William Shakespeare



PENE D'AMOR PERDUTE

 

 

 

 

PERSONAGGI

 

FERDINANDO, re di Navarra

BIRON, LONGAVILLE, DUMAIN: signori al seguito del Re

BOYET, MARCADE: signori al seguito della Principessa di Francia

DON ADRIANO DE ARMADO, spagnolo fantastico

SER NATANIELE, curato

OLOFERNE, maestro di scuola

TONTO, ufficiale della pace

ZUCCA, campagnolo

TIGNOLA, paggio di Armado

Un Guardaboschi

PRINCIPESSA di Francia

ROSALINA, MARIA, CATERINA: signore al seguito della Principessa

GIACOMETTA, ragazzotta di campagna

Ufficiali ed altri Personaggi al seguito del Re e della Principessa

 

 

La scena è in Navarra

 

 

 

ATTO PRIMO

 

SCENA PRIMA - Il parco del re di Navarra

(Entrano FERDINANDO, re di Navarra, BIRON, LONGAVILLE e DUMAIN)

 

RE: La fama che tutti agognano durante la vita possa vivere iscritta sui nostri bronzei sepolcri e poi largirci le sue grazie nella disgrazia della morte. A dispetto di quel vorace cormorano che è il Tempo, noi potremo acquistarci con uno sforzo di questa nostra fugace esistenza un onore che smusserà il taglio mordente della sua falce rendendoci eredi di tutta l'eternità. Perciò, prodi vincitori - poiché tali voi siete guerreggiando contro le vostre passioni e l'immenso esercito dei desideri mondani - il nostro recente editto rimarrà in pieno vigore, Navarra sarà la meraviglia del mondo, e la nostra corte una piccola accademia dedicata, quieta e pensosa, all'arte di vivere.

Voi tre, Biron, Dumain e Longaville, avete fatto giuramento di vivere con me per lo spazio di tre anni come compagni dei miei studi, e di osservare quegli statuti che sono registrati in questa carta. I vostri giuramenti sono stati pronunziati: adesso sottoscrivete coi nomi vostri, in modo che la mano stessa del sottoscrittore possa colpire l'onor suo ove egli ne violi anche il minimo articolo. Se vi sentite forti abbastanza da agire come avete giurato di agire, sottoscrivete i vostri gravi giuramenti e manteneteli.

LONGAVILLE: Sono risoluto. E' soltanto un digiuno di tre anni, durante il quale la mente si darà buon tempo anche se il corpo dovrà soffrire:

le pance grosse sorreggono teste piccine, e i bocconi saporiti rimpolpano le costole ma mandan fallito il cervello.

DUMAIN: Mio amabile signore, Dumain è ormai morto alle tentazioni.

Egli rigetta la grossolana pratica di queste gioie mondane sui vili schiavi del rozzo mondo. Rinuncio e cesso di esistere per l'amore, la ricchezza e la pompa, e vivo insieme a voi tutti nella contemplazione filosofica.

BIRON: Non posso che ripetere la loro solenne dichiarazione. Questo, amato signore, è quanto ho già giurato e cioè di vivere e studiare qui per tre anni. Ma vi sono altri doveri che vanno strettamente osservati: non vedere donne durante tale spazio di tempo; ed io spero bene che tale condizione non sia registrata nel patto. Non toccar cibo alcuno in un giorno della settimana e prendere un solo pasto in ciascuno degli altri giorni; la qual cosa io spero non sia registrata nel patto. E inoltre dormire solamente tre ore di notte e non farci cogliere ad aver gli occhi tra' peli durante tutto il giorno, mentre prima ero abituato a pensare che non ci fosse nulla di male a dormire tutta la notte e a trasformare metà della giornata in oscura notte; la quale cosa io spero bene non sia registrata nel patto. Oh, questi sono doveri sterili, troppo difficili ad osservarsi: non veder donne, studiare, digiunare e non dormire!

RE: Avete pronunziato giuramento di rinunziare a tutto ciò.

BIRON: Lasciate che io dica di no, mio sovrano, se così vi piace. Ho solamente giurato di studiare assieme a Vostra Grazia e di rimanere qui nella vostra corte per lo spazio di tre anni.

LONGAVILLE: Avete giurato questo, Biron, e anche il resto.

BIRON: Daddovero, signore, ho giurato per scherzo. Qual è il fine dello studio, ditemi un po'?

RE: Diamine, venire a conoscenza di ciò che altrimenti non sapremmo.

BIRON: Volete dire a conoscenza di cose nascoste e precluse alla sensazione ordinaria?

RE: Sì, questo è il divino compenso dello studio.

BIRON: Suvvia, allora: voglio giurare di studiare in tal modo da conoscere ciò che mi è vietato di conoscere. Per esempio: studiare in qual luogo io possa pranzar bene, quando mi si proibisce espressamente di banchettare, ovvero studiare in qual luogo io possa trovare una bella amante, quando le amanti sono vietate alla sensazione ordinaria, ovvero, avendo pronunziato un giuramento troppo difficile a mantenersi, studiare il modo di romperlo senza rompere la fede giurata. Se tale è il vantaggio dello studio e le cose vanno in questo modo, lo studio è conoscenza di ciò che non si conosce ancora. Fatemi giurare codesto ed io non vi dirò mai di no.

RE: Questi sono ostacoli che impediscono del tutto lo studio e allettano le nostre anime ai vani godimenti.

BIRON: Tutti i godimenti sono vani, e vano fra tutti quello che, procurato con dolore, ha in retaggio il dolore, come lo stillarsi il cervello su un libro cercando la luce della verità mentre la verità proditoriamente acceca la luce dello sguardo. La luce che cerca la luce priva di luce la luce; prima che scopriate la luce in mezzo alle tenebre, la vostra luce diviene tenebra con la perdita dei vostri occhi. Studiate piuttosto come far piacere all'occhio, fissandolo su un occhio più bello ancora, così che, il primo oscurandosi, l'altro occhio divenga la sua stella e gli offra la luce da cui quello fu accecato. Lo studio è simile allo splendido sole del cielo, che non vuol lasciarsi scrutare da uno sguardo impertinente. Gli assidui sgobboni hanno fatto sempre magri acquisti, all'infuori di qualche vile massima tolta dai libri altrui. Quei terreni padrini delle luci celesti che danno un nome ad ogni stella fissa non ritraggono maggior profitto dalle loro notti scintillanti di quanto ne ricevano coloro che se ne vanno a giro senza conoscere che siano. Conoscendo troppo si ottiene soltanto d'essere conosciuti, ed un qualsiasi padrino è in grado di darvi un nome.

RE: Come è istruito nel ragionare contro l'istruzione!

DUMAIN: Ben addottorato per impedire ogni buona dottrina!

LONGAVILLE: Estirpa il grano ma lascia crescer la malerba!

BIRON: Si avvicina la primavera, quando nidificano i paperi!

DUMAIN: Che c'entra questo?

BIRON: C'entra a suo luogo e tempo.

DUMAIN: Ciò non risponde a senso.

BIRON: Ma risponde alle rime.

RE: Biron somiglia a un maligno gelo pungente, che morsica i teneri rampolli della primavera.

BIRON: Ebbene, ammettiamo pure che io sia così. Ma perché l'estate orgogliosa dovrebbe menar vanto prima che gli uccelli abbiano motivo per cantare? Perché dovrei rallegrarmi di ogni nascita abortiva? A Natale non desidero le rose più di quanto non desideri una nevicata pel calendimaggio. Mi piacciono tutte le cose che crescono nella loro stagione. Studiare adesso è troppo tardi per voi: sarebbe come arrampicarsi in cima a una casa per aprirne la porta!

RE: Bene, rimanete fuori, allora. Andatevene a casa, Biron, e addio!

BIRON: No, mio buon signore, ho giurato di rimanere con voi e sebbene in favore della barbarie io abbia parlato più di quanto voi possiate dire in onore di quell'angelica scienza, pur tuttavia fedelmente manterrò ciò che ho giurato sopportando la penitenza quotidiana per tre anni. Datemi il foglio e lasciate che io legga; sottoscriverò col mio nome alle più strette regole.

RE: Come la tua sottomissione ti redime dalla vergogna!

BIRON (leggendo): 'Item': Nessuna donna dovrà avvicinarsi a meno di un miglio dalla mia corte". E' stato proclamato questo?

LONGAVILLE: Quattro giorni fa.

BIRON: Vediamo la punizione: "Sotto pena di perder la lingua". Chi ha immaginato una tal punizione?

LONGAVILLE: Diamine, io.

BIRON: Mio signore, perché?

LONGAVILLE: Per tenerle lontane da qui col terrore di quella tremenda pena.

BIRON: Una legge pericolosa contro le buone maniere! "'Item': Se alcun uomo verrà sorpreso a parlare con una donna entro il periodo di tre anni sopporterà la vergogna pubblica che piacerà al resto della corte di stabilire". Questo articolo, mio sovrano, dovrete violarlo voi stesso, poiché ben sapete che verrà qui in ambasceria la figlia del re di Francia per parlarvi personalmente - una fanciulla piena di grazia e di maestà chiedendovi la cessione dell'Aquitania al padre suo, decrepito, malato e inchiodato al letto. Quindi o tale articolo è stato creato invano, oppure quella ammirata principessa farà il viaggio per nulla.

RE: Che ne dite, signori? Diamine, avevamo del tutto dimenticato questa circostanza.

BIRON: Lo studio soverchio va sempre oltre il segno: mentre esso si studia di ottenere ciò che desidererebbe, dimentica di far ciò che dovrebbe, e allorquando ottiene la cosa che più intensamente persegue, essa è presa come una città col fuoco, che prenderla e perderla è tutt'una!

RE: Dobbiamo per forza abolire questo articolo; ella dovrà dimorare qui di necessità.

BIRON: La necessità ci renderà tutti tremila volte spergiuri nello spazio di questi tre anni, poiché ognuno nasce con le proprie inclinazioni che non si lasciano dominare dalla forza ma da una speciale grazia. Se violo la fede, avrò dunque la scusa di essere fedifrago di pura necessità. Appongo perciò la mia firma al complesso di queste leggi, e colui che le violi minimamente sarà condannato ad eterna vergogna. Le tentazioni esistono tanto per gli altri quanto per me, ma credo, malgrado la mia apparente ripugnanza, che sarò l'ultimo a mantenere il giuramento sino alla fine. Ma non ci sarà concesso qualche vivace sollazzo?

RE: Sì, certo. La nostra corte, come sapete, è visitata da un raffinato viaggiatore spagnolo, un uomo bene al corrente delle nuove mode di tutto il mondo, con una miniera di frasi nel cervello. Uno che va in estasi ascoltando il suo vano linguaggio come se udisse un'armonia incantevole, un uomo pieno di salamelecchi, prescelto dalla ragione e dal torto come arbitro della loro contesa. Questo figlio della fantasia, che si chiama Armado, nell'intervallo dei nostri studi ci narrerà in parole magniloquenti le gesta di molti cavalieri della fulva Spagna, perdutisi in guerra. Non so se vi divertirete, miei signori, ma affermo che mi piace sentirlo mentire e voglio servirmene come di un mio menestrello.

BIRON: Armado è un illustrissimo personaggio, un uomo che usa parole nuove di zecca, il vero campione della moda.

LONGAVILLE: Zucca di bifolco e lui ci faranno divertire. E così, allo studio! tre anni passan presto.

 

(Entra TONTO, con una lettera, e ZUCCA)

 

TONTO: Qual è la propria persona del duca?

BIRON: Codesta, buon uomo. Che vuoi?

TONTO: Io stesso ho la rappresaglia della sua propria persona poiché sono l'uffiziale di pulizia di Sua Grazia; ma vorrei vedere la sua propria persona in carne e ossa.

BIRON (mostrando il Re): Eccolo qui.

TONTO: Il signor Arm... Arm... vi porge i suoi omaggi. Ci sono ribalderie in aria, e questa lettera ve ne dirà di più.

ZUCCA: Messere, il contagio della lettera è come se mi riguardasse.

RE: Una lettera dal magnifico Armado.

BIRON: Per quanto vile ne sia l'argomento, confido in Dio che contenga di gran paroloni.

LONGAVILLE: Alta speranza per un basso acquisto! Che Iddio ci dia pazienza!

BIRON: Pazienza di ascoltare o di non ascoltare?

LONGAVILLE: Di ascoltare con rassegnazione, signore, e di ridere moderatamente, oppure di fare a meno di entrambe queste cose.

BIRON: Bene, signore, sia tutto secondo che il suo stile prediletto, anzi predelletto saprà farci montare in allegria.

ZUCCA: L'argomento si riferisce a me, signore, poiché concerne Giacometta. Il fatto è che sono stato colto sul fatto.

BIRON: In qual maniera?

ZUCCA: Nella maniera e forma seguente, signore, in tre punti: sono stato sorpreso con lei nel maniero, mentre palpavo le sue forme, e colto mentre la seguivo nel parco: le quali cose, messe insieme, sono:

nella maniera e nella forma seguente. E ora, signore, in quanto alla maniera... è la maniera usata da un uomo per parlare con una donna; in quanto alla forma... bisogna osservare certe forme.

BIRON: E in quanto al seguito, messere?

ZUCCA: Lo si vedrà nella correzione che riceverò, e che Dio protegga il buon diritto!

RE: Volete ascoltare questa lettera con attenzione?

BIRON: Come ascolteremmo un oracolo.

ZUCCA: Tale è la sciocchezza umana, di ascoltar la voce della carne.

RE (leggendo): "Grande vicario, vicegerente del firmamento, ed unico dominatore di Navarra, Dio terreno dell'anima mia e almo patrono del mio corpo".

ZUCCA: Per adesso non una parola su Zucca.

RE: "Così stanno le cose...".

ZUCCA: Può darsi che stiano così, ma se egli dice che così stanno, a dire il vero, egli vale così così.

RE: Datti pace!

ZUCCA: ...a me, ed a tutti coloro che non osano battersi!

RE: Silenzio!...

ZUCCA: ...sui segreti altrui, ve ne supplico!

RE (leggendo): "Così stanno le cose: assediato dalla nigricante malinconia ho affidato il mio opprimente umor nero alla sommamente benefica medicina delle tue salutevoli aure, e, come sono un gentiluomo, mi sono dato a passeggiare. A che ora? intorno all'ora sesta, allorquando le bestie più vanno alla pastura, gli uccelli meglio beccano e gli uomini siedono a quel nutrimento che vien chiamato cena: e ciò basti per l'ora. E adesso veniamo al terreno, voglio dire il terreno sul quale passeggiavo: esso si noma il tuo parco. Veniamo quindi al luogo, il luogo voglio dire, in cui mi imbattei in quell'oscenissimo e indecentissimo fatto che trae fuori dalla mia penna candida come neve l'inchiostro dal color dell'ebano, che qui tu miri, contempli, osservi o vedi. Ma veniamo alla località:

essa è situata a tramontana e verso grecolevante dall'angolo occidentale del tuo dedaleo giardino. Colà scorsi quell'ignobile bifolco, quello spregevole omiciattolo dei tuoi sollazzi...".

ZUCCA: Io?

RE (leggendo): "... quell'illetterata anima ignorante..."

ZUCCA: Io?

RE (leggendo): "... quel vil meccanico..."

ZUCCA: Sempre io?

RE (leggendo): "... che, se ben mi appongo, si chiama Zucca..."

ZUCCA: Oh, io!

RE (leggendo): "... associato e consociato, contrariamente all'editto da te statuito e proclamato e al regolamento restrittivo, con... oh!

con... ma troppo è il mio patimento nel dire con chi!..."

ZUCCA: Con una ragazza.

RE (leggendo): "... con una figlia della nostra avola Eva, una femmina: o, perché più soavemente tu intenda, una donna. Lui ti ho mandato, come mi urge la sempiterna osservanza del mio dovere, affinché egli riceva il guiderdone del castigo dall'agente di Tua Grazia soave, Antonio Tonto, uomo di buona reputazione, condotta, comportamento ed estimazione".

TONTO: Parla di me, se vi piace: sono io Antonio Tonto.

RE (leggendo): "In quanto a Giacometta - così si chiama il vaso più fragile che sorpresi col sullodato villico - la trattengo qual vaso dell'ira della tua legge, ed al minimo tuo soave accenno la condurrò al giudizio. Tuo con tutti gli omaggi di un devoto fervor d'ossequio che m'arde le viscere, Don Adriano de Armado".

BIRON: Non è del calibro che mi aspettavo, ma è pur la cosa migliore che io abbia mai udito.

RE: Sì, la migliore alla rovescia! Ma, giovanotto, che cosa avete da replicare?

ZUCCA: Signore, confesso la ragazza.

RE: Avete udito il proclama?

ZUCCA: Confesso di averlo molto udito, ma poco ascoltato.

RE: Il proclama statuiva un anno di prigione a chi fosse sorpreso con una ragazza.

ZUCCA: Non sono stato sorpreso con alcuna ragazza, signore, sono stato sorpreso con una damigella.

RE: Bene, il proclama parlava di damigella.

ZUCCA: Ma quella non era nemmeno una damigella, era una vergine.

RE: Il proclama recava anche codesta variante, perché si riferiva anch'esso ad una vergine.

ZUCCA: Se così è, rinnego la sua verginità: sono stato sorpreso con una pulzella.

RE: Questa pulzella non vi gioverà a nulla, signor mio.

ZUCCA: Questa pulzella mi servirà, signore.

RE: Messere, voglio pronunziare la vostra condanna: rimarrete una settimana a dieta di crusca e acqua.

ZUCCA: Preferirei fare un mese di preghiere nutrendomi di brodo di montone!

RE: E Don Armado sarà il tuo guardiano. Monsignor Biron, badate voi a farglielo consegnare. E noi, signori, andiamo a mettere in pratica ciò che ognuno ha giurato all'altro con tanta fermezza.

 

(Escono il Re, Longaville e Dumain)

 

BIRON: Scommetterei la mia testa contro il cappello del primo venuto che quei giuramenti e quelle leggi si ridurranno ad una inutile beffa.

(A Zucca) Gaglioffo, venite!

ZUCCA: Soffro per la verità, messere, poiché è la pura verità che sono stato sorpreso con Giacometta, e Giacometta è una ragazza pura e sia benvenuta dunque l'amara coppa della prosperità! L'afflizione potrebbe un giorno sorridermi ancora, e, fino a quel momento, accomodati, o dolore!

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - La stessa

(Entrano ARMADO e TIGNOLA)

 

ARMADO: Ragazzo, che segno è quando un uomo di grande animo diventa malinconico?

TIGNOLA: Gran segno, messere, che avrà un aspetto triste.

ARMADO: Diamine, tristezza e malinconia sono la stessa identica cosa, mio caro bimbo.

TIGNOLA: No, no, Dio mio, no, signore!

ARMADO: Come puoi separare la tristezza dalla malinconia, mio tenero giovincello?

TIGNOLA: Per mezzo di una familiare dimostrazione dell'operazione, mio tiglioso anziano.

ARMADO: Perché tiglioso anziano? perché tiglioso anziano?

TIGNOLA: E perché allora tenero giovincello? perché tenero giovincello?

ARMADO: L'ho detto, oh tenero giovincello, come congruo epiteto confacente ai tuoi giovanili giorni che possiamo nominar teneri.

TIGNOLA: Ed io, tiglioso anziano, come titolo pertinente alla vostra antica età che possiamo nominar tigliosa.

ARMADO: Grazioso e appropriato.

TIGNOLA: Che volete dire, signore? Io grazioso, e il mio dire appropriato? oppure io appropriato, e il mio dire grazioso?

ARMADO: Tu sei grazioso, perché non sei grande.

TIGNOLA: Non sono grandemente grazioso poiché non sono grande. E per qual motivo appropriato?

ARMADO: Appropriato appunto, perché vivo.

TIGNOLA: Lo dite in mia lode, padrone?

ARMADO: In tua condegna lode.

TIGNOLA: Potrei dar lode ad un'anguilla negli stessi termini.

ARMADO: Come! dire che un'anguilla è pronta d'ingegno?

TIGNOLA: Che un'anguilla è viva.

ARMADO: Voglio dire che sei vivo nel rispondere. Mi fai scaldare il sangue!

TIGNOLA: Me lo tengo per detto, signore.

ARMADO: Non amo come discuti.

TIGNOLA (a parte): Afferma proprio il contrario; sono gli scudi che non amano lui!

ARMADO: Ho promesso di studiare tre anni col duca.

TIGNOLA: Potete farlo in un'ora, signore.

ARMADO: Impossibile.

TIGNOLA: Come calcolate un triplo?

ARMADO: Sono un cattivo calcolatore. La è roba da tavernai.

TIGNOLA: Ma voi siete un gentiluomo e un giocatore, messere.

ARMADO: Ammetto di esserlo: sono due doti che costituiscono la vernice di un uomo compito.

TIGNOLA: E allora sono certo che sapete a quanto ammonta l'intera somma di un tiro di dadi coll'asso e il due.

ARMADO: Ammonta ad un punto più di due.

TIGNOLA: Che il basso volgo chiama tre.

ARMADO: E' vero.

TIGNOLA: Ebbene, signore, vi par questo tale sforzo di studio? Ecco qua tre di studiato in minor tempo di quel che non impieghereste a battere tre volte le palpebre: quanto facile sia aggiungere la parola "anni" alla parola "tre", e studiare tre anni in due parole, ve lo potrà insegnare anche il famoso cavallo sapiente.

ARMADO: Ingegnoso tropo!

TIGNOLA: Per dimostrarvi che d'ingegno non ne avete troppo.

ARMADO: Voglio dopo ciò confessarti che sono innamorato, e siccome amare è cosa bassa per un soldato, così sono invaghito di una ragazza di bassa estrazione. Se sguainare la spada contro l'inclinazione amorosa potesse salvarmi dal depravato pensiero che ne serbo, vorrei far prigioniero l'Appetito e consegnarlo ad un qualsiasi cortigiano francese purché m'insegnasse in iscambio un inchino di nuovo conio. Io sdegno i sospiri, e credo che rinnegherei Cupido. Consolami, fanciullo; quali grandi uomini sono stati innamorati?

TIGNOLA: Ercole, padrone.

ARMADO: Soavissimo Ercole! Citami ancora altre autorità, mio caro ragazzo, ancora altre; e, mio soave fanciullo, fa' che siano uomini di buona reputazione e portamento.

TIGNOLA: Sansone, padrone; egli fu uomo di buon portamento, anzi di gran portamento, poiché si portò sulla schiena le porte della città come un facchino. Ed era innamorato.

ARMADO: Oh ben costrutto Sansone, nerboruto Sansone! Io ti supero nell'uso della spada come tu mi hai superato nel trasportare porte.

Anch'io sono innamorato. Chi era l'amata di Sansone, mio caro Tignola?

TIGNOLA: Una donna, signore.

ARMADO: Di quale colore?

TIGNOLA: Di tutti e quattro, o i tre, o i due, o uno dei quattro.

ARMADO: Dimmi esattamente di qual colore TIGNOLA: Di color verdemare, signore.

ARMADO: E' questo uno dei quattro colori?

TIGNOLA: Secondo quel che ho letto, signore, ed è anche il migliore di tutti.

ARMADO: In verità il verde è il colore degli amanti; ma mi pare che Sansone avesse poco da rallegrarsi avendo un'innamorata di quel colore. Certamente le voleva bene per la sua intelligenza.

TIGNOLA: Fu certo così, signore, poiché ella aveva una vivace e verde intelligenza.

ARMADO: L'amor mio è di un immacolato color bianco e rosso.

TIGNOLA: Maculatissimi pensieri, padrone, si celano sotto tali colori.

ARMADO: Spiegati, spiegati, o ben educato infante!

TIGNOLA: Che l'intelletto di mio padre e la lingua di mia madre mi assistano.

ARMADO: Dolce invocazione di un fanciullo, molto graziosa e commovente.

TIGNOLA (cantando):

Se ella è fatta di rosso e bianco, Niun suo fallo sarà mai scorto, Ché il volto arrossisce per qualche manco, E il timor appare dal bianco smorto:

E se paura o pudor la scuote, Non lo saprai dalla tinta Che l'arte ha messa sulle sue gote:

Natura non l'ha dipinta.

Versi che non la passan liscia, padrone, ai lisci bianchi e rossi.

ARMADO: Non c'è forse una ballata, ragazzo, che tratta del Re e della Mendicante?

TIGNOLA: Il mondo si è reso molto colpevole di una cosiffatta ballata circa tre secoli fa, ma credo che adesso non la si trovi più o, anche se la si trovasse, non farebbe al caso nostro né per le parole né per la musica.

ARMADO: Voglio che si riprenda a trattare quell'argomento, in modo che io possa giustificare la mia trasgressione citando un precedente di gran peso. Ragazzo, sono innamorato di quella campagnola che ho sorpreso nel parco con quell'animale ragionevole di Zucca: ella merita molto.

TIGNOLA (a parte): Sì, di esser frustata; ma anche di avere un innamorato migliore del mio padrone.

ARMADO: Canta, ragazzo; il mio spirito è oppresso dall'amore.

TIGNOLA: Cosa meravigliosa davvero, poiché l'amor vostro è una ragazza leggera!

ARMADO: Canta, dico.

TIGNOLA: Pazientate finché questa compagnia si allontani.

 

(Entrano TONTO, ZUCCA e GIACOMETTA)

 

TONTO: Signore, è volere del duca che mettiate al sicuro Zucca, e che non gli facciate provare alcuna delizia o nocumento, ma egli deve digiunare tre volte alla settimana. (Mostrando Giacometta) In quanto a questa damigella mi si comanda di tenerla nel parco, ove sarà impiegata come lattaia.

ARMADO: Mi tradisco arrossendo. (A Giacometta) Fanciulla!

GIACOMETTA: Uomo!

ARMADO: Verrò a farti visita alla casetta.

GIACOMETTA: E' qui presso.

ARMADO: So dove è situata.

GIACOMETTA: Signore Iddio, come siete istruito!

ARMADO: Ti dirò cose meravigliose.

GIACOMETTA: Con quel muso?

ARMADO: Ti amo.

GIACOMETTA: Così vi ho sentito dire.

ARMADO: Addio!

GIACOMETTA: ...e che il bel tempo vi accompagni!

TONTO: Suvvia, Giacometta, andiamo!

 

(Escono Tonto e Giacometta)

 

ARMADO: Canaglia, dovrai digiunare per i tuoi delitti prima di esser perdonato.

ZUCCA: Bene, messere, spero che quando digiunerò potrò farlo a stomaco pieno.

ARMADO: Sarai gravemente punito.

ZUCCA: Vi sarò grato più che non lo siano i vostri servi, poiché quelli li ricompensate assai lievemente.

ARMADO (a Tignola): Conduci via questo ribaldo, chiudilo in prigione!

TIGNOLA: Vieni, gaglioffo di trasgressore; via di qui!

ZUCCA: Non fatemi mettere in gabbia, messere; non datemi da mangiare, ma lasciatemi in libertà.

TIGNOLA: Già, e così me la daresti a bere tu. Andrai in prigione.

ZUCCA: Ebbene, se mai vedrò gli allegri giorni di desolazione che ho già visti, qualcuno dovrà vedere...

TIGNOLA: Che dovrà vedere qualcuno?

ZUCCA: No, niente, messer Tignola, all'infuori di ciò che gli cadrà sott'occhio. Non si addice ai prigionieri esser troppo silenziosi di parole, e perciò non voglio dir nulla. Grazie a Dio ho tanta poca pazienza quanta ne hanno gli altri, e per conseguenza saprò starmene tranquillo.

 

(Escono Tignola e Zucca)

 

ARMADO: Amo persino la terra, la quale è vile, che la scarpa di lei, che è ancor più vile, guidata dal suo piede che è vilissimo, calpesta.

Amando, diverrò spergiuro - il che è una gran prova di falsità. E come può mai essere leale amore quello che è intrapreso con falsità!

L'amore è uno spirito familiare, l'amore è un diavolo, non c'è altro angelo maligno che amore. Cionondimeno Sansone fu tentato così pur avendo una forza preclara, cionnondimeno Salomone fu sedotto così pur avendo una esimia saggezza. Il dardo di Cupido è stato troppo duro per la clava di Ercole, e di conseguenza ci sono troppe probabilità sfavorevoli per la spada di uno spagnolo. La prima e la seconda causa di sfida non fanno al raso mio: Cupido non presta la minima attenzione alla passata e non tiene in alcun pregio le buone regole del duello.

La sua vergogna è di esser chiamato fanciullo, ma la sua gloria è quella di soggiogare gli uomini. Addio, valore! arrugginisciti, spada!

taci, tamburo! poiché colui che vi maneggia è innamorato; sì, egli ama. Possa una qualche divinità estemporanea della rima venire in mio soccorso, poiché son certo che mi metterò a schiccherare sonetti.

Medita, ingegno! scrivi, penna! poiché mi sento in vena di stendere interi volumi in folio!

 

(Esce)

 

 

 

ATTO SECONDO

 

SCENA PRIMA - La stessa

(Entrano la PRINCIPESSA DI FRANCIA, ROSALINA, MARIA, CATERINA, BOYET, Signori ed altri del Seguito)

 

BOYET: Adesso, signora, chiamate a raccolta tutte le facoltà della vostra mente. Considerate che siete l'inviata di vostro padre; considerate a chi egli vi indirizza e qual è l'oggetto dell'ambasciata; che voi, che siete tenuta dal mondo in così alto concetto, negoziate con l'unico erede di tutte le perfezioni che sia dato ad uomo di possedere, con l'incomparabile re di Navarra; oggetto di queste trattative l'Aquitania, dote degna di una regina. Siate adesso prodiga delle vostre rare seduzioni come la natura lo fu nel renderle rare quando ne tenne digiuno tutto il resto dell'umanità e liberalmente le conferì tutte a voi.

PRINCIPESSA: Mio buon signor Boyet, la mia bellezza, per quanto scarsa, non abbisogna del colorito ornamento della vostra lode. Il valore della bellezza è dato dal giudizio dell'occhio e non da un vile imbonimento pronunciato dalla lingua del mercante. Io mi sento meno superba nel sentirvi far le mie lodi che voi non siate desideroso di esser considerato savio nell'usare il vostro ingegno per esaltare il mio. Ma adesso voglio fare a mia volta la lezione al mio maestro: mio caro Boyet, voi non ignorate - e la fama divulgatrice di tutto ha sparso intorno tal voce - che il re di Navarra ha fatto voto di trascorrere tre anni di studi laboriosi senza che alcuna donna si avvicini alla sua corte silenziosa. Perciò ci sembra cosa necessaria conoscere il suo beneplacito prima di varcare le sue porte vietate; e in rispetto a ciò, fidente nel vostro merito, vi scegliamo come il nostro più suasivo ed equanime procuratore. Ditegli che la figlia del re di Francia, impaziente di venire ad un pronto accordo su affari importanti, sollecita un colloquio personale con Sua Grazia.

Affrettatevi a fargli sapere questo mentre noi attenderemo, come umili postulanti, il suo alto volere.

BOYET: Orgoglioso della mia missione vado ben volentieri.

PRINCIPESSA: Ogni orgoglio è volonteroso, e tale è anche il vostro.

(Esce Boyet) Chi sono i professi, miei amabili signori, i compagni di voto di questo virtuoso sovrano?

PRIMO SIGNORE: Lord Longaville è uno di loro.

PRINCIPESSA: Lo conoscete?

MARIA: Lo conosco, signora. Ho veduto questo Longaville ad un festino di nozze, celebrate in Normandia, tra lord Perigot e la leggiadra erede di Giacomo Falconbridge. E' stimato uomo di merito sovrano, versato nelle arti e glorioso nelle armi. Riesce in tutte le cose in cui desidera riuscire. L'unica macchia sopra lo splendore della sua bella virtù - seppure lo splendore della virtù può essere offuscato da macchia alcuna - è l'unione di un intelletto acuto ad una volontà troppo ottusa. Il suo intelletto ha il potere di tagliare e la sua volontà si ostina a non voler risparmiare nessuno di quelli che cadono in suo potere.

PRINCIPESSA: Un signore allegro e motteggiatore, immagino; non è così?

MARIA: Così dicono soprattutto quelli che meglio conoscono il suo carattere.

PRINCIPESSA: Codesti spiriti volatili fanno presto a consumarsi. Chi sono gli altri?

CATERINA: Il giovane Dumain, un giovanotto compìto, amato per le sue doti da tutti quelli che amano la virtù. Sarebbe in grado di fare grandissimo danno pur essendo ignaro del male, poiché egli ha tale spirito da fare apparire buona una mala forma, e tale forma da entrar nelle altrui grazie anche senza spirito. Lo vidi una volta dal duca d'Alençon, e tutto il bene che dico di lui è molto al disotto dei suoi grandi meriti.

ROSALINA: Un altro di questi studiosi era con lui in tale epoca, se non m'inganno un tale chiamato Biron, e non ho mai trascorso un'ora di chiacchiere, entro il limite di una decorosa allegria, con un uomo più allegro. Il suo occhio porge occasione al suo spirito, poiché ogni oggetto che quello afferra è trasformato dall'altro in uno scherzo divertente che la sua abile lingua, interprete dell'idea, espone in parole così appropriate e graziose da far sì che le orecchie delle persone anziane si distraggano per ascoltare i suoi racconti e quelle dei giovani siano addirittura incantate, tanto soave e fecondo è il suo eloquio.

PRINCIPESSA: Che Iddio vi benedica, signore mie! Siete forse tutte innamorate, che ciascuna di voi ha coperto il suo preferito di così adorne vesti d'elogi?

PRIMO SIGNORE: Ecco Boyet.

 

(Rientra BOYET)

 

PRINCIPESSA: Ebbene, quale accoglienza, signore?

BOYET: Il re di Navarra era informato del vostro grazioso arrivo; e tanto lui che i suoi associati nel giuramento erano preparati ad incontrarvi, gentile signora, già prima che io venissi. Ma diamine, ecco quanto sono venuto a sapere. Egli preferisce farvi alloggiare sul campo, come uno qui venuto ad assediare la sua corte, piuttosto che dispensarsi dal giuramento e farvi entrare nella sua dimora disabitata. Ma ecco il re di Navarra.

 

(Entrano il RE, LONGAVILLE, DUMAIN, BIRON e Gente del seguito)

 

RE: Bella principessa, benvenuta alla corte di Navarra.

PRINCIPESSA: In quanto a "bella" ve lo restituisco e in quanto a "benvenuta" non lo sono ancora. La volta di questa corte è troppo elevata per essere vostra, e l'ospitalità in aperta campagna è cosa troppo umile per esser mia.

RE: Signora, sarete la benvenuta nella mia corte.

PRINCIPESSA: Allora sì sarò benvenuta; conducetemi laggiù.

RE: Ascoltatemi, cara signora; ho fatto un giuramento.

PRINCIPESSA: Che la Madonna vi aiuti: diverrete spergiuro!

RE: Per nulla al mondo, almeno volontariamente, bella signora!

PRINCIPESSA: Ebbene, la mia volontà spezzerà la vostra, e nulla più.

RE: Vostra Signoria ignora di che si tratta.

PRINCIPESSA: Se anche voi lo ignoraste, la vostra ignoranza sarebbe saggezza, mentre adesso la vostra sapienza si dimostrerà ignoranza.

Sento che Vostra Grazia ha fatto voto contro il tener casa aperta; signor mio, è un peccato mortale mantenere un tal giuramento ed è peccato anche violarlo. Ma perdonatemi, sono troppo ardita, ed insegnare ad un maestro mal mi si addice. Degnatevi di leggere lo scopo della mia venuta e rispondere immediatamente alla mia supplica.

RE: Signora, lo farò, se sarà possibile, immediatamente.

PRINCIPESSA: Vi affretterete a farlo perché io me ne vada al più presto, giacché diverrete spergiuro obbligandomi a trattenermi.

BIRON (a Rosalina): Non ho danzato con voi una volta in Brabante?

ROSALINA: Non ho danzato con voi una volta in Brabante?

BIRON: Certamente.

ROSALINA: Che domanda inutile fu dunque la vostra!

BIRON: Non dovete esser così brusca!

ROSALINA: E' colpa vostra che mi punzecchiate con tali domande.

BIRON: Il vostro spirito è troppo focoso, corre troppo veloce e finirà collo stancarsi.

ROSALINA: Non prima di aver gettato il cavaliere nel pantano.

BIRON: Che ora è?

ROSALINA: L'ora in cui gli sciocchi la chiedono.

BIRON: Buona fortuna alla vostra maschera!

ROSALINA: Buona fortuna alla faccia che ricopre!

BIRON: E che possiate avere molti innamorati!

ROSALINA: Amen! Purché non siate voi uno di loro.

BIRON: Non dubitate: me ne vado.

RE (alla Principessa): Signora, vostro padre qui propone il pagamento di centomila corone, equivalente soltanto alla metà dell'intera somma sborsata per lui da mio padre nelle sue guerre. Ma anche supponendo che lui, o noi, avessimo ricevuto tale somma - il che non è accaduto - rimarrebbero tuttavia ancora da pagare altre centomila corone, a garanzia delle quali teniamo sotto di noi una parte dell'Aquitania, sebbene non la si stimi del valore di quel denaro. Se poi il re vostro padre vuol solo restituire quella metà che non è stata ancor pagata, noi rinunceremo al nostro diritto sull'Aquitania e rimarremo in buoni rapporti di amicizia con Sua Maestà. Ma non pare che egli abbia tale intenzione poiché chiede che gli siano restituite centomila corone invece di offrirsi, col pagamento di centomila corone, a far rivivere i suoi diritti sull'Aquitania: la quale avremmo preferito di cedere ed avere il danaro prestato da nostro padre, piuttosto che l'Aquitania, così scaduta di valore com'è. Cara principessa, se le richieste di vostro padre non fossero così al di sopra di quanto la ragione può cedere, la vostra bellezza avrebbe ottenuto da me tal cessione quale avrebbe contrastato a qualche ragione nel mio cuore, e sareste tornata soddisfatta in Francia.

PRINCIPESSA: Fate gran torto al re mio padre ed alla reputazione del nome vostro nel dimostrarvi così recalcitrante a confessare di aver ricevuto ciò che fu coscienziosamente pagato.

RE: Dichiaro che non ne ho mai sentito parlare, e se me lo proverete restituirò la somma o cederò l'Aquitania.

PRINCIPESSA: Vi prendiamo in parola. Boyet, potete esibire le ricevute per tal somma firmate da funzionari incaricati dal padre di Carlo.

RE: Datemi queste prove.

BOYET: Con licenza di Vostra Grazia, il plico in cui sono racchiusi questo ed altri documenti non è ancor giunto. Domani potrete vederli.

RE: Ciò mi basterà, ed in tale conferenza mi sottometterò ad ogni onesto e giusto accomodamento. Frattanto riceverete da me quella accoglienza che l'onor mio, senza offesa all'onore, può offrire al vostro grande merito. Non posso concedervi di varcare le mie porte, o bella principessa, ma qui fuori del palazzo sarete ricevuta in tal modo da credervi alloggiata nel mio cuore, anche se vi è negato un ulteriore accesso nella mia casa. Che la vostra indulgenza mi giustifichi, e intanto addio: domani verremo di nuovo a farvi visita.

PRINCIPESSA: Buona salute e prosperi desideri accompagnino Vostra Grazia!

RE: Vi auguro altrettanto in ogni luogo!

 

(Esce)

 

BIRON (a Rosalina): Signora, vi raccomanderò al mio cuore!

ROSALINA: Vi prego di raccomandarmi bene; sarei lieta di vederlo.

BIRON: Vorrei che lo sentiste gemere.

ROSALINA: Avete l'anima malata?

BIRON: Malata al cuore.

ROSALINA: Ahimè! Cavategli sangue.

BIRON: Gli farebbe bene?

ROSALINA: La mia scienza medica dice di sì.

BIRON: Volete trafiggerlo coi vostri occhi?

ROSALINA: Niente affatto, ma col mio coltello sì.

BIRON: Che Dio vi conservi a lungo in vita.

ROSALINA: E voi che vi salvi dal vivere a lungo!

BIRON: Non ho tempo per rendervi grazie.

 

(Si allontana)

 

DUMAIN (mostrando Caterina a Boyet): Signore, ve ne prego, una parola.

Chi è quella signora?

BOYET: L'erede di Alençon, e il suo nome è Caterina.

DUMAIN: Una donna in gamba, Signore, arrivederci.

 

(Esce)

 

LONGAVILLE (mostrando Maria a Boyet): Vi supplico, una parola: chi è quella vestita di bianco?

BOYET: La dirà una donna chi la leggerà.

LONGAVILLE: Forse chi la leggerà la troverà leggera. Desidero il suo nome.

BOYET: Ne possiede solamente uno, e desiderare di toglierglielo sarebbe una vergogna.

LONGAVILLE: Vi prego, messere, di chi è figlia?

BOYET: Di sua madre, a quanto ho sentito dire.

LONGAVILLE: Che Dio benedica la vostra barba!

BOYET: Mio buon signore, non offendetevi: essa è l'erede di Falconbridge.

LONGAVILLE: Adesso la mia collera è bell'e terminata; è una signora veramente incantevole.

BOYET: Non è improbabile, messere, e può darsi benissimo.

 

(Esce Longaville)

 

BIRON (mostrando Rosalina a Boyet): Come si chiama quella col cappello?

BOYET: Rosalina, per ventura.

BIRON: E' sposata o no?

BOYET: Sì, alla propria volontà, o giù di lì.

BIRON: Siete il benvenuto, messere. Addio.

BOYET: Addio a me, signore, ed il benvenuto a voi.

 

(Esce Biron)

 

MARIA: Quello là è Biron, un gaio signore balzano; con lui non si può scambiare una parola che non sia uno scherzo.

BOYET: E tutti i suoi scherzi non sono che parole.

PRINCIPESSA: Avete fatto bene a non lasciargli aver l'ultima parola.

BOYET: Avevo altrettanta voglia di arroncigliarmi con lui quanta egli ne aveva di venire all'arrembaggio con me.

MARIA: Diamine, due galli battaglieri!

BOYET: E perché no due galeoni ? Gallo no di certo, pulcino mio, a meno che non mi lasciate beccare sulle vostre labbra.

MARIA: Voi gallo ed io becchime. E' questa la chiusa dello scherzo?

BOYET: Purché mi concediate il diritto di beccare.

 

(Cerca di abbracciarla)

 

MARIA: Adagio, gentile animale: le mie labbra non sono un prato pubblico, ma un campo privato.

BOYET: Ed a chi appartengono?

MARIA: Alle mie fortune ed a me.

PRINCIPESSA: I begli ingegni vogliono sempre accapigliarsi, ma voi, anime gentili, restate d'accordo! Questa guerra civile d'ingegni sarebbe molto più appropriata contro il re di Navarra ed i suoi studiosi, poiché qui è fuori luogo.

BOYET: Se la mia penetrazione, che di rado mentisce nel decifrare negli occhi la muta eloquenza del cuore, non mi inganna adesso, il re di Navarra è infetto.

PRINCIPESSA: Di che?

BOYET: Di ciò che noi innamorati chiamiamo affetto.

PRINCIPESSA: E che prove ne avete?

BOYET: Diamine, tutte le sue azioni esteriori si ritirarono nella corte degli occhi, socchiusi dal desiderio. Il suo cuore, come un'agata in cui sia incisa la vostra stampa, superbo della sua forma, esprimeva l'orgoglio coll'occhio. La sua lingua, insofferente di aver soltanto il potere di parlare ma non quello di vedere, si imbrogliò per la fretta di trasferirsi nella vista di lui. Tutti i suoi sensi si rifugiarono in quell'unico senso, per concentrarsi soltanto nella contemplazione di quella bella tra le belle. Mi parve che tutti i suoi sensi fossero racchiusi nei suoi occhi come gioielli nel cristallo per essere comprati da un principe; offrendo il loro pregio sotto la loro custodia di vetro sollecitavano d'esser comprati mentre passavate voi.

Le postille del suo volto mostravano una tale sorpresa che tutti gli occhi vedevano i suoi occhi incantati dall'oggetto contemplato. Vi dono l'Aquitania e tutto ciò che gli appartiene se gli darete, per farmi contento, solo un bacio d'amore.

PRINCIPESSA: Venite nel nostro padiglione! Boyet e ben disposto...

BOYET: ...solamente a svelare in parole ciò che i suoi occhi hanno scoperto. Ho solo fatto dei suoi occhi una bocca, aggiungendovi una lingua che sicuramente non mentirà.

ROSALINA: Sei un vecchio mezzano e parli molto abilmente.

MARIA: E' il nonno di Cupido, e da lui viene a conoscere molte nuove.

ROSALINA: Allora Venere doveva somigliare a sua madre, poiché suo padre è brutto.

BOYET: Avete udito, pazzerelline mie?

MARIA: No.

BOYET: Avete visto, allora?

ROSALINA: Sì, la via per andarcene.

BOYET: Con voi non ce la posso!

 

(Escono)

 

 

 

ATTO TERZO

 

SCENA PRIMA - La stessa

(Entrano ARMADO e TIGNOLA)

 

ARMADO: Gorgheggia, fanciullo: inebria il mio udito.

TIGNOLA (cantando): Concolinel.

ARMADO: Soave aria! Va', tenerezza d'anni, prendi questa chiave, rendi la libertà al villico e conducilo qui festinatamente. Voglio servirmene per recare una lettera all'amor mio.

TIGNOLA: Volete conquistare l'amor vostro con un trescone francese?

ARMADO: Che vuoi dire? Trescare in francese!

TIGNOLA: No, mio compìto padrone, ma cantarellare una giga a fior di labbra, scambiettando a quell'aria coi piedi vostri, secondandola coll'alzare gli occhi al cielo, sospirando una nota e cantandone un'altra, talvolta attraverso la gola come se doveste inghiottire l'amore nel cantare d'amore, talvolta attraverso il naso come se aspiraste l'amore odorandolo. Col cappello a mo' di tettoia sulla bottega degli occhi vostri, colle braccia incrociate sul giustacuore che vi copre il magro ventre, come un coniglio schidionato, oppure con le mani in tasca, come usavano dipingere gli antichi pittori. E non insistete troppo sopra un sol motivo, ma cantatene solo un pezzetto, e via! Questi sono gli accorgimenti e i modi per cogliere in trappola le ragazze vanesie, che si lascerebbero mettere in trappola anche senza di quelli, e che richiaman l'attenzione - me la prestate, signori? - sui signori che li coltivano.

ARMADO: Come ti sei acquistato una tale esperienza?

TIGNOLA: Con un soldo di osservazione.

ARMADO: Ma oh... ma oh...

TIGNOLA: ... "Il cavallin di legno si scordò".

ARMADO: Vorresti chiamare il mio amore, un cavallino di legno?

TIGNOLA: No, padrone. Il cavallino di legno non è che un puledro, ed il vostro amore è forse una giumenta. Ma avete forse scordato la vostra amata?

ARMADO: Quasi.

TIGNOLA: Oh negligente scolaro, mettetevela in cuore!

ARMADO: In cuore e nel cuore, ragazzo.

TIGNOLA: Ed anche senza cuore, padrone, e riuscirò a provarvi tutte e tre le cose.

ARMADO: Che cosa vuoi riuscire?

TIGNOLA: Un uomo, se vivo; e a provarvi questo "in", "nel" e "senza", sull'istante. Voi l'amate "in" cuore, poiché la sua vista v'incuora ad amarla; l'amate "nel" cuore, poiché il cuore vostro è innamorato di lei; e l'amate "senza" cuore, essendo scorato di non poterla godere.

ARMADO: Io sono tutte e tre queste.

TIGNOLA (a parte): E anche se tu fossi tre volte tanto, seguiteresti a esser nulla.

ARMADO: Mena qui il villico: mi deve portare una lettera.

TIGNOLA: Un messaggio bene assortito davvero! Il cavallaccio che fa da ambasciatore all'asino.

ARMADO: Ah ah! cosa dici?

TIGNOLA: Diamine, signore, dovreste mandare l'asino a cavalcioni di un destriero, poiché cammina lemme lemme. Ma vado.

ARMADO: Il cammino è breve. Via!

TIGNOLA: Sarò veloce come il piombo, messere.

ARMADO: Che intendi dire, ingegnoso frugolo? il piombo non è forse un metallo pesante, inerte e lento?

TIGNOLA: Minime, onorevole padrone: o piuttosto, niente affatto, padrone.

ARMADO: Dico che il piombo è lento.

TIGNOLA: Siete troppo veloce, signore, nell'affermarlo: è forse lento quel piombo che è sparato fuori dalla bocca di un cannone?

ARMADO: Oh dolce fumo di retorica! Egli mi reputa un cannone e lui sarebbe la palla... Allora ti sparo sul villico!

TIGNOLA: Bum! Ed io volo.

 

(Esce)

 

ARMADO: Astutissimo giovincello, eloquente e pieno di grazia! Col tuo permesso, o dolce cielo, devo sospirarti in faccia. Oh rude malinconia, il valore ti cede il suo posto. Ecco di ritorno il mio araldo.

 

(Rientra TIGNOLA con ZUCCA)

 

TIGNOLA: Un miracolo, padrone! Ecco una zucca che si è rotta una tibia.

ARMADO: Una sciarada o un indovinello. Suvvia, di' il tuo congedo, comincia.

ZUCCA: Niente sciarappa, niente indovinello, niente congedo, niente salvia nella bisaccia, signore. Oh, signore, piantaggine, soltanto un po' di piantaggine! Niente congedo, niente congedo, e niente salvia, signore, ma solo piantaggine.

ARMADO: Per la virtù! tu mi muovi al riso. Le tue scempiaggini mi agiscono sulla milza, ed il gonfiarsi dei miei polmoni mi stimola ad un ridicoloso sorriso. Oh, perdonatemi, stelle! Forse che questo scimunito prende la salvia per una specie di congedo, e i congedi per salvie?

TIGNOLA: E forse che il savio le considera altrimenti? Un congedo non equivale a un "salve"?

ARMADO: No, paggio. E' un epilogo o discorso che serve a spiegare qualche oscuro precedente che è stato anzidetto. Te ne darò un esempio:

La volpe, la scimmia ed il pecchione Erano in caffo, tre in addizione.

Questa è la proposizione, e adesso passiamo al congedo.

TIGNOLA: Il congedo voglio aggiungerlo io. Ripetetemi la proposizione.

ARMADO: La volpe, la scimmia ed il pecchione Erano in caffo, tre in addizione.

TIGNOLA: Ma quando l'oca fuori si mostrò, Aggiunse un quarto, e il caffo eliminò.

E adesso comincerò io con la vostra proposizione, e voi mi terrete dietro col mio congedo:

La volpe, la scimmia ed il pecchione Erano in caffo, tre in addizione.

ARMADO: Ma quando l'oca fuori si mostrò, Aggiunse un quarto, e il caffo eliminò.

TIGNOLA: Un buon congedo che fa il becco all'oca. Ne desiderate ancora?

ZUCCA: Il ragazzo gliel'ha venduta bella, gli ha dato dell'oca, questo è manifesto. Signore, il vostro denaro sarà bene speso se l'oca è grassa. A saperla vendere bene ci vuol tanta abilità quanto a far veder lucciole per lanterne. Vediamo un po': è un congedo bello grasso, un'oca grassa.

ARMADO: Suvvia, suvvia, come è cominciata questa discussione?

TIGNOLA: Dicevo che una zucca si era rotto lo stinco e allora mi avete chiesto il congedo.

ZUCCA: E' vero, ed io la piantaggine, e così entrò in ballo anche il vostro argomento. Seguì poi il grasso congedo del ragazzo, cioè l'oca che v'ha data, e così fu fatto il becco all'oca.

ARMADO: Ma ditemi: come fu che una zucca si spezzò lo stinco?

TIGNOLA: Ve lo spiegherò in modo sensibile.

ZUCCA: Tu non senti la cosa, Tignola; quel congedo voglio dirlo io:

Io, Zucca, per svignarmela, battei tale un cazzotto Che proprio sulla soglia lo stinco mi son rotto.

ARMADO: Non parleremo più di questa materia.

ZUCCA: Almeno finché non ci sarà altra materia nel mio stinco.

ARMADO: Sor Zucca, ti voglio affrancare.

ZUCCA: Oh, sì, fatemi sposare una Franca! Sento già un certo odore di congedo e d'oca in tal faccenda.

ARMADO: Per l'anima mia dolce, intendo dire che ti voglio rendere la libertà, dar franchigia alla tua persona. Tu eri murato, costretto, captivato, confinato.

ZUCCA: E' vero, è vero, e adesso sarete voi il mio purgativo che mi scioglierà il corpo.

ARMADO: Ti rendo la libertà tua e ti sciolgo dalla prigionia, in luogo della quale ti impongo solamente una condizione, ossia che tu rechi questa missiva alla forosetta Giacometta. Ed ecco la rimunerazione, poiché la più efficace guardia dell'onor mio consiste nel riguardo che ho per i miei dipendenti. Tignola, seguimi!

TIGNOLA: Sì, come una coda. Signor Zucca, addio.

ZUCCA: Mia soave oncia di carne umana! Mio inebriante giovinetto!

(Esce Tignola) E adesso diamo un'occhiata alla sua rimunerazione! Oh, è la parola latina che significa tre centesimi: tre centesimi è come dire rimunerazione. "Quanto costa questo nastro?". "Un soldo". "No, ve ne darò una rimunerazione"; e così l'affare è fatto. Rimunerazione! In fondo è una parola più bella che corona francese. Non voglio mai più far compre o vendite senza servirmene.

 

(Entra BIRON)

 

BIRON: Oh, mio buon diavolo Zucca! Che incontro straordinariamente fortunato!

ZUCCA: Vi prego, messere, quanto nastro di color carnicino si può acquistare per una rimunerazione?

BIRON: Che cos'è una rimunerazione?

ZUCCA: Diamine, messere, mezzo soldo più un centesimo.

BIRON: Oh, ebbene allora tre centesimi di seta.

ZUCCA: Ringrazio la Signoria Vostra. Che Dio sia con voi!

BIRON: Rimani, gaglioffo, ho una commissione da affidarti. Se vuoi acquistarti la mia benevolenza, mio buon diavolo, fa' per me ciò che ti chiederò.

ZUCCA: Quando volete che sia fatto, messere?

BIRON: Questo pomeriggio.

ZUCCA: Bene, lo farò, messere. Statevi bene.

BIRON: Ma se non sai nemmeno di che si tratta!

ZUCCA: Verrò a saperlo, messere, quando l'avrò fatto.

BIRON: Birbante, è prima che devi saperlo!

ZUCCA: Verrò domattina dalla Signoria Vostra.

BIRON: E' cosa da farsi stasera. Ascolta, gaglioffo, non si tratta che di questo: la principessa verrà a cacciare qui nel parco e del suo seguito fa parte una gentile signora. Quando le lingue parlano con dolcezza, pronunciano il suo nome e la chiamano Rosalina. Chiedi di lei, e guarda di affidare alla sua bianca mano questo messaggio sigillato. Ecco il tuo guiderdone, va'.

ZUCCA: Guirdone, oh soave guirdone, molto migliore della rimunerazione, superiore ad essa di undici soldi e un centesimo.

Dolcissimo guirdone! Eseguirò tutto a puntino, messere. Guirdone!

Rimunerazione!

 

(Esce)

 

BIRON: E io sarei veramente innamorato, io che sono stato lo scudiscio dell'amore, un vero aguzzino dei sospiri patetici, un censore, anzi, una guardia notturna, un pedante intento a strapazzare quel fanciullo che nessun mortale eguaglia in magnificenza! Quel fanciullo bendato, piagnucoloso, cieco, capriccioso, quel giovane vegliardo, quel nano che ha la forza di un gigante, don Cupido: governatore delle rime amorose, signore delle braccia incrociate, monarca consacrato dei gemiti e dei sospiri, sovrano di tutti i fannulloni e di tutti i mal contenti, temuto principe delle gonnelle, re delle braghette, unico imperatore e gran generale degli apparitori indaffarati. Oh mio cuoricino! Ed ecco che sono diventato il suo aiutante di campo e che indosso i suoi colori come il cerchio di un saltimbanco! Come? Io dunque amo, corteggio, mi cerco una moglie? Una donna simile ad un orologio tedesco, sempre in riparazione, sempre sconquassato e che non va mai bene, dacché è una sveglia, se non la si sorveglia continuamente affinché possa andar bene! E sono anche spergiuro, il che è peggio di tutto ed amo, delle tre, la peggiore, una sgualdrina dilavata dalla fronte di velluto con due pallottole di pece ficcate al posto degli occhi! Sì, per il cielo, una che saprebbe soddisfare le sue voglie anche se Argo dovesse essere il suo eunuco e il suo guardiano. Ed io mi sono messo a sospirare per lei, a vegliare per lei, a pregare per averla! Suvvia, è un castigo che Cupido mi impone per aver disconosciuto il suo onnipotente terribile piccolo potere.

Ebbene, mi toccherà amare, scrivere, sospirare, pregare, corteggiare e gemere. Alcuni sono destinati ad amare madonna, altri Marcolfa.

 

(Esce)

 

 

 

ATTO QUARTO

 

SCENA PRIMA - La stessa

(Entrano la PRINCIPESSA, ROSALINA, MARIA, CATERINA, BOYET, Signori, Personaggi del seguito ed un Guardaboschi)

 

PRINCIPESSA: Era il re quello che ha spronato tanto gagliardamente il suo cavallo su per il fianco scosceso della collina?

BOYET: Non so, ma credo non fosse lui.

PRINCIPESSA: Chiunque egli fosse, ha mostrato un animo tendente a salire. Bene, signori oggi finiremo di sbrigare le nostre faccende e sabato torneremo in Francia. Dunque guardaboschi, amico mio, dov'è la macchia in cui dobbiamo metterci alla posta per recitare la parte di assassini?

GUARDABOSCHI: Qui presso, al limite di quel boschetto; è una posta da cui potrete fare il più bel colpo.

PRINCIPESSA: Rendo grazie alla mia bellezza: essendo bella io che faccio il colpo, hai ragione di parlare di un bel colpo.

GUARDABOSCHI: Perdonatemi, signora, poiché non intendevo dir questo.

PRINCIPESSA: Come, come? Prima mi lodi, e poi rinneghi quello che hai detto! Oh breve vanità! Non sono bella? Ahimè!

GUARDABOSCHI: Sì, signora, siete bella.

PRINCIPESSA: No, smetti di farmi il ritratto. Dove non c'è bellezza, le lodi non possono certo migliorare il volto. (Dandogli del denaro) Ecco, mio bravo specchio, prendi questo per avermi detto il vero: una bella mancia per delle parole brutte è un pagare più del dovuto.

GUARDABOSCHI: Non è altro che bello ciò che vi appartiene.

PRINCIPESSA: Senti, senti! la mia bellezza si salva per le mie opere.

Oh eresia del bello, ben degna dell'età nostra! Una mano che dona, anche se brutta, avrà bella lode. Suvvia, dammi l'arco; adesso la pietà va ad uccidere, ed il tirar bene sarà da lei considerato un male. In tal modo salverò la mia reputazione nell'arte di scagliare le frecce; se mancherò il colpo diranno che la pietà mi ha vietato di colpire, e se darò nel segno diranno che l'ho fatto per mostrare la mia destrezza e che ho voluto uccidere più per averne lode che per deliberato proposito. E certamente così accade talvolta, che la gloria si macchia di delitti abbominevoli, allorquando per amor di fama o lode - vanità esteriori! - noi sottomettiamo ad essa la vera inclinazione del cuore. Come faccio io ora, che per averne lode cerco di spargere il sangue di un povero daino a cui il mio cuore non vuole alcun male?

BOYET: Forse che le mogli bisbetiche non mantengono la loro mezza sovranità soltanto per amor di lode, allorquando cercano di diventar padrone dei loro signori?

PRINCIPESSA: Solo per amor di lode: e possiamo tributar lode a qualsiasi signora che soggioga un signore.

 

(Entra ZUCCA)

 

BOYET: Ecco avanzarsi un membro della repubblica.

ZUCCA: Bocegiorno a tutti! Vi prego, chi è la signora in capo?

PRINCIPESSA: Compare, la riconoscerai guardando le altre che non hanno capo.

ZUCCA: Qual è la signora più grande e più alta?

PRINCIPESSA: La più grossa e la più lunga.

ZUCCA: La più grossa e la più lunga! Proprio così, e la verità è la verità Se la vostra vita, padrona, fosse sottile come il mio spirito, la cintura di una di queste fanciulle vi si adatterebbe benissimo. Non siete voi la capitana? Siete la più grossa qui.

PRINCIPESSA: Che volete, messere, che volete?

ZUCCA: Ho una lettera da parte del signor Biron per una certa signora Rosalina.

PRINCIPESSA: Dammi, dammi la lettera! E' un mio buon amico. Mettiti in disparte, buon messaggero. Boyet, voi che sapete fare il pollo, apritemi questo cappone.

BOYET: E' dover mio. Questa lettera ha sbagliato indirizzo e non concerne alcun di qui. E' indirizzata a Giacometta.

PRINCIPESSA: La leggeremo, sulla mia parola! Tirate il collo a quel sigillo, e che ciascuno presti orecchio.

BOYET (leggendo): "Per il cielo, che tu sia bella è verità infallibile, ed è vero pure che sei graziosa, ed è la pura verità che sei amabile. Oh, tu che sei più bella della bellezza, più graziosa della grazia, più verace della verità stessa, abbi misericordia del tuo eroico vassallo! Il magnanimo e illustrissimo re Cofetua pose gli occhi sulla perniciosa e autentica mendica Senelofon, e proprio lui che avrebbe potuto a buon diritto dire: 'veni, vidi, vici', il che, notomizzato in eloquio volgare (oh vile ed oscuro volgar eloquio!), equivale a 'venne, vide e vinse '. Venne: uno; vide: due; vinse: tre.

E chi venne? Il re. Perché venne? Per vedere. Perché vide? Per vincere. Da chi venne? Dalla mendica. Che vide? La mendica. Chi vinse egli? La mendica. Conclusione, la vittoria. Da parte di chi? Del re.

La captiva fu arricchita: da parte di chi? Della mendica. La catastrofe è uno sposalizio. Da parte di chi? Del re. No, di entrambi in uno o di uno in entrambi. Io sono il re, poiché così comporta il paragone, e tu la mendica, poiché così attesta la tua umile condizione. Dovrei comandare il tuo amore? Posso farlo. Dovrei forzarlo? Potrei farlo. Dovrei supplicarti di amore? Questo voglio fare. Con qual cosa muterai i tuoi resti? Con delle vesti. E i tuoi bricioli? Con dei titoli. E te stessa? Con me. E così, in attesa della tua risposta, profano le mie labbra sui tuoi piedi, i miei occhi sulla tua immagine, e il mio cuore su ogni parte di te.

Tuo nel più ardente desiderio di servirti.

Don Adriano de Armado.

Odi il leone di Nemea ruggire Contro te, agnella, preda sua tra poco; Cadi sommessa ai piedi di quel sire, Ed ei si volgerà dal pasto al gioco.

Che sarai, se un diniego opponi cieco?

Esca al furore, e cibo pel suo speco".

PRINCIPESSA: Che pennacchio è mai colui che vergò questa lettera? Che stendardo? Che banderuola? Avete mai udito nulla di meglio?

BOYET: M'inganno parecchio o mi pare di ricordare questo stile.

PRINCIPESSA: Avreste una memoria molto corta se l'aveste così presto dimenticato.

BOYET:. Questo Armado è uno spagnolo che vive qui a corte: un essere strambo, un Monarco che serve da divertimento al principe ed ai suoi compagni di studio.

PRINCIPESSA: Giovanotto, una parola! Chi ti ha dato questa lettera?

ZUCCA: Ve l'ho detto: il mio signore.

PRINCIPESSA: E a chi dovresti consegnarla?

ZUCCA: Da parte del mio signore alla mia signora.

PRINCIPESSA: Da parte di qual signore a quale signora?

ZUCCA: Da parte di monsignor Biron, il mio buon padrone, ad una signora dl Francia che egli ha chiamata Rosalina.

PRINCIPESSA: Hai dato un'altra lettera al posto della sua. Suvvia, signori, andiamo. (A Rosalina) Mettila in serbo, cara; riceverai un altro giorno quella che ti era destinata.

 

(Escono la Principessa e il Seguito)

 

BOYET: Chi è il settatore? Chi è il settatore?

ROSALINA: Debbo insegnarvelo?

BOYET: Sì, compendio di ogni bellezza!

ROSALINA: Diamine, colui che tira saette. Ben parata la stoccata!

BOYET: Madonna se n'è andata ad uccidere animali cornuti. Ma, nel caso che vi sposiate, voglio essere impiccato per la gola se in quell'anno i cornuti faranno difetto. Ben tirata la stoccata!

ROSALINA: Benone, ma io sono la saettatrice!

BOYET: E chi è il vostro cervo?

ROSALINA: Se dovessimo giudicar dalle corna, voi stesso, e perciò non avvicinatevi. Ben tirata davvero la stoccata!

MARIA: Vi accapigliate continuamente con lei, Boyet ed ella vi ha colpito in fronte.

BOYET: Ma lei è stata colpita più in basso. Vi pare che io l'abbia colpita adesso?

ROSALINA: Vuoi che ti assalga con un vecchio adagio che era già adulto quando il re di Francia, Pipino, era ancora un ragazzetto, e che si riferisce al colpire nel segno?

BOYET: Purché allora io possa risponderti con una massima altrettanto vecchia, che era già donna quando la regina Ginevra di Britannia era ancora bambinetta, e che si riferisce al colpire nel segno.

ROSALINA: Tu non puoi, tu non puoi, tu non puoi colpire Tu non puoi colpir, fatti in là.

BOYET: S'io non posso, non posso, non posso, S'io non posso, un altro potrà.

 

(Escono Rosalina e Caterina)

 

ZUCCA: In fede mia, divertentissimo: entrambi molto in gamba!

MARIA: Una mira presa molto bene, poiché l'uno o l'altra hanno dato nel segno.

BOYET: Una mira! Oh, mirate soltanto quella mira! Una mira, dice madonna: che la mira abbia un segno su cui battere a ficco, se è possibile!

MARIA: Avete fatto fallo! In fede mia il vostro fallo è in fuori.

ZUCCA: Davvero deve tirare più da vicino, oppure non coglierà mai il brocco.

BOYET: Se il mio fallo è in fuori, probabilmente, il vostro è in dentro.

ZUCCA: E allora farà lei il tiro migliore, spaccando la testa di chiodo.

MARIA: Suvvia, suvvia, vi esprimete in modo sconveniente. Le vostre labbra si sporcano.

ZUCCA: E' troppo dura per voi da battere a ficco. Sfidatela a bocce!

BOYET: Temo troppe sfregature. Buona notte, mia brava civetta!

 

(Escono Boyet e Maria)

 

ZUCCA: Per l'anima mia, uno zotico, uno scempiato tanghero! Signore, signore, come l'abbiamo fatto tacere, quelle dame ed io! In fede mia, degli scherzi piacevolissimi: deliziosissimo spirito plebeo quando esso corre così liscio, così oscenamente, direi, così appropriatamente. Quell'Armado là! Oh, ecco un uomo squisito. Bisogna vederlo camminare davanti a una signora e portarle il ventaglio!

Vederlo mentre le manda baci colla mano, e fa così dolci giuramenti. E poi ha quel suo paggio, lì, quel gruzzoletto di spirito: oh cielo, un minuzzolo davvero commovente! Olà! olà!

 

(Grida di dentro. Zucca esce correndo)

 

 

 

SCENA SECONDA - La stessa

(Entrano OLOFERNE, Ser NATANIELE e TONTO)

 

NATANIELE: Un molto rispettabile divertimento in verità, e fatto coll'approvazione di una coscienza netta.

OLOFERNE: Il daino era, come sapete, "sanguis", in condizioni di perfetto vigore. Maturo come un pomo di paradiso che adesso pende come un gioiello dall'orecchio del "coelo", il cielo, l'empirèo, il firmamento, ed ecco che cade come un pomo selvatico sulla faccia di "terra firma", la terra, il suolo, il terreno.

NATANIELE: In verità, maestro Oloferne, gli epiteti sono bellamente variati per lo meno come si addice ad un dotto. Ma, messere, io vi assicuro che era un cerbiatto di un anno.

OLOFERNE: Ser Nataniele, "haud credo".

TONTO: Non era un "haud credo", ma un cervietto.

OLOFERNE: Oh barbarissima osservazione! E' tuttavia una sorta d'insinuazione, come chi dicesse, "in via", a mo' di chiarimento, per "facere", come chi dicesse, una replica, o piuttosto, "ostentare", mostrare, come chi dicesse, il proprio sentimento, secondo la sua guisa inculta, inadorna, ineducata, incorretta, inesercitata, o meglio illetterata, o ancor meglio inesperta: interpolare il mio "haud credo" per un daino!

TONTO: Ho detto che il daino non era un "haud credo", ma che era invece un cervietto.

OLOFERNE: Ribollita scempiezza, "bis cocta"! Oh mostro, Ignoranza, come deforme tu appari!

NATANIELE: Messere, egli non si è mai cibato dei lacchezzi che si trovano nei libri. Non ha mai mangiato carta, come chi dicesse, non ha mai bevuto inchiostro. Il suo intelletto non è riempito ed egli è soltanto un animale, sensibile solo nelle parti più grossolane. Tali piante sterili ci vengono collocate davanti affinché possiamo esser grati (e noi che abbiamo gusto e sentire lo siamo) di quelle facoltà che in noi fruttificano più che in lui. Poiché, allo stesso modo come sarebbe per me sconveniente essere vano, indiscreto o sciocco, similmente sarebbe mettere a studio uno scemo, e vederlo andare a scuola. Ma "omne bene", dico io, che sono della stessa opinione di un certo vecchio padre; molti i quali non amano il vento possono tuttavia sopportare il maltempo.

TONTO: Voi siete dotti. Sapete dirmi, nella vostra saggezza, chi mai aveva un mese alla nascita di Caino, che non ha ancora cinque settimane di età adesso?

OLOFERNE: Dictynna, mio buon Tonto, Dictynna, mio buon Tonto.

TONTO: E chi è questa Dictynna?

NATANIELE: Un titolo di Febea, di Selene, di Luna.

OLOFERNE: La luna aveva un mese quando Adamo non ne aveva di più, e non aveva raggiunto le cinque settimane quando egli aveva già cento anni. L'allusione rimane probativa anche scambiando i nomi.

TONTO: Proprio vero. La collusione rimane sempre probativa.

OLOFERNE: Che Dio aiuti il tuo comprendonio! Dico che l'allusione rimane sempre probativa.

TONTO: Ed io dico che la polluzione rimane sempre probativa, poiché la luna non ha mai più di un mese di età: e dico, oltre a questo, che fu un cervietto quello che la principessa uccise.

OLOFERNE: Ser Nataniele, volete sentire un epitaffio estemporaneo sulla morte del daino? Per soddisfare codesto ignorante ho chiamato cervietto il daino che la principessa ha ucciso.

NATANIELE: "Perge", buon maestro Oloferne, "perge", purché vogliate abrogare ogni scurrilità.

OLOFERNE: Voglio fare alcun gioco di lettere, poiché ciò dimostra facilità:

La predace principessa prese un cerbiattin selvaggio; Damma, dice alcun, ma damma fu sol quando ebbe dammaggio.

Se alla dama aggiungi un M, che val mille ad ogni saggio, Una damma ecco contiene mille dame di paraggio.

NATANIELE: Che uomo istruito!

TONTO: Se lo strutto è unto, guardate come costui si unge bene!

OLOFERNE: E' un dono che possiedo, semplice, semplice: un folle spirito stravagante, pieno di forme, immagini, figure, oggetti, idee, concetti, apprensioni, movimenti, rivolgimenti, generati nel ventricolo della memoria, nutriti nel grembo della "pia mater", e partoriti nella maturità dell'occasione. Ma un tale dono è ottimo in coloro nei quali è acuto, ed io sono grato di possederlo.

NATANIELE: Messere, lodo Iddio per voi, e i miei parrocchiani possano fare altrettanto! Poiché i loro figli sono bene istruiti da voi, e le figlie loro profittano grandemente sotto di voi. Voi siete un buon membro della comunità.

OLOFERNE: "Mehercle"! Se i loro figli hanno ingegno, non mancherà loro l'insegnamento, e se le loro figlie ci hanno tendenza penserò io a inculcarglielo. Ma "vir sapit qui pauca loquitur". Ecco un'anima femminile che ci saluta.

 

(Entrano GIACOMETTA e ZUCCA)

 

GIACOMETTA: Che Iddio vi conceda una felice giornata, signor curato.

OLOFERNE: Signor curato, quasi carato! Se si dovesse pesare a carati, chi ne avrebbe ventiquattro?

ZUCCA: Diamine, mastro maestro, colui che più somiglia a un caratello.

OLOFERNE: Un caratello di ventiquattro carati! Un bel concetto risplendente in una zolla di terra! Fuoco sufficiente per una pietra focaia, e perla sufficiente per un porco! E' vezzoso! è bello!

GIACOMETTA: Buon signor curato, abbiate la bontà di leggermi questa lettera. Mi è stata data da Zucca, e inviata da Don Armado. Vi supplico, leggetela.

OLOFERNE: "Fauste, precor gelida quando pecus omne sub umbra Ruminat..." e così di seguito. Oh, buon vecchio Mantovano!. Potrei parlare di te come il viaggiatore parla di Venezia:

Vinegia, Vinegia, Chi non ti vede, non ti pregia.

Vecchio Mantovano, vecchio Mantovano! Chi non ti comprende, non ti ama. Do, re, sol, la, mi, fa. Col vostro perdono, messere, qual è il contenuto di quella lettera?... o, meglio, come dice Orazio nella sua... Per l'anima mia! Versi?

NATANIELE: Sì, messere, e molto dotti.

OLOFERNE: Fatemene sentire una strofa, una stanza, un verso: "lege, domine".

NATANIELE (leggendo):

Se amor mi fa spergiuro, potrei giurar d'amore?

Se a beltà non è fatto, ah, nessun voto tiene; Spergiuro, a te son fido, e i pensier c'ho nel cuore A te, fosser pur cèrri, cedon come vermene.

Sue vie lascia lo studio, cerca gli occhi tuoi vaghi, Libro che in sé racchiude ogni piacer dell'arte.

Se conoscenza è il fine, conoscer te ci appaghi, E dotta è quella lingua che lodi a te comparte.

L'anima che al vederti non stupisce, è ignorante, E il fatto ch'io t'ammiro basta alla gloria mia.

Gli occhi han di Giove il fulmine, la tua voce è tonante, Ma quando tace l'ira, son luce ed armonia.

Celestial qual sei, soffri che amor s'accinga A cantar lodi al cielo con sì terrena lingua.

OLOFERNE: Non ci fate sentire le apostrofi e così sbagliate l'accento:

lasciate che io esamini questa canzonetta. Ci sono soltanto versi di giusta misura, ma in quanto ad eleganza, facilità e aurea cadenza poetica, "caret". Ovidio Nasone era l'uomo che ci voleva: e perché, infatti, si chiamava "Nasone" se non perché odorava gli olezzanti fiori della fantasia, e le alzate d'ingegno? "Imitari" è nulla: anche il cane imita il padrone, la scimmia il suo guardiano, il cavallo ottuso il suo cavaliere. Ma, verginale damigella, questa poesia era diretta a voi?

GIACOMETTA: Sì, messere, da un tale monsieur Biron, uno dei signori della regina straniera.

OLOFERNE: Voglio dare un'occhiata all'indirizzo: "Alla mano bianca al par di neve della bellissima madonna Rosalina". Voglio scrutare di nuovo il significato della lettera per identificare la persona che ha scritto a colei cui è indirizzata la lettera: "Al completo servizio della Signoria Vostra, Biron" Ser Nataniele, questo Biron è uno dei professi che sono col re! ed ecco che egli ha messo assieme una lettera ad una settatrice della regina straniera; lettera che, accidentalmente, o per via di progressione, ha sbagliato strada. (A Giacometta) Vattene a passo di danza, mia cara: consegna questo foglio nella reale mano del re. Può aver grande importanza. Non perder tempo qui in complimenti; io ti dispenso dal tuo dovere. Addio.

GIACOMETTA: Buono Zucca, vieni con me. Messere, che Iddio protegga la vita vostra.

ZUCCA: Eccomi con te, ragazza mia.

 

(Escono Zucca e Giacometta)

 

NATANIELE: Messere, avete agito nel timor di Dio, molto religiosamente; e, come dice un certo padre...

OLOFERNE: Messere, non mi raccontate nulla del padre: io ho terrore dei pretesti plausibili. Ma, per tornare ai versi, vi sono piaciuti, ser Nataniele?

NATANIELE: Meravigliosamente, per lo stile.

OLOFERNE: Oggi sono a pranzo dal padre di un mio alunno, dove se vi piacerà - dopo il pasto - gratificarci con un "deo gratias", io, per il privilegio che godo presso i genitori del suddetto fanciullo o scolaro, mi incaricherò che siate il benvenuto. E là vi proverò che quei versi sono alquanto barbari, e non hanno alcun sapore di poesia, di spirito o d'invenzione. Vi supplico di concedermi la vostra compagnia.

NATANIELE: Ed io vi ringrazio, poiché la buona compagnia, dice il sacro testo, è la felicità della vita.

OLOFERNE: E certamente il testo conclude in un modo infallibile. (A Tonto) Messere, invito anche voi. Non dovete dirmi di no: "pauca verba". Andiamo! i signori sono intenti ai loro divertimenti e noi ce ne andremo alle nostre ricreazioni.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - La stessa

(Entra BIRON con un foglio)

 

BIRON: Il re è alla caccia del cervo, ed io sto cacciando me stesso.

Essi impiegano una rete, ed io sono irretito in una pegola - una pegola che imbratta. Imbratta! brutta parola. Ebbene, calmati, o dolore: così affermano dicesse il Pazzo, e così dico anche io, da pazzo che sono: ben ragionato, o ingegno! Perdio, questo amore è pazzo come Aiace: ammazza le pecore, come lui; uccide me, che sono una pecora: ben provato anche questo, in mio favore! Non voglio amare, e se lo farò, che io sia impiccato; in parola, non voglio. Oh, ma il suo occhio... per la luce del giorno, se non fosse per il suo occhio io non l'amerei, sì per i suoi due occhi! Ebbene, io non faccio altro al mondo che mentire, mentire per la gola. Per il cielo, io amo, e l'amore mi ha insegnato a rimanere e ad essere malinconico ed ecco qui un saggio delle mie rime e della mia malinconia. Del resto ella ha già uno dei miei sonetti: il villico l'ha portato, il pazzo l'ha scritto, e la dama lo possiede: amabile villico, pazzo ancor più amabile e amabilissima dama! Poffare il mondo! non me ne importerebbe un bel nulla se anche gli altri tre fossero innamorati. Ma ecco avanzarsi qualcuno con un foglio: che Iddio gli accordi la grazia di gemere!

 

(Sta in disparte)

(Entra il RE con un foglio)

 

RE: Ahimè!

BIRON: Colpito, per il cielo! Continua, dolce Cupido: tu l'hai colpito col tuo quadrello sotto la mammella sinistra. Segreti, in fede mia!

RE (leggendo):

Sì dolce un bacio non dà l'aureo sole Alle roride stille della rosa, Sì come il raggio de' tuoi sguardi suole Asciugar la mia guancia lacrimosa.

Né mai la luna arde d'argento accolto Nel trasparente sen del mar profondo, Come ne' pianti miei brilla il tuo volto; Tu splendi in ogni stilla ond'io m'inondo:

Ognuna ti trasporta come un cocchio; Così passi in trionfo sul mio affanno.

Sol le lacrime mira c'ho nell'occhio, E la tua gloria esse ti mostreranno.

Non amarmi; io piangendo allor parecchio Ti darò le mie lacrime per specchio.

O mia regina! quanto sei sublime Pensier non sa, né mortal lingua esprime.

Come le farò conoscere le mie pene? Lascerò cadere questa carta. Oh dolci foglie, coprite della vostra ombra la mia follia ! Ma chi si avanza? (Si fa da parte) Come, Longaville? e legge! Ascolta, orecchio!

 

(Entra LONGAVILLE, con un foglio. Ciascuno parla a parte)

 

BIRON: Ed ecco un altro pazzo apparire, simile a me come due gocce d'acqua.

LONGAVILLE: Ahimè! Sono spergiuro.

BIRON: Diamine, entra proprio come uno spergiuro, recando un cartello infamante.

RE: E' innamorato, spero: soave comunanza di vergogna!

BIRON: Un ubriacone ama sempre un altro ubriacone come lui.

LONGAVILLE: Sono forse il primo che abbia spergiurato?

BIRON: Potrei rassicurarti: ne conosco altri due. Tu completi il triumvirato, sei un angolo del tricorno della nostra società, uno spigolo del triangolo della forca amorosa a cui è impiccata la nostra semplicità.

LONGAVILLE: Temo che questi rozzi versi non abbiano il potere di commuovere. Oh soave Maria, imperatrice dell'amor mio! Voglio lacerare queste strofe, e scrivere in prosa.

BIRON: Oh, le rime son come passamani sulle brache del lascivo Cupido:

non sguarnite i suoi calzoni.

LONGAVILLE: Questo potrà andare (legge il sonetto) Non fu il divino eloquio del tuo sguardo Contro cui il mondo oppor non sa argomento, Che a questo giuro fe' il cuor mio codardo?

Voto infranto per te non vuol tormento.

A donne rinunziai, ma ho prove oneste Che tu sei dea: non fu rinunzia a te.

Terreno il voto mio, tu amor celeste, Tua grazia sana ogni disgrazia in me.

Il voto è un soffio, ed il soffio è vapore:

E tu, bel sol che illustri la mia terra, Questo volatil voto assorbi in cuore:

Se infranto sia, non è il cuor mio che erra:

S'erro, qual folle non ha tanto avviso Da spergiurar, se ottiene il paradiso?

BIRON: Ecco un'affezione epatica che fa della carne una divinità, e di una paperella una dea. Pura, pura idolatria! Che Dio ci aiuti, che Dio ci aiuti! Siamo ben lungi dal retto cammino.

LONGAVILLE: Per mezzo di chi potrò mandare questo foglio? Ma vien gente! Facciamoci da parte.

 

(Si mette da un lato)

 

BIRON: Tutti nascosti, tutti nascosti: è un vecchio gioco da bambini.

Come un semidio eccomi qui sospeso nel cielo, a scrutare i segreti di questi disgraziati pazzi. Ancora altri sacchi al mulino! O cielo, il mio desiderio è stato esaudito.

 

(Entra DUMAIN, con un foglio)

 

Dumain trasformato: ecco quattro merli in un piatto!

DUMAIN: Oh divinissima Caterinuccia!

BIRON: Oh profanissimo scemo!

DUMAIN: Per il cielo, sei la maraviglia dell'occhio mortale!

BIRON: Per la terra, tu menti, poiché ella non è che corporale!

DUMAIN: I suoi capelli ambrati fanno apparire brutta l'ambra stessa.

BIRON: Un corvo color d'ambra è veramente degno di nota.

DUMAIN: Diritta come un cedro.

BIRON: Adagio! Ha una spalla che sembra stia per partorire.

DUMAIN: Bella come il giorno!

BIRON: Sì, come qualche giorno in cui non brilla il sole.

DUMAIN: Oh, se il mio desiderio fosse esaudito!

LONGAVILLE: Così lo fosse il mio!

RE: Ed anche il mio, buon Dio!

BIRON: Amen, purché il mio lo fosse. Non è gentile da parte mia dir così?

DUMAIN: Vorrei dimenticarla, ma ella regna nel mio sangue come una febbre, e mi costringe a pensare a lei.

BIRON: Una febbre nel vostro sangue! Ebbene, allora un salasso la farà venir fuori nel bacile! Soave svarione!

DUMAIN: Voglio rileggere ancora una volta l'ode che ho scritta!

BIRON: Ancora una volta voglio osservare come l'amore sappia variare le sue trovate.

DUMAIN (leggendo):

Un giorno, ahimè, giorno selvaggio!

Amor, pel quale è sempre maggio.

Scorse un fiore più che bello Che scherzava al venticello:

Tra le foglie di velluto Passa il vento non veduto.

L'egro amante ebbe disiro D'esser quel celeste spiro:

"Aer, le gote enfiar tu puoi, Tal trionfo avessim noi!

Ma giurai non far rapina Di te, rose, alla tua spina:

Voto ostile a giovinezza, Presta a côrre il fior che olezza.

Deh, non dir ch'io fo peccato Se in tuo nome ho spergiurato; Per te Giove pronto fôra A giurar che Giuno è mora, E ad assumer mortal spoglia Appagando in te sua voglia".

Voglio inviarle questi versi, insieme a qualcosa ancor più chiara che serva ad esprimere la famelica pena del sincero amor mio. Oh, volesse il cielo che il re, Biron e Longaville fossero anch'essi innamorati!

La loro colpa servendo d'esempio alla mia, cancellerebbe dalla mia fronte il segno dello spergiuro, poiché nessuno è colpevole quando tutti farneticano!

LONGAVILLE (avanzandosi): Dumain, la tua passione non è affatto caritatevole, se desideri compagni di sventura nelle tue pene amorose.

Puoi impallidire quanto vuoi, ma in quanto a me sono certo che arrossirei se fossi stato inteso e sorpreso a fallare così.

RE (avanzandosi): Suvvia, signore, arrossite, poiché il vostro caso è simile al suo, e sgridandolo vi rendete due volte più colpevole. Voi non amate Maria! Longaville non ha mai composto un sonetto in sua lode, né mai ha incrociato le braccia sul petto innamorato per frenare i palpiti del suo cuore. Son rimasto ben nascosto in questo cespuglio e vi ho osservati entrambi, arrossendo per tutti e due. Ho ascoltato le vostre rime colpevoli, spiato il vostro contegno, ho visto sospiri esalare dal vostro petto e ho ben notato i vostri sfoghi amorosi.

"Ahimè" diceva l'uno; "Oh Giove!" esclamava l'altro. L'uno vantava gli aurei capelli di lei, l'altro gli occhi di cristallo. (Volgendosi a Longaville) Voi eravate disposto a rinnegare la vostra fede per il paradiso... (volgendosi a Dumain) e Giove, per la vostra amata, infrangerebbe un giuramento! Che dirà Biron quando udrà che avete infranto quel voto fatto con tanto zelo? Come vi schernirà, come eserciterà il suo spirito contro di voi! Come trionferà, salterà e riderà! Per tutte le ricchezze che ho mai contemplate, non vorrei che ne sapesse altrettante sul conto mio.

BIRON: Adesso veniamo fuori a flagellare l'ipocrisia! (Avanzandosi) Ah, mio buon sovrano, ti prego, perdonami! Oh tenero cuore, che grazia hai tu dunque per rimproverare in tal modo il loro amore a questi vermiciattoli, tu che sei più innamorato di tutti? I vostri occhi non producon già cocchi, nelle vostre lacrime non appare mica una certa principessa. Vorrete non essere spergiuro, che è una cosa abbominevole! In quanto a far sonetti è roba da menestrelli! Ma non vi vergognate? non avete dunque vergogna tutti e tre, di essere andati tanto fuor di strada? (Indicando Dumain a Longaville) Voi avete visto la pagliuzza nell'occhio suo, e il re l'ha vista nel vostro: ma io ho scorto la trave nell'occhio di tutti e tre. Oh, quale scena di follia ho contemplato, di sospiri, di gemiti, di dolore e di affanno. Ohimè, con quanta tenace pazienza me ne sono stato a vedere un re trasformato in insetto, il grande Ercole frustare una trottola, il profondo Salomone intonare una giga, Nestore giocare a nocino coi ragazzi, e il censore Timone divertirsi con dei vani balocchi! Dov'è il tuo dolore?

Oh, ditemi mio buon Dumain e tu, gentile Longaville, dov'è il vostro male? E dov'è il male del mio sovrano? nel petto, per tutti. Olà, portatemi una candela!

RE: Il tuo sarcasmo è troppo amaro. Ci siamo dunque così traditi al tuo sguardo?

BIRON: Non voi siete traditi, ma io, io che sono onesto, io, che considerai una colpa spezzare il voto a cui mi sono sottomesso: sono il tradito, poiché ho fatto lega con uomini incostanti come voi.

Quando mai mi vedrete scrivere qualcosa in rima? O gemere per una marcolfa? O impiegare un sol minuto ad azzimarmi? Quando mai mi udrete lodare una mano, un piede, un volto, un occhio, un portamento, un atteggiamento, una fronte, un seno, una vita, una gamba, un membro del corpo?

RE: Piano! Perché corri tanto? E' un onest'uomo o un ladro che va di tal carriera?

BIRON: Fuggo dall'amore. Mio buon innamorato, lasciatemi andare.

 

(Entrano GIACOMETTA, con una lettera in mano, e ZUCCA)

 

GIACOMETTA: Dio benedica il re!

RE: Che Presente mi rechi?

ZUCCA: Un tradimento sicuro.

RE: Che c'entra il tradimento qui?

ZUCCA: Non c'entra proprio nulla, signore!

RE: Se non fa nulla di male, il tradimento e voi potete andarvene assieme in pace.

GIACOMETTA: Supplico Vostra Grazia di far leggere questa lettera. Il nostro parroco ne sospetta, e ha detto che c'è un tradimento.

RE: Biron, leggila. (Biron legge la lettera) Da chi l'hai avuta?

GIACOMETTA: Da Zucca.

RE (volgendosi a Zucca): E tu?

ZUCCA: Da Dun Armadio, da Dun Armadio.

 

(Biron lacera la lettera)

 

RE: Ebbene, che ti viene in mente? Perché la strappi?

BIRON: Una sciocchezza, mio sovrano, una sciocchezza: Vostra Grazia non deve inquietarsene.

LONGAVILLE: Lo ha profondamente scosso, e perciò leggiamola!

DUMAIN (raccogliendo i frammenti della lettera): E' la scrittura di Biron, ed ecco qui il suo nome.

BIRON (a Zucca): Ah, scimunito figlio di puttana, sei nato per fare la mia vergogna! (Al Re) Sono colpevole, mio signore, sono colpevole!

Confesso, confesso!

RE: Cosa?

BIRON: Che voialtri tre sciocchi avevate bisogno di me, sciocco, per completare il quartetto. Lui, lui, e voi, e voi, mio sovrano, ed io, siamo borsaioli in amore e meritiamo la morte. Oh, congedate questo pubblico, ed io vi dirò di più.

DUMAIN: Adesso il numero è pari.

BIRON: E' vero, è vero: siamo quattro. Se ne vogliono andare queste tortorelle?

RE: Via di qui, voialtri, via!

ZUCCA: Andiamocene, noi gente onesta, e lasciamo qui i traditori.

 

(Escono Zucca e Giacometta)

 

BIRON: Cari signori, cari amanti, abbracciamoci! Siamo altrettanto onesti quanto possono esserlo la carne ed il sangue. Il mare deve pure avere il flusso e il riflusso ed il cielo mostrare il suo volto: il sangue giovanile non può obbedire agli ordini della vecchiezza, e non possiamo opporci alla causa che ci ha fatti nascere; quindi eravamo costretti ad essere spergiuri in ogni caso.

RE: Quello scritto lacerato rivelava forse un tuo amore?

BIRON: Me lo domandate? E chi mai può contemplare la celeste Rosalina senza sentirsi obbligato, al pari del rude e selvaggio indiano davanti al primo raggio dello splendido oriente, a curvare la testa vassalla e, abbagliato, a baciare la vile terra col retto umiliato? Qual è l'occhio d'aquila abbastanza spavaldo da osar di fissarsi sul cielo della sua fronte, senza essere accecato dalla sua maestà?

RE: Che zelo, che esaltazione ti ispirano adesso? La mia amata, che è la padrona della tua, è una graziosa luna, e la tua bella non ne è che il satellite, una luce appena visibile.

BIRON: I miei occhi allora non sono occhi né io Biron. Oh, se non fosse per l'amor mio, il giorno si cambierebbe in notte. La suprema eccellenza di tutte le tinte si è riunita, come ad una fiera, nelle sue fiere guance, dove diversi pregi si fondono in un'unica nobiltà, dove nulla manca di ciò che il desiderio ricerca. Prestatemi i fiori retorici di tutte le lingue gentili... Ma no... via la speciosa retorica! Ella non ne ha bisogno... Solo alle cose venali si addice la lode del venditore; ella supera ogni elogio, ed una lode troppo misera può lasciare una macchia. Un eremita grinzoso, consumato da cento inverni, se ne scoterebbe di dosso cinquanta guardandola negli occhi.

La bellezza dà nuovo lustro alla vecchiaia, come se quella fosse appena nata, e dona alle stampelle l'infanzia della culla. Oh, ella è il sole che fa brillare ogni cosa!

RE: Per il cielo, la tua amata è nera come l'ebano.

BIRON: L'ebano dunque le somiglia? Oh legno divino! Una moglie di tal legno sarebbe la felicità. Oh, chi può accogliere un giuramento? dov'è una Bibbia? così che io possa giurare che la bellezza non è bellezza se non apprende dai suoi occhi a guardare, e che nessun volto è bello se non è nero quanto il suo.

RE: Oh paradosso! Nero è l'emblema dell'inferno, il colore delle segrete e l'insegnamento della notte: ma il cimiero della bellezza si addice ai cieli.

BIRON: I diavoli che assomigliano agli spiriti della luce tentano più facilmente. Oh, se la fronte della mia signora è parata di nero, è solo per lutto che i belletti e i capelli finti incantano gli innamorati con le loro false apparenze, e quindi ella è nata per mostrare che il nero è il bello. Il suo viso cambierà la moda del giorno, poiché lo stesso color nativo del sangue sarà considerato un belletto; e quindi le fanciulle di carnagione rosea desiderose di evitar discredito si tingeranno di nero, per imitare la fronte di lei.

DUMAIN: E' per somigliare a lei che gli spazzacamini sono neri!

LONGAVILLE: E dall'epoca della sua venuta al mondo, i carbonai sono considerati splendidi!

RE: E gli Etiopi si vantano del loro delicato colorito!

DUMAIN: L'oscurità non ha più bisogno di candele adesso, poiché il buio è la luce.

BIRON: Le vostre innamorate non osano uscire colla pioggia, per timore che il loro colore non stinga coll'acqua.

RE: Sarebbe bene che la vostra lo facesse poiché, signor mio, per parlarvi schietto, troverò un volto oggi non lavato più chiaro del suo.

BIRON: Vi proverò che essa è chiara, a costo di rimaner qui a chiacchierare fino al giorno del Giudizio.

RE: Nessun diavolo in quel giorno ti spaventerà tanto quanto lei.

DUMAIN: Non ho mai conosciuto alcuno che tenesse tanto cara una cosa vile.

LONGAVILLE (mostrando la propria scarpa): Ecco qui la tua bella:

guarda il mio piede e vedrai anche la sua faccia.

BIRON: Oh, se anche le strade fossero lastricate coi tuoi occhi, i suoi piedi sarebbero troppo delicati per camminarvi sopra.

DUMAIN: Oibò! allora mentre la tua bella cammina al di sopra la strada vedrebbe ciò che ella tiene nascosto in alto.

RE: Ma a che serve discutere? Non siamo tutti forse innamorati?

BIRON: Oh, nulla è altrettanto certo, e per conseguenza siamo tutti spergiuri.

RE: E perciò lasciamo le chiacchiere, e tu, buon Biron, adesso dimostraci che il nostro amore è legittimo e che la nostra fede non è stata violata.

DUMAIN: Sicuro, diamine; ci vuole un palliativo per questo male.

LONGAVILLE: Oh, cita qualche autorevole parere che ci insegni come procedere; insegnaci qualche trucco e sottigliezza per ingannare il diavolo.

DUMAIN: Qualche balsamo per lo spergiuro.

BIRON: Oh, ne abbiamo più di quel che ci abbisogna: attenti dunque, armigeri dell'amore! Considerate quello che avete giurato dapprima, e cioè di digiunare, studiare e di non veder donne, altrettanti tradimenti contro la regalità della giovinezza. Ditemi, potete digiunare? i vostri stomachi sono troppo giovani, e l'astinenza genera malattie. E avendo giurato di studiare, signori, ciascuno di voi ha abiurato il suo libro: potete infatti sognarlo, meditarlo e scrutarlo continuamente? E come sarete giunti, signor mio, e voi, oppure voi, a scoprire la fondamentale eccellenza dello studio senza la bellezza di un viso femminile? Dagli occhi delle donne io derivo questa dottrina:

essi sono la base, i libri, le accademie da cui si sprigiona il vero fuoco prometeico. Diamine, lo sgobbare troppo avvelena gli agili spiriti delle nostre arterie così come il moto e l'azione troppo prolungati stancano il vigor muscolare del viaggiatore. Ora, avendo promesso di non guardare volto di donna avete abiurato la funzione dei vostri occhi e lo studio stesso, motivo del vostro giuramento. Poiché quale autore al mondo potrà insegnarvi la bellezza come uno sguardo di donna? La scienza non è che un'aggiunta a noi stessi, e ovunque noi siamo la nostra dottrina ci accompagna. Quando dunque ci contempliamo negli occhi di una donna, non vi scorgiamo forse anche la nostra scienza? oh, abbiamo fatto voto di studiare, signori, ed in quel voto abbiamo abiurato i nostri libri veri: quando infatti voi, sire, o voi, oppure voi, avreste mai trovato in una plumbea contemplazione quella poesia infocata di cui vi hanno arricchito gli occhi ispiratori delle insegnatrici di bellezza? Vi sono altre gravi scienze che occupano interamente il cervello e quindi, essendo praticate in modo sterile, accordano a stento un raccolto a chi le ha faticosamente coltivate. Ma l'amore, che primo si apprende negli occhi di una donna, non vive solo murato nel cervello e, con la mobilità di tutti gli elementi, si spande veloce come il pensiero in tutte le nostre facoltà, impartendo una doppia forza a tutte le nostre forze al di sopra delle loro funzioni e del loro ufficio. Esso aggiunge una vista preziosa all'occhio: gli occhi di un'aquila si accecherebbero molto prima che quelli di un innamorato, e l'orecchio di un amante udrà il più debole suono che sarà sfuggito all'orecchio sospettoso del ladro. Il tatto dell'amore è più delicato e sensibile delle tenere corna della chiocciola, e la lingua dell'amore rende al paragone grossolano il gusto del raffinato Bacco. In quanto al valore poi, l'amore non è forse un Ercole sempre pronto ad arrampicarsi sugli alberi delle Esperidi, sottile come la Sfinge, soave e melodioso come la lira del radioso Apollo che ha per corde suoi capelli? e quando Amore parla, la voce di tutti gli dèi culla il cielo colla sua armonia. Mai alcun poeta oserebbe toccar la penna per scrivere finché il suo inchiostro non fosse stemperato coi sospiri d'Amore, e allora i suoi versi posson rapire le orecchie più selvagge, trapiantando nei tiranni la dolce umiltà. Dagli occhi delle donne io traggo questa dottrina: essi scintillano senza posa di un vero fuoco prometeico, e rappresentano i libri, le arti, le accademie che mostrano, contengono e alimentano il mondo intiero; senza di loro nessuno può eccellere in cosa alcuna.

Siete stati quindi pazzi nell'abiurare le donne, oppure mostrerete di essere pazzi se vorrete mantenere il vostro giuramento. In nome della saggezza, parola che è tanto cara agli uomini, o in nome dell'amore, parola delle donne, o in nome delle donne per le quali noi uomini siamo uomini, lasciamo perdere una buona volta i nostri giuramenti per trovare noi stessi, o altrimenti finiremo col perder noi stessi per serbare i nostri voti. E' religione spergiurare in questo modo, poiché la carità stessa pervade la legge: e chi può separare l'amore dalla carità?

RE: Per San Cupido, allora! Soldati, al campo!

BIRON: Spiegate i vostri stendardi, signori e gettiamoci sul nemico!

Nella mischia! Dàgli! Ma prima fate bene attenzione di aver nella pugna il vantaggio del sole.

LONGAVILLE: Adesso veniamo al sodo e lasciamo da parte i riboboli.

Siamo risoluti a corteggiare quelle ragazze di Francia?

RE: Sì, ed anche a conquistarle. Immaginiamo quindi qualche divertimento per festeggiarle nelle loro tende.

BIRON: Prima di tutto riconduciamole dal parco fin là; quindi, in cammino, ciascuno di noi si impadronisca della mano della sua bella dama. Nel pomeriggio le intratterremo con qualche inusitata ricreazione quale ci concederà la brevità del tempo: poiché le feste, i balli, le mascherate e le ore allegre precedono l'amore bello cospargendone di fiori il cammino.

RE: Via, via, non dobbiamo perdere un attimo del tempo che può essere da noi messo a frutto.

BIRON: Allons, allons! Seminando loglio non si raccoglie grano, e la giustizia si libra sempre con giuste lance. Delle ragazze leggere possono essere il flagello destinato ad omini spergiuri, e se è così, avremo il tesoro che ci spetta per la nostra moneta.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO QUINTO

 

SCENA PRIMA - La stessa. Davanti alla tenda della Principessa

(Entrano OLOFERNE, ser NATANIELE e TONTO)

 

OLOFERNE: "Satis quod sufficit".

NATANIELE: Io lodo Dio per voi, messere. I vostri ragionamenti a tavola sono stati acuti e sentenziosi, piacevoli senza scurrilità, saggi senza affettazione, arditi senza impudenza, dotti senza vanagloria, e originali senza eresia. Ho parlato questo "quandam" giorno con un compagno del re che è intitolato, nominato o chiamato Don Adriano de Armado.

OLOFERNE: "Novi hominem tamquam te". E' un uomo di umore altezzoso, di parola risoluta, di lingua affilata, di sguardo ambizioso, di passo maestoso, di comportamento generale vano, ridicolo e millantatore. E troppo raffinato, troppo prezioso, troppo affettato, troppo stravagante, come chi dicesse, troppo peregrino, se posso esprimermi così.

NATANIELE (tirando fuori il suo taccuino): Epiteto veramente singolare e scelto.

OLOFERNE: Egli dipana il filo della sua verbosità meglio che la matassa delle sue argomentazioni. Aborro codesti fantastici fanatici, codesti compagni poco socievoli e puntigliosi, codesti carnefici dell'ortografia che dicono leziosamente "enimma" quando dovrebbero dire "enigma", "trionfo" quando dovrebbero pronunziare "triumpho" t, r, i, u, m, p, h, o, e non t, r, i, o, n, f, o; quelli che dicono "capegli" invece di "capelli"; per i quali "tingere" "vocatur" "tignere" e "carico" si abbrevia in "carco". Tutto ciò è abominabile - costoro direbbero abbominevole! Tutto ciò non è senza insinuazioni d'insania: "ne intelligis, domine"? C'è da diventar pazzi, lunatici!

NATANIELE: "Laus Deo, bene intelligo".

OLOFERNE: "Bon, bon, fort bon", Prisciano! E' un latino un po' scorticato, ma può andare.

 

(Entrano ARMADO, TIGNOLA e ZUCCA)

 

NATANIELE: "Videsne quis venit"?

OLOFERNE: "Video et gaudeo".

ARMADO: Mescère!

OLOFERNE: "Quare" "mescère" e non "messere?".

ARMADO: Uomini di pace, ben trovati!

OLOFERNE: Militarissimo signore, salute!

TIGNOLA (a parte): Sono stati ad un gran banchetto di lingue, ed hanno portato via le briciole.

ZUCCA: Oh, sono vissuti a lungo sulle parole gettate nel paniere delle elemosine. Non stupisco che il tuo padrone non ti abbia ancora mangiato scambiandoti per una parola, poiché di tutta una testa non arrivi alla lunghezza di "honorificabilitudinitatibus". Sei più facile ad inghiottire che una caldarrosta!

TIGNOLA: Silenzio! Lo scampanio comincia.

ARMADO (ad Oloferne): Signore, non siete uomo di lettere?

TIGNOLA: Sì sì. insegna Cornelio ai ragazzi. (A Oloferne) Che cosa formano e, b, letti all'incontrario con un corno in testa?

OLOFERNE: Be, "pueritia", con l'aggiunta di un corno!

TIGNOLA: Be, uno sciocchissimo montone con le corna! (Ad Armado) Avete udito la sua scienza!

ARMADO: "Quis, quis", tu mera consonante?

TIGNOLA: L'ultima delle cinque vocali, se la ripetete voi, o la quinta se la ripeto io.

OLOFERNE: Voglio ripeterle: a, e, i...

TIGNOLA: Pecorone! Le altre due danno la conclusione: o, tu!

ARMADO: Ebbene, per la salsa onda del Mediterraneo, ecco un leggiadro colpo, una pronta botta dello spirito! Snip, snap, toccato! Ciò mi rallegra l'intelletto: spirito autentico!

TIGNOLA: Scagliato da un bambino ad un canuto, che è quasi: cornuto.

OLOFERNE: Che figura del discorso hai usata?

TIGNOLA: La figura dei corni!

OLOFERNE: Tu discuti come un bambino: va' a frustar la trottola.

TIGNOLA: Prestatemi il vostro corno per fabbricarne una, e così farò girare a suon di frustate il vostro scorno "unciatim". Una trottola fatta di corno di becco!

ZUCCA: Se non avessi che un soldo al mondo te lo darei; per comprarti del panpepato. Tieni! ecco proprio la rimunerazione che ho ricevuto dal tuo padrone, o piccolo salvadanaio di spirito, uovo di piccione di senno! Oh, se i cieli avessero solamente voluto che tu fossi il mio bastardo, che allegro padre avresti fatto di me! Va': hai uno spirito "ad ugnegnele", cioè a dire fino alla punta delle unghie.

OLOFERNE: Oh, sento odore di latino sbagliato: "ad ugnegnele" per "ad unguem"!

ARMADO (ad Oloferne): Uomo dotto, preambulante; allontaniamoci dai barbari. Non siete voi forse che istruite la gioventù nella scuola gratuita sulla cima della montagna?

OLOFERNE: O, meglio del "mons", la collina.

ARMADO: A vostro piacere per quel che guarda la montagna.

OLOFERNE: Son io, fuor di dubbio.

ARMADO: Messere, è grazioso piacere e desiderio del re di salutar la principessa nella sua tenda nel posteriore di questo giorno, che la vile moltitudine chiama pomeriggio.

OLOFERNE: Il posteriore del giorno, generosissimo signore, è un'espressione convenevole, congrua e appropriata al pomeriggio. La parola è colta bene, bene scelta, armoniosa e calzante, ve lo assicuro, messere, ve lo assicuro.

ARMADO: Messere, il re è un nobile gentiluomo, e mio intrinseco, posso assicurarvelo, un eccellente amico. Quanto alla familiarità che esiste tra noi, passiamo oltre ("ti prego, ricordati che ti sei tolto il cappello: ti supplico, rimettitelo in capo!"): ecco che cosa mi dice in mezzo ad altri urgenti e serissimi argomenti e per di più di grande importanza... Ma passiamo oltre! Debbo dirti che Sua Grazia si compiace, poffare il mondo, di appoggiarsi talvolta alla mia povera spalla e di carezzare col suo regale dito, così, la escrescenza capillare, cioè i miei baffi. Ma passiamo oltre, cuor mio. Poffar del mondo, non ti racconto frottole. Piace a Sua Grandezza di conferire certi onori speciali ad Armado, un soldato, un viaggiatore che ha visto il mondo: ma passiamo oltre! La conclusione finale - ma, cuor mio, ti imploro di mantenere il segreto! - è che il re mi ha pregato di offrire alla principessa, la dolce gallinella!, qualche dilettosa ostentazione, o spettacolo, o trionfo, o rappresentazione grottesca o fuoco d'artifizio. Ora, avendo appreso che il curato e voi stesso, mio caro, siete abili in tali eruzioni ed improvvisi scoppi di gaiezza, per così dire, vi ho in formato di tutto per implorare il vostro aiuto.

OLOFERNE: Messere, farete rappresentare davanti a lei "I nove prodi".

Messere, se si tratta di un trattenimento, di uno spettacolo che secondo gli ordini del re e di questo nobile, illustre e dotto gentiluomo deve essere eseguito, col nostro aiuto, nel posteriore di questo giorno davanti alla principessa, vi dico che non c'è nulla di meglio da rappresentare che "I nove prodi".

NATANIELE: E dove troverete uomini abbastanza prodi per rappresentarli degnamente?

OLOFERNE: Voi sarete Giosuè, io stesso e questo nobile gentiluomo, Giuda Maccabeo; questo villico, a causa della grandezza delle sue membra e giunture, rappresenterà Pompeo il Grande; il paggio sarà Ercole.

ARMADO: Scusatemi, messere, ma vi è uno sbaglio. (Mostrando Tignola) Il paggio non ha proporzioni sufficienti nemmeno per rappresentare il pollice di quel prode; non è neanche grosso quanto la punta della sua clava.

OLOFERNE: Mi si vuol dare ascolto? Egli rappresenterà Ercole minorenne. La sua entrata e la sua uscita consisteranno nello strangolare un serpente, ed io preparerò un'apologia a tale riguardo.

TIGNOLA: Idea eccellente! Così, se qualcuno degli spettatori fischierà, potrete gridare: "Bravo Ercole, ora strangoli il serpente!" ed ecco il modo per rendere graziosa un'offesa, sebbene pochi abbiano la grazia di saperlo fare.

ARMADO: E in quanto agli altri prodi?

OLOFERNE: Io stesso reciterò la parte di tre.

TIGNOLA: Gentiluomo tre volte prode!

ARMADO: Debbo dirvi una cosa?

OLOFERNE: Ascoltiamo.

ARMADO: Se questo non va a fagiolo, insceneremo una rappresentazione grottesca. Vi scongiuro, seguitemi.

OLOFERNE: Via, mio buon Tonto, tu non hai detto una sola parola in tutto questo tempo. TONTO: E non ne ho nemmeno compresa alcuna, messere.

OLOFERNE: "Allons"! ti daremo qualcosa da fare.

TONTO: Io prenderò parte in una danza, o farò qualcosa di simile; oppure batterò il tamburello davanti ai Prodi per far lor danzare il trescone.

OLOFERNE: Sei proprio un tonto, mio onesto Tonto. Ma andiamo al nostro sollazzo (Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - La stessa. Davanti alla tenda della Principessa

(Entrano la PRINCIPESSA, CATERINA, ROSALINA e MARIA)

 

PRINCIPESSA: Mie dilette, saremo ricche prima di partire, se i doni continueranno a giungerci in tale abbondanza. Una signora cinta da un muro di diamanti! Guardate un po' che cosa ho ricevuto dal re innamorato.

ROSALINA: Signora, non vi era qualcosa d'altro insieme al dono?

PRINCIPESSA: Null'altro che questo? Ma sì, c'era tanto amore in rima quanto ne può venir stipato in un foglio di carta, scritto su entrambe le facciate, sul margine, ovunque, e sigillato in cera col nome di Cupido.

ROSALINA: Era l'unico modo per fargli aver buona cera, poiché non fa che frignare da cinquemila anni.

CATERINA: Sì, ed anche una mala cera patibolare.

ROSALINA: Non sarete mai buoni amici, voi e lui: egli ha ucciso vostra sorella.

CATERINA: L'ha resa malinconica, triste e cupa, ed ella ne è morta. Se fosse stata leggera come voi, di un umore così allegro, agile, e vivace, avrebbe potuto esser nonna prima di morire, come lo sareste voi, poiché un cuor leggero vive a lungo.

ROSALINA: Quale oscuro senso, topolina mia, date a questo vocabolo leggero?

CATERINA: Lègger carattere in bellezza oscura.

ROSALINA: Abbiamo bisogno di maggior luce per leggere quel che volete dire.

CATERINA: Resterete al buio se non avete altri moccoli; quanto a me, il mio discorso terminerà nell'oscurità.

ROSALINA: Vedete, tutto ciò che fate lo fate sempre all'oscuro.

CATERINA: Ma così non fate voi, perché siete una ragazza leggera, e sciorinate ogni vostra faccenda al sole.

ROSALINA: Effettivamente non peso quanto voi, e perciò vi sembro leggera.

CATERINA: Voi non mi date peso, perché mi avete poco a cura.

ROSALINA: Per una buona ragione: si ha poco cura, quando non c'è più cura che valga.

PRINCIPESSA: Ben ribattuto, da entrambe; una partita di spirito ben giocata. Ma, Rosalina, di regali ne avete ricevuti anche voi: chi ve l'ha mandato? e cosa è?

ROSALINA: Voglio che lo sappiate. Se il mio volto fosse solamente bello quanto il vostro, sarebbe di quei regali come il vostro, (mostrando un gioiello) e questo ne sia testimone. Sì, anch'io ho dei versi, grazie a Biron. La misura è giusta, e se io fossi della misura che dice, sarei la più bella dea della terra. Sono paragonata a ventimila belle. Oh, ha fatto il mio ritratto nella sua lettera.

PRINCIPESSA: Ed è somigliante?

ROSALINA: Sì, nelle lettere del mio nome, ma nulla nelle lodi della mia persona.

PRINCIPESSA: Siete dunque bella come l'inchiostro, la conclusione è esatta.

CATERINA: Bella come una B in un modello di calligrafia.

ROSALINA: Attenta ai pennelli! Non voglio morire vostra debitrice, o maiuscola rossa, o lettera dorata! Oh, che peccato che il vostro viso sia così pieno di O.

PRINCIPESSA: Al diavolo codesta facezia, e maledette siano tutte le malediche! Ma, Caterina, che cosa vi ha mandato il bel Dumain?

CATERINA: Signora, questo guanto.

PRINCIPESSA: Non ve ne ha mandati due?

CATERINA: Sì, signora, ed inoltre circa un migliaio di versi d'amante fedele; una immensa traslazione d'ipocrisia malamente composta e profondamente sciocca.

MARIA: Questo mi è stato inviato da Longaville assieme a queste perle:

la lettera è di mezzo miglio troppo lunga.

PRINCIPESSA: Anch'io lo credo. Non pregheresti in cuor tuo che la collana fosse più lunga e la lettera più corta?

MARIA: Sì, dovessero queste mie mani rimanere eternamente congiunte.

PRINCIPESSA: Siamo proprio delle ragazze savie burlandoci in tal maniera dei nostri innamorati.

ROSALINA: Ed essi sono tanto più matti nel comprare le nostre beffe a così alto prezzo. Voglio torturare quel Biron prima di partire:

sapessi almeno che è stato preso in trappola, come lo costringerei a umiliarsi, a pregare e a supplicare, ad attendere il momento buono, a osservare l'ora, a spendere il suo prodigo ingegno in rime inutili, ad assoggettarsi a tutti i miei comandi, a gloriarsi di essere diventato, glorificandomi, l'oggetto dei miei scherni. Vorrei baloccarmi con la sua esistenza come con quel pendente, sì da far di lui il mio fatuo e diventare io il suo fato.

PRINCIPESSA: Nessuno è accalappiato tanto bene, quando è accalappiato, quanto un saggio diventato fatuo. La follia, germinata dalla saggezza, ha tutta la garanzia della saggezza, l'aiuto dell'istruzione e la grazia stessa dello spirito per aggraziare un dotto fatuo.

ROSALINA: Il sangue della giovinezza non arde con tanto fervore quanto la gravità che si volge in lascivia.

MARIA: Sì, la follia dei pazzi è sempre meno cospicua che non quella dei saggi, quando il senno dà in ciampanelle, poiché dedica tutto il potere dell'ingegno a dimostrare che c'è virtù nella scemenza.

 

(Entra BOYET)

 

PRINCIPESSA: Ecco Boyet, con l'allegria in volto.

BOYET: Oh, mi smammolo dalle risa. Dov'è Sua Grazia?

PRINCIPESSA: Che notizie, Boyet?

BOYET: Preparatevi, signora, preparatevi! All'armi, all'armi, figliuole! Si prepara un attacco contro la vostra pace, e l'amore si avvicina travestito, armato di argomentazioni. Sarete colte di sorpresa: chiamate a raccolta le vostre facoltà intellettuali e state pronte a difendervi: oppure nascondete la testa come tante codarde e fuggite via di qui.

PRINCIPESSA: San Dionigi contro San Cupido! Chi sono coloro che puntano la loro eloquenza contro di noi ? Parla, esploratore parla.

BOYET: Sotto la fresca ombra di un sicomoro avevo pensato di chiuder gli occhi per una mezz'oretta, quando ecco, ad interrompere il mio progettato riposo, potei vedere avanzarsi verso quell'ombra il re ed i suoi compagni. Cautamente strisciai in una macchia vicina, e sorpresi il discorso che adesso udrete; ossia che tra poco saranno qui travestiti. Il loro araldo è un paggio bricconcello e grazioso che si è imparato bene a memoria il messaggio: essi gli hanno insegnato i gesti e il tono giusto: "Così devi parlare, e così devi atteggiare la persona": e di tanto in tanto esprimevano il dubbio che la vostra presenza principesca lo mettesse in soggezione. "Poiché - diceva il re tu vedrai un angelo: ma non aver timore e parla audacemente". Il ragazzo rispose: "Un angelo non può essere malvagio, ed io l'avrei temuta se essa fosse stata un diavolo". A questo tutti risero e gli batterono la mano sulla spalla, dando così colle loro lodi nuovo ardimento all'ardito bricconcello. Uno si grattava i gomiti così, sghignazzando, e giurava che mai miglior discorso era stato fatto prima di allora; un altro, schioccando le dita, gridava. "Via! lo faremo, qualunque cosa possa accadere". Il terzo saltellava gridando:

"Tutto va bene". Il quarto fece una piroetta e cadde giù. Allora ruzzolarono tutti per terra ridendo così di cuore, così profondamente che in quell'accesso d'ilarità, quasi a reprimere la loro follia, spuntarono loro sugli occhi le solenni lacrime dell'affanno.

PRINCIPESSA: Ebbene? Ebbene? Verranno a trovarci?

BOYET: Sicuro, sicuro. E sono vestiti da moscoviti o da russi, a quanto capisco. Vengono con l'intenzione di parlamentare, di corteggiarvi e di ballare, e ciascuno di essi esporrà la sua faccenda amorosa alla propria dama ed ognuno riconoscerà la sua per mezzo del regalo che le ha offerto.

PRINCIPESSA: Faranno proprio così? Quei damerini saranno messi alla prova. Poiché, signore, noi saremo tutte mascherate e nessuno di loro otterrà la grazia, per quanto supplichi, di vedere il volto di una dama. Tieni, Rosalina, tu porterai questo gioiello, ed il re ti farà la corte scambiandoti per la sua amata. Tieni, tu prendi questo mia cara, e dammi il tuo, e così Biron mi scambierà per Rosalina. (A Caterina e a Maria) Ed anche voi scambiatevi i regali che avete ricevuti, in modo che i vostri innamorati non corteggeranno la persona giusta, tratti in inganno da queste sostituzioni.

ROSALINA: Suvvia, dunque: mettiamo bene in vista i loro doni.

CATERINA: Ma in questo scambio qual è il vostro intento?

PRINCIPESSA: Il mio intento è di contrastare il loro. Essi non agiscono che per allegra beffa, e l'unica mia intenzione è di render loro pan per focaccia. Essi sveleranno i loro diversi segreti alle loro false belle e in tal modo resteranno scherniti alla prossima occasione in cui c'incontreremo per salutarli e parlare loro a viso scoperto.

ROSALINA: Ma dovremo ballare, se ci inviteranno?

PRINCIPESSA: No; moriremo prima di muovere un piede, né renderemo grazie al loro discorso scritto; mentre verrà recitato, ciascuna di noi volga le spalle!

BOYET: Diamine, un tal dispregio scoraggerà l'oratore, e farà divorziare la sua memoria dalla parte che deve sostenere.

PRINCIPESSA: Appunto per questo farò così, e sono certa che gli altri non si faranno avanti, se lui sarà messo fuori gioco. Non c'è beffa più bella che farsi beffa dei beffeggiatori, ed appropriarci la loro allegria conservando intatta la nostra. In tal modo noi resteremo qui schernendo il loro progettato scherzo, ed essi, ben scherniti, se ne dovranno andare svergognati.

 

(Suono di trombe)

 

BOYET: La tromba suona. Andate a mascherarvi. Ecco le maschere.

 
(Entrano dei Mori con musica, TIGNOLA con il discorso scritto, il RE e gli altri Signori travestiti da russi, con la maschera)

 

TIGNOLA: Salute alle più ricche bellezze della terra !

BOYET: Bellezze non più ricche di un ricco taffettà.

TIGNOLA: Sacro gruppo delle più belle dame... (le Signore gli volgono le spalle) che mai abbiano rivolto... le spalle... a sguardo mortale!

BIRON: "Gli occhi", canaglia, "gli occhi"!

TIGNOLA: ... Che mai abbiano rivolto gli occhi a sguardo mortale!

Fuor...

BOYET: Davvero, sei proprio "fuori!".

TIGNOLA: Fuor di misura celesti spiriti, degnatevi di non guardare...

BIRON: "Sol di guardare", briccone!

TIGNOLA: ... Degnatevi sol di guardare coi vostri occhi raggianti al par di comete... coi vostri occhi raggianti al par di comete...

BOYET: Esse non risponderanno a un tale epiteto, faresti meglio a dire: "coi vostri occhi raggianti al par di comari".

TIGNOLA: Esse non mi ascoltano, ed è questo che mi sconcerta.

BIRON: E' questa la tua bravura? Vattene, canaglia!

 

(Esce Tignola)

 

ROSALINA: Che vogliono questi stranieri? Informatevi delle loro intenzioni, Boyet. Se parlano la nostra lingua, è nostro volere che uno di loro ci esponga in modo semplice i loro propositi. Sappiate cosa vogliono.

BOYET: Che volete dalla principessa?

BIRON: Null'altro che pace ed un affabile colloquio.

ROSALINA: Che cosa vogliono dunque?

BOYET: Null'altro che pace ed un affabile colloquio.

ROSALINA: Ebbene, hanno avuto codesto, e così dite loro di andarsene.

BOYET: Ella dice che l'avete avuto, e che ve ne potete andare.

RE: Ditele che abbiamo misurato molte miglia per danzare una misura di danza insieme a voi su quest'erba.

BOYET: Dicono che hanno misurato molte miglia per danzare una misura di danza insieme a voi su quest'erba.

ROSALINA: Non così. Domandate loro quanti pollici ci sono in un miglio: se hanno misurato molte miglia, sarà facile per loro dirci la misura di uno.

BOYET: Se, per venir qua, avete misurato miglia, e molte miglia, la principessa vi invita a dirle quanti pollici ci vogliono per fare un miglio.

BIRON: Ditele che abbiamo misurato le miglia a passi faticosi.

BOYET: Ella vi ascolta.

ROSALINA: Quanti faticosi passi avete contati nel percorso di un miglio tra tutte quelle faticose miglia che avete percorso?

BIRON: Noi non contiamo nulla di ciò che spendiamo per voi. Il nostro ossequio è così ricco, così infinito, che potremmo continuare a prestarlo sempre senza calcolare. Degnatevi di mostrarci lo splendore solare del vostro volto così che possiamo adorarlo come dei selvaggi.

ROSALINA: Il mio volto è soltanto una luna e per di più annuvolata.

RE: Beate quelle nuvole che, come le vostre, vi sfiorano il viso!

Degnatevi, o luna splendente, e voi stelle che le fate corona, di brillare sui nostri occhi umidi allontanando quelle nubi.

ROSALINA: O vano postulante, chiedi qualcosa di più: tu mi domandi soltanto un riflesso di luna sull'acqua.

RE: Allora accordaci una misura di danza. Tu mi hai detto di chiedere, e questa richiesta non ti parrà strana.

ROSALINA: Sonate allora, musicanti, e sbrigatevi. (Musica) Non ancora, non voglio danzare: vedete che cambio come la luna.

RE: Non volete danzare? Come mai vi siete mutata così?

ROSALINA: Avevate preso la luna quando era piena, ma adesso è cambiata.

RE: Ma ella è sempre la luna ed io l'uomo della luna. La musica suona:

degnatevi di seguirne col moto la cadenza.

ROSALINA: Le nostre orecchie la seguono.

RE: Ma sono le vostre gambe che dovrebbero farlo.

ROSALINA: Poiché siete stranieri e siete venuti qui per puro caso, non vogliamo essere schizzinose. Dateci la mano: ma non danzeremo.

RE: E allora perché darci la mano?

ROSALINA: Soltanto per separarci da buoni amici. Un inchino, miei cari, e così la misura è finita.

RE: Misurate più largamente questa misura, non siate spilorcia.

ROSALINA: Non possiamo accordarvi di più per un tal prezzo.

RE: E allora fate il vostro prezzo da voi stesse. A che prezzo si vende la vostra compagnia?

ROSALINA: Solamente al prezzo della vostra assenza.

RE: Questo non può andare.

ROSALINA: Quindi non possiamo essere comprate, e così addio due volte alla vostra maschera e mezza volta a voi!

RE: Se rifiutate di danzare, chiacchieriamo almeno ancora un poco.

ROSALINA: In privato allora.

RE: Lo preferisco anch'io.

 

(Conversano a parte)

 

BIRON (alla Principessa): Oh signora dalla bianca mano, una parolina dolce con te PRINCIPESSA: Miele, latte e zucchero: eccone tre.

BIRON: Ebbene, allora, raddoppiamo il terno, se diventate così sottile: idromele, birra dolce e malvasia. Bel tiro di dadi ! Ecco mezza dozzina di dolcezze.

PRINCIPESSA: Ma settima è questa: addio! Giacché sapete barare, non voglio più giocare con voi.

BIRON: Una parola in segreto.

PRINCIPESSA: Ma che non sia dolce!

BIRON: Tu mi sconvolgi la bile PRINCIPESSA: La bile? E' amara.

BIRON: E perciò giunge a proposito.

 

(Conversano a parte)

 

DUMAIN (a Maria): Volete degnarvi di scambiare una parola con me?

MARIA: Ditemela.

DUMAIN: Bella signora...

MARIA: E' questo che mi dite? "Bel signore"... prendetevi questo complimento in cambio del vostro.

DUMAIN: Vi prego, un breve colloquio privato e poi vi dirò addio.

 

(Conversano a parte)

 

CATERINA (a Longaville): Come! la vostra maschera è forse senza lingua?

LONGAVILLE: So la ragione della vostra domanda, signora.

CATERINA: Oh, ditemi la vostra ragione. Presto, signore: ardo dal desiderio di conoscerla!

LONGAVILLE: Voi avete una doppia lingua dentro la vostra maschera, e metà a questa mia che tace vorreste darne per corredo.

CATERINA: Lasciate stare il core; e, quanto al redo, non è un vitello?

LONGAVILLE: Un vitello, bella signora?

CATERINA: No, un bel signor vitello.

LONGAVILLE: Dividiamo in due la parola.

CATERINA: No, non voglio essere la vostra metà. Prendetevela tutta, e divezzatela; potrebbe diventare un bue.

LONGAVILLE: Vedete come fate ai cozzi con voi stessa in questi frizzi mordaci. Volete dunque dar delle corna, o casta signora? Non fatelo.

CATERINA: E allora cercate di morire mentre siete ancora vitello, prima che vi nascano le corna.

LONGAVILLE: Concedetemi una parola in disparte, prima che io muoia.

CATERINA: Muggite adagio allora, perché il beccaio potrebbe udirvi.

 

(Conversano a parte)

 

BOYET: Le lingue delle ragazze burlone sono taglienti come il filo sottile del rasoio, che taglia un capello invisibile allo sguardo.

Esse superano la comprensione umana tanto la loro conversazione sembra sensata. I loro frizzi hanno ali più veloci delle frecce, delle palle, del vento, del pensiero e delle cose più veloci.

ROSALINA: Non una parola di più, ragazze mie: finiamola.

BIRON: Per il cielo, siamo stati feriti tutti senza spargimento di sangue a forza di beffe!

RE: Addio, fanciulle pazze: avete poco cervello.

PRINCIPESSA: Venti volte addio, miei gelati moscoviti. (Escono i Signori coi Mori) Questa è dunque quella sì ammirata compagnia d'ingegni?

BOYET: Son ceri che il vostro soave alito ha spento.

ROSALINA: Hanno un ingegno imbuzzito dal benessere, grosso grosso, grasso grasso.

PRINCIPESSA: Oh povertà di spirito, scherno regalmente povero! Non credete che si impiccheranno stanotte, o che non oseranno più mostrar la faccia a meno che non sia coperta da una maschera? Quel disinvolto Biron era completamente sconcertato.

ROSALINA: Oh, erano tutti in uno stato deplorevole! Il re era sul punto di piangere per una buona parola.

PRINCIPESSA: Biron non faceva altro che giurare al di là di ogni convenienza.

MARIA: Dumain e la sua spada erano ai miei servigi. "Punto punto" gli ho detto, ed il mio servo è subito ammutolito.

CATERINA: Monsignor Longaville ha detto che gli stavo sul cuore: e indovinate come mi ha chiamata!

PRINCIPESSA: Mal di mare, forse!

CATERINA: Sì, proprio mal d'amare.

PRINCIPESSA: Vattene, malattia che sei!

ROSALINA: Bene, ci sono stati cervelli migliori sotto semplici berretti di lana. Ma volete saperlo? il re è il mio spasimante giurato.

PRINCIPESSA: E il focoso Biron mi ha impegnata la sua fede.

CATERINA: E Longaville era nato per servirmi.

MARIA: Dumain mi appartiene come la scorza all'albero.

BOYET: Signora, e graziose dame, ascoltate: tra breve essi saranno di nuovo qui nella loro forma naturale, poiché è assolutamente impossibile che essi digeriscano questo duro affronto.

PRINCIPESSA: Torneranno?

BOYET: Torneranno, torneranno, Dio lo sa, e salteranno dalla gioia, sebbene siano stati storpiati dai vostri colpi. Quindi, ognuno riprenda i propri regali, e, quando essi ricompariranno, fiorite come soavi rose nell'aria estiva.

PRINCIPESSA: "Fiorite", "fiorite", e come? Parla in modo da farti capire.

BOYET: Delle belle signore mascherate sono come rose in boccio: quando si tolgono la maschera e svelano la loro soave mistura di porpora e d'avorio, sono come angeli che escono da una nube, o rose sbocciate.

PRINCIPESSA: Oh perplessità! Che cosa dobbiamo fare se essi tornano a farci la corte nella loro forma naturale?

ROSALINA: Mia buona signora, se volete lasciarvi consigliare da me, continuiamo a beffarci di loro, adesso che vengono col viso scoperto, come li abbiamo beffati travestiti. Lamentiamoci con loro degli sciocchi che sono venuti qui sotto spoglie di moscoviti, in goffi abiti, domandiamo chi mai potevano essere e con quale scopo ci hanno offerto nella nostra tenda uno spettacolo così meschino di sé, un prologo malamente scritto, e il loro sì ridicolo e rozzo comportamento.

BOYET: Signore, ritiratevi. I damerini si approssimano.

PRINCIPESSA: Corriamo alle nostre tende, come il capriolo corre sul prato.

 

(Escono la Principessa, Rosalina, Caterina e Maria)

(Rientrano il RE, BIRON, LONGAVILLE e DUMAIN nei loro vestiti abituali)

 

RE: Bel signore, che Dio vi guardi! Dov'è la principessa?

BOYET: E' andata nella sua tenda. Forse Vostra Maestà desidera incaricarmi di qualche messaggio per lei?

RE: Sì, che ella si degni di accordarmi udienza per dire una parola.

BOYET: Ottempererò al vostro desiderio come sicuramente farà lei, mio signore.

 

(Esce)

 

BIRON: Costui ingozza lo spirito altrui, come i piccioni inghiottono i piselli, e lo risputa fuori quando piace a Dio. E' il merciaio ambulante dello spirito, e vende al minuto le sue mercanzie alle sagre, nei festini, nelle riunioni, nei mercati e nelle fiere: e noi che vendiamo all'ingrosso, il Signore lo sa, non abbiamo la grazia di renderlo grazioso in modo altrettanto appariscente. Questo damerino si appunta le belle sulla manica con uno spillo, e se fosse stato Adamo avrebbe tentato Eva. Inoltre egli sa fare il pollo e parlare colla lisca, ed è lui che manda baci con la mano. Egli è la scimmia dell'etichetta, il "monsieur" raffinato che, quando gioca a tavola reale, rimprovera i dadi garbatamente; sì, egli sa barrire da baritono, e come cerimoniere, faccia meglio di lui chi può! Le signore lo chiamano "caro" e le scale, quando egli le sale, gli baciano i piedi. Ecco il fiore che sorride ad ognuno per mostrare i suoi denti bianchi come ossa di balena! Le coscienze che non vogliono morire in debito lo pagano col titolo di Boyet dalla lingua melata.

RE: Il canchero alla sua soave lingua che fece perdere le staffe al paggio di Armado!

 

(Rientra la PRINCIPESSA, preceduta da BOYET, ROSALINA, MARIA, CATERINA, e Persone del seguito)

 

BIRON: Ecco che vengono! (Considerando Boyet) Comportamento, che eri tu mai prima che questo pazzo ti mettesse in risalto? E cosa sei adesso?

RE: Salve, figlia di gran dinasta, e sereno dì!

PRINCIPESSA: Grandinata e sereno dì, a quanto mi sembra, significa brutto giorno.

RE: Interpretate meglio le mie parole, se potete.

PRINCIPESSA: E allora fatemi un augurio migliore, ve ne do il permesso.

RE: Siamo venuti a farvi una visita, ed abbiamo adesso l'intenzione di condurvi alla nostra corte: degnatevi di acconsentire.

PRINCIPESSA: Io rimarrò attaccata a questo prato, e voi del pari rimanete attaccato al vostro voto: né Dio, né io stessa, amiamo gli uomini spergiuri.

RE: Non rimproveratemi per un sentimento che voi stessa avete provocato: è stata la virtù degli occhi vostri che ha infranto il mio giuramento.

PRINCIPESSA: Voi menzionate la virtù per isbaglio: avreste dovuto parlare del vizio, poiché l'ufficio della virtù non è mai stato quello di rompere la fede degli uomini. Adesso per l'onor mio verginale ancor puro come il giglio immacolato, giuro che se anche dovessi sopportare un mondo di torture non consentirei mai ad essere l'ospite della vostra casa; tanto mi ripugna di causare la rottura di un voto celeste, pronunciato in buona fede.

RE: Oh, qui siete vissute nella desolazione, inosservate, trascurate, a nostra grande vergogna.

PRINCIPESSA: Non è così, signore, non è così ve lo giuro. Abbiamo avuto passatempi e piacevoli divertimenti. Una brigata di quattro Russi ci ha lasciate da poco.

RE: Come, signora? Dei Russi?

PRINCIPESSA: Sì, davvero, signor mio: gente raffinata e in gamba, piena di cortesia e dignità.

ROSALINA: Signora, dite la verità! Non è così, mio signore: la mia signora, seguendo la moda dei tempi, per cortesia li ha elogiati come essi non meritavano. Noi quattro, è vero, siamo state abbordate da quattro individui in costume russo. Si sono fermati qui un'ora, chiacchierando per tutto questo tempo, e durante quell'ora, signor mio, non ci hanno gratificate di una sola parola indovinata! Non oserei chiamarli sciocchi, ma penso che quando hanno sete ci sono degli stolti che vorrebbero bere.

BIRON: Codest'arguzia mi sembra asciutta asciutta. Bella e gentile fanciulla, è il vostro spirito che fa sembrare sciocchi i saggi.

Quando fissiamo sia pure le pupille migliori sull'occhio infocato del cielo, perdiamo la luce per eccesso di luce: così la vostra comprensione è di tal natura che alla vostra ricchezza spirituale i saggi sembran sciocchi e i ricchi poveri

ROSALINA: Ciò dimostra che siete saggio e ricco, poiché ai miei occhi...

BIRON: ...sono uno sciocco pieno di povertà.

ROSALINA: Se non fosse che mi togliete ciò che vi appartiene, fareste male a strapparmi le parole di bocca.

BIRON: Oh, vi appartengo, insieme a tutto quel che possiedo.

ROSALINA: Ho dunque uno sciocco tutto per me?

BIRON: Non posso darvi di meno.

ROSALINA: Qual era la maschera che portavate?

BIRON: Dove? quando? che maschera? Perché mi fate questa domanda?

ROSALINA: Là, allora, quella maschera, quell'inutile astuccio che nascondeva il viso più brutto e mostrava il migliore.

RE (a parte): Siamo stati riconosciuti, e adesso si burleranno ben bene di noi.

DUMAIN (a parte): Confessiamo, e volgiamo la cosa in ischerzo.

PRINCIPESSA: Siete stupito, mio signore? Perché Vostra Altezza è così serio?

ROSALINA: Aiuto! reggetegli la fronte! Sviene! Perché siete diventato così pallido? Ma forse è il mal di mare, se venite dalla Moscovia!

BIRON: E così le stelle rovescian giù flagelli per lo spergiuro! C'è faccia di bronzo che possa resistere? Eccomi qua, signora, lancia su me i dardi del tuo estro, schiacciami col tuo sarcasmo, distruggimi con la tua ironia, trapassa col tuo pungente spirito la mia ignoranza, fammi a pezzi col tuo mordente giudizio: io non ti inviterò mai più a danzare, né mai ti offrirò i miei servigi in costume russo. Oh, non mi fiderò mai più dei discorsi scritti né del moti della lingua di uno scolaretto, né mai verrò dalla mia bella col viso mascherato, né le farò la corte mettendo l'amor mio in versi come la canzone di un menestrello cieco. Frasi di taffettà, termini preziosamente serici, iperboli a tre peli, azzimata affettazione, figure pedantesche:

codeste mosche estive mi hanno tutto seminato di cacchioni di vanità.

Io le rinnego, e giuro per questo guanto bianco - Dio solo sa quanto più bianca sia la mano - che d'ora innanzi il mio corteggiare si esprimerà soltanto in "sì" di bigello e in "no" di saia. E tanto per cominciare ragazza mia orsù che Iddio mi assista! - il mio amore per te è leale, senza incrinature né magagna.

ROSALINA: Senza riboboli, ve ne prego!

BIRON: Ho ancora un accesso del mio antico furore. Scusatemi, sono malato e me ne libererò a grado a grado. Piano, vediamo un poco:

(indicando il Re, Longaville e Dumain) scrivete su quei tre un cartello così concepito: "Che il Signore abbia pietà di noi" Essi sono appestati, infatti, ed il male risiede nel cuore: hanno la peste e l'hanno presa dagli occhi vostri. Quei signori son contagiati e neanche voi ne siete esenti, poiché vedo su voi i segni del Signore.

PRINCIPESSA (mostrando il gioiello che porta): No, quelli che ci hanno dato questi segni erano liberi.

BIRON: I nostri beni sono sotto sequestro: è inutile che cerchiate di alleviare la nostra pena.

ROSALINA: Non è così: com'è mai possibile che siate nel medesimo tempo condannati e appellanti?

BIRON: Zitta! non voglio aver nulla a che fare con voi!

ROSALINA: E nemmeno io, se potrò agire come voglio.

BIRON: Parlate per voi, perché le mie risorse sono esaurite.

RE: Insegnateci, cara signora, qualche bella scusa per la nostra volgare colpa.

PRINCIPESSA: La più bella è una confessione. Non eravate forse qui travestito un momento fa?

RE: Sì, signora.

PRINCIPESSA: E vi pare di essere stato bene avvisato?

RE: Sì, bella signora.

PRINCIPESSA: Ebbene, quando eravate qui che cosa avete bisbigliato nell'orecchio della vostra dama?

RE: Che la stimavo più di ogni altra cosa al mondo.

PRINCIPESSA: Quando vi prenderà in parola, la respingerete.

RE: No, sul mio onore.

PRINCIPESSA: Silenzio! silenzio, basta! Dopo avere una volta infranto un voto, non potete più dar peso ai giuramenti.

RE: Disprezzatemi se violo questo mio giuramento.

PRINCIPESSA: Vi disprezzerò certamente e perciò mantenetelo. Rosalina, che cosa vi ha bisbigliato all'orecchio il Russo?

ROSALINA: Signora, mi ha giurato che mi teneva cara come la vista preziosa, e che mi preferiva al mondo intiero: aggiungendo inoltre che mi avrebbe sposata o sarebbe morto amandomi.

PRINCIPESSA: Che Iddio te ne dia gioia: il nobile signore farà certo onore alla sua parola.

RE: Che volete dire, signora? Sulla mia vita e l'onor mio, non ho mai fatto un simile giuramento a questa signora.

ROSALINA: Per il cielo, lo avete fatto. E per confermarlo mi avete dato questo; ma potete riprendervelo, signore!

RE: L'ho donato alla principessa, insieme alla mia fede: la riconobbi a questo gioiello che ella aveva sulla manica.

PRINCIPESSA: Perdonatemi. signore, era lei che portava questo gioiello: monsignor Biron e di ciò lo ringrazio, è il mio amato. (A Biron) Ebbene, volete aver me o riavere la vostra perla?

BIRON: Nessuna delle due, rinunzio ad entrambe. Adesso vedo che il tiro giocatoci era un accordo, conoscendo in anticipo il nostro spasso, per guastarlo come una farsa di Natale. Qualche spia, qualche parassita, qualche vile buffone, qualche chiacchierone, qualche cavaliere della forchetta, qualche spregevole tizio che si fa venire le grinze della vecchiaia a forza di sorridere e conosce l'arte di far ridere la signora quando è ben disposta, ha svelato i nostri piani in precedenza. Una volta scoperta la cosa, le signore si scambiarono i regali e allora noi, seguendo quei segni, corteggiammo i simulacri delle nostre belle. Ora, per aggiungere un nuovo orrore alla nostra colpa, abbiamo commesso un doppio tradimento, la prima volta volontariamente e la seconda per errore: le cose debbono stare proprio così! (A Boyet) E non potreste esser stato voi a prevenire il nostro scherzo per renderci così spergiuri? Non sapete voi prendere madonna pel suo verso, e non le ridete in bocca, e non vi collocate, signore, tra la sua schiena e il fuoco, reggendo un vassoio e scherzando allegramente? Siete voi che avete sconcertato il nostro paggio:

andate, tutto vi è permesso: morite quando vorrete: una camicia da donna sarà il vostro sudario! Mi guardate con la coda dell'occhio?

ecco uno sguardo che ferisce come una spada di latta.

BOYET: Con quale brio ha corso questo bel galoppo, di gran carriera!

BIRON: Ehi! mi spezza diritto addosso la lancia. Pace! Ho finito.

 

(Entra ZUCCA)

 

Benvenuto, o puro spirito! Hai interrotto una bella tenzone.

ZUCCA: Oh Dio, messere! vorrebbero sapere, se i tre Prodi devono entrare o no.

BIRON: Come! ce ne sono soltanto tre?

ZUCCA: No, signore, ma va benone perché ciascuno ne ripresenta tre.

BIRON: E tre per tre fa nove.

ZUCCA: Non così, messere; sal mi sia, messere, spero che non sia così.

Non siamo mica sciocchi, messere, ve lo garantisco, messere. Sappiamo quel che sappiamo. Spero messere, che tre per tre, messere...

BIRON: ...non faccia nove.

ZUCCA: Sal mi sia, messere, sappiamo quanto fa.

BIRON: Per Giove, ho sempre creduto che tre per tre facesse nove.

ZUCCA: Oh Dio, messere! Sarebbe una bella disgrazia per voi se doveste guadagnarvi la vita facendo i conti, messere.

BIRON: Quanto fa, dunque?

ZUCCA: Oh Dio, messere! le parti stesse, gli attori, messere, vi mostreranno quanto fa. Per parte mia, come dicono, io son qui sol per impressionare un uomo in un pover'uomo, Pomponio il Grande, messere.

BIRON: Sei uno dei Prodi?

ZUCCA: Mi hanno giudicato degno di produrre Pompeo il Grande; per parte mia non conosco le qualità di quel Prode, ma debbo tenerne il posto.

BIRON: Va', di' loro di prepararsi.

ZUCCA: Faremo le cose a modino, messere, e ci metteremo ogni cura.

 

(Esce)

 

RE: Biron, essi ci copriranno di vergogna: bisogna che non si avvicinino.

BIRON: Siamo a prova di vergogna, mio signore; ed è buona politica mostrare a questo signore uno spettacolo peggiore di quello del re e della sua compagnia.

RE: Dico che non debbono venire.

PRINCIPESSA: Ebbene, mio buon signore, lasciatevi guidare da me, adesso. Il divertimento più piacevole è quello che piace a sua insaputa. Allorché lo zelo si sforza di soddisfarci, la soddisfazione vien meno per lo zelo eccessivo di coloro che ne sono animati. E' lo scompiglio della loro situazione che crea la situazione più ridicola, quando grandi cose partoriscono un bel nulla.

BIRON: Ecco una esatta descrizione del nostro divertimento, mio signore.

 

(Entra ARMADO)

 

ARMADO: Unto del Signore, imploro da te che tu voglia spendere tanto del tuo soave alito da proferire una coppia di parole.

 

(Parla col Re e gli consegna una lettera)

 

PRINCIPESSA: Quell'uomo serve Iodio?

BIRON: Perché me lo chiedete?

PRINCIPESSA: Perché non parla come un uomo creato da Dio.

ARMADO: Fa lo stesso, mio bello, soave e melato monarca. Dichiaro che il maestro di scuola è eccessivamente fantastico, e troppo, troppo vanitoso. Ma noi ci rimetteremo, come si dice, alla "fortuna della guerra". Vi auguro la pace dello spirito, o regalissima coppia!

RE: Avremo probabilmente una buona parata di Prodi. Egli rappresenta Ettore di Troia, il villico Pompeo il Grande, il curato della parrocchia, Alessandro, il paggio di Armado, Ercole, il pedante Giuda Maccabeo. E se questi quattro prodi avranno successo nella loro parte, cambieranno d'abito e rappresenteranno gli altri cinque Prodi.

BIRON: Ce ne sono cinque nella prima parte.

RE: Vi ingannate, non è così.

BIRON: Il pedante, lo spaccone, il pretonzolo, lo scemo e il ragazzo.

Se fosse un gioco di dadi che abbisogna di sei giocatori, togliendone uno il mondo non potrebbe trovarne cinque eguali a questi, ciascuno nel suo genere.

RE: La nave ha spiegato le vele, ed eccola avanzarsi rapidamente.

 

(Entra ZUCCA nella parte di POMPEO)

 

ZUCCA: Pompeo son io...

BOYET: ...Menti! non lo sei.

ZUCCA: Pompeo son io...

BOYET: ...colle latte a' ginocchi.

BIRON: Bravo, vecchio burlone: bisogna che mi riconcili con te!

ZUCCA: Pompeo son io, Pompeo nomato il Grosso.

DUMAIN: Il Grande!

ZUCCA: E' vero, "il Grande", messere:

Pompeo son io, Pompeo nomato il Grande, Che spesso al campo, come un lampo fe' sudar nemiche bande:

E viaggiando in queste plaghe, giunsi qui a depor la lancia, Nel grembo a questa dolce damigella della Francia.

Se Vostra Signoria volesse dirmi "Grazie, Pompeo", io avrei finito.

PRINCIPESSA: Un gran ringraziamento, o grande Pompeo!

ZUCCA: Non sono meritevole di tanto, ma spero di essere stato perfetto. Ho fatto solo un piccolo errore a proposito di "Grande".

BIRON: Scommetto il mio cappello contro un mezzo soldo che Pompeo sarà il migliore dei Prodi!

 

(Entra Ser NATANIELE nella parte di ALESSANDRO)

 

NATANIELE: Quand'io vivea nel mondo, niun era a me compagno; Stesi le mie conquiste all'orto ed all'occaso:

Lo scudo mio dichiara, sono Alessandro Magno...

BOYET: Che nol siete lo dice il vostro dritto naso.

BIRON: "No", odora il naso, o prence che odori come un bagno.

PRINCIPESSA: Il conquistatore è sgomento: continua, buon Alessandro.

NATANIELE: Quand'io vivea nel mondo, niun era a me compagno...

BOYET: Verissimo, è giusto: lo eravate davvero, Alisandro.

BIRON (facendo un segno a Zucca): Pompeo il Grande!

ZUCCA: Servo vostro, Zucca per servirvi.

BIRON: Conducete via il conquistatore, conducete via Alissandro.

ZUCCA (a Nataniele): Oh messere, voi avete provocato la caduta di Alisandro il conquistatore! La vostra immagine sarà cancellata dagli arazzi per questo, il vostro leone, che regge una scure di battaglia seduto su una seggetta, sarà dato a Caco, ed egli diverrà il nono Prode. Un conquistatore che ha paura di parlare: scappa via e vergognati, Alisandro! (Nataniele si ritira) Ecco, col vostro rispetto, un mite sciocco, un uomo onesto, badate bene! che si perde d'animo facilmente. E' un vicino meraviglioso, in verità, ed è un ottimo giocatore di bocce; ma, come Alisandro, ahimè, vedete com'è...

non è all'altezza della parte. Ma ecco giungere altri Prodi che ci esprimeranno il loro pensiero in qualche altro modo.

PRINCIPESSA: Fatti da parte, buon Pompeo.

 

(Entra OLOFERNE nella parte di Giuda, e TIGNOLA nella parte di Ercole)

 

OLOFERNE: Il grande Ercole appare in questo frugolo, Che con sua clava uccise il "canis" Cerbero; E quand'egli era un pargolo, uno sgricciolo, così strozzò con la sua "manus" vipere.

"Quoniam" si mostra in sua minore età, "Ergo" per bocca mia sue scuse fa.

Or esci dignitoso, e via ritirati.

 

(Tignola si ritira)

 

Giuda son io...

DUMAIN: Un Giuda!

OLOFERNE: Ma non Iscariota, messere.

Giuda son io, nomato Maccabeo.

DUMAIN: Giuda, macché Beo, è Giuda puro e semplice.

BIRON: Uno che tradisce baciando. Come mai sei diventato un Giuda?

OLOFERNE: Giuda son io...

DUMAIN: Tanto maggior vergogna per te, Giuda!

OLOFERNE: Che intendete fare, signore?

BOYET: Costringere Giuda ad impiccarsi!

OLOFERNE: Cominciate voi, messere; non fate tanti fichi.

BIRON: Ben risposto. Giuda s'impiccò proprio ad un fico.

OLOFERNE: Non mi farete mutar faccia.

BIRON: Perché non hai faccia!

OLOFERNE: E questa cos'è?

BOYET: Una testa di chitarra!

DUMAIN: La testa di uno spillone.

BIRON: Una testa di morto in un anello!

LONGAVILLE: La testa incisa in un'antica moneta romana, che si vede appena!

BOYET: Il pomo della spada di Cesare!

DUMAIN: La faccia d'osso scolpito che sormonta una fiaschetta da polvere!

BIRON: Il profilo di San Giorgio in una medaglia.

DUMAIN: Sì, in una medaglia di piombo.

BIRON: ...messo sulla berretta di un cavadenti. E adesso, avanti, poiché ti abbiamo ridato faccia per continuare.

OLOFERNE: Mi avete fatto cader la faccia.

BIRON: E' falso: ti abbiamo dato molte facce.

OLOFERNE: Ma voi avete le facce più toste.

BIRON: Anche se tu fossi un leone, le avremmo.

BOYET: Ma siccome è un asino, lasciamolo andare. Addio, dolce Giuda!

Ebbene, perché rimani ancora?

DUMAIN: Aspetta l'ultima parte del suo nome.

BIRON: Che gli si dia di maccabeo? Daglielo: Giuda maccabeo, vattene!

OLOFERNE: Questo non è generoso, né gentile, né umile.

BOYET: Luce per il signor Maccabeo! Comincia a fare scuro, e potrebbe inciampare.

 

(Oloferne si ritira)

 

PRINCIPESSA: Ahimè, povero Maccabeo, com'è stato malmenato!

 

(Entra ARMADO nella parte di ETTORE)

 

BIRON: Nascondi la testa, Achille: ecco avanzarsi Ettore in armi.

DUMAIN: Anche se le mie beffe mi dovessero ricadere addosso, ora voglio divertirmi.

RE: Ettore non era che un troione a petto di costui.

BOYET: Ma è proprio Ettore?

RE: Credo che Ettore non fosse così ben costrutto.

LONGAVILLE: Ha le polpe troppo grosse per essere Ettore.

DUMAIN: Merita di certo tal polpetta...

BOYET: No, è meglio formato un po' più sotto.

BIRON: Non può essere Ettore.

DUMAIN: E' un dio o un pittore, perché fa certi visacci.

ARMADO: L'armipotente Marte, signor della tenzone, Fece un dono ad Ettorre...

DUMAIN: Una noce moscata dorata.

BIRON: Un limone.

LONGAVILLE: Guarnito di chiodi di garofano, e di spezie.

DUMAIN: No, spezzato.

ARMADO: Silenzio!

L'armipotente Marte, signor della tenzone, Fece un dono ad Ettorre, che erede d'Ilio era:

Un uom di tanto fiato, che fuor del padiglione Avrebbe combattuto da mane infino a sera.

Quel fior son io...

DUMAIN: Quella menta.

LONGAVILLE: Quell'aquilegia.

ARMADO: Caro messer Longaville, frena la tua lingua.

LONGAVILLE: Debbo se mai allentare il freno poiché corre contro Ettore.

DUMAIN: Sì ed Ettore è un levriero!

ARMADO: Il caro guerriero è morto e marcito. Cari pollastrelli, non disturbate le ossa dei sepolti; quando respirava era un uomo. Ma voglio procedere nella mia parte. (Alla Principessa) Soave regalità, concedimi il senso del tuo udito.

PRINCIPESSA: Parla, valoroso Ettore, ne saremo lietissimi.

ARMADO: Adoro la pantofola di Vostra Grazia soave.

BOYET: Egli l'ama a piedi.

DUMAIN: Gli è che non può amarla a braccia.

ARMADO: Questo Ettore d'assai superava Anniballe...

ZUCCA: La compagna è entrata, compare Ettore, è entrata nel terzo mese...

ARMADO: Che vuoi tu dire?

ZUCCA: In fede mia, a meno che voi non agiate da onesto troione, la povera figliuola è perduta. Ella è incinta, e l'infante già schiamazza nel suo ventre: è figlio vostro.

ARMADO: Vorresti infamizzarmi qui in mezzo ai potentati? Morrai!

ZUCCA: E allora Ettore sarà frustato, perché Giacometta è incinta per opera sua e impiccato per Pompeo da lui ucciso.

DUMAIN: Oh incomparabile Pompeo!

BOYET: Famoso Pompeo!

BIRON: Più grande che il Grande, grande grande, grande Pompeo! Pompeo l'Immenso!

DUMAIN: Ettore trema.

BIRON: Pompeo è commosso. Rendili più furiosi, Ate: aizzali, aizzali!

DUMAIN: Ettore lo sfiderà.

BIRON: Sì, anche se non avesse in pancia più sangue di quanto ne occorra per il pasto di una pulce.

ARMADO: Per il polo nord, ti sfido.

ZUCCA: Non voglio battermi con un palo come un uomo del nord. Menerò fendenti, mi batterò colla spada. Vi prego, lasciatemi riprendere di nuovo le mie armi.

DUMAIN: Largo agl'irati Prodi!

ZUCCA: Mi batterò scamiciato.

DUMAIN: Risolutissimo Pompeo!

TIGNOLA: Padrone, lasciatevi sbottoneggiare; non vedete che Pompeo sta spogliandosi per il combattimento? Che volete fare? Perderete la vostra reputazione.

ARMADO: Gentiluomini e soldati, perdonatemi, non voglio combattere in camicia.

DUMAIN: Non potete rifiutarvi, poiché Pompeo vi ha sfidato.

ARMADO: Nobili amici, posso e voglio rifiutarmi!

BIRON: Diteci le vostre ragioni.

ARMADO: La nuda verità è che non ho camicia. Porto lana sulla pelle per penitenza.

BOYET: In verità, glielo hanno imposto a Roma per mancanza di biancheria, e da allora, giurerei che non ha mai indossato altro che uno strofinaccio di Giacometta, e codesto lo porta sul cuore come pegno d'amore...

 

(Entra il Signor MARCADE, messaggero)

 

MARCADE: Dio vi protegga, signora.

PRINCIPESSA: Benvenuto, Marcade, sebbene tu interrompa il nostro divertimento.

MARCADE: Mi dispiace, signora, poiché le notizie che vi reco mi pesano sulla lingua. Il re vostro padre...

PRINCIPESSA: E' morto, sulla vita mia!

MARCADE: Proprio così, e non ho altro da dirvi.

BIRON: Prodi, andatevene! La scena comincia ad oscurarsi.

ARMADO: Per conto mio, io respiro liberamente. Ho veduto il giorno dell'oltraggio attraverso il pertugio del giudizio, e mi comporterò come si addice a un soldato.

 

(Escono i Prodi)

 

RE: Come sta la Maestà Vostra?

PRINCIPESSA: Boyet, preparate tutto; voglio partire stasera.

RE: Signora, non fatelo, vi supplico di restare.

PRINCIPESSA: Preparate tutto, vi dico. Vi ringrazio, graziosi signori, di tutte le vostre attenzioni, e vi scongiuro dal fondo della mia nuova tristezza di degnarvi nella vostra inesauribile saggezza di scusare o nascondere la vivace foga dei nostri spiriti se ci siamo comportate troppo sfacciatamente nella conversazione: la vostra cortesia ne ha avuto colpa! Addio, degno signore; un cuore addolorato non può avere una lingua complimentosa. Scusatemi se non vi ringrazio più a lungo per la grande concessione che mi avete fatto così facilmente.

RE: L'estremità del tempo informa in modo estremo ogni cosa secondo la sua propria urgenza, e sovente, proprio al momento critico, decide quello che un lungo processo di tempo non ha potuto arbitrare: e sebbene la fronte di una figlia in lutto impedisca alla cortesia sorridente dell'amore di sostenere la sacra causa che vorrebbe vincere, pure, poiché l'amore poté già esporre i suoi argomenti, le nubi del dolore possano non allontanarlo da ciò che esso si prefiggeva. Piangere gli amici perduti è molto meno salutare e profittevole che rallegrarsi dei nuovi che abbiamo trovato.

PRINCIPESSA: Non vi comprendo, il mio dolore è troppo forte.

BIRON: Le parole semplici e franche penetrano meglio le orecchie del dolore, e da questi segni cercate di comprendere il re. Per amor vostro abbiamo perduto il tempo e tradito i nostri giuramenti. La vostra bellezza, signore, ci ha fatto molto sfigurare tutti, foggiando i nostri umori proprio al contrario dei nostri propositi. Se in noi avete scorto qualcosa di ridicolo, è che l'amore è pieno di tendenze stravaganti, capriccioso come un fanciullo, saltellante e vano, generato dall'occhio, e quindi, come l'occhio, pieno di aspetti vaganti, di parvenze e di forme che variano di soggetto secondo che lo sguardo passa di cosa in cosa. Se questo variopinto aspetto di amore sfrenato del quale ci siamo rivestiti ha disgradato, agli occhi vostri celestiali, i nostri giuramenti e la nostra serietà, furono i vostri occhi celestiali, che investigano le nostre colpe, che ci tentarono a commetterle. Perciò, signore, essendo il nostro amore originato da voi, vostro è anche ogni errore in cui quell'amore è incorso. Siamo traditori di noi stessi, col tradire una volta per essere leali per sempre verso coloro che ci hanno resi insieme e traditori e leali ...

cioè voi, belle signore; e così persino quella infedeltà, che è in se stessa un peccato, si purifica e diventa una virtù.

PRINCIPESSA: Abbiamo ricevuto le vostre lettere piene d'amore, i vostri doni, ambasciatori dell'amore, e nel nostro verginale consiglio li considerammo galanterie, piacevoli scherzi, cortesie, come una sorta di bambagia destinata a imbottire l'abito del momento. Ma più zelanti di così non siamo state nelle nostre considerazioni, e quindi accogliemmo il vostro amore secondo le apparenze che aveva, come uno scherzo.

DUMAIN: Le nostre lettere, signora, rivelavano molto di più che uno scherzo.

LONGAVILLE: Ed anche i nostri sguardi.

ROSALINA: Non li abbiamo interpretati in tal maniera.

RE: Adesso, all'ultimo minuto di questa ora, accordateci il vostro amore.

PRINCIPESSA: Mi sembra uno spazio di tempo troppo breve, per concludere un contratto che durerà eterno. No, no, mio signore, Vostra Grazia ha spergiurato ed è colmo di una grave colpevolezza, e quindi ascoltatemi: se per amor mio - causa che non credo esistere - volete fare qualcosa, ecco quel che farete, perché non mi fido del vostro giuramento: recatevi al più presto in qualche romitaggio solitario e desolato, remoto da tutti i piaceri del mondo, e rimanete colà sinché i dodici segni dello zodiaco non abbiano compiuto il loro corso annuale. Se quella vita austera e insociabile non muterà l'offerta che avete fatto nell'ardore del vostro sangue, se il gelo e i digiuni, il duro alloggio e gli scarsi panni non faranno avvizzire lo smagliante fiore dell'amor vostro, ma se questo anzi sopporterà tale prova e supremo cimento d'affetto allora, allo spirare di un anno, venite a chiedermi. Chiedetemi per questi vostri meriti, e per questa mia vergine mano che adesso stringe la tua, ti prometto che sarò tua. Fino a quel momento chiuderò la mia dolente persona in una dimora di lutto, a versare una pioggia di lacrime dolorose al ricordo della morte di mio padre. Se tu rifiuti questo, che le nostre mani si dividano, perché nessuno dei due ha diritti sul cuore dell'altro.

RE: Se mai rifiutassi questo, o una prova ancor più grave, per cullare nel riposo queste mie facoltà, vorrei che l'improvvisa mano della morte mi chiudesse gli occhi! D'ora innanzi il mio cuore è chiuso nel tuo seno per sempre.

BIRON: E a me che dite, amor mio? che mi dite?

ROSALINA: Anche voi dovete purificarvi, poiché i vostri peccati sono smisurati. Siete contaminato di colpe e spergiuro, e quindi, se avete intenzione di acquistarvi il mio favore dovete trascorrere dodici mesi, senza prendere riposo, vegliando al capezzale doloroso dei malati.

DUMAIN: E che dite a me, amor mio? che mi dite?

CATERINA: Moglie a voi? Una barba, buona salute e onore, ecco le tre cose che vi auguro con triplice affetto.

DUMAIN: Oh, devo dirvi grazie, gentile moglie?

CATERINA: No, mio signore. Per dodici mesi e un giorno non voglio ascoltare le parole dei corteggiatori dall'aria affabile. Venite quando il re verrà dalla mia signora e allora, se avrò molto amore, ve ne darò un poco.

DUMAIN: Ti servirò lealmente e fedelmente fino allora.

CATERINA: Ma non giurate, per paura di commettere un nuovo spergiuro.

LONGAVILLE: E che dice Maria?

MARIA: Al termine di dodici mesi cambierò la mia veste nera per un innamorato fedele.

LONGAVILLE: Attenderò con pazienza, ma il tempo è lungo.

MARIA: Tanto più vi somiglia, poiché pochi giovani sono alti come voi.

BIRON (a Rosalina): Cosa medita la mia dama? Guardatemi, signora.

Guardate nella finestra del mio cuore, nel mio occhio, quale umile supplica attende lì un tuo responso. Imponetemi qualche servizio per provarvi il mio amore.

ROSALINA: Ho spesso udito parlar di voi, monsignor Biron, prima di vedervi, e la libera lingua del mondo vi proclama uomo colmo di scherni, pieno di similitudini e di sarcasmi mordenti, che voi lanciate su ogni sorta di persona che giaccia alla mercé del vostro spirito. Per strappare questo assenzio dal vostro fecondo cervello e quindi, se lo desiderate, per conquistare me che solo a tal prezzo potrete conquistare, trascorrerete un anno, giorno per giorno, a visitare i malati silenziosi e a conversare con gli infelici che gemono, e sarà vostro compito indurre al sorriso gli infermi doloranti con tutti gli ardenti sforzi del vostro spirito.

BIRON: Suscitare risa sfrenate nella gola della morte? Non si può, è impossibile; l'allegria non può commuovere un'anima agonizzante.

ROSALINA: Ebbene, questo è il modo per soffocare uno spirito irrisore, il cui influsso è originato da quel facile compiacimento che gli ascoltatori pronti al riso accordano agli sciocchi. Il successo di uno scherzo giace nell'orecchio di colui che lo ascolta e mai nella lingua di chi lo fa: quindi se le orecchie dei malati, assordate dal clamore delle loro stesse grida, vorranno ascoltare le vostre vane beffe, continuate pure, ed io vi accetterò assieme a quel difetto. Ma se essi non vorranno, gettate via quello spirito ed io vi ritroverò libero da tal difetto, tutta felice del vostro emendamento.

BIRON: Un anno! Ebbene, accada quel che accada, scherzerò per un anno in un ospedale.

PRINCIPESSA (al Re): Sì, mio dolce signore, e così prendo congedo da voi.

RE: No, signora, vogliamo accompagnarvi.

BIRON: Il nostro corteggiamento non finisce come una vecchia commedia.

Il giovanotto non si è presa la sua ragazza, ma la cortesia di queste signore avrebbe ben potuto cambiare la nostra festa in commedia.

RE: Suvvia, signore, abbiamo da aspettare soltanto un anno e un giorno, e poi sarà finita.

BIRON: E' troppo lungo per una commedia.

 

(Rientra ARMADO)

 

ARMADO: Soave Maestà, consentitemi...

PRINCIPESSA: Non è forse il nostro Ettore?

DUMAIN: Il prode cavaliere di Troia.

ARMADO: Voglio baciare il tuo dito regale, e prender congedo. Ho pronunciato un voto: ho giurato a Giacometta di guidar l'aratro per amor suo durante tre anni. Ma, o stimatissima Grandezza, volete udire il dialogo che i nostri due dotti hanno composto in lode della civetta e del cuculo? Avrebbe dovuto essere il pezzo finale della nostra rappresentazione.

RE: Falli venire subito: li ascolteremo.

ARMADO: Olà, avvicinatevi!

 

(Rientrano OLOFERNE, NATANIELE, TIGNOLA, ZUCCA, ed altri)

 

Da questa parte c'è "Hiems", l'inverno, e questi è "Ver", la primavera: l'uno rappresentato dalla civetta, e l'altro dal cuculo.

"Ver", incomincia.

CANZONE.

PRIMAVERA: Quando viole e pratoline,
Ed i billéri bianchi d'argento
Ed i ranuncoli dal giallo crine
Fanno ogni prato d'april contento,
Il cucco allora, su ogni pianta,
Burla i mariti, ché così canta:

Cuccù,

Cuccù, cuccù, suono di morte
Ingrato a orecchi di consorte!

Quando le avene suona il pastore,
E covan tortore, cornacchie e gazze,
Segna la lodola al villan l'ore,
E imbiancar tuniche fan le ragazze.

Il cucco allora, su ogni pianta,
Burla i mariti, ché così canta:

Cuccù,

Cuccù, cuccù suono di morte
Ingrato a orecchi di consorte!

INVERNO: Quando i ghiaccioli pendon dai tetti,
Ed il pastore gratta il suo orecchio,
E Maso reca nell'atrio i ceppi,
E il latte gela che vien nel secchio,
E il sangue è rigido, le vie son rotte,
Civette estatiche cantan la notte:

Tu-uit,

To-u; allegro accento,
Mentre Marcolfa schiuma la pentola,
Quando il rovaio soffia più greve,
E il dir del parroco muor nella tosse,
Gli uccelli posano giù tra la neve,
E la Marianna le gote ha rosse,
E in teglia sfrigolan le mele cotte,
Civette estatiche cantan la notte:

Tu-uit,

Tu-u; allegro accento.

Mentre Marcolfa schiuma la pentola.

ARMADO: Le parole di Mercurio sembran stridenti dopo il canto d'Apollo. Voi da quella parte, e noi da questa.

 

(Escono

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