William Shakespeare

 

RE LEAR

 

 

 

PERSONAGGI

LEAR, re di Bretagna

IL RE DI FRANCIA

IL DUCA DI BORGOGNA

IL DUCA DI CORNOVAGLIA

IL DUCA D'ALBANIA

IL CONTE DI KENT

IL CONTE DI GLOUCESTER

EDGARDO, figlio di Gloucester

EDMONDO, figlio bastardo di Gloucester

CURANO, cortigiano

OSVALDO, maggiordomo di Gonerilla

Un vecchio, vassallo di Gloucester

Un Dottore

Un Matto

Un Ufficiale al servizio di Edmondo

Un Gentiluomo del seguito di Cordelia

Un Araldo

Servi del Duca di Cornovaglia

GONERILLA, REGANA, CORDELIA, figlie di Lear

Cavalieri che fanno parte del seguito di re Lear, Ufficiali, Messi, Soldati, ed alcuni Personaggi del seguito

 

 

 

 

 (La scena è in Bretagna)

 

ATTO PRIMO

 

SCENA PRIMA - Una sala di parata nel Palazzo di Re Lear

(Entrano KENT, GLOUCESTER, e EDMONDO)

 

KENT: Io pensavo che il re avesse più inclinazione per il duca d'Albania, che per il duca di Cornovaglia.

GLOUCESTER: A noi è parso sempre così; ma ora, nella divisione del regno, non apparisce quale dei duchi egli apprezzi di più; poiché le parti uguali sono pesate così bene, che la stessa meticolosità non saprebbe scegliere fra la porzione dell'uno e quella dell'altro.

KENT: Questo non è vostro figlio, signore?

GLOUCESTER: Il peso della sua educazione è toccato a me. Io ho arrossito così spesso di non riconoscer costui, che ormai ci ho fatto la faccia di bronzo.

KENT: Io non riesco a concepire...

GLOUCESTER: Messere, la madre di questo giovinotto vi riuscì: e appunto per questo le si arrotondò il grembo, e in verità, messere, si trovò ad avere un bambino per la sua culla prima di avere un marito per il suo letto. Vi sa di peccato?

KENT: Non saprei desiderare che il peccato non fosse stato commesso, il frutto essendone così bello.

GLOUCESTER: Ma io, messere, ho un figlio in regola con la legge, di circa un anno maggiore di questo, che tuttavia non è più caro ai miei occhi; sebbene questo briccone sia venuto al mondo un po' impertinentemente, prima d'esser mandato a chiamare, sua madre però era bella, fu un dolce sollazzo il farlo, e il bastardello dovette essere riconosciuto. Conosci questo nobile signore, Edmondo?

EDMONDO: No, signor mio.

GLOUCESTER: Il signore di Kent: ricordalo, d'ora innanzi, come mio onorabile amico.

EDMONDO: I miei servigi a Vostra Signoria.

KENT: Io debbo volervi bene, e cercare di conoscervi meglio.

EDMONDO: Signore, mi studierò di meritarlo.

GLOUCESTER: Egli è stato fuori per nove anni, e dovrà tornar via di nuovo. Viene il re.

 

(Fanfara. Entrano: uno che reca una corona, poi RE LEAR, i Duchi D'ALBANIA e DI CORNOVAGLIA, quindi GONERILLA, REGANA e CORDELIA con Persone del seguito)

 

LEAR: Accompagnate qui i sovrani di Francia e di Borgogna, Gloucester.

GLOUCESTER: Sarà fatto, mio signore.

 

(Escono Gloucester e Edmondo)

 

LEAR: Intanto noi esporremo i nostri più segreti propositi. Datemi quella mappa. Sappiate, dunque, che noi abbiamo diviso il nostro regno in tre parti; ed è nostro tenace proposito di scrollare ogni cura ed ogni occupazione dalle nostre vecchie spalle, affidandole a più giovani forze, mentre noi liberati dal fardello, ci trasciniamo lentamente verso la morte. Nostro figlio di Cornovaglia, e voi nostro non meno affezionato figlio d'Albania, noi abbiamo ferma volontà, in quest'ora, di proclamare pubblicamente le singole doti delle nostre figliuole, affinché possa essere impedita fin d'ora ogni futura contesa. I sovrani di Francia e di Borgogna, rivali illustri nell'amore per la nostra più giovane figliuola, hanno, ormai, fatto lungo il loro soggiorno di amore presso la nostra corte, e qui debbono avere una risposta. Dite su, figliuole mie, giacché noi oggi vogliamo spogliarci, ad un tempo, del governo, di ogni potestà di terre e dl ogni cura di Stato, quale di voi dovrem dire che ci vuole più bene?

Sentiamo, affinché la nostra liberalità più grande possa estendersi là, dove l'affetto naturale la reclama con diritto. Gonerilla, primogenita nostra, parla tu per prima.

GONERILLA: Signore, io vi amo più di quanto possano riuscire ad esprimere le parole: v'ho più caro della vista, dello spazio, della libertà; vi amo al di sopra di tutto ciò che può essere stimato ricco e raro; non meno della vita, quando è unita alla grazia, alla salute, alla bellezza, all'onore; vi amo quanto figliuolo amò mai padre, o padre si vide amato; di un amore, il quale rende povero il fiato e impotente la parola; io vi amo al di là di tutti questi modi così alti di amare.

CORDELIA (a parte): Che potrà fare Cordelia? Amare e starsene zitta.

LEAR: Di quanto è dentro questi confini (precisamente da questa linea a quest'altra), ricco di foreste ombrose e di campagne, d'irrigui fiumi e di sterminate praterie, noi ti facciamo signora: rimanga ciò in perpetuo proprietà dei discendenti tuoi e del duca d'Albania. Che cosa dice la nostra seconda figliuola, la nostra carissima Regana, moglie del Cornovaglia? Parla.

REGANA: Io sono fatta dello stesso metallo di mia sorella, e mi stimo del suo medesimo valore. Nel mio cuore schietto io trovo che essa esprime proprio i termini dell'amor mio, soltanto essa resta un po' al di sotto: giacché io mi protesto nemica di tutte le altre gioie che la più preziosa perfezione del senso possiede, e trovo che sono felice solamente nell'amore di vostra cara Altezza.

CORDELIA (a parte): Allora povera Cordelia! Eppure, no; poiché, ne sono sicura, il mio amore ha più peso della mia lingua.

LEAR: A te e ai tuoi rimanga per sempre in eredità questo ampio terzo del nostro bel regno, non inferiore in quanto a spazio, valore, e amenità, a quello assegnato a Gonerilla. Ora, sentiamo la nostra gioia, la nostra ultima figliuola, ma non quella che vale di meno, nel cui giovane amore cercano a gara di impegnarsi le vigne della Francia e le cascine di Borgogna: che cosa sai dire per strapparci un terzo più abbondante di quello delle tue sorelle?

CORDELIA: Nulla, mio signore.

LEAR: Nulla?

CORDELIA: Nulla.

LEAR: Nulla verrà dal nulla: rispondi un'altra volta.

CORDELIA: Infelice ch'io sono, non so far sollevare il mio cuore fino alle labbra: io voglio bene a Vostra Maestà quanto comporta il mio dovere; né più né meno.

LEAR: Come, come, Cordelia! Correggete un poco il vostro parlare, per timore di poter danneggiare la vostra fortuna!

CORDELIA: Mio buon signore, voi mi avete generato, allevato, voluto bene: io vi corrispondo, da parte mia, con quei doveri che sono giustamente convenienti; cioè vi obbedisco, vi amo, e vi onoro del mio meglio. Perché hanno marito le mie sorelle, se dicono che tutto il loro amore è per voi? Probabilmente, quando un giorno mi sposerò, l'uomo che riceverà dalla mia mano il pegno della mia fede, porterà via con sé metà dell'amor mio, metà delle mie cure, e dei miei doveri:

certo, io non mi mariterò mai come le mie sorelle, per dedicare tutto intero l'amor mio a mio padre.

LEAR: Ma c'è il tuo cuore in questo che dici?

CORDELIA: Sì, mio buon signore LEAR: Così giovane, e così priva di tenerezza!

CORDELIA: Così giovane, mio signore, e così sincera!

LEAR: Sia pure: la tua sincerità, allora sia la tua dote; poiché per il sacro splendore del sole, pei misteri di Ecate e della notte, per tutto l'influsso delle sfere, per effetto del quale noi esistiamo e cessiamo di essere, io qui sconfesso ogni mia cura paterna, ogni legame ed ogni affinità di sangue, e da questo momento io ti ritengo per sempre come una estranea al mio cuore e a me. Il barbaro Scita o colui che della sua stirpe fa pasto per saziare la sua fame, saranno buoni vicini del mio cuore, e vi troveranno pietà e soccorso al pari di te, che un giorno eri mia figlia.

KENT: Mio buon sovrano...

LEAR: Silenzio, Kent! Non ti mettere fra il drago e il suo furore. Io l'amavo sopra ogni altra cosa, e pensavo di affidare il mio riposo alle sue cure amorose. (A Cordelia) Via di qua, e fuggi gli occhi miei! La mia tomba sia la mia pace, come è vero che qui io ritiro da lei il cuore di suo padre! Chiamate il re di Francia. Via, chi si muove? Chiamate il duca di Borgogna. Cornovaglia, e voi duca di Albania, con le doti delle mie due figliuole cumulate questo terzo:

l'orgoglio, che essa chiama sincerità, la faccia sposa. Io investo voi due uniti insieme, del mio potere, della mia sovranità, e di tutte le grandi prerogative che si adunano intorno alla maestà. Noi per il periodo di un mese faremo la nostra dimora con ciascuno di voi, secondo un turno regolare, con una scorta di cento cavalieri che ci riserbiamo, e che dovranno essere mantenuti da voi. Noi riterremo solamente il nome di re, e tutti i titoli; il potere, i redditi del regno, il disbrigo di tutto il resto, miei amati figliuoli, sia affar vostro: a conferma della qual cosa, dividete tra di voi questa corona.

KENT: Regale Lear, che io ho sempre onorato come mio re, amato come padre mio, seguito come mio signore, a cui mi sono rivolto, come a mio grande protettore, nelle mie preghiere...

LEAR: L'arco è piegato e la corda tesa: schiva lo strale.

KENT: Lascialo pure scoccare, quand'anche la punta forcuta dovesse penetrare la regione del mio cuore. Kent sia scortese, una volta che Lear è pazzo. Che cosa pretenderesti di fare, vecchio? Credi tu che il dovere possa aver paura di parlare, allorché la potenza si inchina all'adulazione? L'onore è tenuto alla sincerità, quando la maestà si umilia fino alla pazzia. Annulla la tua sentenza; e, dopo miglior consiglio, frena cotesto tuo impeto orrendo. Risponda la mia vita del mio giudizio: la più giovane delle tue figliuole non è quella che ti vuole meno bene; né è vuoto il cuore di coloro, la cui voce sommessa non ripercuote il vuoto LEAR: Kent, per la tua vita, basta!

KENT: La mia vita io non l'ho considerata mai altro che una posta da rischiare contro i tuoi nemici, né mi fa paura il perderla, quando la tua salvezza ne sia la cagione.

LEAR: Via dagli occhi miei!

KENT: Vedici meglio, Lear e lascia che io rimanga ancora il vero punto di mira dell'occhio tuo.

LEAR: Ora, per Apollo...

KENT: Ora, per Apollo, o re, tu giuri pei tuoi dèi invano.

LEAR: Ah, vile! traditore!

 

(Mettendo mano alla spada)

 

ALBANIA e CORNOVAGLIA: Caro signore, frenatevi.

KENT: Colpisci; uccidi il tuo medico, e il suo onorario dallo alla sozza malattia. Revoca la tua sentenza; o finch'io possa far uscire un grido dalla mia gola, ti dirò che tu fai male.

LEAR: Ascoltami, rinnegato! Per il tuo dovere di suddito, ascoltami!

Poiché tu hai cercato di farci rompere il nostro giuramento (ciò che noi non osammo mai fare fino ad ora), e di interporti, con tracotanza estrema, fra la nostra sentenza e il nostro potere (ciò che la natura nostra e il nostro grado non possono ammettere), sia fatta valere la potenza nostra, e tu ricevi il premio che meriti. Noi ti accordiamo cinque giorni, perché tu provveda a metterti al riparo dalle sciagure del mondo; nel sesto pensa a volgere al nostro regno le tue spalle esecrate: se nel decimo giorno da questo la tua bandita carcassa sarà trovata nei nostri domini, quell'istante è la tua morte. Va', per Giove, ciò non sarà revocato!

KENT: Addio, re: poiché tu vuoi apparire così, la libertà vive lungi da questi luoghi e qui c'è l'esilio. (A Cordelia) Gli dèi prendano sotto la loro cara protezione te, o fanciulla, che pensi giustamente, ed hai parlato benissimo! (A Regana e a Gonerilla) E possano le vostre azioni esser d'accordo coi vostri magniloquenti discorsi, sicché da parole di amore possano derivare buoni effetti. Così, o principi, Kent dice a voi tutti addio, egli continuerà la sua vecchia strada in un paese nuovo. (Esce)

 

(Squillo di tromba. Rientra GLOUCESTER col RE DI FRANCIA, il DUCA DI BORGOGNA e le Persone del seguito)

 

GLOUCESTER: Ecco il re di Francia e il duca di Borgogna, mio nobile signore.

LEAR: Mio signore di Borgogna, noi ci rivolgiamo prima a voi che siete stato rivale di questo re nell'amore per la nostra figliuola. Che cos'è il meno che voi pretendete in dote corrente, insieme con lei, per non desistere dalla vostra richiesta di amore?

BORGOGNA: Regalissima Maestà, io richiedo non più di quanto Vostra Altezza ha offerto, né voi vorrete accordare di meno.

LEAR: Nobilissimo duca di Borgogna, allorché essa ci era cara, noi la tenevamo così alta, ma ora il suo prezzo è in ribasso. Signore eccola là: se in quella parvenza di sostanza, qualche cosa, o tutto l'insieme, può convenire e piacere a Vostra Grazia, con la sola aggiunta del nostro disfavore e niente altro, essa è la, ed è vostra.

BORGOGNA: Io non so che cosa rispondere.

LEAR: Insomma, coi difetti che essa ha, priva d'amici, adottata testé dall'odio nostro, dotata della nostra maledizione, e straniata dal nostro giuramento, intendete di prenderla o di lasciarla?

BORGOGNA: Perdonatemi, augusto signore: a tali condizioni non può avanzarsi scelta.

LEAR: Allora lasciatela, signore; poiché, per quella potenza che mi creò, io con questo vi ho detto tutta la sua ricchezza. (Al Re di Francia) In quanto a voi, gran re, io non vorrei tanto sviarmi dal vostro affetto, da unirvi a chi detesto: quindi, io vi scongiuro di indirizzare l'amor vostro per una via più degna, di quel che non sia una sciagurata, che la natura ha quasi vergogna di riconoscere per sua.

FRANCIA: Ciò è molto strano, che colei, la quale pur ora era il vostro più prezioso oggetto, l'argomento delle vostre lodi, il balsamo della vostra vecchiaia, la migliore, la più cara delle vostre figliuole, abbia potuto commettere, in questo breve attimo, una cosa tanto mostruosa, da venir spogliata del numeroso ammanto del vostro favore.

Certo il suo delitto dev'essere di un genere così snaturato, da rendersi mostruoso, oppure il vostro decantato affetto di prima deve essersi corrotto, ma per credere di lei questa cosa, è necessaria una fede, che la ragione non potrebbe mai far radicare in me senza un miracolo.

CORDELIA: Io supplico ancora Vostra Maestà... che se è perché a me manca l'arte sdrucciolevole e untuosa di parlare e non aver propositi (giacché quando mi propongo fermamente una cosa, io la faccio prima di dirla), voi facciate sapere, che non la macchia di un vizio, non un assassinio, non un'ignominia, non un azione impudica, o un passo disonorevole, mi ha fatto perdere la vostra grazia e il vostro favore; ma proprio il non possedere ciò, per la cui mancanza, appunto, io sono più ricca, cioè un occhio che chiede sempre, ed una lingua che io sono contenta di non avere, sebbene il non averla mi abbia perduta all'affetto vostro.

LEAR: Meglio che tu non fossi nata, piuttosto che non aver incontrato di più il mio piacimento.

FRANCIA: Non è che questo? una inerzia della natura, la quale spesso lascia inespressa la storia che essa vuol raccontare? Mio signore di Borgogna, che cosa dite alla nobile fanciulla? Amore non è amore, allorché esso ha che fare con delle considerazioni che sono lungi dal suo oggetto principale. La volete? Essa è di per se stessa una dote.

BORGOGNA: Nobile re, accordate non più che quella parte del regno che voi medesimo offriste, e qui stesso io prendo per mano Cordelia, duchessa di Borgogna.

LEAR: Nulla. Ho giurato: sono irremovibile.

BORGOGNA: Allora, sono dolente che voi abbiate perduto un padre fino al punto da dover perdere un marito.

CORDELIA: Si dia pace il duca di Borgogna! Dal momento che considerazioni di interesse formano l'amor suo, io non sarò sua moglie.

FRANCIA: Bellissima Cordelia, che sei ancor più ricca perché sei povera, più eletta perché abbandonata, più amata perché disprezzata, io mi impossesso, qui, di te e delle tue virtù: io, mi sia lecito, raccolgo ciò che vien gettato via. Dèi, dèi! E' strano che alla gelida noncuranza di costoro, l'amor mio dovesse accendersi, fino a divampare in venerazione. Re, la tua figliuola senza dote, gettata nelle mie braccia dalla ventura, è regina nostra, dei nostri sudditi, della nostra bella Francia: tutti i duchi dell'acquosa Borgogna non potranno ricomperare da me questa preziosa fanciulla disprezzata. Cordelia, di' addio a costoro, per quanto snaturati: tu perdi questo luogo, per trovarne uno migliore.

LEAR: Tu la possiedi, re di Francia: sia pur tua, poiché noi non abbiamo una tal figlia, e non rivedremo mai più la sua faccia. Perciò, vattene senza la nostra grazia, senza il nostro affetto, senza la nostra benedizione. Venite, nobile duca di Borgogna.

 

(Squillo di trombe. Escono Lear, il Duca di Borgogna, il Duca di Cornovaglia, il Duca d'Albania, Gloucester e le Persone del loro seguito)

 

FRANCIA: Dite addio alle vostre sorelle.

CORDELIA: Gioielli del padre nostro, con gli occhi inondati di lacrime Cordelia vi lascia. Io so quello che siete, e, come sorella, mi ripugna immensamente chiamare i vostri difetti col loro vero nome.

Trattate bene nostro padre: io lo affido ai vostri cuori pieni di protestazioni; tuttavia, ahimè, se fossi nelle sue grazie, lo raccomanderei a miglior luogo. Così, addio a tutte e due.

REGANA: Non ci prescrivete il nostro dovere.

GONERILLA: Il vostro pensiero sia quello di far contento il signor vostro, il quale vi ha presa per carità della fortuna: voi avete lesinato l'obbedienza, e siete ben degna che vi manchi quel che vi è mancato.

CORDELIA: Il tempo svelerà ciò che l'avvolgimento dell'astuzia nasconde: chi copre i propri difetti, è schernito alla fine dalla vergogna. Possiate avere buona fortuna!

FRANCIA: Venite, mia bella Cordelia.

 

(Escono il Re di Francia e Cordelia)

 

GONERILLA: Sorella, io ho da dirvi non poco, di una cosa che interessa molto da vicino tutte e due. Credo che nostro padre andrà via di qui stanotte.

REGANA: E' certissimo, e verrà con voi; con noi il mese venturo.

GONERILLA: Voi vedete come è piena di cambiamenti la sua vecchiaia; l'esperienza che ne abbiamo fatta non è stata lieve: egli ha sempre voluto più bene alla nostra sorella che a noi; e con quanta miseria di discernimento ora l'abbia ripudiata, apparisce in modo troppo evidente REGANA: E' la debolezza dell'età; del resto, egli ha avuto sempre una scarsa coscienza di sé.

GONERILLA: Il periodo migliore e più sano della sua vita non è stato altro che avventataggine; perciò noi dobbiamo aspettarci, dalla sua vecchiaia, non soltanto i difetti di un'abitudine da lungo tempo inveterata, ma, oltre a questi, la capricciosa ostinatezza che gli anni, i quali rendono l'uomo cagionevole e bilioso, portano con sé.

REGANA: Noi corriamo il rischio di ricevere da lui uno di quegli scatti improvvisi, come quello dell'esilio di Kent.

GONERILLA: C'è ancora lo scambio di qualche altro complimento di congedo fra il re di Francia e lui. Ve ne prego, mettiamoci d'accordo:

se nostro padre fa valere la sua autorità, con quell'umore che si ritrova, quest'ultima resa del potere da parte sua non potrà che nuocerci.

REGANA: Ci ripenseremo ancora.

GONERILLA: Bisogna fare qualcosa, e battere il ferro finché è caldo.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Una sala nel Castello del Conte di Gloucester

(Entra EDMONDO, con una lettera)

 

EDMONDO: Tu, o Natura, sei la mia dea, i miei servigi sono legati alla tua legge. Perché io dovrei essere vittima di quella peste che è il costume, e permettere all'esagerato scrupolo delle nazioni di diseredarmi, per il solo fatto che sono indietro di dodici o quattordici lune, rispetto ad un fratello? perché bastardo? perché ignobile? una volta che le mie proporzioni sono così ben congegnate, la mia anima è così generosa, e la mia conformazione così schietta come se io fossi la prole di un'onesta dama? Perché ci bollano col titolo di ignobili, e parlano di ignobiltà, di bastardigia? Ignobili? ignobili? noi che nel furto vigoroso della natura attingiamo una tempra più solida, e maggior fierezza di carattere, che non vada a creare tutta una tribù di gonzi, generati, fra il sonno e la veglia, in un letto torpido, frollo, fiacco? Ebbene, legittimo Edgardo, io debbo avere la tua terra. L'amore di nostro padre spetta al bastardo Edmondo, come al figliuolo legittimo. Legittimo, bella parola! Eh! mio bel legittimo, se questa lettera cammina, e il mio disegno riesce, l'ignobile Edmondo prevarrà sul legittimo... Io divento grande, la fortuna mi assiste; ora, o dèi, parteggiate per i bastardi!

 

(Entra GLOUCESTER)

 

GLOUCESTER: Kent esiliato così, il re di Francia andato via in collera, il re partito stanotte, il suo potere passato ad altri, ridotto ad una pensione! Tutto ciò nell'estro del momento! Edmondo!

Ebbene, che notizie?

EDMONDO: Piaccia a Vostra Signoria, nessuna.

 

(Fingendo di metter via la lettera)

 

GLOUCESTER: Perché cerchi, con tanta premura, di metter via quella lettera?

EDMONDO: Non ho notizie, signor mio.

GLOUCESTER: Che cos'è quella carta che leggevi?

EDMONDO: Niente, mio signore.

GLOUCESTER: Niente? Allora che necessità c'era di quella terribile fretta di mandarla a finire nella tua tasca? Ciò che ha la qualità del nulla, non ha tutto questo bisogno di nascondersi. Vediamo, se si tratta di niente non avrò bisogno degli occhiali.

EDMONDO: Ve ne scongiuro, signore, perdonatemi: è una lettera di mio fratello, che non ho finita di leggere tutta; ma da quanto ne ho letta, trovo che non è conveniente che voi ci mettiate gli occhi sopra.

GLOUCESTER: Datemi quella lettera, messere.

EDMONDO: Io faccio male tanto a sottrarla, quanto a darvela. Il contenuto, per quel che in parte ne comprendo è da biasimare.

GLOUCESTER: Vediamo, vediamo.

EDMONDO: Io spero, a giustificazione di mio fratello, ch'egli abbia scritto ciò soltanto per avere un saggio della mia virtù, o metterla alla prova.

GLOUCESTER (legge) "Questo civile uso del rispetto alla vecchiaia ci amareggia il mondo nei nostri tempi migliori; ci sequestra i beni, fin che la nostra vecchiaia non è più in grado di goderli. Io comincio a trovare una vana e sciocca pastoia nell'oppressione della tirannide senile, che governa non perché è potente, ma perché è tollerata.

Venite, ch'io possa parlarvi di ciò più a lungo. Se nostro padre dormisse finché io lo svegliassi, voi vi godreste per sempre metà della sua rendita e vivreste prediletto dal vostro fratello. Edgardo".

Ah! una congiura? "...dormisse finché lo svegliassi... voi vi godreste metà della sua rendita". Mio figlio Edgardo! Ha egli avuto una mano per scrivere questo? un cuore ed un cervello per concepirlo? Quando vi è giunto questo foglio? Chi l'ha portato?

EDMONDO: Non mi è stato portato, mio signore: lì sta l'astuzia. L'ho trovato in terra vicino alla finestra del mio gabinetto.

GLOUCESTER: Riconoscete che il carattere sia quello di vostro fratello?

EDMONDO: Se la sostanza andasse bene, signor mio, io oserei giurare che fosse suo: ma in considerazione di quella, vorrei credere molto volentieri che non lo fosse.

GLOUCESTER: E' suo.

EDMONDO: E' la sua mano, signor mio, ma nel contenuto, io lo spero, il suo cuore non c'è.

GLOUCESTER: Aveva mai scandagliato, prima d'ora il vostro pensiero su questa faccenda?

EDMONDO: Mai, signor mio. Ma l'ho sentito spesso sostenere esser giusto che, maturi i figli e fatti vecchi i padri, il padre fosse come sotto tutela del figlio, e il figlio amministrasse le sue rendite.

GLOUCESTER: Oh scellerato, scellerato: proprio l'opinione ch'egli ha espresso nella sua lettera. Furfante abominevole! Snaturato, detestato, bestiale furfante! peggio che bestiale! Via giovanotto, andate a cercarlo; lo farò arrestare. Abominevole furfante! Dov'è?

EDMONDO: Non so bene, signor mio. Se vorrete sospendere il vostro sdegno contro mio fratello, finché possiate raccogliere da lui stesso una prova migliore delle sue intenzioni, batterete una via sicura, mentre, se agiste violentemente contro di lui, ingannandovi circa i suoi propositi, ciò aprirebbe una gran breccia nel vostro onore, e strapperebbe la radice della sua obbedienza. Oso scommettere la mia vita in favor suo, che egli ha scritto questo per provare il mio affetto per Vostro Onore, e non per altra intenzione criminosa.

GLOUCESTER: Lo credete?

EDMONDO: Se Vostro Onore lo giudica conveniente, io vi metterò in un posto donde ci sentirete ragionare di ciò e voi, assicurandovi con le orecchie vostre, avrete la vostra soddisfazione, e senza un indugio più lungo di questa sera stessa.

GLOUCESTER: Egli non può essere un tal mostro...

EDMONDO: E non lo è, sicuramente.

GLOUCESTER: ...verso suo padre, che lo ama così teneramente e con tutto l'affetto. Cielo e terra! Edmondo, trovatelo; entrate per me nella sua confidenza, ve ne prego; conducete la cosa con la vostra saggezza. Io mi spoglierei di tutto, pur di essere già in una convinzione assoluta.

EDMONDO: Vado subito a cercarlo, signore; condurrò la cosa con tutti i mezzi che troverò, e quindi vi terrò informato.

GLOUCESTER: Queste ultime eclissi di sole e di luna non ci presagiscono nulla di buono: sebbene la saggezza naturale sappia rendercene ragione in questo o quel modo, tuttavia la natura rimane afflitta lo stesso dagli effetti che ne seguono. L'amore si raffredda, l'amicizia se ne va, i fratelli si dividono; nelle città ribellioni; nelle campagne discordia, nei palazzi tradimento e spezzato il legame fra padre e figlio. Questo mio scellerato, cade sotto la predizione:

ed ecco il figlio contro il padre; il re devia dalla inclinazione della natura: ecco il padre contro il figlio. Noi abbiam visto il meglio dei tempi nostri: congiure, perfidia, tradimento, e perturbamenti funesti d'ogni specie, ci accompagnano, senza tregua, alla tomba. Trova questo scellerato, Edmondo, tu non ci perderai nulla: fallo con cura. E il nobile e leale Kent esiliato! la sua colpa? l'onestà! E' strano!

 

(Esce)

 

EDMONDO: Ecco la sublime stoltezza del mondo: quando la nostra fortuna si ammala (e spesso è il reo effetto della nostra stessa condotta) noi diamo la colpa delle nostre sciagure al sole, alla luna, e alle stelle: come se noi fossimo degli scellerati per necessità, degli stolti per impulso celeste; dei furfanti, dei ladri e dei traditori, per la predominazione delle sfere; degli ebbri, dei bugiardi e degli adulteri, per una forzata obbedienza all'influsso dei pianeti; e tutto ciò in cui siamo perversi, per effetto di una spinta divina. Bella scappatoia da puttaniere, questa di affibbiare ad una stella la colpa della propria lascivia! Mio padre se la intese con mia madre sotto la Coda del Drago, ed io nacqui sotto l'Ursa Maior: sicché io sono, di conseguenza, brutale e lascivo. Bah! sarei stato quello che sono anche se la stella più verginale del firmamento avesse brillato sulla mia bastardificazione. Edgardo!...

 

(Entra Edgardo)

 

E in buon punto viene, come la catastrofe dell'antica commedia: la mia parte è una infame malinconia, accompagnata da un sospiro da accattone. Eh! queste eclissi presagiscono queste dissonanze. Fa, sol, la, mi.

EDGARDO: Ebbene, fratello Edmondo, in quale grave contemplazione siete assorto?

EDMONDO: Sto pensando, fratello mio, ad una predizione della quale ho letto l'altro giorno, a proposito di ciò che dovrebbe accadere in seguito a queste eclissi.

EDGARDO: E voi vi occupate di questo?

EDMONDO: Vi garantisco che le conseguenze di cui l'autore scrive, sventuratamente si avverano; quali: snaturatezza fra padre e figlio, morte, carestia, rottura di antiche amicizie scissioni nel regno; minacce e maledizioni contro il re e contro i nobili, diffidenze irragionevoli, esilio di amici, dispersione di bande, infrazioni coniugali, e non so che cosa.

EDGARDO: Da quanto tempo siete un seguace delle dottrine astronomiche?

EDMONDO: Via, via; quando avete veduto mio padre l'ultima volta?

EDGARDO: Ieri sera.

EDMONDO: Gli avete parlato?

EDGARDO: Sì, per due ore di seguito.

EDMONDO: Vi siete lasciati in buoni termini? Da qualche parola, o dal suo contegno, avete notato in lui alcun indizio di contrarietà?

EDGARDO: Nessuno, affatto.

EDMONDO: Ripensate bene, in che cosa potete averlo offeso: e, se ascoltate una mia preghiera, evitate la sua presenza, finché un po' di tempo abbia mitigato l'ardore della sua collera, la quale in questo momento infuria in lui a tal punto che appena si calmerebbe col sacrificio della vostra persona.

EDGARDO: Qualche infame mi avrà calunniato.

EDMONDO: Questa è la mia paura, fratello. Vi prego, sappiatevi contenere e abbiate pazienza, finché la foga della sua collera rallenti un poco; e, come vi dico, ritiratevi con me nel mio alloggio, dal quale io vi metterò convenientemente in grado di sentire che cosa dice il mio signore. Ve ne prego, andate: eccovi la mia chiave. Se uscite, andate armato.

EDGARDO: Armato? fratello!

EDMONDO: Fratello, io vi avverto per il vostro meglio; non sono un uomo onesto, se in aria c'è qualche buona disposizione a vostro riguardo. Io non vi ho dato che una pallida idea di quello che ho veduto e sentito: nulla ho detto, che assomigli all'immagine e all'orrore di ciò. Vi prego, andate.

EDGARDO: Saprò presto qualche cosa da voi?

EDMONDO: In questa faccenda lasciatevi servire da me.

 

(Edgardo esce)

 

Un padre credulo ed un nobile fratello, la cui natura è così lontana dal fare il male, ch'egli non sa sospettarne alcuno: la loro sciocca onestà si presta agevolmente al mio giuoco! La faccenda io la vedo chiara. Se non ho terre per diritto di nascita, che io le abbia per opera della mia intelligenza! Tutto per me è buono, quello che posso rendermi utile.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA TERZA - Una stanza nel Palazzo del Duca d'Albania

(Entrano GONERILLA, e OSVALDO, suo maggiordomo)

 

GONERILLA: Mio padre ha percosso il mio gentiluomo di corte perché ha rimproverato il suo buffone?

OSVALDO: Sì, signora.

GONERILLA: Egli mi offende giorno e notte: ogni momento prorompe in questo o in quell'eccesso inconsulto, che mette la discordia fra tutti noi; io non lo tollero. I suoi cavalieri incominciano a farsi turbolenti, ed egli stesso ci rimprovera per ogni inezia. Quando tornerà dalla caccia gli direte che io mi sento male: non ho voglia di parlargli. Se vorrete essere meno pronto a servirlo che per l'innanzi farete bene: della colpa rispondo io.

OSVALDO: Egli giunge, signora; lo sento.

 

(Corni dal di dentro)

 

GONERILLA: Assumete pure quell'aria di svogliata negligenza che crederete meglio, voi e i vostri compagni: io sarei contenta che ciò provocasse una discussione. Se non gli piace, se ne vada da mia sorella, il cui pensiero e il mio, lo so bene, in questa cosa sono uno solo: non lasciarsi dettar legge. Stolto di un vecchio, il quale pretende di far valere ancora quell'autorità di cui si è privato!

Davvero che questi vecchi pazzi diventano un'altra volta bambini; e si meritano rabbuffi per carezze, quando si vede che sono indotti in errore. Ricordatevi di ciò che vi ho detto.

OSVALDO: Sta bene, signora.

GONERILLA: E i suoi cavalieri, d'ora innanzi, incontrino in mezzo a voi sguardi più freddi: quel che ne succede, non importa. Avvertitene i vostri compagni. Io vorrei farne nascere, e vi riuscirò, qualche buona occasione per poter parlare. Scrivo senz'altro a mia sorella, di tenere la mia precisa condotta. Fate preparare il pranzo.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Una sala nello stesso Palazzo

(Entra KENT, travestito)

 

KENT: Sol che altrettanto bene io riesca a prendere in prestito un'altra voce, che sappia alterare il mio modo di parlare, la mia buona intenzione mi condurrà, di per se stessa, al pieno conseguimento di quello scopo per il quale ho cancellato le mie sembianze. Ed ora, o bandito Kent, se puoi entrare a servizio (e possa tu riuscirvi!) proprio là dove tu sei condannato, il signore tuo, che tu ami, ti troverà pronto ad ogni fatica.

 

(Corni dal di dentro. Entrano LEAR, Cavalieri, e Persone del seguito)

 

LEAR: Non mi si faccia aspettare un minuto per il pranzo; andate, guardate che sia pronto. (Esce uno del seguito)

Ebbene! chi sei tu?

KENT: Un uomo, signore.

LEAR: Qual è la tua professione? Che cosa vorresti da noi?

KENT: Io faccio professione di non essere da meno di quello che sembro; di servire fedelmente colui che mi ammetterà alla sua fiducia; di amare colui che è onesto; di far compagnia a chi è saggio e parla poco di temere l'ira del Signore; di battermi quando non ho altra scelta; e di non mangiare pesce.

LEAR: Chi sei?

KENT: Una perla di galantuomo, e povero come il re.

LEAR: Se tu, come suddito, sei povero quanto egli lo è come re, sei povero davvero. Che cosa vorresti?

KENT: Trovar servizio.

LEAR: Chi vorresti servire?

KENT: Voi.

LEAR: Mi conosci, tu, giovanotto?

KENT: No, signore; ma nel vostro aspetto voi avete ciò che io chiamerei volentieri mio padrone.

LEAR: E che cos'è questo?

KENT: L'autorità.

LEAR: Che servizi sai fare?

KENT: So serbare un segreto onesto, so montare a cavallo, correre, guastare, raccontandola, una storia troppo complicata, e riferire alla buona una semplice ambasciata: io sono capace in tutto ciò per cui bastano uomini comuni; e il mio miglior pregio è la diligenza.

LEAR: Quanti anni hai?

KENT: Non sono così giovane, signor mio, da innamorarmi di una donna perché canta; e neppure così vecchio, da spasimare per lei per un'altra ragione qualunque: ho sulle spalle quarantotto anni.

LEAR: Vieni con me; tu mi servirai: se dopo pranzo non mi piacerai meno di quanto mi piaci ora, non ti manderò via. Questo pranzo, dico, questo pranzo! Dov'è il mio uomo, il mio matto? Va', e fammi venir qui il mio matto.

 

(Esce uno del seguito. Entra OSVALDO)

 

Giusto voi, mariuolo, dov'è mia figlia?

OSVALDO: Col vostro permesso... (Esce)

LEAR: Che dice, là il marrano? Richiamate quella testa di legno. (Esce un Cavaliere) Dov'è il mio matto?... Pare che il mondo dorma!

 

(Rientra il Cavaliere)

 

Ebbene! dov'è quel can bastardo?

CAVALIERE: Egli dice, signor mio, che vostra figlia non si sente bene.

LEAR: Perché il mariuolo non è tornato indietro, quando l'ho chiamato?

CAVALIERE: Signore, mi ha risposto, chiaro e tondo, che non ne aveva voglia.

LEAR: Non ne aveva voglia?

CAVALIERE: Signor mio, io non so che cosa accada: ma, a mio giudizio, Vostra Altezza non è più trattata con quell'affetto pieno di riguardi al quale voi eravate abituato, c'è una grande diminuzione di cortesia che apparisce manifesta nei dipendenti, in generale, come anche nel duca stesso e in vostra figlia.

LEAR: Ah! dici proprio così?

CAVALIERE: Ve ne supplico, perdonatemi, signor mio, se mi sbaglio:

poiché la mia coscienza non può stare zitta, quando io credo che sia stato fatto un torto a Vostra Altezza.

LEAR: Tu non fai che ricordarmi un mio stesso sospetto. Io ho notato, di recente, un'ombra di trascuratezza verso di me, ma l'ho biasimata piuttosto come una eccessiva suscettibilità da parte mia, che come una vera intenzione ed un voluto proposito di scortesia. Osserverò ancora meglio la cosa. Ma dov'è il mio matto? Non l'ho più visto da due giorni.

CAVALIERE: Da che la mia padroncina è in viaggio per la Francia, signore, è andato molto giù.

LEAR: Basta di ciò: me ne son bene accorto. Voi, andate e dite a mia figlia che le vorrei parlare. (Esce uno del seguito) Voi, andate e fatemi venir qui il mio matto. (Esce uno del seguito)

 

(Rientra OSVALDO)

 

Ehi! voi, messere, dico a voi, venite qua, messere: chi sono io, messere?

OSVALDO: Il padre della mia signora.

LEAR: "Il padre della mia signora"! il servitore di mia Signoria:

canaglia figlio di puttana! manigoldo! botolo ringhioso!

OSVALDO: Io non sono nessuna di queste cose, signor mio, domando il vostro perdono.

LEAR: Pretendereste di rispondere ai miei sguardi coi vostri, furfante? (Lo batte)

OSVALDO: Io non voglio essere battuto, signore!

KENT: E nemmeno esser mandato a gambe per aria, cattivo giocatore di calcio.

 

(Gli dà lo sgambetto)

 

LEAR: Ti ringrazio, giovinotto; tu mi rendi un servigio, ed io ti vorrò bene.

KENT: Andiamo, messere, alzatevi, e andatevene! Vi insegnerò io a stare al vostro posto: via di qua via! Se volete misurare un'altra volta la vostra lunghezza di tanghero, indugiate ancora; ma via di qua! Andatevene: avete senno? allora via!

 

(Spinge fuori Osvaldo)

 

LEAR: Ed ora, mio buon garzone, io ti ringrazio: eccoti una caparra del tuo servizio. (Dà del denaro a KENT)

 

(Entra il Matto)

 

MATTO: Voglio dargli anch'io la paga: eccoti il mio berretto.

 

(Offre a Kent il suo berretto)

 

LEAR: Ebbene, bricconcello mio, come va?

MATTO: Messere, fareste meglio a prendere il mio berretto.

KENT: Perché, matto?

MATTO: Ecco... perché tu prendi le parti di uno, il quale è in disgrazia. E, se tu non sai sorridere secondo il vento che tira, presto sentirai che raffreddamento! via, prendi il mio berretto. Vedi, questo buon uomo ha bandito due delle sue figliuole, e ha fatto la felicità della terza contro sua voglia: se tu lo servi dovrai necessariamente portare il mio berretto. Come va, zio? Ah, se avessi due berretti e due figliuole!

LEAR: Perché, ragazzo mio?

MATTO: Se io dessi loro tutto quello che posseggo, almeno mi terrei per me i miei berretti. Ecco qui il mio; un altro domandalo in elemosina alle tue figliuole.

LEAR: Sta' attento, mariuolo, c'è la frusta!

MATTO: La verità è un cane che deve andare a caccia nel canile, dev'esser mandato fuor di casa a frustate, mentre la signora cagna può starsene accanto al fuoco e puzzare.

LEAR: Un boccone amaro per me!

MATTO: Compare, voglio insegnarti un discorso.

LEAR: Insegnamelo.

MATTO: Sentilo bene, zio.

Mostra men di quel che hai Parla men di quel che sai Presta men che in serbo avrai, Più a caval che a piedi andrai. Credi poco, impara assai, Punta men che vincerai. Lascia il bere e la tua ganza. Non uscir dalla tua stanza:

Più che doppia una decina Tu avrai per la ventina.

KENT: Questo è un bel nulla, matto.

MATTO: Allora è come il fiato d'un avvocato senza paga, e voi non mi avete dato nulla per il mio discorso. Non sapete farne nessun uso, di un nulla, zio?

LEAR: Eh, no, ragazzo; dal nulla non si cava nulla.

MATTO (a Kent): Ti prego, digli che a tanto ammonta la rendita delle sue terre: a un matto non gli vorrà credere.

LEAR: E' aspro, il matto!

MATTO: Sai, amico, la differenza che c'è fra un matto aspro e un matto dolce?

LEAR: No, ragazzo, insegnamela.

MATTO: Quei che pose in capo a te Di dar via le terre tue, Venga a mettersi accanto a me, O fa’ tu le veci sue:

Chi sia dolce e chi amaro De' due matti si vedrà L'un qui in veste di giullaro, E quell'altro, eccolo là.

LEAR: Mi dài del matto, ragazzo?

MATTO: Tutti gli altri tuoi titoli li hai dati via: con quello ci sei nato.

KENT: Costui non è interamente matto, signor mio.

MATTO: No, in fede mia, i signori e i potenti non me lo permettono; se io avessi il monopolio della pazzia, essi vorrebbero averne la parte loro; e le signore, anche loro non vogliono lasciarmi avere la pazzia tutta per me solo; me la strappano per forza. Zio, dammi un uovo, ed io ti darò due corone.

LEAR: Che cosa saranno queste due corone?

MATTO: Ecco, le due cocce dell'uovo, dopo che io l'abbia tagliato nel mezzo e ne abbia mangiato la sostanza. Quando spezzasti nel mezzo la tua corona, e desti via tutte e due le parti, ti portasti l'asino sulle spalle, attraverso il fango della strada; tu avevi poco senno, sotto la tua coccia pelata, allorché davi via la tua corona d'oro. Se, dicendo questo, io parlo da quel matto che sono, sia frustato chi è il primo a riconoscerlo. (Canta) Mai tanto pei matti andò mal che quest'anno Ché i saggi divenner sciocchi, E un uso miglior pel cervello non sanno Che fare gli scimmiotti.

LEAR: Da quando in qua hai l'abitudine di essere così ben fornito di canzoni, briccone?

MATTO: Ho quest'uso, zio, dal giorno che delle tue figliuole hai fatto le tue madri: poiché quando hai dato loro in mano la verga, e ti sei calato le brache... (canta) Dalla gioia esse versan di lacrime un lago Ed io pel duolo fo lazzi Che un tal re debba mettersi a far baco baco In compagnia dei pazzi.

Ti prego, zio, prendi un maestro che sappia insegnare la menzogna al tuo matto: io imparerei volentieri a mentire.

LEAR: Se voi mentite, signorino, vi faremo frustare.

MATTO: Io vorrei sapere che parentela c'è fra te e le tue figliuole:

esse mi voglion far frustare perché dico la verità, tu vuoi farmi frustare perché mento e qualche volta sono frustato perché sto zitto.

Io vorrei essere qualunque cosa, piuttosto che un matto; eppure non vorrei essere te, zio: tu, ti sei fatto cimare il senno da tutte e due le parti, e nel mezzo non ti c'è rimasto nulla: ecco qua una delle cimature.

 

(Entra GONERILLA)

 

LEAR: Ebbene, figliuola! perché quella benda sulla fronte? Mi pare che, da qualche tempo, voi siate un po' troppo accigliata.

MATTO: Tu eri un uomo in gamba, quando non avevi bisogno di preoccuparti della sua aria accigliata; ora sei uno zero senza una cifra accanto. Ora io valgo più di te: io sono un matto, tu nulla. (A Gonerilla) Sì, diamine, mi cheterò; così mi ordina la vostra faccia, per quanto voi non diciate niente.

Buci, buci!

Per chi lascia tinche e ceci Nulla ne farà le veci.

Costui (indicando Lear) è una buccia di pisello sgranato.

GONERILLA: Signore, non solamente questo vostro matto, al quale è permesso tutto, ma altri del vostro seguito insolente, trovano, ogni momento da ridire e da litigare abbandonandosi a risse truculente e intollerabili. Signore, io avevo creduto, informandovi bene della cosa, di aver trovato un rimedio sicuro: ma ora, dopo ciò che voi stesso avete detto e fatto recentemente, incomincio a temere che voi proteggiate una simile condotta, e la incoraggiate con la vostra approvazione. Ché se voi faceste questo, la colpa non sfuggirebbe al biasimo, e non tarderebbero rimedi, nell'interesse di un bene salutare per tutti, l'applicazione dei quali potrebbe farvi un'offesa, che in altre circostanze sarebbe una vergogna, ma che allora la necessità chiamerà misura prudente.

MATTO: Poiché tu lo sai, zio:

Tanto nutrì la passera scopaiola il cucù, Che il capo dai suoi piccoli mangiato alfin le fu.

Così, la candela si spense, e noi fummo lasciati al buio.

LEAR: Siete nostra figlia voi?

GONERILLA: Via, signore! Io vorrei che voi faceste uso del vostro buon senso, del quale so che siete pieno, e che metteste via questo umore, che da qualche tempo vi porta ben lontano da quello che voi siete veramente.

MATTO: Un asino non può saper quando è che il carretto tira il cavallo? Su, Docio ch'io ti vuo' bene!

LEAR: C'è qualcuno che mi riconosca, qui? Questi non è Lear: cammina, forse, così Lear? parla così? dove sono i suoi occhi? o la sua intelligenza si indebolisce o la sua ragione è in letargo. Ah! sono desto? non è vero! Chi è che mi sa dire chi sono?

MATTO: L'ombra di Lear.

LEAR: Vorrei saperlo, poiché i segni della sovranità, l'intelligenza e la ragione, mi persuaderebbero, ingannandomi, che io avevo delle figliuole.

MATTO: Le quali vogliono far di te un padre obbediente.

LEAR: Il vostro nome, bella signora?

GONERILLA: Questa vostra meraviglia, signore, mi sa molto del gusto delle altre vostre recenti scappate. Io vi supplico di comprendere nel loro vero senso le mie intenzioni: vecchio come siete, e venerando, dovreste essere savio. Voi tenete qui fra cavalieri e scudieri, un centinaio di uomini, così sregolati, così corrotti e tracotanti, che questa nostra corte, viziata dai loro costumi, sembra una rissosa locanda: l'epicureismo e la lussuria l'hanno ridotta in modo che essa somiglia più ad una bettola o ad un bordello, che ad un palazzo dove alberghi la grazia. La vergogna stessa reclama un pronto rimedio:

lasciatevi dunque pregare (da colei che, se no, farà senz'altro quello che ora chiede) di diminuire un poco il vostro seguito, e di provvedere che il resto, il quale rimarrà ancora al vostro servizio, sia composto di uomini tali, che possano convenire all'età vostra, e che sappiano chi sono essi e chi siete voi.

LEAR: Tenebre e diavoli! Sellate i miei cavalli: radunate il mio seguito. Bastarda degenerata! Io non ti darò più noia: mi resta ancora una figliuola.

GONERILLA: Voi battete la mia servitù, e la vostra licenziosa canaglia tratta come servi i suoi superiori.

 

(Entra il DUCA D'ALBANIA)

 

LEAR: Guai a chi si pente troppo tardi! (Al Duca d'Albania) Ah!

signore, siete qui? E' questa la vostra volontà? Parlate, signore.

Preparate i miei cavalli. O ingratitudine, demonio dal cuore di marmo, più orrenda del mostro del mare allorché ti manifesti in una figliuola!

ALBANIA: Ve ne prego, signore, abbiate pazienza.

LEAR (a Gonerilla): Esecrato nibbio! Tu menti: il mio seguito è composto di uomini scelti e di non comuni qualità, che conoscono le esigenze del dovere, e tengono alto l'onore del loro nome con il più scrupoloso riguardo. Oh, la più piccola delle colpe come mi apparisti brutta in Cordelia! Tu che, come uno strumento di tortura, dislogasti tutte le mie più intime fibre, strappasti dal mio cuore tutto l'amore, e vi sostituisti il fiele! O Lear, Lear, Lear, batti a questa porta (si batte la fronte), che ha lasciato entrare la tua pazzia, e ha fatto uscire il tuo prezioso senno! Andiamo, andiamo, gente mia.

ALBANIA: Signore, io sono innocente, quanto ignaro, di ciò che ha suscitato il vostro sdegno.

LEAR: Può essere, signor mio. Ascolta, o Natura, ascolta! cara dea, ascolta! Sospendi il tuo proposito, se tu intendesti di render feconda questa creatura! Nel suo grembo metti la sterilità! Inaridisci in lei le fonti della generazione, e dal suo corpo tralignato non esca mai una figliolanza che la onori! Se deve concepire, creale un figliuolo di fiele, che possa vivere per essere il suo tormento perverso e snaturato! Possa egli stampare di rughe la fronte della sua giovinezza; possa scavarle solchi nelle gote con le lacrime che le farà versare, possa ricambiare tutte le sue cure e sollecitudini di madre, con le risa e il disprezzo: sicché ella possa provare quanto sia più crudele del dente di una serpe, avere un figliuolo ingrato!

Andiamo. andiamo!

 

(Esce)

 

ALBANIA: Per gli dèi che noi adoriamo, d'onde nasce tutto ciò?

GONERILLA: Non vi date pensiero di saperne la cagione ma lasciate che il suo cattivo umore abbia quello sfogo che l'età barbogia gli consente.

 

(Rientra LEAR)

 

LEAR: Come! cinquanta del mio seguito in un sol colpo! Entro quindici giorni?

ALBANIA: Che c'è, signore?

LEAR: Te lo dirò... (A Gonerilla) Vita e morte! Io mi vergogno che tu abbia il potere di scuotere così questa mia fibra di uomo; che tu debba esser degna di queste calde lacrime, che mi vengono strappate a forza. Furia di venti e nebbie sulla tua testa! Le inciprianite piaghe della maledizione di un padre possano penetrarti tutti i sensi! O mie vecchie credule pupille, provatevi a piangere un'altra volta per questa ragione ed io vi strappo via dall'orbita, e insieme con l'acqua che perdete, vi getto in terra a formar fango. Oh! siamo giunti a questo? Sia così! Mi rimane ancora una figliuola che, son sicuro, è buona e premurosa; quando sentirà che tu hai fatto questo, ti scorticherà con le unghie cotesta faccia di lupo. Vedrai che riprenderò la figura che tu credi ch'io abbia gettata via per sempre; vedrai, te lo assicuro.

 

(Escono Lear, Kent, e il Seguito)

 

GONERILLA: Sentite, signor mio?

ALBANIA: Io non posso essere così parziale, Gonerilla, del grande amore che vi porto...

GONERILLA: Vi prego, non insistete. Ebbene, Osvaldo, ehi! (Al Matto) Voi, messere più briccone che matto, seguite il vostro padrone.

MATTO: Zio Lear, zio Lear! aspetta, e porta con te il tuo matto.

Volpe presa in guise accorte, E una figlia di tal sorte, Certo andrebbero alla morte Se il berretto mio fosse forte Di comprar funi ritorte.

Così va il matto di corte.

GONERILLA: Quest'uomo ha avuto giudizio: cento cavalieri! Bello e sicuro accorgimento lasciargli tenere cento cavalieri, armati di tutto punto: già, affinché ad ogni sogno, ad ogni pettegolezzo, ad ogni fantasia, lagnanza e scontento, egli possa difendere, con la forza loro, la sua imbecillità, e tenere la vita nostra alla sua mercé.

Osvaldo dico!

ALBANIA: Via, può darsi che voi esageriate la vostra paura.

GONERILLA: Meglio che fidarsi troppo: lasciatemi toglier sempre di mezzo i mali che io temo, anziché temer sempre di esservi presa in mezzo: conosco il suo cuore. Tutto ciò ch'egli ha proferito, l'ho scritto a mia sorella: se essa sostentasse lui e i suoi cento cavalieri, mentre io le ho mostrato la poca convenienza...

 

(Rientra OSVALDO)

 

Ebbene, Osvaldo! Dunque, avete scritto quella lettera a mia sorella?

OSVALDO: Sì, signora.

GONERILLA: Prendetevi una scorta, e via a cavallo: informatela appieno del mio personale timore; e aggiungetevi di vostro delle ragioni, che valgano a renderlo più consistente. Andate, e affrettate il vostro ritorno. (Esce Osvaldo) No, no, mio signore, sebbene questa arrendevole cortesia che è nella vostra condotta io non la condanni, pure col vostro perdono voi siete molto più biasimato per mancanza di senno, che lodato per una mitezza dannosa.

ALBANIA: Fino a qual punto gli occhi vostri riescano a penetrare nelle cose non posso dirlo: spesso il meglio è nemico del bene.

GONERILLA: Ma, allora...

ALBANIA: Bene, bene, aspettiamo la fine.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUINTA - Corte davanti allo stesso Palazzo

(Entrano LEAR, KENT, e il MATTO)

 

LEAR: Andate voi prima, da Gloucester con queste lettere. Di quanto sapete, non informate mia figlia più di quello che essa vi domandi a proposito della mia lettera. Se la vostra diligenza non è sollecita, io sarò là prima di voi.

KENT: Non dormirò, signor mio, finché non avrò consegnato la vostra lettera. (Esce)

MATTO: Se il cervello dell'uomo fosse nei suoi calcagni, non correrebbe il rischio di avere i geloni?

LEAR: Sicuro, ragazzo mio.

MATTO: Allora, ti prego, sta' allegro: il tuo senno non anderà in ciabatte.

LEAR: Ah! ah! ah!

MATTO: Vedrai che l'altra tua figliuola ti avrà a sangue; poiché, sebbene essa somigli a questa, come una mela selvatica somiglia ad una mela buona, pure io posso dire quel che posso dire.

LEAR: Che cosa puoi dire, ragazzo?

MATTO: Che essa sarà dello stesso gusto di questa, come una mela selvatica ha lo stesso sapore di un'altra mela selvatica. Sai dirmi perché il naso sta proprio in mezzo alla faccia?

LEAR: No.

MATTO: To', perché gli occhi stiano uno da una parte del naso, e l'altro dall'altra: sicché ciò che non si può fiutare col naso, si possa spiare con gli occhi.

LEAR: Io sono stato ingiusto con lei...

MATTO: Sai dire come un'ostrica si fa il guscio?

LEAR: No.

MATTO: Ed io nemmeno; ma ti so dire perché una chiocciola ci ha la casa.

LEAR: Perché?

MATTO: To', per tirarci dentro la testa; e non per darla via alle sue figliuole, e lasciar le sue corna senza tetto.

LEAR: Voglio dimenticare il mio affetto... Un padre così amoroso! Son pronti i miei cavalli?

MATTO: I tuoi asini sono andati ad occuparsene. La ragione per la quale le sette stelle non sono più di sette, è bellina.

LEAR: Perché non sono otto?

MATTO: Già, precisamente. Tu potresti riuscire un buon matto.

LEAR: Riprenderlo per forza!... Mostruosa ingratitudine!

MATTO: Zio, se tu fossi il mio matto, ti farei bastonare, perché tu sei vecchio prima del tempo.

LEAR: Che vuoi dire?

MATTO: Tu non avresti dovuto farti vecchio, prima d'esser diventato savio.

LEAR: Non permettere ch'io diventi pazzo, oh! pazzo no. benigno cielo!

Conservami la mia ragione: io non voglio essere pazzo!...

 

(Entra un Gentiluomo)

 

Ebbene! Sono pronti i cavalli?

GENTILUOMO: Pronti, signore.

LEAR: Vieni, ragazzo mio.

MATTO: Colei che adesso è vergine, e ride ch'io m'assento Nol sarà a lungo, a men che si scorci l'argomento. (Escono)

 

 

 

ATTO SECONDO

 

SCENA PRIMA - Un cortile nel Castello del Conte di Gloucester

(Entrano EDMONDO e CURANO, incontrandosi)

 

EDMONDO: Salute a te, Curano.

CURANO: Ed anche a voi messere. Sono stato da vostro padre, e gli ho dato la notizia che il duca di Cornovaglia e Regana, sua duchessa, stasera saranno qui da lui.

EDMONDO: Come mai?

CURANO: Ma, non lo so. Avete sentito le notizie che corrono? Voglio dire, quelle che si sussurrano, poiché per ora non sono altro che voci che sfiorano l'orecchio.

EDMONDO: Io no: di grazia, quali sono?

CURANO: Non avete sentito parlare di probabili guerre imminenti fra il duca di Cornovaglia e quello d'Albania?

EDMONDO: Neppure una parola.

CURANO: Allora ne sentirete parlare a suo tempo. Statevi bene, signore. (Esce)

EDMONDO: Il duca sarà qui stasera? Tanto meglio! Benissimo! Questo è un altro filo che si intreccia, di necessità, nella mia trama. Mio padre ha fatto appostare una guardia per prendere mio fratello; ed io ho per le mani una cosa, un affare delicato, che debbo sbrigare.

Speditezza e fortuna, all'opera! Fratello, una parola; scendete giù:

fratello, dico!

 

(Entra EDGARDO)

 

Mio padre vigila. O messere, fuggite di qua; si è sparsa notizia del luogo dove siete nascosto; ora avete il vantaggio della notte. Voi non avete mica parlato contro il duca di Cornovaglia? Egli viene qui ora, nella notte, in gran fretta, e insieme con lui Regana: avete detto nulla, mettendovi dalla sua parte, contro il duca d'Albania? Cercate di ricordarvene.

EDGARDO: Ne sono sicuro, non una parola.

EDMONDO: Sento venir mio padre. Perdonatemi: debbo ricorrere ad un'astuzia, e fingere di tirar fuori la spada contro di voi: tirate fuori la vostra, e fingete di difendervi: ora disimpegnatevi bene.

Arrendetevi, venite davanti a mio padre. Luce qua, ehi! Fuggite, fratello. Delle torce, delle torce! Così, addio. (Esce Edgardo) Un po' di sangue ch'io mi facessi uscire, farebbe credere ad un più accanito sforzo da parte mia: ho visto degli ubriachi far questo ed altro, per galanteria. (Si ferisce un braccio) Padre, padre! Ferma, ferma! Non un aiuto?

 

(Entrano GLOUCESTER e dei Servi con torce)

 

GLOUCESTER: Ebbene, Edmondo, dov'è il furfante?

EDMONDO: Stava qui al buio, con la sua spada tagliente sguainata, borbottando malvagi incantesimi, e scongiurando la luna d'essergli benigna protettrice...

GLOUCESTER: Ma dov'è?

EDMONDO: Guardate, signore, io sanguino.

GLOUCESTER: Dov'è il furfante, Edmondo?

EDMONDO: E' fuggito da questa parte, signore. Quando ha visto che non riusciva in alcun modo a...

GLOUCESTER: Inseguitelo, olà! Corretegli dietro. (Esce un Servo) In alcun modo... a far che cosa?

EDMONDO: A persuadermi ad assassinare Vostra Signoria: ma anzi gli dicevo che gli dèi vendicatori dirigono tutti i loro fulmini contro i parricidi; gli facevo riflettere da quanto stretti e molteplici vincoli il figlio è legato al padre; finalmente, signore, vedendo con quanto raccapriccio io mi opponevo al suo snaturato disegno, egli, in un impeto feroce, con la sua pronta spada, attacca a fondo la mia persona indifesa, e mi ferisce al braccio. Ma allorché ha visto il meglio del mio spirito all'erta, fatto ardito dalla buona causa, animarsi alla riscossa, o sia che lo spaventasse il rumore che io ho fatto, improvvisamente è fuggito.

GLOUCESTER: Fugga pure lontano; egli non resterà in questa terra senza essere arrestato; e una volta trovato... spacciato! Il nobile duca, mio padrone, mio degno capo e protettore, stasera vien qui: per mezzo della sua autorità farò bandire che chi lo trova meriterà i nostri ringraziamenti, portando al supplizio il vile assassino; chi lo nasconde, meriterà la morte.

EDMONDO: Quando cercai di dissuaderlo dal suo proposito, e lo trovai risoluto a metterlo in atto, con parole di esecrazione minacciai di scoprirlo; ma egli rispose: "O bastardo non abbiente, credi tu, se io volessi levarmi a smentirti, che la fiducia in una qualche lealtà, virtù, o valore in te riposti, farebbe prestar fede alle tue parole?

No, per poco che io negassi (come negherei questo: sì, quand'anche tu producessi la mia stessa scrittura), farei credere tutto ciò una tua suggestione, un complotto e un diabolico intrigo tuo; e tu dovresti far rimbecillire il mondo, perché tutti non pensassero che i vantaggi della mia morte furono per te uno sprone manifesto ed efficace a fartela cercare".

GLOUCESTER: Impenitente e matricolato furfante! Pretenderebbe di negare la sua lettera? Io non l'ho mai generato! (Squilli di tromba di dentro) Senti, le trombe del duca! Ignoro perché egli venga. Farò sbarrare tutte le porte; il furfante non sfuggirà; bisogna che il duca me lo consenta: quindi spedirò in ogni luogo, lontano e vicino, il suo ritratto, affinché tutto il reame possa avere i suoi contrassegni precisi; e troverò il mezzo, o mio leale e affezionato ragazzo, di mettere te in grado di ereditare le mie terre.

 

(Entrano il DUCA DI CORNOVAGLIA, REGANA, e Persone del seguito

 

CORNOVAGLIA: Ebbene, mio nobile amico: dacché son giunto qui (e posso dire, senz'altro, in questo istante) ho sentito delle strane notizie.

REGANA: Se la cosa è vera, ogni vendetta che possa raggiungere il colpevole, è inadeguata. Come va, mio signore?

GLOUCESTER: Oh, signora, il mio vecchio cuore è schiantato... è schiantato!

REGANA: Come! il figlioccio di mio padre attentava alla vostra vita?

Quegli ch'ebbe il nome da mio padre? il vostro Edgardo?

GLOUCESTER: Oh, signora, signora, la mia vergogna vorrebbe tenerlo nascosto.

REGANA: Egli non era un compagno di quei dissoluti cavalieri che formano il seguito di mio padre?

GLOUCESTER: Non lo so, signora, la cosa è troppo infame, troppo infame.

EDMONDO: Sì, signora, era di quella combriccola.

REGANA: Allora nessuna meraviglia ch'egli avesse malvagie intenzioni:

sono loro che l'hanno spinto a cercar la morte del vecchio, per potersi dare al dispendio e allo sperpero delle sue rendite. Proprio questa sera sono stata bene informata da mia sorella sul conto loro; e con tali raccomandazioni di prudenza, che se essi vengono a soggiornare in casa mia, io non ci sarò.

CORNOVAGLIA: E neppure io, te l'assicuro, Regana. Edmondo sento che voi avete reso a vostro padre un servigio da vero figliuolo.

EDMONDO: Era mio dovere, signore.

GLOUCESTER: Egli ha svelato le sue mene, e ha ricevuto questa ferita che vedete, mentre cercava di arrestarlo.

CORNOVAGLIA: E' inseguito?

GLOUCESTER: Sì. mio buon signore.

CORNOVAGLIA: Se viene preso, non ci sarà più da temere ch'egli faccia del male: perseguite il vostro intento e servitevi della mia autorità fin dove vi aggrada. Quanto a voi, Edmondo, la cui virtù e la cui obbedienza in questo momento si raccomandano tanto, sarete dei nostri:

di caratteri così profondamente leali, ne avremo molto bisogno e noi, per prima cosa, ci impossessiamo di voi.

EDMONDO: Signore, io vi servirò fedelmente, quali che possano essere gli altri miei meriti.

GLOUCESTER: Io ringrazio per lui Vostra Grazia.

CORNOVAGLIA: Voi ignorate perché siamo venuti a trovarvi...

REGANA: Così fuor d'ora, infilando la cieca cruna della notte; motivi, nobile Gloucester, di qualche importanza, intorno ai quali noi abbiamo bisogno del vostro consiglio. Nostro padre ci ha scritto (e nostra sorella anche) di certi screzi, ed io ho creduto opportuno di non rispondere da casa: i messi rispettivi attendono qui la risposta.

Nostro buono e vecchio amico, mettete un po' di conforto nell'animo nostro, e concedete il vostro necessario consiglio al nostro affare, il quale ne ha uopo immediato GLOUCESTER: Sono a vostra disposizione, signora. Le Vostre Grazie sono veramente le benvenute.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Davanti al Castello di Gloucester

(Entrano KENT e OSVALDO, separatamente)

 

OSVALDO: Buon mattino, amico: sei tu di questa casa?

KENT: Sì.

OSVALDO: Dove possiamo mettere i nostri cavalli?

KENT: Nel fango.

OSVALDO: Ti prego, se mi vuoi bene, dimmelo.

KENT: Io non te ne voglio.

OSVALDO: Ebbene, allora non mi curo di te.

KENT: Se io ti curassi con sugo di bosco, ti farei curare io di me.

OSVALDO: Perché mi tratti così? Io non ti conosco.

KENT: Compare, io conosco te.

OSVALDO: Per chi mi conosci?

KENT: Per un briccone, un ribaldo, un leccapiatti; per un volgare, orgoglioso, scemo, miserabile furfante, con tre mute di panni e cento sterline, un sudicione dalle calze di lana; per un malandrino querelante dal fegato bianco come un cencio, per un figlio di puttana smanceroso, per un manigoldo affettato e arcizelante; per un gaglioffo che ha tutto il patrimonio in un baule; per uno che vorrebbe fare il mezzano per guadagnarsi il benservito, e non è altro che un impasto di furfante, di pezzente, di codardo, di ruffiano, e il figlio e l'erede di una cagna bastarda; per uno che io bastonerò fino a farlo guaire a squarciagola, sol che tu neghi la menoma sillaba di questi tuoi titoli OSVALDO: Ma qual mostruoso individuo sei tu, per oltraggiare così uno che tu non conosci e che non conosce te!

KENT: Qual briccone dalla faccia di bronzo sei tu, per negare che mi conosci? Due giorni fa, non ti feci andare a gambe per aria, e ti bastonai, davanti al re? Fuori la spada, manigoldo, poiché, se è notte, splende la luna: ed io voglio far di te una pappa al chiaro di luna. Smaina la spada! Fuori la spada, figlio di puttana, coglione di un bazzicabarbieri, fuori.

OSVALDO: Via! Io non ho nulla da spartire con te.

KENT: Fuori la spada, canaglia; tu vieni qui con delle lettere contro il re, e prendi le parti di Vanità, la marionetta, contro la regale maestà del padre suo. Tira fuori la spada o ti affetto gli stinchi in questo modo, per farne carbonata! Fuori la spada, birbante: vieni al tuo posto!

OSVALDO: Aiuto, olà! all'assassino! aiuto!

KENT: Difenditi, miserabile! in guardia ribaldo, in guardia, vigliacco consumato, colpisci. (Lo colpisce)

OSVALDO: Aiuto, olà! all'assassino! all'assassino!

 

(Entra EDMONDO)

 

EDMONDO:. Che c'e? Cos'e stato? (Li separa)

KENT: E voi, se vi piace, mio bel ragazzino: venite, io vi sverginerò, avanti, signorino.

 

(Entrano il DUCA DI CORNOVAGLIA, REGANA, il DUCA Dl GLOUCESTER, e Servi)

 

GLOUCESTER: Spade! armi! Che accade qui?

CORNOVAGLIA: State fermi, per la vostra vita; il primo che tira un altro colpo, è morto! Che cosa c'è?

REGANA: Sono i messi di nostra sorella e del re.

CORNOVAGLIA: Che questione c'è fra voi? parlate.

OSVALDO: Posso appena respirare, signor mio.

KENT: Nessuna meraviglia: voi avete strapazzato tanto il vostro valore! Vile furfante la natura ti rinnega: tu, sei stato fatto da un sarto.

CORNOVAGLIA: Sei un individuo strano, tu: un sarto fare un uomo?

KENT: Sì, un sarto, signore: uno scultore, o un pittore non avrebbero potuto farlo così male, quand'anche avessero impiegato, nella faccenda, due ore soltanto.

CORNOVAGLIA: Ma parla: come nacque la vostra disputa?

OSVALDO: Questo vecchio manigoldo, signore, al quale ho risparmiato la vita a istanza della sua barba grigia...

KENT: Bastardo d'un ipsilon! lettera inutile! Signore mio, se voi me ne date permesso, io pesterò questo pezzo di furfante fino a ridurlo polvere di calcina, e ci intonacherò il muro di un cesso. Tu, batticoda, risparmiare la mia barba grigia?

CORNOVAGLIA: Zitto, mariuolo! bestiale briccone, non conosci tu alcun rispetto?

KENT: Sì, signore; ma la rabbia ha i suoi diritti.

CORNOVAGLIA: Perché sei arrabbiato?

KENT: Che un miserabile come costui debba avere una spada, mentre egli non ha un briciolo di onore. I ribaldi di questa specie, che hanno il sorriso sulle labbra, spesso, come i topi, col loro morso fanno in due pezzi i sacri vincoli, che sono troppo stretti perché sia possibile scioglierli; lusingano tutte le passioni che insorgono in fondo all'anima dei loro padroni; mettono olio sul fuoco e neve sui loro glaciali sentimenti; negano, affermano, e girano il loro becco di alcione secondo il suono del vento e ad ogni cambiamento dei loro padroni, non sapendo fare altro che seguire, come fanno i cani. La peste su cotesta vostra faccia di epilettico! Vi ridete delle mie parole, come se io fossi un matto? Oca, se io vi avessi nella pianura di Sarum, vorrei ricondurvi strepitante a casa fino a Camelot.

CORNOVAGLIA: Via, sei matto, vecchio arnese?

GLOUCESTER: Come veniste a parole? diteci questo.

KENT: Non vi sono contrari, che abbiano tra loro sì grande antipatia, com'è tra me e codesto ribaldo.

CORNOVAGLIA: Perché lo chiami ribaldo? Qual è la sua colpa?

KENT: La sua faccia non mi piace.

CORNOVAGLIA: Né ti piace di più la mia, forse, e neppure la sua, né quella di costei.

KENT: Signore, è mio mestiere essere franco: ai miei tempi ho visto delle facce migliori di quelle che stanno su qualsiasi tra le spalle, che in questo momento mi vedo davanti .

CORNOVAGLIA: Costui dev'essere un cotale, che essendo stato lodato per non aver peli sulla lingua, affetta una impertinente zotichezza, e forza, del tutto contro la propria natura, il suo modo di fare: lui non sa adulare; lui, anima onesta e semplice... deve dire ad ogni costo la verità: se gli altri l'accettano, bene; se no egli vuole essere sincero ad ogni costo. Io la conosco questa genìa di birbanti che sotto questa loro sincerità nascondono più scaltrezza e più corrotti fini di venti cortigiani pieni di ridicoli salamelecchi, che si fanno in quattro per adempiere a puntino i loro doveri.

KENT: Signore, in buonafede, per dire la schietta verità, col permesso del vostro imponente aspetto, il cui influsso, come il serto di radiante fuoco che fiammeggia sulla fronte di Febo...

CORNOVAGLIA: Che intendi con ciò?

KENT: Di uscire dal mio linguaggio, che voi biasimate tanto. Io, signore, so di non essere adulatore: chi vi ingannò con accento schietto, era un altrettanto schietto briccone; ciò che io, per parte mia, non sarò mai, quand'anche dovesse confortarmi a esserlo la speranza di guadagnarmi il vostro disfavore.

CORNOVAGLIA: Che offesa gli avete fatto?

OSVALDO: Io non gliene ho fatta mai alcuna: al re suo padrone piacque, or non è molto, di battermi per un suo malinteso: e allora egli, d'accordo col re, e per lusingarne lo sdegno, mi dette lo sgambetto; quando fui in terra, mi insultò, mi oltraggiò, e assunse un'aria così eroica, che gli die' lustro, e gli procurò gli elogi del re, per avere attentato alla vita di un uomo, che si dava per vinto; e, tronfio di questa prima impresa terribile, qui ha tratto di nuovo la sua spada contro di me.

KENT: Non c'è uno di questi furfanti e di questi vigliacchi, che non pretenda di far passare Aiace per il suo buffone.

CORNOVAGLIA: Si vadano a prendere i ceppi! Vecchio malandrino cocciuto, venerabile smargiasso, vi insegneremo noi.

KENT: Signore, io sono troppo vecchio per imparare: non ordinate i vostri ceppi per me; io sono un servo del re, e sono stato mandato a voi da parte sua: voi agireste con poco rispetto, dareste prova di una cattiveria troppo audace contro la graziosa persona del mio padrone, mettendo i ceppi al suo messo.

CORNOVAGLIA: Andate a prendere i ceppi! Com'è vero che ho vita e onore, egli ci resterà fino a mezzogiorno!

REGANA: Fino a mezzogiorno? Fino a notte, mio signore, e tutta la notte ancora!

KENT: Ecco, signora, se io fossi il cane di vostro padre, voi non mi trattereste così.

REGANA: Poiché invece siete il suo servo, signore, io vi tratto in questo modo.

CORNOVAGLIA: Costui è un ribaldo proprio della risma stessa di coloro dei quali parla nostra sorella. Via, portate qua i ceppi.

 

(Sono portati i ceppi)

 

GLOUCESTER: Lasciate che io scongiuri Vostra Grazia di non farlo. La sua colpa è grave, e il buon re suo padrone gliene farà rimprovero: il castigo umiliante che voi vi proponete di infliggergli, è quello onde vengono puniti i più vili e spregiati miserabili, per furti e delitti della più volgare specie. Il re può aversi a male d'esser tenuto in così poco conto, nella persona del suo messo, da vederselo privar della libertà in tal modo.

CORNOVAGLIA: Ne rispondo io.

REGANA: Mia sorella può prendersela anche peggio, che un suo gentiluomo, per attendere agli affari di lei, sia stato oltraggiato, aggredito. Mettetegli dentro le gambe. (Kent è messo nei ceppi) Venite, mio signore, andiamo.

 

(Escono tutti, meno Gloucester e Kent)

 

GLOUCESTER: Me ne dispiace per te, amico; è questo il piacere del duca, il carattere del quale, tutto il mondo lo sa, non soffre urti né intoppi: intercederò per te.

KENT: Ve ne prego, non lo fate, signore. Ho vegliato e viaggiato molto; una parte del tempo la passerò a dormire, il resto fischierò.

La fortuna di un uomo onesto può diventar scalcagnata: vi do il buon giorno!

GLOUCESTER: Il duca in ciò è da biasimare: la cosa sarà presa in mala parte. (Esce)

KENT: Buon re, che devi dimostrar vero il detto: "Tu cerchi miglior pan che di grano", avvicinati, o tu faro di questo più basso mondo, affinché con l'aiuto dei tuoi raggi io possa scorrere questa lettera.

Non c'è, quasi, che la sventura, capace di vedere miracoli: lo so, questa lettera è di Cordelia che fortunatamente è stata informata del mio misterioso procedere, ed essa trarrà occasione da questo iniquo stato di cose, per cercar di apportare a questi mali i loro rimedi. O miei occhi esausti, e che troppo vegliaste, approfittate, stanchi come siete, per non vedere l'ignominia di questo alloggio. Buona notte, Fortuna: arridi ancora; gira la tua ruota! (Si addormenta)

 

 

 

SCENA TERZA - Un bosco

(Entra EDGARDO)

 

EDGARDO: Io mi son sentito bandire e, mercé il propizio cavo di un albero, sono sfuggito alla caccia. Non c'è varco libero; non v'è luogo, dove una guardia, ed una sorveglianza assolutamente insolita, non siano pronte ad arrestarmi. Finché posso sfuggire loro, io cercherò di mettermi al sicuro; e son risoluto ad assumere la più volgare e la più miserabile apparenza, onde la povertà, per degradare l'uomo, si sia mai avvicinata alla bestia: mi insozzerò la faccia di sudiciume mi avvolgerò le reni con una coperta, mi arrufferò tutti i capelli con nodi, e con ostentata nudità sfiderò i venti e l'inclemenza del cielo. Il paese me ne offre un saggio ed un precedente nei poveri di Bedlam, i quali con grida simili a ruggiti, si cacciano nella nuda carne delle loro braccia, intorpidite e mortificate, spilli, stecchi, chiodi, frasche di ramerino; e in quest'orrido aspetto strappano la carità alle piccole fattorie, a poveri ed infimi villaggi, agli ovili, ai mulini, ora con pazze imprecazioni, ora con preghiere. Povero Turlupino! e povero Tom!

Questo è ancora qualche cosa: come Edgardo, io non sono più nulla.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA QUARTA - Davanti al Castello di Gloucester: Kent nei ceppi

(Entrano LEAR, il Matto e un Gentiluomo)

 

LEAR: E' strano che essi se ne siano andati di casa, e non abbiano rimandato il mio messo.

GENTILUOMO: A quel che ho inteso, la sera precedente non c'era, in loro, alcuna idea di questa partenza.

KENT: Salute a te, mio nobile padrone!

LEAR: Che! di simile vergogna tu fai il tuo passatempo?

KENT: No, mio signore.

MATTO: Ah, ah ! guarda che brutte giarrettiere egli porta. I cavalli si legano alla testa, i cani e gli orsi al collo, le scimmie per le reni, e gli uomini per le gambe: quando un uomo ha le gambe troppo gagliarde, gli tocca portare le calze di legno.

LEAR: Chi ha disconosciuto il posto che ti si conviene, fino al punto di metterti costì?

KENT: Lui, e lei: vostro figlio e la vostra figliuola.

LEAR: No!

KENT: Sì.

LEAR: No, dico!

KENT: Io dico di sì.

LEAR: No, no; non l'avrebbero fatto!

KENT: Sì, l'hanno fatto.

LEAR: Per Giove, io giuro di no!

KENT: Per Giunone, io giuro di sì.

LEAR: Non hanno osato farlo, non l'avrebbero saputo, non l'avrebbero voluto fare: è peggio che un assassinio, far di proposito un oltraggio così violento. Spiegami, in discreta fretta, come tu hai potuto meritare un simile trattamento, o come essi poterono imporlo a te, che venivi da parte nostra.

KENT: Mio signore allorché, giunto a casa loro, consegnai le lettere di Vostra Altezza, prima che mi fossi alzato in piedi dal luogo che mostrava il mio rispetto inginocchiato, sopraggiunse un corriere fumante in un bagno di sudore per la fretta, e mezzo trafelato, il quale proferì, tutto ansante, i saluti da parte di Gonerilla, sua padrona, e in barba all'inopportunità di quella intromissione, consegnò delle lettere, che essi lessero immediatamente: appresone il contenuto, chiamarono a raccolta la loro gente, montarono pronti a cavallo mi ordinarono di seguirli, e di attendere il comodo della loro risposta, e intanto mi davano delle occhiate di gelo. A questo punto incontrai l'altro messo, il cui gradito arrivo, me ne accorsi bene, aveva avvelenato il mio. Costui era proprio il ribaldo, che poco prima erasi mostrato così insolente verso Vostra Altezza: ed io, sentendo dentro di me l'uomo prendere il sopravvento sul senno, trassi fuori la spada. Egli, allora, mise a soqquadro tutta la casa con grida alte e vigliacche; e il vostro figliuolo e la figliuola vostra trovarono che questa mia colpa era degna della vergogna che qui essa subisce.

MATTO: L'inverno non se n'è ancora andato, se le oche selvatiche volano da quella parte.

Padri che indossan stracci Rendono i figli diacci Padri che han sacchi pesi Vedon figli cortesi Fortuna, gran bagascia, Fuori i poveri lascia.

Ma, nonostante tutto ciò, tu per causa delle tue figliuole avrai tanti dolori, quanti potrai contarne in un anno.

LEAR: Oh ! come questo mal di madre gonfia e mi sale al cuore!

"Hysterica passio"! giù, o angoscia che monti: il tuo elemento è in basso. Dov'è questa mia figliuola?

KENT: Col conte, signore; qui dentro.

LEAR: Nessuno mi segua; restate qui. (Esce)

GENTILUOMO: Non avete commesso altra colpa più grave di ciò che dite?

KENT: Nessuna. Ma come mai il re viene con sì poca gente?

MATTO: Se tu fossi stato messo nei ceppi per una domanda come questa, l'avresti ben meritato.

KENT: Perché, matto?

MATTO: Ti manderemo a scuola da una formica, perché ti insegni che d'inverno non si lavora. Tutti quelli che van dietro al loro naso son guidati dai loro occhi, tranne i ciechi; e non c'è un solo naso, fra venti, il quale non senta chi puzza. Quando una ruota grande ruzzola giù da un monte, lasciala andare, per paura che tu non abbia a romperti il collo nel seguirla, ma se una ruota grossa va su per il monte, lasciati trascinare da lei. Quando un uomo savio ti dia un consiglio migliore, restituiscimi il mio: io vorrei che non lo seguissero altro che i bricconi, poiché è il consiglio di un matto.

Colui che serve per lo scotto E "pro forma" ti fa resta, Se vien la pioggia fa fagotto, E ti pianta nella tempesta.

Io resto; il matto non la fa bassa.

Lascia il savio uscir dai piè Briccon che fugge, da matto passa, Ma il matto un briccon non è.

KENT: Matto, dove hai imparato codesto?

MATTO: Nei ceppi no di certo, matto.

 

(Rientra LEAR, con GLOUCESTER)

 

LEAR: Rifiutano di parlare con me? Sono malati? Sono stanchi? Hanno viaggiato tutta la notte? Magri pretesti, immagine di rivolta e di fuga! Portatemi una risposta migliore.

GLOUCESTER: Mio caro signore, voi conoscete l'impetuoso carattere del duca, com'egli è irremovibile ed ostinato nelle sue risoluzioni.

LEAR: Vendetta! pestilenza! morte! sterminio! Impetuoso? quale carattere? Via, Gloucester, Gloucester, io voglio parlare col duca di Cornovaglia e con sua moglie.

GLOUCESTER: Sta bene, mio buon signore, io li ho informati.

LEAR: Informati! Mi intendi, amico?

GLOUCESTER: Sì, mio buon signore.

LEAR: Il re vuol parlare col duca di Cornovaglia; il caro padre vuol parlare con la sua figliuola, egli le ordina di obbedire: sono "informati" di questo? Pel mio respiro, e per il mio sangue!

Impetuoso? il duca impetuoso? Dite al bollente signor duca, che... ma no, ancora no: può essere che egli non si senta bene. Il male fa sempre trascurare tutti i doveri, dai quali la salute non può esimersi; noi non siamo più noi stessi, allorché la natura, trovandosi oppressa, ordina alla mente di soffrire insieme col corpo. Pazienterò:

e ce l'ho col mio troppo violento impulso che ha preso per un uomo sano, uno che era in un momento di indisposizione e di malessere. La maledizione sul mio regno! (Guardando Kent) Perché lui deve trovarsi qui a quel modo? Un simile atto mi persuade che questo appartarsi del duca e di costei non è che una manovra. Liberatemi il mio servo.

Andate, dite al duca e a sua moglie che io voglio parlare a tutti e due, ora, subito, ordinate loro di uscir fuori e di ascoltarmi: se no mi metterò a battere il tamburo sull'uscio di camera loro, finché esso abbia sonato la morte del sonno.

GLOUCESTER: Vorrei che tutto, fra voi, si accomodasse. (Esce)

LEAR: Ohimè! mio cuore, mio cuore, tu sei gonfio! ma... posa!

MATTO: Zio, gridagli come gridava la sciocchina alle anguille quando le metteva vive nella pastella; lei dava loro sulla testa con un bastone, e gridava: "Giù, pazzerelle giù!". Fu suo fratello che, per pura gentilezza verso il suo cavallo, gli imburrava il fieno.

 

(Entrano il DUCA DI CORNOVAGLIA, REGANA, GLOUCESTER e Servi)

 

LEAR: Buon giorno a tutti e due.

CORNOVAGLIA: Salute a Vostra Grazia!

 

(Kent è messo in libertà)

 

REGANA: Io sono lieta di vedere Vostra Altezza

LEAR: Regana, lo credo; e so quale ragione ho di crederlo: se tu non fossi lieta di vedermi, farei divorzio dalla tomba di tua madre, poiché sarebbe la sepoltura di un'adultera. (A Kent) Ah! sei libero?

Ma di ciò, in altro momento. Mia diletta Regana, tua sorella è malvagia: o Regana, essa m'ha legato qui (accenna il cuore) l'ingratitudine dal dente acuto simile ad un avvoltoio. Io ho appena la forza di parlarti; tu non lo crederai, in che modo perverso... Oh, Regana!

REGANA: Vi prego, signore, abbiate pazienza. Io spero bene che voi siate meno capace di apprezzare il suo merito, di quel che essa non sia capace di mancare al proprio dovere.

LEAR: Come può essere ciò, dimmelo?

REGANA: Io non posso pensare che mia sorella abbia voluto mancare, menomamente, all'obbligo suo: signore, se essa, per avventura, ha messo un freno agli eccessi della gente del vostro seguito, lo ha fatto con tale fondamento, e per un fine così salutare, che la rende pura da ogni biasimo.

LEAR: Le mie maledizioni su lei!

REGANA: Oh, signore! voi siete vecchio; la natura in voi si trova proprio sull'orlo del suo limite: voi dovreste lasciarvi governare e dirigere dalla prudenza di qualcuno, capace di comprendere il vostro stato meglio di voi stesso. Perciò vi prego di fare ritorno alla sorella nostra: ditele che l'avete offesa, signore.

LEAR: Chiederle perdono? Vi prego, state un po a sentire come ciò si addica al decoro della casa: "Cara figliuola, io confesso di esser vecchio, i vecchi non son buoni a nulla: (s'inginocchia) io ti supplico in ginocchio, perché tu ti degni di concedermi un vestito, un letto, e da mangiare".

REGANA: Mio buon signore, basta: questi sono scherzi che non si possono vedere. Tornate presso mia sorella.

LEAR (alzandosi in piedi): Mai, Regana. Essa mi ha diminuito della metà il mio seguito; mi ha guardato con occhio velenoso; mi ha colpito al cuore con la sua lingua, che par proprio quella di un serpente.

Tutte le vendette del cielo, accumulate una su l'altra, cadano sopra il suo capo ingrato! O voi, infettivi soffi dell'aria, colpite la sua prole da nascere, e storpiatela!

CORNOVAGLIA: Via, signore, via!

LEAR: O voi, agili lampi, scagliate in quegli occhi pieni di scherno le vostre fiamme che accecano. O voi, nebbie succhiate dalle paludi e tratte su dal sole possente, contaminate la sua bellezza, per umiliare e distruggere il suo orgoglio!

REGANA: O dei benedetti! voi augurerete lo stesso anche a me quando l'ira vi trasporti.

LEAR: No, Regana, tu non avrai la mia maledizione: la tua natura piena di tenerezza non permetterà che tu mi tratti duramente; gli occhi di lei sono feroci, ma i tuoi spirano conforto, e non sono occhi che bruciano. Tu non sei capace di rinfacciarmi i miei piaceri, di ridurre il mio seguito, di rispondermi parole avventate, di lesinarmi gli assegni, di impedirmi infine di entrare in casa mettendo il chiavistello: tu conosci meglio di lei i doveri di natura, i vincoli filiali, i modi della cortesia, gli obblighi della gratitudine; tu non hai dimenticato la metà del regno ond'io ti ho fatto la dote.

REGANA: Mio buon signore, venite all'argomento.

LEAR: Chi ha messo il mi0o servo nei ceppi? (Fanfara di dentro)

CORNOVAGLIA: Che tromba è questa?

REGANA: La conosco, è quella che annunzia mia sorella, va d'accordo con quanto diceva nella sua lettera, cioè: che essa sarebbe venuta qui subito.

 

(Entra OSVALDO)

 

E' giunta la vostra signora?

LEAR: Questi è un furfante, il cui orgoglio, preso a prestito senza fatica, riposa sul volubile favore di colei che egli serve.

Scellerato, via dagli occhi miei!

CORNOVAGLIA: Che cosa intende dire Vostra Grazia?

LEAR: Chi ha messo nei ceppi il mio servo? Regana, io spero bene che tu non ne abbia saputo nulla. Chi, dunque, qua?

 

(Entra GONERILLA)

 

O cieli, se voi amate i vecchi, se il vostro mite impero ammette l'obbedienza, se voi stessi siete vecchi, fate vostra la mia causa:

mandate giù qualcuno che mi assista! (A Gonerilla) Non ti vergogni di alzar gli occhi su questa barba? O Regana, le darai tu la mano?

GONERILLA: Perché no la mano, signore? In che cosa ho offeso? Non sempre è un'offesa ciò che la mancanza di discernimento trova tale, e che l'età barbogia chiama con questo nome.

LEAR: O miei fianchi, siete anche troppo duri: resisterete ancora?

Come mai il mio servo è stato messo nei ceppi?

CORNOVAGLIA: Ve l'ho fatto mettere io, signore; ma le sue mancanze avrebbero meritato assai minor promozione.

LEAR: Voi, voi avete fatto questo?

REGANA: Vi prego, padre mio, poiché voi siete indebolito dagli anni, non lo dissimulate. Se intanto vorrete ritornare presso mia sorella, e farvi soggiorno finché il mese sia spirato, licenziando metà del vostro seguito, dopo potrete venire con me: ora io sono assente da casa, e sprovvista di quello che sarà necessario per accogliere voi come si conviene.

LEAR: Ritornare da lei? e cinquanta uomini licenziati? No, piuttosto rinunzio a tutti i tetti del mondo, e preferisco mover guerra all'inclemenza del cielo, preferisco esser compagno del lupo e dei gufo, nell'aspra distretta della miseria! Tornare con lei? Vedi, io mi adatterei meglio a inginocchiarmi davanti al trono del re di Francia dal sangue bollente, che prese la nostra più giovane figliuola senza dote, e, come uno scudiero, elemosinare da lui una pensione, tanto per reggere in piedi una esistenza ignominiosa. Ritornare con lei?

Persuadetemi, piuttosto, ad essere lo schiavo e la giumenta di questo esecrato mozzo di stalla. (Accennando a Osvaldo)

GONERILLA: A vostra scelta, signore.

LEAR: Ti prego, figliuola, non rendermi pazzo: io non ti darò noia, figliuola mia; addio. Noi non ci incontreremo più, non ci rivedremo più: ma pure tu sei mia carne, sangue mio, figliuola mia; o, meglio, tu sei una malattia della mia carne, che io debbo per forza chiamare mia: tu sei un foruncolo, un gavocciolo, una pustola di carbonchio, nel mio sangue corrotto. Ma non ti moverò rimprovero; la vergogna ti colga quando vorrà, io non la chiamo. Io non invoco chi ha in mano il fulmine, perché lo scagli sopra di te, né racconto la tua condotta a Giove, giudice supremo: emendati quando puoi; diventa migliore a comodo tuo: io posso aver pazienza; posso restare con Regana, io coi miei cento cavalieri.

REGANA: Non proprio così. Io non vi aspettavo ancora, e non ho il mezzo di accogliervi come si conviene. Signore, date ascolto a mia sorella; ché coloro che cercano di moderare i vostri impeti con la ragione, debbono contentarsi di pensare che siete vecchio, e così...

ma lei sa quello che fa.

LEAR: Si chiama ragionar bene questo?

REGANA: Io oso affermarlo, signore. Come? una cinquantina di uomini, per il vostro seguito, non va bene? Che necessità di averne di più?

Anzi, qual bisogno di averne fin tanti, dal momento che la spesa e il pericolo parlano, tutti e due, contro un numero così grande? Come potrebbe, in una medesima casa, andare d'accordo tanta gente, sotto due comandi diversi? E' difficile; quasi impossibile.

GONERILLA: Perché, signor mio, non potreste farvi servire da coloro che lei chiama suoi servi, o da quelli miei?

REGANA: Perché no, signor mio? Allora sì che se essi per caso mancassero verso di voi, noi potremmo metterli a dovere. Se volete venire da me (giacché ormai prevedo un tale pericolo), vi raccomando di non portarne più di venticinque: io non intendo di dar posto a di più, o riconoscerne più di tanti.

LEAR: Io vi ho dato tutto...

REGANA: Ed era l'ora che ce l'aveste dato.

LEAR: Vi feci mie custodi, mie depositarie: ma mi riserbai il diritto di avere al mio seguito un tal numero di uomini. Come? io debbo venire da voi con venticinque persone? Regana, avete detto questo?

REGANA: E lo ripeto, mio signore; non uno di più con me.

LEAR: Anche le creature malvagie sembrano tuttavia, privilegiate, quando ve ne sono altre più malvagie di loro: non essere il peggiore, costituisce già un qualche grado di lode. (A Gonerilla) Verrò con te:

i tuoi cinquanta formano il doppio dei suoi venticinque, ed il tuo affetto è il doppio del suo.

GONERILLA: Ascoltatemi, signor mio: che bisogno avete voi di venticinque, di dieci, o cinque uomini che siano, al vostro seguito, in una casa dove due volte tanti hanno l'ordine di servirvi?

REGANA: Che bisogno avete anche di uno solo?

LEAR: Oh! non ragionatemi di bisogno; i nostri più poveri mendichi han qualcosa, la più meschina, che ad essi riman superflua: non concedere alla natura più di quel che alla natura è strettamente necessario, e la vita dell'uomo vale quella della bestia. Tu sei una signora:

ebbene, se tutto il tuo lusso tu lo facessi per star calda, la natura non avrebbe bisogno del lusso che tu porti addosso, che sì e no ti tien calda. Ma, in quanto al vero bisogno... o cielo! dammi tu quella pazienza, quella pazienza che è il mio vero bisogno! Voi mi vedete qui, o dèi: un povero vecchio, pieno di dolori e di anni; disgraziato in tutte e due le cose: se siete voi che aizzate il cuore di queste mie figliuole contro il padre loro, non mi rendete così stolto da sopportarlo in pace; infiammatemi di nobile furore e non permettete che le lacrime, che sono le armi delle donne, bruttino le mie guance di uomo! No, streghe snaturate, io avrò di voi due tale vendetta, che tutto il mondo dovrà... io farò tali cose... quali sono non lo so ancora; ma saranno il terrore della terra. Voi vi credete di farmi piangere: no, io non piangerò... avrei ben ragione dl piangere, ma questo cuore si spezzerà in centomila schegge prima che io pianga. O mio matto, io finirò pazzo!

 

(Escono Lear, Gloucester, Kent e il Matto)

 

CORNOVAGLIA: Rientriamo, fra poco vi sarà un uragano. (Si sente in distanza l'uragano)

REGANA: Questa casa è piccola: il vecchio e la sua gente non possono esservi alloggiati comodamente.

GONERILLA: La colpa è sua: egli si è messo da sé nella condizione di non riposare, ed è necessario che provi le conseguenze della sua follia.

REGANA: Per quanto riguarda la sua persona, io lo riceverò ben volentieri, ma non un solo uomo del suo seguito.

GONERILLA: Tale è il mio proposito. Dov'e monsignore di Gloucester?

 

(Rientra GLOUCESTER)

 

CORNOVAGLIA: Ha accompagnato fuori il vecchio. E' qui di ritorno.

GLOUCESTER: Il re è su tutte le furie.

CORNOVAGLIA: Dove va?

GLOUCESTER: Dà l'ordine di montare a cavallo: ma dove va, non saprei.

CORNOVAGLIA: Il meglio è lasciarlo andare: si guiderà da sé.

GONERILLA: Signor mio, non vi raccomandate, davvero, perché egli resti.

GLOUCESTER: Ahimè! La notte si avanza, e la raffica imperversa furiosamente: per molte miglia all'intorno v'è appena appena un cespuglio.

REGANA: Messere, per gli uomini testardi i mali che essi si procurano da loro stessi debbono essere una lezione. Chiedete le vostre porte:

egli ha al suo seguito della gente disperata, e la prudenza consiglia di temere di ciò che costoro possono istigarlo a fare, poiché egli si lascia metter su facilmente.

CORNOVAGLIA: Chiudete le vostre porte, signor mio: è una notte selvaggia, la mia Regana ci consiglia bene. Ripariamoci dall'uragano.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO TERZO

 

SCENA PRIMA - Una landa

(Uragano con tuoni e lampi)

(Entrano KENT e un Gentiluomo, incontrandosi)

 

KENT: Chi c'è là, oltre il mal tempo?

GENTILUOMO: Uno che ha l'anima agitata come il tempo.

KENT: Vi conosco. Dov'è il re?

GENTILUOMO: Egli è in lotta con il furore degli elementi; ordina ai venti di spingere la terra nel mare col loro soffio, o di sollevare le acque destate al di sopra del continente sicché ogni cosa si muti nel mondo, o cessi di esistere. Egli si strappa i bianchi capelli, che le raffiche impetuose, nella loro cieca rabbia, afferrano e disperdono.

Nel suo piccolo mondo di uomo egli si sforza di vincere col suo disdegno il vento e la pioggia che ondeggiano cozzando. In una notte come questa, nella quale l'orsa munta dai suoi orsacchiotti non uscirebbe dalla tana, e il leone e il lupo dal ventre attanagliato dalla fame terrebbero il pelo all'asciutto, egli corre a testa nuda e invoca il finimondo.

KENT: Ma con lui chi c'è?

GENTILUOMO: Nessuno, tranne il matto, il quale cerca di lenirgli con gli scherzi le angosce del suo cuore ferito.

KENT: Messere, io vi conosco, e sulla garanzia della mia personale osservazione, oso confidarvi una cosa, che è un segreto prezioso. Il duca d'Albania e il Cornovaglia sono in rotta, sebbene per ora la cosa sia mascherata da una reciproca dissimulazione: essi hanno dei servi (e chi non ne ha, che dalle propizie stelle sia stato messo in trono e spinto in alto?), i quali non sembrano niente di meno che servi, ma in realtà sono spie del re di Francia, e osservatori che riferiscono sul nostro regno; di quanto da loro e stato visto, sia degli screzi e delle segrete mene dei duchi, sia del duro stile che ognuno di loro due ha tenuto contro il vecchio e buon re, o d'altra cosa più grave, di cui forse quest'avvenimenti non sono che gli accessori. Ma quel che è certo è che dalla Francia penetra in questo nostro regno in isfacelo un esercito potente, il quale, approfittando della nostra negligenza, ha già messo piede, segretamente, in alcuni dei nostri porti migliori ed è sul punto di spianare al vento la sua bandiera. Ora veniamo a voi: se della fiducia che avete in me voi farete tale costrutto, da recarvi in fretta a Dover, troverete là qualcuno che vi ringrazierà, quando gli facciate un esatto racconto del dolore inumano, e tale da impazzirne, del quale il re ha ragione di lamentarsi. Io sono un gentiluomo, per sangue e per educazione, e vi offro questo incarico con una certa cognizione di causa e sicurezza.

GENTILUOMO: Ve ne ripagherò.

KENT: No, ve ne prego. A conferma che io sono molto più della mia apparenza esteriore, aprite questa borsa, e prendete quanto contiene.

Se vedrete Cordelia, e la vedrete senza dubbio, mostratele questo anello, ed essa vi dirà chi è quel tale che ancora non conoscete.

Maledizione alla tempesta! Andrò in cerca del re.

GENTILUOMO: Datemi la mano: avete da dirmi altro?

KENT: Poche parole, ma, per l'importanza loro, più di quanto vi ho detto fino ad ora: cioè, che quando abbiamo trovato il re (per il che vostra cura sarà di andare da quella parte, io anderò da questa), chi di noi lo incontra per primo, deve avvertirne l'altro con un grido.

 

(Escono separatamente)

 

 

 

SCENA SECONDA - Un'altra parte della landa. La tempesta continua

(Entrano LEAR e il Matto)

 

LEAR: Soffiate, o venti, e fatevi scoppiare le gote! infuriate!

soffiate! Cateratte e trombe del cielo, riversatevi sulla terra, finché abbiate sommerso tutti i campanili, ed annegati i galli sulle loro cime. O voi sulfurei guizzi di fuoco, rapidi come il pensiero, precursori dei fulmini che fendon le querce, strinate la mia testa canuta! E tu, o tuono scotitor dell'universo, spianta d'un colpo la solida sfera del mondo! Infrangi le matrici della natura, disperdi tutti in una volta i germi, che producono l'uomo ingrato!

MATTO: O zio, le acque chete di corte, in una casa all'asciutto, son meglio di quest'acqua piovana in mezzo alla strada. Mio buon zio rientra, chiedi la benedizione alle tue figliuole: questa è una notte che non ha misericordia né dei matti né dei savi.

LEAR: Romba con quanto n'hai in corpo, o tempesta! vomita, o fuoco!

giù a rovesci, o pioggia! La pioggia, il vento, il tuono, il fuoco, non sono mie figliuole: io non vi accuso di ingratitudine, o elementi; a voi io non ho dato un regno, non vi ho chiamati figli miei, voi non mi dovete obbedienza alcuna: perciò fate pur cadere su me il vostro orrendo arbitrio, ecco, io sono qua, schiavo vostro, povero vecchio, infermo, debole disprezzato... Ma no, io vi chiamo servili ministri, voi che avete unito con due inique figliuole le vostre schiere generate nell'alto dei cieli, contro una testa così vecchia e bianca come questa. Oh! oh! è infame!

MATTO: Chi ha una casa per tirarvi dentro il capo, ha un buon elmo.

Chi prima alla braghetta Che al capo suo dà stanza, Mille pidocchi aspetta I poveri fan razza.

Chi fa del piede quello Che avrebbe a far del cuore, D'un callo avrà rovello, E veglia dal dolore.

Poiché fino ad ora non c'è mai stata una donna bella, che non abbia fatto smorfie davanti a uno specchio.

LEAR: No, io sarò un modello di pazienza: non dirò nulla.

 

(Entra KENT)

 

KENT: Chi c'è là?

MATTO: Affé, una Maestà ed una braghetta: cioè un savio ed un matto.

KENT: Ah! signore, voi siete qui? Gli esseri stessi che amano la notte, non amano notti come questa; i cieli infuriati atterriscono perfino gli animali che vagano nelle tenebre e li fanno rimanere nelle loro tane. Da quando fui uomo, io non ricordo di aver mai visto tali lingue di fuoco, di aver sentito scoppi di tuono così orrendi, ululi e mugghi di vento e di pioggia come questi: umana natura non può sopportarne né il tormento né il terrore.

LEAR: Gli dèi potenti, che fanno sulla nostra testa questa orribile tregenda, possano scovare in quest'ora i loro nemici! Trema, o sciagurato, tu che hai in fondo alla coscienza segreti delitti, non ancor flagellati dalla giustizia: nasconditi, o sanguinosa mano dell'assassino; nasconditi, o spergiuro, e tu pure, o incestuoso simulatore di virtù; trema fino a cadere in pezzi, o tu miserabile che sotto la maschera di un'apparenza onesta hai teso insidie alla vita di un uomo! Squarciate i veli che vi nascondono, o delitti impenetrabilmente chiusi agli sguardi, e gridate mercé a questi tremendi ministri della giustizia, che vi citano. Io sono un uomo men peccatore che vittima di peccato.

KENT: Ahimè! a capo scoperto! Mio grazioso signore, a due passi di qui v'è una capanna; essa vi presterà qualche amico riparo contro la tempesta. Riposatevi là, mentre io tornerò a quella dura casa (più dura delle pietre stesse ond'è costruita, dove proprio in questo istante mi fu negato di entrare, allorché andavo in cerca di voi ), e proverò di far violenza alla loro avara cortesia.

LEAR: I miei sensi cominciano a vacillare. Andiamo, ragazzo mio. Come va, ragazzo mio? Hai freddo? Anch'io ho freddo. Dov'è questa paglia, amico mio? L'arte del bisogno è straordinaria: essa ha la virtù di rendere preziose, per noi, le cose più vili. Andiamo, la vostra capanna? Mio povero matto, povero ragazzo mio, c'è ancora un pezzo del mio cuore che si affligge per te.

MATTO (canta): Chi di senno ha solo una cruna, Oilí oilà col vento e la pioggia, De' far buon viso alla sua fortuna, Anche se cada pioggia ogni dì.

LEAR: E' vero, mio buon ragazzo. Via, menaci a questa capanna.

 

(Escono Lear e Kent)

 

MATTO: Questa è una eccellente notte per rinfrescare gli ardori di una cortigiana. Prima di andarmene vuo' dire una profezia.

Quando i preti men dotti saran che parolai; Quando il malto con l'acqua sciuperanno i birrai; Quando ai lor sarti i nobili faran da precettori; Né scottati altri eretici saran che i donnaioli; Quando tutti i processi saran ben giudicati Né più scudieri in debito, né cavalier spiantati; Quando la maldicenza su lingua non rampolla, Né i tagliaborse andranno dovunque c'e una folla; E gli usurai il denaro conteranno in palese, E ruffiani e bagasce costruiran delle chiese; Allora il regno d'Albione Cadrà in gran confusione:

Allor sarà il tempo, chi vivrà vedrà, Che per camminare coi piedi s'andrà.

Questa profezia la farà, un giorno, Merlino, poiché io vivo prima dei tempi suoi.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA TERZA - Una stanza nel Castello di Gloucester

(Entrano GLOUCESTER e EDMONDO)

 

GLOUCESTER: Ohimè, ohimè! Edmondo, a me non piace questa condotta snaturata. Quando chiesi il permesso di aver pietà di lui, essi mi tolsero l'uso della mia propria casa, mi imposero, sotto pena del loro perpetuo disfavore, di non parlare di lui, di non supplicare per lui, di non prendere in alcun modo le sue parti.

EDMONDO: Ciò è estremamente selvaggio e snaturato!

GLOUCESTER: Andate, e non dite nulla. Fra i duchi v'è rottura, e c'è anche di peggio. Stanotte ho ricevuto una lettera di cui è pericoloso parlare... l'ho messa sotto chiave nel mio gabinetto. Le offese che il re ora soffre, saranno vendicate interamente; parte di un esercito ha già messo piede in terra: bisogna tenere per il re. Io anderò in cerca di lui, e lo aiuterò segretamente: voi andate, e intrattenete il duca in discorsi, affinché la mia opera caritatevole non sia da lui scoperta. Se chiede di me, io sto male e sono andato a letto. Se dovrò morirne (e non meno di questo mi è stato minacciato) sia: il re, il mio vecchio signore, dev'essere soccorso ad ogni costo. Strane cose sono imminenti. Edmondo, mi raccomando siate prudente.

 

(Esce)

 

EDMONDO: Di questo atto di carità, che ti è stato interdetto, il duca sarà informato subito e anche di quella lettera. Questo mi sembra un bel servigio, e deve portare a me quanto mio padre perde... cioè, tutto: il giovane sorge, allorché il vecchio cade.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA QUARTA - Una parte della landa, con una capanna. Continua l'uragano

(Entrano LEAR, KENT e il Matto)

 

KENT: Ecco il luogo, signor mio; mio buon signore, entrate: la tirannia della notte aperta è troppo aspra, perché la natura possa sopportarla.

LEAR: Lasciatemi solo.

KENT: Mio buon signore, entrate qui.

LEAR: Vuoi spezzarmi il cuore?

KENT: Vorrei prima spezzare il mio. Mio buon signore, entrate.

LEAR: Tu credi che sia troppo, sentirsi penetrare fin dentro le ossa questa tempesta furibonda: per te è così, ma dove ha preso piede un male più grave, il male più piccolo si sente appena. Tu cercheresti di evitare un orso; ma se la tua fuga ti conducesse verso il mare ruggente, affronteresti la gola dell'orso. Quando l'anima è serena, il corpo è sensibile: la tempesta che è nell'anima mia, offusca nei miei sensi ogni altro affetto, che non sia quello che vibra là dentro.

L'ingratitudine filiale! non è forse lo stesso che se questa mia bocca facesse a brani questa mano, perché le porge il nutrimento? Ma io punirò fino in fondo: no, non voglio pianger più. In una notte come questa, chiudermi fuori di casa... Giù, rovesciati, o pioggia; io sopporterò!... in una notte come questa! O Regana, Gonerilla, il vostro vecchio e amorevole padre, il cui generoso cuore vi ha dato tutto... oh! da quella parte sta la pazzia; bisogna che io la eviti; non più di ciò.

KENT: Mio buon signore, entrate qui.

LEAR: Ti prego, entraci tu; cercavi riparo per te stesso: questa tempesta, almeno, non mi permetterà di riflettere su cose che mi farebbero anche più male. Ma tuttavia, vi entrerò. (Al Matto) Entra, ragazzo; va' tu per primo. Oh! la miseria senza tetto!... via, entra dentro. Io voglio pregare, e poi dormirò. (Il Matto entra) O poveri disgraziati ignudi, dovunque siate, che soffrite l'assalto di questo uragano senza pietà! le vostre teste scoperte e i vostri fianchi digiuni, i vostri stracci tutti buchi e finestre, come potranno difendervi da una stagione come questa? Oh! troppo poco pensiero io mi son preso di voi! Eccoti la medicina, o lusso: esponi te stesso a soffrire ciò che soffrono i miseri, affinché un giorno tu possa riversare su loro il superfluo, e far sembrare più giusto il cielo.

EDGARDO (di dentro): Un braccio e mezzo, un braccio e mezzo! povero Tom! (Il Matto si precipita fuori della capanna)

MATTO: Non entrar qui, zio; qui dentro c'è uno spirito. Aiuto! aiuto!

KENT: Dammi la mano. Chi va là?

MATTO: Uno spirito, uno spirito: egli dice che il suo nome è povero Tom.

KENT: Chi sei tu, che brontoli costà sulla paglia? Esci fuori.

 

(Entra EDGARDO, travestito da pazzo)

 

EDGARDO: Fuggite! il sozzo demonio è dietro di me! Fra i rami pungenti del biancospino soffiano i venti. Via! Va' nel tuo letto freddo, e riscaldati.

LEAR: Anche tu hai dato tutto alle tue figliuole e ti sei ridotto a questo?

EDGARDO: Chi dà qualcosa al povero Tom? Il sozzo demonio l'ha menato attraverso il fuoco e la fiamma, attraverso guadi e gorghi, per pantani e per paludi; gli ha cacciato dei coltelli sotto il guanciale, e gli ha messo dei capestri nell'inginocchiatoio; gli ha messo il veleno per i topi accanto alla minestra; gli ha gonfiato il cuore di tale orgoglio, che egli, su di un baio al trotto, passa sopra dei ponti larghi quattro pollici, per rincorrere la sua ombra, scambiandola per un traditore. Dio ti salvi i cinque sensi! Tom ha freddo. Ah! brr! brr! ah! brr! brr! Dio ti protegga dalle raffiche, dalle cattive stelle, e dagl'influssi! Fate un po' di carità al povero Tom, che è perseguitato dal sozzo demonio. Eccolo là, ora lo potrei acchiappare... eccolo là... eccolo là... di nuovo là... eccolo là.

 

(L'uragano continua)

 

LEAR: Come? le sue figliuole l'hanno ridotto in questo stato? Non sei riuscito a salvar nulla? Hai dato tutto a loro?

MATTO: No, s'è serbato una coperta, altrimenti noi avremmo dovuto fare tutti il viso rosso.

LEAR: Allora, tutti i flagelli che per volere del destino incombono sulle colpe degli uomini, nell'aria sospesa, cadano sopra le tue figliuole!

KENT: Egli non ha figliuole, signore.

LEAR: A morte, impostore! nulla avrebbe potuto sottomettere la natura fino a tanta abiezione, se non le sue figliuole inique. E' dunque usanza che i padri reietti debbano avere così poca pietà della loro carne? Giusta punizione essi s'infliggono! poiché questa loro carne generò quelle figlie di pellicano.

EDGARDO: Pellicocco stava a sedere sul colle di Pellicocco:

lallerallera e lallerallà!

MATTO: Questa nottataccia così fredda ci farà diventare tutti pazzi e farnetici.

EDGARDO: Guardati dal sozzo demonio. Obbedisci ai tuoi genitori; mantieni puntualmente la tua parola, non bestemmiare, non ti compromettere con la sposa legittima di un altro; non far sfoggiare la tua bella... Tom ha freddo.

LEAR: Che cosa facevi?

EDGARDO: Ero un servitore superbo di cuore e di mente; mi arricciavo i capelli, portavo i guanti al cappello, servivo la lascivia della mia padrona e facevo con lei quella cosa che si fa al buio; facevo tanti giuramenti, quante erano le parole che dicevo, e li rompevo tutti dinanzi alla soave faccia del cielo, ero uno che si addormentava meditando qualche atto di lussuria, e si svegliava per compierlo.

Amavo profondamente il vino, teneramente i dadi e in quanto a donne ne avevo per amanti più del Turco. Ero falso di cuore, facile di orecchio sanguinario di mano: maiale nella pigrizia, volpe nel furto, lupo nella voracità, cane nella rabbia, davanti alla preda leone. Non lasciare che lo scricchiolìo delle scarpe e il fruscìo della seta diano il tuo povero cuore in balìa della donna; tieni il piede fuori dei bordelli, la mano fuori dell'apertura delle sottane, la penna lontana dai libri degli strozzini, e sfida pure il sozzo demonio. Il vento gelato soffia ancora attraverso il biancospino e dice:

Vu...u...u, ds...s...s, vu...u...u, ds...s...s! Delfino, ragazzo mio, ragazzo mio, su, su! Lascialo trottar via.

 

(L'uragano continua)

 

LEAR: Ecco, tu staresti meglio nella tua tomba che qui ad esporre il tuo corpo mezzo nudo a questa estrema furia dei cieli. L'uomo non è dunque altro che questo? Osservalo bene. Tu non devi la seta al baco, la pelle alla bestia, la lana alla pecora, nessun profumo allo zibetto. Ah! ecco tre di noi che sono sofisticati: tu sei l'uomo genuino. L'uomo non conciato non è nulla di più che un povero, ignudo, forcuto animale come sei tu. Via, via, questa roba prestata! Andiamo, sbottonami qua.

 

(Si straccia le vesti)

 

MATTO: Ti prego, zio, sta' cheto; è una cattiva notte, questa, per mettersi a nuotare. In questo momento un focherello in mezzo alla campagna deserta somiglierebbe al cuore di un vecchio libertino: una piccola favilla, mentre tutto il resto del suo corpo è freddo. Guarda, ecco un fuoco che cammina.

 

(Entra GLOUCESTER con una torcia)

 

EDGARDO: Costui è il sozzo diavolo Flibbertigibbet: egli esce fuori all'ora del coprifuoco, e va in giro finché si sente il primo gallo; da l'albugine e la cateratta, storce gli occhi e fa il labbro leporino, fa venir la ruggine sulla bianca spiga del grano, e affligge la povera creatura della terra.

San Vital traversò la capanna tre volte, Incontrò la fantasma e le sue nove scolte Le ordinò di smontare E sua fede impegnare, E fatti in là strega, fatti in là !

KENT: Come sta Vostra Grazia?

LEAR: Chi è?

KENT: Chi va là? Che cosa cercate?

GLOUCESTER: E voi costà chi siete? i vostri nomi?

EDGARDO: Sono il povero Tom, il quale mangia la ranocchia che nuota, il rospo, il girino, la tarantola e il tritone; che nella rabbia del suo cuore, allorché il sozzo demonio gl'infuria dentro, si mangia la bovina per insalata; manda giù topi vecchi, e carogne di cane gettate alle fosse, beve il verde manto della gora stagnante; che è cacciato, a suon di frusta, da una parrocchia all'altra, punito coi ceppi, e imprigionato; che ebbe già tre mute di panni da mettere in dosso, sei camicie per il suo corpo, Un caval da cavalcare, una spada da portare Ma topi e sorci e tali bestiole Da sette lunghi anni Tom mangiar suole.

Guardatevi da chi m'è dietro. Pace, Smulkin, pace, o demonio!

GLOUCESTER: Come? Vostra Grazia non ha miglior compagnia di questa?

EDGARDO: Il principe delle tenebre è un gentiluomo: si chiama Modo e Mahu.

GLOUCESTER: La nostra carne e il nostro sangue, signor mio, sono così degenerati, che odiano chi li mette al mondo.

EDGARDO: Il povero Tom ha freddo.

GLOUCESTER: Venite dentro con me. Il mio dovere non può permettermi di obbedire, in tutto, ai duri ordini delle vostre figliuole: sebbene esse mi abbiano ingiunto di sbarrare le porte di casa mia, e di lasciarvi in balìa di questa tirannica notte, io, tuttavia mi sono arrischiato a venire in cerca di voi, per condurvi in un luogo dove troverete pronti fuoco e cibo.

LEAR: Lasciatemi, prima, parlare col filosofo... Qual è la causa del tuono?

KENT: Mio buon signore, accettate la sua offerta: entrate in casa con lui.

LEAR: Voglio scambiare una parola con questo saggio Tebano. Che cosa studi tu?

EDGARDO: Come frustare il demonio e uccidere gl'insetti.

LEAR: Lascia che ti domandi una parola in segreto.

KENT: Fategli premura, ancora una volta, affinché venga con voi, signor mio: la sua ragione incomincia a turbarsi.

GLOUCESTER: Puoi dargli torto? (L'uragano continua) Le sue figliuole vogliono la sua morte. Ah! quel buon Kent! Egli lo diceva che sarebbe andata a finire così... povero esiliato! Tu dici che il re impazzisce:

ma io ti dirò, amico mio, che io stesso sono quasi pazzo. Avevo un figliuolo, che ora ho bandito dal sangue mio; egli attentava alla mia vita, poco fa, recentissimamente: io lo amavo, amico mio... nessun padre ebbe più caro il proprio figlio: ti dico la verità il dolore mi ha sconvolto la ragione. Che notte è questa! Io supplico Vostra Grazia...

LEAR: Oh! vi domando perdono messere... Nobile filosofo, la vostra compagnia.

EDGARDO: Tom ha freddo.

GLOUCESTER: Va', ragazzo, entra nella capanna: scaldati.

LEAR: Via entriamo tutti.

KENT: Di qua, signor mio.

LEAR: Con lui: io voglio restare ancora col mio filosofo.

KENT: Mio buon signore, cercate di calmarlo: lasciate ch'egli porti via con sé costui GLOUCESTER: Conducetelo innanzi voi stesso.

KENT: Amico, andiamo, vieni con noi.

LEAR: Vieni, mio buon Ateniese.

GLOUCESTER: Non più parole, non più parole: Zitti!

EDGARDO: Sire Orlando venne alla torre nera, E sempre diceva: Mucci mucci Sento puzza di Britannucci.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUINTA - Una stanza nel Palazzo di Gloucester

(Entrano il DUCA DI CORNOVAGLIA e EDMONDO)

 

CORNOVAGLIA: Avrò la mia vendetta prima di uscire da questa casa.

EDMONDO: Signor mio, il biasimo a cui potrò andare incontro, per aver lasciato cedere, così, l'affetto filiale alla lealtà, mi dà alquanto timore solo a pensarvi.

CORNOVAGLIA: Ora me ne accorgo: non era solamente l'indole malvagia di vostro fratello che gli faceva cercar la morte di suo padre, ma v'era un lodevole stimolo, messo in moto dalla nequizia detestabile che era nel padre stesso.

EDMONDO: Come è triste la mia sorte, la quale fa sì ch'io debba pentirmi di essere giusto! Ecco la lettera di cui egli parlava, la quale dimostra che egli complotta a vantaggio del re di Francia. O cieli! così non esistesse questo tradimento o almeno non fossi io colui che lo ha rivelato!

CORNOVAGLIA: Vieni con me dalla duchessa.

EDMONDO: Se il contenuto di questo foglio è sicuro, voi avete nelle vostre mani una grave faccenda.

CORNOVAGLIA: Vero, o falso, esso ti ha fatto conte di Gloucester.

Cerca dov'è tuo padre, affinché l'abbiam pronto per l'arresto.

EDMONDO (a parte): Se io lo colgo mentre sta a confortare il re, ciò darà consistenza anche più piena al sospetto contro di lui. (Forte) Io persevererò sul mio cammino di lealtà, per doloroso che sia il conflitto fra questo e il sangue mio.

CORNOVAGLIA: Io riporrò in te la mia fiducia; e tu troverai nel mio affetto un padre più amoroso del tuo.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SESTA - Una camera in una fattoria attigua al Castello di Gloucester

(Entrano GLOUCESTER, LEAR, KENT, il Matto e EDGARDO)

 

GLOUCESTER: Qui si sta meglio che all'aria aperta; accettate di buon grado. Io cercherò di rendere più comodo questo luogo, con tutto quello che posso aggiungervi: non resterò a lungo lontano da voi,

KENT: Tutte le forze della sua ragione hanno ceduto alla sua smania.

Che gli dèi ricompensino la vostra bontà. (Esce Gloucester)

EDGARDO: Frateretto mi chiama, e mi dice che Nerone sta a pescare con la lenza nel lago delle tenebre. Prega, innocente, e guardati dal sozzo demonio.

MATTO: Ti prego, zio, dimmi se un pazzo è un gentiluomo o un borghese.

LEAR: Un re, un re!

MATTO: No: è un borghese, che ha un gentiluomo per figlio, perché è un bel pazzo quel borghese, il quale vede il proprio figlio gentiluomo prima di lui.

LEAR: Averne un migliaio con degli schidioni rossi infocati, che piombassero su di loro sibilando...

EDGARDO: Il sozzo demonio mi morde la schiena.

MATTO: Pazzo è colui che si fida della mansuetudine del lupo, della salute del cavallo, dell'amore di un ragazzo, o del giuramento di una puttana.

LEAR: Sta bene: io li cito subito in giudizio... (A Edgardo) Vieni, mettiti a sedere qui, sapientissimo giustiziere... (Al Matto) Tu mio saggio signore, mettiti costì... Adesso a voi, volpacce!

EDGARDO: Guardatelo là, come sta bello diritto e gli occhi gli sfavillano! Hai bisogno di occhi che ti guardino, anche in giudizio, signora?

Varca il fiume, Betta, e vien da me...

MATTO: Il suo burchiello è rotto Ed essa non dee far motto Perché varcar non osa fino a te.

EDGARDO: Il sozzo demonio perseguita il povero Tom, nascondendosi nella voce di un usignolo. Hopdance grida nella pancia di Tom, per avere due aringhe bianche. Non gracchiare, angelo nero, io non ho cibo per te.

KENT: Come vi sentite, signore? Non restate stupito così: volete sdraiarvi e riposare sui cuscini?

LEAR: Prima voglio assistere al loro processo. Fate entrare i testimoni d'accusa. (A Edgardo) Tu giudice in toga, prendi il tuo posto. (Al Matto) E tu, suo collega in equità, impàncati al suo fianco. (A Kent) Voi siete della commissione, mettetevi a sedere anche voi.

EDGARDO: Procediamo con giustizia.

 

Dormi o sei desto, giulìo pastorello?

Le tue pecore son tra il grano; E per un soffio del bocchin tuo bello Le tue pecore non avran danno.

Ron ron! il gatto è bigio.

LEAR: Giudicate prima lei: è Gonerilla. Giuro, davanti a questa onorevole assemblea, che costei ha preso a calci il povero re suo padre.

MATTO: Venite qua, signora. Il vostro nome è Gonerilla?

LEAR: Non può negarlo.

MATTO: Vi domando perdono: vi avevo presa per uno sgabello.

LEAR: Ed eccone qua un'altra, i cui sguardi biechi dicono chiaro di che stoffa è fatto il suo cuore. Arrestatela! Delle armi, delle armi, una spada, del fuoco! Anche in questo luogo la corruzione! Giudice traditore, perché l'hai lasciata scappare?

EDGARDO: Dio ti salvi i cinque sensi!

KENT: Oh pietà! Signore, dov'è mai la calma che così spesso vi siete vantato di serbare?

EDGARDO (a parte): Le mie lacrime cominciano a prendere le sue parti fino al punto da compromettere il mio travestimento.

LEAR: I cani piccini e tutta l'altra canea, Trogolino, Bianchillo, e Cordolce, vedi, mi abbaiano dietro.

EDGARDO: Tom scaglierà ad essi la sua testa. Indietro, cagnacci!

Abbi nero o bianco il muso, Sia il tuo morso velenoso Sii mastin, bracco o levriero, Sii spagnuol, bastardo fiero, Codimozzo o coda ritta Tom li fa guaire tutti, Ché se squasso la testa mia, Saltando il portello fuggono.

Brr, brr, brr, brr. Su, su! Via, in marcia alle feste e alle fiere, e alle città dove c'è mercato. Povero Tom, la tua borraccia è all'asciutto.

LEAR: Allora, si notomizzi Regana; si osservi che cosa cresce intorno al suo cuore. C'è, in natura, una ragione, per la quale essa crea dei cuori duri come questi? (A Edgardo) Voi, messere, vi arruolo come uno dei miei cento: solamente, non mi piace la foggia dei vostri vestiti; voi mi direte che è il costume persiano: ma cambiateveli.

KENT: Via, mio buon signore, sdraiatevi qui, e riposate un poco.

LEAR: Non fate rumore, non fate rumore, tirate le cortine: così, così, così. A cena anderemo domattina: così, così, così.

MATTO: Ed io me n'anderò a letto a mezzogiorno.

 

(Rientra GLOUCESTER)

 

GLOUCESTER: Vieni qua, amico: dov'è il re mio padrone?

KENT: Qui signore; ma non lo disturbate la sua ragione se n'è andata.

GLOUCESTER: Mio buon amico ti prego, prendilo nelle tue braccia; io ho sorpreso un complotto di morte contro di lui. La c'e pronta una lettiga: adagiavelo sopra e va' verso Dover, amico mio, dove troverai buona accoglienza e protezione. Prendi su il tuo padrone: se tu dovessi tardare mezz'ora, la sua vita, la tua, e quella di quanti si prestano a difenderlo andrebbe a sicura perdizione. Tiralo su, tiralo su, e seguimi, ch'io ti condurrò prestamente, dove sia qualche provvigione per il viaggio.

KENT: La natura vinta dalla stanchezza, dorme: questo riposo potrebbe ancora essere un balsamo per i suoi nervi affranti, i quali, se la buona ventura non lo permetterà, difficilmente possono riaversi. (Al Matto) Vieni, aiuta anche tu a portare il tuo padrone: tu non devi restare indietro.

GLOUCESTER: Via, via, andiamo.

 

(Escono. Kent, Gloucester e il Matto trasportando via il Re)

 

EDGARDO: Allorché vediamo chi vale più di noi soffrire le nostre pene, non ci vien quasi fatto di pensare che le miserie nostre sono nostri nemici. Chi soffre solo, soffre straordinariamente nell'anima sua, poiché egli lascia dietro a sé cose libere dal dolore, e spettacoli di felicità; invece l'anima si sottrae a grandi sofferenze, quando il dolore ha compagni e amici di sventura. Come mi sembra leggera e sopportabile la mia pena, ora che quell'angoscia, la quale mi fa chinare la testa, fa incurvare la fronte al re: tali figlie a lui, quale a me il padre! Fuggi, Tom! segui l'alto rumore degli eventi e svelati allorché la calunnia, il cui maltalento ti macchia, verrà distrutta dinanzi alla prova della tua lealtà, e tu sarai riabilitato.

Avvenga ciò che vuole, in questa notte, purché il re si metta in salvo! Nasconditi, nasconditi.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA SETTIMA - Una stanza nel Castello

(Entrano il DUCA DI CORNOVAGLIA, REGANA, GONERILLA, EDMONDO, e alcuni Servi)

 

CORNOVAGLIA: Correte in fretta da monsignore vostro marito, e mostrategli questa lettera: l'esercito del re di Francia è sbarcato.

Andate a cercare quel traditore di Gloucester. (Escono alcuni Servi)

REGANA: Impiccatelo immediatamente.

GONERILLA: Strappategli gli occhi.

CORNOVAGLIA: Lasciatelo alla mia collera. Edmondo, accompagnate nostra sorella: la vendetta che noi siamo costretti a prendere sopra quel traditore di vostro padre è tale che non è conveniente che voi ne siate spettatore. Consigliate al duca, dal quale vi recate, i più solleciti preparativi per la guerra: noi siamo pronti a fare altrettanto. I corrieri che ci scambieremo fra noi due dovranno essere svelti ed accorti. Addio, cara sorella, addio, monsignore di Gloucester (Entra OSVALDO)

Ebbene! dov'è il re?

OSVALDO: Monsignore di Gloucester lo ha condotto via di qui: circa trentacinque o trentasei dei suoi cavalieri, i quali lo cercavano febbrilmente, lo incontrarono presso la porta, e, insieme con altri seguaci del conte, sono andati con lui verso Dover, dove si vantano di trovare degli amici bene armati.

CORNOVAGLIA: Preparate i cavalli per la vostra signora.

GONERILLA: Addio, mio amabile signore, addio sorella.

 

(Escono Gonerilla, Edmondo e Osvaldo)

 

CORNOVAGLIA: Edmondo, addio. Andate, cercatemi il traditore Gloucester, legatelo come un ladro, e portatelo davanti a noi. (Escono altri Servi) Sebbene non ci sia lecito sentenziare sulla vita, senza le forme della giustizia, il nostro potere, tuttavia, userà alla nostra collera una cortesia, che gli uomini potranno biasimare, ma non impedire. Chi c'è? il traditore?

 

(Rientrano i Servi con GLOUCESTER)

 

REGANA: L'ingrata volpe! è lui.

CORNOVAGLIA: Legategli bene strette quelle braccia di cartapecora.

GLOUCESTER: Che voglion fare le Vostre Grazie? Miei buoni amici, considerate che voi siete ospiti miei: non mi fate un tiro mancino, amici.

CORNOVAGLIA: Legatelo, vi dico! (I Servi lo legano)

REGANA: Stretto, stretto. Schifoso traditore!

GLOUCESTER: Donna spietata, io non son tale.

CORNOVAGLIA: Legatelo a questa seggiola. Scellerato, imparerai...

 

(Regana gli strappa la barba)

 

GLOUCESTER: Per gli dei pietosi, è l'atto il più ignobile, strappare la barba così.

REGANA: Averla tanto bianca, ed essere un traditore simile!

GLOUCESTER: Donna malvagia, questi peli che tu mi porti via dal mento, si animeranno per accusarti. Voi siete in casa mia: non dovreste strapazzare in questo modo il mio volto di ospite con le vostre mani di ladri! Che intendete fare?

CORNOVAGLIA: Orsù, signore, che lettere avete ricevute, ultimamente, di Francia?

REGANA: Rispondete schiettamente, tanto la verità la sappiamo.

CORNOVAGLIA: E quale cospirazione vi lega ai traditori recentemente sbarcati nel regno?

REGANA: In mano a chi avete mandato il re demente? Parlate.

GLOUCESTER: Ho ricevuto una lettera scritta su semplici congetture, che mi è giunta da persona il cui cuore è neutrale, e non già da una persona avversa a voi.

CORNOVAGLIA: Astuto!

REGANA: E' falso!

CORNOVAGLIA: Dove hai mandato il re?

GLOUCESTER: A Dover.

REGANA: Perché a Dover? Non ti era stato ordinato sotto pena di...

CORNOVAGLIA: Perché a Dover? Lasciate che risponda a questo.

GLOUCESTER: Sono legato al palo: ormai debbo sostener l'assalto.

REGANA: Perché a Dover?

GLOUCESTER: Perché non volevo vedere le tue unghie crudeli strappar via quei suoi poveri occhi di vecchio; né la tua feroce sorella cacciare nella sua carne consacrata le sue zanne di cinghiale. Con una tempesta come quella che il suo nudo capo ha sopportato, in una notte buia come l'inferno, il mare si sarebbe sollevato e avrebbe spento i fuochi stellati, eppure, povero vecchio cuore, egli con le sue lacrime aiutava il cielo a piovere. Se in quel tempo tremendo i lupi avessero ululato alla tua porta, tu avresti detto: "O buon portiere, gira la chiave, e apri". Ogni altro essere crudele sarebbe stato ammesso: ma io vedrò la vendetta alata piombare addosso a figli come questi!

CORNOVAGLIA: Vederlo? mai!... Voialtri tenete ferma la sedia... Sopra cotesti tuoi occhi io ci voglio mettere il mio piede!

GLOUCESTER: Chi spera di viver tanto da diventar vecchio, mi dia un po' d'aiuto! O crudele! O dèi!

REGANA: Ora una parte del viso schernirà l'altra: via anche l'altr'occhio!

CORNOVAGLIA: Se vedete la vendetta...

PRIMO SERVITORE: Fermate quella mano, signore. Io vi servo fin da quando ero bambino, ma non vi ho reso mai un servigio migliore di quello che vi rendo ora, esortandovi a trattenervi.

REGANA: Che vuoi tu? Cane!

PRIMO SERVITORE: Se voi aveste la barba al mento, io gli darei una buona strappata in una disputa come questa. Che cosa pretendete di fare?

CORNOVAGLIA: Mio gaglioffo!

 

(Tira fuori la spada e si slancia verso di lui)

 

PRIMO SERVITORE: Su via venite avanti, e correte il rischio della collera.

 

(Sguaina la spada e combattono. Il Duca di Cornovaglia è ferito)

 

REGANA (strappando la spada a un altro Servo): Dammi la tua spada. Un villanzone tener testa così!

 
(Lo colpisce alle spalle)

 

PRIMO SERVITORE: Oh! sono ucciso! Signor mio, vi resta ancora un occhio, per veder cadere su lui la sciagura... Oh! (Muore)

CORNOVAGLIA: S'impedisca che veda altro. Via, vile gelatina! Dov'è ora la tua luce?

GLOUCESTER: Tutto è tenebra e desolazione. Dov'è mio figlio Edmondo?

Edmondo accendi tutte le faville dell'affetto che è in natura, per far giustizia di questo atto infame.

REGANA: Via, traditore scellerato! Tu invochi uno che ti odia: fu proprio lui che ci fece la rivelazione dei tuoi tradimenti, lui, che è troppo onesto per avere pietà di te.

GLOUCESTER: Oh! la mia follia! Dunque Edgardo fu calunniato... O dèi pietosi, perdonatemi questo, e proteggete lui!

REGANA: Via, gettatelo fuori delle porte e lasciate che trovi col fiuto la strada di Dover. Come va, mio signore? Quale aspetto!

CORNOVAGLIA: Ho ricevuto una stoccata. Seguitemi, signora. Cacciate fuori quello scellerato senz'occhi, e gettate questo manigoldo al letamaio. Regana, io perdo il sangue a fiotti, questa ferita mi capita in un brutto momento: datemi il vostro braccio.

 

(Esce, condotto da Regana: i Servi sciolgono Gloucester, e lo conducono fuori)

 

SECONDO SERVITORE: Se quell'uomo va a finir bene, io non bado più a commettere qualunque malvagità.

TERZO SERVITORE: Se costei vive a lungo, e finisce di morte naturale, tutte le donne diventeranno mostri.

SECONDO SERVITORE: Accompagniamo il vecchio conte, e cerchiamo l'uomo di Bedlam, che lo conduca dov'egli vorrà andare: il suo estro di vagabondo si adatta a far di tutto.

TERZO SERVITORE: Va' tu; io anderò a prendere un po' di filacce e chiaro d'uovo, per metterle sulla sua faccia sanguinante. E che il cielo lo assista!

(Escono separatamente)

 

 

 

ATTO QUARTO

 

SCENA PRIMA - La landa

(Entra EDGARDO)

 

EDGARDO: D'altronde meglio così, e sapere di essere disprezzato, che vedersi disprezzato e adulato ad un tempo. Chi si trova ridotto al peggio, ad esser la cosa più meschina e più avvilita dalla fortuna, sta sempre nella speranza, e non vive nella paura. Il cambiamento doloroso è quello che muove dal meglio: il peggio va a ritroso verso il sorriso. Sii, dunque, la benvenuta, o tu, aria impalpabile che io abbraccio: lo sventurato, che col tuo soffio hai gettato nel peggio, non deve nulla alle tue raffiche. Ma chi viene?...

 

(Entra GLOUCESTER, condotto da un Vecchio)

 

Mio padre, poveramente condotto! O mondo, mondo, mondo! Se non fosse per i tuoi strani cambiamenti, i quali fanno sì che noi t'odiamo, la vita non si rassegnerebbe alla vecchiaia.

VECCHIO: Mio buon signore, io sono stato un fittavolo vostro, e di vostro padre, da ottant'anni a questa parte.

GLOUCESTER: Va', vattene via; mio buon amico, lasciami: i tuoi conforti a me non possono arrecare assolutamente alcun bene: a te possono far del male.

VECCHIO: Voi non potete vedere la strada vostra.

GLOUCESTER: Io non ho strada, e quindi non ho bisogno di occhi; quando ci vedevo, ho inciampato. Noi lo vediamo molto spesso: i mezzi di cui disponiamo, ci fanno troppo sicuri, e le nostre mere imperfezioni riescono a vantaggio nostro. Ah, Edgardo, mio caro figliuolo, vittima dell'ira del padre tuo ingannato! S'io potessi viver soltanto per arrivare a rivederti col tocco della mia mano, io direi di aver riacquistato gli occhi!

VECCHIO: Ehi, chi c'è?

EDGARDO (a parte): O dèi! Chi può dire: "io sono al peggio"? Ora, io sto peggio di quanto sia stato mai!

VECCHIO: E' Tom, il povero matto.

EDGARDO (a parte): E peggio potrà capitarmi ancora: non è venuto il peggio, finché possiamo dire: "questo è il peggio".

VECCHIO: Buon diavolo, dove vai?

GLOUCESTER: E' un povero?

VECCHIO: E' un matto, e per giunta anche povero.

GLOUCESTER: Un po' di ragione gli rimane ancora, se no non potrebbe chiedere l'elemosina. Durante l'uragano della notte scorsa ho visto uno di questi sventurati, il quale mi fece pensare che l'uomo non fosse altro che un verme: allora mi venne in mente il figlio mio; eppure in quel momento, il mio pensiero gli era poco amico: ma da allora ho sentito ben altro. Noi siamo per gli dèi quel che le mosche sono per i monelli: essi ci uccidono per loro divertimento.

EDGARDO (a parte): Sarebbe egli possibile? triste ufficio, questo di dover fare il matto davanti al dolore, irritando se stesso e gli altri. (A Gloucester) Sii benedetto, padrone.

GLOUCESTER: E' costui quel poveraccio ignudo?

VECCHIO: Sì, signor mio.

GLOUCESTER: Allora, ti prego, va' pure. Se per amor mio vorrai raggiungerci a un miglio o due di qui, sulla via di Dover, fallo per l'antica devozione, e porta da coprirsi a quest'anima ignuda, che io pregherò di condurmi.

VECCHIO: Ahimè, signore, egli è matto.

GLOUCESTER: Sciagurati quei tempi, in cui i matti guidano i ciechi!

Fa' come ti dico, o, piuttosto, fa il tuo piacere; soprattutto, va'.

VECCHIO: Io gli porterò il miglior vestito che ho, accada quello che vuole. (Esce)

GLOUCESTER: Ehi! povero ignudo!

EDGARDO: Il povero Tom ha freddo. (A parte) Io non posso mentire più a lungo.

GLOUCESTER: Vieni qua, amico.

EDGARDO: (a parte): Eppur lo debbo. Benedetti cotesti tuoi cari occhi, essi stillano luce. GLOUCESTER: Sai la via che conduce a Dover?

EDGARDO: Barriera e cancello, sentiero per cavalli, e passaggio per i pedoni, io conosco tutto. Il povero Tom è stato fatto uscir di senno per lo spavento: Dio ti salvi dal sozzo diavolo, o figlio di un uomo dabbene! Cinque diavoli sono entrati, tutti in una volta, dentro il povero Tom: Obidicut, quello della lussuria; Hobbidance, principe dei muti, Mahu, principe del furto; Modo, principe dell'assassinio; e Flibbertigibbet, principe delle smorfie e dei lezzi, il quale da tempi remoti invasa donne di servizio e cameriere. Dunque, sii benedetto, padrone!

GLOUCESTER: Tieni, prendi questa borsa, o tu che le sciagure del cielo hanno umiliato a tutti i loro colpi; l'essere io uno sventurato, rende più felice te: cieli, oprate sempre così! Fate che l'uomo cresciuto nel superfluo e in mezzo ai piaceri, il quale fa suo schiavo il vostro alto ordinamento, e non vuol vedere perché non sente, provi sul vivo il vostro potere; in questo modo dovrebbe, un'equa distribuzione, distruggere l'eccesso, e ogni uomo avere abbastanza. Conosci Dover?

EDGARDO: Sì, padrone.

GLOUCESTER: Là c'è una ripa, la cui testa alta e sporgente guata paurosamente sul circoscritto abisso giù nel mare profondo che essa recinge: tu non hai che a condurmi proprio sull'orlo di essa, ed io rimedierò alla miseria che soffri, con un oggetto di valore che ho con me: giunto a quel luogo, non avrò più bisogno di chi mi conduca.

EDGARDO: Dammi il braccio: il povero Tom ti condurrà.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Davanti al Palazzo del Duca d'Albania

(Entrano GONERILLA e EDMONDO)

 

GONERILLA: Vi do il benvenuto, mio signore: mi meraviglio che il nostro mite marito non ci sia venuto incontro sulla strada.

 

(Entra Osvaldo)

 

Ebbene, dov'è il vostro padrone?

OSVALDO: In casa, signora: ma un uomo non fece mai un simile cambiamento. Gli dissi dell'esercito che era sbarcato: ne sorrise; gli annunziai il vostro arrivo: la risposta fu: "tanto peggio"; e quando lo informai del tradimento di Gloucester, e del leale servigio di suo figlio, mi chiamò stolto, e mi disse che io capivo le cose alla rovescia. Ciò che dovrebbe dispiacergli di più, pare che gli riesca gradito; quello che dovrebbe dargli piacere, par che gli sia odioso.

GONERILLA: (a Edmondo) Allora non andate più oltre. Il vile terrore che ha nell'animo non osa avventurarsi in imprese: egli non vuol sapere di oltraggi che l'obblighino a chiedere una riparazione. I voti che ci confidammo lungo la strada, potranno aver compimento. Edmondo, tornate presso mio fratello: affrettate l'adunata delle sue truppe e mettetevi a capo delle sue forze: in questa casa è necessario che io cambi arme e metta la conocchia in mano a mio marito. Questo servo fedele sarà il nostro intermediario: prima che molto tempo sia trascorso, se voi osate arrischiarvi per il vostro bene, sentirete che ordine vi darà una donna la quale vi ama. Mettetevi questo; e non parlate. (Gli dà un pegno d'amore) Chinate la testa: questo bacio, se osasse parlare, farebbe arrivare l'anima tua fino al cielo.

Comprendimi, e addio.

EDMONDO: Vostro, anche nelle file della morte.

GONERILLA: Mio carissimo Gloucester! (Esce Edmondo) Oh, che differenza fra uomo e uomo! I favori che una donna concede, a te son dovuti:

quello stolto usurpa il corpo mio.

OSVALDO: Signora, ecco il mio padrone!

 

(Entra il DUCA D'ALBANIA)
 

GONERILLA: Una volta valevo una pispola per voi.

ALBANIA: O Gonerilla! voi non valete la polvere che il vento sgarbato vi soffia in faccia. Il vostro carattere mi fa paura: un essere il quale disprezza la propria origine, non può trovare un argine in se stesso. Quel ramo che da sé vuole staccarsi e separarsi dal tronco d'onde gli viene il succo vitale, deve appassire per forza, e servire a uso letale.

GONERILLA: Basta; il vostro sermone è sciocco.

ALBANIA: La saggezza e la bontà ai vili sembrano cose vili; la sozzura non gusta che se stessa. Che avete fatto? Tigri, non figliuole, che mai avete potuto compiere? Un padre, un vecchio pieno di bontà che l'osso arrovellato avrebbe leccato con reverenza, voi, le più barbare, le più snaturate creature del mondo, lo avete reso pazzo! E il mio buon fratello ve lo poté permettere? Un uomo, un principe, da lui così beneficato! Se il cielo non manda prontamente i suoi visibili spiriti a mettere un freno a queste orrende colpe, andrà a finire, per forza che gli uomini si divoreranno tra loro, come fanno i mostri in fondo al mare.

GONERILLA: Uomo dal fegato di latte! che hai un viso per gli schiaffi, e una testa per gli oltraggi; che sotto i cigli non hai un occhio capace di discernere il tuo onore dalla tua sofferenza delle ingiurie, che non sai che soltanto gli stolti hanno pietà degli scellerati, che vengon puniti prima di aver fatto il male. Dov'è il tuo tamburo? Il re di Francia spiega le sue bandiere nella nostra pacifica terra, il tuo uccisore con l'elmo piumato già minaccia, e tu, sciocco moraleggiante, te ne stai neghittoso e gridi: "Ahimè! perché mai fa questo?".

ALBANIA: Guardati in faccia, demonio! La bruttezza che è propria del diavolo non appare così orrenda in lui come in una donna!

GONERILLA: Oh, vano sciocco!

ALBANIA: O essere che hai falsato e nascosto la tua natura, vergognati di cambiare le tue sembianze in quelle di un mostro! Se la convenienza mi permettesse di lasciare che queste mani obbedissero all'impulso del mio sangue, esse sarebbero abbastanza buone a slogarti le ossa e fare a pezzi la tua carne: sebbene tu sia un demonio, a te fa scudo una sembianza di donna.

GONERILLA: Alla buon'ora! che razza di uomo siete! ...puh!

 

(Entra un Messo)

 

ALBANIA: Che notizie?

MESSO: Oh! mio buon signore, il duca di Cornovaglia è morto; è stato ucciso da un suo servo, mentre si accingeva a strappare l'altr'occhio a Gloucester.

ALBANIA: Gli occhi a Gloucester!

MESSO: Un servo, che egli stesso si era allevato, preso da un brivido di pietà, si oppose ad un simile atto, rivolgendo la spada verso il suo potente padrone, il quale furibondo si scagliò su di lui, e lo fece cadere morto in mezzo agli astanti, ma non senza aver prima ricevuto quel colpo terribile, che in seguito se l'è portato via!

ALBANIA: Ciò mostra che voi esistete, lassù, o giudici supremi i quali potete vendicare così prontamente i nostri delitti quaggiù! Ma il povero Gloucester! ahimè, ha egli perso anche l'altr'occhio?

MESSO: Tutti e due, tutti e due, mio signore! Questa lettera, signora, esige una pronta risposta: è di vostra sorella.

GONERILLA: (a parte) Da una parte ciò mi fa molto piacere, ma il fatto che essa è vedova, e il mio Gloucester con lei, può far rovinare, sulla mia vita detestabile, tutto il castello della mia fantasia: d'altra parte però, la notizia non è tanto agra. Leggerò e risponderò.

 

(Esce)

 

ALBANIA: Dov'era suo figlio, quando gli strappavano gli occhi?

MESSO: Era venuto qui con la mia signora.

ALBANIA: Ma qui non c'è.

MESSO: No, mio buon signore; l'ho incontrato che ritornava.

ALBANIA: Lo sa di questa infamia?

MESSO: Sì, mio buon signore; fu lui che lo denunziò, e lasciò apposta il palazzo, affinché il castigo loro avesse il più libero corso.

ALBANIA: Gloucester, io vivo per ringraziarti dell'affetto che hai dimostrato al re, e per vendicare i tuoi occhi. Vien qua, amico: dimmi tutto quello che sai ancora.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Il campo francese vicino a Dover

(Entrano KENT e un Gentiluomo)

 

KENT: Perché il re di Francia è ripartito così improvvisamente? ne sapete la ragione?

GENTILUOMO: Una faccenda di Stato che egli aveva lasciata pendente, e che dopo la sua partenza lo preoccupava: essa costituisce per il regno una tale inquietudine e un pericolo così grave, che il ritorno in persona del re era assolutamente richiesto e indispensabile.

KENT: Chi ha lasciato al suo posto come generale?

GENTILUOMO: Il maresciallo di Francia, monsieur La Far.

KENT:. Le vostre lettere han commosso la regina, fino a farle dimostrare, in qualche modo, il proprio dolore?

GENTILUOMO: Sì, signore; le ha prese, le ha lette in mia presenza; ed ogni tanto una grossa lacrima le gocciolava giù per la guancia delicata. Essa sembrava dominare come una regina il proprio dolore: ma questo, da vero ribelle, cercava di farsi re di lei.

KENT: Ah! dunque la cosa l'ha commossa?

GENTILUOMO: Ma non fino all'ira: la rassegnazione e il dolore facevano a gara a chi esprimeva meglio tutta la sua bontà. Voi avete visto risplendere il sole, e piovere nello stesso momento: ebbene, i suoi sorrisi e le sue lacrime erano uno spettacolo somigliante, ma più vago. Quei dolci sorrisetti che le scherzavano sul vermiglio labbro sembrava ignorassero che ospiti c'erano negli occhi di lei; i quali ospiti si partivano di là, come perle staccate da due diamanti.

Insomma, il dolore sarebbe una cosa peregrina e adorabile, se in tutti potesse essere così bello.

KENT: Non vi ha fatto nessuna domanda?

GENTILUOMO: In verità, una o due volte ha pronunziato il nome "padre" con un palpito nella voce, come se le opprimesse il cuore; ha gridato "Sorelle! sorelle! o mie sorelle, obbrobrio delle donne! Kent! padre!

sorelle! Come? in mezzo all'uragano? di notte? Oh, non si creda più alla pietà!". A questo punto essa lasciò cader giù l'acqua santa dai suoi occhi di cielo, e così stemperò le sue grida di dolore: poi scappò via, per intrattenersi sola con la sua angoscia.

KENT: Son le stelle, le stelle al di sopra di noi, che governano le nostre inclinazioni: altrimenti il medesimo connubio non potrebbe dare origine a prole così diversa. Non le avete più parlato da allora?

GENTILUOMO: No.

KENT: Questo avveniva prima che il re ritornasse?

GENTILUOMO: No, dopo.

KENT: Ebbene, signore; il povero e sventurato Lear è nella città, e qualche volta, nei suoi momenti migliori, egli si ricorda perché siamo venuti qui; ma non vuol saperne a nessun costo di vedere la sua figliuola.

GENTILUOMO: Perché, mio buon signore?

KENT: Una suprema vergogna lo tira indietro così. La durezza ond'egli la privò della sua benedizione, l'abbandonò alla ventura presso lo straniero, dette via alle altre sue figliuole, dal cuore di cane, i sacrosanti diritti di lei: tutte queste cose pungono il suo pensiero con sì acerbo rimorso, che una vergogna scottante lo trattiene lontano da Cordelia.

GENTILUOMO: Ahimè, pover'uomo!

KENT: Degli eserciti dei duchi di Albania e di Cornovaglia ne avete sentito parlare?

GENTILUOMO: E' proprio vero: sono in armi.

KENT: Sta bene, signore, vi condurrò da Lear, nostro padrone, e vi lascerò presso di lui, perché gli prestiate i vostri servigi, Una ragione preziosa mi costringe ad avvolgermi, ancora per poco, nel manto del travestimento: quando sarò conosciuto quale io sono, non vi dorrete di esservi dimostrato mio amico. Vi prego, venite con me.

 

(Escono)

 

 

 

 

SCENA QUARTA - Lo stesso luogo. Un accampamento

(Entrano, con tamburi e bandiere, CORDELIA, un Dottore, e alcuni Soldati)

 

CORDELIA: Ahimè! è lui: sì, l'hanno incontrato poc'anzi, pazzo come il mare in tempesta: egli cantava a gran voce, incoronato d'acre fumaria e di erbacce di solco, di lappole, di cicuta, di ortiche, di billéri, di loglio e di tutte le inutili erbe che crescono in mezzo ai grano che ci sostenta. Si faccia uscir fuori una centuria; si frughi ogni palmo di terra, nella campagna dove sono alte le messi, ed egli sia condotto dinanzi agli occhi nostri. (Esce un Ufficiale) Che cosa può fare la scienza umana per rendergli il senno che ha perduto? Chi lo guarisce, si prenda tutti i beni che io possiedo.

DOTTORE: Signora, v'ha un mezzo: la nostra natural nutrice è la calma del sonno, del quale egli manca; per conciliarlo a lui, vi sono molte erbe efficacissime, la cui virtù fa chiuder gli occhi all'angoscia.

CORDELIA: O voi tutti, segreti benedetti, voi tutte, arcane virtù della terra, germogliate sotto le mie lacrime! Portate aiuto e rimedio all'affanno di quell'uomo buono! Cercatelo, cercatelo, per tema che la sua furia irrefrenabile abbia a distrugger la sua vita, alla quale manca la ragione che la guidi.

 

(Entra un Messo)

 

MESSO: Notizie, signora: le truppe britanne marciano a questa volta.

CORDELIA: Si sapeva già; i nostri preparativi stanno in attesa del loro arrivo. O caro padre mio, ciò che a me sta a cuore, è la tua causa; e per questo il nobile re di Francia ha avuto pietà del mio dolore e delle mie lacrime insistenti. Non tronfia ambizione muove le nostre armi, ma l'amore, un tenero amore, e i diritti del nostro vecchio padre: oh, ch'io possa sentir presto la sua voce e rivederlo!

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUINTA - Una stanza del castello di Gloucester

(Entrano REGANA e OSVALDO)

 

REGANA: Ma le truppe di mio fratello sono scese in campo?

OSVALDO: Sì, signora.

REGANA: E lui v'è in persona?

OSVALDO: Sì, signora, ma molto a malincuore: vostra sorella è, dei due il soldato migliore

REGANA: Monsignor Edmondo non ha parlato col vostro padrone, al castello?

OSVALDO: No, signora.

REGANA: Che può contenere la lettera di mia sorella a lui?

OSVALDO: Non lo so, signora.

REGANA: Certamente, egli è partito di qui per qualche grave faccenda.

Fu un grande errore lasciar vivere Gloucester, dopo avergli cavato gli occhi: dovunque va, egli solleva il cuore di tutti contro di noi.

Edmondo, io credo mosso a pietà della sua misera sorte, è andato a sbarazzarlo di una vita su cui è scesa la notte; e al tempo stesso a spiare la forza del nemico.

OSVALDO: Io debbo assolutamente affrettarmi a raggiungerlo con la mia lettera, signora.

REGANA: Le nostre truppe scendono in campo domani: rimanete con noi; le strade sono pericolose.

OSVALDO: Non posso, signora; la mia padrona ha impegnato il mio zelo in questo affare.

REGANA: Che ragione aveva di scrivergli, a Edmondo? Voi non potevate riferirgli a voce i suoi disegni? Suppongo che si tratti di una cosa... non so precisamente... Io ti vorrò molto bene: lasciami dissuggellare questa lettera.

OSVALDO: Signora, preferirei piuttosto...

REGANA: Io so che la vostra padrona non ama suo marito; ne sono sicura: e l'ultima volta che fu qui, essa dava al nobile Edmondo delle occhiate strane, e degli sguardi che parlavano molto chiaro. Lo so, voi siete il suo confidente.

OSVALDO: Io, signora?

REGANA: So quel che mi dico; voi siete il suo confidente, lo so.

Perciò, ve ne avverto, ricordatevi bene di questo: mio marito è morto; io ed Edmondo ci siamo intesi; egli conviene più alla mia mano che a quella della vostra signora . Voi, quindi. potete trarne la conclusione. Se lo trovate, vi prego dategli questo; e quando la vostra padrona sentirà da voi tutto ciò, di grazia, esortatela a fare appello alla sua saggezza. Dunque, addio. Se per caso sentite parlare di quel traditore senz'occhi, ricordatevi che avrà una bella promozione chi lo leverà di mezzo.

OSVALDO: Così potessi incontrarlo, signora: vi farei vedere io, da quale parte tengo!

REGANA: State bene!

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SESTA - La campagna vicino a Dover)

(Entrano GLOUCESTER e EDGARDO travestito da contadino)

 

GLOUCESTER: Quando arriverò sulla cima di quel monte?

EDGARDO: Cominciate a salirla proprio ora: osservate come fatichiamo!

GLOUCESTER: A me pare che il terreno sia piano.

EDGARDO: L'erta è terribile! Ascoltate, lo sentite il mare?

GLOUCESTER: No, davvero.

EDGARDO: Ebbene, allora si vede che gli altri sensi vi si indeboliscono per lo spasimo degli occhi.

GLOUCESTER: Può essere davvero. Mi pare che la tua voce sia cambiata; e che tu parli esprimendoti meglio, e con più costrutto, di quel che facevi prima.

EDGARDO: Vi ingannate molto: nulla è cambiato in me, se non i miei panni.

GLOUCESTER: A me pare che voi parliate meglio.

EDGARDO: Avanti, signore; eccoci arrivati al luogo: non vi movete.

Come fa paura, e come gira la testa, a ficcare gli occhi così in fondo! I corvi e le gracchie, che batton con l'ala lo spazio frapposto, sembrano appena grossi come scarafaggi: giù a mezza costa c'è uno sospeso che raccoglie il finocchio marino: mestiere spaventevole! a me egli non pare più grande della sua testa. I pescatori che van lungo la spiaggia sembrano topi e quel grosso bastimento laggiù, sull'àncora, appare ridotto alle dimensioni della sua lancia; e la sua lancia a quelle di un gavitello così piccolo, che sfugge quasi alla vista. Il fiotto che mormora, e struscia sulle innumeri pietruzze inerti, non può essere udito a quest'altezza. Non voglio guardar più, per paura che il mio cervello sia preso dalla vertigine, e la vista, smarrita, precipiti giù a capofitto

GLOUCESTER: Mettimi lì dove sei tu.

EDGARDO: Datemi la mano; ora siete ad un passo dall'estremo orlo del precipizio: per tutto quello che c'è sotto la luna, io non farei un salto sui piedi.

GLOUCESTER: Lasciami andare la mano. Amico, eccoti un'altra borsa; dentro c'e un anello, che mette conto a un povero di prenderlo: le fate e gli dèi te lo rendano propizio! Allontanati; dimmi addio, e fa' ch'io ti senta andar via.

EDGARDO: Allora addio, buon signore.

GLOUCESTER: Con tutto il cuore.

EDGARDO (a parte): Se io scherzo in questo modo con la sua disperazione, lo faccio per guarirlo.

GLOUCESTER (inginocchiandosi): O dèi possenti, io rinuncio a questo mondo, e sotto gli occhi vostri mi scuoto di dosso, rassegnato, la mia grande sventura; se potessi sopportarla più a lungo, senza bisticciarmi con la vostra incontrastabile volontà, il lucignolo di questo aborrito avanzo della mia esistenza brucerebbe fino in fondo.

Se Edgardo vive, oh, beneditelo! Ora, amico, sta' bene.

EDGARDO: Me ne vado, messere: addio. (Gloucester si getta in avanti e cade) (A parte). Eppure io non so quanto l'immaginazione possa rubare il tesoro della vita, quando la vita stessa si abbandona al furto. Se egli fosse stato dove pensava di essere, a quest'ora il suo pensiero non esisterebbe più. Vivo o morto?... Olà, messere! amico!... Udite voi, messere?.. parlate!... Che sia potuto morir davvero così?... no, egli ritorna in sé. Chi siete messere?

GLOUCESTER: Vattene, e lasciami morire.

EDGARDO: Se tu fossi stato altro che un pappo, una penna o un soffio d'aria, precipitando da un'altezza di tante braccia ti saresti sfracellato come un uovo: ma invece tu respiri; tu hai sostanza che pesa, eppure non sanguini; parli; sei sano e salvo. Dieci alberi di nave, messi l'uno su l'altro, non fanno l'altezza dalla quale tu sei caduto perpendicolarmente: la tua vita è un miracolo. Via, parla ancora.

GLOUCESTER: Ma io sono caduto, o no?

EDGARDO: Dalla sommità spaventosa di questo confine cretoso. Guarda su in alto; l'allodola dalla gola acuta, da questa distanza non può essere né vista né sentita: guarda, solo per un momento, in su.

GLOUCESTER: Ahimè! io non ho più occhi. Alla sventura è dunque tolto il beneficio di metter fine a se stessa con la morte? C'era ancora un conforto, allorché il dolore poteva ingannale la rabbia del tiranno, e render vano il suo orgoglioso volere.

EDGARDO: Datemi il braccio: su... così... Come va? Ve le sentite le gambe? Vedo che vi reggete.

GLOUCESTER: Troppo bene, troppo bene.

EDGARDO: Ciò è al di sopra di ogni inverosimiglianza. Che cos'era quell'essere che si separò da voi sulla cima della rupe?

GLOUCESTER: Un povero disgraziato mendicante.

EDGARDO: Mentre stavo quaggiù a me parve che gli occhi suoi fossero due lune piene; aveva un migliaio di nasi, delle corna bernoccolute, e ondulate come il mare quando è pieno di solchi: era qualche demonio; perciò, o tu padre avventurato, pensa che gli dèi più puri, i quali si fanno una gloria delle impossibilità umane, ti hanno salvato.

GLOUCESTER: Ora ricordo bene: d'oggi innanzi sopporterò la mia afflizione, finché essa stessa mi gridi: "basta, basta" e muoia.

Quell'essere di cui tu parli, io lo presi per un uomo, spesso ripeteva: "il demonio, il demonio". Mi ha condotto lui lassù.

EDGARDO: Nutri pensieri sereni e rassegnati. Ma chi viene?

 

(Entra LEAR, fantasticamente adorno di fiori selvatici)

 

Una mente sana non acconcerà mai così il suo padrone.

LEAR: No, non mi possono toccare per aver battuto moneta: io sono il re in persona.

EDGARDO: O vista che trafiggi il cuore!

LEAR: La natura in questo rispetto è al di sopra dell'arte... Eccovi il soldo del vostro arruolamento... Quel ragazzo impugna l'arco come uno spaventapasseri: tirami una freccia della lunghezza di un metro di drappiere... Guarda, guarda, un topo. Zitto, zitto! questo pezzetto di formaggio abbrustolito è quello che ci vuole... Ecco il mio guanto di ferro, voglio provarlo sopra un gigante... Fate avanzare le alabarde brunite... Oh! ben volato, uccello!... nel centro! nel centro!...

Za!... Dammi la parola d'ordine.

EDGARDO: Dolce maggiorana.

LEAR: Passa.

GLOUCESTER: Conosco quella voce.

LEAR: Ah! Gonerilla!... con la barba bianca! Mi accarezzavano come un cane, e mi dicevano che avevo dei peli bianchi nella barba, prima che ci fossero quelli neri. Dire "sì", e "no" a tutto quello che dicevo io!. Questo "sì" e "no" non era, anch'esso, buona teologia. Quando la pioggia, un bel giorno, venne ad innaffiarmi e il vento a farmi battere i denti; quando il tuono non volle stare zitto al mio comando, allora ho conosciuto chi fossero, allora ho fiutato chi erano. Via, non sono gente di parola: mi dicevano che io ero tutto; è una menzogna, io non reggo ad un attacco di febbre.

GLOUCESTER: Il timbro di quella voce io lo ricordo bene: non è il re?

LEAR: Sì, un re in ogni palmo. Quando gli fisso gli occhi in faccia, guarda come il suddito trema A quell'uomo io gli faccio grazia della vita... quale fu la tua colpa?... L'adulterio?... Tu non morrai:

morire per un adulterio! No: fin lo scricciolo lo commette e il moscerino dorato si abbandona alla lussuria sotto gli occhi miei. Si lasci fiorire in pace l'accoppiamento dei sessi: poiché il figlio bastardo di Gloucester fu più amoroso verso suo padre, di quel che non siano state con me le mie figliuole, generate fra legittime coltri.

Buttateci, lussuria, alla rinfusa! poiché io ho bisogno di soldati...

Guardate quella signora là, che sorride scioccamente, che ha una faccia, la quale vi farebbe credere, che fra le sue gambe ci stesse di casa la neve; che fa la santerellina, scuote il capo scandalizzata a sentir pronunziare il nome del piacere: ebbene, la puzzola e il cavallo pasciuto d'erba fresca non ci si buttano con un appetito più sfrenato. Dalla vita in giù esse sono dei centauri, sebbene nella parte superiore siano donne; solo fino alla cintola appartengono agli dèi, la parte di sotto è tutta del demonio: lì c'è l'inferno, lì ci sono le tenebre, lì c'è l'abisso sulfureo, che brucia, che scotta, c'è il fetore, la consunzione... via, via, via! puah! puah! Dammi un'oncia di zibetto, per profumare la mia immaginazione, o buon farmacista!

ecco qua del denaro per te.

GLOUCESTER: Oh! lasciate che io baci quella mano!

LEAR: Prima lasciatemela asciugare: essa puzza di mortalità!

GLOUCESTER: O capolavoro della natura, mandato in rovina! Questo gran mondo stesso finirà così nel nulla... Mi riconosci tu?

LEAR: Ricordo abbastanza bene gli occhi tuoi. Mi guardi in tralice?

No, fa' pure del tuo peggio, o cieco Cupido, io non voglio amar più...

Leggi questa sfida; osserva soltanto come è scritta.

GLOUCESTER: Se le tue lettere fossero tutte dei soli, io non potrei arrivare a vederne una.

EDGARDO: (a parte): Se uno me lo raccontasse, io non ci crederei; eppure è vero, e il mio cuore a tanto si spezza.

LEAR: Leggi.

GLOUCESTER: Come! con le occhiaie vuote?

LEAR: Oh! oh! proprio questo mi volete dire? Senz'occhi nella testa, e senza denari nella borsa? Il vuoto degli occhi è grave, quello della borsa è leggero: eppure, voi vedete lo stesso come va questo mondo.

GLOUCESTER: Lo vedo col sentimento.

LEAR: Come! sei pazzo? Un uomo può vedere anche senza gli occhi come va il mondo. Guarda con gli orecchi: vedi come quel giudice là maltratta quel ladroncello. Ascolta in un orecchio: cambia i loro posti e, ruota, ruota, quale è il giudice, e quale è il ladro?... Hai mai visto il cane di un fattore abbaiare dietro a un povero?

GLOUCESTER: Sì, signore.

LEAR: E il pover uomo scappare davanti al cagnaccio? Allora hai potuto osservare la grande immagine dell'autorità: un cane che è obbedito quand'è nelle sue funzioni... Birbante d'un aguzzino ferma la tua mano sanguinosa! Perché frusti quella puttana? Denuda le tue proprie spalle: tu ardi dalla brama di usare con lei in quel modo, per il quale, appunto, tu la frusti. L'usuraio impicca il truffatore.

Attraverso le vesti stracciate si mostrano i vizi minori: i roboni e le pellicce li nascondono tutti. Ricopri il peccato con una lamina d'oro, e la forte lancia della giustizia si spezza innocua: armalo di stracci, la paglia di un pigmeo lo trafigge. Nessuno è colpevole, nessuno, dico, nessuno: resto garante io. Credi a me, amico mio, a me che ho il potere di suggellare le labbra dell'accusatore. Mettiti gli occhiali, e come un volgare politicastro, fingi di vedere ciò che non vedi... Via, via, via, via, levatemi le scarpe... più forte, più forte... così!

EDGARDO: (a parte): Oh! miscela di buon senso e di stravaganza! La ragione nella follia!

LEAR: Se vuoi piangere sulle mie sventure, prenditi gli occhi miei. Io ti riconosco assai bene, il tuo nome è Gloucester: bisogna che tu abbia pazienza. Noi siamo venuti quaggiù piangendo: lo sai bene, la prima volta che sentiamo l'odore dell'aria, mandiamo un vagito e ci mettiamo a piangere. Io ti farò una predica: fammi attenzione.

GLOUCESTER: Ahimè, ahimè, funesto giorno!

LEAR: Appena nati, noi piangiamo per esser venuti in questo grande teatro di pazzi... Questa è una bella forma di cappello!... Sarebbe un sottile stratagemma ferrare i piedi col feltro a uno squadrone di cavalleria: voglio far la prova; e quando sarò piombato addosso di soppiatto a questi miei generi, allora ammazza, ammazza, ammazza, ammazza, ammazza, ammazza!

 

(Entra un Gentiluomo con una scorta)

 

GENTILUOMO: Oh! eccolo qui: impadronitevi di lui. Signore, la vostra carissima figliuola...

LEAR: Nessuno mi soccorre? Come! prigioniero? Io sono proprio nato per essere lo zimbello della fortuna... Trattatemi bene; avrete il prezzo del riscatto. Fatemi avere dei cerusici: io sono colpito al cervello.

GENTILUOMO: Avrete ogni cosa.

LEAR: Non uno che mi assista? Tutto da me solo? Ecco... ciò trasformerebbe un uomo in un uomo di lacrime, e gli occhi suoi potrebbero servire da annaffiatoio per il giardino, e per smorzare la polvere d'autunno.

GENTILUOMO: Mio buon signore...

LEAR: Morirò coraggiosamente, con l'aria di uno sposo novello tutto agghindato. Come! Voglio esser d'umore allegro; via, via, io sono un re, signori miei, lo sapete?

GENTILUOMO: Voi siete un re, infatti, e noi vi obbediamo.

LEAR: Allora c'è sempre speranza. Ma se mai lo raggiungete, lo raggiungerete correndo. Su, su, su, su.

 

(Esce correndo; gli uomini di scorta lo inseguono)

 

GENTILUOMO: Vista pietosissima, nel più umile degli sventurati: al di sopra di ogni parola, in un re! Tu hai una figliuola, che redime la natura dalla maledizione generale, a cui l'avevano condotta le altre due.

EDGARDO: Salute cortese signore!

GENTILUOMO: Signore, il cielo vi aiuti! che cosa volete?

EDGARDO: Sentite dir nulla, di una battaglia imminente?

GENTILUOMO: E' certissimo, e a tutti noto; ne sente parlare chiunque è capace di percepire un suono.

EDGARDO: Ma, di grazia, a che distanza si trova l'altro esercito?

GENTILUOMO: Vicino, e s'avanza a gran passi; si crede che il grosso sarà in vista da un'ora all'altra.

EDGARDO: Vi ringrazio, signore: questo è quanto volevo sapere.

GENTILUOMO: Sebbene la regina sia qui per sue ragioni speciali, il suo esercito è in marcia.

EDGARDO: Vi ringrazio, signore.

 

(Esce il Gentiluomo)

 

GLOUCESTER: O dèi sempre benigni, toglietemi voi la vita; non lasciate che il mio cattivo genio abbia a indurmi un'altra volta nella tentazione di morire prima che piaccia a voi!

EDGARDO: Voi pregate bene, padre.

GLOUCESTER: Ma voi, mio buon signore, chi siete?

EDGARDO: Un uomo poverissimo, domato dai colpi della fortuna, uno il quale, per l'esperienza dei dolori conosciuti e sentiti, è pronto alla pietà umana. Datemi la mano, io vi condurrò in qualche asilo.

GLOUCESTER: Grazie di cuore: e la benevolenza e la benedizione del cielo per giunta e con usura!

 

(Entra OSVALDO)

 

OSVALDO: La taglia bandita! Quale fortuna! Cotesto tuo capo senz'occhi fu incarnato dapprima per accrescere le mie ricchezze. O vecchio e sciagurato traditore, ripensa in fretta ai tuoi peccati: la spada che ti deve distruggere è pronta.

GLOUCESTER: Su via, la tua amica mano metta, nel farlo, la forza necessaria.

 

(Edgardo s'interpone)

 

OSVALDO: Insolente d'un contadino, perché osi sostenere un uomo dichiarato pubblicamente traditore? Vattene, per paura che il contagio della sua sorte non si attacchi anche a te. Lascia andare il suo braccio.

EDGARDO: Io non lo lascio andare senza un'altra ragione meglio.

OSVALDO: Lascialo andare, marrano, o tu sei morto.

EDGARDO: Senta, signore, se ne vada per il suo cammino, e lasci andare in pace la povera gente. Se m'avesse dovuto mandare all'altro mondo un prepotente, la mia vita non sarebbe durata quindici giorni. Via, non s'accosti tanto al vecchio: stia a distanza, glie l'avverto, se no, si vedrà s'è più dura la sua zucca o il mio leccio. Le parlo chiaro, io.

OSVALDO: Va' via, mucchio di letame!

EDGARDO: Badi, le stuzzicherò i denti con questo stecchino. Si faccia avanti: non mi fanno mica paura le sue botte.

 

(Si battono, ed Edgardo lo accoppa)

 

OSVALDO: Marrano, mi hai ucciso... Ribaldo, prendi la mia borsa. Se un giorno vuoi star bene, seppellisci il mio corpo, e consegna le lettere che mi troverai indosso a Edmondo conte di Gloucester: cercalo nel campo inglese; o morte intempestiva! (Muore)

EDGARDO: Io ti conosco bene: tu sei un servizievole scellerato; compiacente coi vizi della tua padrona, quanto la malvagità avrebbe potuto desiderare.

GLOUCESTER: Che! è morto?

EDGARDO: Mettetevi a sedere, padre; riposatevi. Guardiamogli nelle tasche: può essere che le lettere delle quali egli parla mi siano amiche... E' morto: mi dispiace soltanto che egli non abbia avuto ben altro boia. Vediamo. Cedi, o compiacente cera dei suggelli; e tu, buona creanza, non rimproverarmi. Per conoscere il pensiero dei nostri nemici noi apriremmo loro il cuore: aprirne gli scritti è cosa ancor più lecita. (Legge) "Ricordatevi dei nostri voti reciproci. Voi avrete molte occasioni per levarlo di mezzo: se non vi manca la volontà, tempo e luogo favorevoli vi si offriranno in abbondanza. Nulla è fatto, s'egli ritorna vincitore: in questo caso io sono sua prigioniera, e il suo letto è la mia prigione. Liberatemi dall'aborrito tepore di quel letto, ed occupate voi il posto di lui, in ricompensa del vostro disturbo.

Vostra (vorrei poter dire moglie!) serva affezionata, Gonerilla".

O incommensurabile estensione d'una bramosia di donna! Un complotto contro la vita del suo virtuoso marito, e a sostituirlo, mio fratello!

Qui, sotto la sabbia, io ti seppellirò, empio messaggero di lascivi assassini; e, al momento opportuno, con questo foglio infame aprirò gli occhi al duca, del quale si trama la morte. Ben per lui, che io posso narrargli della tua morte e della tua missione!

GLOUCESTER: Il re è impazzito: come è tenace la mia sciagurata ragione, in virtù della quale io resisto, ed ho piena coscienza delle mie immani sventure! Meglio che io fossi pazzo: così i miei pensieri sarebbero separati dalle mie angosce; e le mie sventure, per effetto di un falso immaginare, perderebbero la coscienza di se stesse.

 
(Rullo di tamburi in distanza)

 

EDGARDO: Datemi la mano: mi pare di sentire, in distanza, il rullo del tamburo. Andiamo, padre, io vi affiderò ad un amico.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SETTIMA - Una tenda nel campo francese

(Entrano CORDELIA, KENT, un Dottore e un Gentiluomo)

 

CORDELIA: O mio buon Kent! come potrò io vivere tanto e far tanto, da ricompensare la tua bontà? La mia vita sarà troppo breve ed ogni sforzo non mi basterà.

KENT: Essere ringraziato, signora, è esser pagato ad usura. Tutte le mie informazioni vanno d'accordo con l'esatta verità: nulla ho aggiunto, nulla ho tolto, le cose stanno proprio così.

CORDELIA: Vestiti meglio: questi panni sono un ricordo di ore troppo tristi: te ne prego, mettili via.

KENT: Perdono, cara signora; l'essere riconosciuto in questo momento, farebbe fallire lo scopo che mi sono proposto: io vi domando, come un favore, che voi non mi riconosciate, finché il tempo ed io non lo crediamo opportuno.

CORDELIA: Allora sia così, mio buon signore. (Al Dottore) Come sta il re?

DOTTORE: Signora, dorme ancora.

CORDELIA: O dèi pietosi, chiudete voi la grande ferita che è stata aperta nella sua oltraggiata natura! Oh! ristabilite l'armonia e l'accordo dei sensi di questo padre ridotto un fanciullo.

DOTTORE: Ci consenta Vostra Maestà di svegliare il re: egli ha dormito a lungo.

CORDELIA: Lasciatevi guidare dalla vostra scienza, e seguite l'ispirazione della vostra volontà. E vestito come a lui si conviene?

 

(Entra LEAR su una sedia portata da Servi)

 

DOTTORE: Sì signora; in un momento di sonno profondo, gli abbiamo messo indosso degli abiti nuovi.

KENT: State pure vicina a lui, mia buona signora, quando lo svegliamo:

io non dubito della sua calma.

CORDELIA: Benissimo.

DOTTORE: Di grazia, avvicinatevi. Più forte, là quella musica!

CORDELIA: O mio caro babbo! La guarigione metta sulle mie labbra la medicina che ci vuole per te: e questo bacio ripari i danni violenti, che le mie due sorelle hanno fatto nella tua veneranda vecchiaia!

KENT: Affettuosa e cara principessa!

CORDELIA: Anche se tu non fossi stato il padre loro, queste ciocche bianche di capelli avrebbero dovuto suscitare la loro pietà. Era questa una testa che doveva esser lasciata a lottare contro i venti in guerra, e a sfidare il cupo tuono dalla folgore tremenda? che doveva restare sotto il terribile e agile guizzo del lampo, serpeggiante rapido pel cielo, e vigilare povera sentinella perduta! - coperta soltanto con questo sottile elmo?. Il cane del mio nemico, se anche mi avesse morso, avrebbe dovuto passare una notte come quella accanto al fuoco. E tu, povero babbo, fosti costretto a metterti al riparo insieme con dei maiali e dei vagabondi senza tetto, su poca ed ammuffita paglia! Ahimè, ahimè! E' un miracolo che la tua vita e la tua ragione non abbiano cessato di esistere, interamente, nel medesimo tempo. Si sveglia; parlategli.

DOTTORE: Signora, parlategli voi; è molto meglio.

CORDELIA: Come sta il mio regale signore? Come si sente Vostra Maestà?

LEAR: Fate male a trarmi fuori dalla tomba... Tu sei un'anima nella beatitudine; ma io sono legato sopra una ruota di fuoco, sicché le mie lacrime stesse scottano come gocciole di piombo fuso.

CORDELIA: Signore, mi riconoscete?

LEAR: Voi siete uno spirito, lo so. Quando siete morta?

CORDELIA: Ancora, ancora, tanto divaga!

DOTT: E' appena sveglio: lasciatelo tranquillo per un momento.

LEAR: Dove sono stato? Dove sono?... La bella luce del giorno?... Io sono vittima di un grande inganno... Certo io morrei di pietà a vedere un altro così... Non so che cosa dire... Io non lo giurerei che queste sono le mie mani, vediamo: io sento che questo spillo buca. Oh, quanto vorrei esser certo del mio stato!

CORDELIA: Oh! guardatemi, signore, e alzate le vostre mani su me per benedirmi... No, signore, voi non dovete inginocchiarvi.

LEAR: Vi prego, non vi fate giuoco di me: io sono uno sciocco e svanito vecchio di ottant'anni passati, né un'ora di più né una di meno; e, per esser franco, temo di non aver la mente del tutto a posto. Mi sembra di conoscervi, e di conoscere quest'uomo; ma sono in dubbio, poiché ignoro assolutamente che luogo è questo: per quanto io faccia, non riesco a ricordarmi di questi abiti, né so rendermi conto dove io abbia alloggiato la notte scorsa. Non ridete di me... poiché, come è vero che sono un uomo, io credo che questa signora sia la mia figliuola Cordelia.

CORDELIA: E infatti sono io, sono io!

LEAR: Le vostre lacrime sono di quelle che bagnano? Sì, davvero! Vi prego, non piangete; se avete del veleno per me, lo beverò. Io lo so che voi non mi amate... perché... le vostre sorelle, come ben ricordo, mi hanno maltrattato: voi avete una ragione... loro non l'hanno.

CORDELIA: Nessuna, nessuna, io.

LEAR: Sono in Francia?

KENT: Nel vostro regno, signore.

LEAR: Non mi ingannate.

DOTTORE: Rassicuratevi, buona signora: l'accesso di furore è vinto in lui; ma sarebbe pericoloso metterlo al corrente del tempo ch'egli ha perduto. Consigliatelo a rientrare; non lo disturberete più, finché le sue condizioni non siano migliorate ancora.

CORDELIA: Vorrebbe ritirarsi Vostra Altezza?

LEAR: Voi dovete aver pazienza con me. Ve ne prego dimenticate e perdonate; io sono vecchio e non ho più la testa a segno.

 

(Escono Lear, Cordelia, il Dottore e i Servi)

 

GENTILUOMO: Messere, è confermato che il duca di Cornovaglia è stato ucciso così?

KENT: Certissimo signore.

GENTILUOMO: Chi è alla testa delle sue genti?

KENT: A quel che si dice, il figliuolo bastardo di Gloucester.

GENTILUOMO: Dicono che Edgardo, il suo figliuolo esiliato, sia col conte di Kent in Germania.

KENT: Eh, se ne dicon tante! E' tempo di stare all'erta: le forze del regno si avvicinano a grandi passi.

GENTILUOMO: La decisione probabilmente sarà sanguinosa State bene, messere. (Esce)

KENT: Il mio scopo e il mio segno saran raggiunti bene o male, secondo l'esito della battaglia d'oggi.

 

 

 

ATTO QUINTO

 

SCENA PRIMA - Il campo britannico presso Dover

(Entrano, con tamburi e bandiere, EDMONDO, REGANA, Ufficiali, Soldati ed altri)

 

EDMONDO: Sentite dal duca se egli è fermo nel suo ultimo proposito, o se in seguito sia stato indotto, da qualche cosa, a cambiare d'avviso.

Egli è pieno di titubanza e di pentimenti. Portatemi la sua risoluzione definitiva. (A un Ufficiale che esce)

REGANA: Al servitore di nostra sorella deve essere, certamente, seguìto male.

EDMONDO: C'è ragione di sospettarlo, signora.

REGANA: Ora, amabile signore, voi sapete le mie buone intenzioni a vostro riguardo: rispondetemi dunque, sinceramente, ma dite proprio la verità: voi non amate mica mia sorella?

EDMONDO: Di un affetto rispettoso.

REGANA: Ma non avete mai trovato la strada riservata a mio fratello, la quale conduce al luogo proibito?

EDMONDO: Questo pensiero vi fa torto.

REGANA: Io ho il dubbio che voi siate stato congiunto e intrinseco con lei per tutto quel che possiamo chiamare suo.

EDMONDO: No, sul mio onore, signora.

REGANA: Io non glielo permetterò mai: mio buon signore, voi non dovete avere nessuna familiarità con lei.

EDMONDO: Non temete di me. Lei, e il duca suo marito!

 

(Entrano con tamburi e bandiere il DUCA D'ALBANIA, GONERILLA, e Soldati)

 

GONERILLA (a parte): Preferirei perdere la battaglia, piuttosto che quella mia sorella dovesse separare lui e me.

ALBANIA: Ben trovata, nostra amatissima sorella. Signore, questo è ciò che io ho sentito: che il re è andato presso la sua figliuola, insieme con altre persone, che il rigore del nostro governo spinse a gridare aiuto. Là dove non potei essere onesto, non fui mai valoroso: questo affare ci tocca, in quanto la Francia invade il nostro paese, ma non perché essa rinfranca il re, insieme con altri che, io lo temo purtroppo, ragioni assai giuste e gravi fanno levar contro di noi.

EDMONDO: Signore, voi parlate nobilmente.

REGANA: Che c'entra questo discorso?

GONERILLA: Uniamoci contro il nemico: poiché qui non si tratta di questioni private e personali come queste.

ALBANIA: Allora stabiliamo, d'accordo con gli uomini di guerra più provetti, il nostro piano di battaglia.

EDMONDO: Sarò subito alla vostra tenda.

REGANA: Sorella, voi venite con noi?

GONERILLA: No REGANA: Ciò è molto opportuno: ve ne prego, venite con noi.

GONERILLA (a parte): Oh! Oh! Comprendo l'enigma! Vengo.

 

(Entra EDGARDO, travestito)

 

EDGARDO: Se Vostra Grazia ebbe mai a parlare con un uomo così povero, vogliate ascoltare da me una parola.

ALBANIA: Vi raggiungerò. Parlate.

(Escono Edmondo, Regana, Gonerilla, gli Ufficiali, i Soldati, e le Persone del seguito).

EDGARDO: Prima di attaccare battaglia aprite questa lettera. Se avrete la vittoria, fate sonare la tromba per chiamare chi ve la portò: per quanto miserabile vi sembri, io posso presentare un campione, il quale sarà in grado di provare ciò che è affermato in quella lettera. Se perdete, per voi è finita nel mondo, e cessa ogni trama. La fortuna vi assista!

ALBANIA: Aspettate, finché io abbia letta la lettera.

EDGARDO: Mi è stato proibito. Quando sarà il momento, l'araldo non avrà che a gridare il bando, ed io apparirò di nuovo.

ALBANIA: Allora, addio: leggerò la tua lettera. (Esce Edgardo)

 

(Rientra EDMONDO)

 

EDMONDO: Il nemico è in vista: schierate le forze. Ecco, secondo una diligente ricognizione, il computo approssimativo della loro reale forza e delle loro truppe: ma ora vi s'impone sollecitudine.

ALBANIA: Affronteremo la contingenza.

 

(Esce)

 

EDMONDO: Io ho giurato l'amor mio a tutte e due queste sorelle; e ciascuna è sospettosa dell'altra, come coloro che ne sono stati morsi hanno sospetto della serpe. Chi di esse prenderò? Tutte e due? una? o nessuna delle due? Io non posso godermi né l'una né l'altra, finché ambedue son vive: prender la vedova, significa esasperare, e fare impazzire, sua sorella Gonerilla; e d'altra parte io difficilmente guadagnerò la partita, finché il marito di costei è vivo. Intanto noi ci serviremo del suo appoggio per la battaglia; condotta a termine questa, pensi lei, che vorrebbe disfarsi di lui, a trovare un modo sbrigativo per levarlo di mezzo. In quanto alla pietà ch'egli intende avere per Lear e per Cordelia... una volta finita la battaglia, e ch'essi siano in nostro potere, non vedranno mai la sua clemenza; poiché la condizione in cui mi trovo vuole che io mi difenda, non ch'io discuta.

(Esce)

 

 

 

SCENA SECONDA - Una pianura fra i due campi nemici

(Di dentro suona l'allarme. Entrano, con tamburi e bandiere, LEAR, CORDELIA, e le loro milizie; e quindi escono)

(Entrano EDGARDO e GLOUCESTER)

 

EDGARDO: Qui padre, accettate la buona ospitalità che vi offre l'ombra di quest'albero; pregate che il diritto possa trionfare. Se mai io ritorni presso di voi, vi porterò qualche consolazione.

GLOUCESTER: Il cielo vi accompagni, messere! (Esce Edgardo)

 

(Allarme; quindi ritirata. Rientra EDGARDO)

 

EDGARDO: Fuggi, vecchio! dammi la mano: fuggi! Re Lear ha perduto, egli e sua figlia sono prigionieri: dammi la mano; vieni via.

GLOUCESTER: Io non muovo più un passo, messere: un uomo può putrefarsi anche qui.

EDGARDO: Che? Ancora pensieri cattivi? Gli uomini debbono pazientare per uscir di questo mondo, proprio come per entrarvi: tutto sta d'essere pronti. Andiamo.

GLOUCESTER: E anche questo è vero.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Il campo britanno presso Dover

(Entrano: EDMONDO, vittorioso, con tamburi e bandiere, LEAR e CORDELIA prigionieri; un Capitano, Ufficiali, Soldati, eccetera)

 

EDMONDO: Alcuni ufficiali li conducano via: stiano sotto buona guardia, finché prima non siano noti i voleri sovrani di coloro che debbono pronunciare la loro sentenza.

CORDELIA: Noi non siamo i primi, che, con le migliori intenzioni, si tirano addosso il peggio. Re sventurato, io sono afflitta per te: se si trattasse di me sola, saprei ben rispondere, col cipiglio, al cipiglio della perfida fortuna. Non le vedremo, noi, queste figliuole e queste sorelle?

LEAR: No, no. no, no! Vieni, andiamocene in prigione; soli, noi due canteremo come uccelli in gabbia: quando tu mi dirai di benedirti, io mi inginocchierò, e chiederò il tuo perdono. Così noi passeremo la vita pregando e cantando, e ci racconteremo delle vecchie storie, e sorrideremo delle farfalle dorate; sentiremo i poveri vagabondi chiacchierare, fra loro, delle notizie di corte; e anche noi parleremo con essi di chi perde e di chi vince; di chi sale e di chi scende; noi faremo nostro compito il mistero delle cose, come se fossimo spie di Dio. E fra le mura di una prigione cancelleremo dalla memoria il ricordo delle congiure e delle fazioni dei grandi, che vanno e vengono come la marea sotto la luna.

EDMONDO: Conduceteli via.

LEAR: Su sacrifici come questi, o mia Cordelia, gli dèi stessi spargono incenso. Ti ho ritrovata? Chi ci vorrà separare, dovrà rapire al cielo un tizzo ardente, e snidarci di qui col fuoco come volpi.

Asciugati gli occhi; la malora li struggerà, carne e ossa, prima che ci facciano piangere: li vedremo morire di fame, prima! Vieni.

 

(Escono Lear e Cordelia, scortati da Guardie)

 

EDMONDO: Vieni qua, capitano; ascolta. Prendi questo biglietto (gli dà una carta); va', segui costoro sino alla prigione Io ti ho già fatto avanzare di un grado: se metti in opera le istruzioni che ti dà questo foglio, ti apri la via ad alti destini. Sappi che gli uomini sono come i tempi: aver l'animo tenero non si addice ad una spada. L'importante ufficio che ti è commesso non consente discussioni: o dimmi che lo adempirai, o cerca fortuna con altri mezzi.

CAPITANO: Lo adempirò, mio signore.

EDMONDO: All'opera; e chiamati felice quando ti sarai sbrigato. Bada bene a quello che dico: immediatamente; e conduci la cosa nel modo che ho scritto.

CAPITANO: Non posso tirare un carro, o pascermi di avena secca: se è cosa che un uomo possa fare, io la farò. (Esce)

 

(Squillo di trombe. Entrano il DUCA D'ALBANIA, GONERILLA, REGANA, Ufficiali, e Gente del seguito)

 

ALBANIA: Signore, oggi voi avete dato prova della razza valorosa dalla quale discendete, e la fortuna vi ha guidato bene. Voi avete in poter vostro i prigionieri, che ci furono di fronte nella battaglia di quest'oggi: noi ve li domandiamo, per disporre di loro così, come troveremo che possano indurci a trattarli, ad un tempo, i riguardi che essi meritano e la sicurezza nostra.

EDMONDO: Signore, io ho pensato che fosse conveniente mandare il vecchio e misero re in un luogo di custodia. e sotto buona scorta. La sua età, e più ancora il suo nome regale, ha in sé un fascino così grande, da conquistargli il favore popolare, e far rivolgere le lance da noi assoldate contro gli occhi nostri che le comandano. Insieme con lui ho mandato la regina, per la stessa ragione; e domani, ovvero più tardi, saranno pronti a comparire dove voi terrete le vostre assise.

In questo momento noi grondiamo di sudore e di sangue: l'amico ha perduto l'amico, e le battaglie più giuste, nel calore del momento sono maledette da chi ne risente gli aspri colpi. La questione di Cordelia e di suo padre vuol esser trattata in miglior luogo.

ALBANIA: Messere, col vostro permesso, in questa guerra io vi ritengo soltanto un mio suddito, non già un mio fratello.

REGANA: Questo è appunto il titolo onde ci piace gratificarlo. Mi sembra che voi, prima di andare così innanzi con le parole, avreste potuto domandare il nostro parere. Egli ha condotto le nostre forze, ha avuto l'incarico di esercitare la mia autorità e di rappresentare la mia persona: questa diretta relazione può ben alzare il capo e proclamarsi vostro fratello.

GONERILLA: Non tanto ardore: egli innalza se stesso col merito proprio, più che per virtù del vostro titolo.

REGANA: Investito da me dei miei diritti, egli è alla pari dei più grandi.

ALBANIA: Non potreste dire di più, se egli dovesse sposarvi.

REGANA: Beffeggiatori riescon sovente profeti.

GONERILLA: Eh via! eh via! L'occhio che vi disse questo, non poteva essere che un occhio locco.

REGANA: Signora, io non mi sento bene; altrimenti vi risponderei lasciando traboccare tutto quel che ho sullo stomaco. Generale, prenditi i miei soldati, i miei prigionieri, il mio patrimonio; disponi di loro e di me: io mi arrendo a discrezione. Testimone il mondo, che io qui stesso ti eleggo mio signore e mio padrone.

GONERILLA: Pretendereste di possederlo?

ALBANIA: Il vietarlo non dipende dalla vostra buona volontà.

EDMONDO: Neppure dalla vostra, signore.

ALBANIA: Sì, giovinotto di mezzo sangue.

REGANA (a Edmondo): Fa' suonare il tamburo, e prova che il mio titolo è quello tuo.

ALBANIA: Fermatevi un momento; ascoltate la voce della ragione...

Edmondo, io ti arresto per alto tradimento; e nell'arresto tuo è compreso quello di questo serpente dorato... (accennando Gonerilla) In quanto alla vostra pretesa, amabile sorella, io faccio opposizione nell'interesse di mia moglie; sta il fatto, che essa ha un precedente impegno con questo signore, ed io, suo marito, mi oppongo al vostro bando di nozze. Se avete voglia di maritarvi, fate a me la vostra dichiarazione: la mia signora è fidanzata.

GONERILLA: Questa è una commedia!

ALBANIA: Tu sei armato, Gloucester; suoni, dunque, la tromba: se nessuno si presenta a sostenere, contro la tua persona, i nefandi, manifesti e molteplici tradimenti che tu hai commessi, ecco qui il mio pegno (gettando a terra un guanto); prima di assaggiar di nuovo il pane, io proverò sul tuo cuore che tu non sei niente di meno di quello che ti ho proclamato.

REGANA: Sto male, oh, sto male!

GONERILLA (a parte): Se fosse altrimenti, non crederei più al veleno.

EDMONDO: Ecco, in ricambio, il pegno mio (gettando a terra un guanto):

chiunque, al mondo, mi chiami traditore, mente come un furfante.

Squilli pure la tua tromba: contro colui che oserà farsi avanti, contro voi, contro chiunque sia, io sosterrò la mia lealtà e il mio onore con fermezza.

ALBANIA: Un araldo, olà!

EDMONDO: Un araldo, olà, un araldo!

ALBANIA: Conta unicamente sul tuo valore: poiché i tuoi soldati, tutti quelli che tu arruolasti nel nome mio, nel nome mio hanno avuto il loro congedo.

REGANA: Il mio malessere aumenta!

ALBANIA: Essa non si sente bene: portatela nella mia tenda. (Esce Regana accompagnata. Entra un Araldo)

Vieni qua, araldo. Suona la tromba, e leggi questo ad alta voce.

UFFICIALE: Suona, trombettiere!

 

(Una tromba suona)

 

ARALDO (legge): "Se c'è un uomo di alto grado o qualità, nelle file dell'esercito, disposto a sostenere contro Edmondo, preteso conte di Gloucester, che egli è più volte traditore, si faccia avanti al terzo squillo di tromba. Egli è pronto a difendersi".

EDMONDO: Sonate!

 

(Primo squillo)

 

ARALDO: Ancora!

 

(Secondo squillo)

 

ARALDO: Ancora!

 

(Terzo squillo. Una tromba risponde di dentro)

(Entra EDGARDO, armato, preceduto da un Trombettiere)

 

ALBANIA: Domandagli quali sono le sue intenzioni, e perché egli si presenta a questo bando della tromba.

ARALDO: Chi siete? Il vostro nome? La vostra qualità? e perché rispondete al presente appello?

EDGARDO: Sappiate che il mio nome io l'ho perduto, spolpato e smozzicato dal dente del tradimento: pure, io sono nobile quanto l'avversario col quale vengo a misurarmi.

ALBANIA: Qual è questo avversario?

EDGARDO: Chi è colui che risponde per Edmondo conte di Gloucester?

EDMONDO: Egli stesso: che cos'hai da dirgli?

EDGARDO: Tira fuori la tua spada, affinché, se le mie parole offenderanno un nobile cuore, il tuo braccio possa farti giustizia; ecco qui la mia. Vedi, questo è un diritto che mi danno il mio onore, il mio giuramento, e la mia professione: in nome di esso, malgrado la tua forza, la tua giovinezza, la tua condizione, e il posto elevato che tu occupi; a dispetto della tua spada vittoriosa, e della tua fortuna ancor calda, del tuo valore e del tuo coraggio, io dichiaro che sei un traditore, sleale ai tuoi iddii, a tuo fratello e a tuo padre, che hai cospirato contro questo nobile e illustre principe: e che dall'estrema punta dei capelli fin giù alla polvere che è sotto i tuoi piedi, tu sei un traditore chiazzato di veleno come il rospo. Di' "no": e questa spada, e questo braccio, e tutto il meglio del mio spirito, sono pronti a provare sul tuo cuore, al quale io parlo, che tu menti.

EDMONDO: Secondo prudenza io dovrei domandare a te il tuo nome: ma poiché il tuo aspetto esteriore è così decoroso e marziale, e nel tuo linguaggio spira un accento di nobiltà, quell'indugio che io ben potrei opporre a rigor di termini, secondo le regole della cavalleria, io lo disdegno e lo sprezzo. Io respingo sul tuo capo questi tradimenti dei quali mi accusi, con le tue menzogne, odiose come l'inferno, opprimo il tuo cuore: e poiché esse non fan che sfiorarlo e arrivano appena a ferirlo, questa mia spada aprirà loro una subita via colà, dove poseranno per sempre. Trombe, sonate!

 

(Squilli. Edgardo e Edmondo si battono. Edmondo cade)

 

ALBANIA: Risparmiatelo! risparmiatelo!

GONERILLA: Questa è un'insidia, Gloucester; secondo la legge delle armi tu non eri obbligato a rispondere ad un avversario sconosciuto:

tu non sei vinto, ma ingannato e tradito.

ALBANIA: Chiudete quella bocca, signora; o volete che ve la tappi io con questo foglio?... Prendete, signore, o tu la cui nequizia è senza nome, leggi il tuo maleficio stesso... E' inutile cercar di strapparlo, signora, vedo bene che voi lo conoscete (Dà la lettera a Edmondo)

GONERILLA: Supponiamo che io lo conosca: delle leggi dispongo io, non voi. Chi potrà citarmi in giudizio per questo?

ALBANIA: Che mostruosità incomparabile! Conosci tu questo foglio?

GONERILLA: Non mi domandate quello che io conosco.

 

(Esce)

 

ALBANIA: Seguitela: ella è fuori di sé; sorvegliatela.

 

(Esce un Ufficiale)

 

EDMONDO: Quello di cui mi accusate, l'ho commesso, e più ancora, molto di più; il tempo lo rivelerà: ormai è passato, ed io ancora... Ma tu chi sei, che hai sopra di me questa buona ventura? Se tu sei nobile, io ti perdono.

EDGARDO: Scambiamoci un atto di pietà. Per sangue io non sono meno nobile di te, Edmondo: se sono di più, l'offesa che mi hai fatto è ancora più grande. Il mio nome è Edgardo, ed io sono figlio di tuo padre. Gli dèi sono giusti, e dei nostri vizi allettatori essi si fanno strumento per flagellarci: il luogo oscuro e corrotto nel quale tuo padre ti generò, gli è costato gli occhi.

EDMONDO: Dici bene, è vero. La ruota ha compiuto il suo giro, ed io son qui.

ALBANIA: Ben mi pareva che il tuo incedere stesso rivelasse una regale nobiltà. Bisogna che ti abbracci: possa il dolore lacerarmi il cuore, se io ebbi mai odio per te o per il padre tuo.

EDGARDO: Degno principe, lo so.

ALBANIA: Dove vi siete tenuto nascosto? Come avete saputo le sciagure di vostro padre?

EDGARDO: Cercando di lenirle, signor mio. Ascoltate un breve racconto, e quando avrò finito, oh! il mio cuore si spezzi! La necessità di sfuggire al bando sanguinoso che mi incalzava così da vicino (oh, dolcezza della vita! per la quale noi preferiremmo di subire la pena di morte ad ogni ora che passa, anziché morire una volta per sempre!), mi suggerì l'idea di cambiare le mie vesti con gli stracci di un demente, di assumere un aspetto tale da provocare lo sdegno dei cani stessi: e in questo arnese incontrai mio padre con le occhiaie sanguinanti, anelli che pur ora avean perduto le loro pietre preziose; io divenni la sua guida, lo conducevo, chiedevo l'elemosina per lui, lo salvai dalla disperazione. Non mi rivelai mai a lui (oh! quale errore!) fino a una mezz'ora fa, allorché ebbi indossate le armi: non essendo sicuro, pur sperando, di questo fortunato successo, io gli chiesi la sua benedizione, e gli narrai, dal principio alla fine, il mio pellegrinaggio: ma il suo cuore affranto (troppo debole, ahimé, per reggere all'urto!) in mezzo ai due estremi della passione, la gioia e il dolore, si è spezzato con un sorriso.

EDMONDO: Il vostro racconto mi ha commosso, e forse potrà far del bene: ma seguitate a parlare, voi avete l'aria di voler dire ancora qualche cosa.

ALBANIA: Se c'è altro, che sia strazio anche maggiore, tacetelo; poiché questo che ho sentito, mi spinge quasi a struggermi in lacrime.

EDGARDO: A chi non ami il dolore, questo mio racconto potrebbe esser sembrato il colmo; ma un altro, ad ampliarlo troppo, vi aggiungerebbe molto di più, e varcherebbe il limite estremo. Mentre io mi abbandonavo ad alte grida, sopraggiunse un uomo, il quale, avendomi visto in quello stato miserevole, da principio schivò la mia ripugnante presenza, ma poi ravvisando chi era colui che soffriva a quel modo, mi si attaccò al collo con le sue vigorose braccia, e si mise ad urlare così disperatamente, come s'egli volesse squarciare la volta dei cieli; poi si gettò sul corpo di mio padre, e raccontò, di re Lear e di se stesso, la più straziante storia che orecchio umano abbia mai sentito: e durante il racconto di essa il suo dolore si fece così possente che le corde della vita cominciarono a spezzarsi in lui; a questo punto la tromba sonò due volte, ed io lo lasciai lì privo di sensi.

ALBANIA: Ma chi era quell'uomo?

EDGARDO: Kent, signore, l'esiliato Kent; il quale travestito aveva seguito sempre il re che gli era avverso, prestandogli servigi indegni di uno schiavo.

 

(Entra un Gentiluomo con un pugnale insanguinato)

 

GENTILUOMO: Aiuto, aiuto, oh! aiuto!

EDGARDO: Che aiuto?

ALBANIA: Parla.

EDGARDO: Che vuol dire quel pugnale insanguinato?

GENTILUOMO: E' ancora caldo, fuma; è uscito in questo istante dal cuore di... Oh! è morta!

ALBANIA: Chi morta? parla.

GENTILUOMO: Vostra moglie, signore, vostra moglie: e sua sorella è stata avvelenata da lei; lei stessa lo ha confessato.

EDMONDO: Io m'ero impegnato con ambedue: ora noi ci uniamo in matrimonio tutti e tre nel medesimo istante.

EDGARDO: Ecco qui Kent.

ALBANIA: Portate qui i loro corpi, vivi o morti che siano: questo giudizio del cielo, che ci fa tremare, non ci muove a pietà.

 

(Esce il Gentiluomo)

(Entra KENT)

 

Oh! è lui? il momento non consente i complimenti che le creanze impongono.

KENT: Io sono venuto a dire addio per sempre al mio re e signore: non è qui?

ALBANIA: Quale dimenticanza da parte nostra! Parlate, Edmondo, dov'è il re? e dov'è Cordelia? Vedi quale spettacolo, Kent?

 

(Vengono portati i cadaveri di Gonerilla e Regana)

 

KENT: Ahimè! come mai?

EDMONDO: Eppure Edmondo era amato: una ha avvelenato l'altra per amor mio, e poi si è uccisa.

ALBANIA: Proprio così! Coprite loro il viso.

EDMONDO: La vita mi manca; a dispetto della mia natura, voglio fare un po' di bene... Presto, mandate al castello... non perdete tempo... c'è un ordine mio, che riguarda la vita di Lear e di Cordelia... via, mandate prima che non siate più in tempo.

ALBANIA: Correte, correte, oh! correte!

EDGARDO: A chi, mio signore? Chi n'è incaricato? Manda un tuo segno di contrordine.

EDMONDO: E' giusto: prendi la mia spada, presentala al capitano.

ALBANIA: Fa' presto, per la tua vita!

 

(Edgardo esce)

 

EDMONDO: Costui è incaricato, da vostra moglie e da me, d'impiccare Cordelia in carcere, e di attribuire alla sua disperazione un atto onde ella avrebbe distrutto se stessa.

ALBANIA: Gli dèi la proteggano! Portatelo via di qui per un momento.

 

(Edmondo è portato via)

(Rientra LEAR, con CORDELIA morta fra le braccia; EDGARDO, un Ufficiale ed altri)

 

LEAR: Urlate, urlate, urlate, urlate! Oh voi siete uomini di pietra:

se io avessi le vostre lingue e i vostri occhi, vorrei adoperarli in modo, che la volta del cielo si dovrebbe squarciare. Essa è andata via per sempre. Io lo so quando uno è morto, e quando vive ancora: lei è morta come terra! Prestatemi uno specchio; se il suo respiro appanna ed offusca il vetro, ebbene, essa vive ancora.

KENT: E questa la fine del mondo a noi predetta?

EDGARDO: O un'immagine di quel giorno tremendo?

ALBANIA: Cada, e finisca il mondo!

LEAR: Questa piuma si muove: essa vive! se è vero, è tal ventura, che redime tutti i dolori che io ho sofferti fin qui!

KENT: O mio buon padrone!

 

(S'inginocchia)

 

LEAR: Ti prego vattene.

EDGARDO: E' il nobile Kent, amico vostro.

LEAR: La peste cada su voi, assassini, traditori tutti! Io avrei potuto salvarla; ora se n'è andata per sempre! Cordelia, Cordelia!

aspetta un poco. Ah! che cosa dici? La sua voce fu sempre soave, carezzevole, e sommessa, qualità eletta in una donna. Il miserabile che t'impiccava, io l'ho ucciso.

UFFICIALE: E' vero, signori, lo ha fatto.

LEAR: Non è vero, che l'ho ucciso, giovinotto? Ci fu un tempo, in cui con la mia buona lama affilata li avrei fatti saltare: ora son vecchio, e questi strazi mi finiscono. Chi siete voi? I miei occhi non sono dei migliori: ve lo dirò subito KENT: Se la fortuna si vanta di due uomini, che essa ha amato e odiato, noi vediamo l'un d'essi.

LEAR: Questa mia vista s'è offuscata... Voi non siete Kent?

KENT: Lui stesso; il vostro servo Kent. E il vostro servo Caio dov'è?

LEAR: Egli è un bravo giovinotto, posso assicurarvelo; sa menar le mani, lui, e presto anche. E' morto e putrefatto.

KENT: No, mio buon signore; io sono proprio quell'uomo...

LEAR: Lo vedrò subito.

KENT: ...che fin dal principio del vostro cambiamento di fortuna, e delle vostre sventure, ha seguìto sempre i vostri passi dolorosi, LEAR: Voi siete il benvenuto qui.

KENT: Né io, né alcun altro lo sarebbe. Tutto, qui, è tristezza, tenebra, e morte: le vostre figlie maggiori si sono distrutte da loro stesse, e sono morte disperate.

LEAR: Sì, lo credo ALBANIA: Egli non sa quello che dice, ed è vano cercare di farsi riconoscere da lui.

EDGARDO: E' proprio inutile.

 

(Entra un Ufficiale)

 

UFFICIALE: Edmondo è morto, mio signore.

ALBANIA: E' una cosa da nulla in questo momento. Signori e nobili amici, sappiate ora i nostri intendimenti. Ogni conforto che possa venire a questa grande sciagura, sarà ad essa prodigato: quanto a noi, finché duri la vita di questa veneranda Maestà, intendiamo di rassegnare nelle sue mani il nostro potere assoluto. (A Edgardo e a Kent) Voi sarete reintegrati nei vostri diritti, con una giunta, e con quel titolo che le vostre onorevoli persone hanno più che meritato.

Tutti i nostri amici gusteranno le ricompense della loro virtù e tutti i nemici beveranno alla coppa della loro retribuzione. Oh! guardate, guardate!

LEAR: E la mia povera sciocchina l'hanno impiccata! No, no, non più vita! Perché un cane, un cavallo, un topo, debbono aver vita, e tu neanche un soffio? Tu non ritornerai più, mai, mai, mai, mai, mai! Vi prego, slacciatemi questo bottone; grazie, signore. Vedete questo?...

Guardatela, guardate, le sue labbra, guardate lì, guardate lì!

 

(Muore)

 

EDGARDO: Egli si spegne! Signor mio! signor mio!...

KENT: Spezzati, o mio cuore, deh, spezzati!

EDGARDO: Signor mio, aprite gli occhi.

KENT: Non affliggete il suo spirito: oh, lasciate ch'egli muoia in pace! sarebbe odiarlo, il volerlo disteso più a lungo sulla ruota di tortura di questo duro mondo!

EDGARDO: E' proprio morto!

KENT: E' un miracolo, che abbia resistito così lungamente: egli usurpava la sua vita.

ALBANIA: Portateli via di qui. Nostro pensiero in questo momento, è il lutto generale. (A Kent e a Edgardo) Amici del mio cuore, prendete voi due il governo di questo regno, e sorreggete lo Stato ferito a sangue.

KENT: Io signore debbo mettermi in viaggio! il mio signore mi chiama, non posso dirgli di no.

EDGARDO: Noi dobbiamo rassegnarci al peso di questi tristi tempi, e dire quello che sentiamo non quello che dovremmo. Il più vecchio è quegli che ha sopportato di più; noi che siamo giovani, non vedremo altrettanto, né vivremo così a lungo.

 

(Escono al suono d'una marcia funebre)

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