Edgar Allan Poe

 

STRAVAGANZE

 

 

 

  • MISTIFICAZIONE
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    Slid, se questi sono i vostri "passadoss" e "montantes", io non ne voglio sapere.

    (Ned Knowles).

     

    Il Barone Ritzner von Jung apparteneva ad una nobile famiglia ungherese, ogni membro della quale, almeno risalendo ai tempi sin dove possono giungere i ricordi, era più o meno noto per attitudini particolari, ma soprattutto per quella specie di grotesquerie nell'ideare, della quale Tieck, un rampollo della casa, ha offerto alcuni brillanti (se non proprio i più brillanti) esempi. La mia dimestichezza con Ritzner iniziò nel magnifico Château Jung, dove una serie di buffonesche avventure, che non sono da render pubbliche, mi condusse durante i mesi del 18... Fu qui che riuscii ad ottenere un posto nella sua considerazione e, con maggiore difficoltà, una parziale conoscenza della sua conformazione mentale. Negli ultimi giorni questa conoscenza era diventata più profonda; e quando dopo tre anni di separazione, ci trovammo a G..., io conoscevo quanto era necessario conoscere del carattere del Barone Ritzner von Jung.

    Ricordo il mormorio di curiosità che il suo arrivo suscitò nei penetrali del collegio, quella notte del venticinque giugno. E ricordo meglio ancora che, mentre egli fu giudicato a prima vista da tutte le riunioni come l'"uomo più singolare del mondo", nessuno tentò di spiegarsi questo giudizio. Che egli fosse UNICO appariva così innegabile, da far giudicare fuori di proposito il vedere in che cosa questa singolarità consistesse.

    Ma, abbandonando per ora questo discorso, osserverò semplicemente che, fin dal primo momento in cui egli pose piede all'Università, cominciò a esercitare sulle abitudini, le maniere, le persone, le borse e le tendenze di tutta la compagnia che lo circondava, l'influenza più completa e dispotica; e, nello stesso tempo, la più indefinita e in complesso inspiegabile. E' certo che il breve periodo della sua permanenza all'Università costituisce un'era negli annali di questa, e viene chiamato da ogni classe di persone che appartennero a quella, o ad altra vicina, "l'epoca, veramente straordinaria, della dominazione del Barone Ritzner von Jung".

    Appena arrivato a G..., egli mi cercò nel mio alloggio. Era allora di un'età indefinita, e con ciò voglio dire che non era possibile indovinare quanti anni avesse proponendo una data piuttosto che un'altra. Avrebbe potuto avere quindici anni come cinquanta, e ne aveva effettivamente ventuno e sette mesi. Non era affatto un bell'uomo; forse, anzi, ne era l'antìtesi. Il profilo del suo volto era alquanto angoloso e duro. La fronte, alta e molto bella; il naso un bitorzolo; gli occhi grandi, pesanti, vitrei e senza espressione. La bocca si prestava di più all'osservazione. Le labbra erano lievemente sporgenti e combaciavano in tal maniera, che non era possibile immaginare un'associazione di fattezze umane, per complessa che potesse essere, capace di destare in modo altrettanto unico e totale l'idea di gravità senza attenuazioni, di solennità e di riposo.

    Si comprenderà senza dubbio, da quanto ho detto, che il Barone costituiva uno di quegli esseri eccentrici in cui talvolta ci si imbatte, e per i quali la mistificazione costituisce lo studio e l'occupazione della vita.

    Per questa scienza un'attitudine particolare della mente gli offriva istintivamente lo spunto, mentre la sua apparenza fisica gli dava facilità insolite a mandare ad effetto i suoi propositi.

    Io credo per certo che nessuno studente di G..., durante quell'epoca famosa, così stranamente chiamata "della dominazione del Barone Ritzner von Jung", giungesse mai ad una esatta conoscenza del mistero che adombrava il suo carattere.

    Ritengo sinceramente che nessuno all'Università, eccezione fatta per me, lo abbia mai sospettato capace di uno scherzo, verbale o no; sarebbe stato accusato più facilmente il vecchio cane mastino del cancello - lo spettro di Eraclito - o la parrucca dell'emerito professore di Teologia. E ciò quando era evidente che i migliori e i più imperdonabili di tutti gli scherzi, delle eccentricità e delle buffonerie concepibili, erano organizzati, se non direttamente da lui, almeno certo attraverso la sua azione di intermediario o con la sua connivenza. La bellezza, se così posso chiamarla, della sua arte MYSTIFIQUE, risedeva nell'abilità consumata (risultante da una sua conoscenza certamente intuitiva della natura umana, e da una padronanza di se stesso che aveva del meraviglioso) con cui egli non mancava mai di far apparire come le beffe che si dedicava a portare a buon fine nascessero in parte a dispetto, e in parte come conseguenza, dei lodevoli sforzi da lui fatti per prevenirle e per conservare il buon ordine e la dignità dell'Alma Mater. La profonda, toccante, sconsolata mortificazione che, dopo ogni simile fallimento dei suoi lodevoli sforzi, soffondeva ogni suo lineamento, non lasciava il minimo posto al dubbio sulla sua sincerità, nel cuore dei suoi compagni anche più scettici. Né era meno degna di nota la destrezza con la quale egli riusciva a spostare il senso del grottesco dal creatore alla creatura - dalla sua propria persona alle assurdità alle quali aveva dato origine. In nessun caso, prima di quello del quale parlo, io compresi che l'esito abitualmente mistificatorio era la naturale conseguenza dei suoi atti - un'intima unione del ridicolo al suo stesso carattere e alla sua stessa persona. Continuamente avvolto in un'atmosfera di eccentricità, il mio amico pareva vivesse solo per le cose gravi della vita; e neppure la sua stessa casata ha mai per un momento associato, alla memoria del Barone Ritzner von Jung, altre idee se non quelle del rigorismo e della dignità.

    Nell'epoca della sua residenza a G... sembrò veramente che il demone del dolce far niente opprimesse l'Università come un incubo. Nulla si faceva, infatti, se non mangiare, bere e stare allegri. Gli alloggi degli studenti erano convertiti in altrettante bettole, e non ce n'era una più frequentata di quella del Barone. Qui le nostre gozzoviglie erano molte, tempestose, lunghe, e sempre fruttuose di eventi.

    Una volta avevamo protratto la nostra visita sin quasi all'alba, e si era bevuto del vino in quantità insolita. La compagnia consisteva di sette od otto persone, oltre al Barone e a me. La maggior parte di queste erano giovanotti ricchi, dalla parentela altolocata, con un grande orgoglio famigliare, e tutti pieni di un esagerato senso dell'onore. Erano imbevuti delle opinioni più ultratedesche riguardo al duello. A questi atteggiamenti donchisciotteschi avevano dato nuovo vigore e impulso alcune recenti pubblicazioni parigine, seguite da tre o quattro disperati e fatali recontres a G...; e così la conversazione, per la massima parte della notte, si era sbizzarrita sul tema predominante del momento. Il Barone, che era stato insolitamente silenzioso e assorto nella prima parte della serata, sembrò alla fine riscuotersi dalla sua apatìa e prese una parte preponderante nella discussione; dissertò sui benefici, e maggiormente sulle bellezze, del nuovo codice d'etichetta degli incontri d'armi, con un ardore, un'eloquenza, una forza di persuasione, un'appassionatezza di modi, che provocarono il più caldo entusiasmo dei suoi ascoltatori in genere, e scossero persino me, che ben sapevo come egli fosse intimamente un beffeggiatore di quegli stessi punti sui quali discuteva, e come in particolare considerasse tutta quanta la fanfaronnade del duellare col sovrano disprezzo che essa merita.

    Guardandomi intorno durante una pausa del discorso del Barone - del quale i lettori potranno farsi una pallida idea se dirò che esso arieggiava la maniera fervida, cantante, monotona eppure musicale dei sermòni di Coleridge -, notai sintomi di qualcosa di più che non l'interesse generale, nel contegno di uno degli ospiti. Questi, che chiamerò Hermann, era un originale sotto ogni aspetto, eccettuato, forse, il singolo particolare della sua grandissima stupidità. Egli tentava, per altro, di procurarsi in un ristretto gruppo dell'Università, una nomea per i suoi profondi pensieri metafisici e, credo, per qualche talento discorsivo. Come duellista aveva acquistato gran fama, anche a G.... Non ricordo il numero preciso delle vittime cadute per opera sua; ma erano parecchie. Era un uomo di fegato, senza dubbio. Ma più specialmente egli s'inorgogliva per la sua minuta familiarità con l'etichetta del duello, e per la squisitezza del suo senso d'onore. Queste cose erano un DADA per il quale egli sarebbe morto. A Ritzner, sempre sul chi vive in cerca del grottesco, le sue peculiarità avevano già da lungo tempo offerto lo spunto per una mistificazione. Di questo, tuttavia, io non ero informato:

    pure, nella presente occasione, vidi chiaramente che il mio amico aveva qualcosa di eccentrico sul tappeto, e che Hermann ne era lo speciale oggetto.

    Mentre il primo procedeva nel suo discorso, o meglio monologo, mi accorsi che l'eccitazione del secondo cresceva da un momento all'altro. Alla fine egli parlò, muovendo qualche obiezione ad un punto sul quale Ritzner aveva insistito, ed esponendo diffusamente le sue ragioni. A queste rispose finalmente il Barone (sempre mantenendo il suo tono esageratamente sentimentale) e concluse (cosa che io ritenni di assai cattivo gusto) con un sarcasmo e un sogghigno. Il DADA di Hermann gli prese allora la mano, e io lo capii dalla studiata sottigliezza farraginosa della sua replica.

    Ricordo distintamente le sue ultime parole:

    - Le vostre opinioni, permettetemi di dirlo, Barone von Jung, per quanto corrette in complesso, sono, in parecchi e svariati punti, tali da discreditare voi stesso e l'Università della quale siete membro. Sotto alcuni aspetti esse sono perfino immeritevoli di una seria confutazione.

    Direi di più, signore, se non temessi di offendervi, - qui l'interlocutore sorrise blandamente, - direi, signore, che le vostre opinioni non sono quelle che ci si dovrebbero aspettare da un gentiluomo.

    Poiché Hermann ebbe completato questo giudizio ambiguo, tutti gli occhi si rivolsero al Barone. Questi divenne pallido, poi estremamente rosso, quindi, lasciato cadere il suo fazzoletto, si chinò per raccoglierlo, e io notai in un attimo il suo atteggiamento, mentre nessun altro a tavola poteva scorgerlo. Era raggiante, con l'espressione burlesca che era connaturata al suo carattere, ma quale non gliel'avevo mai vista assumere, se non quando eravamo soli ed egli si lasciava andare liberamente. Un istante dopo era in piedi, di fronte ad Hermann; e certo io non avevo mai vista un'alterazione così totale dell'atteggiamento in un periodo di tempo così breve. Per un momento immaginai perfino d'essermi sbagliato sul suo conto, e che egli fosse in colera sul serio. Sembrava soffocare per l'ira, e la sua faccia era d'un pallore cadaverico. Per un attimo rimase silenzioso, lottando, apparentemente, per dominare la sua emozione. Alla fine, afferrò una caraffa che stava presso di lui, dicendo, mentre la teneva saldamente stretta: - Il linguaggio che avete creduto di adoperare rivolgendovi a me, Mynheer Hermann, è suscettibile di obiezioni in molti e svariati punti, che io non ho né la pazienza né il tempo di precisare.

    Dire, ad ogni modo, che le mie opinioni non sono quelle che ci si dovrebbero aspettare da un gentiluomo, è un'osservazione così direttamente offensiva da non consentirmi che una sola linea di condotta. Una certa cortesia, ciò nonostante, è dovuta alla presenza di questi signori, e a voi stesso, in questo momento, quale mio convitato. Mi scuserete dunque se io, in ordine a questa considerazione, mi discosto leggermente da quel che si usa fare tra gentiluomini in simili casi di affronti personali. Perdonerete il lieve sforzo che io imporrò alla vostra immaginazione cercando di considerare, per un istante, il riflesso della vostra persona nello specchio laggiù, come Mynheer Hermann in persona. Fatto questo, non vi sarà nessunissima difficoltà. Io lancerò questa caraffa di vino contro la vostra immagine là nello specchio, e appagherò così tutto lo spirito, se non proprio la lettera del mio risentimento per il vostro insulto, mentre la necessità della violenza fisica contro la vostra vera persona sarà ovviata. Dopo queste parole scagliò la caraffa, piena di vino, contro lo specchio appeso proprio di fronte ad Hermann; colpendo l'immagine riflessa della sua persona con grande precisione, e naturalmente riducendo il vetro in frantumi. Tutti si alzarono e si allontanarono, ad eccezione di me e di Ritzner. Mentre Hermann usciva, il Barone mi bisbigliò che avrei dovuto seguirlo e offrirgli la mia assistenza. E io acconsentii; non sapendo però precisamente come assolvere un incarico così ridicolo. Il duellista accettò il mio aiuto con la sua solita aria contegnosa e ULTRA RECHERCHEE e, prendendomi sotto braccio, mi condusse nel suo appartamento. A fatica mi trattenni dal ridergli in faccia mentre si metteva a discutere, con la più profonda gravità, quello che chiamava "il carattere raffinatamente peculiare" dell'insulto che aveva ricevuto. Dopo una noiosa arringa nel suo solito stile, tirò giù dai suoi scaffali un certo numero di muffosi volumi sul tema del duello, e m'intrattenne a lungo sul loro contenuto; leggendo ad alta voce, e commentando premurosamente via via. Posso appena ricordare il titolo di qualcuno dei lavori. C'era l'ORDINANZA DI FILIPPO IL BELLO SULLA SINGOLAR TENZONE; il TEATRO DELL'ONORE di Favyn, e un trattato SUL PERMESSO DEI DUELLI di D'Audiguier. Egli sfoggiò anche, con gran pompa, le MEMORIE DEI DUELLI di Brantôme, pubblicate a Colonia nel 1666 coi tipi Elzeviri, un prezioso e unico volume in pergamena, con un bel margine, e rilegato da Derôme. Ma attirò particolarmente la mia attenzione, con un'aria saputa e misteriosa, su di un grosso in ottavo, scritto in latino barbaro da un certo Hédelin, francese, e avente il curioso titolo:

    DUELLI LEX SCRIPTA, ET NON; ALITERQUE. Di questa egli mi lesse un capitolo dei più strani, concernente le "Injuriae per applicationem, per constructionem, et per se", circa la metà del quale, egli asseriva, era strettamente applicabile al suo caso "raffinatamente peculiare" benché io non potessi comprendere una sillaba di tutta quella storia. Terminato il capitolo, chiuse il libro, e mi chiese che cosa ritenessi necessario fare. Replicai che avevo piena fiducia nella sua squisita delicatezza, e che mi sarei attenuto a quanto egli avrebbe proposto. Parve lusingato da questa risposta, e sedette per scrivere una nota al Barone che suonava così:

    "Signore, il mio amico P... vi porterà questa nota. Trovo che spetta a me il richiedere, col vostro sollecito beneplacito, una spiegazione dei fatti occorsi questa sera nei vostri appartamenti.

    Nell'eventualità che voi non aderiste alla mia richiesta, il signor P... sarà lieto di accordarsi, con qualsiasi amico che voi possiate deputare, su quei passi che preludano a un incontro.

    Con sensi di perfetta osservanza, il vostro umilissimo servo." Johann Hermann.

    Al Barone Ritzner von Jung 18 agosto 18..

    Andai da Ritzner con questa epìstola. Egli s'inchinò, come gliela presentai; quindi, con atteggiamento grave, m'invitò a sedermi.

    Dopo aver esaminato attentamente il cartello, scrisse la seguente replica, che io portai ad Hermann.

    "Signore, per mezzo del nostro comune amico, signor P..., ho ricevuto la vostra nota di questa sera. Dopo debita riflessione ammetto francamente la convenienza della spiegazione che suggerite. Ciò posto, trovo tuttavia una grande difficoltà (dovuta alla natura RAFFINATAMENTE PECULIARE del nostro dissenso, e del personale affronto recatomi) nel redigere ciò che io devo dire come giustificazione in modo tale da riunire tutte le minute esigenze e tutte le varie sfumature del caso. Ho grande fiducia, però, nell'estrema delicatezza di discriminazione in queste materie appartenenti alle regole dell'etichetta, per la quale siete stato distinto così a lungo e in modo così superlativo. Con perfetta certezza, dunque, di essere compreso, mi permetto, invece di esternare alcun sentimento mio proprio, di rimandarvi alle opinioni del Sieur Hédelin, come esse sono esposte nel nono paragrafo delle INJIURIAE PER APPLICATIONEM, PER CONSTRUCTIONEM, ET PER SE, nella sua DUELLI LEX SCRIPTA ET NON, ALITERQUE. La squisitezza del vostro criterio in tutte le questioni lì trattate sarà sufficiente, ne sono certo, a convincervi che la semplice circostanza che io vi rinvii a questo mirabile brano dovrebbe soddisfare la vostra richiesta, come uomo d'onore, di una spiegazione.

    Con sentimenti di profondo rispetto, il vostro ubbidientissimo servo Von Jung".

    Herrn Johann Hermann.

    18 agosto 18..

    Hermann cominciò a leggere con un cipiglio, che però si convertì in un sorriso della più ridicola compiacenza di sé, quando giunse alla tiritéra sulle INJIURIAE PERAPPLICATIONEM,PER CONSTRUCTIONEM, ET PER SE. Terminata la lettura mi pregò, col più blando dei sorrisi, di accomodarmi, mentre egli consultava il trattato in questione. Giunto al passo specifico, lesse con gran cura, poi chiuse il libro, e volle che io, nella mia qualità di conoscente di fiducia, esprimessi al Barone von Jung i suoi alti sensi per il suo cavalleresco comportamento e, in quella di secondo, lo assicurassi che la spiegazione proposta era della natura più piena, più onorevole e più inequivocabile che si potesse dare.

    Piuttosto sorpreso da tutto questo, ritornai dal Barone. Egli sembrò ricevere l'amichevole lettera di Hermann come una cosa naturale e, dopo alcune parole generiche di conversazione, andò in una stanza interna e trasse fuori il DUELLI LEX SCRIPTA, ET NON, ALITERQUE. Mi porse il volume e mi chiese di esaminarne un brano.

    Il che io feci, ma con scarso risultato, non essendo capace di trarne la più piccola particella di senso. Allora egli stesso prese il volume, e me ne lesse un capitolo a voce alta. Con mia sorpresa, ciò che egli leggeva si rivelò come il racconto più spaventosamente assurdo di un duello fra due babbuini. Mi spiegò allora il mistero; mostrandomi che il volume, come esso appariva prima facie, era scritto sopra lo schema dei versi privi di senso del Du Bartas; cioè che il linguaggio era ingegnosamente composto sì da presentare all'orecchio tutti i segni esteriori dell'intelligibilità, e anche della profondità, mentre in atto non esisteva neppure l'ombra del significato. La chiave di tutto la si trovava nel tralasciare alternativamente ogni seconda e terza parola, e allora appariva una serie di ridicoli motteggi sopra una singolare tenzone come viene praticata nei tempi moderni. Il Barone mi informò in seguito che egli aveva messo apposta il trattato sulla via di Hermann due o tre settimane prima dell'avventura, e che aveva capito con soddisfazione, dal generale tenore della sua conversazione, che egli l'aveva studiato con la più profonda attenzione, e che lo credeva fermamente un lavoro di importanza eccezionale. Su questa base aveva agito. Hermann sarebbe morto mille volte, piuttosto che riconoscere la sua incapacità a intendere ogni e qualsiasi cosa che fosse mai stata scritta intorno al duello.

     

     

     

  • L'IMBROGLIO CONSIDERATO COME UNA SCIENZA ESATTA
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     Hey, diddle diddle The cat and the fiddle.

    (Mother Goose).

     

    Dacché il mondo è mondo ci sono stati due Geremìa. L'uno scrisse una geremìade intorno all'usura, e si chiamò Geremìa Bentham. E' stato molto ammirato dal signor Giovanni Neal, e fu un grand'uomo in un piccolo senso.

    L'altro diede il nome alla più importante fra le scienze esatte, e fu un grand'uomo in un gran senso; potrei dire, anzi, nel più grande dei sensi.

    L'imbroglio, o l'idea astratta resa dal verbo imbrogliare, è abbastanza facile a capirsi. Pure, il fatto, l'azione, la cosa, L'IMBROGLIARE, è un po' difficile da definire. Possiamo tuttavia giungere a una nozione abbastanza precisa del soggetto in esame, se definiamo non la cosa, l'imbroglio di per se stesso, ma l'uomo come un animale che imbroglia. Se Platone avesse soltanto imbroccato questa definizione, gli sarebbe stato risparmiato l'affronto della gallina spennata.

    Venne chiesto molto giustamente a Platone perché una gallina spennata, la quale era certo un "bipede implume", non fosse, stando alla sua stessa definizione, un uomo. Ma io non intendo preoccuparmi di simili questioni.

    L'uomo è un animale che imbroglia, e nessun animale imbroglia, tranne l'uomo. Ci vorrà un'intera stìa di galline spennate per dir meglio di così. Quel che costituisce l'essenza, il succo, il principio dell'imbrogliare è, infatti, specifico della classe di creature che portano vesti e calzoni. Un corvo ruba; una volpe fura; una donnola carpisce; un uomo imbroglia.

    Imbrogliare è il suo destino. "L'uomo fu fatto per lamentarsi", dice il poeta. Non sono d'accordo: l'uomo fu fatto per imbrogliare. Questa è la sua mira, il suo oggetto, il suo FINE.

    L'imbrogliare, considerando bene, è un composto, gli ingredienti del quale sono: esiguità, interesse, perseveranza, ingegnosità, audacia, nonchalance, originalità, impertinenza, e ghigno.

    ESIGUITA'. L'imbroglione è minuto. Le sue operazioni sono su piccola scala.

    Il suo affare è in dettaglio, per contanti o su documenti validi a vista.

    Se egli viene mai tentato dalle vaste operazioni, perde all'istante i suoi lineamenti caratteristici, e diventa ciò che noi chiamiamo un "finanziere".

    Questa parola corrisponde al concetto di imbroglio sotto tutti i rapporti, tranne quello delle dimensioni. Un imbroglione può quindi esser considerato come un banchiere IN PETTO; una "operazione finanziaria", come un imbroglio a Brobdingnag. L'una sta all'altra come Oméro a Flacco, come un mastodonte a un topo, come la coda di una cometa a quella di un porcellino.

    INTERESSE. L'imbroglione è guidato dall'interesse personale. Egli disdegna d'imbrogliare per il puro amore dell'imbroglio. Ha un oggetto in vista, la sua tasca e la vostra. Bada sempre all'essenziale. Guarda al Numero Uno.

    Voi siete il Numero Due, e dovete badare a voi stesso.

    PERSEVERANZA. L'imbroglione persevera. Non si scoraggia facilmente. Anche se le banche saltassero non gliene importerebbe nulla. Egli persegue facilmente il suo fine e UT CANIS A CORIO NUNQUAM ABSTERREBITUR UNCTO così egli non abbandona mai il suo gioco.

    INGEGNOSITA'. L'imbroglione è ingegnoso. Ha una grande costruttività.

    Comprende le trame. Inventa e circonviene. Se non fosse Alessandro, vorrebbe essere Diogene. Se non fosse un imbroglione, vorrebbe essere un fabbricante di trappole patentate per i topi o un pescatore di trote alla lenza.

    AUDACIA. L'imbroglione è audace ed è un uomo baldanzoso. Porta la guerra in Africa. Prende tutto d'assalto. Non temerebbe i pugnali dei Frey Herren.

    Con un po' più di prudenza Dick Turpin sarebbe stato un buon imbroglione; con un po' meno di parlantina, Daniel O'Connel; con una o due libbre di cervello in più, Carlo dodicesimo.

    NONCHALANCE. L'imbroglione è nonchalant. Non è affatto nervoso.

    Non ha mai avuto nervi. Non si lascia mai indurre alla furia. Non va mai di fuori, se non è messo fuori dell'uscio. Egli è freddo - freddo come un cocomero. Egli è calmo - calmo come un sorriso di Lady Bury. Egli è cedevole - cedevole come un vecchio guanto, o come le donzelle dell'antica Baja.

    ORIGINALITA'. L'imbroglione è originale, e lo è coscienziosamente.

    I suoi pensieri sono proprio suoi. Egli sdegnerebbe di adoperare quelli di un altro. Un trucco rubato è la sua avversione. Egli restituirebbe una borsa, ne sono certo, se scoprisse di averla ottenuta mediante un imbroglio non originale.

    IMPERTINENZA. L'imbroglione è impertinente. Egli è pieno di iattanza. Si mette le mani sui fianchi. Vi sghignazza in faccia.

    Vi pesta i calli.

    Mangia il vostro pranzo, beve il vostro vino, prende a prestito il vostro danaro, vi tira il naso, piglia a calci il vostro cucciolo, e abbraccia vostra moglie.

    GHIGNO. Il vero imbroglione avvolge tutto con una sghignazzata. Ma nessuno lo vede. Egli sghignazza quando il suo lavoro è compiuto - quando le sue fatiche sono finite - di notte, nel suo proprio rifugio, nel suo privato divago. Va a casa, chiude la porta a chiave, si spoglia, spegne la candela, entra a letto, pone la testa sopra il guanciale. Fatto tutto questo, l'imbroglione sghignazza. Questa non è un'ipotesi: è un dato di fatto. Io ragiono A PRIORI, e un imbroglio NON sarebbe un imbroglio senza una sghignazzata.

    L'origine dell'imbroglio può ricondursi all'infanzia della razza umana.

    Forse il primo imbroglione fu Adamo. Comunque possiamo trovare le tracce di questa scienza fino ad un periodo assai remoto dell'antichità. I moderni, peraltro, lo hanno portato a una perfezione che i nostri progenitori, duri di comprendonio, non avevano mai sognata. Senza indugiarmi a parlare quindi delle "antiche tradizioni", mi limiterò ad un compendioso ragguaglio su alcuni dei casi più moderni.

    Un ottimo imbroglio è il seguente. Una massaia in cerca di un divano, per esempio, viene vista entrare e uscire in diversi negozi di mobili. Alla fine ne trova uno che dispone di un bellissimo assortimento. Viene avvicinata ed invitata a entrare da un individuo cortese e volubile che sta sulla porta. Trova un divano proprio secondo i suoi desideri e, chiesto il prezzo, è sorpresa e contenta di sentirsi dire una cifra almeno un venti per cento minore di quel che si aspettava. Si affretta a fare l'acquisto, riceve un conto e una ricevuta, lascia il suo indirizzo, con la preghiera che l'articolo venga inviato a casa al più presto possibile, ed esce, mentre il negoziante si profonde in inchini. Giunge la sera, e niente divano. Passano alcuni giorni, e il divano non si vede. Viene mandata una donna di servizio a chiedere il motivo del ritardo. L'acquisto è completamente smentito. Nessun divano è stato venduto - nessuno ha ricevuto denari - eccettuato l'imbroglione, il quale ha fatto da negoziante per la circostanza.

    I nostri negozi di mobili sono lasciati completamente incustoditi, e consentono così con ogni facilità scherzi di questo genere. I visitatori entrano, guardano la merce, e se ne vanno inosservati.

    Per il caso in cui qualcuno desiderasse fare un acquisto, o chiedere il prezzo di un articolo, c'è un campanello a portata di mano, e si crede che ciò basti ampiamente.

    Un imbroglio rispettabilissimo è inoltre questo. Un individuo ben vestito entra in un negozio; fa un acquisto per il valore di un dollaro; scopre, con grande rammarico, di aver lasciato il suo libretto di cheques nella tasca di un altro vestito; e dice quindi al negoziante:

    - Non importa, non importa!, lei mi farà semplicemente il favore di mandarmi il fagotto a casa, eh? Ma... un momento! Credo proprio che neanche a casa avrei moneta inferiore a un biglietto da cinque. Ad ogni modo, mi potrà mandare quattro dollari di resto insieme al fagotto, non è vero?...

    - Perfettamente, signore - replica il negoziante, che si fa subito un'elevata opinione della delicatezza del cliente. - Conosco della gente, - dice fra sé, - che avrebbe semplicemente messo la merce sotto il braccio, e sarebbe uscita con la promessa di ritornare a pagare il dollaro venendo qua nel pomeriggio.

    Si manda un ragazzo col pacco e col resto dei denari. Per la strada, vedi combinazione!, l'acquirente lo incontra, ed esclama:

    - Ah! questo è il mio fagotto, a quanto pare; credevo che tu l'avessi portato a casa già da un pezzo. Beh, va' va'! Mia moglie, la signora Trotter, ti darà i cinque dollari, gliel'ho lasciato detto. Il resto lo puoi anche dare a me. Avrò bisogno di un po' di spiccioli per l'Ufficio postale. Benissimo! Uno, due - sarà buona questa moneta? - tre, quattro - ottimamente. Di' alla signora Trotter che mi hai incontrato, e ora vai pure, e non ti fermare per strada.

    Il ragazzo non si ferma, ma impiega molto tempo a tornare dalla sua commissione, perché non gli è possibile scoprire alcuna signora che si chiami precisamente Trotter. Si consola, peraltro, pensando che non è stato così sciocco da dare la merce senza il danaro e, rientrando in negozio con un'aria soddisfatta di se medesimo, si sente assai offeso e indignato quando il padrone gli chiede che cosa sia avvenuto del resto.

    Un imbroglio veramente semplicissimo è questo. Al capitano di un piroscafo in partenza viene presentato da una persona dall'aria ufficiale un conto di spese portuali insolitamente modesto.

    Contento di uscirne così a buon mercato, e confuso da una quantità d'incombenze che gli piovono addosso tutte insieme, egli soddisfa subito la richiesta. Dopo circa quindici minuti un altro conto, meno ragionevole, gli è presentato da un'altra persona la quale facilmente dimostra che il primo esattore era un imbroglione, e che la prima esazione era un imbroglio.

    Ancora una cosa del genere. Un piroscafo sta per lasciare il molo.

    Si scorge un viaggiatore coi bagagli in mano correre verso il molo a tutta velocità. A un tratto, egli si ferma di botto, e raccoglie qualcosa da terra con aria agitatissima. Si tratta di un libretto di assegni, e "Chi ha perduto un libretto di assegni?", egli grida. Nessuno sa dire esattamente di aver perduto un libretto di assegni; ma ne segue una viva agitazione quando si scopre che il rinvenimento è di grande valore. Il piroscafo, peraltro, non può ritardare la partenza.

    - Il tempo e la marea non attendono nessuno - dice il capitano.

    - Per l'amor di Dio, aspetti un minuto, - dice il ritrovatore del libretto - il proprietario verrà fuori di certo.

    - Non posso! - replica l'uomo con autorità - La finisca, ha capito?

    - Che cosa DEVO fare? - chiede il ritrovatore, in grandi angustie.

    Sto per lasciare il paese per qualche anno, e non posso in coscienza trattenere questa forte somma. La prego, signore, - qui egli si rivolge a un individuo sulla riva - Lei ha l'aria di una persona per bene. Vuol farmi il favore di incaricarsi di questo libretto - SO che posso fidarmi di Lei - e di mettere un avviso? I tagliandi, vede, ammontano a una somma molto considerevole. Il proprietario, indubbiamente, insisterà per ricompensarla del fastidio.

    - Ricompensare ME!? - no, LEI! - è Lei che ha trovato il libretto.

    - Beh, se PROPRIO lo desidera, accetterò una piccola ricompensa per soddisfare i suoi scrupoli. Mi lasci vedere - ma questi tagliandi sono tutti da cento - diamine! cento è troppo - cinquanta sarebbe più che sufficiente, credo.

    - La finisca - dice il capitano.

    - E d'altronde io non ho da cambiare un biglietto da cento; dopo tutto, farebbe meglio...

    - La finisca! - dice il capitano.

    - Non importa! - grida il signore sulla riva, che ha esaminato il proprio libretto di assegni l'ultimo minuto, o circa. - Non importa! Ci penso io!

    Qui c'è un assegno da cinquanta sulla Banca del Nord America. Mi getti il libretto.

    E l'ultracoscienzioso rinvenitore prende il buono da cinquanta con marcata riluttanza, e getta il libretto al signore, secondo il suo desiderio, mentre il piroscafo fumiga e fischia e se ne va. Dopo circa mezz'ora dalla partenza si vede che la "forte somma" non è che una "contraffazione", e che tutta la faccenda è un imbroglio di prim'ordine.

    Un imbroglio audace è questo. Si deve tenere una riunione all'aperto, o qualcosa di simile, in un luogo che non possa essere raggiunto se non per mezzo di un ponte libero. Un imbroglione staziona su questo ponte, e informa rispettosamente tutti i viandanti che passano della nuova legge della contea, la quale stabilisce un pedaggio di un soldo per ogni pedone, due soldi per cavalli e asini, e via discorrendo. Alcuni brontolano, ma tutti si sottomettono, e l'imbroglione va a casa più ricco di cinquanta o sessanta dollari ben guadagnati. Ma questo esigere un pedaggio da una gran folla di persone è eccessivamente fastidioso.

    Ecco un imbroglio semplice. Un amico possiede una delle cambiali dell'imbroglione, riempita e firmata in debita forma nei moduli bianchi stampigliati in rosso. L'imbroglione acquista una o due dozzine di questi moduli in bianco, e ogni giorno ne intinge uno nella minestra, lo fa prendere con un salto al suo cane, e finalmente glielo dà come BONNE BOUCHE. Giunta la scadenza della cambiale, l'imbroglione, col relativo cane, va dall'amico, e discute sul pagamento promesso. L'amico trae la cambiale dal suo ecritoire, e fa per porgerla all'imbroglione, quando ecco che salta su il cane di questi, e la divora in un FIAT. L'imbroglione è non soltanto sorpreso, ma contrariato e corrucciato per l'assurdo comportamento del suo cane, ed esprime tutta la sua migliore volontà di cancellare l'obbligazione, ogniqualvolta l'evidenza di questa possa venir provata.

    Un imbroglio modesto è il seguente. Una signora viene insultata per la strada da un complice dell'imbroglione. L'imbroglione stesso vola al suo soccorso e, dopo aver dato all'amico una buona lezione, insiste nel voler accompagnare la signora fino alla porta di casa. S'inchina, con la mano sul cuore, e le dice addio col più profondo rispetto. Lei lo invita, come suo liberatore, a entrare, e a lasciarsi presentare al suo fratello maggiore e al suo papà.

    Con un sospiro, egli ricusa.

    - Non vi è dunque modo, signore, - mormora lei - di poterle testimoniare la mia gratitudine?

    - Perché no, signora? Certo che c'è. Vuol essere così gentile da prestarmi un paio di scellini?

    Nella prima eccitazione del momento la signora decide di svenire senza indugio. Ripensandoci, peraltro, apre la borsetta e consegna le monete.

    Ora, dico io, questo è un imbroglio modesto, perché una metà della somma presa a prestito deve pagare il gentiluomo che ha avuto il fastidio di effettuare l'insulto, e che ha dovuto poi star fermo e lasciarsi picchiare per averlo effettuato.

    Un imbroglio piuttosto piccolo, ma tuttavia scientifico, è questo.

    L'imbroglione si avvicina al banco di una taverna, e chiede un paio di pacchetti di tabacco. Questi gli vengono offerti, ma egli, dopo averli sogguardati, dice:

    - Non mi piace troppo, questo tabacco. Qua, riprendetevelo, e datemi invece un bicchiere di mescolanza: acqua e acquavite.

    La bibita viene servita e bevuta, e l'imbroglione si avvia verso la porta.

    Ma la voce del taverniere lo ferma.

    - Mi pare, signore, che lei dimentichi di pagare la mescolanza.

    - Pagare la bibita! ma non ho dato il tabacco, per la bibita? Che cosa volete avere di più?

    - Ma, signore, scusi tanto, io non ricordo che lei l'abbia pagato, il tabacco.

    - Che cosa volete insinuare, briccone? Non ve l'ho reso, il vostro tabacco? Credete che io sia disposto a pagare per quello che non ho preso?

    - Ma, signore..., - dice l'oste, ora un po' a corto di argomenti - ma, signore...

    - Non c'è MA che tenga, - interrompe l'imbroglione, apparentemente molto sdegnato, e sbattendo la porta dietro di sé, mentre taglia la corda. - Non c'è MA che tenga, signore, e non fate di questi scherzi ai viaggiatori.

    Qui segue un altro ottimo imbroglio, la cui semplicità non è il suo minore pregio. Avendo realmente perduto una borsa, o un libretto di assegni, lo smarritore inserisce in UNO dei giornali di una grande città un avviso con una descrizione esauriente.

    E allora il nostro imbroglione copia il CONTENUTO di questa inserzione, cambiandone il titolo, la fraseologia in genere, e l'INDIRIZZO.

    L'originale, per esempio, è lungo e verboso, e intitolato "Un libretto di assegni smarrito!" e avverte che l'oggetto, se ritrovato, deve essere riportato in via Tommaso al numero 1. La copia è breve, intitolata semplicemente "Smarrimento" e indica la via Riccardo numero 2 o la via Arrigo numero 3, come il luogo dove può ricercarsi il proprietario.

    Inoltre, essa è inserita in almeno cinque o sei quotidiani del giorno e, quanto al tempo, appare solo poche ore dopo l'originale.

    Se fosse letta da chi ha smarrito la borsa, questi difficilmente sospetterebbe che essa abbia una qualsiasi relazione con la sua disgrazia. Ma, naturalmente, vi sono cinque o sei probabilità contro una che il rinvenitore si rivolgerà all'indirizzo dato dall'imbroglio piuttosto che a quello indicato dal vero proprietario. Il primo paga la ricompensa, intasca l'oggetto prezioso, e fila.

    Un imbroglio del tutto analogo è il seguente. Una signora "chic" ha lasciato cadere, in qualche punto della strada, un anello di brillanti di eccezionale valore. Per ritrovarlo, essa offre una mancia di quaranta o cinquanta dollari, dando nell'avviso una descrizione molto particolareggiata della gemma, e della sua montatura, e dichiarando che, contro consegna di questa al numero così e così, nel Corso Tal dei Tali, la ricompensa verrà pagata ALL'ISTANTE, senza alcuna domanda in merito.

    Durante l'assenza della signora, un giorno o due dopo, si sente una scampanellata alla porta del numero così e così, nel Corso Tal dei Tali.

    Compare una cameriera; viene chiesto della signora e si risponde che essa è uscita. Il visitatore esprime il suo più vivo rincrescimento a questa stupefacente notizia. Si tratta di un affare importante, che riguarda la signora stessa: egli ha avuto, infatti, la fortuna di ritrovare l'anello di brillanti; ma potrebbe anche tornare un'altra volta... "Neanche per sogno!" dice la cameriera; e "Neanche per sogno!" dicono la sorella della signora e la cognata della signora, subito chiamate. L'anello è clamorosamente riconosciuto, la ricompensa è pagata, e il rinvenitore quasi spinto fuori di casa. La signora ritorna, e manifesta il suo lieve disappunto alla sorella e alla cognata perché, a quanto pare, esse hanno pagato quaranta o cinquanta dollari un facsimile del suo anello di brillanti, un facsimile fatto di vero orpello, e di vetro colorato.

    Ma, poiché non c'è un vero limite agli imbrogli, non ce ne sarebbe neppure uno a questo saggio, ove io intendessi accennare anche alla metà soltanto delle variazioni, o delle inflessioni, delle quali questa scienza è suscettibile. Ma io devo condurre per forza questo scritto a una conclusione, e non credo di poterlo far meglio che dando una precisa relazione di un imbroglio molto elegante, ma piuttosto elaborato, del quale fu teatro la nostra città, in un tempo non molto lontano, e che fu in seguito ripetuto con successo in altri ancor più fiorenti paesi dell'Unione.

    Un signore di mezza età arriva in città da provenienza sconosciuta. E' notevolmente preciso, prudente, posato e ponderato nella sua condotta. Il suo vestito è scrupolosamente pulito, ma semplice, senza ostentazione.

    Porta una cravatta bianca, un ampio panciotto, tagliato unicamente in vista del comfort: scarpe dalla suola alta, dall'apparenza comoda, e pantaloni senza bretelle. Ha in complesso l'aria del bravo, sobrio, esatto e rispettabile "uomo d'affari" PAR EXCELLENCE; una persona di quella specie austera, dure di fuori e tenere di dentro, che vediamo nelle commedie di antico stampo:

    tipi le cui parole sono altrettante obbligazioni, e che sono conosciuti per dar via ghinee, in elemosina, con una mano, mentre, nell'ambito del puro contratto, esigono con l'altra fin l'ultima frazione di centesimo.

    Fa molte storie prima di adattarsi in una pensione. Non gli piacciono i bambini; è stato abituato alla quiete. Le sue abitudini sono metodiche, e quindi egli preferirebbe alloggiare presso una piccola e rispettabile famiglia privata, incline alla devozione. Le condizioni non vengono discusse; egli insiste solo per regolare il conto il primo d'ogni mese (è ora il secondo giorno), e prega la sua padrona, quando finalmente ne trova una che lo soddisfa, di NON dimenticare per alcun motivo le sue istruzioni su questo punto; e di mandargli il conto, e la ricevuta, precisamente alle dieci, il PRIMO giorno di ogni mese, senza rimandarlo per nessuna ragione al secondo.

    Presi questi accordi, il nostro uomo d'affari assume in affitto un ufficio, in un quartiere più ben frequentato che elegante. Non vi è nulla che egli disprezzi come la pretensione. "Dove c'è grande apparenza", egli dice, "raramente si cela qualcosa di molto solido": osservazione che colpisce così profondamente la fantasia della sua padrona di casa, che essa ne fa subito una nota a matita sul largo margine dei Proverbi di Salomone.

    Il punto successivo è fare un'inserzione, in modo più o meno simile al seguente, nei principali periodici di affari della città; i quotidiani sono evitati come non "rispettabili", e perché chiedono il pagamento anticipato di tutte le inserzioni. Il nostro uomo d'affari considera come un articolo di fede che il lavoro non dovrebbe mai esser pagato fintanto che non è eseguito.

    AVVISO: I sottoscritti, essendo in procinto di cominciare vaste operazioni commerciali in questa città, richiedono le prestazioni di tre o quattro segretari intelligenti e competenti, ai quali verrà corrisposto un adeguato stipendio. Si esigono le migliori raccomandazioni, non tanto per le capacità, quanto per l'integrità. Inoltre, poiché le incombenze da assolvere implicano grandi responsabilità, e forti quantità di denaro debbono necessariamente passare per le mani degli impiegati, si stima opportuno di chiedere un deposito di cinquanta dollari per ogni segretario.

    Nessuno si presenti, quindi, se non è disposto a versare questa somma agli inserzionisti, e se non può fornire le più soddisfacenti referenze di moralità. Sono preferiti giovani inclini alla devozione. Rivolgersi fra le ore 10 e 11 antimeridiane e le 4 e le 5 pomeridiane presso: Bogs, Hogs, Logs, Frogs e C., Via del Cane 110.

    Entro il trentuno del mese, questa inserzione ha portato negli uffici dei Signori Bogs, Hogs, Logs, Frogs e Compagnia circa quindici o venti giovanotti dalle tendenze devote. Ma il nostro uomo d'affari non ha fretta di concludere un contratto con alcuno - nessun uomo d'affari è MAI precipitoso - e non è se non dopo il più rigido interrogatorio, avuto riguardo al pietismo di ogni giovane dabbene, che i suoi servizi sono fissati, e i suoi cinquanta dollari accettati, PROPRIO per una particolare precauzione, da parte della rispettabile Ditta Bogs, Hogs, Logs, Frogs e Compagnia. La mattina del primo giorno del mese seguente, la padrona di casa NON presenta il suo conto, contrariamente alla promessa: negligenza questa per la quale l'agiato capo della Casa terminante in OGS l'avrebbe senza dubbio severamente rimproverata, se avesse potuto persuadersi a rimanere in città un giorno o due di più a quello scopo.

    Così come stanno le cose, i poliziotti ne soffrono, dovendo correre su e giù, e tutto quel che possono fare è dichiarare con grande enfasi che l'uomo d'affari è un "eneide", per cui qualcuna immagina che vogliano dire, in realtà, che egli è N. E. I., ciò che ancora si crede voglia significare la classica frase: NON EST INVENTUS. Nel frattempo, i giovani dabbene, tutti senza eccezione, sono un pochino meno tendenzialmente devoti di prima, mentre la padrona di casa acquista per uno scellino una gomma, la migliore, e con gran cura cancella la nota a matita che qualche imbecille ha fatto nella sua grande Bibbia di famiglia, sul vasto margine dei Proverbi di Salomone.

     

     

     

  • L'UOMO D'AFFARI
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    Vecchio proverbio: il metodo è l'anima degli affari.

     

    Io sono un uomo d'affari. Sono un uomo metodico. In fondo, tutto sta nel metodo. Ma non c'è gente che io disprezzi più di cuore di quei pazzoidi che cianciano intorno al metodo senza capirlo; attenendosi strettamente alla sua lettera e violandone lo spirito.

    Costoro fanno sempre le cose più fuori dell'ordinario in una maniera regolare. Ora, a me sembra che questo sia un vero e proprio paradosso! I veri metodi appartengono solo alle cose ordinarie e a quelle ovvie, e non possono applicarsi all'OUTRE'.

    Quale idea definita si potrebbe mai collegare ad espressioni quali "uno zerbinotto metodico" o "un sistematico fuoco fatuo"?

    Le mie nozioni in materia avrebbero potuto non essere chiare come invece sono, senza un fortunato incidente che mi capitò quando ero bambino. Una vecchia nutrice irlandese di buon cuore (che io non dimenticherò nel mio testamento) mi prese un giorno per le calcagna, mentre facevo più chiasso del necessario e, dopo avermi dondolato in giro due o tre volte, giurò che ero un "marmocchiaccio strillone", e sbatté quindi il mio capo contro una colonna del letto, foggiandolo a mo' di tricorno. Ciò, ripeto, decise del mio destino e fece la mia fortuna. Subito spuntò sul sommo del mio capo una protuberanza, e finì col diventare un "organo dell'ORDINE" graziosissimo, una cosa proprio da museo.

    Donde quella spiccata tendenza al sistema e alla regolarità, che mi ha reso quel distinto uomo d'affari che sono.

    Se c'è qualcosa che io detesto a questo mondo è un genio. I vostri cosiddetti geni sono tutti asini matricolati - più grande è il genio tanto più grande è l'asino - e non v'è eccezione a questa regola. In particolare, non è possibile fare di un genio un uomo d'affari, come non si possono tirar fuori dei soldi da un ebreo, o delle buone noci moscate da una pianta di pino. Questi esseri partono subito per la tangente in qualche attività di fantasia, o in ridicole speculazioni, completamente in disaccordo con la "convenienza delle cose", e non hanno mai un'occupazione che possa essere considerata tale. Cosicché il loro carattere si può riconoscere immediatamente dalla natura delle loro professioni. Se mai vedete un tizio che si spaccia per un mercante o per un manifatturiere, o che si dà al commercio del cotone o del tabacco, o ad altre di queste eccentriche occupazioni; o che cerca di diventare un negoziante di tessuti, o un fabbricante di saponi, o altro del genere; o che pretende d'essere un avvocato, o un maniscalco, o un medico - qualcosa fuori dalla via solita, insomma - potete considerarlo senz'altro un genio e quindi, conformemente alla regola del tre, un asino.

    Ora, io non sono proprio per nulla un genio; sono un normale uomo d'affari. Il mio giornale e il mio libro-mastro lo possono provare all'istante. Essi sono tenuti in regola (benché questo io lo dica da me); e nelle abitudini di accuratezza e di puntualità non mi vincerebbe un orologio. Inoltre, le mie occupazioni sono sempre state tali da collimare con le abitudini ordinarie dei miei colleghi. Non che io mi senta per nulla debitore, a questo riguardo, dei miei genitori dalla testa eccessivamente vuota, i quali, senza dubbio, avrebbero fatto di me alla fin fine un genio matricolato, se il mio angelo custode non fosse venuto in tempo alla riscossa. Benché nelle biografie la verità sia tutto, e specialmente poi nelle autobiografie, tuttavia io spero poco di esser creduto se asserirò anche solennemente che mio padre ebbe il coraggio di mettermi, quando avevo circa quindici anni, nel banco di quello che egli chiamava un "rispettabile mercante e commissionario di chincaglierie avente un largo giro d'affari".

    Un largo giro di frottole! Ad ogni modo, la conseguenza di questa pazzia fu che, in due o tre giorni, dovetti essere rimandato a casa presso la mia famiglia dalla testa dura, con una febbre altissima, e un male assai violento e pericoloso alla sommità del capo, tutt'intorno al mio organo dell'ordine. Ero quasi spacciato (fui proprio più di là che di qua per sei settimane), i medici mi davano per perso, eccetera eccetera. Ma, per quanto abbia allora sofferto molto, ero in complesso un ragazzo grato. Mi salvai dall'essere un "rispettabile mercante e commissionario di chincaglierie avente un largo giro di affari" e ne fui grato alla mia protuberanza, che era stata la mia ancora di salvezza, ed anche alla femmina dall'animo gentile che aveva posto quest'àncora a mia disposizione.

    La maggior parte dei ragazzi scappano di casa a dieci o a dodici anni, ma io aspettai fino a sedici. E, anche a quell'età, non so se me ne sarei andato, ove non mi fosse capitato di sentire la mia vecchia madre a parlare di collocarmi nella carriera del droghiere. Nella carriera del droghiere! capite?! Decisi di andarmene subito, e di provare a mettermi a far qualcosa di decente, senza dare più ascolto ai capricci di quei due vecchi eccentrici, e senza correre il rischio di poter diventare, alla fine, un genio. In questo progetto riuscii perfettamente fin dai primi sforzi e, passando il tempo, mi trovai a diciott'anni a fare affari estensivi nel ramo della pubblicità ambulante per sartorìe.

    Mi fu possibile assolvere i gravosi compiti della professione solo mediante quella rigida aderenza al sistema che costituiva la nota fondamentale del mio carattere. Un METODO scrupoloso caratterizzava le mie azioni, al pari dei miei conti. Nel mio caso era il metodo che faceva l'uomo, non il denaro; o almeno tutto ciò, dell'uomo, che non era fatto dal sarto che io servivo. Alle nove, ogni mattina, mi recavo da questi per i vestiti del giorno.

    Alle dieci precise mi trovavo in qualche passeggiata elegante, o in altro luogo di pubblico divertimento. L'esatta regolarità con la quale io giravo e mi rigiravo, in modo da mettere in vista successivamente ogni parte del vestito che portavo indosso, provocava l'ammirazione di tutti gli intenditori del ramo.

    Mezzogiorno non passava mai senza che io avessi portato un cliente alla casa dei miei principali, i signori Taglia e Tornancora. Dico questo con orgoglio, ma con le lacrime agli occhi, poiché essi si dimostrarono i peggiori degli ingrati. Il conticino a proposito del quale litigammo, e quindi ci dividemmo, non può, in nessun caso, essere considerato eccessivo, da gente realmente versata negli affari. Su questo punto, anzi, ho una vera e profonda soddisfazione nel permettere al lettore di giudicare da sé. La mia nota era così formulata:

    Signori Taglia e Tornancora, sarti.

    A Pietro Profitti, RECLAMISTA AMBULANTE.

    10 luglio - Passeggiato, come al solito, e portato a casa un cliente - dollari 0,25.

    11 luglio - Passeggiato, come al solito, e portato a casa un cliente - dollari 0,25.

    12 luglio - Per una bugia di seconda classe; vestito nero avariato venduto per verde invisibile - dollari 0,25.

    13 luglio - Per una bugia di prima classe, di qualità e formato extra; satin stampato raccomandato come panno fine - dollari 0,75.

    20 luglio - Comprato un colletto di carta nuovo di zecca ovvero solino, per far risaltare un Petersham grigio - dollari 0,02.

    15 agosto - Indossata una giubba a coda con doppia imbottitura (termometro 41 gradi all'ombra) - dollari 0,25.

    16 agosto - Stato per tre ore su una gamba sola, per mettere in mostra pantaloni rigati nuovo stile, a soldi 12,5 all'ora, per gamba - dollari 0,375.

    17 agosto - Passeggiato, come al solito, e portato un buon cliente (uomo grasso) - dollari 0,50.

    18 agosto - Passeggiato, come al solito, e portato un buon cliente (misura media) - dollari 0,25.

    19 agosto - Passeggiato, come al solito, e portato un buon cliente (uomo piccolo e cattiva paga) - dollari 0.06.

    Totale - dollari 2,950.

    Il punto principalmente discusso, in questa nota, fu il prezzo molto modesto di due soldi per il solino. Sul mio onore, non era davvero un prezzo irragionevole, quello, per quel solino. Era uno dei più delicati e graziosi solini che io avessi mai visto; e ho seri motivi per credere che facesse vendere tre Petersham. Il più vecchio socio della ditta, invece, volle accordarmi solo un soldo, e si prese la pena di mostrare in che modo si potessero ottenere quattro prodotti del medesimo formato, con un foglio di carta sostenuta. Ma è inutile dire che io tenni duro per il PRINCIPIO della cosa. Gli affari sono affari, e devono essere trattati come tali. Non c'era alcun SISTEMA nel truffarmi di un soldo - una vera frode del cinquanta per cento - nessun METODO, assolutamente.

    Lasciai all'istante l'impiego dei signori Taglia e Tornancora, e mi stabilii per conto mio nel ramo del "pugno nell'occhio": una delle più lucrose, rispettabili e indipendenti tra le ordinarie occupazioni.

    La mia stretta integrità, l'economia e le rigorose abitudini affaristiche entrarono nuovamente in gioco. Mi trovai a dirigere un florido commercio, e divenni ben presto un uomo notato nel "cambio". Ed è vero che io non mi persi mai in cose d'apparenza, ma m'instradai pian piano nella vecchia, saggia strada del mestiere, un mestiere nel quale io avrei dovuto, senza dubbio, rimanere fino al giorno d'oggi, senza un piccolo incidente che mi accadde nel proseguire una delle solite operazioni della professione.

    Ogni qual volta un vecchio e ricco spilorcio, o un erede prodigo, o una società fallita, hanno in mente di erigere un palazzo, non vi è cosa più terribile che l'impedirlo, e questo lo sa ogni persona intelligente. Il fatto in questione è in realtà la base del pugno nell'occhio. Appena dunque un progetto di costruzione è ben stabilito da uno degli interessati, noi commercianti ci assicuriamo un bel cantuccio dell'area presa in considerazione, o una piccola posizione di primordine proprio accanto, o esattamente di fronte. Fatto questo, attendiamo che il palazzo sia a metà, e quindi paghiamo qualche architetto di buon gusto perché ci costruisca in fretta una graziosa casupola di mota, proprio di tipo opposto; o una pagoda in stile tedesco o basso Oriente, o un porcile, o un ingegnoso lavoretto di fantasia, esquimese, Kickapoo o ottentotto. Naturalmente, non possiamo accettare di demolire queste costruzioni per meno del cinquecento per cento del costo primario del nostro terreno e del calcestruzzo. Potremmo noi farlo? Pongo la domanda. La pongo come uomo d'affari. Sarebbe irragionevole supporre di sì. Eppure ci fu una canaglia di una società che mi ingiunse di far proprio questo, PROPRIO QUESTO! Io non risposi neppure, naturalmente, alla loro assurda richiesta; ma sentii il dovere di andare, quella notte stessa, a tingere di nerofumo l'intero loro palazzo. A causa di ciò quei mascalzoni irragionevoli mi fecero andare in prigione; e i colleghi del commercio del pugno nell'occhio non poterono evitare di rompere le relazioni con me, quando uscii fuori.

    Il "commercio di assalto e di aggressione", nel quale fui allora costretto ad avventurarmi per vivere, era alquanto controindicato per la delicatezza della mia costituzione; ma io mi misi a lavorarci con animo lieto e vi trovai il mio profitto, come per il passato, in grazia delle severe abitudini di metodica accuratezza, che mi erano state inoculate da quella deliziosa vecchia bambinaia (sarei davvero il più vile degli uomini se non mi ricordassi di lei nel mio testamento). Osservando, dico, il più stretto sistema in tutte le mie azioni, e mantenendo una tenuta di libri ben regolata, mi fu possibile superare molte serie difficoltà e, alla fine, stabilirmi molto convenientemente nella professione. La verità è che pochi, in qualunque ramo, facevano piccoli affari meglio di me. Copierò una pagina, o quasi, dal mio libro-giornale; e ciò mi risparmierà la necessità di cantare le mie stesse lodi:

    disprezzabile abitudine, questa, della quale nessun uomo di mente elevata si renderà colpevole. Ma il libro-giornale è cosa che non mente.

    PRIMO GENNAIO - Capodanno. Ho incontrato per strada Snap, brillo.

    Mem.: potrà andare. Incontrato poco dopo Gruff, ubriaco fradicio.

    Mem.: andrà bene anche lui. Inseriti ambedue nel mio libro-mastro, e aperto un conto corrente per ciascuno.

    2 GENNAIO - Visto Snap alla Borsa, avvicinatolo e camminatogli sui piedi.

    Ha stretto i pugni, e mi ha buttato per terra. Bene! Tiratomi su.

    Qualche difficoltà senza importanza con Bag, il mio procuratore.

    Io voglio calcolare i danni a mille, ma egli dice che, per essere stati buttati a terra così semplicemente, non possiamo valutarli per più di cinquecento. Mem.: devo liberarmi di Bag - nessun SISTEMA.

    3 GENNAIO - Sono andato a teatro, per cercare Gruff. Vistolo in un palco laterale, in seconda fila, fra una signora grassa e una secca. Sbirciato tutta la compagnia attraverso un binocolo, finché ho visto la signora grassa arrossire, e bisbigliare qualcosa a G.

    Recatomi, quindi, nel palco, e messo il mio naso alla portata della sua mano. Non ha voluto tirarlo - niente. Soffiato sopra, e provato ancora - niente. Allora sedutomi, e strizzato l'occhio alla signora secca, ebbi l'alta soddisfazione di vederlo sollevarmi per la collottola, e scaraventarmi in platea. Slogato il collo, e la gamba destra completamente frantumata. Sono andato a casa contentissimo, bevuta una bottiglia di champagne, e annotato il giovanotto per cinquemila. Bag dice che potrà andare.

    15 FEBBRAIO - Compromesso il caso del signor Snap. Ammontare entrato nel giornale - vedi loco - cinquanta soldi.

    16 FEBBRAIO - Vinto da quella canaglia di Gruff, che mi ha regalato cinque dollari. Prezzo del vestito, quattro dollari e venticinque soldi. Profitto netto - vedi giornale - settantacinque soldi. Ora, qui c'è un guadagno vero, e in un periodo brevissimo, di non meno di un dollaro e venticinque soldi, e ciò nei soli casi di Snap e di Gruff; e dò solenne assicurazione al lettore che questi estratti sono presi a caso dal mio libro-giornale.

    E' un vecchio detto, e peraltro veritiero, che il denaro non è nulla in confronto alla salute. Trovai le esigenze della professione un po' eccessive per la mia costituzione fisica delicata; e scoprendo alla fine che ero stato messo interamente fuori sesto, cosicché non sapevo bene cosa dovessi fare di me stesso, e che i miei amici, quando mi incontravano per strada, non sapevano dire se ero Pietro Profitti o un altro, mi sembrò che il miglior espediente fosse di cambiare il mio ramo d'affari. Rivolsi quindi la mia attenzione all'"infangamento", e lo continuai per qualche anno.

    Il peggio di questa occupazione è che troppa gente se ne invaghisce, e la concorrenza è quindi eccessiva. Qualunque ignorante, che trovi di non aver cervello in quantità sufficiente per fare la sua strada come avvisatore ambulante, o come esperto del pugno nell'occhio, o come uomo di assalto e di aggressione, pensa, si capisce, di potere andare benissimo come infangatore. Ma non ci fu mai un'idea più sbagliata di questa: che non occorra cervello per infangare. In special modo, poi, non si può far nulla in questo ramo senza METODO. Io facevo soltanto affari al dettaglio, ma le mie vecchie abitudini di sistema mi portarono innanzi a gonfie vele.

    Sceglievo il mio crocevia, nel posto migliore, con grande ponderazione, e non mettevo mai la mia scopa in alcuna parte della città che non fosse quella. Facevo anche attenzione di avere vicino una bella pozzanghera, che io potessi raggiungere all'istante. Con questi mezzi ottenni di essere conosciuto come un uomo stimabile; e questa è metà della battaglia, in commercio, lasciatemelo dire. Nessuno mancava mai di gettarmi un soldo, e oltrepassava il MIO crocevia con un paio di pantaloni puliti. E poiché le mie abitudini commerciali, sotto questo punto di vista, erano capite abbastanza, non incontrai mai alcun tentativo d'imposizione. Del resto, non l'avrei tollerato. Non essendomi mai imposto ad alcuno, non sopportavo che alcuno facesse il gradasso con me. Ma naturalmente non potevo far nulla contro le frodi delle banche. Le loro moratorie mi ridussero in condizioni rovinose.

    Esse, d'altronde, non sono individui, bensì comunità; e le comunità, com'è noto, non hanno né corpi da pigliare a calci, né anime che possano essere dannate. Stavo guadagnando in questa partita quando, in un disgraziato momento, fui indotto a ingolfarmi nell'"infangamento AL CANE": professione pressoché analoga, ma per nulla altrettanto rispettabile. Il mio posteggio, indubbiamente, era eccellente, trovandosi in centro, e io avevo crema e spazzole magnifiche. Il mio cane, anche, era grassotto, e allenato a tutte le varietà d'annusamento. Era stato molto tempo in commercio e, se così posso dire, lo capiva. La nostra pratica generale era questa: Pompeo, dopo essersi ben rotolato nel fango, si sedeva alla fine sulla porta del negozio, finché osservava un bellimbusto, in scarpe lucide, che si avvicinava. Procurava allora di andargli incontro, e dava ai Wellington una strofinata o due col suo pelame. Allora il bellimbusto bestemmiava, e cercava con lo sguardo un lustrascarpe. E io ero là, bene in vista, con la cera e le spazzole. Era il lavoro di un minuto soltanto, e piovevano sei soldi. La cosa andò piuttosto bene per un certo tempo; ma io non ero avaro, mentre il mio cane lo era. Io gli concedevo un terzo dei profitti, ma egli credette di poter insistere per ottenere la metà. Questo io non potevo accettarlo, e così bisticciammo e ci dividemmo.

    Mi provai quindi a macinare l'organetto per un certo tempo, e posso dire che me la cavai proprio bene. E' una cosa semplice, piana, e non richiede abilità particolari. Si può avere un organetto quasi per niente e, per metterlo in ordine, non c'è che da aprire la meccanica, e picchiarvi tre o quattro volte con un martello. Ciò migliora il tono dello strumento, per le esigenze degli affari, più di quanto possiate immaginare. Fatto questo, non avete che da gironzolare con l'organino sulle spalle, finché non trovate una strada costruita in legno, con i battenti delle porte avvolti in pelle di daino. Allora vi fermate, e macinate; con l'aria di voler smettere, macinate, macinate fino al giorno del giudizio. Finalmente una finestra si apre, e qualcuno vi butta un sei soldi, con una richiesta di "smettila, vattene!" eccetera. So bene che certi macinatori hanno accettato di "andarsene" per questa somma; ma per parte mia trovavo il necessario sborso di capitali troppo grande per permettermi di "andarmene" per meno di uno scellino.

    Conclusi parecchio in questa occupazione; ma, tutto sommato, non ero troppo soddisfatto, e così alla fine l'abbandonai. La verità è che io mi affaticavo, con lo svantaggio di non avere una scimmia; e le strade americane sono così fangose! e la canaglia democratica è tanto importuna, e così piena di dannati monelli sbeffeggiatori!...

    Rimasi quindi senza impiego per qualche mese, ma alla fine riuscii, a forza di interessarmene, a procurarmi una posizione nella "finta posta". Le incombenze, qui, sono semplici, e non del tutto senza profitti. Per esempio: la mattina molto per tempo io dovevo preparare il mio pacchetto di finte lettere. Nell'interno di ognuna di esse dovevo scarabocchiare qualche riga - su qualsiasi soggetto che mi sembrasse abbastanza misterioso - firmando tutte le lettere o Tom Dobson, o Bobby Tompkins, o qualcosa del genere. Chiuso e sigillato tutto, e stampigliate le lettere con timbri falsi - New Orleans, Bengala, Botany Bay, o qualsiasi altra regione molto fuori mano - m'incamminavo subito per la mia strada, come se avessi avuto una gran fretta. Mi recavo sempre nelle case grandi, a lasciare le lettere e a riceverne il pagamento. Nessuno esita a pagare una lettera, specialmente se doppiamente tassata - la gente è COSI' sciocca - e non era difficile svoltare l'angolo prima che vi fosse tempo di aprire le missive.

    Il peggio di questa professione è che dovevo camminare tanto, e così svelto; e cambiar così spesso di strada. Inoltre, avevo seri scrupoli di coscienza. Non posso soffrire di sentir che si abusa di persone innocenti, e il modo col quale tutta la città malediva Tom Dobson e Bobby Tompkins era veramente terribile a udirsi. Mi lavai le mani della cosa, per disgusto.

    La mia ottava e ultima speculazione fu nel ramo dell'"affollamento gatti".

    Ho trovato che questo è un ramo piacevole e lucroso e, veramente, non c'è alcun disturbo. Il paese, com'è noto, è diventato infestato dai gatti; e ultimamente in modo tale, che una petizione per esserne liberati, firmata da tantissimi rispettabili cittadini, fu portata dinnanzi al parlamento nella sua ultima memorabile sessione. L'assemblea, a quell'epoca, era singolarmente bene informata, e avendo approvato molti acuti e salutari emendamenti, coronò il tutto con l'Atto del Gatto. Nella sua forma originale, questa legge offriva un premio per le teste di gatto (quattro soldi l'una), ma il Senato ottenne che fosse emendata la clausola principale, così da sostituire la parola "code" alla parola "teste". Questo emendamento era così ovvio, che il consesso lo approvò all'unanimità.

    Non appena il governatore ebbe firmato il decreto, io impiegai tutti i miei beni nell'acquisto di mici e di micie. Dapprima, potei solo nutrirli con topi (i quali sono a buon mercato), ma essi seguirono il precetto della Bibbia in un modo così meraviglioso, che alla fine considerai l'esser liberale come la miglior politica, e accordai loro ostriche e tartaruga. Le loro code, al prezzo legale, mi procurarono un bell'introito; poiché ho scoperto un modo, per mezzo dell'olio di Macassar, col quale posso forzare tre raccolti in un anno. Mi dà gioia il pensare, altresì, che gli animali si abituano presto alla cosa, e che preferiscono aver tagliata l'appendice che subire un altro trattamento. Io mi considero, quindi, come un uomo arrivato, e sto contrattando per acquistare un villino di campagna sull'Hudson.

     

     

     

  • L'UOMO "USATO"
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     Una storia dell'ultima campagna contro i Bugaboo e i Kickapoo.

    Pleurez, pleurez, mes yeux, et fondez-vous en eau!

    La moitié de ma vie a mis l'autre au tombeau.

    (Corneille, LE CID, atto terzo)

    Non posso ricordare proprio con esattezza come o quando conobbi per la prima volta quel tipo, veramente bello a vedersi, del Brigadiere Generale brevettato Giovanni A. B. C. Smith. Qualcuno mi presentò certo a questo gentiluomo, ne sono sicuro - a qualche pubblica riunione, lo so benissimo - tenuta su di un argomento di grande importanza, senza dubbio - in un luogo o nell'altro, ne ho la piena convinzione. Ma qualcuno,il cui nome ho inesplicabilmente dimenticato. La verità è che la presentazione era attesa da parte mia con un certo ansioso imbarazzo, che ebbe l'effetto d'impedire qualsiasi precisa percezione di tempo e di luogo. Io sono nervoso di costituzione: è un difetto di famiglia, e non posso farci nulla. In speciale modo poi, la più lieve parvenza di mistero - qualsiasi circostanza che io non possa comprendere esattamente - mi gettano subito in uno stato di agitazione pietoso.

    C'era qualcosa di veramente notevole - sì, notevole, per quanto questo non sia che un termine impari ad esprimere completamente il mio pensiero - nella personalità complessiva dell'individuo in questione. Egli era alto, salvo errore, più di un metro e ottanta, e aveva un'aria singolarmente imperiosa. Un'aria distinguée era propria a tutta la sua persona, e rivelava una stirpe eletta, un'alta nascita. Quanto poi ai particolari (i particolari della figura di Smith) ho una specie di soddisfazione malinconica nell'elencarli. La sua capigliatura avrebbe fatto onore a Bruto; non poteva fluire con maggior ricchezza, o possedere una lucentezza superiore. Era di un nero JAIS; e questo era anche il colore, o più propriamente il non-colore, dei suoi meravigliosi baffi. Di questi io non posso assolutamente parlare senza entusiasmarmi; non è eccessivo dire che si trattava del più bel paio di baffi esistenti. Essi ornavano, ombreggiandola a volte in parte, una bocca assolutamente impareggiabile, con i denti più regolari e più candidi che fosse dato concepire. Dal loro varco, ad ogni occasione opportuna, usciva una voce di chiarezza, forza e melodìa insuperabili. Anche per quanto riguarda gli occhi il mio conoscente era assai ben dotato. Ciascun occhio di un simile paio valeva due organi oculari ordinari. Essi erano di un colore nocciòla cupo, straordinariamente larghi e luminosi; e si poteva notare in essi, ora sì, ora no, proprio quel tanto di obliquità interessante, che dona intensità all'espressione.

    Il busto del Generale era incontrovertibilmente il più bel busto che avessi mai visto. Per tutto l'oro del mondo non avreste potuto trovare un difetto nelle sue meravigliose proporzioni. Questa rara peculiarità dava grande risalto ad un paio di spalle che avrebbero provocato nell'Apollo di marmo un rossore di consapevole inferiorità. Io ho una passione per le belle spalle, e posso dire che non ne avevo mai viste di simili. Le braccia erano mirabilmente modellate. E gli arti inferiori non erano meno superbi. Non erano troppo carnosi, né troppo poco; non erano rozzi né fragili. Io non potevo immaginare una curva più graziosa di quella del femore, e in corrispondenza alla fibula c'era proprio quella dovuta giusta prominenza che contribuisce a conformare un polpaccio ben proporzionato. Pagherei non so che cosa perché il mio giovane e valente amico Chiponchipino, lo scultore, avesse soltanto visto le gambe del Brigadiere Generale brevettato Giovanni A.B.C. Smith.

    Ma per quanto uomini di così bell'apparenza non siano abbondanti come le buone ragioni o le more, pure io non potevo persuadermi che il non so che di notevole al quale testé alludevo - la curiosa aria di JE NE SAIS QUOI propria alla mia nuova conoscenza - consistesse in massima, o addirittura soltanto, nell'eccellenza sovrana delle sue doti fisiche. Forse lo si sarebbe potuto ricondurre alle maniere, eppure anche su questo punto io non potevo pretendere di essere ben certo. C'era un'affettazione, per non dire una quadratura, nelle sue movenze; un grado di precisione misurata e, se così posso esprimermi, rettangolare, in ogni suo atto, che in una figura più meschina sarebbero stati gonfiezza, rigidità, mentre invece, in un essere delle sue rispettabili dimensioni, erano considerati come riservatezza, HAUTEUR in senso buono; insomma come cosa in armonia con la dignità delle proporzioni colossali.

    Il gentile amico che mi presentò al Generale Smith mi mormorò all'orecchio qualche parola di commento a suo riguardo. Si trattava di un uomo notevole - un uomo molto NOTEVOLE - veramente uno dei PIU' notevoli uomini dell'epoca. Era specialmente favorito anche dalle signore, in primo luogo a causa della sua fama di uomo coraggiosissimo.

    - Su questo punto è senza rivali; davvero, è un perfetto desperado, un vero e proprio mangiatore di fuoco, senza dubbio - disse il mio amico, abbassando a questo punto la voce, e facendomi trasalire col suo tono misterioso. - Un vero e proprio mangiatore di fuoco, senz'ALCUN dubbio. Lo ha dimostrato, direi, in qualche occasione, nell'ultima tremenda battaglia di palude laggiù al sud, con gli indiani Bugaboo e Kickapoo! - (Qui il mio amico allargò alquanto gli occhi.) - Per l'anima mia! Fulmini e terremoti!

    Prodigi di valore! Avrete sentito parlare di lui, naturalmente?

    Saprete bene che è l'uomo...

    - Uomo illustre, COME va? Guarda, guarda! come state? Lietissimo di vedervi, davvero! - interruppe a questo punto lo stesso Generale, prendendo per mano il mio compagno che si era avvicinato, e inchinandosi poi rigidamente ma profondamente alla mia presentazione. Pensai allora (e lo penso tuttora) che non avevo mai udito una voce più chiara o più forte, né ammirato una dentatura più bella; ma DEBBO anche dire che fui spiacente dell'interruzione, capitata proprio nel momento in cui, grazie ai bisbigli e ai cenni di cui sopra, il mio interesse era stato grandemente attirato verso l'eroe della campagna contro i Bugaboo e i Kickapoo.

    Peraltro, la conversazione deliziosamente scintillante del Brigadiere Generale brevettato Giovanni A.B.C. Smith disperse ben presto completamente il mio disappunto. Lasciati dal mio amico, restammo in un tête-à-tête assai lungo, e io fui non soltanto appagato, ma REALMENTE istruito. Non udii mai un conversatore più fluido, o un uomo di così vasta cultura. Ciò nonostante egli omise, con simpatica modestia, di toccare il tema che proprio allora mi stava maggiormente a cuore: vale a dire le misteriose circostanze concernenti la guerra dei Bugaboo; e, da parte mia, quel che ritenevo un giusto sentimento di delicatezza mi impedì di abbordare il soggetto; per quanto, in verità,fossi straordinariamente tentato di farlo. Mi accorsi, anche, che l'amabile soldato preferiva argomenti di interesse filosofico, e che si deliziava specialmente nel commentare il rapido progresso delle invenzioni meccaniche. Ed era proprio questo, da qualunque parte lo conducessi, nel discorrere, il punto in cui invariabilmente ritornava. - Non c'è nulla di paragonabile, - diceva - siamo un popolo meraviglioso, e viviamo in un'epoca meravigliosa. Paracadute e ferrovie; trabocchetti e cannoni grandinìfughi! I nostri piroscafi solcano ogni mare, e la valigia aerea di Nassau si dispone a iniziare servizi regolari (tariffa per andata o ritorno solo venti sterline) fra Londra e Timbuctù. E chi calcolerà l'immensa influenza sulla vita sociale, sulle arti, sul commercio, sulla letteratura che deriverà immediatamente dai grandi princìpi dell'elettromagnetismo? Né questo è tutto, ve l'assicuro io! Non c'è realmente un limite alla marcia dell'invenzione. I più meravigliosi, i più ingegnosi e, lasciatemi aggiungere, signor... signor... Thompson, credo sia il vostro nome, lasciatemi aggiungere, dico, i più UTILI ritrovati meccanici spuntano giornalmente come funghi, se così posso esprimermi o, più figuratamente, come - ha! - cavallette - come cavallette, signor Thompson - presso di noi e - ha, ha, ha! - intorno a noi!

    Io non mi chiamo Thompson, naturalmente; ma è superfluo dire che lasciai il Generale Smith con un accresciuto interessamento per la sua persona, con un alto concetto delle sue facoltà di conversatore, e con un profondo senso dei tanti privilegi dei quali godiamo, vivendo in quest'era di invenzioni meccaniche. La mia curiosità, ciò nonostante, non era stata del tutto appagata, e risolsi di proseguire immediatamente tra le mie conoscenze l'inchiesta riguardante lo stesso Brigadiere Generale brevettato, e concernente in particolare gli eventi tremendi QUORUM PARS MAGNA FUIT, durante la campagna contro i Bugaboo e i Kickapoo.

    La prima opportunità che si presentò e che io (HORRESCO REFERENS) non esitai un attimo ad afferrare, fu alla chiesa del Reverendo Dottor Drummmummupp, dove mi trovai sistemato, una domenica, proprio all'ora del sermone, e non soltanto nel banco, ma altresì nella vicinanza, di quella degna e comunicativa mia piccola amica che è la signorina Tabita T. Una volta seduto, mi congratulai, e ben a ragione, sullo stato assai lusinghiero delle indagini. Se qualcuno sapeva qualcosa intorno al Brigadiere Generale brevettato Giovanni A.B.C. Smith, questo qualcuno, evidentemente, doveva essere la signorina Tabita T. Ci scambiammo qualche segnale, e cominciammo quindi, sotto voce, un animato tête-à-tête.

    - Smith! - disse ella, in risposta alla mia domanda premurosa - Smith! come, il Generale Giovanni A.B.C.? Diamine, credevo che SAPESTE tutto di LUI! Questa è un'epoca meravigliosamente inventiva! Un terribile affare, quello! - una sanguinaria masnada di briganti, quei Kickapoo! - combatté come un eroe - prodigi di valore - fama immortale. Smith! - il Brigadiere Generale brevettato Giovanni A.B.C.! - ma come, sapete bene che è l'uomo...

    - Uomo, - qui interruppe il Dottor Drummummupp, con voce altissima, e con un rimbombo che a momenti ci faceva cadere addosso il pulpito - uomo nato di donna non ha che breve tempo da vivere; egli sorge, ed è falciato come un fiore! - Io balzai all'estremità del banco, e mi accorsi dagli animati sguardi del teologo come il corruccio che si era dimostrato pressoché fatale al pulpito fosse stato provocato dai sussurri miei e della signora.

    Non c'era nulla da fare; cosicché mi rassegnai con buona grazia, e ascoltai, in tutto il martirio di un dignitoso silenzio, la conclusione di quell'importantissimo discorso.

    La sera successiva mi trovai, frequentatore un po' ritardatario, al teatro Rantipole, dove mi sentii subito sicuro di soddisfare la mia curiosità, semplicemente con l'introdurmi nel palco di quegli squisiti esempi di affabilità e di onniscienza che sono le signorine Arabella e Miranda Cognoscenti. Climax, il fine tragico, recitava Jago ad una sala piena zeppa, e io incontrai qualche difficoltà nel far intendere i miei bisbìgli; specialmente dato che il nostro palco era vicino alle quinte, e sovrastava completamente la scena.

    - Smith? - disse la signorina Arabella, quando alla lunga comprese il senso della mia domanda - Smith? come, il Generale Giovanni A.B.C.?

    - Smith? - interloquì Miranda, meditando. - Dio mi benedica, avete mai visto una figura più bella?

    - Mai, signorina, ma DITEMI...

    - O una grazia così inimitabile?

    - Mai in fede mia! ma per favore informatemi...

    - O un apprezzamento così esatto degli effetti scenici?

    - Signorina!

    - O un senso più delicato delle vere bellezze di Shakespeare? Fate la gentilezza di guardare quella gamba!

    - Al diavolo! - e mi volsi di nuovo alla sorella.

    - Smith? - disse questa - come, il Generale Giovanni A.B.C.? Una faccenda terribile, quella, no? Gran canaglie, quei Bugaboo!

    selvaggi, e cos'altro ancora? Ma viviamo in un'era così meravigliosamente inventiva! Un perfetto DESPERADO; fama immortale; prodigi di valore! MAI SENTITO NOMINARE?! (Questo fu detto in un urlo). Dio mi benedica! Ma come, egli è l'uomo...

    (nota del traduttore: in inglese MAN).

    (...) Mandragora.

    O tutti i soporifici del mondo Non ti ricondurrano al dolce sonno Che ier godesti!

    urlò Climax proprio dentro il mio orecchio, e agitandomi tutto il tempo il suo pugno sulla faccia, in un modo che io non potevo e non volevo sopportare. Lasciai subito le signorine Cognoscenti, mi recai prontamente dietro le quinte, e diedi a quella miserabile canaglia una tale dose di pugni che se la ricorderà finché campa.

    Alla soirée della deliziosa vedova Kathleen O'Trump, sperai di non dovere subire un simile disappunto. Di conseguenza, appena seduto al tavolo di gioco vis-a-vis della mia graziosa ospite, avanzai i quesiti la cui soluzione era diventata un argomento essenziale alla mia pace.

    - Smith? - disse la mia vicina - come, il Generale Giovanni A.B.C.? Una faccenda terribile, quella, no? - quadri, avete detto?

    - Terribili canaglie, quei Kickapoo. - Stiamo giocando a whist, prego, signor Tattle - comunque, questa è l'epoca delle invenzioni, certissimamente l'epoca - si potrebbe dire - l'epoca PAR EXCELLENCE - parlate francese? - oh, un vero eroe - un perfetto desperado!! - niente a CUORI, signor Tattle? non lo credo! - nome immortale! - Prodigi di valore! MAI SENTITO NOMINARE!? - Ma come, Dio mi benedica, egli è l'uo-???

    - Loueau? il CAPITANO Loueau? - gridò a questo punto un piccolo intruso di sesso femminile dall'angolo più lontano della stanza. - State parlando del capitano Loueau e del duello? - oh, io DEVO SENTIRE - parlate - andate avanti, signora O'Trump! - proseguite!

    - E la signora O'Trump disse di un certo Capitano Loueau, che era stato o fucilato o impiccato, o che avrebbe dovuto essere sia fucilato che impiccato. Già! La signora O'Trump andò avanti a discorrere, e io, io andai via. Non c'era caso di udire altro, quella sera, in merito al Brigadiere Generale brevettato A.B.C.

    Smith.

    Pure mi consolai con la riflessione che il corso della cattiva sorte non si sarebbe sempre rivolto contro di me, e decisi così di fare un audace tentativo per avere informazioni presso quel vezzoso angioletto della signora Pirouette.

    - Smith? - disse la signora P., mentre piroettavamo insieme in un PAS DE ZEPHIR. - Smith? - come, il Generale Giovanni A.B.C.? Un affare spaventoso quello dei Bugaboo, no? - Creature terribili, quegli indiani! Ma GIRATE sulle punte dei piedi! Mi vergogno per voi, davvero - un uomo di grande coraggio, povero diavolo! - ma questa è un'era meravigliosa per le invenzioni - oh, povera me, sono senza fiato! - proprio un DESPERADO - prodigi di valore - mai sentito nominare!? non posso crederlo - bisognerà che mi sieda e che vi illumini - Smith! ma è l'uomo... (nota del traduttore: in inglese MAN).

    - Man-FREDO, VI DICO! - strillò a questo punto la signorina Bas- Bleu, mentre conducevo la signora Pirouette a sedersi. - Si è mai sentita una cosa simile? è Man-fredo, dico, e per nessunissima ragione al mondo Man-FREDDO! - Qui la signorina Bas-Bleu si rivolse a me in una maniera assai perentoria; e io fui obbligato, volente o nolente, a lasciare la signora P.per la decisione di una disputa intorno al titolo di un certo dramma poetico di Lord Byron. Benché io affermassi, con grande prontezza, che il vero titolo era Man-FREDDO, pure quando mi rivolsi per ricercare la signora Pirouette non mi fu possibile rintracciarla, e me ne partii di casa pieno di un amaro spirito di animosità contro la razza intera dei Bas-Bleu.

    Le cose avevano assunto un aspetto molto serio, e io decisi di rivolgermi subito al mio caro amico, il signor Teodoro Sinivate; poiché sapevo che qui almeno avrei avuto qualcosa di simile a un informazione precisa.

    - Smith? - diss'egli, in quella sua ben nota maniera particolare di strascicare le sillabe - Smith? - come, il Generale Giovanni A.B.C.? Una selvaggia faccenda, quella con i Kickapoo, no? Dite!

    Non vi pare? - perfetto despera-a-do - una gran pena, sul mio onore! - epoca meravigliosamente inventiva! - pro-o-digi di valore! Già che si siamo, avete mai sentito parlare del Capitano Loueau-au-au?

    - Al diavolo il Capitano Loueau! - dissi io. - Andate avanti con la vostra storia, per piacere.

    - Hum! - oh, bene! - proprio LA MEME CHO-O-OSE, come si dice in Francia.

    Smith, eh? Il Brigadiere Generale Giovanni A.B.C.? Dico, - qui il signor S. pensò bene di ficcarsi un dito nel naso - dico, voi non pretendete di insinuare adesso, veramente realmente e coscienziosamente, che non sapere tutto su quell'affare di Smith, quanto ne so io, eh? Smith? Giovanni A.B.C.? Ma come, santo Dio, è l'uo-o-omo.

    - SIGNOR Sinivate, - dissi io implorando - è l'uomo della maschera?

    - No-o-o! - rispose egli, con aria saputa - e nemmeno l'uomo della luna.

    Io considerai questa risposta come un marcato ed inequivocabile insulto, e lasciai quindi la casa altamente sdegnato, con la ferma risoluzione di chiedere al mio amico signor Sinivate un rapido conto della sua condotta non da gentiluomo e della sua cattiva creanza.

    Ma, ad ogni modo, intendevo venire a capo dell'informazione che desideravo. Mi rimaneva ancora una risorsa. Sarei andato alla sorgente. Mi sarei subito recato dallo stesso Generale, e avrei domandato, in termini espliciti, la soluzione di questo mistero abominevole. Qui, finalmente, non ci sarebbe stata possibilità di equivoco. Sarei stato piano, positivo, perentorio - breve come una crosta di dolce - conciso come Tacito o Montesquieu.

    Era mattino presto, quando mi recai a trovarlo, e il generale stava vestendosi; ma io allegai un affare urgente, e fui fatto passare subito nella sua camera da letto, da un vecchio cameriere negro che rimase in attesa durante la mia visita. Entrato, guardai naturalmente in giro, cercando il proprietario, ma lì per lì non lo vidi. C'era un grosso fagotto, stranissimo, che giaceva proprio ai miei piedi sul pavimento e, dato che non ero precisamente del miglior buon umore, lo allontanai con un calcio.

    - Hum, Hem! Bella educazione, se non erro! - disse il fagotto, con la più piccina, e insieme la più buffa delle vocette (una via di mezzo fra il guaito ed il fischio) che io avessi mai udita in vita mia.

    - Hem! Bella educazione, a mio parere...

    Urlai quassi dal terrore, e fuggii per la tangente alla più lontana estremità della stanza.

    - Dio mi benedica! ragazzo mio - fischiò nuovamente il fagotto. - Cosa - cosa - sì, COSA succede? Mi pare davvero che non mi riconosciate!

    Che cosa potevo replicare a tutto questo; che cosa POTEVO?

    Stramazzai in una sedia a bracciòli, e con occhi sbarrati e bocca aperta, attesi la soluzione del portento.

    - Eppure è strano che non dobbiate riconoscermi, non è vero? - guaì ancora l'indescrivibile, che ora io vedevo compiere, sopra il pavimento, una inesplicabile evoluzione, molto analoga all'atto di infilarsi una calza. (Di visibile, però, c'era soltanto una gamba).

    - Eppure è strano che non riusciate a riconoscermi, non è vero?

    Pompeo, portatemi quella gamba! - Pompeo porse al fagotto una splendida gamba di sughero, già vestita, che egli avvitò in un baleno; e quindi stette ritto davanti ai miei occhi.

    - E fu davvero un'azione sanguinosa, - continuò la COSA, come in un soliloquio - ma uno non deve combattere contro i Bugaboo e i Kickapoo, e credere di uscirne con una semplice graffiatura.

    Pompeo, vi sarò ora grato se mi passerete quel braccio. Thomas (rivolgendosi a me) è decisamente il migliore per le gambe di sughero; ma se mai voi voleste un braccio, dovete assolutamente permettermi di raccomandarvi a Bishop. - Pompeo avvitò un braccio.

    - Abbiamo sudato parecchio, si può ben dirlo. Ora, canaglia, infilami le spalle e il petto. Petitt fa le spalle migliori, maper un petto dovreste andare da Ducrow.

    - Un petto! - dissi io.

    - Pompeo, non sarete MAI pronto con quella parrucca? Lo scotennamento è una cosa sgarbata, tutto sommato; ma poi ci si può procurare una parrucca così perfetta da De L'Orme's...

    - Una parrucca?

    - Ora, negro, i miei denti! Per un buon esemplare di questi dovreste preferibilmente andar subito da Parmly's. Prezzi alti, ma lavoro eccellente. Ingoiai però anche degli articoli di prim'ordine, quando il grosso Bugaboo mi abbatté col calcio del suo fucile.

    - Calcio! abbatté!!! che vedo mai!!!

    - Oh, sì, mentre ci penso, il mio occhio - qui, Pompeo, furfante, avvitatelo dentro! Quei Kickapoo non sono troppo lenti a levar gli occhi; ma è un uomo calunniato, quel Dottor Williams, dopo tutto; non potete immaginare come vedo bene con gli occhi di sua fabbricazione.

    Io cominciai allora a capire con grande chiarezza che l'oggetto dinanzi a me era né più né meno che la mia nuova conoscenza, il Brigadiere Generale brevettato Giovanni A.B.C. Smith. Le manipolazioni di Pompeo avevano arrecato, devo confessarlo, una differenza molto grande nell'aspetto del medesimo individuo. Pure, la voce mi dava ancora non poco da pensare; ma anche questo mistero fu presto chiarito.

    - Pompeo, mascalzone d'un negro! - squittì il Generale - Credo veramente che sareste capace di lasciarmi uscire senza il mio palato.

    Al che il negro, mormorando parole di scusa, si accostò al padrone, aprì la sua bocca con l'aria pratica di un fantino, e vi aggiustò dentro una macchina singolare, in un modo assai abile che non potei comprendere del tutto. L'alterazione, comunque, in tutto quanto l'atteggiamento del Generale, fu istantanea e sorprendente.

    Quando parlò di nuovo, la sua voce aveva riacquistato tutta quella ricca melodìa e quella forza che avevo notato in occasione della nostra prima presentazione.

    - Quei dannati vagabondi! - diss'egli, in tono così chiaro che sobbalzai addirittura al cambiamento. - Quei dannati vagabondi!

    Non soltanto demolirono il cielo della mia bocca, ma s'incaricarono anche di tagliar via almeno sette ottavi della mia lingua! Non c'é però in America uno come Bonfanti's per articoli veramente buoni di questo tipo. Posso raccomandarvi a lui con confidenza - qui il Generale s'inchinò - e vi assicuro che ho il massimo piacere nel farlo.

    Lo ringraziai della gentilezza nel mio miglior modo e lo lasciai immediatamente, con una perfetta comprensione del vero stato delle cose; con una piena consapevolezza del mistero che così a lungo mi aveva turbato.

    Era evidente. Era un caso chiaro. Il Brigadiere Generale brevettato Giovanni A.B.C. Smith era l'uomo - era L'UOMO USATO.

     

     

     

  • GLI OCCHIALI
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     Molti anni fa era di moda mettere in ridicolo l'idea dell'amore a prima vista; ma coloro che pensano profondamente, non meno di coloro che profondamente sentono, hanno sempre sostenuto la sua esistenza. Infatti le scoperte moderne nel campo di quel che si potrebbe definire magnetismo morale o estetica magnetica, fanno sembrare probabile che i più naturali e, di conseguenza, i più veri e i più intensi tra gli affetti umani siano quelli che sorgono nel cuore come per una elettrica simpatia; in una parola che i legami psichici più splendidi e più duraturi siano quelli che vengono saldati da uno sguardo. La confessione che sto per farvi aggiungerà un altro esempio a quelli, pressoché innumerevoli, che comprovano quest'affermazione.

    La narrazione richiede che io sia alquanto particolareggiato. Io sono molto giovane: non ho ancora ventidue anni. Il mio nome, ora, è molto comune e abbastanza plebéo, Simpson. Dico "ora", poiché solo da poco tempo io mi chiamo così, avendo adottato legalmente questo cognome l'anno scorso, per potere ricevere una cospicua eredità lasciatami da un lontano parente, Adolfo Simpson. Il legato portava la condizione che io prendessi il nome del testatore - quello di famiglia, non quello personale. Il mio nome di battesimo è Napoleone Buonaparte, o meglio, sono questi il mio primo e il mio secondo nome.

    Presi il nome di Simpson con qualche riluttanza, poiché del mio vero patronimico, Froissart, io ero piuttosto orgoglioso, di un orgoglio perdonabilissimo - credevo infatti di poter riportare la mia discendenza fino all'immortale autore delle CRONACHE. E, a proposito di nomi, dato che siamo su quest'argomento, ricorderò una singolare coincidenza di suoni nei cognomi di alcuni dei miei antecedenti immediati. Mio padre era un Monsieur Froissart di Parigi. Sua moglie - mia madre, che egli sposò quindicenne - era una Mademoiselle Croissart, la figlia maggiore del banchiere di questo nome; la moglie di questi, sposatasi a soli sedici anni, era la primogenita di un tal Vittorio Voissart. Monsieur Voissart, per strana combinazione, aveva sposato una signorina dal nome simile al suo, Mademoiselle Moissart.

    Anch'essa era proprio una bimba quando si sposò; e sua madre pure, Madame Moissart, aveva soltanto quattordici anni quando salì l'altare. Questi matrimoni precoci non sono rari in Francia.

    Eccovi, dunque, Moissart, Voissart, Croissart e Froissart, tutti in linea diretta di discendenza. Però il mio nome, come ho già detto, divenne Simpson per un atto legale, e con tale ripugnanza da parte mia che a un certo momento avevo esitato ad accettare il legato che aveva in sé una clausola così inutile e indisponente.

    Quanto alle mie doti fisiche, non sono affatto manchevole. Credo, anzi, di essere ben fatto, e di possedere un viso che nove decimi delle persone chiamerebbero avvenente. Sono alto circa un metro e ottanta. I miei capelli neri e ricciuti. Il naso piuttosto bello.

    Ho degli occhi grandi e grigi; e benché essi siano in realtà molto miopi, pure, a vederli, non si sospetterebbe alcun difetto di questo genere. Nondimeno questa debolezza mi è stata molto fastidiosa, ed ho fatto ricorso a tutti i rimedi; tranne però a quello di portare gli occhiali. Essendo giovane e di bell'aspetto, è naturale che non mi piacciano, e che abbia sempre risolutamente rifiutato di adoperarli. Non conosco nulla, in verità, che alteri così la fisionomia di una persona giovane, o che dia a ogni lineamento un'aria sussiegosa, quando non addirittura bacchettona e invecchiata. D'altra parte un monocolo ha invariabilmente un certo che di vanesio e di affettato. Cosicché finora me la sono sempre cavata come ho potuto senza ricorrere né a questo né a quelli. Ma ho già troppo insistito su questi particolari puramente personali che, dopo tutto, hanno scarsa importanza. Mi accontenterò di dirvi ancora che sono di temperamento sanguigno, avventato, ardente, entusiasta, e che tutta la mia vita sono stato un devoto ammiratore delle donne.

    Una sera dello scorso inverno entrai in un palco, al teatro P., in compagnia d'un amico, il signor Talbot. Era una serata d'opera, e i manifesti annunciavano uno spettacolo eccezionale, cosicché la sala era affollatissima. Giungemmo in tempo, tuttavia, ad ottenere le poltrone che erano state riservate per noi, e verso le quali, con qualche difficoltà, riuscimmo ad aprirci un varco.

    Per due ore il mio compagno, che era un fanatico della musica, non distolse lo sguardo dal palcoscenico, e nel frattempo io mi divertii ad osservare il pubblico, composto per la massima parte dalla elite cittadina. Soddisfatta questa curiosità, stavo per rivolgere l'attenzione alla prima donna, quando i miei occhi si fermarono e si fissarono sopra una figura in uno dei palchi privati, che era sfuggita alla mia prima osservazione.

    Vivessi mille anni, non potrò mai dimenticare l'emozione intensa con la quale guardai quell'immagine. Era quella di una donna, la più squisita che io avessi mai contemplato. Il suo volto era talmente fissato verso la scena che, per qualche minuto, non potei vederlo. Ma il profilo era divino; nessun'altra parola potrebbe esprimere le sue stupende caratteristiche, e anche il termine "divino" appare, scrivendolo, ridicolmente debole.

    La magia di una figura seducente di donna, l'incanto della grazia femminile, è una forza alla quale non ho mai saputo resistere; ma questa era la grazia in persona, incarnava il BEAU IDEAL delle mie più impetuose ed entusiastiche visioni. La persona, che la conformazione del palco permetteva di vedere quasi interamente, era di altezza un po' superiore alla media e si avvicinava molto, senza tuttavia raggiungerlo, al maestoso.

    La pienezza perfetta, la sua tournure erano deliziose. Il capo, del quale solo la parte posteriore era visibile, rivaleggiava per il profilo con quello della Psiche greca, ed era, invece che celato, messo in risalto da un'elegante cuffia di GAZE AERIENNE, la quale mi ricordò il VENTUM TEXTILEM di Apuleio. Il braccio destro era abbandonato lungo il parapetto del palco, e la sua squisita simmetria penetrava in ogni mia fibra. La parte superiore era drappeggiata in una di quelle maniche larghe ed aperte, ora di moda, che scendeva poco oltre il gomito. Sotto questa ne portava un'altra di stoffa lieve, aderente, terminante in un polso di ricchi merletti che ricadeva graziosamente sopra la mano, rivelando solo le dita delicate, su uno delle quali scintillava un anello di brillanti che io giudicai subito di grandissimo valore.

    La meravigliosa rotondità del polso era fatta ben risaltare da un braccialetto che lo circondava, anch'esso ornato da una magnifica AIGRETTE di pietre preziose, rivelando nel modo più chiaro la ricchezza e il finissimo gusto della donna che lo portava.

    Contemplai questa regale apparizione per una buona mezz'ora, come se fossi stato improvvisamente mutato in pietra; e in quel mentre provai tutta la forza e la verità di quanto era stato detto e cantato dell'"amore a prima vista". Le mie sensazioni erano completamente diverse da quelle che avevo provate sino allora in presenza anche delle più celebri rappresentanti della bellezza femminile. Una inesplicabile, e vorrei dire magnetica simpatia da anima ad anima, sembrava avesse unito non solo la mia vista, ma tutte le mie facoltà di pensiero e di sentimento all'ammirevole oggetto che mi stava dinanzi. Vidi, sentii, compresi di essere profondamente, follemente, irrevocabilmente innamorato e, questo, anche prima di aver veduto il viso della persona amata. La passione che mi consumava era così intensa che, credo, essa poco o nulla avrebbe perduto se i lineamenti, non ancora visti, si fossero rivelati comuni; così strana è la natura del solo vero amore - dell'amore a prima vista - e così poco esso dipende dalle circostanze esterne, che solo apparentemente lo destano e lo governano.

    Mentre ero così immerso nella contemplazione di questa visione stupenda, un improvviso agitarsi del pubblico le fece volgere parzialmente il capo verso la mia direzione, cosicché potei scorgere l'intero profilo del suo viso. La sua bellezza sorpassò perfino la mia attesa, eppure c'era qualche cosa in esso che mi disilluse, senza che riuscissi a stabilire esattamente di che cosa si trattasse. Ho detto "mi disilluse", ma questa non è la parola esatta. I miei sentimenti furono al tempo stesso calmati ed esaltati.

    Ebbero meno del trasporto, e più di un calmo entusiasmo, di un entusiastico riposo. Questo modo di sentire proveniva, forse, dall'aria matronale e di Madonna del viso; e tuttavia compresi subito che non poteva derivare da questo fatto. C'era qualcos'altro, un qualche mistero di cui non potevo venire a capo, una certa espressione della fisionomia che mi disturbava lievemente, pur aumentando di molto il mio interesse. In verità, mi trovavo proprio in quelle condizioni di spirito che dispongono un uomo giovane e sensibile a compiere ogni sorta di stravaganze.

    Se la signora fosse stata sola, io sarei certo entrato nel suo palco e l'avrei avvicinata, affrontando ogni rischio; ma, per fortuna, era in compagnia di due persone, un signore e una donna straordinariamente bella, apparentemente più giovane di lei di qualche anno.

    Rimuginai nella mia mente mille progetti per i quali potessi ottenere di esser presentato in seguito alla maggiore delle due donne o, per il momento, di potere contemplare meglio la sua bellezza. Avrei voluto cambiare il mio posto con un altro più vicino al suo, ma l'affollamento del teatro rendeva la cosa impossibile; e le rigide leggi della moda avevano, di recente, rigorosamente vietato in casi simili l'uso del binocolo, anche se fossi stato così fortunato da averne uno con me; ma non l'avevo, e ne ero disperato.

    Alla fine pensai bene di rivolgermi al mio compagno.

    - Talbot, - gli dissi - VOI avete un binocolo. Datemelo, per favore.

    - Un binocolo! No. Cosa credete che ne FAREI, di un binocolo? - E si rivolse con impazienza verso il palcoscenico.

    - Andiamo, Talbot, - seguitai, tirandolo per la spalla - datemi retta, via! Vedete quel palco di proscenio? Là, no, quello accanto. Avete mai visto una donna così adorabile?

    - E' molto bella, senza dubbio - egli rispose.

    - Ma chi sarà mai?

    - Come, in nome di ogni cosa angelica, non SAPETE chi sia? Se non la conoscete, vuol dire che ignoto siete. E' la famosa Madame Lalande, la bellezza del giorno PAR EXCELLENCE, di cui parla tutta la città. E' immensamente ricca, e vedova - un gran partito - ed è appena arrivata da Parigi.

    - La conoscete?

    - Sì, ho questo onore.

    - Volete presentarmi?

    - Certamente, col massimo piacere; e... quando?

    - Domani, all'una, vi verrò a prendere al B.

    - Benissimo; e ora state un po' zitto, se vi riesce!

    Su quest'ultimo punto dovetti per forza seguire il consiglio di Talbot; poiché egli rimase ostinatamente sordo ad ogni ulteriore domanda o sollecitazione, e si occupò esclusivamente per tutta la serata di quanto si svolgeva sulla scena.

    Intanto, io tenevo gli occhi fissi su Madame Lalande, ed ebbi alla fine la buona sorte di poter vedere il suo volto proprio di fronte. Era squisitamente bello; questo, naturalmente, il mio cuore me l'aveva già detto prima, e anche se Talbot non mi avesse pienamente edotto su questo punto... Pur tuttavia quel certo non so che di incomprensibile seguitava a turbarmi. Finii per concludere che i miei sensi erano colpiti da una certa aria di gravità, di mestizia o, più propriamente, di stanchezza, che toglieva ai lineamenti qualcosa della loro giovinezza e freschezza, ma solo per soffonderle di tenerezza e maestà serafiche, e quindi, si capisce, di un interesse infinitamente maggiore per il mio temperamento romantico ed entusiasta.

    Mentre così allietavo i miei occhi, mi accorsi a un tratto, con mia grande trepidazione, da un sussulto quasi impercettibile, che la dama si era improvvisamente accorta dell'intensità del mio sguardo. Ma io ero assolutamente affascinato, e non potei distoglierlo, neppure per un istante. Ella volse il viso altrove, e di nuovo io non vidi che la linea cesellata della parte posteriore del suo capo. Dopo qualche minuto, come spinta dalla curiosità di vedere se io la guardavo ancora, ella volse di nuovo lentamente il viso e di nuovo incontrò i miei sguardi infuocati. I suoi grandi occhi neri si abbassarono prontamente, e un profondo rossore soffuse la sua guancia. Ma quale non fu il mio stupore vedendo che essa non solo non volgeva il capo altrove per la seconda volta, bensì prendeva ora dalla cintura un occhialetto - lo accomodava - e mi guardava quindi con quello, con precisa intenzione, per lo spazio di parecchi minuti!

    Non sarei rimasto più completamente stordito se mi fosse caduto ai piedi un fulmine. SOLTANTO stordito, per nulla offeso o disgustato, mentre, invece, un atto così audace, se compiuto da qualsiasi altra donna, sarebbe stato offensivo o disgustoso. Ma tutto ciò era stato fatto con tanta calma, con noncuranza, con tanta serenità, con un'aria così evidente della più perfetta educazione, insomma, che non si avvertiva la minima sfrontatezza, e i miei sentimenti furono di ammirazione e sorpresa.

    Osservai che, alzando dapprima l'occhialetto, ella era sembrata accontentarsi d'un esame sommario della mia persona, e stava riponendo lo strumento quando, come colpita da un'altra idea, lo riprese, e continuò a guardarmi fissamente per vari minuti - cinque almeno, ne sono sicuro.

    Questo atto, singolarissimo in un teatro americano, attrasse l'attenzione di tutti i presenti, e provocò tra il pubblico un movimento indefinito, un bisbiglio, che mi riempì per un attimo di confusione, ma non produsse alcun effetto visibile sull'atteggiamento di Madame Lalande.

    Soddisfatta la sua curiosità - se tale era - essa lasciò cadere l'occhialetto, e calma rivolse di nuovo la sua attenzione alla scena; cosicché il suo profilo era ora volto verso di me come prima. Continuai a fissarla di continuo, benché mi rendessi perfettamente conto di commettere una villanìa. Poi, vidi il suo capo lentamente e lievemente cambiar posizione; e mi convinsi subito che la signora, facendo finta di guardare il palcoscenico, stava invece attentamente guardando me. E' inutile dire quale effetto sortisse, sulla mia mente eccitabile, questa condotta, da parte di una donna così affascinante.

    Dopo avermi scrutato a quel modo per circa un quarto d'ora, il vago oggetto della mia passione si rivolse al signore che l'accompagnava, e mentre parlava capii chiaramente, dagli sguardi di entrambi, che la conversazione concerneva me.

    Quando ebbe finito, Madame Lalande si rivolse di nuovo verso la scena, e per qualche minuto sembrò assorta nella rappresentazione.

    Ma dopo ciò io fui pervaso da un'agitazione estrema nel vederla aprire per la seconda volta l'occhialetto che pendeva al suo fianco, osservarmi attentamente come prima e, senza curarsi del rinnovato mormorìo del pubblico, esaminarmi da capo a piedi, con la stessa miracolosa compostezza che già precedentemente aveva tanto deliziato e confuso il mio spirito.

    Questo straordinario comportamento, gettandomi in un'eccitazione assolutamente febbrile - in un vero e proprio delirio d'amore - ebbe l'effetto d'imbaldanzirmi piuttosto che di sconcertarmi.

    Nell'intensità folle della mia devozione, dimenticai ogni cosa che non fosse la presenza e l'incanto della visione che stava davanti ai miei occhi. Attesi il momento opportuno, e quando mi sembrò che il pubblico fosse completamente assorto nell'opera, incontrai finalmente lo sguardo di Madame Lalande e, subito, le feci un lieve ma inequivocabile inchino.

    Lei arrossì straordinariamente, poi distolse lo sguardo, quindi guardò lentamente ed attentamente in giro, evidentemente per vedere se il mio atto impulsivo fosse stato osservato, e infine si chinò verso il signore che le stava accanto.

    Sentii allora in modo bruciante la sconvenienza che avevo commessa, e mi aspettai uno scandalo immediato; nel mentre una visione di pistole per l'indomani passava rapida e spiacevole nel mio cervello. Mi sentii invece subito molto sollevato nel vedere che la signora porgeva semplicemente al gentiluomo un programma, senza far parola; ma il lettore potrà farsi una pallida idea del mio stordimento, del mio stupore profondo, del delirante smarrimento del mio cuore e della mia anima quando, subito dopo, data un'altra occhiata furtiva all'intorno, lasciò che i suoi occhi luminosi si arrestassero in pieno, e fermamente incontro ai miei e, quindi, con un vago sorriso che schiuse una candida fila di denti di perla, inchinò il capo due volte, in un cenno chiaramente e distintamente affermativo.

    E' inutile, naturalmente, che insista a descrivere la mia gioia, il mio trasporto, l'estasi infinita del mio cuore. Se mai uomo fu pazzo per eccesso di felicità, fui io quello, in tale momento.

    Amavo. Era questo il mio PRIMO amore. Era l'amore supremo, indescrivibile. Era "l'amore a prima vista"; e a prima vista era stato capito e RICAMBIATO.

    Sì, ricambiato. Come e perché avrei dovuto per un momento dubitarne? Quali altre intenzioni potevo io attribuire ad una simile condotta, da parte di una donna così bella, ricca, tanto evidentemente compìta, d'una educazione così perfetta, così totalmente rispettabile sotto ogni aspetto quale certo era Madame Lalande? Sì, ella mi amava, ricambiava l'entusiasmo del mio amore con un entusiasmo altrettanto cieco, altrettanto inflessibile, senza calcolo, abbandonato e del tutto illimitato come il mio!

    Queste deliziose fantasticherìe e riflessioni, peraltro, furono interrotte dal calare del sipario. Il pubblico si alzò; e subito sopravvenne il solito tumulto. Lasciando bruscamente Talbot, feci ogni sforzo onde aprirmi la strada e avvicinarmi di più a Madame Lalande. Non essendovi riuscito, a causa della folla, abbandonai infine l'inseguimento e diressi i miei passi verso casa; consolandomi del disappunto di non aver potuto nemmeno toccare il lembo del suo vestito, con la riflessione che all'indomani Talbot mi avrebbe presentato in debita forma.

    Questo domani finalmente giunse. Cioè: il giorno apparve alla fine dopo una lunga e penosa notte d'impazienza; e quindi le ore, fino all'una, trascorsero a passo di lumaca, cupe e innumerevoli.

    Finalmente questa lunga attesa ebbe termine, e l'orologio batté l'ora stabilita. Mentre cessava l'ultima eco, io entravo al B. e chiedevo di Talbot.

    - Uscito - disse il domestico, che era al servizio di Talbot.

    - Uscito! - replicai, indietreggiando di una mezza dozzina di passi - lasciate che vi dica, ragazzo mio, che questo è assolutamente impossibile e privo di senso; il signor Talbot non può essere uscito. Che cosa volete dire?

    - Nulla, signore; soltanto il signor Talbot non è in casa. Ecco tutto. E' partito per S... immediatamente dopo colazione e ha lasciato detto che non sarà di ritorno in città per una settimana.

    Rimasi pietrificato d'orrore e di rabbia. Tentai di replicare, ma la lingua rifiutò di muoversi. Alla fine girai sui tacchi, livido di collera, e affidando nell'intimo alle più profonde ragioni dell'Ebreo tutta quanta la tribù dei Talbot. Era evidente che il mio riflessivo amico, il fanatico, aveva completamente dimenticato il suo appuntamento con me: l'aveva dimenticato nel momento stesso in cui l'avevamo fissato. Non era mai stato uomo scrupolosamente di parola. Non c'era rimedio. Soffocando il mio sdegno come meglio potevo, rifeci la strada di pessimo umore, rivolgendo futili domande su Madame Lalande ad ogni conoscente di sesso maschile in cui m'imbattevo. Trovai che, di fama, essa era conosciuta da tutti - molti la conoscevano di vista - ma era in città solo da qualche settimana, e vi erano perciò pochissimi che potevano vantarsi di conoscerla di persona.

    Questi pochi, essendole ancora relativamente estranei, non potevano, o non volevano prendersi la libertà di presentarmi attraverso la formalità di una visita. Mentre me ne stavo così, disperato, parlando con tre amici dell'oggetto che occupava tutto il mio cuore, accadde che l'oggetto medesimo venisse a passare di lì.

    - Com'è vero che vivo, eccola! - gridò uno.

    - Che bellezza insuperabile! - esclamò un secondo.

    - Un angelo sceso in terra! - gridò il terzo.

    Guardai; in una carrozza aperta che si avvicinava, passando lentamente per la via, sedeva l'incantevole visione del teatro, accompagnata dalla signora più giovane che aveva occupato un posto nel suo palco.

    - Anche la sua compagna si conserva molto bene - disse quello dei tre che aveva parlato per primo.

    - Sorprendente, - disse il secondo - ha ancora un bell'aspetto; ma l'arte fa miracoli. In fede mia, sembra più bella di quanto non fosse a Parigi cinque anni fa. Una bella donna ancora - non vi pare, Froissart? - Simpson, voglio dire.

    - ANCORA! - dissi io - e perché non dovrebbe esserlo? Ma in confronto alla sua amica è una candelina paragonata all'astro della sera, una lucciola di fronte ad Antares.

    - Ha! ha! ha! Ma davvero, Simpson, avete una disposizione straordinaria a fare delle scoperte! scoperte originali, voglio dire. - E qui ci separammo, mentre uno del terzetto cominciava a canterellare un allegro vaudeville, del quale afferrai soltanto i seguenti versi:

    Ninon, Ninon, Ninon à bas, A bas Ninon De L'Enclos!

    Durante questa breve scena, peraltro, una cosa era servita a consolarmi non poco, benché alimentasse la passione che mi consumava. Mentre la vettura di Madame Lalande passava vicino al nostro gruppo, avevo osservato che mi aveva riconosciuto; e, inoltre, mi aveva beatificato col più serafico di tutti i sorrisi, segno non dubbio del riconoscimento.

    Quanto ad esserle presentato, fui costretto ad abbandonare ogni speranza al riguardo, almeno finché Talbot non avesse creduto opportuno di tornare dalla campagna. Nel frattempo frequentai con assiduità ogni spettacolo pubblico in voga; ed infine, al teatro dove l'avevo vista la prima volta, ebbi la suprema fortuna di incontrarla, e di scambiare ancora con lei degli sguardi. Questo non accadde, però, che due settimane dopo. Nel frattempo io avevo chiesto ogni giorno di Talbot al suo albergo, e ogni giorno il sempiterno "non è ancora tornato" del domestico mi gettava in accessi spasmodici di furore.

    Io ero quindi, quella sera, in uno stato molto prossimo alla follia. Madame Lalande, mi era stato detto, era parigina - era arrivata di recente da Parigi - non poteva improvvisamente ripartire? - ripartire prima che Talbot tornasse - e io perderla allora per sempre? Il pensarlo era troppo terribile da sopportare.

    Poiché la mia futura felicità era in gioco, risolsi di agire con virile decisione. In una parola, dopo la fine dello spettacolo, seguii la dama fino alla sua residenza, presi nota dell'indirizzo, e la mattina dopo le inviai una lettera colma ed elaborata, nella quale versai tutto il mio cuore.

    Parlai franco, liberamente - con passione, insomma. Non le nascosi nulla, neppure la mia debolezza di vista. Allusi alle romantiche circostanze del nostro primo incontro, ed anche agli sguardi che ci eravamo scambiati. Mi arrischiai fino a dirle che ero sicuro del suo amore; e addussi questa sicurezza, insieme con l'intensità della mia devozione, per scusare la mia condotta altrimenti imperdonabile. In terzo luogo, accennai al timore che lei potesse lasciare la città prima che io le fossi presentato in debita forma. Chiusi la lettera più scapigliatamente entusiastica che sia mai stata scritta, con una franca dichiarazione delle mie condizioni sociali; dei miei redditi, e offrendo il mio cuore e la mia mano.

    Attesi la risposta come in agonia. Dopo un tempo che mi parve un secolo, essa giunse.

    Sì, GIUNSE DAVVERO. Per quanto romantico tutto questo possa sembrare, io ricevetti in realtà una lettera di Madame Lalande, la bella, la ricca, l'idolatrata Madame Lalande. I suoi occhi - i suoi magnifici occhi - avevano palesato quel che sentiva il suo nobile cuore. Da vera francese qual era, aveva obbedito ai franchi dettami della sua ragione, ai generosi impulsi della sua natura, disprezzando i pregiudizi del mondo. Non irrideva alle mie proposte. NON si chiudeva nel silenzio. NON mi rimandava la lettera senza averla aperta. Me ne mandava una invece, in risposta, tracciata dalle sue squisite dita.

    "Monsieur Simpson, vorrà me pardonner se non scrivere la bella lingua della sua contrée troppa bene. E' solo poco di tempo che io sono arriva, e non ha avuto l'opportunité per - pour l'étudier.

    Con questi scusi per la manière, io dirà ora che, hélas! - Monsieur Simpson non ha devinato che troppo vero. Ho io bisogno di dire davantaggio? Hélas! Non sono io già parlato troppo?

    Eugénie Lalande.

    Baciai un milione di volte questa lettera così nobile, e commisi senza dubbio, per causa sua, mille altre stravaganze che mi sono ora sfuggite di mente. E Talbot non VOLEVA tornare. Ahimé! Se avesse avuto anche la più lontana idea delle sofferenze che causava all'amico la sua assenza, la sua amichevole natura non l'avrebbe fatto volare immediatamente al mio soccorso? Eppure NON tornava. Scrissi. Mi rispose che era trattenuto da affari urgenti, ma sarebbe tornato fra breve. Mi pregava di non essere impaziente, di moderare i miei trasporti, di leggere libri rilassanti, di non bere nulla di forte, e di chiamare in mio aiuto le consolazioni della filosofia. Che stupido! Se non poteva venire personalmente, perché, in nome della logica, non mi accludeva una lettera di presentazione? Gli scrissi di nuovo, scongiurandolo di mandarmene una senza indugio. La mia lettera mi venne rimandata da QUEL TALE domestico, con la seguente soprascritta a matita, sul retro. Il furfante aveva raggiunto il padrone in campagna.

    Lasciato S... ieri, per ignota destinazione - non ha detto dove - o quando sarebbe tornato - ho pensato quindi bene di rimandare la lettera, riconoscendo la sua calligrafia, e sapendo come lei abbia sempre più o meno fretta.

    Suo devotissimo Stubbs.

    Dopo di che, è inutile dirlo, io consacrai alle divinità infernali tanto il padrone che il cameriere; ma c'era poco da incollerirsi, e lamentarmi non mi consolava.

    Ma avevo ancora una risorsa: la mia audacia innata. Fino allora essa mi aveva servito bene; risolsi quindi di farmi aiutare da quella per raggiungere il mio fine. E d'altra parte, dopo la corrispondenza scambiata, quale atto meno che corretto avrei POTUTO commettere, sempre entro certi limiti, che potesse essere considerato indecoroso da Madame Lalande? Dopo l'invio della lettera avevo preso l'abitudine di sorvegliare la sua casa, e avevo così scoperto che, verso il crepuscolo, ella di solito passeggiava, seguita soltanto da un negro in livrea, in una piazza in cui davano le sue finestre. Qui, tra i cespugli alti e ombrosi, nella grigia penombra di una dolce sera di mezza estate, colsi il momento opportuno e mi avvicinai a lei. Per ingannare meglio il domestico di scorta, lo feci con l'aria sicura di una vecchia conoscenza di famiglia. Con una presenza di spirito proprio parigina lei si adattò al volo alla situazione, e mi tese, per salutarmi, la più maliosa delle mani. Il valletto restò indietro; e allora, coi nostri cuori pieni sino a scoppiare, discorremmo a lungo e senza freno del nostro amore.

    Poiché Madame Lalande parlava inglese ancora meno correntemente di quanto lo scrivesse, la nostra conversazione si svolse necessariamente in francese. In questo dolce linguaggio, così adatto ad esprimere la passione, io mi abbandonai all'entusiasmo impetuoso della mia natura e, con tutta l'eloquenza di cui ero capace, la supplicai di acconsentire ad un matrimonio immediato.

    Lei sorrise alla mia impazienza. Addusse la vecchia storia del decòro, di questo spauracchio che distoglie tanta gente dalla felicità finché la possibilità di questa è sfuggita per sempre. Io avevo con grande imprudenza reso noto fra i miei amici (lei osservò) che desideravo conoscerla, e quindi che non la conoscevo ancora; cosicché non era possibile celare la data della prima nostra reciproca conoscenza. E qui arrossì, facendomi notare quanto questa data fosse recente. Sposarsi sarebbe stato senz'altro sconveniente, indecoroso, OUTRE'. Disse tutto ciò con un incantevole aria di NAIVETE' che mi rapiva, e nel tempo stesso mi rattristava e mi convinceva. Giunse persino ad accusarmi, ridendo, di precipitazione, d'imprudenza. Volle ricordarmi che non sapevo neppure chi lei fosse, quali le sue intenzioni, le sue relazioni, la sua posizione sociale. Mi pregò, ma con un sospiro, di riflettere sulla mia proposta, e chiamò il mio amore un'infatuazione, un fuoco fatuo, un capriccio o una fantasia passeggera, una creazione instabile e malfondata dell'immaginazione più che del cuore.

    Queste cose diceva, mentre le ombre del dolce crepuscolo si addensavano sempre più brune intorno a noi; e quindi, con una tenue stretta della sua mano di fata, abbatteva, in un solo dolcissimo istante, tutto l'edificio di argomentazioni che aveva innalzato.

    Replicai come meglio potevo, come solo può fare un innamorato sincero.

    Parlai lungamente e con insistenza della mia devozione, della mia passione, della sua straordinaria bellezza e della mia entusiastica ammirazione.

    Conclusi soffermandomi con un'energia convincente sui pericoli che minacciano il corso dell'amore, quello del vero amore, che mai pianamente si svolge, e dedussi così quanto fosse pericoloso il rendere questo corso lungo più del necessario.

    Quest'ultimo argomento sembrò infine addolcire il rigore della sua decisione. Ella cedette; ma c'era ancora un ostacolo, disse, che a suo modo di vedere io non avevo debitamente preso in considerazione. Era un punto delicato a trattarsi, specie per una donna. Alludendovi, vedeva di dover sacrificare i propri sentimenti; pure, per ME, avrebbe fatto ogni sacrificio. Si trattava dell'argomento dell'ETA'. Sapevo io, ero io pienamente consapevole della nostra differenza d'età? Che l'età del marito sorpassasse quella della moglie di qualche anno - anche di quindici o vent'anni - il mondo lo ammetteva, e poteva anche approvarlo; ma lei aveva sempre pensato e creduto che gli anni della moglie non dovessero MAI superare quelli del marito. Una differenza così poco naturale determinava, ahimé! troppo frequentemente, una vita infelice. Ora, lei sapeva che la mia età non superava i ventidue anni; mentre io, invece, forse NON sapevo che gli anni della mia Eugénie andavano molto più in là di tale numero.

    In tutto ciò vi era una nobiltà d'animo, un dignitoso candore che mi deliziarono, m'incantarono, ribadirono per l'eternità le mie catene. Potei a malapena frenare il trasporto eccessivo che m'invase.

    - Mia dolcissima Eugénie, - gridai - di che mai andate discorrendo? Avete qualche anno più di me: e allora? Le abitudini del mondo sono altrettante follie convenzionali. Per chi si ama come noi ci amiamo, in che mai un anno differisce da un'ora? Voi dite che ho ventidue anni; sta bene: potreste anche dire, senz'altro, ventitré. E quanto a voi, mia carissima Eugénie, non potrete certo averne più di - non potrete averne più di - più di - di - di...

    Qui mi arrestai un attimo, aspettando che Madame Lalande m'interrompesse aggiungendo la sua età esatta. Ma una francese è di rado esplicita, e ha sempre, per rispondere ad una domanda imbarazzante, qualche piccola replica sua propria. In questa occasione Eugénie che, pochi momenti prima, sembrava volesse cercare qualcosa in seno, lasciò infine cadere sull'erba una miniatura, che subito raccolsi e le presentai.

    - Tenetela! - lei disse, col più incantevole dei suoi sorrisi. - Tenetela per amor mio, per l'amore di colei che essa riproduce in modo troppo lusinghiero. Tra l'altro potrete forse, sul rovescio del ciondolo, trovare proprio quell'informazione che sembrate desiderare. Ora sta facendosi davvero piuttosto buio, ma potrete esaminarla a vostro agio domattina.

    Intanto, mi accompagnerete a casa stasera. I miei amici hanno combinato un piccolo incontro musicale. Vi posso promettere, anche, dei buoni cantanti. Noi francesi non siamo così scrupolosi come voi altri americani, e io non avrò difficoltà a farvi scivolar dentro, come se foste una vecchia conoscenza.

    Così dicendo prese il mio braccio, e io l'accompagnai sino a casa.

    Il palazzo era molto bello e, se ben ricordo, arredato con gusto.

    Su questo punto, peraltro, non ho il diritto di pronunciarmi, perché era ormai buio quando giungemmo; e, nelle case americane della miglior società, raramente le lampade, durante il calore dell'estate, fanno la loro apparizione in questo, che è il momento più piacevole della giornata. Dopo un'ora circa dal mio arrivo, di certo, una sola lampada centrale era accesa nel salotto principale; e potei così vedere che questa stanza era arredata con insolito buon gusto e, direi, con fasto; ma due altre stanze dell'appartamento, nelle quali si riunì tutta la compagnia, rimasero per tutta la serata in un'ombra piacevolissima. E' questa una buona abitudine, e i nostri amici d'oltroceano farebbero bene ad adottarla senz'altro.

    La sera così trascorsa fu senza alcun dubbio la più deliziosa della mia vita. Madame Lalande non aveva esagerato sull'abilità musicale dei suoi amici; e non avevo mai sentito cantare così in riunioni private, se non a Vienna. Gli esecutori strumentali erano molti, e di grande talento.

    Cantarono per lo più signore, e nessuna cantò meno che bene.

    Infine, a un invito a gran voce: "Madame Lalande!", lei subito si alzò, senza affettazione o esitazione, dalla CHAISE LONGUE sulla quale era seduta al mio fianco, e accompagnata da uno o due signori e dalla sua amica dell'opera, si diresse verso il pianoforte nella sala principale. Io stesso l'avrei accompagnata; ma sentii che, nelle circostanze della mia presentazione nella casa, avrei fatto meglio a starmene inosservato dove mi trovavo.

    Fui quindi privato del piacere di vederla, se non di sentirla cantare.

    L'impressione che ella produsse sull'uditorio fu qualcosa di elettrico; ma l'effetto sopra di me fu anche maggiore. Non saprei come descriverlo adeguatamente. Esso proveniva in parte, senza dubbio, dai sentimenti d'amore dei quali ero pervaso; ma principalmente dalla mia convinzione della sensibilità estrema dell'esecutrice. L'Arte in se stessa non potrebbe dare a un'aria o a un recitativo un'espressione più appassionata della sua.

    L'esecuzione che lei fece della romanza dell'Otello - il modo col quale rese le parole "Sul mio sasso..." nei Capuleti - mi risuona ancora nella memoria. I suoi toni bassi erano assolutamente miracolosi. La voce abbracciava tre ottave complete, estendendosi dal re di contralto al re acuto di soprano; e, sebbene abbastanza potente da riempire il San Carlo, eseguì, con la più minima precisione, ogni difficoltà vocale, scendendo e discendendo scale, cadenze o fioriture. Nel finale della Sonnambula, essa rese un effetto straordinario nelle parole:

    Ah! non giunge uman pensiero Al contento ond'io son piena.

    Qui, imitando la Malibran, essa modificò la frase originale di Bellini, facendo scendere la sua voce fino al sol di tenore, e quindi, con un rapido salto, prese il sol con tre tagli, superando un intervallo di due ottave.

    Alzatasi dal piano dopo questi miracoli di esecuzione vocale, riprese il suo posto vicino a me; e allora le espressi, nei termini del più profondo entusiasmo, il godimento che avevo provato durante la sua esecuzione. Nulla dissi della mia sorpresa, eppure sorpreso ero davvero; perché una tal quale debolezza, o piuttosto una certa tremula indecisione della voce nella conversazione ordinaria mi aveva disposto a presumere che non dovesse manifestare, nel canto, alcuna speciale abilità.

    La nostra discussione fu lunga, seria, ininterrotta, e completamente senza riserve. Lei mi fece raccontare molti episodi della mia vita passata, e prestò una straordinaria attenzione ad ogni parola del discorso. Non nascosi nulla, sentivo che non avevo il diritto di celare alcunché al suo fiducioso affetto.

    Incoraggiato dal suo candore sul delicato argomento dell'età, non solo venni a parlarle, con tutta franchezza, e diffusamente, dei miei piccoli difetti, ma feci una piena confessione di quelle infermità morali, e persino fisiche, il rivelare le quali, richiedendo un alto grado di coraggio, è una sicura prova d'amore.

    Accennai alle mie scappate di collegio, alle mie stravaganze, alle sregolatezze, ai debiti, ai flirts.

    Giunsi persino a parlare di una lieve tosse che mi aveva disturbato in un dato periodo, di un reuma cronico, di un attacco di gotta ereditaria e, in conclusione, della sgradevole e fastidiosa debolezza di vista, che fino allora avevo nascosto con cura.

    - Quest'ultimo difetto, - disse Madame Lalande, ridendo - siete stato di poco giudizio a confessarlo; perché altrimenti vi assicuro che nessuno vi avrebbe accusato di un tal delitto. A proposito, - continuò - ricordate forse, - e qui immaginai che un rossore, malgrado l'oscurità dell'appartamento, apparisse distintamente sulla sua guancia - ricordate forse, MON CHER AMI, questo piccolo occhialetto che pende ora dal mio collo?

    E così dicendo girava tra le dita quello stesso occhialetto che mi aveva riempito di confusione all'opera.

    - Troppo bene, ahimé! lo ricordo - esclamai, premendo appassionatamente la mano delicata che mi offriva le lenti perché le esaminassi. Esse costituivano un gioiello complesso e magnifico, riccamente cesellato e filigranato, e scintillante di pietre preziose, che compresi, anche in quella scarsa luce, dover essere di grande valore.

    - EH BIEN, MON AMI, - essa concluse, con un certo EMPRESSEMENT di modi che non lasciò di sorprendermi - EH BIEN, MON AMI, mi avete chiesto seriamente un favore che vi siete compiaciuto di chiamare inestimabile. Mi avete chiesto di darvi la mia mano domani stesso.

    Se cedessi alle vostre insistenze e, potrei aggiungere, alle sollecitazioni della mia anima, mi sarebbe concesso chiedervi un piccolo, piccolissimo servizio in cambio?

    - Dite quale! - esclamai con un'energia che ebbe quasi per effetto di attirare su di noi l'attenzione degli astanti; e solo per la presenza di questi mi trattenni dal gettarmi impetuosamente ai suoi piedi. - Ditemi quale, mia beneamata, Eugenia mia! Ditemi quale! Esso è già concesso prima ancora di essere nominato.

    - Dovete vincere dunque, MON AMI, - disse lei - per amore di quell'Eugénie che amate, questa piccola debolezza che proprio adesso avete confessata - questa debolezza più morale che fisica - e che, lasciate che ve lo dica, non si addice alla nobiltà della vostra vera natura - che è in contrasto col candore abituale del vostro carattere - e che, se le permettete di dominarvi di più, finirà certo per portarvi, presto o tardi, a qualche passo molto sgradevole. Dovete vincere, per amor mio, questa affettazione che vi conduce, come voi stesso riconoscete, a negare, tacitamente o implicitamente, la vostra infermità di vista. Poiché voi virtualmente la negate, questa infermità, rifiutando di impiegare i mezzi abituali per correggerla. Comprenderete dunque che io desidero che portiate gli occhiali: - ah, ssst! - ormai avete acconsentito a portarli, per amor mio.

    Accetterete il gingillo che ho tra le mani adesso e che, per quanto mirabilmente aiuti la vista, non è in verità di gran valore, come gioiello. Voi capite che, con una modificazione da nulla in questo modo - o in quest'altro - lo si può adattare agli occhi sotto forma di occhiali, o portarlo nella tasca del panciotto come un occhialetto. Nel primo modo, tuttavia, e abitualmente, voi avete ormai consentito a portarlo, PER AMOR MIO.

    Questa richiesta - debbo confessarlo? - mi confuse non poco. Ma la condizione in cui veniva posta escludeva naturalmente qualsiasi esitazione.

    - E' fatto! - esclamai, con tutto l'entusiasmo di cui ero capace in quel momento. - E' fatto, e acconsento con tutto il cuore. Per amor vostro sacrifico qualsiasi suscettibilità. Stasera io porterò quest'occhialetto COME un occhialetto, e sopra il mio cuore; ma al primo albeggiare di quel mattino che mi darà la gioia di chiamarvi mia moglie, io lo porrò sul mio - sul mio naso - e là lo terrò sempre, in seguito, nel modo meno romantico e meno elegante, ma certo più utile, che voi desiderate.

    La nostra conversazione volse allora sui particolari delle disposizioni per la mattina dopo. Talbot (seppi dalla mia fidanzata) era giunto in città proprio allora. Avrei dovuto vederlo subito, e procurarmi una vettura. La soirée difficilmente sarebbe terminata prima delle due; e per quell'ora il veicolo avrebbe dovuto essere alla porta, e allora, nella confusione causata dalla partenza della compagnia, Madame Lalande avrebbe potuto facilmente entrarvi inosservata. Dovevamo quindi recarci in casa di un pastore che ci avrebbe atteso; qui sposarci, lasciare Talbot, e compiere un breve giro nell'est; lasciando il mondo elegante a casa, a fare tutti i commenti che meglio piacessero sull'avvenimento.

    Tracciato questo piano, mi accomiatai immediatamente, e andai in cerca di Talbot; però, in cammino, non potei trattenermi dall'entrare in un albergo per potere esaminare la miniatura; il che feci col potente aiuto delle lenti. La fisionomia era d'una bellezza sorprendente! Quei grandi occhi luminosi! Quel fiero naso greco! Quelle chiome brune e folte! "Ah" dissi a me stesso, esultando, "questa è veramente l'immagine parlante della mia amata!". Guardai nel verso e scoprii queste parole: "Eugénie Lalande - all'età di ventisette anni e sette mesi".

    Trovai Talbot a casa, e subito lo misi al corrente della mia buona fortuna.

    Manifestò un estremo stupore, com'è naturale, ma si congratulò con la massima cordialità, e mi offrì tutti gli aiuti in suo potere.

    In una parola, eseguimmo il nostro progetto alla lettera; e, alle due del mattino, proprio dieci minuti dopo la cerimonia, mi trovai in una carrozza chiusa con Madame Lalande - con la signora Simpson, dovrei dire - e mi allontanai a gran trotto dalla città, in direzione nord un quarto nord-est.

    Era stato stabilito da Talbot a nostro riguardo che, dovendo viaggiare tutta la notte, ci saremmo fermati come prima tappa a C., un villaggio a circa venti miglia dalla città, avremmo fatto laggiù la colazione del mattino e ci saremmo riposati, prima di riprendere la strada. Alle quattro precise la carrozza si arrestava alla porta principale dell'albergo. Aiutai la mia adorata consorte a scendere, e ordinai subito la colazione. Nel frattempo fummo introdotti in un salottino, e qui ci sedemmo.

    Era ormai quasi pieno giorno; e mentre contemplavo, rapito, l'angelo al mio fianco, mi venne in mente d'un tratto la strana idea che questa era in realtà la prima volta, da quando avevo conosciuto la celebrata bellezza di Madame Lalande, che avevo la gioia di esaminare questa bellezza da vicino, e alla luce del giorno.

    - E ora, mon ami, - disse, prendendomi la mano, e interrompendo così il corso delle mie riflessioni - e ora, MON CHER AMI, dato che ho ceduto alle vostre appassionate preghiere, e ho adempiuto la mia parte del nostro accordo, suppongo che non avrete dimenticato che anche voi avete da rendermi un piccolo favore, una piccola promessa che certamente vorrete mantenere. Vediamo!

    Lasciate che ricordi! Sì: con tutta facilità richiamo alla mente le precise parole della cara promessa che faceste ieri sera ad Eugénie. Ascoltate! Così avete detto: "E' fatto! e acconsento con tutto il cuore!Per amor vostro sacrifico qualsiasi suscettibilità. Stasera io porterò quest'occhialetto come un occhialetto, e sul mio cuore; ma al primo albeggiare di quel mattino che mi darà la gioia di chiamarvi mia moglie, io lo porrò sul mio - sul mio naso - e là lo terrò sempre, in seguito, nel modo meno romantico e meno elegante, ma certo più utile, che voi desiderate". Furono queste le vostre precise parole, mio caro marito, non è vero?

    - Proprio così, - dissi io - avete una memoria eccellente; e certo, mia bellissima Eugenia, io non ho alcuna intenzione di sfuggire all'adempimento della piccola promessa. Guardate! Ecco fatto! Mi stanno... abbastanza bene, non vi sembra? - E qui, aggiustate le lenti nella forma ordinaria di un paio d'occhiali, le applicai con disinvoltura nella posizione corretta; mentre la signora Simpson, aggiustandosi la cuffia, e incrociando le braccia, si metteva dritta a sedere sulla seggiola, in una posizione alquanto tesa e rigida e, veramente, non troppo dignitosa.

    - Bontà divina! - esclamai quasi allo stesso istante che il nasello degli occhiali si fu posato sul mio naso. - COME!

    santissimo Iddio! ma, che cosa POSSONO mai avere queste lenti? - e togliendomele rapidamente, le pulii con cura mediante un fazzoletto di seta, e di nuovo me le aggiustai.

    Ma se, nel primo momento, qualcosa mi aveva sorpreso, questa sorpresa, nel secondo, aumentò fino a diventare sbigottimento; e questo era davvero profondo, estremo, potrei dir quasi terrificante. Che mai, in nome d'ogni cosa orrenda, poteva significare questo? Potevo io credere ai miei occhi? Lo potevo?

    Questo era il problema. Era quello - era quello - era quello del ROUGE? Ed erano quelle - erano quelle - erano quelle delle RUGHE, sul viso di Eugénie Lalande? E oh, Giove! e per tutti quanti gli dèi e le dee, grandi e piccini che - che - che - che COSA era avvenuto dei suoi denti?

    Scaraventai con violenza gli occhiali per terra e, balzato in piedi, mi piantai in mezzo alla stanza, di fronte alla signora Simpson, con le mani sui fianchi, sogghignando e schiumando ma, nello stesso tempo, senza potere parlare, pieno di terrore e di rabbia.

    Ora, io ho già detto che Madame Eugénie Lalande - cioè Simpson - parlava l'inglese ben poco meglio di quanto sapesse scriverlo: e perciò molto opportunamente non tentava mai di parlarlo nelle circostanze ordinarie. Ma l'ira può spingere una signora ad ogni estremo; e nel caso presente portò la signora Simpson fino allo straordinario punto di intraprendere una conversazione in una lingua che non capiva quasi affatto.

    - Bien, Monsieur, - disse, dopo avermi squadrato con aria di grande stupore per alcuni istanti - bien, Monsieur! e allora? che cosa c'è adesso? è la danza di Saint Vitus quel che avete? Se io non piacervi, a che buono comprare con gli occhi fermati?

    - Miserabile! - dissi, riprendendo fiato. - Voi - voi - voi siete un'infame vecchia strega!

    - Strega? Vecchia? Io non sono così vecchia, dopo tutto! Io non avere un solo giorno di più di ottantadue anni.

    - Ottantadue? - proruppi, arretrando fino alla parete - ottantadue milioni di babbuini! La miniatura diceva ventisette anni e sette mesi!

    - Certamente! è così! molto vero! Ma allor il portrait me stato preso ci sono cinquantacinque anni. Quando io mi maritai col mio secondo marito, Monsieur Lalande, in quel tempo ebbi il portrait preso per mia sorella da mio primo marito, Monsieur Moissart!

    - Moissart? - dissi.

    - Sì, Moissart - disse lei, rifacendo il verso alla mia pronuncia che, a dire il vero, non era delle migliori - e che appresso? Che sapete VOI di Moissart?

    - Niente, vecchio spaventapasseri! non so proprio nulla di lui; soltanto avevo un antenato con questo nome, nei tempi andati.

    - Questo nome! e che avete voi da dire di questo nome? è un BON nome; e così è Voissart - QUESTO è anche un BON nome. Mia figlia, Mademoiselle Moissart, ella sposò Monsieur Voissart; e il nome sono tutt'e due MOLTO RISPETTABILE.

    - Moissart? - esclamai - e Voissart! eh? che cosa volete dire?

    - Che voglio io dire? Io voglio dire Moissart e Voissart; e quanto a questo, voglio dire anche Croissart e Froissart, se penso solamente di volerlo dire. La figlia di mia figlia, Mademoiselle Voissart, sposò Monsieur Croissart, e poi ancor, la nipote di mia figlia, Mademoiselle Croissart, ella sposò Monsieur Froissart; e io suppongo che voi vorrete dire che questo non è un nome rispettabile.

    - Froissart! - dissi io, sentendomi svenire - no, non vorrete dire certamente Moissart, e Voissart, e Croissart, e Froissart?

    - Sì, - replicò lei, stendendosi completamente all'indietro sulla sedia, e protendendo le sue membra inferiori per una gran lunghezza - sì, Moissart, e Voissart, e Croissart, e Froissart. Ma Monsieur Froissart, egli era un molto grande sciocco, come voi direste; egli era un molto grande asino come voi - perché lasciò la BELLE FRANCE per venir in questa stupida Amérique - e quando egli arrivò qui egli andò ad avere un MOLTO, MOLTO stupido figlio, mi hanno detto, benché io non aver ancor avuto il plaisir di incontrarmi con lui; né io né la mia compagna, Madame Stéphanie Lalande. Egli si chiama Napoléon Buonaparte Froissart, e io suppongo che voi vorrete dire che anche QUESTO non è un nome molto rispettabile.

    O la lunghezza, o la natura di questa orazione, ebbero l'effetto di soffiare nella signora Simpson una passione straordinaria; e quando ebbe finito, faticosamente, balzò dalla sua sedia come ossessionata, lasciando cadere sul pavimento, nel salto, un intero universo di imbottiture. Una volta in piedi, si mise a digrignare i denti, ad agitar le braccia, a rimboccarsi le maniche, a mostrarmi i pugni sulla faccia, e concluse lo spettacolo con lo strapparsi dal capo la cuffia e, insieme, un'immensa parrucca dei più preziosi e bei capelli neri, scaraventando il tutto a terra con un grande urlo, calpestandola, e ballandovi sopra un fandango, in una assoluta èstasi e agonia di rabbia.

    Nel frattempo io ero sprofondato esterrefatto nella sedia da lei abbandonata. "Moissart e Voissart!" ripetevo, meditabondo, mentre lei faceva una delle sue capriole, "e Croissart e Froissart!" mentre ne eseguiva un'altra.

    - Moissart e Voissart e Croissart e Froissart e Napoleone Buonaparte Froissart! - ma, o ineffabile vecchio serpente, questi sono IO! - sono IO! - mi sentite? sono IO - gridai con quanto fiato avevo in gola - sono IO... O... O... O... O...! Sono IO Napoleone Buonaparte Froissart! e se non ho sposato la mia arcibisnonna, ebbene che io possa esser dannato in eterno!

    Madame Eugénie Lalande, QUASI Simpson - nata Moissart - era, difatti, la mia trisavola. Nella sua gioventù era stata bella e, anche a ottantadue anni, conservava la maestosa statura, la linea scultoria del capo, i begli occhi e il naso greco della sua gioventù. Con questo, con le ciprie, il rossetto, i capelli finti, la dentiera, e le tournures posticce, e con l'aiuto delle più abili modiste di Parigi, era riuscita a conservare un posto rispettabile tra le bellezze UN PEU PASSEES della metropoli francese.

    Sotto questo aspetto, davvero, poteva essere considerata poco meno che l'eguale della celebre Ninon De L'Enclos.

    Era immensamente ricca, e rimasta, per la seconda volta, vedova senza figli, le ero venuto in mente e, allo scopo di farmi suo erede, era giunta negli Stati Uniti, in compagnia di una sua lontana e bellissima parente del suo secondo marito, la signora Stéphanie Lalande.

    All'opera, l'attenzione della mia trisavola era stata colpita dal fatto che io la fissavo; ed essa, guardandomi con l'occhialetto, aveva notato in me una cert'aria di famiglia. Interessatasi, e sapendo che l'erede che cercava era in quella città, chiese notizie di me a coloro che l'accompagnavano. Il signore che era con lei mi conosceva e le disse chi ero. Queste informazioni la indussero ad osservarmi attentamente ancora; e fu questo esame che mi eccitò e fece sì che io mi comportassi nel modo assurdo che ho già descritto. Lei rispose al mio inchino, peraltro, avendo l'impressione che, per qualche strana combinazione, io avessi scoperto la sua identità.

    Quando io, ingannato dalla mia vista debole e dalle arti della toilette circa l'età e il fascino della donna straniera, chiesi con tanto entusiasmo a Talbot chi essa fosse, egli ritenne che io alludessi, naturalmente, alla bellezza più giovane, e m'informò, con perfetta buona fede, che si trattava della "famosa vedova, Madame Lalande".

    Per la strada, il mattino seguente, la mia arcibisnonna incontrò Talbot, sua vecchia conoscenza di Parigi; e la conversazione, con molta naturalezza, cadde su di me. I miei difetti di vista vennero in chiaro; poiché erano notori, sebbene la loro notorietà mi fosse ignota; e la mia buona vecchia parente scoprì, con grande dispiacere, che si era ingannata supponendo che io conoscessi la sua identità, e che mi ero dimostrato un gran sciocco facendo apertamente la corte, in teatro, ad una vecchia sconosciuta. Allo scopo di punirmi di questa leggerezza lei combinò un complotto con Talbot. Questi mi sfuggì a bella posta, per evitare di dovermi presentare a lei. Le mie informazioni stradali sulla "adorabile vedova Madame Lalande" furono credute, si capisce, riferirsi alla signora più giovane; e si spiegherà così facilmente anche la conversazione coi tre amici incontrati poco dopo che io ero uscito dall'albergo di Talbot, e la loro allusione a Ninon De L'Enclos.

    Non ebbi alcuna occasione di vedere Madame Lalande da vicino alla luce del giorno e, alla soirée musicale, la mia stupida debolezza nel voler rifiutare l'ausilio delle lenti m'impedì di fatto di rendermi conto della sua età. Quando venne invitata a cantare "Madame Lalande", s'intendeva la signora più giovane; e lei infatti accondiscese all'invito; la mia trisavola, per evitare la scoperta dell'inganno, si alzò nello stesso momento e l'accompagnò al pianoforte nel salotto principale. Se mi fossi deciso a seguirla di là, sarebbe stata sua intenzione di suggerirmi di restare dov'ero; ma la mia riservatezza non aveva reso questo necessario. Le romanze che io avevo tanto ammirato, e che mi avevano confermato validamente l'impressione della giovinezza della mia amata, erano state eseguite da Madame Stéphanie Lalande.

    L'occhialetto mi fu donato come per aggiungere un rimprovero alla burla; una punta all'epigramma del disinganno. E il donarlo aveva offerto un'opportunità per quella predica sull'affettazione che mi aveva particolarmente edificato. E' per lo meno superfluo aggiungere che le lenti dello strumento portate dalla vecchia signora erano state da lei stessa cambiate con un paio che si adattasse meglio alla mia età. Mi andavano, infatti, a puntino.

    L'ecclesiastico, che aveva fatto semplicemente finta di stringere il nodo fatale, era un gaio compare di Talbot, e niente affatto un prete. Fu in compenso un "brumista" eccellente; e, mutata la sottana con un mantellaccio, aveva guidato il ronzino che conduceva la "coppia felice" fuori città. Talbot aveva preso posto al suo fianco. I due furfanti se la godettero così proprio fino in fondo, e attraverso una finestra semiaperta che dava nella retrosala dell'ingresso, si divertirono un mondo a sogghignare al DENOUEMENT del dramma. Credo che dovrò per forza sfidarli a duello tutti e due.

    Ad ogni modo io NON sono il marito della mia arcibisnonna; e questo pensiero mi dà un infinito sollievo: sono invece il marito di Madame Lalande - di Madame Stéphanie Lalande - con la quale la mia buona vecchia parente, oltre a nominarmi suo erede universale per la data della sua morte - se mai questa data giungerà - si prese anche la briga di combinarmi un matrimonio. In conclusione:

    l'ho per sempre finita con i BILLETS DOUX, e mai più mi si vedrà senza occhiali.

     

     

     

  • TRE DOMENICHE IN UNA SETTIMANA
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    "Testa Balorda, cuore duro, ostinato, rugginoso, crostoso, muffoso, mucillaginoso vecchio selvaggio!" dissi, dentro di me, un pomeriggio, al mio prozio, Strambotti, mostrandogli il pugno nell'immaginazione.

    Soltanto nell'immaginazione. Perché in verità una qualche lieve discrepanza esisteva, allora, fra quel che dicevo e quel che non avevo il coraggio di dire; fra quel che facevo e quel che avevo una mezza intenzione di fare.

    Il vecchio animale, quando aprii l'uscio dello studio, se ne stava seduto con i piedi sul caminetto, un bel bicchiere di porto tra le zampe, e faceva dei grandi sforzi per tradurre in pratica l'adagio:

    Empi il bicchiere se è vuoto!

    Vuota il bicchiere se è pieno!

    - Mio caro zio, - dissi, chiudendo gentilmente la porta, e avvicinandomi a lui col più blando dei sorrisi - voi siete sempre così amabile e riguardoso, e avete manifestato la vostra benevolenza in tali e tante maniere che io sento di dovervi soltanto ricordare, una volta di più, questo particolare, per essere sicuro della vostra piena condiscendenza.

    - Hem! - diss'egli. - Sta bene! va' avanti!

    - Io sono sicuro, mio carissimo zio, - (vecchia canaglia malcreata) - che voi non avete l'intenzione, realmente, seriamente, di opporvi alla mia unione con Kate. Questo è uno scherzo; io so bene - ha! ha! ha! - QUANTO siate burlone, voi, a volte...

    - Ha! ha! ha! - diss'egli - pezzo di...! Già!

    - Sicuro, naturalmente! Lo sapevo bene che volevate scherzare.

    Vedete, zio, quel che Kate e io desideriamo, adesso, è il vostro parere circa - circa l'epoca - sapete, zio... a farla breve:

    quando è più conveniente per voi che le nozze abbiano - abbiano luogo, eh?

    - Abbiano luogo, briccone! Che cosa vuoi dire con questo? è meglio attendere che siano in cammino...

    - Ha! ha! ha! - he! he! he! - hi! hi! hi! - ho! ho! ho! - hu! hu!

    hu! - oh, questa è buona! - oh, questa è splendida - che bella facezia! Ma noi vorremmo proprio, capite, zio, che ci indicaste l'epoca precisamente...

    - Ah! PRECISAMENTE?

    - Sì, zio, se questo non vi rincresce troppo.

    - Non vi andrebbe bene, eh, Bobby, se dicessi così a caso, qualche cosa come fra un anno, per esempio? DEBBO dirlo con precisione?

    - Se non vi dispiace, zio, con precisione.

    - Beh, allora, Bobby, ragazzo mio - sei un caro ragazzo, no? - visto che VUOI sapere l'epoca esatta, io, sicuro, ti voglio accontentare, per una volta.

    - Caro zio!...

    - Silenzio, signore! - (soverchiando la mia voce) - Per una volta, ti voglio accontentare. Avrai il mio consenso - e la DOTE, non dobbiamo dimenticare la dote - vediamo! quando potrà essere? Oggi è domenica - no? Beh, voi vi sposerete precisamente - PRECISAMENTE, attenzione! QUANDO TRE DOMENICHE CAPITERANNO INSIEME IN UNA SETTIMANA! M'intendete, signore? Cosa spalancate la bocca a fare? Ripeto, avrete Kate e la sua dote quando tre domeniche capiteranno insieme in una settimana - ma non PRIMA di allora, dovessi morire. Mi conoscete - IO SONO UOMO DI PAROLA. - Ora, fila! Tracannò il suo bicchiere di porto, mentre io mi precipitavo fuori dalla camera, disperato.

    Un bel "vecchio gentiluomo inglese" era il mio prozio, Strambotti; ma, contrariamente a quello della canzone, aveva i suoi punti deboli. Era una piccola, bolsa, pomposa, irascibile, emisferica personcina, con un naso rosso, un cranio spesso, una borsa lunga, e un gran senso della sua coerenza. Avendo il miglior cuore del mondo, egli s'ingegnava, con il suo predominante spirito di contraddizione, di farsi attribuire, da coloro che lo conoscevano solo superficialmente, il carattere di un tanghero. Come molte ottime persone, pareva posseduto dallo spirito di tormentare, il quale avrebbe potuto facilmente, a prima vista, essere scambiato per malevolenza. Ad ogni richiesta, un nettissimo "No!" era la sua risposta immediata; ma alla fine - proprio all'ultima, ultimissima fine - a pochissime domande rispondeva negativamente. Contro tutti gli attacchi diretti alla sua borsa egli opponeva la più strenua difesa; ma il totale che gli veniva estorto da ultimo era, in genere, in ragione diretta della lunghezza dell'assedio e della caparbietà della sua resistenza. In fatto di carità, nessuno dava più liberalmente di lui; o con grazia peggiore.

    Per le belle arti, e specialmente per le belle lettere, nutriva un profondo disprezzo. In ciò era stato ispirato da Casimir Périer, la cui impertinente domanda, "A' quoi un poète est-il bon?", egli aveva l'abitudine di citare, con una comicissima pronuncia, come il non plus ultra della facezia logica.

    Cosicché la mia inclinazione verso le muse aveva incontrato la sua piena disapprovazione. Egli mi assicurò un giorno, quando gli chiesi una copia nuova di Orazio, che la traduzione di "POETA NASCITUR, NON FIT" era "Un poeta nato non vale un fico", osservazione che io presi molto a male. La sua ripugnanza per l'umanesimo era da ultimo anche molto cresciuta a causa di un ostinato attaccamento a favore di quella che credeva essere la scienza naturale. Qualcuno lo aveva avvicinato per la strada, scambiandolo niente di meno che per il dottor Pedantelli, professore di fisica empirica.

    Ciò lo aveva fatto partire per la tangente; e proprio all'epoca di questa storia - poiché sta diventando una storia, dopo tutto - il mio prozio, Strambotti, era accessibile e trattabile soltanto sui punti che si accordassero con le capriole del cavalluccio che egli stava guidando. Per tutto il resto, rideva con le braccia e le gambe, e le sue idee politiche erano pervicaci e facilmente comprensibili. Egli pensava, con Horsley, che "il popolo non ha nulla a che fare con le leggi, se non osservarle!" Avevo vissuto col vecchio gentiluomo tutta la mia vita. I miei genitori, morendo, mi avevano affidato a lui con un ricco lascito.

    Io credo che il vecchio tanghero mi volesse bene come se fossi stato figlio suo - quasi, se non esattamente, quanto amava Kate - ma in fin dei conti mi faceva condurre una vita da cani. Dal mio primo anno fino al quinto, mi somministrò molto regolarmente delle frustate. Dai cinque ai quindici, mi minacciò ogni momento di ficcarmi in una casa di correzione. Dai quindici ai venti, non passava giorno che non mi promettesse di mettermi fuori casa con un solo scellino. Io ero un cattivo arnese, d'accordo; ma ciò era allora una parte della mia natura, un articolo di fede. In Kate, per altro, avevo una valida alleata, e lo sapevo. Era una buona ragazza, e mi diceva con molta dolcezza che io avrei potuto averla (con la dote e tutto) se mai avessi potuto trascinare il mio prozio Strambotti a dare il necessario consenso. Povera figliola!

    Aveva appena quindici anni, e senza questo piccolo consenso il suo piccolo capitale non sarebbe stato disponibile se non dopo che cinque incommensurabili estati l'avessero "rimorchiata innanzi la loro lenta lunghezza". Che fare, dunque? A quindici anni, od anche a ventuno (poiché io avevo allora passata la mia quinta olimpiade), cinque anni da venire sono press'a poco lo stesso che cinquecento. Invano assediavamo il vecchio, importunandolo. Vi era una "pièce de résistance" (come direbbero i Messieurs Ude e Carène) che foggiava la sua perversa fantasia a puntino.

    Avrebbe provocato l'indignazione di Giobbe il vedere quanto egli si comportasse come un vecchio gatto con noi, poveri disgraziati topolini. In cuore suo non desiderava nulla più ardentemente della nostra unione. Ci aveva pensato da un po' di tempo a questa parte e, in realtà, avrebbe dato diecimila sterline di tasca propria (la dote di Kate era proprio DI LEI) se avesse potuto inventare qualcosa come una scusa per consentire coi nostri naturali desideri. Ma noi eravamo stati così imprudenti da abbordare noi stessi l'argomento. Non opporvisi, in siffatte circostanze, io credo sinceramente che non fosse in suo potere. Ho già detto che aveva dei punti deboli; ma, parlando di questi, non si deve intendere che io mi riferisca alla sua ostinatezza, che era, invece, uno dei suoi punti forti: "assurément ce n'était pas son faible". Quando parlo della sua debolezza, alludo a una bizzarra superstizione da donnicciola che lo affliggeva. Egli era famoso in fatto di sogni, portenti, ED IT GENUS OMNE di fanfaluche. Era anche eccessivamente puntiglioso su piccoli punti d'onore e, a modo suo, era senza dubbio uomo di parola. Ciò era anzi, uno dei suoi DADA. Lo spirito dei suoi voti, egli non si peritava di considerarlo zero, ma la lettera era un'obbligazione inviolabile.

    Ora, proprio di quest'ultima peculiarità del suo temperamento, l'ingegnosità di Kate ci permise un bel giorno, non molto dopo la nostra conversazione nella sala da pranzo, di avvantaggiarci inaspettatamente. Avendo ora così, al modo di tutti i bardi e degli oratori moderni, esaurito in prolegomena tutto il tempo a mia disposizione, e quasi tutto lo spazio, riassumerò in poche parole ciò che costituisce il vero nocciolo della storia.

    Avvenne allora - i Fati così disposero - che fra i conoscenti della mia fidanzata ci fossero due capitani marittimi, i quali erano allora approdati alle coste d'Inghilterra, dopo un anno di assenza per viaggi all'estero. In compagnia di questi signori, la mia cugina ed io, previo accordo, facemmo una visita allo zio Strambotti nel pomeriggio di domenica, dieci ottobre, proprio tre settimane dopo la memorabile decisione che così crudelmente aveva deluso le nostre speranze. Per circa una mezz'ora la conversazione si aggirò sui soliti argomenti; ma alla fine ci ingegnammo, con tutta naturalezza, di darle il corso seguente:

    CAPITANO PRATT: - Beh, sono stato assente proprio un anno. Un anno giusto oggi, sicurissimo - lasciatemi pensare! Eh già! Oggi è il dieci ottobre.

    Ricordate, signor Strambotti, io venni, giusto un anno fa, a salutarvi. E, a proposito, è una bella coincidenza, no?, che il nostro amico, il capitano Smitherton, qui presente, sia stato via proprio un anno anche lui, un anno con oggi?

    SMITHERTON: - Sì! proprio un anno giusto. Ricorderete, signor Strambotti, che io venni col capitano Pratt esattamente in questo giorno, l'anno scorso, a farvi i miei ossequi per la partenza?

    ZIO: - Sì, sì, sì, lo ricordo benissimo; è molto strano davvero!

    Tutti e due partiti proprio un anno fa. Una strana coincidenza, in fede mia. Proprio quel che il dottor Pedantelli chiamerebbe una straordinaria concorrenza di eventi. Il dottor Ped...

    KATE (interrompendo): - Certamente, papà, è una cosa strana; ma il capitano Pratt e il capitano Smitherton non hanno fatto la stessa strada, e allora c'è una differenza, capite...

    ZIO: - Io non ci vedo alcuna differenza, pettegola! Come dovrei vedercene? Penso che ciò rende la cosa ancora più notevole. Il dottor Pedantelli...

    KATE: - Ma come, papà, il capitano Pratt girò intorno al Capo Horn, e il capitano Smitherton doppiò il Capo di Buona Speranza!...

    ZIO: - Precisamente! Uno andò verso oriente e l'altro verso occidente, sciocchina, e ambedue hanno girato esattamente intorno al mondo. A proposito, il dottor Pedantelli...

    IO (precipitosamente): - Capitano Pratt, voi dovete venire a passare la serata con noi, domani - voi e Smitherton, - potrete raccontarci tutto intorno al vostro viaggio, e faremo una partita a whist, e...

    PRATT: - Whist, ragazzo mio? voi dimenticate: domani è domenica.

    Un'altra sera...

    KATE: - Ohibò! Roberto non è PROPRIO così irriverente. OGGI è domenica.

    ZIO: - Certamente, certamente!

    PRATT: - Domando scusa a entrambi, ma io non posso sbagliarmi in questo modo. Io so che domani è domenica perché...

    SMITHERTON (sorpreso): - Che cosa state pensando, tutti quanti?

    Domenica non era ieri? vorrei un po' sapere...

    TUTTI: - Ieri? Sì, proprio! Siete fuori strada!

    ZIO: - Oggi è domenica, dico, non lo SO io forse?

    PRATT: - Oh no! Domenica è domani!

    SMITHERTON: - Siete tutti impazziti, tutti quanti. Io sono così sicuro che domenica era ieri, come che sono seduto su questa seggiola.

    KATE (balzando su premurosa): - Capisco, capisco tutto. Papà, questo è un giudizio su di voi, circa... circa... quel che sapete.

    Lasciatemi dire, e io vi spiegherò tutto in un minuto. E' una cosa semplicissima. Il capitano Smitherton dice che domenica era ieri; e lo era: ha ragione. Mio cugino Bobby, e lo zio, ed io, diciamo che domenica è oggi; è così: abbiamo ragione. Il capitano Pratt mantiene che domani sarà domenica; e sarà così: ha ragione anche lui. Il fatto è che abbiamo ragione tutti. Sono capitate tre domeniche in una settimana.

    SMITHERTON (dopo una pausa): - Sai una cosa, Pratt? Kate ha perfettamente ragione. Idioti che siamo! Signor Strambotti, le cose stanno così: la Terra, come sapete, ha una circonferenza di ventiquattromila miglia. Ora, questo globo che è la Terra gira intorno al suo asse, ruota, frulla per queste ventiquattromila miglia, andando da ovest ad est, precisamente in ventiquattr'ore.

    Capite, signor Strambotti?

    ZIO: - Certamente, certamente; il dottor Ped...

    SMITHERTON (soverchiando la sua voce): - Ebbene, signore, ciò avviene alla velocità di un migliaio di miglia all'ora. Ora, supponete che io faccia da questa posizione mille miglia verso est. Naturalmente, anticipo il levar del sole qui a Londra, esattamente di un'ora. Vedo il levar del sole un'ora prima di voi.

    Procedendo nella medesima direzione altre mille miglia, anticipo la levata di due ore; un altro migliaio, e l'anticipo di tre, e così via, finché giro tutto il globo, e torno a questo punto; allora, essendo andato a est per ventiquattromila miglia, anticipo il levar del sole di Londra di non meno di ventiquattr'ore; il che equivale a dire che sono un giorno IN ANTICIPO sul vostro tempo.

    Capito?

    ZIO: - Ma Pedantelli...

    SMITHERTON (a voce molto alta): - Il capitano Pratt, invece, quando ebbe percorso un migliaio di miglia verso ovest, da questo punto,si trovò un'ora (e quando ne ebbe percorse ventiquattromila, si trovò ventiquattr'ore) INDIETRO al tempo di Londra. Quindi, per me, era domenica ieri, mentre, per Pratt, domenica sarà domani. E di più, signor Strambotti, è chiarissimo che abbiamo TUTTI ragione, perché non si può addurre alcun motivo filosofico per cui l'idea dell'uno debba prevalere sull'idea dell'altro.

    ZIO: - Perbacco! - ebbene, Kate - ebbene, Bobby! - Questo è un giudizio su di me, come voi dite. Ma io sono uomo di parola - TENETELO PRESENTE! Tu l'avrai, ragazzo (con la dote e tutto), quando vorrai. Bene, per Giove! Tre domeniche, tutte in fila! E ora vado a chiedere l'opinione di Pedantelli su QUESTO fatto!

     

     

     

  • LA VITA LETTERARIA DEL CAVALIER THINGUM BOB (ULTIMO EDITORE DELLA "PENNA D'OCA") SCRITTA DA LUI STESSO
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     Sono ormai avanti negli anni e - poiché sembra che Shakespeare e il signor Emmons siano morti - non è impossibile che anch'io venga a mancare. Ho pensato, quindi, che potrei benissimo ritirarmi dal campo delle lettere, e riposare sugli allori. Ma tengo a rendere nota la mia abdicazione allo scettro letterario, per mezzo di qualche cospicuo lascito ai posteri; e forse la miglior cosa che io possa fare è quella di scrivere per loro una relazione della mia carriera giovanile. Il mio nome, infatti, è stato così a lungo e così costantemente davanti agli occhi del pubblico, che io non solo sono disposto ad ammettere il naturale interesse che esso ha suscitato ovunque, ma sono altresì pronto a soddisfare l'estrema curiosità che ha ispirato; è un puro e semplice dovere, per chi giunge a esser grande, il lasciare dietro a sé, nella sua ascesa, dei segni indicatori che possano guidare altri a diventare grandi a loro volta. Mi propongo quindi, in questo scritto (che avevo idea d'intitolare MEMORIA PER CONTRIBUIRE ALLA STORIA LETTERARIA DELL'AMERICA), di dare i particolari di quei primi passi importanti, sebbene deboli e incerti, i quali mi condussero, da ultimo, sulla strada maestra che giunge sino al culmine della rinomanza umana.

    E' superfluo che io vi dica dei miei remotissimi antenati. Mio padre, il Cavaliere Tommaso Bob, fu per molti anni il Maestro della sua professione, che era quella di negoziante barbiere nella città di Smug. Il suo negozio era convegno di tutte le personalità del luogo, e specialmente del corpo editoriale, un corpo che inspira intorno a sé profonda venerazione e rispettoso terrore.

    Quanto a me, li consideravo degli dèi, e bevevo avidamente il ricco spirito e la saggezza che di continuo fluiva dalle loro bocche auguste durante lo svolgimento dell'operazione denominata "insaponatura". Il mio primo momento di vera ispirazione deve datare dall'epoca, per sempre memorabile, in cui il brillante condottiero del "Tafàno", negli intervalli dell'importante operazione prima menzionata, recitò ad alta voce, dinanzi ad un conclave dei nostri commessi, un poema inimitabile in onore dell'"Unico genuino Olio di Bob" (così chiamato dal suo geniale inventore, mio padre); per la quale effusione il direttore del "Tafàno" fu ricompensato con regale liberalità dalla ditta Tommaso Bob e C., negozianti barbieri.

    Il genio delle strofe sull'"Olio di Bob" soffiò primariamente in me, ho detto, l'AFFLATUS divino. Risolsi immediatamente di diventare un grand'uomo e, per cominciare, un grande poeta. Quella sera stessa caddi in ginocchio ai piedi di mio padre.

    - Padre, - dissi - perdonatemi! ma io ho un'anima superiore al mestiere d'insaponare il prossimo. E' mia ferma intenzione di piantare la bottega. Vorrei essere un editore, vorrei essere un poeta, vorrei scrivere delle strofe sull'"Olio di Bob".

    Perdonatemi, e aiutatemi ad essere grande!

    - Mio caro Thingum, - rispose mio padre (ero stato battezzato Thingum per via di un parente facoltoso così chiamato) - mio caro Thingum, - ripeté, tirandomi su per le orecchie dalla mia posizione - Thingum, ragazzo mio, sei un bravo figliolo, e somigli a tuo padre nell'avere un'anima. Hai pure una zucca enorme, che deve certo contenere una buona dose di cervello. Questo l'ho visto da un pezzo, e avevo perciò l'intenzione di fare di te un avvocato. Il mestiere, d'altra parte, è diventato poco distinto, e quello di uomo politico non rende. Tutto sommato, tu pensi bene:

    quello dell'editore è il migliore, e se tu puoi essere poeta al tempo stesso come del resto è la maggior parte degli editori, ebbene! potrai prendere due piccioni con una fava. Per incoraggiarti nei primi passi, ti concederò una soffitta; penna, inchiostro e carta; un rimario; e una copia del "Tafàno". Suppongo che non vorrai pretendere di più.

    - Sarei un miserabile ingrato se lo facessi - replicai con entusiasmo. - La vostra generosità è immensa. E io vi ricompenserò facendo di voi il padre di un genio.

    Così ebbe termine il mio colloquio con il migliore degli uomini, e immediatamente mi dedicai con fervore alle mie fatiche poetiche, perché su queste io fondavo principalmente le mie speranze d'innalzarmi fino alla cattedra editoriale.

    I primi tentativi nel comporre furono più che altro ostacolati dalle strofe sull'"Olio di Bob". Il loro splendore, più che illuminarmi, mi accecava. Il contemplarne la perfezione contribuiva, si capisce, a scoraggiarmi, se le paragonavo con i miei aborti, di modo che per un bel pezzo lavorai inutilmente.

    Alla fine mi balenò una di quelle idee squisite e originali che fatalmente VOGLIONO ogni tanto penetrare nel cervello di un uomo di genio. E fu questa o, piuttosto, fu così che io la misi in atto. Tra gli scarti di un vecchio fondaco, in un remoto angolo della città, io misi insieme diversi volumi antichi, del tutto sconosciuti o dimenticati. Il libraio me li vendette per un boccone di pane. Da uno di questi, che a quanto pare era la traduzione dell'"Inferno" di un certo Dante, copiai con notevole esattezza un lungo brano che parlava di un uomo chiamato Ugolino, il quale aveva un branco di marmocchi. Da un altro, che conteneva un buon numero di vecchi lavori teatrali, scritti da qualcuno il cui nome non ricordo, ricavai nello stesso modo, e con la stessa cura, una quantità di frasi intorno ad "angeli", a "sacerdoti che benedicono", a "spiriti dannati", e via di questo passo. Da un terzo, che era la composizione di un cieco, salvo errore, greco o ottentotto - non posso prendermi la pena di ricordare esattamente ogni inezia - copiai circa cinquanta versi che cominciavano con "l'ira di Achille", "grasso" (nota 1) e qualcos'altro. Da un altro, che se ben ricordo era pure il lavoro di un cieco, scelsi una pagina o due intorno alla "grandine" (nota 2) e alla "luce santa"; e, per quanto un cieco non debba immischiarsi di scrivere sulla luce, pure i versi erano, a modo loro, abbastanza buoni.

    Fatte delle belle copie di queste poesie, firmai ognuna di esse "Oppodeldoc" (un bel nome sonoro); le misi con garbo in buste separate e ne mandai una ad ognuna delle principali riviste, chiedendo una pubblicazione sollecita e un pronto pagamento. Però il risultato di questo piano ben architettato (e il cui successo mi avrebbe risparmiato molti guai negli anni futuri) servì a convincermi che certi editori non sono fatti per essere presi in giro, e dette il COUP DE GRACE (come dicono in Francia) alle mie nascenti speranze (come dicono nella città dei trascendentali).

    Il fatto è che ognuna delle riviste in questione fece al signor "Oppodeldoc" una vera strapazzata, nelle "Risposte mensili ai corrispondenti". Il "Tamburo battente" lo conciò in questo modo:

    "Oppodeldoc" (chiunque egli sia) ci ha mandato una lunga tirata intorno a un mentecatto che egli denomina "Ugolino", il quale aveva una quantità di bambini che avrebbero dovuto essere tutti frustati e mandati a letto senza cena. Tutto il pezzo è eccessivamente sbiadito, per non dire PIATTO.

    "Oppodeldoc" (chiunque egli sia) è interamente sprovvisto d'immaginazione, e l'immaginazione, a nostro modesto avviso, è non solo l'anima della POESIA, ma anche il suo cuore vero e proprio.

    "Oppodeldoc" (chiunque egli sia) ha l'audacia di chiederci, per la sua cicalata, una pubblicazione sollecita e un pronto pagamento.

    Noi non pubblichiamo né acquistiamo roba di questo genere. Non c'è dubbio, peraltro, che egli troverebbe pronta vendita per tutti gli anfanamenti che potesse scombiccherare, negli uffici dello "Scartafaccio", del "Tic Tac" o della "Penna d'Oca".

    Tutto questo, bisogna riconoscerlo, era molto severo per "Oppodeldoc", ma il più fiero colpo stava nell'aver messo la parola "poesia" in maiuscoletto. Che mondo di amarezza, in quelle sei lettere rilevate!

    Ma "Oppodeldoc" fu punito con eguale severità dallo "Scartafaccio", il quale così parlò:

    Abbiamo ricevuto una missiva assai singolare ed insolente da parte di una persona (chiunque essa sia) che si firma "Oppodeldoc", sconsacrando così la grandezza dell'illustre Imperatore romano di questo nome. Insieme alla lettera di "Oppodeldoc" (chiunque egli sia) troviamo parecchie righe della più disgustosa ed insignificante arringa intorno ad "angeli" e a "sacerdoti benedicenti": concione quale nessun pazzoide, come nessun "Oppodeldoc" potrebbe mai perpetrare. E, per questa robaccia, ci si chiede modestamente di "pagare subito". No, signore, no! Noi non paghiamo nulla di questa SORTA. Rivolgetevi al "Tamburo Battente", al "Tic Tac" o alla "Penna d'Oca". Questi PERIODICI accetteranno senza dubbio qualsiasi rifiuto letterario che possiate mandar loro, e altrettanto indubbiamente PROMETTERANNO di pagarlo.

    Ciò era molto amaro per il povero "Oppodeldoc"; ma in questo caso, il peso della satira cade sopra il "Tamburo Battente", il "Tic Tac" e la "Penna d'Oca", i quali vengono con espressione pungente chiamati PERIODICI - sottolineato, per giunta - una cosa che deve averli colpiti al cuore.

    Poco meno selvaggio era il "Tic Tac" che si espresse come segue:

    Un INDIVIDUO, cui piace appellarsi "Oppodeldoc" (a quali bassi usi troppo spesso si prestano i nomi degli illustri defunti!), ci ha spedito un cinquanta o sessanta VERSI che cominciano a questo modo:

    Cantami, o Diva, del Pelìde Achille / L'ira funesta, che infiniti addusse / Lutti agli Achei, eccetera, eccetera, eccetera.

    A "Oppodeldoc" (chiunque egli sia) viene rispettosamente reso noto che nel nostro ufficio non c'è tipografo il quale non abbia l'abitudine giornaliera di comporre RIGHE migliori. Quelle di "Oppodeldoc" non si possono SCANDERE.

    "Oppodeldoc" dovrebbe imparare a CONTARE. Ma perché poi egli debba essersi messo in mente che NOI (NOI, fra tutti!) avremmo disonorato le nostre pagine con le sue ineffabili sciocchezze, è assolutamente incomprensibile.

    Di certo, l'assurda cicalata è appena buona per il "Tamburo Battente", lo "Scartafaccio" o la "Penna d'Oca", che hanno l'abitudine di pubblicare i versi della "Vispa Teresa" come liriche originali. E "Oppodeldoc" (chiunque egli sia) ha perfino l'improntitudine di chiedere un PAGAMENTO per questa scemenza.

    Sappia "Oppodeldoc" (chiunque egli sia) - è egli ben sicuro che non dovremmo esser pagati NOI, per pubblicarla?

    Letto quanto sopra, io mi sentii diventare gradualmente sempre più piccolo, e quando arrivai al punto nel quale l'editore beffeggiava i "versi" del poema, restava di me poco più che un'oncia. Ma la "Penna d'Oca" mostrò, se possibile, minor misericordia ancora del "Tic Tac". Fu proprio la "Penna d'Oca" a scrivere:

    Uno sciagurato poetastro, che si firma "Oppodeldoc", è abbastanza sciocco da immaginarsi che NOI pubblicheremo e PAGHEREMO un guazzabuglio di incoerenti e sgrammaticate ampollosità da lui inviateci, e che cominciano con la seguente riga del tutto inintelligibile:

    Salve, Luce Santa! Primogenita prole del Cielo (nota 3) Diciamo del tutto inintelligibile. "Oppodeldoc" (chiunque egli sia) sarà abbastanza cortese da dirci, forse, come la "grandine" possa essere "luce santa". Noi l'abbiamo sempre considerata come PIOGGIA CONGELATA. Vorrà egli altresì informarci come la pioggia congelata possa essere, in un solo e stesso tempo, "luce santa" (qualunque cosa questa sia) e "prole"?, il quale ultimo termine (se comprendiamo qualcosa d'inglese) è adoperato soltanto in riferimento a poppanti di circa sei settimane? Ma è insensato discutere sopra simili assurdità, per quanto "Oppodeldoc" (chiunque egli sia) abbia l'ineguagliabile sfrontatezza di supporre che noi non solo pubblicheremo i suoi ignoranti deliri, ma (sicuro!) LI PAGHEREMO!

    Ora, questa è troppo bella - questa è fantastica! - e abbiamo una mezza intenzione di punire questo giovane scribacchino della sua presunzione, pubblicando la sua effusione, VERBATIM ET LIBERATIM, come egli l'ha scritta. Non potremmo infliggergli una punizione più severa; e VORREMMO infliggergliela, se non pensassimo alla noia che daremmo ai nostri lettori, così facendo.

    Che "Oppodeldoc" (chiunque egli sia) mandi ogni COMPOSIZIONE della stessa specie al "Tamburo battente", al "Tic Tac" o allo "Scartafaccio". Essi "pubblicheranno". Essi "pubblicano" ogni mese robaccia del genere. Lo mandi a loro. NOI, non ci si insulta impunemente.

    Questo mi dette il colpo di grazia; quanto al "Tamburo Battente", allo "Scartafaccio", e al "Tic Tac", non ho mai capito come abbiano potuto sopravvivere. Quel metterli nel minore carattere MINUSCOLETTO possibile (questa era la frecciata - insinuando in tal modo la loro piccolezza, la loro bassezza) mentre il NOI si ergeva guardandoli dall'alto in basso in maiuscole gigantesche! - oh, era TROPPO amaro - era assenzio - era fiele!

    Se fossi stato in uno di questi periodici nulla avrei risparmiato per querelare la "Penna d'Oca". Ciò si sarebbe potuto fare in base alla legge sulla "prevenzione della crudeltà verso gli animali".

    Quanto ad "Oppodeldoc" (chiunque egli fosse), io avevo nel frattempo perduta la pazienza nei suoi confronti, e non simpatizzavo più con lui. Era un pazzo, senz'alcun dubbio (chiunque egli fosse) e non ebbe un calcio di più di quanto meritava.

    Il risultato dei miei esperimenti coi libri vecchi mi convinse, anzitutto, che "la probità è la miglior politica" e, in secondo luogo, che se io non potevo scrivere meglio del signor Dante, e dei due ciechi, o del rimanente della combriccola, sarebbe stato almeno difficile scrivere peggio. Quindi mi rincuorai decidendo di perseguire l'"assolutamente originale" (come dicono sulle copertine delle riviste) a qualunque prezzo di studi e di fatiche.

    Mi posi di nuovo davanti agli occhi, come modello, le brillanti strofe sull'"Olio di Bob", del direttore del "Tafàno" e risolsi di costruire un'ode sullo stesso sublime argomento, rivaleggiando con quanto era già stato fatto.

    Per il primo verso non ebbi difficoltà materiali. Esso suonava così:

    Scrivere un'ode sull'Olio di Bob.

    Avendo ricercato, peraltro, tutte le possibili rime a "Bob", trovai impossibile proseguire. In questo dilemma ricorsi all'aiuto paterno; e, dopo qualche ora di pensosa maturazione, mio padre e io costruimmo il poema così:

    Scrivere un'ode sull'Olio di Bob E' un affare un po' serio. (Firmato) SNOB.

    Certamente, questa composizione non era molto lunga; ma "devo ancora imparare", come dicono nella "Rivista di Edimburgo", che la semplice ampiezza di un lavoro letterario abbia qualcosa a che fare col suo valore.

    Quanto a quel che insinua la "Rivista trimestrale" sullo "sforzo sostenuto", è impossibile ricavarne il senso. In complesso, quindi, ero soddisfatto del successo del mio primo tentativo, e il solo problema concerneva il modo di valorizzarlo. Mio padre suggerì di mandarlo al "Tafàno", ma due ragioni mi impedivano di farlo. Paventavo la gelosia dell'editore, e avevo accertato che non pagava le collaborazioni originali. Perciò, dopo débita riflessione, consegnai l'articolo alle pagine, più degne, del "Tic Tac", e attesi gli eventi ansioso, ma rassegnato.

    Proprio nel successivo numero ebbi l'orgogliosa soddisfazione di vedere il mio poema finalmente stampato, in prima colonna, e preceduto dalle seguenti parole in corsivo e tra parentesi quadre:

    [Attiriamo l'attenzione dei nostri lettori sulle seguenti mirabili strofe sull'"Olio di Bob". Non serve dir nulla sulla loro sublimità, o sul loro pathos; è impossibile leggerle senza lacrime. Coloro che sono stati nauseati da una triste pappardella sullo stesso augusto soggetto dovuto all'ochesca penna del direttore del "Tafàno" faranno bene a paragonare le due composizioni.

    P.S. Siamo consumati dall'ansietà di sondare il mistero che evidentemente avvolge lo pseudonimo di "Snob". Possiamo sperare in un'intervista personale?].

    Tutto ciò era poco più che giusto, ma era, lo confesso, assai più di quanto mi aspettavo: riconosco questo, si noti, ad obbrobrio perenne del mio paese e del genere umano. Non tardai, peraltro, a recarmi dal direttore del "Tic Tac" ed ebbi la fortuna di trovarlo in casa. Mi salutò con aria di profondo rispetto, lievemente mista ad una ammirazione paterna e protettrice, ispiratagli, senza dubbio, dalla mia apparenza estremamente giovane ed inesperta.

    Pregandomi di sedere, cominciò subito a parlare del mio poema; ma la modestia m'impedirà sempre di ripetere i mille complimenti che egli profuse sul mio conto. Gli elogi del signor Granchi (era questo il nome del direttore) non si tennero per altro mendacemente sulle generali. Egli analizzò la mia composizione con molta libertà e con grande perizia; e non esitò a indicarmi due o tre nei da nulla: particolare, questo, che lo innalzò molto nella mia stima. Venne, si capisce, in discorso, il "Tafàno", e io spero di non esser mai sottoposto ad una critica così inquisitoria, o a rimproveri così distruttori, come quelli che furono usati dal signor Granchi in merito a quel parto infelice. Io ero stato abituato a considerare il direttore del "Tafàno" come un qualcosa di sovrumano; ma il signor Granchi mi fece subito cambiare idea.

    Egli mise nella sua vera luce il carattere sia letterario che individuale della "Mosca" (così il signor Granchi, ironicamente, designava il pubblicista rivale). Quest'ultimo era di poco migliore di quanto avrebbe dovuto essere. Aveva scritto cose infami. Era uno scrittore a un soldo la riga, e un buffone. Era un miserabile. Aveva scritto una tragedia che aveva fatto smascellare dalle risate tutto il paese, e una farsa che aveva immerso nel pianto l'universo intero. E, tutto questo a parte, aveva avuto l'impudenza di scrivere quella che egli credeva essere una satira personale contro di lui (signor Granchi) e la temerarietà di definirlo "un asino". Se io avessi mai voluto esprimere il mio giudizio sul signor "Mosca", così mi assicurò il signor Granchi, le pagine del "Tic Tac" erano a mia completa disposizione. Nel frattempo, poiché era certissimo che io sarei stato attaccato nel "Tafàno" per l'audacia di aver composto un poema rivale sull'"Olio di Bob", egli (il signor Granchi) si sarebbe preso il formale incarico di accudire ai miei privati e personali interessi. Se non fossi diventato un uomo subito, non sarebbe stata colpa sua (del signor Granchi).

    Avendo il signor Granchi fatto una pausa nel suo discorso (l'ultima parte del quale non riuscii assolutamente a capire), mi arrischiai ad accennare qualcosa relativamente al compenso, che avevo saputo spettarmi per il mio poema da un annuncio sulla copertina del "Tic Tac", il quale dichiarava che esso (il "Tic Tac") insisteva sul fatto di essere in grado di pagare prezzi esorbitanti per tutte le collaborazioni accettate; e di spendere spesso per una sola poesiola somme maggiori al prezzo annuale del "Tamburo Battente", dello "Scartafaccio" e della "Penna d'Oca" messi insieme.

    Allorché arrischiai la parola "compenso", il signor Granchi dapprima aprì gli occhi, e poi la bocca, per un'estensione ragguardevole; ottenendo così che il suo aspetto venisse a rassomigliare a quello di un vecchio papero molto agitato in attesa di gracidare; e in questa posizione rimase (ogni tanto premendosi le mani sulla fronte come in uno stato di disperato sbalordimento) finché io ebbi finito quel che avevo da dire.

    Alla mia conclusione, egli sprofondò nel suo seggio come sopraffatto, lasciando penzolare le braccia senza vita lungo i fianchi, ma tenendo sempre la bocca rigorosamente aperta, al modo del papero. Mentre io restavo in un muto stupore di fronte a un atteggiamento così allarmante, egli ad un tratto si levò in piedi e fece un balzo verso il cordone del campanello; ma, avendolo raggiunto, parve aver cambiato idea, qualunque essa fosse, perché si gettò sotto la tavola e immediatamente riapparve con un grosso bastone. Lo stava già sollevando in aria (per quale scopo non riesco proprio ad immaginare) quando, tutto d'un colpo, un sorriso benevolo si stese sui suoi lineamenti, ed egli risprofondò placidamente nella sua sedia.

    - Signor Bob, - diss'egli (poiché mi ero fatto precedere dal biglietto da visita prima di salire) - signor Bob, voi siete giovane, suppongo, MOLTO?

    Annuii; aggiungendo che non avevo ancora finito il terzo lustro.

    - Ah! - egli riprese - benissimo! Vedo come stanno le cose, non occorre altro! Quanto a questa faccenda del compenso, quel che voi osservate è giustissimo; difatti, è proprio così. Ma, eh - eh - la prima collaborazione - la PRIMA, dico - non è abitudine della rivista pagarla - capite, eh? La verità è che noi siamo di solito, in tali casi, i PERCIPIENTI (il signor Granchi sorrise blandamente articolando con enfasi la parola "percipienti"). Di massima, noi siamo PAGATI per la pubblicazione di un primo tentativo, specialmente in versi. In secondo luogo, signor Bob, è regola della rivista non sborsare mai quello che in Francia si chiama ARGENT COMPTANT. Io non dubito, intendiamoci: dopo un trimestre o due dalla pubblicazione dell'articolo, o dopo un anno o due, non facciamo difficoltà a dar la nostra cédola a scadenza nove mesi; atteso sempre che possiamo accomodare i nostri affari in modo da esser certi di "saltare" entro sei.

    Io spero PROPRIO, signor Bob, che voi considererete questa spiegazione come soddisfacente. - Qui il signor Granchi tacque, e gli vennero le lacrime agli occhi.

    Rattristato nell'anima di esser stato, seppure innocentemente, una causa di dolore per un uomo così eminente e così sensibile, mi affrettai a scusarmi, e a rassicurarlo, esprimendogli il mio perfetto accordo col suo modo di vedere, e la mia intera stima sulla delicatezza del suo atteggiamento. Fatto questo con un fine discorso, mi accomiatai.

    Una bella mattina, pochissimo tempo dopo, "mi risvegliai e mi trovai famoso". La grandezza della mia fama potrà meglio accertarsi richiamandosi ai giudizi della stampa del tempo. Questi giudizi, come si vedrà, erano contenuti in note critiche relative al numero del "Tic Tac" contenente il mio poema, e sono perfettamente soddisfacenti, conclusivi e chiari, eccezione fatta, forse, dei segni geroglifici "Sett. 15 - 1 v.", aggiunti ad ognuna delle critiche.

    La "Civetta", un giornale di profonda sagacia, ben noto per la ponderata serietà dei suoi giudizi letterari, la "Civetta", dico, parlò così:

    Il "Tic Tac"! Il numero di ottobre di questa deliziosa rivista sorpassa i precedenti, e sfida i competitori. Per la bellezza dell'impressione e della carta, per la quantità e l'eccellenza delle incisioni, come pure per il valore letterario delle sue collaborazioni, il "Tic Tac" appare, di fronte ai suoi rivali tardigradi, come Iperione di fronte ad un sàtiro. Il "Tamburo Battente", lo "Scartafaccio" e la "Penna d'Oca" eccellono, è vero, nelle millanterìe ma, in tutto il resto, vogliamo il "Tic Tac"!

    Come questo celebre periodico possa sostenere le sue spese, evidentemente tremende, noi non riusciamo a capire. Per certo, esso ha una tiratura di centomila copie, e i suoi abbonati sono aumentati di un quarto nell'ultimo mese; ma, d'altra parte, le somme che esso sborsa di continuo per le collaborazioni sono fantastiche. Si dice che il signor Asinelli abbia ricevuto non meno di trentasette soldi e mezzo per il suo scritto sui "porcellini". Con un direttore come il signor Granchi e con dei nomi nell'elenco dei collaboratori come Snob e Asinelli, non si può applicar la parola "difetto" al "Tic Tac". Andate ad abbonarvi. SETT. 15 - 1 V.

    Debbo dire che fui soddisfatto di questa lusinghiera nota, da parte di un giornale rispettabile come la "Civetta". L'aver posto il mio nome - o meglio, il mio NOM DE GUERRE - prima di quello del grande Asinelli, era un complimento felice, quale sentivo di meritare.

    La mia attenzione fu poi attirata da questi paragrafi del "Rospo", un periodico oltre modo distinto per dirittura e indipendenza, e per il suo mantenersi libero dalle adulazioni e dal servilismo verso i finanziatori:

    E' uscito il "Tic Tac" di ottobre, prima di tutti gli altri periodici, e sorpassandoli infinitamente, s'intende, per lo splendore della sua veste come per la ricchezza del suo contenuto letterario. Il "Tamburo Battente", lo "Scartafaccio" e la "Penna d'Oca" eccellono, lo ammettiamo, nelle millanterìe ma, in tutto il resto, vogliamo il "Tic Tac"! Come questa celebre rivista possa sostenere le sue spese, evidentemente tremende, noi non riusciamo a capire. Di certo, essa ha una tiratura di duecentomila copie, e i suoi abbonati sono aumentati di un terzo nell'ultima quindicina ma, d'altra parte, le somme che essa sborsa mensilmente per le collaborazioni sono spaventose. Apprendiamo che il signor Biascicotti ha ricevuto non meno di cinquanta soldi per la sua recente "Monodia in guazzetto".

    Fra i collaboratori di questo numero notiamo (a parte l'illustre direttore signor Granchi) uomini come Snob, Asinelli e Biascicotti. A parte la materia redazionale, il pezzo migliore è certo, secondo noi, una gemma poetica di "Snob" sull'"Olio di Bob"; ma i nostri lettori non debbono supporre, dal titolo di questo incomparabile BIJOU, che esso ammetta un qualsiasi confronto con un anfanamento sullo stesso soggetto di un disprezzabile messere il cui nome non è menzionabile ad orecchie beneducate. La PRESENTE poesia "Sull'Olio di Bob" ha suscitato l'ansietà e la curiosità universali intorno al titolare dell'evidente pseudonimo, "Snob": curiosità che, fortunatamente, siamo in grado di soddisfare. "Snob" è il NOM DE PLUME del signor Thingum Bob, di questa città, un parente del grande Thingum (dal quale prende il nome), ed altresì legato alle più illustri famiglie dello Stato. Suo padre, il Cavaliere Tommaso Bob, è un opulento mercante di Smug. SETT. 15 - 1 V.

    Questa generosa approvazione mi toccò il cuore, in special modo perchè proveniva da una fonte così schiettamente, così proverbialmente pura come la "Civetta". La parola "anfanamento" applicata all'"olio di Bob" della "Mosca" mi sembrò singolarmente pungente ed appropriata. Le parole "gemma" e "BIJOU", invece, adoperate per la mia composizione, mi colpirono come alquanto deboline. Mi sembravano mancanti di forza. Non erano abbastanza prononcees (come si dice in Francia).

    Avevo appena finito di leggere la "Civetta" quando un amico mi porse una copia della "Talpa", un quotidiano che godeva di un'alta reputazione per l'acutezza con la quale inquadrava in genere le questioni, e per lo stile aperto, onesto e franco dei suoi articoli redazionali. La "Talpa" parlava del "Tic Tac" come segue:

    Abbiamo ricevuto adesso il numero di ottobre del "Tic Tac", e DOBBIAMO dire che mai prima d'ora abbiamo letto un numero di periodico che ci abbia procurato una felicità così suprema. Il "Tamburo Battente", lo "Scartafaccio" e la "Penna d'Oca" devono stare attenti ai loro làuri.

    Queste riviste, senza dubbio, sorpassano tutti in strépito e in pretensione, ma in tutto il resto vogliamo il "Tic Tac"! Come questa celebre rivista possa sostenere le sue spese, evidentemente tremende, non riusciamo a comprendere. Di certo, essa ha una tiratura di trecentomila copie, e i suoi abbonati sono aumentati di metà nell'ultima settimana; ma d'altronde la somma che essa sborsa mensilmente per le collaborazioni è favolosamente enorme.

    Sappiamo da fonte sicura che il signor Chiacchieroni ricevette non meno di sessantadue soldi e mezzo per la sua novelletta domestica, lo "Strofinaccio".

    I collaboratori del numero che ci sta dinnanzi sono il signor Granchi (l'eminente direttore), Snob, Biascicotti, Chiacchieroni ed altri; ma, dopo gli inimitabili scritti del direttore stesso, preferiamo quel diamante che è la creazione dovuta alla penna di un poeta che sorge e che si firma "Snob", un NOM DE GUERRE che noi prediciamo dovrà offuscare un giorno lo splendore di "Boz".

    "Snob", ci dicono, è il signor Cavaliere Thingum Bob, unico erede di un facoltoso mercante di questa città, il Cavaliere Tommaso Bob, e stretto parente dell'egregio signor Thingum. Il titolo dell'ammirevole poesia del signor B... è l'"Olio di Bob"!: titolo piuttosto infelice, fra parentesi, poiché un disprezzabile vagabondo legato alla stampa quotidiana ha già disgustato la città con un buon numero di scemenze sullo stesso soggetto. Non vi sarà pericolo, ad ogni modo, che le due composizioni vengano confuse.

    SETT. 15 - 1 V.

    La generosa approvazione di un giornale di larghe vedute come la "Talpa" mi riempì l'anima di giùbilo. La sola obiezione che mi venne in mente fu che le parole "disprezzabile vagabondo" avrebbero dovuto essere piuttosto "ODIOSO e disprezzabile, RIBALDO, SCELLERATO, e vagabondo". Questo avrebbe suonato molto più graziosamente, mi sembra. "Diamante", altresì, era appena abbastanza intenso, lo si ammetterà, per esprimere quel che la "Talpa" evidentemente PENSAVA dello splendore dell'"Olio di Bob".

    Nello stesso pomeriggio in cui vidi queste notizie sul "Rospo", sulla "Civetta" e sulla "Talpa", mi capitò di imbattermi in una copia del "Ragno", un periodico proverbiale per la sua straordinaria chiaroveggenza.

    E il "Ragno" diceva così:

    Il "Tic Tac"!! Questa sontuosa rivista è già esposta al pubblico per il mese di ottobre. La questione di superiorità è per sempre risolta, e d'ora in poi sarà del tutto superfluo per il "Tamburo Battente", lo "Scartafaccio" o la "Penna d'Oca" fare qualunque spasmodico tentativo di competizione. Questi giornali possono sorpassare il "Tic Tac" nello schiamazzo, ma per tutto il resto vogliamo il "Tic Tac"! Come questa celebre rivista possa sostenere le sue spese, evidentemente tremende, non si riesce a capire. Di certo, essa ha una tiratura di esattamente mezzo milione, e i suoi abbonati sono aumentati del settantacinque per cento negli ultimi due giorni; ma d'altra parte le somme che essa sborsa mensilmente, per le collaborazioni, sono difficilmente credibili; sappiamo di sicuro che la signorina Rastrellini ha ricevuto non meno di ottantasette soldi e mezzo per la sua ultima forte novella rivoluzionaria, intitolata "Quel che Caterina fece in città, e non fece in campagna".

    I più begli articoli in questo numero sono, naturalmente, quelli scritti dal direttore (l'egregio signor Granchi), ma vi sono numerose magnifiche collaborazioni dovute a nomi come Snob, la signorina Rastrellini, Asinelli,la signora Frottolini, Biascicotti, la signora Saltellini, e ultimo, ma non minore, Chiacchieroni. Si potrebbe sfidare il mondo intero, a produrre una così ricca galassia di geni.

    Il poema che reca la firma "Snob" attira, a nostro parere, la lode universale e, dobbiamo dirlo, merita, se possibile, ancor più plausi di quanti ne abbia ricevuti. L'"Olio di Bob" è il titolo di questo capolavoro d'eloquenza e d'arte. Uno o due dei nostri lettori POSSONO avere una rimembranza MOLTO debole, benché abbastanza disgustosa, di una poesia dallo stesso titolo, perpetrata da un miserabile scrittore da un soldo al rigo, mendicante e assassino, adibito alle funzioni di sguattero, crediamo, in uno degli indecenti stampati dei dintorni della città; li preghiamo, per amor del Cielo, di non confondere le composizioni!

    L'autore del VERO "Olio di Bob" è, ci si dice, il Cavaliere Thingum Bob, un gentiluomo di alto ingegno, e un erudito. "Snob" è semplicemente un NOM DE GUERRE. SETT. 15 - 1 V.

    Potei a malapena trattenere la mia indignazione, scorrendo l'ultima parte di questo sproloquio. Mi appariva chiaro che quella maniera di "dire e non dire" se non proprio, via, la gentilezza, la vera e propria indulgenza, con la quale il "Ragno" parlava di quel porco del direttore del "Tafàno", mi appariva chiaro, dico, che questa affabilità di eloquio non poteva derivare se non da una parzialità verso la "Mosca", il cui valore evidentemente il "Ragno" intendeva sopravvalutare a mio danno. Ognuno, infatti, può vedere con un occhio solo che se i veri propositi del "Ragno" fossero stati quelli che esso voleva far apparire, esso (il "Ragno") avrebbe dovuto esprimersi in termini più diretti, più pungenti, e ad ogni modo più adeguati. Le parole "scrittore da un soldo al rigo", "mendicante", "sguattero" e "assassino" erano epiteti così volutamente inespressivi ed equivoci da esser meno che nulla, applicati all'autore delle peggiori strofe che mai abbia scritto un essere umano. Sappiamo tutti che cosa significhi "condannare con finte lodi" e, d'altra parte, chi non vedeva la segreta intenzione del "Ragno", quella di glorificare con deboli riserve?

    Comunque, quello che il "Ragno" aveva creduto bene di dire della "Mosca" non mi riguardava. Quel che diceva ESISTEVA. Dopo la nobile maniera con la quale la "Civetta", la "Rana", e la "Talpa" si erano espresse in merito al mio talento, era un po' forte che un qualunque "Ragno" parlasse freddamente e semplicemente di un "gentiluomo di alto ingegno e un erudito". Un gentiluomo!? Risolsi all'istante o di ottenere una ritrattazione scritta dal "Ragno" o di dargli querela.

    Pieno di queste intenzioni, mi guardai intorno per trovare un amico al quale potessi affidare un messaggio per il "Ragno" e, poiché il direttore del "Tic Tac" mi aveva dato molti segni di considerazione, conclusi alla fine di rivolgermi al suo aiuto in questa emergenza.

    Non sono mai stato capace di rendermi conto, in modo soddisfacente per la mia comprensione, del curiosissimo atteggiamento col quale il signor Granchi mi dette ascolto, mentre gli esponevo il mio progetto. Egli ripeté la scena del cordone del campanello e del bastone, e non omise il papero. A un certo punto pensai che egli realmente volesse gracidare. Il suo accesso, non di meno, si calmò alla fine come la prima volta, ed egli cominciò ad agire e a parlare in un modo ragionevole. Non accettò di portare la sfida, peraltro, e anzi mi dissuase dal mandarla; ma fu abbastanza onesto da ammettere che il "Ragno" era vergognosamente nel torto, specialmente per quanto si riferiva agli epiteti "gentiluomo ed erudito".

    Verso la fine di questa intervista col signor Granchi, il quale sembrava prendere veramente un paterno interesse al mio benessere, egli mi suggerì che avrei potuto guadagnarmi onestamente la vita e, nello stesso tempo, aumentare la mia fama, facendo occasionalmente la parte di Thomas Hawk per il "Tic Tac".

    Pregai il signor Granchi di informarmi chi fosse il signor Thomas Hawk, e come avrei dovuto fare la sua parte.

    Qui il signor Granchi di nuovo "fece tanto d'occhi" (come si dice in Germania), ma alla fine, riprendendosi da un profondo attacco di sbalordimento, mi assicurò di aver usato le parole "Thomas Hawk" per evitare il troppo familiare Tom, che era volgare, ma che la vera espressione era Tom Hawk, o tomahawk, e che con "fare tomahawk", egli intendeva lo scotennare, il tenere a posto, e comunque il logorare la mandria dei poveri diavoli di autori.

    Assicurai il mio principale che, se la cosa stava tutta lì, io ero perfettamente disposto ad assumere la parte di Thomas Hawk. Alla qual dichiarazione, il signor direttore desiderò che io sistemassi sùbito il direttore del "Tafàno", nel più acerbo stile consentito dalle mie capacità, per un saggio delle mie forze. Il che io feci senz'altro, in una critica del primo "Olio di Bob", che occupò trentasei pagine del "Tic Tac". Trovai che far la parte di Thomas Hawk era davvero un'occupazione molto più riposante che non lo scrivere poesie; perché adottai senz'altro un SISTEMA, e così mi fu facile far le cose a fondo, e bene.

    Il mio metodo fu questo. Comprai all'asta (a buon mercato) delle copie dei DISCORSI di Lord Brougham, le OPERE COMPLETE di Cobbett, il SILLABO DEL NUOVO DIALETTO, l'ARTE COMPLETA DI TAGLIAR LE PAROLE IN BOCCA, il LINGUAGGIO DA PESCIVENDOLA di Prentice (edizione IN-FOLIO), e il trattato di Lewis G. Clarke sulla lingua. Queste opere io le trinciai interamente con una striglia, e quindi, gettando i ritagli in un crivello, vagliai accuratamente quel che potesse ancora esser ritenuto decente (un'inezia); mettendo in serbo le frasi forti, che gettai in una grande pepaiola di latta munita di fori longitudinali, in modo che un intero giudizio potesse passarvi senza sciuparsi. La miscela era quindi pronta per l'uso. Quando ero chiamato a fare Thomas Hawk, ungevo un foglio di carta sostenuta col bianco di un uovo di papero; poi, ritagliando la cosa da criticare come avevo prima tagliuzzato i libri, solo con maggior cura, in modo da separare ogni parola, gettavo gli ultimi ritagli con i primi, avvitavo il coperchio del recipiente, davo uno scrollone, e stendevo poi la misura sul foglio unto d'uovo, dove essa si appiccicava. L'effetto era bello a contemplarsi.

    Era affascinante. E, in verità, le critiche che io feci passare con questo semplice espediente non sono mai state raggiunte, e riuscirono una meraviglia. A tutta prima, data la mia timidezza, risultato di inesperienza, fui alquanto colpito da una qual certa inconsistenza, una certa aria di bizarre (come si dice in Francia), propria a tutto l'insieme della composizione. Non tutte le frasi calzavano (come si dice in anglosassone). Molte erano proprio storte. Alcune, perfino, erano capovolte; e non ce n'era nessuna che non fosse, poco o tanto, danneggiata da questa sorta di incidenti, eccezione fatta dei paragrafi del signor Lewis Clarke, i quali erano così vigorosi e robusti, che non sembravano per nulla sconcertati in qualunque posizione si trovassero, e parevano anzi ugualmente felici e soddisfatti, sia che stessero a testa o a gambe all'aria.

    Che cosa avvenisse del direttore del "Tafàno", dopo la pubblicazione della mia critica sul suo "Olio di Bob", è un po' difficile da appurare. La conclusione più ragionevole è che abbia pianto su se stesso fino alla morte. Ad ogni modo egli scomparve istantaneamente dalla faccia della Terra, e da allora nessuno ha visto più neppure il suo fantasma.

    Terminata accuratamente questa faccenda, e calmate le Furie, salii subito in gran favore presso il signor Granchi. Egli mi prese come suo confidente, mi diede un posto permanente come Thomas Hawk al "Tic Tac" e, non potendo per il momento assegnarmi alcun emolumento, mi permise di approfittare a volontà dei suoi consigli.

    - Mio caro Thingum, - mi disse un giorno dopo pranzo - io apprezzo il vostro talento e vi amo come un figlio. Sarete mio erede.

    Quando morirò, vi lascerò il "Tic Tac". Nel frattempo farò di voi un uomo - lo farò - sempre che seguiate i miei consigli. La prima cosa da fare è liberarsi del vecchio sgherro.

    - Verro? - dissi, cercando di capire - porco, eh? - APER (come si dice in latino) - chi? - quando?

    - Vostro padre - disse lui.

    - Precisamente, - replicai - un porco.

    - Voi dovete far la vostra strada, Thingum, - concluse il signor Granchi - e quel vostro precettore è un macigno che avete al collo. Dobbiamo tagliarlo via subito. - (io tirai fuori il mio coltello) - Dobbiamo tagliarlo fuori, - proseguì il signor Granchi - decisamente e per sempre.

    Non può servirci, non può. Ripensandoci, sarebbe bene che lo prendeste a calci, o a bastonate, o qualcosa di simile.

    - Che cosa ne direste, - proposi con modestia - se lo prendessi a calci per cominciare, quindi a legnate, e per concludere gli tirassi il naso?

    Il signor Granchi mi guardò per qualche momento, e poi rispose:

    - Io credo, signor Bob, che quello che proponete potrebbe andare abbastanza bene - anzi, molto bene - per quanto riguarda i risultati; ma i barbieri sono straordinariamente duri da sopprimere e io penso, tutto sommato, che, dopo aver compiuto su Tommaso Bob l'operazione che suggerite, sarebbe bene che gli faceste gli occhi neri, a suon di pugni, con molta cura e compiutamente, per impedire che egli vi veda più al passeggio.

    Fatto questo, non mi sembra davvero che possiate fare di più.

    Comunque, potrebbe andare altrettanto bene rotolarlo una volta o due nel borro, e quindi dare la colpa alla Pubblica Sicurezza.

    Quando che sia, la mattina dopo potete recarvi al corpo di guardia, e giurare su un'aggressione.

    Fui molto sensibile alla delicatezza di sentimenti verso la mia persona che era manifesta in questo eccellente consiglio del signor Granchi, e non mancai di approfittarne subito. Il risultato fu che mi liberai del vecchio sgherro, e cominciai a sentirmi un po' indipendente e compìto. La mancanza di quattrini, peraltro, mi causò per qualche settimana un certo disagio; ma alla fine, adoperando con cura i miei occhi, e osservando come si svolgevano le cose proprio sotto il mio naso, capii come si doveva venire a capo della cosa. Dico "della COSA" - si noti - perché mi si dice che l'espressione latina corrispondente è REM. A proposito, parlando di latino, può qualcuno spiegarmi il significato di QUOMCUMQUE o quello di MODO?

    Il mio piano era semplicissimo. Comprai, per un pezzo di pane, un sedicesimo della "Testuggine Rampante"; nient'altro. A cosa FATTA, intascai i denari. Ci fu poi qualche piccolezza da aggiustare, s'intende; ma non faceva parte del piano. Erano una conseguenza, un risultato. Quindi comprai penna, inchiostro e carta, e li misi in attività furibonda. Avendo così messo insieme un articolo di rivista, lo intitolai "'Detto fatto ', dell'autore dell''Olio di Bob '", e lo spedii alla "Penna d'Oca". Però, avendolo essa giudicato "una chiacchierata" nelle "Risposte mensili ai corrispondenti", io reintitolai l'articolo "'Oh, guarda guarda! ' del Cavaliere Thingum Bob, autore dell'ode sull''Olio di Bob ' e editore della 'Testuggine Rampante '". Con questo emendamento, lo rispedii alla "Penna d'Oca" e, mentre aspettavo risposta, pubblicai tutti i giorni, sulla "Testuggine", sei colonne di quello che si potrebbe chiamare un esame filosofico ed analitico dei pregi letterari della "Penna d'Oca", ed altresì della persona stessa del direttore della "Penna d'Oca". Alla fine della settimana, la "Penna d'Oca" scoprì di aver confuso, per uno strano errore, "uno stupido articolo, intitolato 'Oh, guarda, guarda! '" composto da qualche ignorante sconosciuto, con una splendidissima gemma intitolata allo stesso modo, lavoro del Cavaliere Thingum Bob, il celebre autore dell'"Olio di Bob". La "Penna d'Oca" "rammaricava profondamente la svista materiale" e prometteva, altresì, la pubblicazione del VERO "Oh, guarda, guarda!" nel numero immediatamente successivo della rivista.

    Il fatto è che io PENSAI - REALMENTE pensai - lo pensai in quel tempo - ALLORA - e non ho motivo per pensare diversamente ADESSO - che la "Penna d'Oca" COMMISE un errore. Non ho mai conosciuto altri che facessero, con le migliori intenzioni al mondo, tanti singolari errori come la "Penna d'Oca".

    Da quel giorno io mi affezionai alla "Penna d'Oca", e il risultato fu che io scorsi nel modo più profondo i suoi pregi letterari, e non mancai di diffondermi a loro riguardo, nella "Testuggine", ogni qual volta si presentasse l'occasione adatta. E bisogna considerare come una curiosissima coincidenza, come una di quelle coincidenze veramente notevoli che inducono a serie riflessioni, il fatto che proprio una rivoluzione così completa di giudizi, proprio un così totale BOULEVERSEMENT (come si dice in Francia), proprio un così integrale SOTTOSOPRAMENTO (se è lecito usare un termine ottentotto abbastanza calzante) quale avvenne, PRO e CONTRO, fra me da una parte e la "Penna d'Oca " dall'altra, si verificò poi di nuovo, in un breve periodo di tempo, e in circostanze del tutto uguali, fra me e il "Tamburo Battente", e fra me e lo "Scartafaccio".

    Così avvenne che, con un colpo di genio, alla fine conclusi i miei trionfi intascando denari e così può dirsi veramente e sinceramente che io abbia cominciato quella carriera brillante e piena di eventi che mi rese illustre, e che mi autorizza oggi a dire, con Chateaubriand, "J'AI FAIT L'HISTOIRE".

    In verità, ho "fatto la storia". Dall'epoca brillante che ho ricordato, le mie azioni, i miei lavori, appartengono all'umanità; sono familiari al mondo intero. E' quindi inutile che io descriva come, innalzandomi rapidamente, ereditassi il "Tic Tac"; come fondessi questo giornale col "Tamburo Battente"; come ancora acquistassi lo "Scartafaccio", mettendo così insieme i tre periodici. Come, infine, io stabilissi un accordo col solo rivale rimasto, e unissi tutta la letteratura della regione in una sola magnifica rivista, conosciuta ovunque sotto il nome di "Tamburo Battente, Scartafaccio, Tic Tac e Penna d'Oca".

    Sì, ho fatto la storia. La mia fama è universale. Essa spazia fino agli estremi confini del globo. Non potete prendere in mano un giornale qualsiasi senza leggervi qualche riferimento all'immortale Thingum Bob. Si dice: il signor Thingum Bob ha detto questo, e il signor Thingum Bob ha fatto quest'altro. Ma io sono umile, e morirò con umile cuore. Dopo tutto, che cos'è questo indescrivibile qualcosa che gli uomini persistono a voler chiamare "genio"? Io sono d'accordo con Buffon e con Hogarth; non è altro che DILIGENZA, dopo tutto.

    Guardatemi! Come faticai, come penai, come scrissi! Per gli dei, ho scritto, sì o no? Non ho conosciuto la parola "riposo". Di giorno ero attaccato al mio tavolo, e di notte, come un pallido studente, consumavo l'olio di mezzanotte. Avreste dovuto vedermi, avreste dovuto! Inclinai a destra. Inclinai a sinistra. Andai avanti. Andai indietro. Andai all'oggetto. Andai tete baissee (come si dice tra i selvaggi), curvando il capo sulla pagina alabastrina. E, senza posa, scrissi. Nella gioia e nel dolore, scrissi. Nella fame e nella sete, scrissi. Con le buone notizie e con quelle cattive, scrissi. Alla luce del sole e al chiaro di luna, scrissi. CHE COSA scrissi non importa. Lo STILE! questo era l'essenziale.

    Lo presi da Chiacchieroni - zzz! frr! - e ve ne ho dato or ora un esempio.

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