portatelo via di qui e lo si dia al fuoco insieme con la madre!

PAOLINA: E' vostra: e a voi si potrebbe applicare il vecchio proverbio: tal padre, tal figlio, purtroppo! Guardate, signori, benché lo stampo sia piccolo, pure è una copia esatta del padre suo, occhio, naso, labbro, il corrugar del ciglio, la fronte, guardate, fin l'incavo, le graziose fossette del mento e della guancia, il sorriso, il modellato e la forma della mano, dell'unghia e del dito; e tu, buona dea Natura che l'hai fatta sì eguale a colui che le ha dato il giorno, se è in tuo potere anche l'ordinamento dell'anima, fa' che tra i colori non ci sia il giallo, acciò ella non sospetti come lui che i suoi figli non siano di suo marito!

LEONTE: Oh la triviale strega! E tu, canaglia, meriti d'essere impiccato perché non le sai frenare la lingua.

ANTIGONO: Impiccate tutti i mariti che non son capaci di simile impresa, ed è molto se vi resterà un suddito.

LEONTE: Ancora una volta, portatela via.

PAOLINA: Il più indegno e snaturato dei signori non potrebbe far peggio.

LEONTE: Ti farò bruciare.

PAOLINA: Non m'importa: eretico è colui che accende il fuoco, non colei che ci brucia dentro. Non voglio chiamarvi tiranno, ma questo crudele trattamento che fate alla regina - incapace come siete di fondar l'accusa su altro che sul vostro scardinato cervello - ha pure sentore di tirannia e vi farà disonorato, sì, oggetto di scandalo al mondo.

LEONTE: In nome del vostro vassallaggio, portatela via da questa stanza! Se fossi un tiranno, che ne sarebbe della sua vita? Non avrebbe osato chiamarmi così se mi conoscesse per tale! Portatela via!

PAOLINA: Vi prego, non spingetemi fuori: me ne vado. Guardate la vostra bambina, signore: essa è vostra. Giove le mandi un miglior spirito per guida! Che bisogno c'è di queste mani? Voi che siete tanto indulgenti alle sue stramberie, non gli farete del bene, nessuno di voi. Sta bene, sta bene, addio. Ecco che ce ne andiamo.

 

(Esce)

 

LEONTE: Sei tu, traditore, che hai scatenato tua moglie? Mia figlia?

Levatela di qui. E tu che hai un cuore così tenero per lei portala via di qui e guarda che sia data immediatamente alle fiamme: te, dico, e nessun altro. Prendila subito ed entro un'ora vienmi ad annunciare che tutto è fatto, e con buoni testimoni, altrimenti voglio privarti della vita e di tutto ciò che stimi tuo. Se rifiuti e vuoi affrontare la mia ira dillo. Con queste mie mani farò schizzar fuori il cervello della bastarda. Va', portala alle fiamme, perché sei tu che hai scatenato tua moglie.

ANTIGONO: Non ho fatto questo, sire: i signori presenti, miei nobili compagni, potranno, se piacerà a loro, giustificarmi.

PRIMO SIGNORE: Noi lo possiamo; mio reale sovrano, egli non è colpevole se colei è venuta qui.

LEONTE: Siete tutti mentitori.

PRIMO SIGNORE: Supplico Vostra Altezza di concederci miglior credito:

siamo sempre stati vostri leali servitori, e v'imploriamo di volerci stimar tali: e vi preghiamo in ginocchio, a ricompensa dei nostri devoti servigi passati e futuri, che voi mutiate il vostro divisamento, il quale per esser così orrido e sanguinoso deve condurre a qualche nefasto esito. Vi preghiamo tutti in ginocchio.

LEONTE: Sono una piuma a ogni vento che soffia. Devo vivere per sentire questa bastarda inginocchiarsi e chiamarmi padre? Meglio bruciarla subito che maledirla poi. Ma sia! Che viva! Ma no, neanche!

Voi, signore, accostatevi: voi che avete mostrato cosi tenero zelo per la signora Chioccia, vostra levatrice per salvare la vita di quella bastarda, perché è una bastarda, è certo come questa barba è grigia, che arrischiereste voi per salvare la vita alla marmocchia?

ANTIGONO: Qualunque cosa mio signore, che la mia capacità possa compiere e la nobiltà possa impormi. E' il meno che possa fare.

Impegnerò quel po' di sangue che m'è rimasto per salvar l'innocente:

ogni cosa che sia possibile.

LEONTE: E' cosa possibile. Giura su questa spada che obbedirai al mio ordine.

ANTIGONO: Lo giuro, mio signore.

LEONTE: Ascolta e compilo, capisci? perché se tu fallisci su qualche punto sarà la morte, non solo per te ma anche per la tua linguacciuta moglie alla quale per questa volta perdoniamo. Noi ti ingiungiamo come a nostro vassallo che tu porti quella bastarda via di qui, in qualche remoto e deserto luogo del tutto fuori dei nostri domini e che tu la lasci là, senz'altra compassione, alla protezione di se stessa e alla mercé del clima. Poiché per stranio caso essa venne a noi, io t'ordino, secondo giustizia, a rischio di dannazione per l'anima tua e di tortura per il tuo corpo, di portarla in stranio luogo dove il destino possa allevarla o lasciarla morire. Raccoglila.

ANTIGONO: Giuro di fare questo, benché una morte immediata sarebbe stata più pietosa. Vieni, povera bimba. Qualche potente spirito possa istruire avvoltoi e corvi a farti da nutrici! Si dice che lupi e orsi, lasciando da parte la loro ferinità, hanno compiuto simile opera pietosa. Sire, siate prospero più di quanto quest'azione domanda! E la grazia divina combatta al tuo fianco contro la crudeltà che ti si usa, povera creatura condannata alla perdizione!

 

(Esce con la bimba)

 

LEONTE: No, non alleverò un figlio altrui.

 

(Entra un Servo)

 

SERVO: Piaccia a Vostra Altezza: corrieri mandati da coloro che avete inviati all'oracolo sono giunti da un'ora; Cleomene e Dione, felicemente giunti da Delo, sono sbarcati e s'affrettano alla corte.

PRIMO SIGNORE: Non vi spiaccia, sire, la loro celerità ha sorpassato ogni calcolo.

LEONTE: Hanno impiegato ventitré giorni; è una buona speditezza, la quale presagisce che il grande Apollo vuole affrettarsi a far luce su tutto ciò. Preparatevi, signori, convocate una Corte di giustizia, così che possiamo trarre in giudizio la nostra sleale sposa: poiché, com'essa fu pubblicamente accusata, così deve aver pubblico il processo e secondo le norme. Finché essa vivrà, il cuore mi sarà pesante fardello. Andate, e pensate a quello che v'ho ordinato.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO TERZO

SCENA PRIMA - Porto di mare in Sicilia

(Entrano CLEOMENE e DIONE)

 

CLEOMENE: Il clima è mite, l'aria dolce, fertile l'isola e il tempio avanza di molto le lodi che gli son d'ordinario tributate.

DIONE: Dovrò parlare, poiché molto m'hanno colpito, degli abiti celestiali, ché così debbo chiamarli, e del venerabile aspetto dei gravi sacerdoti che li indossano. E il sacrificio? Quale apparato e quale solennità ultraterrena nell'offerta!

CLEOMENE: Ma soprattutto, lo scoppio e l'assordante voce dell'oracolo, parente del tuono di Giove, mi resero tanto attonito ch'io non ero più nulla.

DIONE: Se il risultato del viaggio si dimostrerà favorevole alla regina - e così potesse essere! - com'è stato per noi prezioso, divertente e celere, non avremo perduto davvero il nostro tempo.

CLEOMENE: Grande Apollo, fa' che tutto vada per il meglio! Quelle proclamazioni che gravano di colpe Ermione mi piacciono poco.

DIONE: La violenza con la quale è stato condotto, chiarirà o darà fine a questo affare: quando l'oracolo, così suggellato dal gran sacerdote d'Apollo, mostrerà il suo contenuto, qualche cosa di sorprendente balzerà alla nostra conoscenza. Suvvia, cavalli freschi... e sia propizia la soluzione!

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Una Corte di giustizia

(Entrano LEONTE, Signori e Ufficiali)

 

LEONTE: Queste assise, lo diciamo con gran pena, sono un colpo al nostro cuore: la parte in stato d'accusa è figlia di re, moglie nostra e da noi molto amata. Ci si prosciolga dalla taccia di tirannia dacché così apertamente procediamo a far giustizia; e questa avrà il suo corso fino alla condanna o all'assoluzione. Introducete la prigioniera.

UFFICIALE: Piace a Sua Altezza che la regina compaia in persona qui davanti alla Corte. Silenzio!

 

(Entrano ERMIONE tra le Guardie, PAOLINA e altre Dame del Seguito)

 

LEONTE: Leggete l'atto d'accusa.

UFFICIALE (legge): Ermione, sposa del nobile Leonte, re di Sicilia, tu sei qui accusata e imputata di alto tradimento per aver commesso adulterio con Polissene, re di Boemia, e cospirato con Camillo per togliere la vita al nostro sovrano signore, il re, tuo regale sposo; il disegno di ciò essendo stato parzialmente rivelato dalle circostanze, tu, Ermione, in contrasto alla fede e al vassallaggio di un vero suddito, consigliasti e aiutasti costoro, per lor sicurezza, a fuggirsene nottetempo.

ERMIONE: Dacché la mia risposta non può che contraddire l'accusa e il solo testimonio a mio scarico non posso essere che io stessa, poco può valermi il dire che non sono colpevole; la mia integrità essendo creduta falsità, tale sarà creduta quando sia affermata da me. Ma con tutto ciò, se i divini poteri contemplano le azioni umane, come fan davvero, io non dubito che l'innocenza possa fare arrossire la falsa accusa e la pazienza possa far tremare la tirannia. Voi, mio signore, sapete bene, per quanto sembrate l'ultimo a saperlo, che la mia trascorsa vita è stata tanto continente, casta e sincera quanto oggi sono infelice, e in modo che sorpassa quanto la tragedia può dipingere, anche se aggiustata e recitata per commuovere spettatori.

Poiché guardate me, compagna del letto regale, partecipe di metà del trono, figlia di un gran re, madre di un principe di grandi speranze, qui tratta a cicalare e a parlare per la mia vita e il mio onore dinanzi a chiunque voglia venire ad ascoltare. In quanto alla vita, io l'apprezzo al peso che do al dolore, di cui ben volentieri farei a meno, ma l'onore è una eredità che lascio ai miei e solo per esso io combatto. Io faccio appello alla vostra propria coscienza, sire, prima che Polissene venisse alla corte, com'ero nel favor vostro e come meritavo di esserlo; e dopo ch'è venuto, in che ho ecceduto dai limiti del mio contegno verso di lui, che ora debbo apparire in una Corte di giustizia? Se ho oltrepassato di un sol punto i limiti dell'onore, se per atti o volontà ho inclinato in questo senso, induriscano i cuori di coloro che mi ascoltano e il mio più prossimo parente gridi all'infamia sulla mia tomba!

LEONTE: Non ho mai inteso che cotesti vizi sfrontati avessero meno sfacciataggine nel negare quel che han fatto di quanta ne avevano prima per compierlo.

ERMIONE: Questo è pur vero, benché non sia un detto che possa applicarsi a me, sire.

LEONTE: Voi non volete ammetterlo.

ERMIONE: Più che di veniali mende io non posso riconoscermi colpevole.

Per ciò ch'è di Polissene del quale mi si fa complice, confesso che l'ho amato com'egli stesso onorevolmente meritava, di una sorta d'amore in tutto degno di una dama mia pari, dell'amore stesso, e non altro, che voi ordinavate, e non averlo fatto credo che sarebbe stato in me disobbedienza e insieme ingratitudine a voi e al vostro amico, il cui affetto s'era dichiarato liberamente a voi fin da quando poteva parlare, fin dall'infanzia. Quanto alla cospirazione, poi, dico che non ne conosco il sapore, benché mi sia scodellata qui perché io l'assaggi. Ciò che so è che Camillo era un onesto uomo e perché ha lasciato la vostra corte, gli dèi stessi, non sapendone più di me, lo ignorano.

LEONTE: Sapevate della sua fuga, così come sapete quello che dovevate fare in sua assenza.

ERMIONE: Sire, voi parlate un linguaggio che non comprendo. La mia vita è alla mercé dei vostri sogni ed io ve l'abbandono.

LEONTE: I miei sogni sono le vostre azioni: avete avuto un bastardo da Polissene ed io l'ho soltanto sognato. Come siete stata senz'ombra di pudore - e quelle come voi son fatte a questo modo - così siete senz'ombra di verità, e per negare vi date più pena di quanta ne franchi la spesa; e come il tuo marmocchio è stato buttato fuori, da pari suo, non avendo un padre che lo riconosca - ciò ch'è piuttosto tuo crimine che suo - così tu devi provare la nostra giustizia, che nel più mite corso significa per te nulla meno che morte.

ERMIONE: Sire, risparmiate le vostre minacce: lo spauracchio onde volete atterrirmi io lo ricerco. Per me la vita non può essere di alcun profitto. La corona e il compenso della mia vita, il vostro favore, io do come perduti, perché intendo bene che sono spariti, anche se non so come ciò accadde. La mia seconda gioia e primizia del mio corpo, io sono esclusa dalla sua presenza come un essere pestilenziale. La mia terza consolazione, nata sotto malvagia stella, mi è levata dal tetto con la bocca innocente ancor piena del mio innocente latte, e condotta a morte; io stessa in ogni canto son proclamata una prostituta; con odio smodato i privilegi del parto, che appartengono a donne d'ogni specie, mi sono rifiutati; infine sono spinta in questo luogo all'aria aperta, prima che abbia avuto il tempo di recuperare le forze. E ora, mio sovrano, ditemi: quali benedizioni posso avere da viva, che debba io temer la morte? Perciò proseguite.

Ma udite ancor questo: non mi fraintendete: non per la vita, che considero meno di un fuscello, ma per l'onor mio che vorrei affrancato, se sarò condannata su semplici congetture, ogni altra prova dormendo eccetto quell'e destate dalla vostra gelosia, io vi dico che questa è violenza e non legge. Mi siano testimoni i Vostri Onori che mi appello all'oracolo: Apollo sia il mio giudice!

PRIMO SIGNORE: Questa vostra richiesta è in tutto e per tutto giusta.

Per conseguenza e in nome di Apollo, si adduca il suo oracolo.

 

(Escono alcuni Ufficiali)

 

ERMIONE: L'imperatore di Russia era mio padre. Oh fosse egli vivo e qui assistesse al processo di sua figlia! Oh potesse vedere l'abiezione della mia miseria, e con occhi di pietà, non di vendetta!

 

(Rientrano gli Ufficiali con CLEOMENE e DIONE)

 

UFFICIALE: Giurerete qui su questa spada della giustizia che voi, Cleomene e Dione, siete stati entrambi a Delfo, e di là avete portato questo suggellato oracolo commessovi dalla mano del gran sacerdote d'Apollo, e che da allora non avete osato rompere il sacro sigillo né leggere il segreto ivi rinchiuso.

CLEOMENE e DIONE: Giuriamo tutto ciò.

LEONTE: Rompete i sigilli e leggete.

UFFICIALE (legge): "Ermione è casta, Polissene senza rimprovero, Camillo un suddito fedele, Leonte un tiranno geloso, il suo innocente pargolo fu concepito legittimamente e il re vivrà senza eredi se quel ch'è perduto non sarà trovato".

SIGNORE: Sia benedetto il grande Apollo!

ERMIONE: Sia lodato!

LEONTE: Hai tu letto il vero?

UFFICIALE: Sì, mio signore, precisamente come sta scritto qui.

LEONTE: Non c'è nulla di vero in questo oracolo. Continui l'udienza; questa è mera impostura.

 

(Entra un Servo)

 

SERVO: Il re mio signore! Il re!

LEONTE: Che cosa accade?

SERVO: Sire, non detestatemi per quanto vi annunzio! Il principe vostro figlio, col solo immaginare e paventare la sorte della regina, se n'è andato.

LEONTE: Come? andato?

SERVO: E' morto.

LEONTE: Apollo è irato, i cieli stessi colpiscono la mia ingiustizia.

(Ermione sviene) Che c'è ora?

PAOLINA: Tal notizia è ferale per la regina: abbassate gli occhi e vedete ciò che fa la morte.

LEONTE: Portatela via di qui, il suo cuore non è che oppresso. Ella tornerà in sé. Ho troppo creduto nel mio sospetto. Vi scongiuro, datele amorevolmente qualche ristoro che la riporti in vita. (Escono Paolina e le Dame con Ermione) Apollo, perdona la mia grande empietà contro il tuo oracolo. Mi riconcilierò con Polissene, riguadagnerò il cuore della mia regina, richiamerò il buon Camillo, che ora dichiaro un uomo fidato e pietoso: poiché essendo trascinato dalla mia gelosia a sanguinosi pensieri di vendetta io scelsi Camillo per avvelenare il mio amico Polissene: cosa che sarebbe stata fatta se il saggio spirito di Camillo non avesse soprasseduto al mio pronto comando, benché obbedire o no fosse per lui cagione di ricompensa o di morte: ché tali erano il mio incoraggiamento e la mia minaccia. Egli, umanissimo e pieno del senso dell'onore, rivelò il mio disegno al mio regale ospite, lasciò qui la sua fortuna ch'era grande, come sapete, e si affidò al certo rischio di tutte le incertezze, ricco solo del suo onore. Come risplende accanto alla mia ruggine e come la sua pietà rende più nere le mie azioni!

 

(Rientra PAOLINA)

 

PAOLINA: Ora funebre! Oh, tagliate i lacci del mio corsetto, o il mio cuore nel romperli si schianterà!

PRIMO SIGNORE: Che accesso vi prende, buona signora?

PAOLINA: Quali raffinati tormenti, o tiranno, hai per me? Quali ruote o cavalletti o fuochi? Mi farai scorticare? Bollire nel piombo o nell'olio? Qual nuova o vecchia tortura riservi a me, che per ogni parola merito i tuoi più duri castighi? La tua tirannia congiunta ai tuoi gelosi furori, fantasie troppo deboli per bimbi, troppo scipite e vane per fanciulle di nove anni, vedi ora che hanno fatto, e impazzisci davvero, diventa pazzo da legare, perché tutte le tue scorse pazzie non erano che assaggi di questa. Che tu tradissi Polissene non era nulla; ciò mostrava solo che tu, per un pazzo, eri incostante e deplorevolmente ingrato; né molto fu che tu abbia cercato di avvelenare l'onore del buon Camillo per fargli uccidere un re; poveri trascorsi, questi, di fronte a quelli più mostruosi che attendevano! Fra i quali io reputo nullo, o infimo, che tu abbia fatto gettare ai corvi la tua piccina, benché un demone prima di far questo, avrebbe mutato in lacrime il fuoco degli occhi; né ascrivo del tutto a te la morte del giovane principe i cui degni pensieri, tanto alti in uno di così tenera età, spaccarono il cuore che poté comprendere come un padre insano e brutale disonorava la sua graziosa madre. Non è tutto ciò, no, di cui devi rispondere ma l'ultimo... oh, signori, quando l'avrò detto gridate orrore! la regina, la più dolce e cara creatura, è morta e la vendetta del cielo non è discesa ancora...

PRIMO SIGNORE: I poteri celesti lo tolgano!

PAOLINA: Vi dico ch'è morta, ve lo giuro. Se parola o giuramento non servono, andate e vedete: se potrete portare colore o lucentezza al suo labbro e al suo occhio, calore intorno o respiro entro di lei, io vi servirò come servirei dei numi. Ma tu, tiranno, non ti pentire di queste cose, poiché esse son ben più pesanti di quanto può smuovere il tuo pianto, e perciò non darti ad altro che alla disperazione. Mille ginocchi piegati per diecimila anni, nudi, nel digiuno, su una montagna desolata, in un continuo inverno perpetuamente in tempesta, non arriverebbero a far che gli dèi guardassero dalla tua parte.

LEONTE: Continua pure non dirai mai troppo. Ho meritato che tutte le lingue mi dicano quel che esse sanno di più amaro.

PRIMO SIGNORE: Non dite altro; qual si sia il fatto, questa arditezza di linguaggio vi fa torto.

PAOLINA: Me ne duole; mi pento di tutte le colpe che commetto, quando vengo a conoscerle. Ahimè! Ho troppo mostrato l'avventatezza di una donna. Egli è toccato in fondo al nobile suo cuore. Ciò ch'è perduto e senza rimedio, non dovrebbe provocare dolore: non vi accorate per la mia supplica al cielo. Vi supplico, fatemi anzi punire per avervi ricordato ciò che dovevate dimenticare. E ora, mio buon sovrano, sire, reale sire, perdonate una stupida donna; l'amore che portavo alla vostra regina... ma sciocca! non vuo' parlar più di lei, né dei vostri bambini... Non vuo' ricordarvi nemmeno il mio signore che pure è perduto. Fate ricorso alla vostra pazienza, e non dirò più nulla.

LEONTE: Tu non hai parlato che troppo bene quando più dicevi il vero; ed io l'accolgo assai meglio della tua compassione. Ti prego, conducimi alle morte spoglie della regina e di mio figlio. Avranno una sola tomba e su questa saranno scritte le cause della loro morte a nostra eterna vergogna. Una volta ogni giorno voglio visitare la cappella dove giaceranno, e sparger lacrime là sarà il mio unico svago. Per tutto il tempo che le forze mi concederanno, io fo voto di darmi a questa pratica giornaliera. Andiamo, e conducimi a questi dolori.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Boemia. Plaga desolata presso al mare

(Entrano ANTIGONO con la bimba, e un Marinaio)

 

ANTIGONO: Sei tu certo allora che il nostro vascello è giunto ai deserti di Boemia?

MARINA: Sì, mio signore. E temo che abbiamo preso terra in cattivo momento. Il cielo appare torbo e minaccia imminenti rovesci. In fede mia gli dèi sono in collera a causa di ciò che stiamo per fare e ci guardano biechi.

ANTIGONO: Sia fatta la loro sacra volontà! Va', torna a bordo, occupati del battello. Sarò da te di qui a poco tempo.

MARINAIO: Fate al più presto e non vi inoltrate troppo nella campagna.

Par che giunga la burrasca, senza contare che questo luogo è famoso per gli animali da preda che lo abitano.

ANTIGONO: Va'. Ti seguo subito.

MARINAIO: Sono ben contento di liberarmi così da quest'affare.

 

(Esce)

 

ANTIGONO: Vieni, povera bimba; ho inteso dire, ma non lo credo, che gli spiriti dei morti possono tornare a camminare sulla terra: se questo è possibile, tua madre m'è apparsa la scorsa notte, poiché mai sogno fu così eguale alla veglia. S'avanza verso di me una creatura che ora china il capo da una parte, ora dall'altra; mai ho veduto un essere così pieno e traboccante di cordoglio. In pure vesti bianche, come la santità in persona, ella si appressò alla cuccetta dov'ero steso; tre volle si inchinò dinanzi a me, e come prese fiato per parlare, i suoi occhi divennero due fontane. Calmatosi il loro émpito, ruppe in queste parole: "Buon Antigono, dacché il destino contro il miglior tuo sentimento t'ha scelto per colui che deve abbandonare a se stessa la mia povera bimba, secondo quanto hai giurato, ci sono in Boemia luoghi abbastanza deserti dove tu piangendo puoi lasciarla alle sue grida, e poiché la bimba dev'essere considerata persa per sempre, chiamala Perdita. Per tal cruda missione a te affidata dal mio signore tu non vedrai mai più tua moglie Paolina". E così, con acute strida, ella si confuse nell'aria. Assai sbigottito, io mi riebbi a poco a poco e pensai ch'era realtà e non sogno. I sogni sono sciocchezze; e tuttavia per questa volta, superstiziosamente, io mi lascerò guidare da questo. Tengo per fermo che Ermione è stata messa a morte e che Apollo ha voluto, essendo questa in verità prole del re Polissene, ch'essa fosse lasciata qui o per la vita o per la morte, sulla terra del suo vero padre. Possa tu prosperare, fiore! Riposa qui... e qui il tuo contrassegno, e qui questi ancora, che potranno, piacendo alla fortuna, servire ad allevarti, piccina, e in parte restar tuoi. La tempesta comincia, povera infelice che per colpa di tua madre sei così dannata all'abbandono e a tutto ciò che può seguirne! Non posso piangere, ma il mio cuore sanguina, e sono il più maledetto degli uomini per essere forzato da un giuramento a quest'azione. Addio! Il giorno si fa di più in più torvo, tu stai per avere una ninna nanna troppo rude. Mai ho visto, di giorno, i cieli così bui. Un grido selvaggio! Purché possa tornare a bordo! Oh, ecco l'animale a cui dàn la caccia! Sono finito per sempre!

 

(Esce, inseguito da un orso)

(Entra un Pastore)

 

PASTORE: Vorrei che non ci fosse età di mezzo fra i dieci e i ventitré anni o che la gioventù dormisse tutto questo intervallo; poiché non c'è nulla in cotesto tempo se non ingravidare ragazze, vilipendere gli anziani, rubare e darsi legnate. Ehi dico, sentite: ci potrebbero essere altri che questi cervelli caldi di diciannove o ventidue anni per cacciare con questo tempo? Han fatto fuggire all'impazzata due delle mie migliori pecore e temo che il lupo le troverà più presto del padrone. Se in qualche luogo le posso ritrovare, sarà dalla parte del mare, a brucare l'edera. Buona fortuna, se ci metterai la tua volontà!

Che c'è qui? Misericordia, è un marmocchio, e molto grazioso. Maschio o femmina, vorrei sapere... Una bimba, molto graziosa, molto graziosa.

Frutto certo di qualche marachella. Senza aver familiarità coi libri, posso leggere in questa marachella una cameriera di gran dama. Gli è stato un lavoro di sottoscala, o imbastito sopra un baule o dietro una porta; avevano più caldo quelli che l'han messa al mondo di quanto abbia ora qui questa poverina. La raccoglierò per pietà; e attenderò che mio figlio giunga. M'ha dato una voce proprio ora. Ehi! ohé!

 

(Entra il Contadino)

 

CONTADINO (di dentro): Ohé oh, ohé oh!

PASTORE: Come, eri così vicino? Se vuoi veder cosa da parlarne ancora quando sarai morto e marcito, vien qui. Che ti piglia, ragazzo?

CONTADINO: Ne ho visti due di spettacoli simili per mare e per terra!

Ma non posso più dir mare perché non c'è più che cielo ormai; e tra esso e il firmamento non potreste cacciare una punta di spillone.

PASTORE: Bene, ragazzo, che vuoi dire?

CONTADINO: Vorrei che vedeste solo come s'arrabbia, s'infuria e si divora la spiaggia! Ma questo non ci ha a che fare. Oh, le grida compassionevoli di quelle povere anime! Apparivano a volte e sparivano; ora il vascello forava la luna con l'albero maestro, ora era inghiottito dal fermento e dalla spuma come se gittaste un sughero in una botte. E se dal servizio di mare passiamo a quello a piedi, bisogna vedere come l'orso gli ha strappato la scapola, come gridava a me per aiuto, e mi diceva che il suo nome era Antigono, un nobile. Ma per finirla con la nave, aveste visto come il mare se la pappava, ma prima come i poveri diavoli gridavano e il mare si burlava di loro, come il povero gentiluomo urlava e l'orso si beffava di lui, e tutti e due urlavano più forte del mare e della tempesta.

PASTORE: Misericordia, quando è stato tutto questo, ragazzo mio?

CONTADINO: Ora, ora. Non ho battuto ciglio dacché ho visto questi spettacoli: gli uomini non sono ancora freddi sott'acqua e l'orso non ha ancora mangiato metà di quel signore e continua di buzzo buono.

PASTORE: Se fossi stato là per aiutare quel vecchio!

CONTADINO: Avrei voluto vedervi accanto alla nave per darle aiuto!

Alla vostra carità sarebbe mancata la terra sotto i piedi.

PASTORE: Son grossi guai, grossi guai! Ma guarda un po' qui, ragazzo.

E ora fatti il segno della croce; tu incontri cose che vanno a morte, io cose appena nate. Ecco uno spettacolo per te. Guarda, un abito di battesimo per un figlio di cavaliere! Guarda qui, prendi, prendi, apri questo. Così: fammi vedere: mi è stato predetto che le fate mi avrebbero dato la ricchezza; è una bimba rapita dalle fate. Apri questo: che c'è dentro, ragazzo?

CONTADINO: Siete un vecchio che ha fatto la sua fortuna. Se i vostri peccati di gioventù saranno perdonati, avrete da viver bene. Oro!

Tutto oro!

PASTORE: E' oro delle fate, ragazzo, e si mostrerà per quello che è.

Raccattalo, tienlo stretto e via! a casa, a casa per la via più breve.

Noi siamo fortunati, ragazzo, e per continuare ad esserlo non c'è che da conservare il segreto. Lascia andar le pecore e torniamo a casa, ragazzo mio, per la via più corta.

CONTADINO: Andate voi da questa parte con quel che avete trovato; io voglio andare a vedere se l'orso ha mollato il gentiluomo e quanto ne ha mangiato. Son bestie cattive solo se hanno fame. Se sarà rimasto qualcosa di lui, lo seppellirò.

PASTORE: Questa è una buona azione. Se puoi capire dai resti chi era quel gentiluomo, dimmelo e verrò a vederli.

CONTADINO: Diamine, sicuro, e m'aiuterete a metterlo sotto terra.

PASTORE: E' un giorno fortunato per noi e perciò dobbiam fare opere di bene.

 

 

 

ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

(Entra il TEMPO)

 

CORO: Io che son per alcuni il piacere, che tutti provo, gioia e terror dei tristi e dei buoni, io ch'eccito e rimuovo gli equivoci, or aligero, e con pieno diritto, perché figuro il Tempo, mi presento. Oh un delitto mio o del mio passo celere non è già s'io sorvolo sedici anni e lascio senza un solo sguardo cotesto spazio, perché è nel mio potere sovvertire, in un'ora nata dal mio piacere, le leggi, ed i costumi piantare e sradicare.

Ch'io passi qual fui sempre, innanzi al secolare ordine e a quel ch'or regna, io testimon d'ogni era che quegli ordini addusse; e tal fede sincera farò di nuove cose, e renderò stantìa la freschezza dell'oggi, come or la storia mia sembra in confronto ad esso. La mia clessidra or volto se la vostra pazienza può restare in ascolto, e sviluppo il mio quadro dopo un lungo intermezzo di sogno, e così giungo (Leonte abbandonando alla tortura del suo fatale morbo che l'ha tratto in clausura) nella bella Boemia. Di Florizel io dianzi vi parlai, il figliuolo del re, e procedo innanzi a dirvi di Perdita, in bellezza cresciuta come il vostro stupore. Qui sia la lingua muta a profetar di lei; sia nota volta a volta la cronaca del Tempo, così come s'è svolta.

La figlia d'un pastore, e quel che nel suo stato presente accade, e quello che poi l'è riserbato, del Tempo è l'argomento. Datemi a ciò permesso se mai sciupaste il vostro tempo peggio d'adesso; se no, che il Tempo v'auguri in sua persona qui che non possiate spenderlo mai peggio di così.

 

 

 

SCENA SECONDA - Boemia. Il Palazzo di Polissene

(Entrano POLISSENE e CAMILLO)

 

POLISSENE: Ti prego, buon Camillo, non importunarmi di più; è malanno per me negarti qualcosa, ma è morte concederti questo.

CAMILLO: Son quindici anni che non rivedo il mio paese, e benché per la più parte della mia vita abbia respirato aria straniera, desidero deporre là le mie ossa. Inoltre il pentito re, mio padrone, mi ha mandato a chiamare, ed altro motivo che mi sprona a partire è che io potrei essere di qualche sollievo, o almeno lo presumo, al suo cocente cordoglio.

POLISSENE: Se tu m'ami, Camillo, non cancellare tutti i tuoi scorsi servigi lasciandomi ora; il bisogno che ho di te è opera del tuo merito; meglio sarebbe stato non averti avuto che perderti così.

Avendomi tu avviato in questioni che nessuno senza di te saprebbe trattare convenientemente, ora devi o restare per compierle tu medesimo o portar via con te gli stessi servigi che mi hai resi; e di questi, se io non li ho apprezzati in giusta misura (e chi potrebbe farlo abbastanza?), sarà mio studio in avvenire di esserti più grato e sarà mio guadagno ancora questo accumularsi di atti amichevoli. Di quella fatale terra di Sicilia, ti prego, non parlarmi più: il suo nome mi punge col ricordo di quel pentito, come tu dici, e riconciliato re mio fratello, e della perdita della sua incomparabile regina e dei figli, dolorosa oggi come allora. Dimmi, quando vedesti tu il principe Florizel, mio figlio? I re non sono meno infelici se hanno figli senza merito di quel che sono perdendoli quando hanno dimostrate le loro qualità.

CAMILLO: Sire, son tre giorni che non ho visto il principe: quali più felici occupazioni lo tengano, io ignoro. Ma ho notato come una mancanza che egli da tempo è assai distratto dalla corte ed è meno assiduo di prima ai suoi principeschi esercizi.

POLISSENE: Anch'io l'ho notato, Camillo, e con qualche apprensione, tanto che c'è chi per mio incarico sorveglia le sue assenze, e da questi ho avuta la notizia ch'egli è di rado lontano dalla casa di un umilissimo pastore: un uomo, dicono, che dal nulla, e senza che i vicini possano comprenderne il perché, s'è elevato a una indicibile fortuna.

CAMILLO: Ho inteso, sire, di un tale uomo, che ha una figlia della più rara bellezza; e notizia di lei s'è alzata fin dove non si potrebbe credere, dato ch'essa è nata in una capanna.

POLISSENE: Anche di ciò ero informato; ma temo che sia questo l'amo che attira là mio figlio. Tu ci accompagnerai a quel luogo, dove senza svelar l'essere nostro, avremo un colloquio col pastore: dalla sua semplicità credo non sarà difficile trarre il motivo delle visite di mio figlio laggiù. Ti prego, siimi compagno in questa faccenda e metti da parte i tuoi pensieri della Sicilia.

CAMILLO: Obbedisco volenteroso ai vostri ordini.

POLISSENE: Il mio ottimo Camillo! Ora dobbiamo travestirci.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Una via presso la capanna del pastore

(Entra AUTOLICO, cantando)

 

Quando i narcissi fanno capolino, ohi, puttanella, ohilà, scendi il vallotto, allora l'anno è sopraffino e al pallido verno il sangue vermiglio è ricondotto.

Il lenzuol che s'imbianca sul cespuglio, ohi, come cantano gli uccelli, ohé!, fa' che s'aguzzi il cupido ronciglio, ché di birra un boccal pasto è da re!

La lodola che canta tíe, toitíe ohì, ohè, il tordo e la ghiandaia, cantan d'estate a me e alle drude mie mentre insieme sul fieno ci si sdraia.

Sono stato al servizio del principe Florizel e ai miei tempi ho indossato velluto di tre peli; ma ora sono a spasso.

Ma porterò per questo il lutto, o cara?

La bianca luna a notte si risveglia, e quando vagabondo nella strada, allora al segno m'avvicino meglio.

Se i calderai possono campare, e aver la borsa di pelle di troia, allora i conti miei potrò ben fare e sulla gogna confermarli al boia.

Il mio commercio è di lenzuola; quando l'avvoltoio fa il nido, attenzione alla biancheria minuta. Mio padre m'ha chiamato Autolico, il quale, essendo come me sotto l'influsso di Mercurio, era pur lui uno sgraffignatore di insignificanti quisquilie. Coi dadi e le femmine ho acquistato questa bardatura e la mia rendita è tutta di minuto scrocco. La galera e le botte son troppo potenti sulla via maestra, ed essere impiccato o percosso mi fa troppa paura; e quanto alla vita futura, cerco di dormirci sopra. Toh! Una preda! Una preda!

 

(Entra il Contadino)

 

CONTADINO: Vediamo: ogni undici montoni fan ventotto libbre di lana; ogni ventotto libbre di lana rendono una lira e qualche scellino; mille e cinquecento montoni tosati quanta lana fanno?

AUTOLICO (a parte): Se il laccio tiene, il merlo è mio.

CONTADINO: Non ce la faccio senza gettoni. Vediamo: che posso comperare per la nostra festa della tosatura? Tre libbre di zucchero, cinque di passolina, riso... Che farà del riso mia sorella? Ma mio padre le ha dato la direzione della festa, e lei se ne approfitta!

M'ha fatto fare ventiquattro mazzi per i tosatori, tutti cantanti di canzoni a tre voci e molto buoni, ma son quasi tutti tenori e bassi, c'è solo un puritano fra loro, e canta i salmi su arie di cornetta.

Bisogna che mi procuri dello zafferano per colorire le torte di pere, e scorza di noce moscata e datteri... No, datteri no, non sono nella mia lista: sette noci moscate, una radice o due di zenzero, ma queste posso farmele regalare, quattro libbre di prugne e altrettante di uva seccata al sole.

AUTOLICO (torcendosi al suolo): Oh, ma perché son nato?

CONTADINO: Misericordia...

AUTOLICO: Aiuto! Aiuto! Strappatemi solo questi cenci di dosso e poi venga la morte, la morte!

CONTADINO: Ahimè, disgraziato! Avresti bisogno di avere qualche cencio di più addosso, invece di toglierti questi.

AUTOLICO: Oh, signore, la loro infamia m'offende di più delle botte che ho buscato, ch'eran sode e a milioni.

CONTADINO: Ahimè, pover'uomo! Un milione di botte può farti male sul serio.

AUTOLICO: M'han derubato, signore, e percosso, m'han preso il mio denaro e tutto ciò che avevo su me, e poi m'hanno messo addosso questi orridi cenci.

CONTADINO: Chi è stato? Un cavaliere o un pedone?

AUTOLICO: Un pedone, dolce signore, un pedone.

CONTADINO: Davvero doveva essere un pedone a giudicare dai vestiti che t'ha messo addosso. Se codesta giubba è di cavaliere deve aver visto un servizio di molto attivo. Dammi la mano, voglio aiutarti; vieni, dammi la mano.

 

(Lo tira su)

 

AUTOLICO: Piano, signore, oh, oh!

CONTADINO: Ahimè, povero diavolo!

AUTOLICO: Oh, mio signore, piano, mio buon signore! Temo, signore, che mi si sia slogata la scapola.

CONTADINO: Come va? Potete stare ritto?

AUTOLICO: Piano, caro signore, (gli fruga in tasca) mio buon signore, piano. M'avete reso un servizio di carità.

CONTADINO: Hai bisogno di denaro? Ho qualcosa per te.

AUTOLICO: No, mio dolce signore, no, vi prego. Ho un parente a non più di tre quarti di miglio di qui, dal quale, appunto, mi recavo; là avrò denaro e tutto quel che mi abbisogna; non offritemi denaro, vi prego, ciò mi spezza il cuore.

CONTADINO: Che tipo d'uomo era quello che v'ha derubato?

AUTOLICO: Un tipo, signore, che ho già visto in giro con un trucco; l'ho conosciuto ch'era a servizio del principe: non posso dirvi, signore, per quale delle sue virtù, ma certo fu cacciato a frustate dalla corte.

CONTADINO: Per i suoi vizi, volevate dire. Non c'è virtù cacciata a frustate dalla corte. Là anzi la corteggiano per farcela restare, eppure non vuol farci che una breve sosta.

AUTOLICO: Volevo dire i suoi vizi, signore. Conosco bene quell'uomo; è stato dopo in giro con le scimmie, poi usciere di tribunale, più tardi acquistò un mazzo di burattini del Figliuol Prodigo; ha sposato la vedova di un calderaio a circa un miglio dal luogo dove sono la mia terra e i miei beni, e dopo aver svolazzato dall'una all'altra losca professione s'è fissato su quella di ladro vagabondo. Alcuni lo chiamano Autolico.

CONTADINO: Che il diavolo se lo porti! Un lestofante, sull'onor mio, un lestofante! E frequenta veglie, fiere e combattimenti d'orsi.

AUTOLICO: Verissimo, signore; è lui, è proprio lui la canaglia che m'ha ridotto in questo arnese.

CONTADINO: Non c'è furfante più vigliacco in tutta la Boemia; se l'aveste guardato male e gli aveste sputato addosso se la sarebbe svignata.

AUTOLICO: Devo confessarvi, signore, che non sono un lottatore; manco di fegato in queste cose, e vi assicuro che lui lo sapeva.

CONTADINO: Come state ora?

AUTOLICO: Mio buon signore, molto meglio di prima: posso stare ritto e camminare. Ora voglio congedarmi da voi e andarmene pian piano da quel mio parente.

CONTADINO: Vuoi che ti accompagni?

AUTOLICO: No, bel signore, no, buon signore.

CONTADINO: Allora stammi bene: devo andare a comprar spezie per la nostra festa della tosatura.

AUTOLICO: Buona fortuna, mio buon signore! (Esce il Contadino) La vostra borsa non è abbastanza pepata per comperare coteste spezie.

Sarò anch'io con voi alla vostra festa della tosatura. Se la mia marioleria non ne produce un'altra e se i tosatori non ne usciranno tosati, che il mio nome sia cancellato dal ruolo dei vagabondi e iscritto nel libro della virtù! (Canta)

Trotta trotta trotta pel sentiero, salta allegramente la barriera.

Un cuore lieto non si stanca mai, per il cuor triste a un miglio sono guai!

 

(Esce)

 

 

 

SCENA QUARTA - La Capanna del Pastore

(Entrano FLORIZEL e PERDITA)

 

FLORIZEL: Coteste insolite vesti danno vita a ogni parte di voi: non sembrate una pastora, ma Flora che fa capolino al principio d'aprile.

Questa vostra festa della tosatura è come un'accolta degli dèi minori e voi ne siete la regina.

PERDITA: Messere, mio grazioso signore, sgridarvi per le vostre esagerazioni non s'addice a me. Oh, scusate se ve ne parlo. La vostra alta persona, la leggiadra mira di tutto il paese, voi l'avete oscurata sotto una veste di pastore, e me, povera ed umile ragazza, avete adornata come una dea... Se non fosse che le nostre feste mettono un po' di pazzia in ogni pietanza e i convitati sono avvezzi a cibarsene, io arrossirei nel vedervi così abbigliato e verrei meno, credo, a guardarmi in uno specchio.

FLORIZEL: Benedico il giorno in cui il mio buon falco prese il volo attraverso il terreno di tuo padre.

PERDITA: Possa Giove darvi ragione! La di stanza di grado che c'è fra noi mi fa paura: la vostra grandezza non è abituata a temere. Proprio adesso tremo a pensare che vostro padre possa per avventura passar di qui come faceste voi. Oh, destino dell'uomo! Come si comporterebbe vedendo l'opera sua, nobile com'è, sì rozzamente rilegata? Che direbbe mai? E come potrei io, in questi fronzoli presi a prestito, sostenere la sua presenza?

FLORIZEL: Non temere nulla, se non allegria. Gli dèi stessi, umiliando all'amore le loro divinità, hanno assunto forme di bestie: Giove si fece toro e mugghiò, il verde Nettuno ariete e belò, e il dio vestito di fuoco, l'aureo Apollo, un povero modesto pastore com'io sembro ora.

Le loro metamorfosi non furono mai per una più rara bellezza, né avvennero in modo così casto, poiché i miei desideri non corrono innanzi al mio onore e la mia passione non è più calda della mia fede.

PERDITA: Ma il vostro proposito, signore, non potrà reggersi quando sia avversato, come avverrà, dalla potenza del re; e allora avrà la parola una di queste due necessità: che voi cessiate dalla vostra idea o io dalla mia vita.

FLORIZEL: Mia cara Perdita, ti prego, non oscurare la gioia della festa con tali strambe idee. O io sarò tuo, mia bella, o mio padre non m'avrà, perché non posso esser mio né nulla per alcuno, se tuo non sono prima. Sono ben deciso a questo, anche se il destino dicesse il contrario. Siate gaia, o mia gentile; soffocate siffatti pensieri col primo oggetto che vi capita sott'occhio. Ecco arrivare gli ospiti vostri; rasserenatevi, dunque, come se fosse il giorno in cui si celebrerà quel matrimonio che noi ci siamo giurati.

PERDITA: O madonna Fortuna, siateci propizia!

FLORIZEL: Guardate, i vostri ospiti si appressano; preparatevi a intrattenerli piacevolmente e la gioia imporpori i nostri visi.

 

(Entrano il Pastore, il Contadino, MOPSA, DORCAS e altri, tra i quali POLISSENE e CAMILLO travestiti)

 

PASTORE: Vergogna, figliuola! Quando la mia vecchia moglie viveva ancora, essa era in questo giorno vivandiera, cantiniera e cuoca, signora e serva insieme; accoglieva tutti, serviva tutti; cantava la sua aria e faceva il suo giro di danza; ora qui, proprio a capo della tavola, ora nel mezzo, curva sulla spalla di questo e di quello, con la faccia arrossata dal gran daffare, e se per rinfrescarsi prendeva qualcosa, beveva alla salute di ciascuno. Voi ve ne state in disparte come se a questa riunione voi interveniste per ricevere gli onori, non per farli. Ve ne prego, accogliete come benvenuti questi ignoti amici, ché questo è il mezzo per farci conoscer meglio e renderci più intimi.

Via, estinguete i vostri rossori e mostratevi per quel che siete, la padrona della festa; su via!, e augurateci il benvenuto alla vostra festa della tosatura affinché il vostro buon gregge possa prosperare.

PERDITA (a Polissene): Signore, benvenuto. E' volontà di mio padre che faccia io i doveri di casa oggi. (A Camillo) Siate il benvenuto.

Datemi quei fiori là, Dorcas. Onorevoli signori, per voi ecco il rosmarino e la ruta: essi conservano l'aspetto e l'odore tutto l'inverno; siano grazia e ricordo a voi due: benvenuti alla festa!

POLISSENE: Pastora, bella come sei, bene intoni alla nostra età i fiori dell'inverno.

PERDITA: Signore, quando l'anno comincia a invecchiare, non ancora alla morte dell'estate né al nascere del tremante inverno, i più bei fiori della stagione sono i garofani e le violacciocche screziate che alcuni chiamano bastarde di natura; di tale specie di fiori il nostro rustico giardino è deserto, e non mi curo di procurarmene i getti.

POLISSENE: Perché mai, gentile fanciulla, li trascuri?

PERDITA: Perché ho inteso dire che esiste un artifizio che nella loro screziatura ha tanta parte quanto la grande creatrice natura.

POLISSENE: E' possibile; e tuttavia i mezzi per corregger la natura sono ancora opera della natura, ond'è che l'arte, la quale voi dite aggiungersi alla natura, è anch'essa un'arte di natura. Voi sapete, mia soave fanciulla, noi maritiamo al più selvaggio tronco la marza più gentile, e da una gemma di più nobil razza facciam fecondare una corteccia di specie più vile; questa è un'arte che corregge, anzi cambia al tutto la natura, ma l'arte stessa è natura.

PERDITA: Così è.

POLISSENE: Fate allora il vostro giardino ricco di violacciocche e non chiamatele più bastarde.

PERDITA: Non pianterò il cavicchio in terra per metterne soltanto un getto più di quanto, se mi dipingessi, mi piacerebbe sentirmi dire da questo giovane che ciò è bene e solo per questo egli volesse rendermi madre. Ecco dei fiori per voi: spigo odoroso, menta, santoreggia, maggiorana e anche il fiorrancio che va a letto col sole e con lui s'alza in lacrime: son fiori di mezza estate e credo ch'essi si debbano dare a uomini di età mezzana. Siate benvenuti qui.

CAMILLO: Cesserei di brucare, se fossi del vostro gregge, per viver solo del guardarvi.

PERDITA: Ahimè, diverreste così smilzo che le raffiche di gennaio vi passerebbero da parte a parte. Ora, mio bell'amico, vorrei aver qualche fiore di primavera che possa convenire al tempo vostro; e al vostro, e al vostro, voi che portate su intatte fronde le vostre verginità in boccio. Oh, se avessi i fiori che tu, Proserpina, spaventata, lasciasti cadere sul carro di Plutone! Narcisi che precedono gli ardimenti delle rondini e affascinano di loro bellezza i venti di marzo, violette indistinte ma più soavi delle palpebre di Giunone o del respiro di Citerea, pallide primule che muoiono nubili prima di aver potuto sostenere tutta l'ardente forza di Febo, malattia assai comune alle fanciulle; altere primavere maggiori, e la corona imperiale, e gigli d'ogni specie, fra i quali il giaggiolo. Ecco i fiori che vorrei, per farvene ghirlande; e a voi, mio giovane amico, gettarne tanti da coprirvi tutto!

FLORIZEL: Come? Come un morto?

PERDITA: No, come un prato, che l'amore vi si stenda e giuochi, non come un morto: o se tale, da non essere seppellito che vivo e nelle mie braccia. Venite, prendete i vostri fiori. Mi par di recitare una parte come ho visto fare nelle pastorali della Pentecoste: certo è questa veste che mi fa mutar indole.

FLORIZEL: Quello che fate sorpassa sempre ciò che avete fatto. Quando voi parlate, cara, vorrei che non finiste più; quando cantate vorrei che così cantando faceste tutto, il comprare e il vendere, il dare elemosine e il pregare; e l'attendere alle vostre occupazioni vorrei che fosse sempre cantando; quando ballate vorrei che foste un'onda del mare affinché non faceste mai altro: sempre in moto, sempre così, e nessun altro compito per voi; ognuno dei vostri gesti, sì unico in ogni particolare, incorona quel che fate al momento, tanto che tutte le vostre azioni sono regine.

PERDITA: O Doricle, voi siete troppo largo di lodi; se la vostra gioventù e il sangue sincero ch'essa lascia felicemente trasparire non vi rivelassero un ingenuo pastore, io potrei assennatamente temere, mio Doricle, che voi mi corteggiaste al peggior fine.

FLORIZEL: Penso che voi avete così poca ragione di temere quant'è in me proposito di darvene motivo. Ma venite: il nostro giro di danza, vi prego. Datemi la mano, mia Perdita: così si appaiano le tortore che non intendono dividersi mai più.

PERDITA: Lo giuro per loro.

POLISSENE: Questa è la più bella ragazza di bassa condizione che mai abbia corso sui prati; non c'è nulla in tutto ciò che fa o che dimostra che non dia sentore di alcunché più grande di lei; è troppo nobile per esser qui.

CAMILLO: Ora le dice qualcosa che le fa salire il sangue al volto; ella è davvero la regina dei giuncati e della crema.

CONTADINO: Avanti, musica!

DORCAS: Mopsa dev'essere la vostra amante; perdiana, dell'aglio per correggere i suoi baci!

MOPSA: Via, sentite questa!

CONTADINO: Non più una parola. Ora dobbiamo comportarci a dovere.

Avanti, musica!

 

(Musica. Danza di Pastori e di Pastorelle)

 

POLISSENE: Vi prego, buon pastore, chi è mai quel bel garzone che danza con vostra figlia?

PASTORE: Lo chiamano Doricle e si vanta di avere una ricca pastura; ma lo dico per sua informazione e lo credo: ha il viso della verità. Dice che ama mia figlia e credo anche questo: perché mai la luna si mirò nell'acque com'egli resta là a leggere, per dir così, negli occhi di mia figlia; e, per dir tutto, credo che non si potrebbe decidere con un'approssimazione di mezzo bacio chi dei due ama di più l'altro.

POLISSENE: Essa balla con grazia.

PASTORE: Così fa ogni cosa. E vi dico ciò che dovrei tacere: se il giovane Doricle si decide per lei, essa gli porterà qualcosa ch'egli non si sogna nemmeno.

 

(Entra un Servo)

 

SERVO: Padrone, se appena sentiste il venditore ambulante ch'è alla porta, voi non vorreste più ballare a suon di piffero e di tamburello, no, la cornamusa stessa non vi smuoverebbe. Canta una quantità d'arie più svelto di quel che contereste moneta: le butta fuori come se avesse mangiato ballate, e gli uomini si fanno tutti orecchi a sentirlo.

CONTADINO: Non poteva capitar meglio. Che venga. Io vado proprio matto per le ballate, sempre che si tratti di cose tristi messe giù allegramente o di cose allegre cantate su un'aria di lagno.

SERVO: Ha canzoni per uomini e donne di tutte le misure; nemmeno un merciaio potrebbe trovar guanti così adatti ai suoi clienti; ha i più graziosi canti d'amore per ragazze, e senza porcherie, ciò ch'è raro, e con così delicati ritornelli di trulla e trallalalera, e "cioncala e zompala", che quando qualche sboccato sta, come si dice, per vederci della malizia e aprire un sudicio intermezzo nella canzone, egli fa rispondere alla ragazza "Brav'uomo non farmi del male", e lo respinge e lo scorna con un "Brav'uomo non farmi del male".

POLISSENE: Un ottimo compare.

CONTADINO: Credimi, tu parli di un diavolaccio ingegnosissimo. E ha merci che non siano avariate?

SERVO: Ha nastri di tutti i colori dell'arcobaleno, stringhe più stringate delle dotte orazioni di tutti gli avvocati di Boemia, quand'anche venissero da lui all'ingrosso, fettucce, spinette, cambrì e rense, e ci canta su come se fossero nomi di dèi o di dee; voi prendereste una camicia per un'angela tanto la sua canzone ne celebra il polso e il lavoro dello sparato.

CONTADINO: Ti prego, fallo venire e fa' ch'entri cantando.

PERDITA: Ammoniscilo di non usare parole sconce nelle sue canzoni.

 

(Il Servo esce)

 

CONTADINO: Ci son dei girovaghi che hanno in loro più di quanto si crederebbe, sorella mia.

PERDITA: Già, buon fratello, o piuttosto più di quanto ci si curi di supporre.

 

(Entra AUTOLICO cantando)

 

AUTOLICO: Lini più bianchi di neve raccolta, crespi più neri dell'ala del corvo, guanti come le rose di Damasco e per le facce e per i nasi maschere; monili di giaietto e per le dame collane d'ambra e profumi da camera; pettorine e cuffiette dorate, ottime per le vostre ragazze, giovinotti; spille e spilloni da stiro in acciaio di cui occorre a ogni zitella un paio; venite a comperare, su venite, se no le vostre donne impermalite piangeranno; ragazzi, su, venite!

CONTADINO: Se non fossi innamorato di Mopsa non mi prendereste un baiocco; ma, ridotto in schiavitù come sono, ne seguirà la servitù di qualche nastro e paio di guanti.

MOPSA: Che mi furon promessi prima della festa, ma non vengono troppo tardi ora!

DORCAS: V'ha promesso ben altro, se qualcuno non ha mentito.

MOPSA: V'ha pagato tutto quello che v'ha promesso: e forse qualcosa di più che vi sarà vergogna restituire.

CONTADINO: Son questi modi da ragazze? Ci farete veder le sottovesti al posto dei visi? Non potevate sceglier l'ora di mungere le vacche o l'ora di andare a letto o quella di stare al forno per dar la stura a tutti questi segreti, invece di spiattellarli qui davanti agli invitati? Fortuna che essi stanno a chiacchierar tra loro! Chiudete il becco e non una parola di più.

MOPSA: Ho finito. Venite, m'avete promesso un collo di pizzo e un paio di guanti profumati.

CONTADINO: Non t'ho detto come fui truffato per la via e alleggerito di tutto il mio denaro?

AUTOLICO: Davvero, signore, ci son dei truffatori in giro; perciò conviene assai di diffidare.

CONTADINO: Non temere, giovanotto, non perderai nulla qui.

AUTOLICO: Lo spero, signore, perché ho con me diversi involti di valore.

CONTADINO: Che hai qui? Ballate?

MOPSA: Vi prego, compratene alcune. Per la vita, mi piace una ballata stampata, perché allora si è certi che sono cose vere.

AUTOLICO: Eccone una su un'aria assai triste: dove si racconta come la moglie di un usuraio s'è sgravata di venti sacchi di denaro in una volta e come qualmente essa spasimava di mangiar teste di vipere e rospi alla diavola.

MOPSA: Lo credete vero?

AUTOLICO: Verissimo, e appena di un mese fa.

DORCAS: Dio mi scampi dallo sposare un usuraio!

AUTOLICO: Ecco qui il nome della levatrice, una certa signora Scilinguagnoli, e di cinque o sei oneste comari ch'erano presenti al fatto. Perché dovrei portare in giro frottole?

MOPSA: Oh, vi prego, compratela.

CONTADINO: Suvvia, mettetela da parte e fateci vedere altre ballate; compreremo poi le altre cose.

AUTOLICO: Ecco un'altra ballata su un pesce che apparve sulla costa mercoledì ottanta aprile, a quarantamila braccia sopra il livello dell'acqua e cantò questa ballata contro il duro cuore delle ragazze; si pensò che fosse una donna mutata in freddo pesce perché essa non voleva scambiar la carne con uno che l'amava. La ballata è molto triste e altrettanto vera.

DORCAS: E' proprio vero, credete?

AUTOLICO: L'attestano cinque firme di giudici e più attestazioni di quanto la mia ballata potrebbe contenere.

CONTADINO: Mettetela pure da parte; un'altra.

AUTOLICO: Questa è una ballata allegra, ma graziosa davvero.

MOPSA: Oh, sì, mostratecene qualcuna allegra.

AUTOLICO: E come! Eccone una più che allegra e si canta sull'aria "Corteggiavano un uomo due ragazze"; non c'è forse ragazza giù dalle parti di ponente che non la canti. E' molto richiesta, posso accertarvelo.

MOPSA: La sappiamo cantare tutt'e due; se tu vuoi fare una parte, sentirai: è in tre parti.

DORCAS: L'abbiamo appresa un mese fa.

AUTOLICO: Posso fare la mia parte. E' il mio mestiere, sapete; cominciamo con voi.

CANZONE.

AUTOLICO: Via di qui c'ho da partire; dove? a voi non debbo dire.

DORCAS: Dove dunque?

MOPSA: Dove?

DORCAS: Dove?

MOPSA: L'hai giurato - or fai il discreto? - di narrarmi il tuo segreto.

DORCAS: Anch'io vengo: dimmi dove...

MOPSA: Vai al mulino od al granaio.

DORCAS: Qui o lì, a fare un guaio.

AUTOLICO: Non vo qui né lì.

DORCAS: No?

AUTOLICO: Altrove!

DORCAS: D'amar me giurasti tu.

MOPSA: L'hai giurato a me di più?

Dove vai, di', dunque, dove?

CONTADINO: Canteremo tra poco questa canzone tra noi: mio padre e questi signori sono immersi in discorsi seri ed è meglio non disturbarli. Vieni e prendi con te il tuo sacco. Ragazze, comprerò qualcosa per tutt'e due. Merciaio, vogliamo roba di prima qualità.

Seguitemi, ragazze.

 

(Esce con Dorcas e Mopsa)

 

AUTOLICO: E le pagherai salate tutt'e due!

 

(Segue cantando)

 

Vuoi comprar qualche fettuccia qualche pizzo per la cuffia, mia pollastrella, mia cara?

seta vuoi, filo? uno spillo?

per il capo tuo un gingillo della foggia la più rara?

Su venite dal mercante, il denaro è un intrigante che ad ognun merci prepara!

 

(Rientra il Servo)

 

SERVO: Padrone, ci sono tre barrocciai, tre pastori, tre bovari, tre porcari che si sono mutati in uomini pelosi, si chiamano "sáltiri" e fanno una danza che le ragazze chiamano un guazzabuglio di sgambetti perché non ci hanno parte; ma esse stesse dicono che se non sembrerà troppo ruvida a coloro che non conoscono che il giuoco delle bocce, piacerà moltissimo.

PASTORE: Via! Non ne vogliamo sapere. Abbiamo già avuto fin troppo chiasso triviale. Capisco, signore, che vi abbiamo stancato.

POLISSENE: Siete voi che infastidite quelli che ci divertono; vi prego, fateci vedere questi quattro terzetti di mandriani.

SERVO: Uno di questi terzetti, signore, a quel che dice, ha già ballato davanti al re e non c'è il peggiore dei tre che non salti meno di dodici piedi e mezzo di buona misura.

PASTORE: Basta coi discorsi, e poiché questi buoni uomini ci hanno gusto, fateli entrare, ma alla svelta.

SERVO: Già attendono alla porta, signore.

 

(Danza di dodici Satiri)

 

POLISSENE: Padre, ne saprete di più fra poco. (A Camillo) Non sono andate troppo oltre le cose? E' ora di dividerli. E' un ragazzo ingenuo e parla troppo. (A Florizel) Ebbene, mio bel pastore? Il vostro cuore è pieno di qualcosa che vi distrae dalla festa. In verità quand'ero giovane e facevo all'amore come voi fate, mi divertivo a caricar di cianfrusaglie la mia bella. Avrei saccheggiato il tesoro di seta del merciaio e l'avrei rovesciato su di lei, per suo gradimento.

Voi l'avete lasciato andare senza comprar nulla. Se la vostra ragazza interpretasse male questo gesto e lo chiamasse mancanza d'amore o di generosità, voi sareste imbarazzato a risponderle, almeno se ci tenete a farla contenta.

FLORIZEL: Venerando signore, so che ella non ama le cianfrusaglie come queste; i doni che si attende da me sono ammassati e chiusi nel mio cuore: glieli ho assegnati già ma non ancora rimessi... Oh, ascoltami dar fuori la mia vita dinanzi a questo vecchio signore, perché a quel che pare ha amato anche lui un tempo! Io prendo la tua mano, questa mano morbida come la piuma della colomba e bianca com'essa o come il dente di un Etiope o come la ventilata neve vagliata due volte dalle folate del tramontano POLISSENE: Che succederà ora? Come gentilmente il giovane pastore sembra detergere la mano che era già senza macchia. Io v'ho interrotto Ma veniamo alle vostre dichiarazioni: ch'io intenda ciò che le dite.

FLORIZEL: Fatelo e siate mio testimonio.

POLISSENE: Anche questo mio vicino?

FLORIZEL: Anche lui e altri ancora, uomini, terra, cieli e tutto, che se fossi incoronato il più imperiale monarca, essendone degno, se fossi il più bel giovane che mai abbia fatto torcere occhi, o avessi forza e sapienza più di qualsiasi altro uomo, io non farei conto di tutto ciò senza il suo amore, per lei impiegherei queste cose: le conserverei al suo servizio, oppure le condannerei alla perdizione.

POLISSENE: Bella profferta.

CAMILLO: E che rivela un profondo affetto.

PASTORE: E voi, figlia mia, avete altrettanto da dirgli?

PERDITA: Io non so parlare così bene, proprio punto così bene, né pensare meglio, ma sul modello dei miei pensieri io taglio la purità dei suoi.

PASTORE: Datevi la mano, affare fatto! E voi amici sconosciuti, siatene testimoni: io gli do mia figlia e le farò una dote eguale alla sua.

FLORIZEL: Oh, basti la virtù di vostra figlia; quando morrà una certa persona, io avrò più di quanto ora non possiate sognare, e abbastanza allora da farvi stupire. Ma andiamo, fidanzateci l'uno all'altra davanti a questi testimoni.

PASTORE: Via, la vostra mano; e voi, figlia mia, la vostra.

POLISSENE: Piano, pastore, un momento, vi prego. Avete un padre?

FLORIZEL: Sì, ma... perché?

POLISSENE: E' informato di questo?

FLORIZEL: Non lo è e non lo sarà.

POLISSENE: Credetemi, un padre è alle nozze del figlio il convitato più adatto alla tavola. Permettetemi di chiedervi se vostro padre è diventato incapace d'affari che voglian senno o è istupidito dall'età o da sfibranti reumatismi? Può egli parlare e udire? Distinguere un uomo da un altro? Si occupa dei propri beni o è costretto a letto? O è tornato a non saper fare altro che ciò che faceva da bambino?

FLORIZEL: No, buon signore, egli sta bene e ha più vigore della maggior parte degli uomini della sua età.

POLISSENE: Per la mia barba bianca, se è così, gli infliggete un torto ben poco filiale. E' giusto che il figlio scelga da sé la sposa ma altrettanto giusto che il padre, cui sola gioia è una bella posterità, sia almeno interpellato in una simile questione.

FLORIZEL: Vi concedo tutto ciò, ma per qualche altra ragione, mio grave signore, che non sto ora a darvi, io non informo mio padre della cosa.

POLISSENE: Fateglielo sapere.

FLORIZEL: No.

POLISSENE: Ve ne prego.

FLORIZEL: No, non deve.

PASTORE: Faglielo sapere, figlio mio, non si dorrà quando saprà la tua scelta.

FLORIZEL: Via, via, non deve sapere. Passiamo al contratto.

POLISSENE: O piuttosto al divorzio, giovane signore, (si smaschera) che io non oso di chiamar figlio. Troppo sei abietto per esser riconosciuto tale. Tu, l'erede di uno scettro, aspiri dunque a un vincastro di pecoraio! E tu, vecchio traditore, mi duole che facendoti impiccare abbrevierò la tua vita di una sola settimana. Quanto a te, fresco campione di perfetta stregoneria che per certo dovevi conoscere con qual regale pazzerello avevi a che fare...

PASTORE: Oh. mio cuore!

POLISSENE: Farò scorticare la tua bellezza dalle spine e la renderò più volgare della tua stessa condizione. Per ciò che ti riguarda, scimunito ragazzo, se io mai intenda che tu appena sospiri di non poter rivedere questa pupattola - come, per quanto sta in me non la rivedrai - noi ti escluderemo dalla nostra successione e non ti considereremo più sangue nostro né nostro parente neppure a un grado più lontano di Deucalione. Sta' attento alle mie parole e seguici a corte. Tu, tanghero, benché soggetto al nostro sdegno, resta franco, per questa volta, dal colpo mortale che potrebbe infliggerti. E tu, incantatrice degna di un pecoraio e persino di chi - se il nostro onore non c'entrasse di mezzo - sarebbe anche indegno di te, se anche una volta gli aprirai il rustico chiavistello della tua casa o avvincerai ancora coi tuoi abbracci il suo corpo, io studierò per te una morte tanto crudele quanto tu sei tenera per sopportarla.

 

(Esce)

 

PERDITA: Anche qui, rovinata, non ho avuto molta paura, tanto che una volta o due sono stata sul punto di parlare e dirgli semplicemente che lo stesso sole che brilla sulla sua corte non ritrae poi il viso dalla nostra capanna, anzi la guarda egualmente. Volete andare, signore? Vi avevo detto ciò che ne sarebbe seguito. Vi prego, considerate la vostra condizione, questo sogno mio... ora che sono sveglia, non seguirò più di un pollice la mia parte di regina ma andrò a mungere le mie pecore e a piangere.

CAMILLO: E tu che dici, vecchio? Parla, finché sei vivo.

PASTORE: Non posso parlare né pensare e neppur oso sapete ciò che ora so. Oh signore! Voi avete rovinato un uomo di ottantatré anni che pensava di andarsene in pace nella tomba; sì, di morire nel letto nel quale morì mio padre e di riposare accanto alle sue ossa onorate, e ora un carnefice dovrà avvolgermi nel sudario e stendermi dove nessun prete getterà la sua palata di polvere. Oh, maledetta creatura che sapevi che questo era un principe e volesti arrischiarti a scambiar fede con lui! Rovinato! Sono rovinato! Se potessi morire entro quest'ora avrei vissuto per morire quando lo desidero.

 

(Esce)

 

FLORIZEL: Perché guardarmi così? Sono spiacente ma non spaventato.

Sono costretto a un ritardo, ma non mutato; resto qual ero; anzi, più mi slancio ora che vogliono trattenermi, e contro mia voglia non seguirò certo il guinzaglio.

CAMILLO: Grazioso mio signore, io conosco il temperamento di vostro padre, per il momento non ammetterebbe discorsi, né credo che voi desideriate di fargliene. Temo anche che per ora non sopporterebbe di vedervi; sicché fino a quando la furia di Sua Altezza non sia placata, non dovete comparirgli dinanzi.

FLORIZEL: Non ho l'intenzione di farlo. Siete Camillo, suppongo.

CAMILLO: In persona, mio signore.

PERDITA: Quante volte vi dissi che questo doveva accadere? Quante volte vi ho detto che questa mia nuova dignità durerebbe fino a quando non fosse scoperta?

FLORIZEL: Essa non potrebbe cessare se non con la violazione della mia fede; e allora che la natura schiacci il grembo della terra e faccia imputridire i germi che contiene! Alza gli occhi. Tu puoi, padre mio, cancellarmi dalla tua successione, io sono l'erede del mio amore.

CAMILLO: Accettate un consiglio.

FLORIZEL: Seguo quello della mia passione: se la mia ragione è pronta ad obbedirgli, sono dunque ragionevole; se no, l'animo mio, meglio piacendosi nella pazzia, accoglierà questa come una benvenuta.

CAMILLO: Questo è un atto insensato, signore.

FLORIZEL: Ditelo pure. Ma è il compimento dei miei voti e non posso vederci che onestà. Camillo, non per la Boemia, né per gli onori che vi si possono spigolare, né per tutto ciò che il sole vede o quel che il seno della terra rinchiude o che i profondi mari ascondono nelle loro insondate profondità, io romperei il mio giuramento a questo mio bell'amore. Perciò vi prego, voi che siete sempre stato il più riverito amico di mio padre, quand'io non ci sarò più - perché in fede mia non intendo più di rivederlo - spargete sul suo risentimento i vostri savi consigli e lasciatemi alle prese con la fortuna per il tempo avvenire. Questo potete sapere e riferire: io prendo il mare con lei, non potendo tenerla qui su questa riva. E ben propizio al nostro disegno ho un naviglio all'àncora qui vicino, che non era preparato a tal uopo. In quanto alla rotta che seguiremo, essa non interessa affatto la vostra curiosità né mi preme che sia nota.

CAMILLO: Oh, mio signore! Io vorrei che aveste un animo più cedevole ai consigli o più forte per quanto ora v'occorre.

FLORIZEL: Ascolta. Perdita. (Traendola da parte) Vi ascolterò fra poco.

CAMILLO: E' irremovibile, deciso alla fuga. Or sarebbe ventura se io potessi indirizzare la sua fuga in modo da servire il mio scopo, salvarlo dal pericolo, dare a lui una prova d'amore e di rispetto e a me il modo di rimirare la cara Sicilia e quell'infelice re, il mio padrone, che ho tanta sete di rivedere.

FLORIZEL: Ecco, buon Camillo, sono così carico di gravi faccende che lascio da parte fin la cortesia.

CAMILLO: Signore, credo che voi avete inteso parlare dei poveri servizi che ho reso a vostro padre per l'amore che gli ho portato.

FLORIZEL: Avete molto degnamente meritato da lui: è l'usata solfa di mio padre il parlare delle vostre azioni, né poco studio ha messo perché vengano ricompensate quanto sono apprezzate.

CAMILLO: Ebbene, mio signore, se vi compiacete di ricordare che io amo il re e per via di lui quel che gli è più prossimo, vale a dire la vostra graziosa persona, seguite il mio consiglio, sempre che il vostro più importante progetto, da voi già fissato, possa soffrir mutamenti. Sul mio onore sono in grado d'indicarvi un luogo dove avrete quelle accoglienze che si addicono a Vostra Altezza, dove potrete gioire della vostra amica, dalla quale vedo che è impossibile siate distolto, se non si voglia - lo tolgano gli dèi - la vostra rovina, dove infine potrete sposarla e far sì, coi miei migliori sforzi mentre sarete lontano, che il vostro malcontento padre si plachi e consenta che vi sposiate.

FLORIZEL: Come può esser compiuto. Camillo, un miracolo siffatto? Io potrei allora chiamarti più che uomo e affidarmi poi pienamente a te.

CAMILLO: Avete già pensato un luogo dove andare?

FLORIZEL: Non ancora; ma come un impensato incidente è colpevole della nostra azione avventata, così noi ci dichiariamo servi del caso, pronti a volare a ogni soffio di vento.

CAMILLO: Ebbene, ascoltatemi. Quel che vi dico è nel caso che voi non vogliate mutar proposito e insistiate nella fuga. Andate in Sicilia e là presentatevi con la vostra bella principessa (poiché tale, vedo, ha da essere) a Leonte; essa sarà abbigliata come si conviene alla compagna del vostro talamo. Credetemi, mi par di vedere Leonte aprir le sue braccia benevolmente e piangere dandovi il suo benvenuto, e chiedere a te, il figlio, perdono come se si trovasse innanzi al padre, e baciar le mani della vostra giovane principessa e di volta in volta dividersi tra il ricordo della sua passata crudeltà e la sua bontà presente, l'una votando all'inferno e chiedendo invece all'altra di crescere più celere del pensiero o del tempo.

FLORIZEL: Degno Camillo, qual pretesto per la mia visita dovrò addurre dinanzi a lui?

CAMILLO: Dite d'esser mandato dal re vostro padre per riverirlo e dargli consolazione. Signore, il vostro modo di comportarvi con lui e ciò che dovrete dirgli da parte di vostro padre, cose note solo a noi tre, io vi metterò in iscritto indicandovi ciò che dovrete dire ad ogni seduta, in modo che il re non possa supporre che voi non siate addentro alle cose più intime di vostro padre e non parliate col cuore di lui.

FLORIZEL: Vi sono molto obbligato. C'è del succo in quanto mi dite.

CAMILLO: E' partito più promettente che un selvaggio abbandono di voi ad acque senza strade, a rive non sognate, e certissimamente a chi sa quante sofferenze, senz'altra speranza di aiuto se non quella che si afferra al momento di perderne un'altra, nulla di certo all'infuori delle vostre àncore, che faranno il loro massimo se potranno fissarvi in luoghi dove detesterete di trovarvi; e per di più voi sapete che la prosperità è il vero vincolo dell'amore, di cui l'angustia può alterare il fresco colorito e insieme il cuore.

PERDITA: Avete ragione, per una sola di queste cose: io credo che il disagio possa far scolorar la guancia ma non sottomettere l'animo.

CAMILLO: Dite davvero così? Ne dovrà passar del tempo nella casa di vostro padre prima che ci nasca una come voi.

FLORIZEL: Mio buon Camillo, ella è tanto avanti nell'educazione quant'è indietro alla nascita nostra.

CAMILLO: Non posso dir ch'è peccato che essa manchi di istruzione perché pare capace d'impartirne a molti che insegnano.

PERDITA: Scusate, signore, se io arrossisco nel ringraziarvi.

FLORIZEL: Mia graziosa Perdita! Ma oh, su che spine ci troviamo!

Camillo salvatore di mio padre e ora mio, medico della mia casa, come possiamo fare? Noi non siamo vestiti come il figlio del re di Boemia né tali appariremo in Sicilia.

CAMILLO: Mio signore, non temete per questo: credo sappiate che tutto il mio avere è là; sarà mio compito di fare che abbiate reale equipaggio come se la commedia che rappresentate fosse mia. Per dimostrarvi, signore, che nulla vi mancherà, una parola...

 

(Parlano in disparte. Rientra AUTOLICO)

 

AUTOLICO: Ah. ah! Che sciocca è l'Onestà! E la Fiducia, sua sorella giurata, un'autentica sempliciona! Ho venduto tutte le mie cianfrusaglie: non più una pietra falsa, non un nastro o specchio o sacchetto di profumi o spilla o taccuino o ballata o coltellino o fettuccia o guanto o laccio da scarpe o braccialetto o anello di corno per preservare il mio pacco dall'inedia; tutti s'affollavano per essere i primi a comperare, come se le mie bazzecole fossero state reliquie e portassero benedizioni a chi le comprava; ciò che mi ha permesso di vedere quale borsa era in migliore stato e di ricordarmene a ogni buon fine. Il mio babbeo, a cui manca solo qualcosa per essere un uomo assennato, s'è talmente invaghito della canzone delle ragazze che non voleva toglier di mezzo gli zampetti finché non sapesse musica e parole; ciò che ha portato tutto il resto dell'armento intorno a me al punto che tutti gli altri loro sensi si riunirono nelle orecchie:

avreste potuto sfilar loro le sottane, non sentivan nulla; con nulla si poteva arraffare una borsa dalla tasca; avrei potuto limare chiavi che pendevano dalle catene, non c'era più niente, né udito né sentimento fuorché la canzone del mio messere, e l'ammirazione di tutti per quel nonnulla. Così che in quel periodo di letargo ho piluccato e tagliato parecchie delle loro borse da festa e se non fosse venuto il vecchio con quel baccano contro sua figlia e il figlio del re e a far fuggire spaventate le mie gracchie dalla pula non avrei lasciata viva una borsa in tutta quell'armata.

 

(CAMILLO, FLORIZEL e PERDITA vengono innanzi)

 

CAMILLO: No, ma le mie lettere con tale mezzo trovandosi là al vostro arrivo toglieranno quel dubbio.

FLORIZEL: E quelle che voi otterrete dal re Leonte...

CAMILLO: Soddisferanno vostro padre.

PERDITA: Possiate esser felice! Nulla ci dite che non sembri propizio.

CAMILLO: Chi è là? (Vede Autolico) Possiamo servirci anche di questo:

non trascuriamo nulla che possa esserci utile.

AUTOLICO: Se m'hanno udito, per me sarà la forca.

CAMILLO: Ebbene, che hai giovanotto? Perché tremi così? Non temere, nessuno ti vuol far del male.

AUTOLICO: Sono un povero diavolo, signore.

CAMILLO: Restalo pure e nessuno potrà rubarti questa condizione; tuttavia, per ciò ch'è dell'esterno della tua miseria, dobbiamo fare un cambio; spogliati subito - il caso è urgente come puoi supporre - e muta i tuoi panni con quelli di questo signore; benché lo svantaggio di tal mercato sia il suo, nondimeno, tieni, eccoti anche qualcosa di giunta.

AUTOLICO: Sono un povero diavolo, signore. (A parte) Vi conosco abbastanza.

CAMILLO: Via, ti prego, spicciati, il signore s'è già mezzo spogliato.

AUTOLICO: Dite sul serio? (A parte) Qui sento odore di gherminella.

FLORIZEL: Spicciati, ti prego.

AUTOLICO: In verità ho avuto una caparra. Ma in coscienza non posso accettarla.

CAMILLO: Slacciati. Slacciati. (Florizel e Autolico si scambiano le vesti) Fortunata signora, possa compiersi questa mia profezia! voi dovete ora ritirarvi in qualche macchia; prendete il cappello del vostro amato e calcatevelo sugli occhi, nascondetevi il viso, toglietevi il mantello e celate come potete il vostro vero aspetto, acciò voi possiate (io temo gli sguardi) arrivare a bordo senza essere riconosciuta.

PERDITA: Vedo che, per come si mette la commedia, debbo pure recitar la mia parte.

CAMILLO: Non c'è altro da fare. Avete finito costà?

FLORIZEL: Se incontrassi ora mio padre, non mi chiamerebbe figlio.

CAMILLO: No, voi non dovete avere il cappello. (Dà il cappello a Perdita) Venite con me, signora. Addio, amico mio.

AUTOLICO: Buon dì, signore.

FLORIZEL: O Perdita, che abbiamo dimenticato tutti e due! Una parola, vi prego.

CAMILLO (a parte): La prima cosa che farò sarà di informare il re di questa fuga e della loro destinazione, nella speranza di indurlo a inseguirli fin là; e potrò così in sua compagnia rivedere la Sicilia, che ne muoio di voglia.

FLORIZEL: Ci assista la fortuna! E così, Camillo, ci avviamo alla spiaggia.

CAMILLO: Quanto più presto, meglio sarà.

 

(Escono Florizel, Perdita e Camillo)

 

AUTOLICO: Capisco la faccenda, ho inteso tutto; avere l'orecchio aperto, l'occhio pronto e la mano svelta è necessario al tagliaborse; un buon naso è anche necessario per fiutare lavoro per gli altri sensi. Vedo che questo è il tempo in cui l'uomo ingiusto ha da prosperare. Che baratto sarebbe stato il mio anche senza la giunta! E che giunteria in questo scambio! Per certo gli dèi son quest'anno d'accordo con noi e possiamo fare tutto ciò che ci salta in testa. Il principe stesso sta facendone una grossa a filar via dal padre con quella sua palla al piede: se pensassi che fosse un atto di onestà d'informare il re, non lo farei; ma ritengo più furfantesco di celargli tutto, e in questo son fedele alla mia professione.

 

(Rientrano il Contadino e il Pastore)

 

Tiriamoci in disparte, ecco altro daffare per un cervello sveglio. Non c'è crocicchio, bottega, chiesa, udienza, esecuzione capitale che non diano buon profitto a un uomo attento. CONTADINO: Vedete, vedete, che uomo siete ora! Non c'è altro da fare che dire al re ch'essa è una bambina che fu barattata dalle fate e non è del vostro sangue e della vostra carne.

PASTORE: No, ascoltami.

CONTADINO: No, ascoltate me.

PASTORE: Ebbene, dimmi.

CONTADINO: Poiché essa non è del vostro sangue e della vostra carne, il vostro sangue e la vostra carne non hanno fatto torto al re e non debbono essere puniti da lui. Fategli vedere ciò che avete trovato accanto a lei, quelle cose segrete, tutto fuorché quello che lei ha indosso, e dopo di ciò mandate la legge a farsi benedire, ve lo garantisco.

PASTORE: Sì, io dirò al re tutto, ogni parola, e anche i lazzi di suo figlio; il quale, debbo dirlo, non e stato leale con suo padre e neppur con me, se stava per rendermi cognato del re.

CONTADINO: Davvero, cognato sarebbe stata la parentela più lontana in cui vi sareste trovato con lui, e il vostro sangue sarebbe diventato più prezioso di non so quanto all'oncia.

AUTOLICO (a parte): Ben detto, baggiani!

PASTORE: Bene, andiamo dal re; ho in questo fardello tanto da fargli grattar la barba.

AUTOLICO (a parte): Non so quale ostacolo questa doglianza potrà essere alla fuga del mio padrone.

CONTADINO: Pregate di cuore che egli sia al palazzo.

AUTOLICO (a parte): Per quanto io non sia naturalmente onesto, m'accade di esserlo per avventura; posso dunque metter da parte la mia truccatura di girovago. (Si toglie la barba finta) Ebbene, villici, dove ve ne andate?

PASTORE: Al palazzo, se non spiace a Vossignoria.

AUTOLICO: Che affari vi portano là? Di qual natura? Con chi? E che c'è in quel fardello? Dove abitate? I vostri nomi, la vostra età, fortuna, parentado, e tutto ciò che può interessar di sapere, suvvia, dichiaratelo.

CONTADINO: Siamo gente pulita, signore.

AUTOLICO: Menzogna. Siete rozzi e pelosi. Non mi raccontate fandonie:

esse non stan bene che ai mercanti, e infatti loro, in codesto, dàn sovente dei punti a noi soldati, ma noi li ripaghiamo con argento battuto, non con l'acciaio con cui ci si batte, sicché essi non ci dàn dei punti, ce li vendono!

CONTADINO: Vossignoria stava per darcene uno, di punti, se non si fosse ripresa a tempo.

PASTORE: Siete della corte, se non vi spiace?

AUTOLICO: Mi piaccia o no, son della corte. Non vedi tu l'aria della corte in questi paludamenti? E il mio incedere non ha la cadenza della corte? Il tuo naso non sente in me odor di corte? Non rifletto io sulla tua bassezza il disprezzo della corte? Pensi forse, perché m'industrio di cavarti qualche lume sull'esser tuo, che non sono uomo di corte? Sono cortigiano dalla testa ai piedi e tale che può toglierti d'imbarazzo o ostacolarti in questa faccenda tua, e con ciò ti ordino di esporre il tuo caso.

PASTORE: E' cosa che riguarda il re, messere.

AUTOLICO: Che avvocato hai presso di lui?

PASTORE: Non vi spiaccia, non capisco bene.

CONTADINO: Avvocato è parola di corte per dire regalo. Ditegli che non ne avete.

PASTORE: Non ho nulla, signore; né gallo, né pallina, né fagiano.

AUTOLICO: Beati noi, che non siamo così semplici di spirito! Ma poiché la natura poteva farmi come voi, non voglio disdegnarvi.

CONTADINO: Questi non può essere che un gran cortigiano.

PASTORE: Ha ricchi vestiti ma non li porta con garbo.

CONTADINO: Pare tanto più nobile quanto più i suoi modi sono bizzarri; è un grand'uomo, ve lo accerto. Si vede perché usa uno stuzzicadenti.

AUTOLICO: Quel fardello? Che c'è dentro? Perché quella scatola?

PASTORE: Signore, in questo fardello e in questa scatola sono nascosti certi segreti che nessuno, eccetto il re, deve sapere; ed egli li saprà prima che passi un'ora, se sarò ammesso a parlargli.

AUTOLICO: Vecchiaia. spendi male le tue fatiche.

PASTORE: Perché, signore?

AUTOLICO: Il re non è a palazzo; è in giro su un battello nuovo per scacciare la sua malinconia e respirare un po' d'aria; poiché se tu fossi capace di capir cose serie dovresti sapere ch'egli è pieno di cordoglio.

PASTORE: Così si dice, messere, a proposito di suo figlio che avrebbe dovuto sposare la figlia di un pastore.

AUTOLICO: Se quel pastore è ancora a piede libero, è meglio che prenda il volo. Le maledizioni che avrà, le torture che subirà saranno tali da rompere il dorso di un uomo e il cuore d'un mostro.

CONTADINO: Credete proprio, signore?

AUTOLICO: E: non rimarrà solo a provare ciò che di più doloroso può inventare il raffinamento e di più crudele la vendetta, ma tutti quelli che gli sono parenti, fosse pur solo di cinquantesimo grado, dovranno finir sotto le mani del carnefice: cosa purtroppo compassionevole ma anche necessaria. Un vecchio briccone che fischia dietro alle pecore, un allevator di montoni, che si studia di levare sua figlia ai massimi onori! Alcuni ritengono debba esser lapidato; ma codesta è morte troppo dolce per lui, io credo. Trascinare il nostro trono in un ovile! Tutte le morti insieme sembran troppo poche, e la più dura pare ancora troppo lene.

CONTADINO: Non vi spiaccia, signore, quel vecchio ha forse un figlio?

Ne sapete nulla?

AUTOLICO: Ha un figlio che sarà scorticato vivo, poi spalmato di miele e messo sopra un nido di vespe: lo si lascerà là fin che sia morto per tre quarti e un ette, poi gli si darà forza con acquavite o qualche altra infusione calda; dopodiché, spellato com'è nel più caldo giorno previsto dal lunario sarà messo contro un muro di mattoni e dovrà sostenere lo sguardo del sole di mezzogiorno mentre le mosche lo pungeranno a morte. Ma perché parliamo noi di tali bricconi traditori i cui tormenti non possono che farci sorridere, data la gravità delle loro colpe? Ditemi, poiché mi sembrate gente semplice e onesta, che avete da comunicare al re. Se vorrete avere per me qualche gentil considerazione potrò condurvi là dov'egli si trova, a bordo, procurar d'introdurvi alla sua presenza, sussurrargli una parolina in vostro favore. Se sarà nel potere di un uomo, oltre che in quello del re, di menare a effetto le vostre richieste, quell'uomo eccolo qui.

CONTADINO: Pare ch'ei sia una grande autorità; accordatevi con lui e offritegli dell'oro: benché l'autorità sia riluttante come l'orso, spesso si fa condurre per il naso con l'oro. Mostrate il didentro della vostra borsa al di fuori della sua mano, e non ci si pensi più.

Ricordate: lapidati! bruciati vivi!

PASTORE: Non vi spiaccia, messere, di guidar voi l'affar nostro:

eccovi l'oro che ho con me, altrettanto ve ne darò, e vi lascerò questo giovanotto in ostaggio finché non l'abbia portato a voi.

AUTOLICO: Dopo che io avrò compiuto ciò che ho promesso?

PASTORE: Sì, signore.

AUTOLICO: Sta bene, datemi la metà. E voi entrate per qualcosa in quest'affare?

CONTADINO: In qualche modo, messere, come dire... pelle pelle. Ma spero di cavarmela... senza essere scorticato vivo.

AUTOLICO: Oh, ma questo è il caso del figlio del pastore: lo si impicchi e servirà di esempio.

CONTADINO: Che consolazione, che bella consolazione! Bisogna andare dal re e mostrargli queste nostre meraviglie: ch'egli sappia che lei non è né vostra figlia né mia sorella: senza di che siamo spacciati.

Messere, vi darò tanto quanto questo vecchio vi dà, ad affare finito, e rimarrò, come lui vi ha detto, in ostaggio finche il denaro vi sarà portato.

AUTOLICO: Mi fiderò di voi. Camminate avanti in direzione della spiaggia; prendete a destra: do un'occhiata al di là della siepe e vi seguo.

CONTADINO: Quest'uomo è una benedizione per noi, lo posso dire, una vera benedizione.

PASTORE: Andiamo avanti come ci ha detto di fare. E' stato mandato dalla provvidenza per farci del bene.

 

(Escono il Pastore e il Contadino)

 

AUTOLICO: Se avessi l'idea di diventare onesto, vedo che la fortuna non lo permetterebbe. Essa mi fa cascar la manna in bocca. Mi si presenta ora una doppia opportunità: il denaro e il mezzo di rendere un servizio al principe mio padrone. Chissà che proprio ciò non possa tornare a mio vantaggio? Gli porterò sulla nave queste due talpe, questi due ciechi, s'egli penserà che la loro supplica non lo riguarda affatto e vorrà rimetterli a terra, mi chiami pure furfante per essermi arrogato simili uffizi. Sono ormai abituato a quell'ingiuria e all'infamia che le si accompagna. Vado a presentargli i due: può darsi che ne valga la spesa.

 

(Esce)

 

 

 

ATTO QUINTO

 

SCENA PRIMA - Una sala nel Palazzo di Leonte

(Entrano LEONTE, CLEOMENE, DIONE, PAOLINA e alcuni Servi)

 

CLEOMENE: Sire, voi avete fatto abbastanza e avete portato come un santo il vostro cordoglio. Non c'è colpa che abbiate potuto commettere che non abbiate redenta. In verità, avete fatto maggior penitenza di quanto fosse grande il trascorso. Fate infine ciò che il cielo ha fatto, obliate il male e come il cielo vi perdona perdonate a voi stesso.

LEONTE: Finché io ricordi lei e le sue virtù non potrò obliare le macchie ond'io la offesi e penserò sempre al torto che ho fatto a me stesso, e che fu sì grande da lasciare senza erede il mio trono e distruggere la più dolce compagna da cui mai uomo abbia generato le sue speranze.

PAOLINA: E' vero, è troppo vero, mio signore; se una per una sposaste tutte le donne del mondo o se da tutte voi prendeste qualche cosa di buono per farne una donna perfetta, colei che uccideste rimarrebbe ineguagliabile.

LEONTE: Lo credo io pure. Uccisa! L'ho uccisa! Sì, ho fatto questo, ma tu mi colpisci troppo duramente dicendo che l'ho fatto: è amaro sulla tua lingua come nel mio pensiero. Di grazia, ora non dirlo più così spesso CLEOMENE: Non ditelo più affatto, mia buona signora; avreste potuto dire mille altre cose che avrebbero arrecato maggior vantaggio al momento e fatto più onore alla vostra bontà.

PAOLINA: Voi siete uno di quelli che vorrebbero si risposasse.

DIONE: Se voi pure non lo volete, è che siete insensibile e al regno e alla perpetuità dell'augusto nome del nostro sovrano; e poco considerate quali pericoli, essendo Sua Altezza privo di posterità, possono abbattersi sul regno e distruggerne i sudditi nell'imbarazzo.

Che c'è di più santo che gioire della letizia toccata ormai alla defunta regina? E che di più santo ancora, per il sostegno della sovranità, per la felicità del presente e il bene dell'avvenire, di benedire di nuovo il talamo di Sua Maestà con una dolce compagna?

PAOLINA: Non v'è alcuna che sia degna, al paragone di quella che non è più. Inoltre gli dèi vogliono veder compìti i loro segreti fini; non ha forse detto il divino Apollo - tale è il tenore del suo oracolo, non è vero? - che il re Leonte non avrà erede finché non abbia ritrovato la figlia perduta? E che ciò avvenga è tanto inconcepibile alla nostra ragione come se il mio Antigono rompesse la sua tomba e tornasse a me, lui che in fede mia è morto con la bambina. E' vostro avviso che il mio signore debba opporsi al cielo e sia avverso alla volontà degli dèi. (A Leonte) Non vi curate di discendenza: la corona troverà un erede; il grande Alessandro lasciò la sua al più degno, e così si può credere che il suo successore fosse il migliore.

LEONTE: Buona Paolina che hai tanto in onore, oh lo so, la memoria di Ermione, così mi fossi regolato secondo i tuoi consigli: che potrei ora contemplare i grandi occhi della mia regina e cogliere il tesoro delle sue labbra.

PAOLINA: E lasciarle più ricche per quanto avessero concesso.

LEONTE: Tu dici il vero. Spose siffatte non esistono più: perciò non più moglie. Una che fosse peggiore di lei e da me trattata meglio farebbe sì che il santificato spirito della morta tornerebbe al corpo di lei, e qui, sul teatro dove noi peccatori ci agitiamo, apparirebbe crucciato nell'anima e chiederebbe: "Perché a me questo?".

PAOLINA: Se tal potere le fosse concesso, ne avrebbe ben donde.

LEONTE: L'avrebbe; e m'accenderebbe fino a uccidere colei che avrei sposato.

PAOLINA: Farei così anch'io. Se foss'io il suo fantasma errante vi farei osservare i suoi occhi e vi chiederei per quale smorta lor qualità voi l'avete scelta; poi darei in uno strido così lacerante che le orecchie vi si dovrebbero spaccare nell'udirlo e le parole successive sarebbero: "Ricorda i miei!".

LEONTE: Stelle! Stelle! E tutti gli altri occhi, carboni spenti! Non temere di alcuna sposa. Non avrò altre mogli, Paolina.

PAOLINA: Volete giurare che non vi sposerete mai senza il mio libero consenso?

LEONTE: Mai, Paolina, così la mia anima possa esser salvata!

PAOLINA: Allora, miei buoni signori, siate testimoni di questo giuramento

CLEOMENE: Lo mettete a una prova troppo forte.

PAOLINA: A meno che un'altra che sia il ritratto stesso di Ermione non gli si presenti allo sguardo.

CLEOMENE: Buona signora...

PAOLINA: Ho finito. Tuttavia se il mio signore vuole sposarsi e se lo volete, sire, non c'è rimedio, dal momento che tale è la vostra volontà - sia dato a me l'incarico di trovarvi una regina: essa non dovrà essere così giovane come lo era la vostra prima, ma sarà tale che se verrà il fantasma di questa avrà gioia nel vedervi tra le sue braccia.

LEONTE: Mia fedele Paolina, noi non ci sposeremo mai finché tu non ce l'ordinerai.

PAOLINA: Sarà il giorno in cui la vostra prima regina sarà di nuovo in vita. Nulla fino allora.

 

(Entra un Gentiluomo)

 

GENTILUOMO: Un tale che afferma di essere il principe Florizel, figlio di Polissene, con la sua principessa, la più bella ch'io abbia mai contemplato, chiede di essere introdotto alla vostra reale presenza.

LEONTE: Che significa ciò? Egli non viene come si addice alla grandezza di suo padre; il suo arrivo, così fuori delle formalità e improvviso, ci dice che non si tratta di una visita predisposta, bensì forzata dal bisogno o dal caso. Che seguito ha?

GENTILUOMO: Scarso e di poco rilievo.

LEONTE: E c'è la sua principessa, voi dite, con lui?

GENTILUOMO: Sì, il più impareggiabile pezzo d'argilla, io credo, che il sole abbia mai illuminato dei suoi raggi

PAOLINA: O Ermione, come ogni nuova ora mena vanto di sé al di sopra di una migliore trascorsa, così la memoria della tua bellezza sepolta deve far luogo a quella che ora si vede! Messere, l'avete detto e scritto voi stesso (ma ormai il vostro scritto è più freddo di colei che lo suggeriva) ch'ella "non era stata né mai sarebbe eguagliata", e la vostra poesia fluiva un tempo nell'elogio della sua bellezza; ma ora è malvagio quel riflusso che vi fa dire che ne avete visto una migliore.

GENTILUOMO: Scusate, signora; l'una, scusate ancora, l'ho quasi dimenticata; l'altra, non appena avrà colpito l'occhio vostro, conquisterà pure la vostra lingua. E' una creatura che se volesse dare inizio a una setta potrebbe estinguere lo zelo di tutti i seguaci di altre e far un proselite di chiunque invitasse a seguirla.

PAOLINA: Ma via, le donne no!

GENTILUOMO: Le donne l'ameranno per il fatto ch'è una donna di maggior merito di qualunque uomo; gli uomini perché è la più preziosa fra le donne.

LEONTE: Andate, Cleomene; conducete voi coi vostri degni amici questi ospiti al nostro abbraccio. (Escono Cleomene ed altri) E tuttavia è strano ch'egli ci giunga così di sorpresa.

PAOLINA: Se il nostro principe, il gioiello dei bimbi, avesse potuto veder quest'ora, egli avrebbe ben fatto il paio con questo signore; non ci correva neppure un mese fra le loro nascite.

LEONTE: Basta, ti prego, finiscila. Tu sai che per me egli muore di nuovo ogni volta che se ne fa parola; di certo quando vedrò questo signore le tue parole mi indurranno in pensieri che potranno trarmi fuor di senno. Eccoli qui.

 

(Rientrano CLEOMENE ed altri con FLORIZEL e PERDITA)

 

Vostra madre ha dimostrato di essere fedele al talamo nuziale, principe, poiché essa nel concepirvi ha stampato in voi l'impronta del vostro real genitore; se avessi ancora ventun anni potrei chiamarvi fratello, come allora chiamavo vostro padre, tanto la sua immagine e la sua aria stessa sono scolpite in voi, e parlare con voi di qualche scappata fatta insieme da poco. Siate caramente benvenuto! E la vostra bella principessa: una dea! Ahimè, io ho perduto una coppia che fra cielo e terra avrebbe potuto destar meraviglia come voi fate, eletti giovani. E fu così ch'io perdetti, per sola mia follia, la compagnia e l'amicizia del vostro valente genitore, per rivedere il quale io, benché viva nell'angoscia, desidero di vivere.

FLORIZEL: Per ordine suo ho toccato la Sicilia e da parte di lui vi porto tutti i voti che un re, da amico, può recare a un suo fratello; e se non fosse che l'infermità inerente al logorìo degli anni non avesse alquanto menomata la sua facoltà di agire secondo il suo desiderio, egli avrebbe misurato le terre e i mari che separano il vostro trono dal suo per riveder voi ch'egli ama, così m'ha ordinato di dirvi, più di tutti gli scettri e di tutti i viventi che oggi li portano

LEONTE: O fratel mio, mio buon signore! I torti che t'ho fatto, ecco che rincrudiscono in me! e coteste tue profferte, d'una gentilezza così rara, come mi parlano della mia pigra negligenza! Benvenuto qui come la primavera sulla terra. Ed è lui pure che ha esposto questa beltà senza pari al trattamento terribile, o almeno sgarbato, del tremendo Nettuno per salutare un uomo indegno delle sue pene e meno ancora del rischio della sua persona?

FLORIZEL: Mio buon signore, essa viene dalla Libia.

LEONTE: Lì dove il bellicoso Smalo, quel nobile e onorato signore, è amato e temuto?

FLORIZEL: Di la, mio regale signore. Da lui, le cui lacrime al punto della separazione ben dicevano costei sua figlia: e di là, col favore di un amichevole vento del mezzogiorno, noi abbiamo salpato per compiere l'incarico affidatomi da mio padre, di render visita a Vostra Altezza. Ho congedato il mio miglior seguito dalle rive della vostra Sicilia e l'ho rimandato in Boemia per informare non solo del mio felice esito in Libia, signore, ma anche del felice approdo mio e di mia moglie qui dove siamo.

LEONTE: Gli dèi beati purghino l'aria di ogni infezione finché soggiornerete qui! Voi avete un padre venerabile, un signore pieno di virtù, contro la cui persona tanto sacra io ho commesso peccato, e i cieli, notandolo con ira, m'han lasciato senza prole. Vostro padre, come merita, è benedetto dal cielo in voi, degno della sua bontà. Oh, quale avrei potuto essere, se avessi ora da contemplare presso di me un figlio e una figlia belli come voi!

 

(Entra un Signore)

 

SIGNORE: Mio nobile sovrano, ciò che devo riferirvi non sarebbe credibile se la prova non fosse così vicina. Non vi spiaccia, sire, il re di Boemia in persona vi manda il suo saluto. Egli vi chiede di arrestare suo figlio che rigettando in una e la dignità e il dovere è fuggito da suo padre e dalle sue speranze con la figlia di un pastore.

LEONTE: Dov'è il re di Boemia? Parla.

SIGNORE: Qui nella vostra città; l'ho lasciato or ora. Io parlo imbarazzato, come si confà al mio stupore e al mio messaggio. Mentre si affrettava alla vostra corte, in caccia, pare, di questa vezzosa coppia, egli incontra per via il padre e il fratello di cotesta sedicente signora che hanno lasciato il loro paese col giovane principe.

FLORIZEL: Camillo m'ha tradito! Lui, di cui l'onore e la fedeltà avevano finora resistito a tutte le stagioni.

SIGNORE: Potete metterlo sotto accusa, egli è qui col re vostro padre.

LEONTE: Chi? Camillo?

SIGNORE: Camillo, sire. Ho parlato con lui che sta ora interrogando quei due poveri diavoli. Non ho mai visto due esseri tremare così; s'inginocchiano, baciano la terra e si smentiscono ogni volta che apron bocca. Il re di Boemia si tura le orecchie e li minaccia di parecchie morti in una.

PERDITA: Oh mio povero padre! Il cielo ci ha mandato accanto delle spie e non vuole che il nostro sposalizio sia celebrato.

LEONTE: Siete sposati?

FLORIZEL: No, sire, e non pare probabile che possiamo esserlo mai. Le stelle, lo vedo bene, baceranno prima le valli; grandi e piccoli sono ugualmente giocati dalla fortuna.

LEONTE: Mio signore, costei è la figlia di un re?

FLORIZEL: Lo è, una volta ch'è mia sposa.

LEONTE: Ma questa volta, lo vedo alla fretta del vostro buon padre, non arriverà che assai tardi. Sono dolente, molto dolente, che vi siate staccato dal suo diletto, al quale il dovere vi levava; e dolente che la donna da voi eletta non valga in nascita quel che vale in bellezza, sì che voi possiate goderne da par vostro.

FLORIZEL: Cara, alza il viso: benché la sorte, visibilmente nostra nemica, ci perseguiti per mezzo di mio padre, essa non ha il potere di mutare per nulla il nostro amore. Vi supplico, sire, ricordatevi di quando voi non dovevate al tempo più di quanto io debba ora, e nel ricordo di tali affetti siate voi il mio difensore: alla vostra richiesta mio padre accorderà le cose più preziose come fossero inezie.

LEONTE: Se lo farà, io gli chiederò la vostra preziosa signora, che egli considera una cosa da nulla.

PAOLINA: Sire, mio sovrano, avete ancora troppa gioventù nell'occhio; neppure un mese prima di morire la vostra regina era ben più degna degli sguardi che ora date a costei.

LEONTE: In questi miei sguardi c'era ancora un pensiero per lei. (A Florizel) Ma la richiesta che m'avete fatta è rimasta senza risposta.

Vado da vostro padre: se il vostro onore non è stato debellato dai vostri desideri, io sono amico loro e di voi. Con tale compito vado verso di lui. Seguitemi dunque e osservate la strada che faccio.

Venite, mio buon signore.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Dinanzi al Palazzo di Leonte

(Entrano AUTOLICO e un Signore)

 

AUTOLICO: Vi prego, signore, eravate presente a questo racconto?

PRIMO SIGNORE: Ero lì all'apertura del fardello e udii il vecchio pastore spiegare come l'aveva trovato. Indi, dopo un attimo di stupore, ci fu ordinato a tutti di uscire dalla camera: questo solo mi pare d'avere udito dire dal pastore, ch'egli la bambina l'aveva trovata.

AUTOLICO: Mi piacerebbe molto di sapere la fine di questa storia.

PRIMO SIGNORE: V'ho detto la cosa in modo scucito, ma le alterazioni che osservai nel re e in Camillo erano proprio segni di stupore: a forza di fissarsi l'un l'altro pareva che strabuzzassero gli occhi; v'eran parole nel loro silenzio, linguaggio nel loro stesso gestire; avevan l'aria come se avessero udito di un mondo riscattato o di uno distrutto; uno straordinario moto di stupore appariva in entrambi; e il più attento osservatore che nulla sapesse più di quel che vedeva non avrebbe potuto dire se il significato era di gioia o di dolore, ma certo doveva essere l'eccesso di uno dei due.

 

(Entra un altro Signore)

 

Ecco un signore che forse ne sa più di noi. Che notizie, Ruggero?

SECONDO SIGNORE: Nient'altro che fuochi di gioia; l'oracolo è compiuto; la figlia del re è ritornata; un tale stupore è esploso in quest'ora, che gli scrittori di ballate non saranno capaci dl esprimerlo.

 

(Entra un Terzo Signore)

 

Ecco che viene il maggiordomo di madonna Paolina. Potrà dirvi di più.

Come vanno le cose ora, messere? Questa notizia che si dice vera è così simile a una vecchia favola che la sua veridicità ci pare molto sospetta. Il re ha dunque trovato la sua erede?

TERZO SIGNORE: Verissimo, se mai fatto reale fu confermato dalle circostanze; ciò che si dice potreste giurare d'averlo veduto, tanta concordanza v'è nelle prove. Il mantello della regina Ermione, il gioiello di lei attaccato al bavero, le lettere di Antigono trovate insieme, che tutti riconoscono di sua mano, la maestà della fanciulla che la fa così simile alla madre, l'impronta di nobiltà che la nascita, in lei, rivela al di sopra della sua educazione, e molte altre prove, proclamano che senza alcun dubbio ella è la figlia del re. Eravate presente all'incontro dei due re?

SECONDO SIGNORE: No.

TERZO SIGNORE: Avete allora perduto una scena che bisognava vedere coi propri occhi, ché le parole non possono descriverla. Là avreste veduto una gioia coronarne un'altra, così e in tal modo che pareva il dolore piangesse nel congedarsi da loro, tanto la loro gioia doveva passare per un guado di lacrime. Erano occhi che si alzavano, mani che si tendevano e maniere così alterate che i due, più che dai volti, potevano riconoscersi dagli abiti. Il nostro re, che pareva dovesse saltar fuori di sé dalla gioia della figlia ritrovata, come se questa gioia fosse diventata una perdita, ora piange e grida "Oh, tua madre, tua madre!", e chiede perdono al re di Boemia, poi abbraccia il suo genero, poi tormenta ancora la figlia coi suoi abbracci, ora ringrazia il vecchio pastore che se ne sta là come una fontana corrosa dalle stagioni di non so quanti regni. Io non ho mai sentito di un incontro come quello, che fa zoppicare ogni racconto che voglia tenergli dietro, e manda all'aria ogni descrizione.

SECONDO SIGNORE: E di grazia, ch'è mai avvenuto di Antigono che ha portato via di qui la bimba?

TERZO SIGNORE: E' anche questa come una vecchia favola che ha sempre nuovo filo da svolgere pur quando la credulità sonnecchia e non c'è più orecchio aperto. Fu sbranato da un orso, e n'è testimone il figlio del pastore al quale si può prestar fede, non solo per la sua ingenuità, ch'è molta, ma anche per un fazzoletto e alcuni anelli di lui che Paolina ha riconosciuti.

PRIMO SIGNORE: E ch'è avvenuto del suo battello e dei suoi seguaci?

TERZO SIGNORE: Naufragarono nel momento stesso in cui moriva il loro padrone e sotto gli occhi del pastore, sicché tutto ciò che fu strumento a esporre la bambina andò perduto quand'ella fu raccolta. Ma quale nobile lotta fra gioia e cordoglio si combatteva nel cuore di Paolina! Essa aveva un occhio a terra per la perdita dello sposo, un altro alzato al cielo perché l'oracolo si compiva; sollevava da terra la principessa e così la stringeva coi suoi abbracci come se volesse attaccarsela al cuore perché non dovesse più correre il rischio di perdersi.

PRIMO SIGNORE: L'altezza di questa scena meritava davvero un uditorio di re e di principi: ché tali ne erano gli interpreti.

TERZO SIGNORE: Uno dei più bei tratti, che gettò l'amo per prendermi gli occhi, ma acchiappò l'acqua e non il pesce, fu quando al racconto della morte della regina e del modo ond'ella vi giunse, dal re coraggiosamente confessato e lamentato, sua figlia rimase ferita a udirlo, finché, dopo esser passata da un segno di dolore all'altro, essa con un "ahimè" si mise, vorrei dire, a sanguinar lacrime, poiché son certo che il mio cuore piangeva sangue. Chi era più di marmo in quel momento cambiò colore, alcuni svennero, tutti erano in pena; se il mondo avesse potuto vedere quella scena il lutto sarebbe stato universale.

PRIMO SIGNORE: Son essi rientrati a corte?

TERZO SIGNORE: No: la principessa ha sentito parlare della statua della madre, ch'è custodita da Paolina, opera che è costata anni di lavoro ed è stata solo da poco finita da quel grande maestro italiano, Giulio Romano, che se avesse per sé l'eternità e potesse dar vita col fiato al suo lavoro ruberebbe il mestiere alla natura, tanto la imita alla perfezione, e ha fatto Ermione così simile a Ermione che dicono che uno le parlerebbe, e starebbe colla speranza d'una risposta. E là, trascinati da tutta l'avidità del loro affetto, essi sono andati, e là han l'intenzione di cenare.

SECONDO SIGNORE: M'ero immaginato che ella avesse là qualche affare d'importanza, perché da quando è morta Ermione, due o tre volte al giorno lei si recava a visitare quella remota casa. Andiamo noi pure ad aumentare con la nostra compagnia quel tripudio?

PRIMO SIGNORE: Chi si tratterrebbe dall'andarvi, avendone l'accesso?

Ad ogni batter d'occhio nasce una nuova letizia. Mancare vorrebbe dire essere incuranti di arricchire il nostro sapere. Andiamo.

 

(Escono i Signori)

 

AUTOLICO: E ora, se non fosse per la macchia della mia vita scorsa, quanti favori mi pioverebbero addosso! Io ho condotto il vecchio e il figlio suo a bordo dal principe; gli ho detto che li avevo sentiti parlare di un fardello o di non so che; ma lui in quel momento era tutto preso dalla figlia del pastore, tale la credeva, che aveva il mal di mare e lui stesso non stava molto meglio, continuando il temporale, sicché il mistero non fu svelato. Ma per me fa lo stesso, perché se anche io avessi svelato il segreto, non sarebbe stato apprezzato, in mezzo agli altri miei discrediti.

 

(Entrano il Pastore e il Contadino)

 

Ecco coloro ai quali ho fatto del bene contro la mia volontà e che già appaiono nella fioritura della loro fortuna.

PASTORE: Vieni, figlio mio; non son più in età da aver figli, ma tutti i tuoi, maschi e femmine, nasceranno signori.

CONTADINO: Capitate a proposito, messere. Voi rifiutaste l'altro giorno di battervi con me perché non ero gentiluomo di nascita. Vedete questi vestiti? Dite che non li vedete e ritenete pure che io non sia un gentiluomo di nascita; fareste meglio a dire che questi vestiti non sono gentiluomini di nascita. Datemi la smentita, fatelo, e provatevi a sostenere che io non sono ora un gentiluomo di nascita.

AUTOLICO: So che ormai voi siete un gentiluomo nato, signore.

CONTADINO: Già, e non ho cessato un minuto di esserlo durante queste quattro ore.

PASTORE: Lo stesso ho fatto io, ragazzo mio.

CONTADINO: E voi pure; ma io sono stato gentiluomo nato prima di mio padre, poiché il figlio del re mi ha preso per mano e mi ha chiamato fratello; e poi i due re han chiamato fratello mio padre, e poi il principe mio fratello e la principessa mia sorella han chiamato padre mio padre; e così piangevamo, e queste sono state le prime lacrime di gentiluomo nato ch'io abbia mai versate.

PASTORE: Figlio, possiamo vivere tanto da versarne delle altre.

CONTADINO: Sì, e in caso contrario sarebbe cattiva sorte, data la nostra situazione così prepostera.

AUTOLICO: Vi chiedo umilmente, signore, di perdonarmi tutti i torti che ho commesso verso Vostra Grazia e di voler parlare di me in buoni termini al principe mio padrone.

PASTORE: Oh sì, figlio mio, te ne prego; bisogna essere gentili, ora che siamo dei gentiluomini.

CONTADINO: Correggerai la tua vita?

AUTOLICO: Sì, se così piacerà alla vostra eminente Grazia.

CONTADINO: Dammi la mano; giurerò al principe che sei un onesto e sincero giovanotto se altri mai in Boemia.

PASTORE: Puoi dirlo, ma non giurarlo.

CONTADINO: Non posso giurarlo ora che sono un gentiluomo? Che lo dicano i contadini e i fittavoli, io lo giurerò.

PASTORE: E se si vedrà che è falso?

CONTADINO: Sia pur falso quant'è possibile, un vero gentiluomo può giurarlo per aiutare un amico, e io giurerò al principe che sei un bravo e valente giovinotto e che non ti ubriacherai; ma so bene che non sei un bravo e valente giovinotto e che ti ubriacherai: ma lo giurerò e vorrei che tu fossi un bravo e valente giovane.

AUTOLICO: Mi mostrerò tale, signore, per quant'è in mio potere.

CONTADINO: Sì, fa' di tutto per mostrarti un bravo giovane; se non mi stupisco come mai tu osi arrischiarti a ubriacarti senza essere un brav'uomo, non fidarti più di me. Ascoltate, i re e i principi nostri cugini vanno ad ammirare il ritratto della regina. Vieni, seguici; noi saremo i tuoi benevoli padroni.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Una Cappella in casa di Paolina

(Entrano LEONTE, POLISSENE, FLORIZEL, PERDITA, CAMILLO, PAOLINA, Signori e persone del Seguito)

 

LEONTE: O saggia e buona Paolina, quale grande consolazione ho avuto da te!

PAOLINA: Oh mio sovrano signore, se qualcosa io non ho fatto bene, l'intenzione mia era buona; tutti i miei servigi voi me li avete più che ripagati; ma che voi abbiate voluto accondiscendere a visitare questa mia povera casa col vostro coronato fratello e questi fidanzati eredi del trono, quest'è un'aggiunta della vostra benevolenza che la mia vita non sarà mai abbastanza lunga per ricambiare.

LEONTE: O Paolina, noi vi onoriamo di un bel disturbo; è che siamo venuti a vedere la statua della nostra regina: abbiamo traversato la vostra galleria, non senza godere di varie rarità, ma non abbiamo veduto ciò che mia figlia venne per vedere, la statua di sua madre.

PAOLINA: Com'essa visse ineguagliata, così la sua morta immagine, io credo, supera quanto avete finora contemplato o mano d'uomo abbia fatto: e perciò la tengo a parte, isolata. Ma essa è qui: preparatevi a vedere la vita imitata in maniera così viva come mai il sonno ha finto la morte: guardate e dite se non è così. (Paolina tira una tenda e scopre Ermione ritta come una statua) Mi piace il vostro silenzio, è la miglior prova della vostra meraviglia. Ma ora parlate: prima voi, mio sovrano. Vi pare abbastanza eguale?

LEONTE: Il suo naturale atteggiamento! Sgridami, cara pietra, che io possa veramente dire che tu sei Ermione: o meglio tu sei lei proprio nel tuo non muovermi rimprovero, poiché ella era dolce come l'infanzia, la virtù. Ma tuttavia, Paolina, Ermione non era così rugosa e annosa come pare costei.

POLISSENE: Oh, no davvero.

PAOLINA: Tanto maggiore ne appare l'eccellenza dello scultore che ha fatto passare sedici anni e l'ha fatta come se vivesse ora.

LEONTE: E ora ella potrebbe aver fatto tanto per la mia consolazione quanto fa adesso nel ferirmi il cuore. Oh, questo era il suo portamento e con tal viva maestà e calda vita, quale ora è qui raggelata, quand'io la corteggiai la prima volta. E n'ho vergogna:

forse che la pietra non mi rimprovera di essere più pietra di lei? Oh, sovrana opera! C'è un incanto nella tua maestà, che ha rievocato i miei mali alla mia memoria e che alla tua figliuola stupefatta ha tolto gli spiriti vitali rendendola di pietra come te.

PERDITA: E datemi licenza e non dite che è superstizione inginocchiarmi e chiedere la sua benedizione. Signora, cara regina che finiste quando io appena cominciai, datemi questa vostra mano da baciare.

PAOLINA: Abbiate pazienza, la statua è appena finita e il colore non è ancora asciutto.

CAMILLO: Mio signore, con troppa tenacia vi s'è attaccato il dolore se non han potuto disperderlo sedici inverni o asciugarlo altrettante estati; raramente una gioia durò sì a lungo o un dolore non si uccise assai prima.

POLISSENE: Mio caro fratello, fate che colui che fu la causa del vostro dolore ne prenda su di sé quanto può aggiungerne al suo proprio.

PAOLINA: In verità, mio signore, se avessi pensato che la vista di questa mia povera immagine, poiché la statua è mia, vi avrebbe ridotto così, non ve l'avrei certo mostrata.

LEONTE: Non abbassate la cortina.

PAOLINA: Non la guarderete più a lungo, per tema che la vostra fantasia vi faccia credere ch'essa si muove.

LEONTE: Lasciate! lasciate! Vorrei esser morto se già a quel che mi pare... Chi è che l'ha fatta? Guardate, mio signore, non direste voi ch'essa respira? e che queste vene portano davvero del sangue?

POLISSENE: Cosa magistrale: la vita stessa sembra scaldarle il labbro.

LEONTE: C'è del moto nella fissità del suo sguardo, tanto l'arte sa ingannarci.

PAOLINA: Tirerò la cortina; il mio signore è rapito a tal punto che finirà per credere ch'essa viva.

LEONTE: O dolce Paolina, fammi credere questo per vent'anni di seguito! Nessun senno del mondo eguaglia il piacere d'una tale follia.

Lasciala dunque stare così.

PAOLINA: Mi duole, sire, di avervi sconvolto a tal segno; ma potrei affliggervi ancora di più.

LEONTE: Fa' questo, Paolina, poiché tale afflizione ha un sapore dolce come il più cordiale conforto. Eppure, mi sembra, un soffio viene da lei. Qual raffinato scalpello ha mai potuto scolpire il fiato? Nessuno si burli di me se io la bacio.

PAOLINA: Mio buon signore, fermatevi: il rosso del suo labbro è umido:

lo rovinerete col vostro bacio e sporcherete il vostro con l'olio della pittura. Posso tirare la cortina?

LEONTE: No, no, per altri vent'anni.

PERDITA: Altrettanti potess'io star qui ad ammirare.

PAOLINA: O ritraetevi e lasciate subito la cappella, o preparatevi a una più grande meraviglia. Se voi potete reggere a tanto, io farò che la statua si muova davvero, discenda e vi prenda la mano: ma dopo voi crederete, ciò ch'io contesto subito, ch'io disponga di poteri magici.

LEONTE: Tutto ciò che potrete farle fare son contento di vederlo, tutto ciò che potrete farle dire, sarò contento di udirlo: poiché è altrettanto facile farla parlare che muovere.

PAOLINA: E' necessario che destiate in voi la fede. Ora tutti stian fermi; se qualcuno crede ch'io mi do a una pratica illecita esca subito.

LEONTE: Va' avanti: nessuno si muoverà.

PAOLINA: Musica, svegliala, avanti, suona! (Musica) E ora, scendi, non esser più di pietra, avvicinati, colpisci di stupore tutti quelli che ti guardano. Venite, io colmerò la vostra tomba; muovetevi, venite avanti, lasciate alla morte quella vostra rigidità poiché da lei la dolce vita vi riscatta. Voi vedete ch'ella si muove. (Ermione scende dal piedistallo) Non sussultate; le sue azioni saranno sante come voi sapete lecite le mie parole; non vi staccate da lei prima di averla vista morire ancora, poiché in tal caso la ucciderete di nuovo. Via, datele la mano; quand'era giovane l'avete corteggiata; ora ch'è più anziana, è lei che deve cominciare?

LEONTE: Oh, è calda! Se questa è magia, sia essa un'arte lecita come il cibarsi.

POLISSENE: Ella lo abbraccia...

CAMILLO: Si attacca al suo collo, se essa appartiene alla vita, fa' che parli.

POLISSENE: Sì, e che riveli dov'essa ha vissuto o come è stata sottratta di tra i morti.

PAOLINA: Che essa è viva, se si dicesse verrebbe schernito come una vecchia favola: e tuttavia par ch'ella viva sebbene ancora non parli.

Attendete un attimo. Vi piaccia intervenire, bella signora; inginocchiatevi e implorate la benedizione di vostra madre. Volgetevi, bella signora: la nostra Perdita è ritrovata.

ERMIONE: Voi dèi, abbassate gli sguardi e dalle vostre sacre urne versate le vostre grazie sulla testa di mia figlia! Dimmi, mio tesoro, dove mi sei stata conservata? Dove hai vissuto? Come trovasti la corte di tuo padre? Poiché tu udrai che io, sapendo da Paolina che l'oracolo dava speranza che tu fossi in vita, mi son conservata per assistere a questa fine.

PAOLINA: Non mancherà tempo per ciò; altrimenti c'è da temere che tutti loro vogliano in questa circostanza turbare la vostra gioia con un simile racconto! Andatevene insieme, voi illustri vincitori, e la vostra esultanza sia da tutti condivisa. Io, vecchia tortora, volgerò l'ala verso qualche ramo secco e là piangerò il mio compagno che non si troverà più, finché sia perduta anch'io.

LEONTE: Pace, Paolina! Tu dovresti avere uno sposo da me, come io da te una sposa. E è un patto che abbiamo fatto e suggellato con un voto.

Tu hai ritrovato la mia, e come hai fatto è ciò che resta da spiegare, perché io l'ho veduta, come credetti, morta e invano dissi tante preci sulla sua tomba. Non cercherò lontano, perché in parte so i sentimenti di lui, per trovarti un degno sposo. Vieni, Camillo, e prendi per mano lei, tu il cui merito e la cui onestà sono ben noti e qui attestati da noialtri due, coppia di re. Lasciamo questo 1uogo. Guardate ora il fratel mio! Perdonate entrambi se io misi mai il mio perfido sospetto nei vostri puri sguardi. Ecco il vostro genero, e figlio di re, che per l'intervento del cielo è il fidanzato di vostra figlia. Buona Paolina, menaci fuori di qui, dove noi possiamo a piacere interrogarci e risponderci a vicenda su ciò che ciascuno abbia compiuto in questo vasto intervallo di tempo dal giorno che fummo separati. Menaci via in fretta.

 

(Escono)

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