Honoré de Balzac

 

EUGENIA GRANDET

 

 

 

A Maria Che il Vostro nome, o Voi il cui ritratto è il più bell'ornamento di quest'opera, sia qui come un ramoscello di bosso benedetto, còlto da non si sa quale albero, ma certo santificato dalla religione e rinnovellato, sempre verde, da mani pie, a protezione della casa!

De Balzac

 

In alcune città di provincia ci sono case la cui vista ispira una malinconia pari a quella che risvegliano i chiostri più tetri, le lande più fosche o le rovine più tristi. Forse in quelle case si trovano insieme e il silenzio del chiostro, e l'aridità delle lande e la scheletricità delle rovine. La vita e il movimento vi si svolgono così tranquilli, che un forestiero le crederebbe disabitate se a un tratto non incontrasse lo sguardo smorto e freddo d'una persona immobile, il cui volto quasi monastico sporge dal davanzale della finestra al rumore d'un passo sconosciuto.

Questi fattori di malinconia esistono nell'aspetto di una casa di Saumur situata in fondo alla ripida via che conduce al castello, per la parte alta della città. La via, oggi poco frequentata, calda d'estate, fredda d'inverno, oscura in qualche punto, è caratteristica per la sonorità del selciato a ciottoli, sempre pulito e asciutto, per la strettezza e la tortuosità, per la pace delle sue case che appartengono alla città vecchia, dominata da bastioni. Abitazioni tre volte secolari vi sorgono ancora solide, benché costruite in legno, e i loro vari aspetti concorrono all'originalità che richiama questa parte di Saumur all'attenzione degli antiquari e degli artisti. E' difficile passare davanti a queste case senza ammirare le enormi assi, i cui estremi intagliati presentano figure bizzarre e coronano con un basso rilievo nero il pianterreno della maggior parte di esse. Qui, tavole trasversali sono coperte d'ardesia e disegnano linee blu sulle fragili mura d'una casa che termina con un tetto costruito in legno e mattoni, curvato dagli anni, e le cui assi corrose sono state contorte dall'azione alterna della pioggia e del sole. Là, appaiono davanzali di finestra consunti e anneriti, le cui delicate sculture si scorgono appena, e che sembrano troppo leggeri per il vaso d'argilla bruna dal quale si slanciano i garofani o il rosaio di una povera operaia. Più lontano, ci sono porte ornate da enormi chiodi coi quali la fantasia dei nostri antenati ha tracciato geroglifici domestici il cui significato resterà per sempre oscuro. Talora un protestante vi ha testimoniato la sua fede, talora un fautore della Lega ci ha maledetto Enrico Quarto. Qualche borghese vi ha impresso lo stemma della propria "nobiltà di campane", la dimenticata gloria del proprio scabinato. La storia di Francia è lì tutta intera. A fianco della tremolante casa dalle mura rustiche, dove l'artigliano ha deificato la sua pialla, si eleva il palazzo d'un gentiluomo dove, sulla porta in pietra a tutto sesto, è ancora visibile qualche traccia del suo stemma, infranto dalle varie rivoluzioni che dal 1789 sconvolsero il paese. In questa strada i locali a pianterreno dei commercianti non sono né negozi né magazzini e gli amatori di cose medievali ci troverebbero la "bottega" dei nostri padri in tutta la loro ingenua semplicità.

Questi vani dal soffitto basso, che non hanno né mostre, né insegna, né vetrina, sono profondi, oscuri e senza ornamenti esterni o interni. La loro porta è aperta a due battenti, grossolanamente ferrati, dei quali la parte superiore si ripiega dall'interno e l'inferiore, munita di un campanello a molla, è in continuo movimento. L'aria e la luce penetrano in questa specie di antro umido o dall'alto della porta, o attraverso lo spazio compreso tra la volta, il solaio e il muretto ad altezza di davanzale in cui s'incastrano solide imposte, tolte la mattina e rimesse la sera con sbarre di ferro bullonato. Questo muro serve a esporre le mercanzie del negoziante. E non c'è ciarlataneria.

Secondo la natura del commercio, i campioni consistono in due o tre mastelli colmi di sale e di stoccafisso in qualche rotolo di tela da vele, in cordami, ottoname appeso ai travicelli del solaio, in cerchi appoggiati ai muri, o in qualche pezza di stoffa su palchetti. Entrate. Una ragazza linda, fiorente di giovinezza, dal bianco scialletto, dalle braccia rosse, lascia il suo lavoro a maglia, chiama il padre o la madre, che viene e vi vende, a vostro piacere, flemmaticamente, gentilmente, arrogantemente, secondo il suo carattere, sia per due soldi, sia per ventimila franchi di merce. Vedrete un commerciante di legname, seduto alla porta, che gira i pollici discorrendo con un vicino; egli non possiede, all'apparenza, che tavolacce per sostenere bottiglie o due o tre mucchi di panconcelli, ma al porto il suo magazzino ricolmo fornisce tutti i bottai dell'Angiò; sa all'incirca, quante botti egli "può", se il raccolto è buono; un raggio di sole lo arricchisce, una giornata di pioggia lo manda in rovina: in una sola mattina il prezzo dei fusti può salire a undici franchi o scendere a sei lire.

In questo paese, come in Turenna, le variazioni atmosferiche dominano la vita commerciale. Vignaioli, proprietari, mercanti di legname, bottai, albergatori, battellieri, sono tutti alla posta d'un raggio di sole; trepidano, coricandosi la sera, di sapere l'indomani mattina che durante la notte ha gelato; temono la pioggia, il vento, la siccità, e vogliono l'acqua, il caldo, le nuvole, come a loro fa più comodo. C'è una lotta perpetua tra il cielo e gli interessi della terra. Il barometro rattrista, rasserena, rallegra, a seconda dei casi, le fisionomie. Da un capo all'altro di questa via, l'antico Corso di Saumur, le parole:

"Ecco un tempo d'oro!" si tramutano in cifre di porta in porta.

Così, ognuno risponde al vicino: "Piovono Luigi!", sapendo quanti di questi un raggio di sole, una pioggia opportuna gliene fa guadagnare. Il sabato, verso mezzogiorno, nella buona stagione, non riuscirete a comprare per un soldo di merce da questi bravi industriali. Ognuno ha la sua vigna, il suo piccolo podere, e va a passare due giorni in campagna. Là, essendo tutto previsto, la compera, la vendita, il guadagno, i commercianti hanno dieci ore su dodici da impiegare in allegre missioni, osservazioni, commenti, e in continue indiscrezioni. Una massaia non compra una pernice senza che i vicini non chiedano poi al marito se era stata cotta a punto. Una ragazza non può affacciarsi alla finestra senza essere vista da tutti i crocchi di sfaccendati. Là, dunque, le coscienze, non hanno segreti, come non hanno misteri quelle impenetrabili case nere e silenziose. La vita si svolge quasi sempre all'aperto: ogni famiglia siede alla porta della propria casa, ci fa colazione, ci pranza e ci bisticcia. Per la via non passa una persona che non venga studiata. Del resto, anche in passato, quando un forestiero arrivava in una città di provincia, era messo in ridicolo di porta in porta. Da lì le varie storielle, da lì il nomignolo di "copiosi" dato agli abitanti di Angers che eccellevano in queste burle urbane. Gli antichi palazzi della vecchia città sono situati in cima a questa via, un tempo abitata da maggiorenti del luogo. La casa, piena di malinconia, in cui si sono svolti gli avvenimenti di questa storia, era precisamente una di tali abitazioni, resti venerabili di un secolo nel quale le case e gli uomini avevano quel carattere di semplicità che i costumi francesi vanno perdendo di giorno in giorno. Dopo aver seguito le svolte di questa pittoresca via, i cui minimi particolari risvegliano memorie e l'impressione generale tende a immergervi in una specie di fantasticheria macchinale, scorgete una rientranza alquanto cupa, al centro della quale è nascosta la porta della casa del signor Grandet. E' impossibile comprendere il valore di questa espressione provinciale, se non si traccia la biografia del signor Grandet.

Il signor Grandet godeva a Saumur di una reputazione le cui cause e i cui effetti non saranno interamente compresi da quelli che non hanno, né punto né poco, vissuto in provincia. Il signor Grandet, chiamato ancora da alcuni: papà Grandet - ma il numero di questi vecchi diminuiva sensibilmente - era nel 1789 un mastro bottaio molto agiato, che sapeva leggere, scrivere e far di conto. Quando la repubblica francese mise in vendita, nel circondario di Saumur, i beni del clero, il bottaio, allora quarantenne, aveva da poco sposato la figlia di un ricco mercante di legnami. Grandet si recò, munito del suo patrimonio liquido e della dote della moglie, munito di duemila luigi d'oro, al distretto dove, mediante duecento doppi luigi offerti dal suocero all'integerrimo repubblicano che sovraintendeva alla vendita dei beni nazionali, ebbe per un boccone di pane, legalmente, se non legittimamente, i più bei vigneti del Circondario, una vecchia abbazia e qualche fattoria. Gli abitanti di Saumur erano poco rivoluzionari, e papà Grandet passò per un uomo ardito, un repubblicano, un patriota, per uno spirito aperto alle nuove idee, mentre il bottaio, da parte sua, non si occupava invece che delle sue vigne. Fu nominato membro dell'Amministrazione del distretto di Saumur, e il suo influsso pacifico si fece sentire politicamente, e commercialmente. Politicamente, protesse i nobili e impedì con tutte le sue forze la vendita dei beni degli emigrati; commercialmente, fornì alle armate repubblicane uno o due migliaia di fusti di vino bianco, e si fece pagare con superbe praterie appartenenti a una Comunità religiosa femminile, riservate come ultimo lotto. Sotto il Consolato, il brav'uomo Grandet diventò sindaco, amministrò saggiamente, vendemmiò meglio ancora; sotto l'Impero, egli fu il signor Grandet. Napoleone non vedeva di buon occhio i repubblicani: fece sostituire il signor Grandet, che passava per uno di quelli che avevano calzato il berretto rosso, con un grande proprietario, un uomo con quarti di nobiltà, un futuro barone dell'Impero. Il signor Grandet lasciò gli onori municipali senza alcun rimpianto. Aveva fatto fare, nell'interesse della città, eccellenti strade che conducevano alle sue proprietà.

Per la casa e per i suoi beni, registrati in catasto con molta avvedutezza, pagava imposte moderate. Dopo la classificazione dei suoi diversi poderi, le vigne, grazie a costanti cure, erano diventate la "testa del paese", espressione tecnica in uso per indicare i vigneti che producono la miglior qualità di vini.

Avrebbe potuto chiedere la croce della Legion d'onore. E l'evento ebbe luogo nel 1806. Il signor Grandet aveva allora cinquantasette anni e sua moglie trentasei circa. La loro figlia unica, frutto dei loro legittimi amori, aveva dieci anni. Il signor Grandet, che la Provvidenza volle senza dubbio consolare dell'infortunio amministrativo, ereditò successivamente in quell'anno dalla signora de la Gaudinière, nata de La Bertellière, madre della signora Grandet; poi, dal vecchio signor La Bertellière, padre della defunta; e ancora, dalla signora Gentillet, sua ava materna:

tre successioni, la cui importanza nessuno conobbe. L'avarizia di quei tre vecchi era così appassionata, che da parecchio tempo essi accumulavano denaro per poterlo contemplare in segreto. Il vecchio signor La Bertellière definiva una prodigalità l'impiego di esso, trovando più alti interessi alla vista dell'oro che non nei benefici dell'usura. La città di Saumur stimò dunque il valore delle ricchezze dei tre vecchi dalle rendite dei loro beni al sole. Il signor Grandet ottenne allora il nuovo titolo di nobiltà che la nostra mania d'eguaglianza non abolirà mai: divenne il maggior contribuente del circondario. Coltivava cento jugeri di vigna che, nelle annate abbondanti, gli rendevano da sette a ottocento botti di vino. Possedeva tredici fattorie, una vecchia abbazia dove, per economia, aveva fatto murare finestre, ogive, vetrate, e così riuscì a conservarle; e centoventisette jugeri di prato in cui crescevano e prosperavano tremila pioppi piantati nel 1793. Infine, la casa in cui abitava era di sua proprietà.

In ciò si reputava consistere la sua fortuna visibile. Quanto ai capitali, due sole persone potevano vagamente presumerne l'importanza: una era il signor Cruchot, notaio, incaricato di trattare gli investimenti usurai del signor Grandet; l'altra era il signor de Grassins, il più ricco banchiere di Saumur, agli affari del quale il vignaiolo, con profitto e in segreto, partecipava. Benché il vecchio Cruchot e il signor de Grassins possedessero quella profonda discrezione che genera in provincia la confidenza e la fortuna, essi tributavano pubblicamente al signor Grandet un così gran rispetto, che gli osservatori potevano misurare l'importanza dei capitali dell'antico sindaco in base alle deferenti considerazioni di cui era oggetto. Non c'era nessuno in Saumur, che non fosse persuaso che il signor Grandet possedesse un tesoro privato, un nascondiglio pieno di luigi, e che nottetempo si concedesse l'ineffabile godimento che procura la vista di una grande massa d'oro. Gli avari ne avevano una specie di certezza osservando gli occhi del brav'uomo, ai quali il metallo giallo sembrava aver conferito il proprio colore. Lo sguardo di un uomo abituato a trarre dai propri capitali un altissimo interesse assume necessariamente, come quello del lussurioso, del giocatore o del cortigiano, certe abitudini indefinibili, alcuni movimenti furtivi, avidi, misteriosi, che non sfuggono ai suoi correligionari. Un tale linguaggio segreto forma, in certo qual modo, la frammassoneria delle passioni. Il signor Grandet ispirava dunque la stima rispettosa cui aveva diritto un uomo che non doveva mai niente a nessuno; che, vecchio bottaio e vecchio vignaiolo, indovinava con la precisione di un astronomo quando occorreva fabbricare per il suo raccolto mille fusti e quando solo cinquecento; che non si lasciava mai sfuggire un buon affare, aveva sempre botti da vendere quando la botte valeva più del prodotto da contenere, poteva custodire il raccolto della vendemmia nelle sue cantine, e aspettare il momento di vendere uno dei suoi fusti di vino a duecento franchi quando i piccoli proprietari cedevano uno dei loro a cinque luigi. Il suo famoso raccolto del 1811, saggiamente conservato, lentamente venduto, gli aveva fruttato più di duecentoquarantamila lire. Finanziariamente parlando il signor Grandet aveva della tigre e del boa: sapeva acquattarsi, rannicchiarsi, adocchiare a lungo la preda, saltarle addosso: poi, apriva le fauci della sua borsa, vi inghiottiva un mucchio di scudi, e poi si coricava tranquillamente come il serpente che digerisce: impassibile, freddo, metodico.

Nessuno lo vedeva passare senza provare un sentimento di ammirazione, misto di rispetto e di terrore. Chi, in Saumur, non aveva provato lo strazio garbato dei suoi artigli d'acciaio? A questi, padron Cruchot aveva procurato il denaro necessario per l'acquisto di una tenuta, ma all'undici per cento; a quello, il signor de Grassins aveva scontato alcune tratte, ma con un pauroso carico d'interessi. Erano pochi i giorni in cui il nome del signor Grandet non fosse pronunciato, sia al mercato, sia nelle serali conversazioni in città. Per certuni, la fortuna del vecchio vignaiolo era l'oggetto d'un patriottico orgoglio. Così, più di un negoziante, più di un albergatore diceva al forestiero, con una certa soddisfazione: "Signore, noi abbiamo qui due o tre famiglie milionarie; ma, quanto al signor Grandet, lui stesso non sa a quanto ammonti la sua fortuna!". Nel 1816 i più abili calcolatori di Saumur stimavano i beni immobili del brav'uomo circa quaranta milioni; ma, poiché, come cifra media, egli aveva dovuto ritrarre ogni anno, dal 1793 al 1817, centomila franchi dalle sue proprietà, era presumibile che possedesse liquida una somma press'a poco uguale a quella del valore degli immobili. Così, quando, dopo una partita a "boston" o dopo qualche discorso sulle vigne, si veniva a parlare del signor Grandet, gli intenditori dicevano: "Papà Grandet?.. ma papà Grandet deve avere da cinque a sei milioni". "Siete più abile di me, io non ho mai potuto sapere l'intero ammontare del suo capitale" rispondevano il signor Cruchot o il signor de Grassins, se ascoltavano la conversazione.

Se qualche parigino parlava dei Rothschild o del signor Lafitte, quelli di Saumur chiedevano se costoro fossero ricchi quanto il signor Grandet. Se il parigino buttava lì, sorridendo, una sdegnosa affermazione, si guardavano tra loro scuotendo la testa con un'aria incredula. Una così grande ricchezza copriva d'un manto d'oro tutte le azioni di quest'uomo. Se in principio qualche particolare della sua vita aveva dato luogo al ridicolo e allo scherno, lo scherno e il ridicolo si erano poi logorati. In ogni minimo suo atto, il signor Grandet aveva dalla parte sua l'autorità della cosa giudicata. La sua parola, il suo abito, i suoi gesti, la strizzata dei suoi occhi, facevano legge nel paese dove ognuno, dopo averlo studiato come un naturalista studia gli effetti dell'istinto negli animali, aveva potuto riconoscere la profonda e muta saggezza dei suoi più trascurabili atti.

"L'inverno sarà duro" si diceva, "papà Grandet ha messo i guanti foderati: bisogna vendemmiare". "Papà Grandet prende molto legname, quest'anno avremo molto vino ". Il signor Grandet non comprava mai né carne né pane. I suoi fittavoli gli portavano ogni settimana una provvista sufficiente di capponi, polli, uova, burro e grano: le corrisposte della mezzadria. Possedeva un mulino, il cui locatario doveva, oltre che pagargli l'affitto, ritirare da lui una certa quantità di grano e riportaglielo in crusca e farina. La grande Nanon, sua unica domestica, anche se non più giovane, faceva ogni sabato il pane per la casa. Il signor Grandet aveva pattuito che gli ortolani, suoi affittuari, gli fornissero i legumi. Quanto alla frutta, ne raccoglieva tante da farne vendere una grande quantità al mercato. La legna da ardere era tagliata dalle sue siepi, o presa dalle vecchie staccionate mezzo marcite che innalzava al confine dei suoi campi; e i fittavoli gliela trasportavano in città, già bella e segata, gliela disponevano a titolo di favore nella legnaia e ne ricevevano i suoi ringraziamenti. Le sole sue spese conosciute erano quelle per il pane benedetto, i vestiti della moglie e della figlia, il noleggio delle loro sedie in chiesa, la luce, il salario della grande Nanon, la stagnatura delle casseruole, il saldo delle imposte, la manutenzione degli stabili e, infine, le spese per le coltivazioni. Aveva seicento jugeri di bosco, acquistati da poco, che faceva sorvegliare dal guardiano di un confinante, al quale aveva promesso un compenso. Soltanto dopo quell'acquisto aveva cominciato a mangiare cacciagione. I modi di quest'uomo erano molto semplici. Parlava poco. Generalmente, esprimeva le sue idee con piccole frasi sentenziose, pronunciate con voce dolce. Dopo la Rivoluzione, epoca nella quale attirò l'attenzione, il brav'uomo balbettava in maniera penosa non appena doveva parlare a lungo o sostenere una discussione. Questo balbettio, l'incoerenza del discorso, il profluvio di parole in cui faceva annegare il suo pensiero, l'apparente mancanza di logica, attribuiti a un difetto di educazione, erano simulati, e saranno sufficientemente spiegati da qualche evento di questa storia. Del resto, quattro frasi, esatte come formule algebriche, gli bastavano abitualmente per contenere, per risolvere tutte le difficoltà della vita e del commercio: "Non so. Non posso. Non voglio. Vedremo". Non diceva mai né sì né no, e non metteva mai penna in carta. Quando gli si rivolgeva la parola, ascoltava freddamente, si prendeva il mento nella mano destra, appoggiando il gomito destro sul dorso della mano sinistra, e si formava in ogni affare delle opinioni da cui non recedeva mai.

Meditava a lungo sui più modesti affari. Se, dopo un'abile conversazione, il suo avversario gli aveva svelato il segreto delle proprie pretese ritenendo di aver vinto la partita, egli rispondeva: "Non posso decidere se non ho prima sentito il parere di mia moglie". Sua moglie, da lui ridotta a un ilotismo completo, era negli affari il suo paravento più comodo. Egli non andava mai da nessuno, non voleva né ricevere, né invitare a pranzo; non faceva mai rumore, e sembrava economizzare tutto, anche i movimenti. Non toccava mai nulla in casa d'altri, per un costante rispetto della proprietà. Tuttavia, malgrado la dolcezza della voce e il modo circospetto, il linguaggio e le abitudini del bottaio trasparivano soprattutto in casa sua, dove si controllava meno che altrove. Quanto al fisico, Grandet era alto cinque piedi, tarchiato, quadrato, con dei polpacci di dodici pollici di circonferenza, rotule nodose e larghe spalle; il suo viso era rotondo, abbronzato, segnato dal vaiolo; il mento diritto, le labbra senza sinuosità, i denti bianchi; i suoi occhi avevano l'espressione calma e divoratrice che il popolo attribuisce al basilisco; la fronte, solcata da rughe trasversali, presentava protuberanze significative; i suoi capelli, giallastri e brizzolati, erano "d'argento e d'oro", come dicevano alcuni giovanotti che ignoravano il rischio di scherzare sul conto del signor Grandet. Il naso, grosso in punta, sosteneva una verruca venata, che il volgo, non senza ragione, diceva essere piena di malizia. Tale aspetto denunciava un'astuzia pericolosa, una probità senza convinzione, l'egoismo di un uomo abituato a concentrare i propri sentimenti nel piacere dell'avarizia e sul solo essere che rappresentava realmente qualcosa per lui: sua figlia Eugenia, la sola sua erede. Atteggiamenti, modi, andatura, tutto in lui, per altro, attestava quella sicurezza di sé che proviene dall'abitudine d'essere sempre riusciti nelle proprie imprese. Così, anche se all'apparenza di maniere facili e arrendevoli, il signor Grandet aveva un carattere di bronzo.

Sempre vestito allo stesso modo, chi lo vedeva oggi lo vedeva tale e quale egli era dal 1791. Le sue robuste scarpe erano annodate da lacci di cuoio; portava a ogni stagione calze di lana, pantaloni corti di grosso panno marrone con fibbie d'argento, un panciotto di velluto a righe alternate di color giallo e marrone, abbottonatissimo, un soprabito marrone a larghe falde, una cravatta nera e un cappello da quacquero. I suoi guanti, solidi come quelli dei gendarmi, gli duravano venti mesi e, per conservarli puliti, li posava sul bordo del cappello, sempre allo stesso posto, con un gesto metodico. Saumur non sapeva nulla di più su tale personaggio. Sei abitanti solamente avevano il diritto d'entrare in casa sua. Il più importante dei primi tre era il nipote del signor Cruchot. Dopo la sua nomina a presidente del tribunale di prima istanza di Saumur, il giovanotto aveva aggiunto al suo nome di Cruchot quello di Bonfons, e si sforzava a far prevalere Bonfons su Cruchot. Firmava già: C. di Bonfons. La parte in causa piuttosto malaccorta nel chiamarlo "Signor Cruchot" s'accorgeva ben presto, in udienza, della sciocchezza commessa. Il magistrato proteggeva quelli che lo chiamavano " signor presidente", ma favoriva coi suoi più graziosi sorrisi gli adulatori che gli dicevano " signor di Bonfons". Il presidente aveva trentatré anni, possedeva la tenuta di Bonfons ("Boni fontis"), che valeva settemila lire di rendita; attendeva l'eredità dello zio notaio e quella dello zio abate Cruchot, dignitario del Capitolo di San Martino di Tours, ambedue ritenuti abbastanza ricchi. Questi tre Cruchot sostenuti da un buon numero di cugini, imparentati con venti famiglie della città, formavano un partito, come un tempo a Firenze i Medici; e, come i Medici, i Cruchot avevano i loro Pazzi. La signora de Grassins, madre d'un figlio di ventitré anni, andava molto assiduamente a far la partita con la signora Grandet, sperando di far sposare al suo caro Adolfo la signorina Eugenia. Il signor de Grassins, il banchiere, favoriva vigorosamente le manovre di sua moglie con costanti servizi resi in segreto al vecchio avaro, e arrivava sempre in tempo sul campo di battaglia. Questi tre de Grassins avevano del pari i loro adepti, i loro cugini, i loro alleati fedeli. Dalla parte dei Cruchot, l'abate, il Talleyrand della famiglia, ben appoggiato dal fratello notaio, contendeva vivamente il terreno alla moglie del finanziere, e cercava di riservare la pingue eredità al nipote presidente. Tale conflitto segreto tra i Cruchot e i de Grassins, la cui posta era la mano di Eugenia Grandet, interessava appassionatamente i diversi ambienti di Saumur. "La signorina Grandet sposerà il Presidente o il signor Adolfo de Grassins?". A tanto problema gli uni rispondevano che il signor Grandet non avrebbe dato sua figlia né all'uno né all'altro. Il vecchio bottaio roso dall'ambizione, cercava - dicevano - come genero qualche pari di Francia, al quale trecentomila lire di rendita avrebbero fatto accettare tutte le botti passate, presenti e future dei Grandet. Gli altri replicavano che il signore e la signora de Grassins erano nobili, ricchissimi, che Adolfo era un gentile cavaliere, e che, a meno di aver disponibile un nipote del papa, un partito così conveniente doveva soddisfare gente venuta su dal nulla, un uomo che tutta Saumur aveva visto con l'ascia in mano e che, per di più, aveva calzato il berretto rosso. I più sensati facevano osservare che il signor Cruchot di Bonfons aveva ingresso libero a tutte le ore in casa Grandet, mentre il suo rivale vi era ricevuto soltanto la domenica. Questi sostenevano che la signora de Grassins, più intima con le donne di casa Grandet che non le Cruchot, poteva inculcare loro certe idee che l'avrebbero fatta riuscire, prima o poi, nel suo intento. Quelli replicavano che l'abate Cruchot era l'uomo più insinuante del mondo, e che, donna contro frate, la partita era eguale. "Sono gomito a gomito" diceva un bello spirito di Saumur. Più edotti, gli anziani del paese affermavano che, essendo i Grandet troppo prudenti per lasciar uscire i loro beni dalla famiglia, la signorina Eugenia Grandet, di Saumur, avrebbe sposato il figlio del signor Grandet, di Parigi, ricco mercante di vini all'ingrosso. A ciò i crusciottiani e i grassinisti rispondevano: "Prima di tutto, i due fratelli non si sono visti due volte da trent'anni a questa parte. E poi, il signor Grandet, di Parigi, ha grandi pretese per suo figlio: è sindaco di un circondario, deputato, colonnello della guardia nazionale, giudice del tribunale di commercio; rinnega i Grandet di Saumur e ambisce di imparentarsi con qualche famiglia che abbia ricevuto il titolo ducale per concessione di Napoleone". E che cos'altro mai non si diceva d'una ereditiera della quale si parlava a venti leghe di distanza, e perfino nelle diligenze, comprese quelle da Angers a Blois? All'inizio del 1818 i crusciottiani conseguirono un notevole successo sui grassinisti. La proprietà di Froidfond, notevole per il suo parco, il suo meraviglioso castello, le sue fattorie, per i canali, gli stagni, i boschi, e che valeva tre milioni, fu messa in vendita dal giovane marchese di Froidfond, costretto a realizzare le sue sostanze. Il notaio Cruchot, il presidente Cruchot, l'abate Cruchot, aiutati dai loro adepti, seppero impedire la vendita a piccoli lotti. Il notaio fece col giovanotto un affare d'oro, persuadendolo che sarebbero sorte infinite questioni giudiziarie con gli aggiudicatari prima di incassare da loro il prezzo dei singoli lotti; meglio vendere a Grandet, persona solvibile, in grado di acquistare la proprietà in contante. Il bel marchesato di Froidfond venne così convogliato verso l'esofago del signor Grandet che, con grande meraviglia di Saumur, lo pagò, sotto sconto, dopo le formalità d'uso. L'affare ebbe un'eco fino a Nantes e a Orléans. Il signor Grandet si recò a vedere il suo castello, approfittando di un carretto che vi faceva ritorno. Dopo aver gettato sulla proprietà lo sguardo del padrone, tornò a Saumur, sicuro di aver impiegato il capitale al cinque per cento e tutto preso dalla magnifica idea di arrotondare il marchesato di Froidfond riunendovi tutti i suoi beni. Poi, per riempire di nuovo il suo scrigno, quasi vuotato, decise di tagliare tutti i boschi, le foreste, e di sfruttare i pioppi delle praterie.

E' ora agevole capire tutto il valore di questa frase: "la casa del signor Grandet", una casa di colore smorto, fredda, silenziosa, situata nella parte alta della città, e protetta dai ruderi dei bastioni. I due pilastri e la volta, che formavano il vano del portone, erano stati costruiti, come la casa, in tufo, pietra bianca caratteristica nella valle della Loira, e così tenera, che la sua durata media è di appena duecento anni. I buchi ineguali e numerosi che le intemperie del clima vi avevano bizzarramente formato davano alla cantina e agli stipiti del vano l'apparenza delle pietre vermicolose proprie della architettura francese, e qualche somiglianza con l'ingresso d'una prigione. Al di sopra della cantina dominava un lungo bassorilievo in pietra dura, scolpita, che rappresentava le quattro Stagioni, dalle figure già logore e annerite. Il bassorilievo era sormontato da un plinto sporgente dal quale sorgevano quelle vegetazioni che sono dovute al caso: parietarie gialle, vilucchi, convolvoli, piantaggine, e un piccolo ciliegio già alquanto alto. La porta di quercia massiccia, bruna, stagionata, fenduta da ogni parte, debole in apparenza, era solidamente tenuta su dal sistema dei suoi bulloni, che formavano disegni simmetrici. Uno spioncino quadrato, piccolo, ma a sbarre fitte e rosse di ruggine, occupava il centro del portoncino e serviva, per così dire, di pretesto a un picchiotto che vi era attaccato con un anello, e che batteva sulla testa grinzosa di un chiodo più grosso. Il picchiotto, di forma oblunga e del genere di quelli che i nostri antenati chiamavano "jaquemart", faceva pensare a un gran punto esclamativo; esaminandolo con attenzione, un antiquario ci avrebbe potuto trovare qualche traccia della figura essenzialmente comica da esso un tempo rappresentata, e che un lungo uso aveva distrutto. Dalla piccola grata, destinata a riconoscere gli amici al tempo delle guerre civili, i curiosi potevano scorgere, in fondo a una volta oscura e verdastra, alcuni gradini logori per i quali si saliva a un giardino, delimitato pittorescamente da mura grosse, umide, rigate da stillicidi e ricoperte da ciuffi di piante gracili. Queste mura erano quelle del bastione, sul quale sorgevano i giardini di alcune case vicine. Al pianterreno della casa, la stanza principale era una "sala", il cui ingresso era situato sotto la volta del portone. Pochi conoscono l'importanza d'una sala nelle cittadine dell'Angiò, della Turenna e del Berry.

La sala è a un tempo anticamera, salotto, studio, salottino e stanza da pranzo, è il teatro della vita domestica, il focolare comune; lì il barbiere del quartiere tagliava due volte all'anno i capelli del signor Grandet; lì entravano i fittavoli, il curato, il sottoprefetto, il garzone del mugnaio. La sala, le cui due finestre davano sulla strada, aveva il pavimento di legno; di legno erano pure i pannelli grigi, dalle antiche modanature, che la rivestivano dall'alto in basso; il soffitto si componeva di finti travi, dipinti egualmente in grigio, mentre gli intervalli erano verniciati d'un bianco ingiallito. Una vecchia pendola di rame arabescato con incrostazioni di tartaruga ornava la cappa del caminetto di pietra bianca, scolpita male, sulla quale c'era uno specchio verdastro i cui bordi, tagliati di sbieco per mostrarne lo spessore, riflettevano una striscia di luce lungo un pannello gotico d'acciaio damaschinato.

I due candelabri di rame dorato che decoravano i due lati del caminetto erano a doppio uso: togliendo le rose che servivano da scodellino, e il cui ramo principale era infisso in un piedistallo di marmo bluastro ornato di vecchio rame, il piedistallo diventava un candeliere per uso di tutti i giorni. Le seggiole, di forma antica, erano ricoperte di una stoffa che raffigurava le favole di La fontaine, ma bisognava saperlo per riconoscerne i soggetti, tanto poco visibili erano i colori sbiaditi e le figure crivellate di rammendi. Ai quattro angoli della sala c'erano quattro cantoniere, sorta di credenze terminanti in sudici scaffali. Un vecchio tavolo da gioco intarsiato, il cui piano serviva da scacchiera, si trovava nello spazio tra le due finestre. Sopra il tavolo stava un barometro ovale, listato in nero, ornato di strisce di legno dorato, dove le mosche avevano tanto licenziosamente folleggiato, da rendere non poco problematica la doratura. Sulla parete opposta al caminetto, due ritratti a pastello avevano il compito di raffigurare l'avo della signora Grandet, il vecchio signor La Bertellière, in uniforme da luogotenente delle guardie francesi, e la defunta signora Gentillet, in costume di pastorella. Alle due finestre erano drappeggiate tende di seta rossa di Tours, sostenute da cordoni di seta con nappe da chiesa. Tale lussuoso arredamento, così poco in armonia con le abitudini di Grandet, era stato compreso nel prezzo d'acquisto della casa, insieme alla specchiera, alla pendola, alla mobilia ricoperta di stoffa e alle cantoniere in legno di rosa.

Vicino alla finestra più vicina alla porta si trovava una sedia di paglia, le cui gambe erano state messe su degli zoccoli, per porre la signora Grandet a un'altezza che le consentisse di vedere i passanti. Un mobile da lavoro in legno di ciliegio stinto riempiva il vano, e la poltroncina di Eugenia Grandet gli stava accanto. Da quindici anni, tutte le giornate della madre e della figlia trascorrevano lì, tranquillamente, in quell'angolo, in un lavoro continuo, a partire dal mese di aprile, fino al mese di novembre.

Il primo di questo mese, potevano trasferire il loro quartiere d'inverno presso il caminetto. Solo da quel giorno, infatti, Grandet permetteva di accendere il fuoco in sala, che faceva spegnere il 31 marzo, senza tener conto né dei primi freddi primaverili, né di quelli autunnali. Uno scaldino, alimentato con la brace ricavata dal fuoco della cucina, che Nanon riusciva a raccapezzare per loro, con gli accorgimenti del caso, aiutava la signora e la signorina Grandet a trascorrere le mattine e le sere più fredde dei mesi d'aprile e d'ottobre. La madre e la figlia avevano cura di tutta la biancheria domestica, e impiegavano così coscienziosamente le loro giornate a questo lavoro da autentiche operaie, che, se Eugenia voleva ricamare un colletto per la madre, era costretta a rubare qualche ora al sonno, ricorrendo a qualche inganno col padre per avere la luce.

Da tempo l'avaro consegnava personalmente la candela alla figlia e a Nanon, come al mattino distribuiva il pane e gli altri generi alimentari necessari al consumo giornaliero.

La grande Nanon era forse la sola creatura umana capace di accettare il dispotismo del suo padrone. Tutti la invidiavano al signore e alla signora Grandet. La grande Nanon, così chiamata per la sua statura di cinque piedi e otto pollici, era al servizio dei Grandet da trentacinque anni. Benché il suo salario fosse di sole sessanta lire, era considerata una delle più ricche domestiche di Saumur. Quelle sessanta lire, accumulate per trentacinque anni, le avevano recentemente consentito di impiegare quattromila lire in rendita vitalizia presso il notaio Cruchot. Il frutto delle lunghe e continue economie della grossa Nanon sembrò gigantesco. Ogni domestica, vedendo che la povera sessagenaria si era assicurato il pane per la vecchiaia, era invidiosa di lei, senza pensare al duro servizio col quale era stato conquistato. All'età di ventidue anni, la povera figliola non aveva trovato modo di sistemarsi presso alcuno, tanto il suo aspetto era repellente; e, certo, questa sensazione era ingiusta: la sua faccia sarebbe stata ammiratissima sulle spalle di un granatiere della guardia; ma in tutto ci vuole, come si dice, l'opportunità. Costretta a lasciare una fattoria incendiata, dove custodiva le mucche, andò a Saumur, dove cercò servizio, animata da quel robusto coraggio che non si rifiuta a nulla. Il signor Grandet aveva a quel tempo già intenzione di ammogliarsi, e voleva mettere su casa. Adocchiò la ragazza, rifiutata da una porta all'altra. Esperto della forza fisica nella sua qualità di bottaio, indovinò il partito che si poteva trarre da una creatura femmina dalle forme erculee, piantata sui suoi piedi come una quercia di sessanta anni sulle proprie radici, dai fianchi robusti, dalle spalle quadrate, con mani da carrettiere e una probità vigorosa come la sua intatta virtù. Né le verruche che adornavano quel viso marziale, né il colorito rosso mattone, né le braccia nerborute, né gli stracci di Nanon turbarono il bottaio, ancor nell'età in cui il cuore palpita. Egli vestì, calzò e nutrì la povera ragazza, le fissò il salario, e l'assunse in servizio senza trattarla troppo rudemente.

Vedendosi accolta in questo modo, la grande Nanon pianse segretamente di gioia, e si affezionò sinceramente al bottaio il quale, da parte sua, la sfruttò feudalmente. Nanon faceva tutto:

cucinava, faceva il bucato, andava a lavare la biancheria alla Loira e la riportava a casa sulle sue spalle; si alzava all'alba e si coricava tardi; preparava il desinare per tutti i vendemmiatori durante i raccolti; sorvegliava le "opere"; difendeva, come un cane fedele, i beni del suo padrone; infine confidando ciecamente in lui, obbediva senza fiatare a tutte le sue più ridicole fissazioni. Nel famoso anno 1811, quando il raccolto costò pene inaudite, dopo venti anni di servizio Grandet si decise a regalare il suo vecchio orologio a Nanon, l'unico dono che ricevette da lui. Sebbene le cedesse le sue vecchie scarpe (le andavano bene), è impossibile considerare il profitto trimestrale delle scarpe di Grandet come un dono, tanto erano usate. Il bisogno rese la povera figlia così avara, che Grandet aveva finito per volerle bene, come si vuol bene a un cane, e Nanon s'era lasciata mettere al collo un collare guarnito di punte che non la pungevano più. Se Grandet tagliava il pane con troppa parsimonia, non se ne lamentava; partecipava di buon grado ai vantaggi igienici che procurava il regime severo della casa, dove mai nessuno era malato. E poi, Nanon faceva parte della famiglia: rideva, se rideva Grandet; si rattristava, soffriva il freddo, si scaldava, lavorava con lui. E quanti dolci compensi in tale eguaglianza! Mai una volta il padrone aveva rinfacciato alla domestica la pesca primaticcia o l'agostana, le prugne o le susine mangiate sotto l'albero. "Su, fattene una bella scorpacciata", le diceva nelle annate in cui i rami piegavano sotto il peso dei frutti, che i fittavoli erano costretti a dare ai maiali. Per una contadina come lei, che in gioventù non aveva ricevuto che maltrattamenti, per una disgraziata come lei, raccolta per carità, la risata equivoca di papà Grandet era un vero raggio di sole. E poi, il cuore semplice e l'intelligenza limitata di Nanon non potevano contenere che un solo sentimento e una sola idea. Da trentacinque anni essa si rivedeva sempre arrivare, come quella prima volta, davanti al magazzino del signor Grandet, a piedi nudi, con quattro cenci addosso, e risentiva sempre, come quella prima volta, il bottaio domandarle: "Che cosa vuoi, piccina?". E la sua riconoscenza era sempre viva. Talvolta Grandet, pensando che quella povera creatura non aveva mai ascoltato una parola lusinghiera, che ignorava tutti i dolci sentimenti ispirati dalla donna e che poteva comparire un giorno davanti a Dio, più casta della Vergine Maria, Grandet, colto da pietà, diceva guardandola: "Questa povera Nanon!". E la sua esclamazione era sempre seguita da uno sguardo indefinibile che gli gettava la vecchia domestica. Quella frase, detta di tanto in tanto, formava da un pezzo una catena di amicizia non interrotta, alla quale, ogni volta che veniva ripetuta, s'aggiungeva un anello. Quella commiserazione, che albergava nel cuore di Grandet e che era tanto gradita alla vecchia zitella, aveva un non so che di orribile. Quell'atroce commiserazione da avaro, che risvegliava mille piaceri nel cuore del vecchio bottaio, era per Nanon il colmo della felicità. Chi non dirà pure:

"Povera Nanon?". Ma Dio riconoscerà i suoi angeli dalle inflessioni delle loro voci e dai loro misteriosi rimpianti.

C'erano in Saumur molte case in cui le domestiche erano trattate meglio, ma dove tuttavia i padroni non ne ricevevano in cambio alcuna gratitudine. Di qui l'altra frase: "Ma cosa mai le faranno i Grandet alla grande Nanon, perché gli sia così affezionata?

Sarebbe capace di passare nel fuoco per loro!". La sua cucina, le cui finestre a inferriata davano sul cortile, era sempre ordinata, pulita, fredda: la vera cucina dell'avaro, dove niente doveva andare sprecato. Dopo che Nanon aveva lavato le stoviglie, riposto i resti della cena e spento il fuoco, lasciava la cucina, separata dalla sala da un corridoio, e andava a filare la canapa vicino alle sue padrone. Una sola candela doveva bastare alla famiglia per tutta la sera. La domestica dormiva in fondo al corridoio, in un bugigattolo che riceveva la luce da una finestra a intelaiatura fissa. La sua robusta salute le permetteva di stare impunemente in quella specie di buco, da cui poteva percepire il più piccolo rumore nel silenzio profondo che regnava notte e giorno nella casa. Essa doveva, come un cane da guardia, dormire con un orecchio solo e riposarsi vegliando.

La descrizione delle altre parti della casa sarà legata agli avvenimenti di questa storia; del resto lo schizzo già tracciato della sala, in cui brillava tutto il lusso della famiglia, può far immaginare in anticipo lo squallore dei piani superiori.

Nel 1819, sul far della sera, alla metà di novembre, la grande Nanon accese il fuoco per la prima volta. L'autunno era stato molto bello. Era quello un giorno di festa assai ben conosciuto dai crusciottiani e dai grassinisti. I sei antagonisti si accingevano a venire armati di tutto punto, per incontrarsi nella sala e a gareggiare in prove di amicizia. La mattina tutta Saumur aveva visto la signora e la signorina Grandet, accompagnate da Nanon, recarsi nella chiesa parrocchiale per ascoltarvi la messa, e allora ognuno si era ricordato che quel giorno era il genetliaco della signorina Eugenia. Così, calcolando l'ora in cui il pranzo doveva terminare, il notaio Cruchot, l'abate Cruchot e il signor C. di Bonfons si affrettavano ad arrivare prima dei Grassins, per far gli auguri alla signorina Grandet. Tutti e tre portavano enormi mazzi di fiori, colti nelle loro piccole terre. I gambi di quelli che il presidente voleva offrire erano ingegnosamente avvolti da un nastro di seta bianca dalle frange d'oro.

Al mattino, il signor Grandet, secondo l'abitudine da lui seguita nei giorni memorabili della nascita e dell'onomastico di Eugenia, era andato a sorprenderla mentre ancora era in letto, e le aveva solennemente offerto il suo dono paterno, consistente, da tredici anni, in una curiosa moneta d'oro. La signora Grandet era solita regalare a sua figlia un abito d'inverno o d'estate, secondo la circostanza. I due abiti, le monete d'oro che riceveva per il primo dell'anno e per l'onomastico dal padre, costituivano una sua piccola rendita di cento scudi circa, che Grandet si compiaceva di vederle accumulare. Ma in realtà egli trasferiva il proprio denaro da una cassa all'altra e, per così dire, coltivava amorosamente l'avarizia della sua erede, alla quale domandava conto talvolta del piccolo tesoro, una volta impinguato dai La Bertellière dicendole: - Sarà questo il tuo "douzain" di nozze -. Il "douzain" è un'antica usanza ancora in vigore e religiosamente conservatasi in alcune regioni del centro della Francia. Nel Berry, nell'Angiò, quando una ragazza si marita, la famiglia sua o quella dello sposo le deve donare una borsa contenente, secondo le possibilità finanziarie, dodici monete, o dodici dozzine di monete, o milleduecento monete d'argento o d'oro. La più povera pastorella non sposerebbe senza il suo "douzain", seppure costituito da soldoni. Si parla ancora a Issoudun di non so quale "douzain" offerto a una ricca ereditiera, e contenente centoquarantaquattro portoghesi d'oro. Il papa Clemente Settimo, zio di Caterina dei Medici, le donò, maritandola a Enrico Secondo, una dozzina di antiche monete d'oro di grandissimo valore. Durante il pranzo, il padre, tutto lieto di vedere la sua Eugenia più che mai bella nel suo vestito nuovo, aveva esclamato: - Visto che è la festa d'Eugenia, accendiamo il fuoco! Sarà di buon augurio.

- La signorina si sposerà entro l'anno, di sicuro - disse la grande Nanon portando via gli avanzi d'un'oca: il fagiano dei bottai.

- Non vedo alcun partito per lei a Saumur - rispose la signora Grandet, guardando suo marito con aria timida, che, data l'età di lei, dimostrava la completa servitù coniugale sotto la quale era costretta a vivere la povera donna.

Grandet guardò bene sua figlia, e lietamente esclamò:

- Oggi la ragazza compie ventitré anni; bisognerà presto occuparsi di lei.

Eugenia e la madre si scambiarono silenziosamente uno sguardo d'intelligenza.

La signora Grandet era una donna secca e magra, gialla come una cotogna, goffa, tarda; una di quelle donne che sembrano fatte per essere tiranneggiate. Aveva grosse ossa, un grosso naso, una fronte grossa, gli occhi grossi e, a prima vista, dava l'idea di quei frutti stopposi che non hanno più né sapore né succo. I suoi denti erano neri e radi, la bocca increspata, e il suo mento aveva quella forma che si dice a ciabatta.

Era una donna eccellente, una vera La Bertellière. L'abate Cruchot sapeva trovare l'occasione di dirle che in gioventù non era poi stata disprezzabile, e lei ci credeva. Una dolcezza angelica, una rassegnazione da insetto tormentato da monelli, una devozione rara, una inalterabile stabilità di carattere, un cuore d'oro, la facevano compiangere e rispettare da tutti. Il marito non le dava mai più di sei franchi alla volta per le minute spese. Per quanto possa sembrare strano, questa donna la quale, con la dote e le eredità, aveva portato al signor Grandet più di trecentomila franchi, si era sentita sempre così profondamente umiliata da una soggezione e da un ilotismo contro i quali la sua dolcezza d'animo le impediva di ribellarsi, che non aveva mai chiesto un soldo, né fatto mai un'osservazione a proposito degli atti notarili a essa presentati per la firma dal notaio Cruchot. Una tale fierezza sciocca e segreta, una tale nobiltà d'animo costantemente misconosciuta e ferita da Grandet, regolavano la condotta di questa donna. La signora Grandet indossava invariabilmente un abito di levantina verdastra, che s'era abituata a far durare quasi un anno; portava un ampio scialle di cotonina bianca, un cappello di paglia cucita e, quasi sempre, un grembiule di taffettà nero. Uscendo poco di casa, consumava poco le scarpe.

Insomma, non chiedeva mai nulla per sé. E allora Grandet, colto talvolta da rimorso nel ricordare quanto tempo era trascorso dal giorno in cui aveva dato sei franchi alla moglie, stabiliva sempre uno spillatico a suo favore nel vendere i raccolti dell'annata. I quattro o cinque luigi offerti dall'olandese o dal belga che acquistava il raccolto viticolo di Grandet rappresentavano la più cospicua rendita annuale della signora Grandet. Ma, quando aveva ricevuto i suoi cinque luigi, il marito le chiedeva spesso, come se la loro borsa fosse stata comune: - Hai da prestarmi qualche soldo? - E la povera donna, lieta di poter fare qualcosa per un uomo che il confessore le indicava come suo signore e padrone, gli restituiva, nel corso dell'inverno, qualche scudo sulla somma degli spillatici. Quando Grandet tirava fuori dalla tasca la moneta da cento soldi destinata mensilmente per le minute spese:

il filo, gli aghi e l'abbigliamento della figlia, non mancava mai, dopo essersi abbottonato il taschino, di dire alla moglie: - E per te vuoi qualche cosa?

- Poi vedremo, amico mio - rispondeva la signora Grandet, animata da un sentimento di materna dignità.

Sublimità inutile! Grandet credeva di essere molto generoso verso sua moglie. Quando i filosofi incontrano delle Nanon, delle signore Grandet, delle Eugenie, non sono forse in diritto di ritenere che l'ironia è la sostanza del carattere della Provvidenza? Dopo quel pranzo in cui, per la prima volta, si parlò del matrimonio di Eugenia, Nanon andò a prendere una bottiglia di rosolio di ribes nella camera del signor Grandet e, nel discendere, poco mancò che non cadesse.

- Bestia - le disse il padrone - saresti capace di cadere come una sciocca?

- Padrone, è quel gradino che non regge!

- Ha ragione - disse la signora Grandet. - Avresti dovuto farlo accomodare da tempo. Ieri Eugenia stava per slogarsi un piede.

- To'- disse Grandet a Nanon vedendo che s'era fatta pallida - visto che si festeggia il compleanno di Eugenia, e che stavi per cadere, prendi un bicchierino di ribes, per rimetterti dalla paura.

- Me lo sono guadagnato - disse Nanon. - Al posto mio, chiunque avrebbe lasciato che la bottiglia si rompesse mentre io mi sarei piuttosto rotto un braccio pur di salvarla.

- Questa povera Nanon! - disse Grandet versandole il ribes.

- Ti sei fatta male? - le chiese Eugenia guardandola premurosamente.

- No, perché mi sono retta tenendomi sulle reni.

- Ebbene, visto che è il genetliaco d'Eugenia - disse Grandet - aggiusteremo il gradino. Però, voi non sapete mettere il piede nel punto che ancora regge.

Grandet prese la candela, lasciò la moglie, la figlia e la domestica alla sola luce del focolare che gettava fiamme vive, e si diresse verso il forno a cercarvi tavole, chiodi e arnesi.

- Volete che vi aiuti? - gli gridò Nanon sentendo che picchiava sulla scala.

- No! No!, questo è affar mio - rispose il vecchio bottaio.

Mentre Grandet stava aggiustando la scala tarlata, fischiettando a perdifiato al ricordo degli anni giovanili, i tre Cruchot bussarono alla porta.

- Siete voi, signor Cruchot? - disse Nanon spiando attraverso la piccola grata.

- Sì - rispose il presidente.

Nanon aprì la porta, e la luce del focolare, che si rifletteva sotto la volta, permise ai tre Cruchot di scorgere l'ingresso della sala.

- Ah!, siete della festa - disse loro Nanon, odorando i fiori.

- Scusate, signori - gridò Grandet riconoscendo la voce degli amici - sono subito da voi! Sono modesto, sto rabberciando io stesso un gradino della scala.

- Fate, fate pure, signor Grandet! Ognuno è sindaco in casa propria - disse sentenziosamente il presidente, ridendo solo lui per l'allusione, che nessuno comprese.

La signora e la signorina Grandet si alzarono. Il presidente, approfittando dell'oscurità, disse allora a Eugenia:

- Mi permettete, signorina, di augurarvi, oggi che è il vostro genetliaco, molti anni felici e la continuazione della vostra buona salute?

E offrì all'ereditiera un grande mazzo di fiori, rari a Saumur, poi, stringendola ai gomiti, la baciò sui due lati del collo, con una effusione che rese Eugenia confusa. Il presidente, che sembrava un grosso chiodo arrugginito, credeva in questo modo di farle la corte.

- Fate pure - disse Grandet rientrando. - Ma come siete espansivo nei giorni di festa, signor presidente!

- Con la signorina - rispose l'abate Cruchot, armato anche lui del suo mazzo di fiori - per mio nipote tutti i giorni sarebbero di festa.

L'abate baciò la mano di Eugenia. Quanto al notaio Cruchot, questi baciò la ragazza sulle gote, e disse: - Come corre il tempo! Ogni anno sono dodici mesi.

Rimettendo il candeliere dinanzi all'orologio, Grandet, solito a impadronirsi di una frase spiritosa e a ripeterla, fino alla sazietà, quando gli sembrava divertente, disse: - Visto che è la festa di Eugenia, accendiamo i candelabri!

Tolse allora con cura da essi i ramoscelli di rose, mise lo scodellino a ogni piedistallo, prese dalle mani di Nanon una candela nuova avvolta in un pezzo di carta, la infilò nel foro, l'assicurò bene al suo posto, l'accese, e si sedette vicino a sua moglie, guardando ora l'uno ora l'altro degli ospiti, la figlia, e le due candele. L'abate Cruchot, un ometto paffuto, grassoccio, dalla parrucca rossa e piatta, dal viso di vecchia arzilla, mettendo avanti i piedi ben calzati in robuste scarpe ornate di fibbie d'argento, disse: - I de Grassins non sono venuti?

- Non ancora - disse Grandet.

- Ma verranno? - chiese il vecchio notaio, facendo una smorfia col suo viso bucherellato come una schiumaiola.

- Credo di sì - rispose la signora Grandet.

- Avete finito di vendemmiare? - chiese il presidente di Bonfons a Grandet.

- Dappertutto! - gli rispose il vecchio vignaiolo, alzandosi per passeggiare in lungo e in largo nella sala e gonfiando il torace con un gesto pieno d'orgoglio come la sua parola: dappertutto!

Dall'uscio del corridoio che portava in cucina, vide allora Nanon che seduta accanto al fuoco, con una candela, si preparava a filare lì la sua canapa, per non far l'intrusa nella festa.

- Nanon - disse avanzandosi nel corridoio - ma vuoi dunque spegnere il fuoco e la luce, e venire qui con noi? Diamine! la sala è abbastanza grande per starci tutti.

- Ma, signore, voi avrete delle persone di riguardo.

- E non vali forse te come loro? Per parte di Adamo sono né più né meno come te.

Grandet tornò verso il presidente, e gli disse: - Avete venduto il raccolto?

- No, lo conservo... Se ora il vino è buono, di qui a due anni sarà anche meglio. I proprietari, lo sapete, si sono accordati nel mantenere i prezzi stabiliti, e quest'anno i Belgi non l'avranno vinta. Se se ne andranno, dovranno pur ritornare.

- Sì, ma in guardia! - disse Grandet con un tono che fece fremere il presidente.

"Che stia in trattative?", pensò Cruchot.

In quel momento, un colpo di picchiotto annunciò la famiglia de Grassins, e il loro arrivo interruppe una conversazione avviata tra la signora Grandet e l'abate.

La signora de Grassins era una di quelle donnine vivaci, paffute, bianche e rosee, che, per il regime claustrale di provincia e per le abitudini di una vita virtuosa, si conservano ancora giovani a quarant'anni. Sono come le ultime rose d'autunno inoltrato, che fa piacere vederle, ma i cui petali hanno non so qual freddezza e il cui profumo si attenua. Vestiva con qualche ricercatezza, si faceva venire gli abiti da Parigi, dava il tono dell'eleganza a Saumur, e offriva ricevimenti. Il marito, vecchio quartiermastro della guardia imperiale, gravemente ferito ad Austerlitz e collocato in pensione, conservava, malgrado il rispetto per Grandet, la manifesta franchezza dei militari.

- Salve, Grandet - disse al vignaiolo tendendogli la mano e affettando una specie di superiorità sotto la quale schiacciava sempre i Cruchot. - Signorina - disse a Eugenia dopo aver salutato la signora Grandet - siete sempre bella e buona e non so proprio che cosa vi si possa augurare. - Poi le porse una piccola cassetta portata da un suo domestico, e che conteneva un'erica del Capo, fiore introdotto da poco in Europa e molto raro.

La signora de Grassins baciò molto affettuosamente Eugenia, le strinse la mano e le disse: - Adolfo s'è preso l'incarico di presentarvi il mio piccolo ricordo.

Un giovanottone alto, biondo, pallido e gracile, dai modi distinti, timido in apparenza, che aveva dissipato a Parigi, dov'era andato a studiare legge, otto o diecimila franchi in più del suo assegno mensile, s'avanzò verso Eugenia, la baciò sulle gote e le offrì una scatola da lavoro, contenente tutto il necessario in argento dorato, roba proprio da bazar, malgrado la targhetta sulla quale un E. G. in gotico ben inciso poteva far credere che si trattasse di un oggetto elegante. Aprendola, Eugenia provò una di quelle gioie insperate e complete che fanno arrossire, trasalire, e fremere di piacere le giovinette. Volse gli occhi verso il padre, come per sapere se le fosse permesso di accettare il dono, il signor Grandet disse un "Ma prendilo, figliuola!", con un accento che avrebbe reso illustre un attore. I tre Cruchot rimasero stupefatti nel vedere lo sguardo felice e animato rivolto su Adolfo de Grassins dall'ereditiera, alla quale simili magnificenze parvero inaudite. Il signor de Grassins offrì a Grandet una presa di tabacco, ne prese un pizzico per sé, rimosse i granellini caduti sul nastro della Legion d'onore fissato all'occhiello del suo abito blu, poi guardò i Cruchot con un'aria che sembrava dire: "Parate questo colpo!".

La signora de Grassins gettò uno sguardo sui vasi azzurri in cui erano stati posti i fiori dei Cruchot, cercando i loro doni con la simulata ingenuità di una donna ironica. In tale congiuntura delicata, l'abate Cruchot lasciò che la compagnia si sedesse in circolo davanti al fuoco per andare a passeggiare in fondo alla sala con Grandet. Quando i due vecchi si trovarono nel vano della finestra più lontana dai de Grassins: - Quelli - disse il prete all'orecchio dell'avaro - i denari li buttano dalla finestra.

- E che importa, se rientrano nella mia cantina? - replicò il vecchio vignaiolo.

- Se voleste regalare un paio di forbici d'oro a vostra figlia, potreste ben farlo - disse l'abate.

- Io le dono qualcosa di meglio che delle forbici rispose Grandet.

"Mio nipote è un imbecille", pensò l'abate guardando il presidente, i cui capelli scompigliati aggiungevano qualcosa ancora a quanto aveva già di sgradevole il suo viso di carnagione bruna. "Non poteva anche lui pensare a una sciocchezzuola, che avesse fatto effetto?".

- Vogliamo fare la nostra solita partita, signora Grandet? - disse la signora de Grassins.

- Ma già che ci siamo tutti, possiamo fare due tavoli...

- Visto che è la festa di Eugenia, fate una tombola generale - disse papa Grandet - e i due ragazzi vi prenderanno parte. - E il vecchio bottaio, che non prendeva mai parte ad alcun gioco, indicò sua figlia e Adolfo. - Andiamo, Nanon, prepara i tavoli.

- Aspettate, che vi aiutiamo, signorina Nanon - disse allegra la signora de Grassins, felice della gioia che aveva procurato a Eugenia.

- Non sono mai stata così contenta - le disse l'ereditiera. - Non ho mai visto una cosa tanto graziosa.

- E' Adolfo che l'ha portata da Parigi e che l'ha scelta - le disse la signora de Grassins all'orecchio.

"Fa', fa' pure, maledetta intrigante!", diceva intanto tra sé e sé il presidente, "ma se tu o tuo marito mi capiterete sotto in una qualche causa, sarà ben difficile che vi vada bene".

Il notaio, seduto in un angolo, guardava l'abate con un'aria calma, dicendosi: "I de Grassins hanno un bel darsi da fare, il mio patrimonio, quello di mio fratello e quello di mio nipote ammontano a un milione e centomila franchi. I de Grassins ne hanno sì e no la metà, e hanno poi una figlia; possono offrire ciò che vogliono; ma, ereditiera e regali, tutto un giorno verrà nelle nostre mani".

Alle otto e mezza i due tavoli furono pronti. La graziosa signora de Grassins era riuscita a far sedere suo figlio vicino a Eugenia.

Gli attori di questa scena così interessante, per quanto banale in apparenza, muniti delle cartelle variopinte e recanti i loro numeri, e di gettoni di vetro azzurro, sembrava che ascoltassero le facezie del vecchio notaio che non estraeva il numero senza farci sopra la sua arguzia: tutti pensavano invece ai milioni di Grandet. Il vecchio bottaio guardava intanto, vanitosamente, le piume rosa, la toletta nuova della signora de Grassins, la testa marziale del banchiere, quella di Adolfo, il presidente, l'abate, il notaio, e diceva fra sé e sé: "Sono tutti qui per i miei scudi.

Vengono qui ad annoiarsi, per mia figlia. Eh!, mia figlia non sarà né degli uni né degli altri; ma tutta questa gente mi serve come una fiocina per pescare!".

Quell'allegria famigliare, in quella vecchia sala grigia, male illuminata da due candele; quelle risa, accompagnate dal rumore dell'arcolaio di Nanon, e che erano sincere solo sulle labbra di Eugenia o di sua madre; quella grettezza unita a così grandi interessi; quella ragazza che, simile agli uccelli vittime dell'alto prezzo cui vengono venduti e che essi ignorano, si trovava braccata, stretta da prove d'amicizia delle quali era lo zimbello: tutto contribuiva a rendere la scena tristemente comica.

E non era poi, del resto, una scena di tutti i tempi e di tutti i luoghi, ma ridotta alla sua più semplice espressione? La figura di Grandet, che sfruttava la falsa amicizia delle due famiglie traendone enormi profitti, dominava questo dramma, e lo illuminava. E non rappresentava egli il solo dio moderno in cui si abbia fede, il Denaro in tutta la sua potenza, espresso da una sola fisionomia? I dolci sentimenti della vita occupavano lì un posto secondario: essi animavano solo tre cuori puri: quelli di Nanon, di Eugenia e di sua madre. E poi, quanta insipienza nella loro ingenuità! Eugenia e sua madre non sapevano nulla della ricchezza di Grandet, giudicavano le cose della vita soltanto alla luce delle loro pallide idee, non apprezzavano né disprezzavano il denaro, abituate com'erano a farne a meno. I loro sentimenti, offesi a loro insaputa, eppur vivaci, il segreto della loro esistenza, costituivano eccezioni curiose in quel gruppo di persone la cui vita era meramente materiale. Orrenda condizione dell'uomo! Non c'è una qualche sua felicità che non derivi da una qualsiasi ignoranza. Proprio nel momento in cui la signora Grandet aveva guadagnato sedici soldi, la vincita più cospicua che fosse mai stata messa in palio in quella sala, e mentre Nanon rideva di soddisfazione nel vedere che la padrona intascava quella grossa somma, un colpo di picchiotto risuonò al portone, e vi fece un così gran rumore, che le donne sobbalzarono sulle loro seggiole.

- Non è uno di Saumur, per picchiare in questo modo - disse il notaio:

- Ma senti che modo di battere! - disse Nanon. - Vogliono rompere la porta?

- Chi diavolo sarà? - esclamò Grandet.

Nanon prese una delle due candele e andò ad aprire, accompagnata da Grandet.

- Grandet! Grandet! - gridò la moglie che, spinta da un vago senso di paura, corse verso l'uscio della sala.

Tutti i giocatori si guardarono tra loro.

- Se andassimo a vedere pure noi? - disse il signor de Grassins. - Questo colpo di picchiotto non mi ha l'aria di esser buono.

Il signor de Grassins riuscì appena a intravedere la figura d'un giovanotto accompagnato dal fattorino delle diligenze postali, che portava due bauli enormi e trascinava sacchi da viaggio. Grandet si girò bruscamente verso sua moglie e le disse: - Tornate a giocare. Lascia che io mi intenda con costui. - Poi, chiuse energicamente l'uscio della sala, dove i giocatori in ansia ripresero i loro posti, ma senza continuare la partita.

- E' qualcuno di Saumur? - chiese la moglie del banchiere al marito.

- No, è un forestiero.

- Non può venire che da Parigi. Difatti - disse il notaio traendo dalla tasca il suo vecchio orologio spesso due dita e che sembrava un vascello olandese - sono le "nnovve". Perbacco! La diligenza dell'Ufficio Centrale non è mai in ritardo.

- E quel signore, è giovane? - chiese l'abate Cruchot.

- Sì - rispose il signor de Grassins. - Porta dei bagagli che devono pesare almeno trecento chili.

- Nanon non torna - disse Eugenia.

- Non può essere altro che qualche vostro parente - disse il presidente.

- Mettiamo le poste - esclamò dolcemente la signora Grandet. - Dal tono della voce, ho capito che mio marito è un po' seccato, forse potrebbe dispiacergli di sentire che parliamo dei suoi affari.

- Signorina - disse Adolfo alla vicina - sarà senza dubbio vostro cugino Grandet, un bel giovane, che ho visto al ballo del signor di Nucingen - Adolfo non poté continuare, perché sua madre lo richiamò pigiandogli un piede; poi, chiedendogli ad alta voce due soldi per la propria posta:

- Vuoi star zitto, imbecille? - gli disse all'orecchio.

In quel momento Grandet ricomparve senza Nanon, il cui passo risuonò per la scala con quello del fattorino; Grandet era seguito dal viaggiatore che da qualche istante stava suscitando tanta curiosità e alimentando così vivamente la fantasia dei convenuti, che il suo arrivo in quella casa, il suo sopraggiungere in mezzo a quella compagnia si può paragonare a quello di una lumaca in un alveare, o all'ingresso di un pavone in qualche oscuro cortiletto di villaggio.

- Sedetevi vicino al fuoco - gli disse Grandet.

Prima di sedersi, il giovane forestiero salutò con molto garbo i presenti. Gli uomini si alzarono per rispondere con un inchino cortese, e le donne accennarono una riverenza cerimoniosa.

- Avrete certamente freddo - disse la signora Grandet; - arrivate forse da...

- Le donne son sempre loro! - disse il vecchio vignaiolo, interrompendo di leggere una lettera che aveva in mano, - lasciate dunque che il signore si riposi.

- Ma, papà, il signore avrà forse bisogno di qualcosa - disse Eugenia.

- Ha la lingua pure lui - rispose severamente il vignaiolo.

Soltanto lo sconosciuto restò sorpreso di questa scena. Gli altri erano ben abituati ai modi dispotici del brav'uomo. Tuttavia, quando quelle domande e quelle due risposte furono scambiate, lo sconosciuto si alzò, si mise con le spalle verso il fuoco, sollevò un piede per far scaldare la suola dello stivale, e disse a Eugenia: - Grazie, cugina, ho pranzato a Tours. E - aggiunse guardando Grandet - non ho proprio bisogno di niente, e non mi sento affatto stanco.

- Il signore viene forse dalla capitale? - domandò la signora de Grassins.

Il signor Carlo, così si chiamava il figlio del signor Grandet di Parigi, sentendosi interrogare, prese un occhialetto tenuto al collo da una catenella, lo applicò all'occhio destro per osservare quel che si trovava sul tavolo e le persone che ci sedevano attorno, squadrò con molta impertinenza la signora de Grassins e le disse, dopo aver visto tutto: - Sì, signora. Ma, zia, voi state giocando alla tombola - aggiunse - continuate pure, vi prego, il gioco, è troppo divertente per lasciarlo...

"Ero sicura che si trattava del cugino", pensava la signora de Grassins, lanciandogli piccole occhiate.

- Quarantasette! - gridò il vecchio abate. - Segnate, signora de Grassins, non è il numero che avete?

Il signor de Grassins pose un gettone sulla cartella di sua moglie che, colta da tristi presentimenti, guardava ora il cugino di Parigi, ora Eugenia, senza più pensare alla tombola. Ogni tanto la giovane ereditiera lanciava furtivi sguardi al cugino, mentre la moglie del banchiere poteva facilmente scoprirvi un "crescendo" di meraviglia o di curiosità.

Il signor Carlo Grandet, un bel giovane di ventidue anni, formava in quel momento un singolare contrasto con quei buoni provinciali che già alquanto indisposti dai suoi modi aristocratici, lo andavano studiando, per burlarsi di lui. Ma qui occorre una spiegazione. A ventidue anni i giovani sono ancora così vicini all'infanzia, da commettere qualche bambinata. E forse per questo, su cento di loro, se ne troverebbero novantanove che si comporterebbero come si comportava Carlo Grandet. Pochi giorni prima di quella sera, suo padre gli aveva detto di andare per qualche mese dallo zio di Saumur. Forse il signor Grandet di Parigi pensava, per lui, a Eugenia. Carlo, che capitava in provincia per la prima volta, pensò bene di presentarsi con la superiorità di un giovane alla moda, di sbalordire il circondario col suo lusso, di restarvi memorabile e d'importarvi le trovate della vita parigina. Insomma, per essere brevi, egli voleva impiegare a Saumur più tempo che a Parigi nel lucidarsi le unghie e nel far mostra di quella eccessiva ricercatezza che talora un giovane elegante tralascia per una trascuratezza non priva di grazia. Carlo portò dunque con sé il più bell'abito da caccia, il più bel fucile, il più bel coltello, la più bella guaina di Parigi. Recò con sé la collezione dei suoi più vistosi panciotti; ce n'erano di grigi, bianchi, neri, colore scarabeo, a riflessi d'oro, ornati di lustrini, screziati, a doppia bottoniera, a scialle o col collo diritto, col collo rovesciato, abbottonati fin sotto il collo, con bottoni d'oro. Portò tutte le varietà di colletti e di cravatte alla moda in quell'epoca. Portò due abiti di Buisson e la sua biancheria più fine. Portò il suo elegante astuccio da toletta con gli oggetti in oro, regalo di sua madre.

Portò i suoi ninnoli di zerbinotto senza dimenticare una stupenda piccola scrivania portatile donatagli dalla più amabile, almeno secondo lui, delle donne, una grande dama che egli chiamava Annetta, e che viaggiava insieme col marito, annoiandosi, in Scozia, vittima di qualche sospetto, al quale bisognava sacrificare momentaneamente la propria felicità; e molta elegante carta da lettere per scriverle ogni quindici giorni. Era, insomma, un carico di futilità parigine completo per quanto possibile e dove, dal frustino che occorre per iniziare un duello fino a due belle pistole cesellate che lo concludono, si trovavano tutti gli strumenti di aratura di cui si serve un giovane per lavorare la vita. Avendogli suo padre detto di viaggiare solo e modestamente, aveva viaggiato nello scompartimento anteriore della diligenza riservato per lui, ben lieto di non dover sciupare una deliziosa vettura da viaggio ordinata per andare incontro alla sua Annetta, la grande dama che... eccetera, e che avrebbe dovuto raggiungere nel prossimo giugno, alle acque di Baden. Carlo contava d'incontrare molta gente in casa di suo zio, di andare a caccia a cavallo per i suoi boschi, di condurre insomma vita di castello; non credeva di trovarlo a Saumur, dove aveva chiesto di lui soltanto per farsi indicare la strada di Froidfond; ma, sapendolo invece in città, immaginò che dimorasse in un grande palazzo. Per presentarsi convenientemente presso lo zio, sia a Saumur che a Froidfond, aveva curato la toletta da viaggio più elegante, quella più semplicemente ricercata, la più adorabile, per usare la parola che a quel tempo compendiava le perfezioni speciali d'una cosa o d'un uomo. A Tours un barbiere gli aveva ondulato i suoi bei capelli castani; lì si era cambiato la biancheria e messo una cravatta di seta nera, combinata con un colletto tondo, in modo da inquadrare con grazia il suo volto bianco e sorridente. Un soprabito da viaggio abbottonato a metà gli stringeva i fianchi, e lasciava vedere un panciotto in cascemir a scialle, sotto il quale c'era un secondo panciotto bianco. L'orologio, abbandonato con negligenza al rischio d'una tasca, era tenuto tramite una corta catena d'oro a una delle asole. I pantaloni grigi erano abbottonati ai fianchi, dove disegni ricamati in seta nera ornavano le cuciture. Maneggiava galantemente un bastone il cui pomo d'oro scolpito non alterava affatto la freschezza dei guanti grigi. Il cappello, infine, era di un gusto squisito. Solo un parigino, un parigino della più alta classe, poteva combinarsi in modo simile senza sembrare ridicolo e conferire un'armonia di fatuità a tutte queste frivolezze, sostenute, per altro, da un'aria fiera, l'aria di un giovane che ha buone pistole, la mira sicura, e Annetta. E ora, se volete ben comprendere la reciproca sorpresa di quelli di Saumur e del giovane parigino, vedere perfettamente il vivido lampo che l'eleganza del forestiero faceva balenare tra le ombre grigie della sala e i personaggi che componevano quel quadro famigliare, provate a raffigurarvi i Cruchot. Tutti e tre fiutavano tabacco, e non si curavano più da tanto tempo di evitare né le sgocciolature dal naso né le macchioline disseminate sul petto delle loro camice dai colli spiegazzati a pieghe giallastre. Le loro cravatte leggere si riducevano a funicelle non appena messe al collo. L'enorme quantità di biancheria, che consentiva loro di fare il bucato soltanto una volta ogni sei mesi e di conservarla in fondo agli armadi, dava modo al tempo di imprimerci le sue tinte grigie e annose. C'era in loro come un perfetto accordo nella sgradevolezza e nella senilità. I loro visi, avvizziti come i loro abiti usati, spiegazzati come i loro pantaloni, sembravano logori, incartapecoriti, e facevano smorfie. La trasandatezza generale degli altri loro abiti, tutti incompleti, senza freschezza, come sono in genere i vestiti di provincia, dove si arriva insensibilmente a non vestirsi più gli uni per gli altri, e a badare al prezzo d'un paio di guanti, era in accordo con la trascuratezza dei Cruchot. L'orrore per la moda era il solo punto sul quale i grassinisti e i crusciottiani s'intendessero perfettamente. Se il parigino prendeva di tanto in tanto l'occhialetto per osservare i singoli dettagli della sala, i travicelli del soffitto, il colore dei pannelli di legno o i puntini che le mosche vi avevano segnato, e il cui numero sarebbe stato sufficiente per la punteggiatura della "Encyclopédie méthodique" e del "Moniteur", i giocatori di tombola alzavano il naso dalle loro cartelle e osservavano il nuovo arrivato con la stessa curiosità con la quale avrebbero guardato una giraffa. Il signor de Grassins e suo figlio, cui l'aspetto di un uomo alla moda non era poi sconosciuto, si associarono tuttavia alla meraviglia dei loro vicini, sia che provassero l'indefinibile influsso d'un sentimento generale, sia che lo approvassero dicendo ai loro compaesani, con occhiate piene d'ironia: "Ecco, a Parigi sono così". Tutti potevano, del resto, osservare Carlo a loro agio, senza tema di far dispiacere al padrone di casa. Grandet era assorto nella lettura della lunga lettera che aveva in mano e, per leggerla, aveva preso l'unico candeliere che si trovava sul tavolo, senza preoccuparsi né degli ospiti né del loro gioco.

Eugenia, per la quale il tipo d'una simile perfezione, sia nel modo di vestire, sia nella persona, era del tutto sconosciuto, credette di vedere in suo cugino una creatura discesa da qualche serafica regione. Essa respirava con delizia i profumi che esalavano dalla così brillante, dalla così graziosamente inanellata chioma di lui. Avrebbe voluto poter toccare la morbida pelle dei suoi bei guanti fini. E invidiava le piccole mani di Carlo, la sua carnagione, la freschezza e la delicatezza dei suoi lineamenti. Insomma, se pur questa immagine può riassumere le impressioni che l'elegante giovane produsse su di una ignara ragazza sempre occupata a rammendare calze, a rattoppare il guardaroba paterno, e la cui vita era finora trascorsa tra quei sordidi pannelli senza mai vedere in quella strada silenziosa più di un passante all'ora, la vista di suo cugino fece sorgere dal suo cuore le emozioni di sottile voluttà che suscitano in un giovane le fantasiose figure di donne disegnate da Westal nei "Keepsake" inglesi, e incise dai Finden con un bulino così abile, che si teme, soffiando sulla pagina, di far volare via quelle celesti apparizioni. Carlo trasse di tasca un fazzoletto ricamato dalla grande dama che viaggiava in Scozia. Nel vedere quel lavoro così grazioso fatto con amore durante le ore perdute per l'amore, Eugenia guardò suo cugino per accertarsi se se ne sarebbe realmente servito. I modi di Carlo, i suoi gesti, il gesto con cui prendeva l'occhialetto, la sua affettata impertinenza, il suo sprezzo per quella scatola da lavoro che aveva poco prima procurato tanta gioia alla ricca ereditiera e che egli trovava evidentemente o priva di qualsiasi valore o addirittura ridicola; insomma, tutto ciò che indisponeva i Cruchot e i de Grassins le piaceva tanto, che, prima di addormentarsi, essa dovette fantasticare a lungo su quella fenice dei cugini. I numeri venivano estratti molto lentamente, poi ben presto la tombola venne interrotta. Nanon entrò e disse ad alta voce:

- Signora, bisogna darmi le lenzuola per fare il letto al signore.

La signora Grandet uscì con Nanon. La signora de Grassins disse allora sottovoce: - Prendiamoci i nostri soldi e smettiamo la tombola. - Ognuno riprese i propri due soldi dal vecchio piattino slabbrato in cui li aveva messi; poi il gruppo si mosse tutto insieme e fece un quarto di giro verso il fuoco.

- Avete già finito? - disse Grandet senza smettere di leggere la lettera.

- Sì, sì - rispose la signora de Grassins, sedendosi vicino a Carlo.

Eugenia, spinta da uno di quei pensieri che nascono nel cuore delle giovinette quando un sentimento vi prende stanza per la prima volta, lasciò la sala per andare ad aiutare la madre e Nanon. Se fosse stata interrogata da un abile confessore, avrebbe indubbiamente ammesso che la sua non era una premura né per sua madre né per Nanon, ma che era assillata da un pungente desiderio d'ispezionare la camera riservata al cugino per occuparsi di lui, per porvi una qualunque cosa, per ovviare a una dimenticanza, per prevedere ogni cosa, allo scopo di rendere quella camera, per quanto possibile, elegante e pulita. Eugenia si credeva già la sola capace di comprendere i gusti e le idee del cugino. E infatti, essa capitò molto a proposito per dimostrare alla madre e a Nanon, le quali stavano per andarsene nella convinzione di aver fatto tutto, che invece tutto c'era ancora da fare. Essa diede l'idea a Nanon di scaldare le lenzuola con la brace; coprì lei stessa il vecchio tavolo con una tovaglietta e raccomandò a Nanon di cambiarla tutte le mattine. Convinse sua madre che era necessario accendere un bel fuoco nel caminetto e indusse Nanon ad acquistare, senza dir nulla al padrone, una grossa provvista di legna nel corridoio. Corse poi a cercare in una delle cantoniere della sala un vassoio di lacca antica, che proveniva dall'eredità del signor La Bertellière, un bicchiere di cristallo a sei facce, un cucchiaino sdorato, una bottiglia antica sulla quale erano incisi alcuni amorini, e pose il tutto trionfalmente su di un angolo del caminetto. Le erano sorte più idee in un quarto d'ora che da quando era venuta al mondo.

- Mamma - disse - mio cugino non sopporterà proprio l'odore d'una candela di sego. Non sarebbe il caso di comprare una stearica?...

- E andò, leggera come un uccello, a prendere dal suo portamonete lo scudo da cento soldi che aveva ricevuto per le spese mensili. - Tieni, Nanon - disse - fa' presto.

- Ma che dirà tuo padre? - Questa tremenda obiezione fu mossa dalla signora Grandet nel vedere sua figlia armata d'una zuccheriera di vecchio Sèvres, che Grandet aveva portato dal castello di Froidfond. - E dove prenderai lo zucchero? Sei matta?

- Mamma, Nanon comprerà, insieme alla candela, pure lo zucchero.

- Ma tuo padre?

- E sarebbe conveniente che suo nipote non potesse bere un bicchiere d'acqua zuccherata? E poi, non ci baderà.

- Tuo padre vede tutto - disse la signora Grandet scuotendo la testa. Nanon esitava, conoscendo bene il suo padrone.

- Ma va dunque, Nanon, poiché oggi è la mia festa!

Nanon si lasciò sfuggire una grossa risata, nell'udire la prima frase scherzosa uscita dalla bocca della sua padroncina, e obbedì.

Mentre Eugenia e sua madre procuravano di abbellire la camera destinata dal signor Grandet a suo nipote, Carlo veniva fatto segno alle attenzioni della signora de Grassins che gli prodigava mille moine.

- Avete un bel coraggio, signore - gli disse - -di lasciare i piaceri della capitale durante l'inverno per venire a Saumur! Ma se non vi facciamo troppa paura, vedrete che ci si può divertire anche qui.

E gli lanciò una vera occhiata di provincia, di quella provincia, dove, abitualmente, le donne pongono tanto riserbo e tanta prudenza nei loro occhi, da infondere in essi la ghiotta concupiscenza propria degli ecclesiastici, per i quali ogni piacere sembra un furto o una colpa. Carlo si trovava così spaesato in quella sala, così lontano dal vasto castello e dalla fastosa vita che aveva supposto dovesse essere quella di suo zio che, guardando attentamente la signora de Grassins, scorse infine una immagine mezzo sbiadita delle figure parigine.

Rispose gentilmente a quella specie d'invito che gli era stato rivolto, e s'impegnò naturalmente una conversazione durante la quale la signora de Grassins abbassò gradualmente la voce per metterla in armonia con la natura delle sue confidenze. Esisteva tra lei e Carlo uno stesso bisogno di fiducia. Così, dopo qualche minuto di conversazione civettuola e di arguzie più o meno serie, l'astuta provinciale poté dirgli, ritenendo di non essere sentita dagli altri, che intanto parlavano della vendita dei vini, argomento di attualità in tutta Saumur:

- Signore, se ci farete l'onore di una visita, farete gran piacere a mio marito e a me. Il nostro salotto è il solo in Saumur nel quale troverete riuniti i rappresentanti dell'alta finanza e della nobiltà; e noi apparteniamo a tutti e due gli ambienti, i quali si incontrano solo da noi, perché ci si divertono. Mio marito, lo dico con orgoglio, gode di una eguale considerazione presso gli uni e presso gli altri. Così procureremo di offrirvi un diversivo alla noia del vostro soggiorno qui. Se doveste rimanere sempre presso il signor Grandet, che mai diventereste, mio Dio? Vostro zio è un avaro, che pensa solo ai germogli delle sue viti, vostra zia è una beghina che non sa mettere insieme due idee, e vostra cugina è una sciocchina, senza istruzione, ordinaria, senza dote, che passa la vita a rammendare i suoi stracci.

"Questa è una donna a posto" disse fra sé Carlo Grandet, rispondendo alle leziosaggini della signora de Grassins.

- Mi pare, moglie mia, che vuoi accaparrarti il signore - disse ridendo il grosso e grande banchiere.

A questa osservazione, il notaio e il presidente uscirono in espressioni più o meno maliziose; ma l'abate li guardò con aria scaltra e ne riassunse il pensiero, prendendo un pizzico di tabacco e offrendo in giro la tabacchiera: - Chi meglio della signora - disse - potrebbe fare al signore gli onori di Saumur?

- Cosa intendete dire con questo, signor abate? - domandò il signor de Grassins.' - Intendo dirlo, signore, nel senso più favorevole a voi, alla vostra signora, alla città di Saumur e al signore - aggiunse il vecchio scaltro volgendosi verso Carlo.

Senza mostrare di prestarvi la minima attenzione, l'abate Cruchot aveva saputo indovinare la conversazione fra Carlo e la signora de Grassins.

- Signore - disse poi Adolfo a Carlo, con un tono che avrebbe voluto fosse stato disinvolto - non so se vi ricordate di me; ebbi il piacere di essere vostro "vis à vis" in un ballo dato dal signor barone di Nucingen, e...

- Perfettamente, signore, perfettamente - rispose Carlo, sorpreso di vedersi al centro dell'attenzione di tutti.

- Il signore è vostro figlio? - chiese alla signora de Grassins.

L'abate guardò maliziosamente la madre.

- Sì, signore - essa disse.

- Eravate allora molto giovane, quando vi trovavate a Parigi - riprese a dire Carlo rivolgendosi ad Adolfo.

- Cosa volete, signore - disse l'abate - li mandiamo a Babilonia non appena svezzati.

La signora de Grassins lanciò all'abate uno sguardo interrogativo, d'una sorprendente profondità. - Bisogna venire in provincia - disse continuando - per trovare delle donne poco più che trentenni così fresche come la signora, pur avendo dei figli che tra poco saranno laureati in diritto. Mi sembra ancora di essere al tempo in cui i giovani e le signore salivano sulle sedie per vedervi ballare, signora - aggiunse l'abate volgendosi verso il suo avversario in gonnella. - Per me, i vostri successi sono di ieri...

"Ah!, che il vecchio scellerato" disse fra sé la signora de Grassins, "abbia dunque compreso il mio gioco?".

"A quel che pare, avrò molto successo a Saumur" pensava Carlo, sbottonandosi il soprabito, mettendo la mano nel panciotto e gettando il suo sguardo attraverso la spazio, per imitare l'atteggiamento dato a lord Byron da Chantrey.

La disattenzione di papà Grandet, o, per meglio dire, la preoccupazione in cui lo aveva immerso la lettura della lettera, non sfuggì né al notaio né al presidente, che cercavano d'indovinare il contenuto dagli impercettibili movimenti del viso del brav'uomo, in quel momento assai bene illuminato dalla candela. Il vignaiolo conservava a stento la calma abituale della sua fisionomia. Del resto, ognuno potrà immaginare il contegno ostentato da quest'uomo nel leggere la seguente lettera fatale:

"Fratello caro, fra poco saranno ventitré anni che non ci vediamo.

Il mio matrimonio fu la ragione del nostro ultimo incontro, dopo il quale ci lasciammo lieti, l'uno e l'altro. Certo, non potevo prevedere che tu saresti diventato l'unico sostegno della famiglia, alla prosperità della quale tu allora bene auspicavi.

Quando avrai questa lettera tra le mani, io non sarò più. Data la posizione in cui mi trovavo, non ho voluto sopravvivere all'onta di un fallimento. Mi sono retto all'orlo dell'abisso fino all'ultimo momento, sperando sempre di salvarmi. Bisogna sprofondarvisi. Le bancarotte del mio agente di cambio e di Roguin, mio notaio, unite insieme, mi tolgono le estreme risorse e non mi lasciano più nulla. Ho il dolore di essere debitore di circa quattro milioni, senza poter offrire più del venticinque per cento di attivo. I vini che ho in magazzino subiscono in questo momento il ribasso rovinoso causato dall'abbondanza e dalla qualità dei vostri raccolti. Fra tre giorni Parigi dirà: 'Il signor Grandet era un briccone!'. E io, uomo probo, mi distenderò avvolto in un sudario d'infamia. Tolgo a mio figlio e il suo nome, che macchio, e il patrimonio di sua madre. Questo sventurato ragazzo, che idolatro, non sa nulla. Ci siamo detti addio teneramente. Egli ignorava, per fortuna, che gli ultimi flutti della mia vita si riversavano in quell'addio. Non mi maledirà, egli, un giorno? Fratello mio, fratello mio, la maledizione dei nostri figli è spaventosa; essi possono chiedere appello contro la nostra, ma quella loro è irrevocabile. Tu sei il maggiore, tu devi accordarmi la tua protezione: fa' che Carlo non lanci alcuna parola amara sulla mia tomba! Fratello caro, se ti scrivessi col mio sangue e con le mie lacrime, in questa lettera non ci sarebbe tanto dolore quanto io ve ne metto poiché piangerei, sanguinerei, sarei morto e non soffrirei più; ma io soffro e guardo la morte con ciglio asciutto. Eccoti dunque padre di Carlo!, il quale non ha parenti dal lato materno, e sai perché. Perché non ho io ubbidito ai pregiudizi sociali? Perché ho ceduto all'amore? Perché mai ho sposato la figlia naturale d'un gran signore? Carlo non ha più famiglia. O mio sventurato figlio! Figlio mio! Ascoltami: io non vengo con questa mia a implorare nulla per me; del resto, i tuoi beni non sono di tale entità da sopportare un'ipoteca di tre milioni: ma per mio figlio! Sappilo bene, fratello mio, le mie mani supplichevoli si sono congiunte pensando a te. Ti affido, morendo, Carlo. E ora guardo le mie pistole senza dolore, pensando che tu gli farai da padre. Mi voleva tanto bene, Carlo; e io ero tanto buono con lui, non lo contrariavo mai: egli non mi maledirà.

Del resto, vedrai; è dolce, ha preso di sua madre, non ti darà mai dispiaceri. Povero ragazzo! Abituato ai godimenti del lusso, non conosce nessuna delle privazioni cui ci condannò da ragazzi la nostra miseria... Ed eccolo rovinato, solo. Tutti gli amici lo sfuggiranno, e io sarò la causa delle sue umiliazioni. Ah, come vorrei avere braccia così forti da lanciarlo con un sol tratto in cielo, vicino a sua madre! Follia! Torno alla mia disgrazia e a quella di Carlo. L'ho dunque mandato da te perché lo informi coi dovuti riguardi della mia morte e del suo destino. Sii un padre per lui, un buon padre. Non strapparlo d'un tratto dalla sua vita inoperosa: lo uccideresti. Gli chiedo in ginocchio di rinunciare ai crediti che quale erede di sua madre potrebbe rivendicare contro di me. Ma questa è una preghiera superflua; egli ha il senso dell'onore e sentirà il dovere di non unirsi ai miei creditori. Fallo rinunciare alla mia successione in tempo utile.

Rivelagli le dure condizioni di vita in cui lo pongo; e, se mi conserva il suo affetto, digli a mio nome che tutto non è perduto per lui. Sì, il lavoro, che ha salvato me e te, può rendergli la ricchezza che io gli tolgo; e, se vuole ascoltare la voce di suo padre, che per lui vorrebbe uscire un istante dalla tomba, parta, vada nelle Indie! Fratello mio, Carlo è un giovane probo, e coraggioso: acquista per lui una qualche paccottiglia, e sii certo che morirebbe piuttosto che non restituirti i primi denari che gli presterai; perché tu glieli presterai, no? Altrimenti ne proveresti rimorso. Ah!, se mio figlio non trovasse in te né aiuti né affetto, chiederei eternamente a Dio vendetta della tua durezza. Se avessi potuto salvare qualcosa, avrei il diritto di lasciargli una somma sul patrimonio di sua madre; ma i pagamenti di fine mese hanno assorbito tutte le mie risorse. Non avrei voluto morire nel dubbio sulla sorte di mio figlio; avrei voluto ricevere sante promesse nel calore della tua mano, che mi avrebbe rinfrancato, ma mi manca il tempo. Mentre Carlo è in viaggio, devo approntare il mio bilancio. Procurerò di dimostrare, con la buona fede cui sono sempre stati ispirati i miei affari, che nel mio disastro non c'è né colpa né disonestà. E non è anche questo un modo di occuparmi di Carlo? Addio, fratello mio. Che tutte le benedizioni di Dio scendano su di te per la generosa tutela che ti affido e che, non ne dubito, accetterai. Ci sarà sempre una voce che pregherà per te nel mondo in cui dobbiamo tutti andare un giorno, e dove io già mi trovo.

Vittorio Angelo Guglielmo Grandet".

- Stavate discorrendo? - disse papà Grandet ripiegando con esattezza la lettera secondo le stesse sue pieghe e mettendola nella tasca del panciotto. Poi guardò suo nipote con un'aria dimessa e timorosa dietro la quale nascose le proprie emozioni e i propri calcoli. - Vi siete riscaldato?

- Benissimo, caro zio.

- E dove sono le nostre donne? - disse lo zio già dimenticando che il nipote era suo ospite. In quel momento Eugenia e la signora Grandet rientrarono.

- E' tutto a posto lassù? - chiese loro il brav'uomo ritrovando la sua calma.

- Sì, papà.

- E allora, caro nipote, se vi sentite stanco, Nanon vi accompagnerà alla vostra camera. Non sarà certo un appartamento degno di un damerino, e scuserete questi poveri vignaioli che non hanno mai un soldo. Le tasse ci mangiano tutto.

- Non vogliamo essere indiscreti, Grandet - disse il banchiere. - Avrete forse da parlare con vostro nipote, vi diamo la buona notte. A domani!

A queste parole tutti si alzarono e ciascuno fece il suo inchino a seconda del proprio carattere. Il vecchio notaio andò a cercare sotto la porta la lanterna e l'accese, offrendo ai de Grassins di accompagnarli.

Non avendo la signora de Grassins previsto l'incidente che aveva fatto terminare prima del tempo la serata, il suo domestico non era ancora arrivato.

- Volete farmi l'onore d'accettare il mio braccio, signora? - disse l'abate Cruchot alla signora de Grassins.

- Grazie, signor abate. Ho mio figlio - rispose seccamente.

- Le signore non si possono compromettere con me - disse l'abate.

- Dà dunque il braccio al signor Cruchot - le disse suo marito.

L'abate condusse la bella signora così rapidamente da precedere di qualche passo la comitiva.

- E' in gamba, quel giovanotto, signora - le disse stringendole il braccio. - Addio raccolto, tutto è distrutto! Vi conviene dire addio alla signorina Grandet, Eugenia sarà del parigino. A meno che questo cugino non sia incapricciato d'una qualche parigina, vostro figlio Adolfo troverà in lui il rivale più...

- Lasciate stare, signor abate. Il giovane non tarderà ad accorgersi che Eugenia è una sciocchina, una ragazza senza freschezza. L'avete vista bene? Questa sera era gialla come una mela cotogna.

- E voi l'avete forse già fatto notare al cugino.

- Non mi è costato molto...

- Mettetevi sempre vicino a Eugenia, signora, e non avrete bisogno di dire troppe cose al giovane contro sua cugina, farà lui stesso un paragone che...

- Intanto, egli mi ha promesso di venire a pranzo da me dopodomani...

- Ah!, se voi voleste, signora - disse l'abate.

- E cosa volete che io voglia, signor abate? Vorreste darmi dunque dei cattivi consigli? Non sono mica arrivata all'età di trentanove anni con una reputazione, grazie a Dio, senza macchia, per comprometterla, neanche se si trattasse dell'impero del Gran Mogol. Siamo giunti tutti e due a un'età in cui si conosce il valore delle parole. Per essere un ecclesiastico, avete delle idee impertinenti. Oibò, tutto questo è degno di "Faublas".

- Avete dunque letto "Faublas"?

- No, signor abate, volevo dire le "Relazioni pericolose".

- Ah, quest'opera è infinitamente più morale - disse ridendo l'abate. - Ma voi mi credete perverso come un giovane d'oggigiorno! Volevo semplicemente...

- Osate dunque sostenere che non pensavate di suggerirmi delle brutte cose? Ma tutto questo è ben chiaro! Se il giovane, molto in gamba, ne convengo, mi facesse la corte, non penserebbe più a sua cugina. A Parigi, lo so, certe brave mamme si sacrificano così per la felicità e la fortuna delle loro figlie; ma noi siamo in provincia, signor abate.

- Sì, signora.

- E - essa riprese - né io né lo stesso Adolfo vorremmo guadagnare cento milioni a un tale prezzo...

- Signora, io non ho parlato affatto di cento milioni. In questo caso la tentazione sarebbe stata forse superiore alle nostre forze. Credo soltanto che una signora per bene possa permettersi, con le più oneste delle intenzioni, quelle civetterie senza conseguenze, che fanno parte dei suoi doveri di società e che...

- Credete?

- Non dobbiamo forse, signora, procurare di essere piacevoli gli uni con gli altri?... Permettetemi di soffiarmi il naso. Posso assicurarvi, signora - egli riprese - che il giovane vi guardava attraverso l'occhialetto con un'aria un po' più lusinghiera di quella che aveva nel guardare me; ma gli perdono di onorare più la bellezza che la vecchiaia...

- E' chiaro - diceva il presidente con la sua grossa voce - che il signor Grandet di Parigi manda suo figlio a Saumur con intenzioni assolutamente matrimoniali...

- Ma, in questo caso, il cugino non sarebbe caduto qui come una bomba - rispose il notaio.

- Questo non vorrebbe dire nulla - disse il signor de Grassins - il brav'uomo è misterioso.

- Mio caro, ho invitato a pranzo quel giovane. Bisognerà che tu inviti i signori di Larsonnière e i d'Hautoy, con la bella signorina d'Hautoy, ben inteso: purché quel giorno si vesta bene!

La madre, per gelosia, la infagotta sempre così male! E spero, signori, ci farete l'onore di venire anche voi - essa aggiunse, arrestando la comitiva per rivolgersi ai due Cruchot.

- Eccovi arrivata, signora - disse il notaio.

Dopo avere salutato i tre de Grassins, i tre Cruchot si diressero verso la loro casa, adoperando quel genio dell'analisi che posseggono i provinciali per studiare sotto tutti gli aspetti il grande avvenimento di quella serata, il quale cambiava le posizioni rispettive dei Crusciottiani e dei Grassinisti.

L'ammirevole buon senso che guidava gli atti di quei grandi calcolatori, fece sentire agli uni e agli altri la necessità di un'alleanza temporanea contro il nemico comune. Non dovevano mutuamente impedire a Eugenia di amare il cugino, e a Carlo di pensare alla cugina? E avrebbe potuto il parigino resistere alle insinuazioni perfide, alle calunnie dolciastre, alle maldicenze piene di elogi, alle opposizioni ingenue che lo avrebbero costantemente circuito, e invischiato, come le api avvolgono di cera la chiocciola caduta nella loro arnia?

Quando i quattro parenti furono soli nella sala, il signor Grandet disse a suo nipote: - Andiamocene a letto. Adesso è troppo tardi per parlare degli affari che vi hanno condotto qui; sceglieremo domani il momento favorevole. Qui facciamo colazione alle otto. A mezzogiorno mangiamo un po' di frutta, e un po' di pane, in fretta, bevendoci sopra un bicchiere di vino bianco; poi pranziamo, come i parigini, alle cinque. Questo è il nostro orario. Se volete visitare la città e i dintorni, siete libero come l'aria. Mi scuserete se le occupazioni non mi consentiranno sempre di accompagnarvi. Tutti qui vi diranno che io sono ricco:

il signor Grandet qui, il signor Grandet là! Io li lascio dire, le loro chiacchiere non nuocciono affatto al mio credito. Ma la verità è che non ho un soldo, e che alla mia età lavoro ancora come un giovane operaio, il quale in tutto possiede una cattiva pialla e due buone braccia. Voi stesso vedrete forse tra breve quel che vale uno scudo quando bisogna sudarselo. Andiamo, Nanon:

le candele!

- Spero, nipote caro, che troverete tutto ciò che vi occorre - disse la signora Grandet - ma se qualcosa vi mancasse, non avete che da chiamare Nanon.

- Mia cara zia, sarà difficile; credo di aver portato con me tutte le mie cose! Permettetemi di augurare la buona notte a voi e alla mia giovane cugina.

Carlo prese dalle mani di Nanon una stearica accesa, una stearica dell'Angiò, dal colore ben giallo, invecchiata in bottega, e così simile a una candela di sego, che il signor Grandet, incapace di sospettarne l'esistenza in casa sua, non si accorse di una tale magnificenza.

- Vi faccio strada - disse il bonuomo.

Invece di uscire dall'uscio della sala che dava nell'androne, Grandet usò il riguardo di passare per il corridoio, che separava la sala dalla cucina. Un uscio a battenti guarnito d'un grande vetro ovale chiudeva il corridoio dalla parte della sala, per attenuare il freddo che vi si sarebbe ingolfato. Tuttavia d'inverno il vento gelato vi fischiava ugualmente con violenza e, nonostante le imbottiture applicate agli usci della sala, il calore a stento vi si manteneva in un grado sufficiente. Nanon andò a sprangare il portone, chiuse la sala, e sciolse in scuderia un cane lupo, la cui voce era rauca come se soffrisse di laringite. La bestia, piuttosto feroce, conosceva solo Nanon.

Queste due creature dei campi s'intendevano bene fra loro. Quando Carlo vide le mura giallastre affumicate della tromba della scala, della ringhiera tarlata, tremolante sotto il passo pesante dello zio, il suo disappunto si andò "rinforzando" [In italiano nel testo].

Credette di trovarsi in un pollaio. La zia e la cugina, verso le quali si volse come per interrogarne i volti, erano così abituate a quella scala, che, non indovinando la ragione del suo stupore, lo interpretarono come un'espressione affettuosa, e risposero a esso con un sorriso gentile che esasperò il giovanotto. "Che diavolo mio padre mi manda a fare qui?" si domandava. Arrivato al primo pianerottolo, egli scorse tre usci dipinti in rosso etrusco e privi d'intelaiatura, usci sperduti nelle mura polverose e muniti di sbarre di ferro bullonate, ben visibili, e terminanti a mo' di fiamme, come a ogni estremo la lunga bocca delle serrature.

Dei tre, l'uscio che si trovava in cima alla scala e che dava accesso alla stanza situata sopra la cucina era evidentemente murato. In essa si penetrava infatti solo dalla camera di Grandet, cui quella stanza serviva da studio. L'unica finestra da cui riceveva luce era protetta, sul cortile, da grosse sbarre di ferro a grata. Nessuno, neppure la signora Grandet, poteva entrarci. Il brav'uomo voleva starci solo, come un alchimista al suo fornello.

Là, senza dubbio, era stato abilissimamente praticato qualche nascondiglio, là erano immagazzinati i titoli di proprietà, là pendevano le bilance per la pesatura dei luigi, là si compilavano, col favore della notte e in segreto, le quietanze, le ricevute, i calcoli, in modo che le persone d'affari, trovando Grandet sempre pronto in tutto, potevano credere che egli avesse ai suoi ordini una fata o un demonio. Là, senza dubbio, quando Nanon russava in maniera da far tremare il soffitto, quando il cane lupo vigilava e sbadigliava nel cortile, quando la signora e la signorina Grandet erano bene addormentate, entrava il vecchio bottaio per coccolare, accarezzare, covare, fermentare, accerchiare il suo oro. Le mura erano spesse, le imposte discrete. Lui solo possedeva la chiave di questo laboratorio dove, si diceva, consultava alcune mappe su cui erano indicati i suoi alberi da frutto e dove calcolava tutti i prodotti della sua terra, quasi propaggine per propaggine, fascina per fascina. L'ingresso alla camera di Eugenia si trovava di fronte a questo uscio murato. Poi, in fondo al pianerottolo, stava l'appartamento dei coniugi che si estendeva lungo tutta la facciata della casa. La camera della signora Grandet era attigua a quella di Eugenia e vi si accedeva per un uscio a vetri. La camera di Grandet era separata da quella di sua moglie mediante un tramezzo e dal misterioso studio mediante un grosso muro. Papà Grandet aveva alloggiato il nipote al secondo piano, nell'alta soffitta posta al di sopra della sua camera in modo da poterlo sorvegliare se avesse desiderato uscire. Quando Eugenia e sua madre giunsero nel mezzo del pianerottolo, si scambiarono il bacio della sera; poi, dopo aver rivolto a Carlo qualche parola di saluto, fredda sulle labbra, ma certo calorosa nel cuore della ragazza, entrarono nelle loro camere.

- Eccovi dunque a casa vostra, caro nipote - disse papà Grandet a Carlo, schiudendogli l'uscio. - Se avete bisogno di uscire, chiamate però Nanon. Senza di lei, servitor vostro!, il cane vi sbranerebbe d'un fiato. Dormite bene. Buona notte. Ah!, ah!, le mie donne vi hanno acceso il fuoco - riprese. In quell'istante Nanon apparve, armata d'uno scaldaletto. - Eccone un'altra! - disse il signor Grandet. Ma avete preso mio nipote per una gestante? Riporta indietro quella brace, Nanon.

- Ma, signore, le lenzuola sono umide, e il signore è delicato proprio come una donna.

- E andiamo, dunque, va', visto che te lo sei messo in testa - disse Grandet spingendola per le spalle - ma sta' attenta a non dar fuoco a nulla. - Poi, l'avaro discese borbottando vaghe parole.

Carlo rimase interdetto fra i suoi bagagli. Dopo aver dato uno sguardo ai muri d'una soffitta, parati con quella carta gialla a mazzi di fiori che tappezza le bettole suburbane, a un caminetto di pietra scannellata il cui solo aspetto metteva freddo, a seggiole di legno giallo guarnite di canna verniciata che sembravano avere più di quattro angoli, a un comodino aperto nel quale sarebbe potuto stare un sergentino dei "voltigeurs", al misero tappetino di grossolana stoffa da vivagno posto ai piedi di un letto a baldacchino le cui cortine tremavano come se stessero per cadere, corrose dalle tarme, guardò serio Nanon e le disse:

- Ma insomma, cara ragazza, sono proprio in casa del signor Grandet, ex sindaco di Saumur, fratello del signor Grandet di Parigi?

- Sì, signore, siete proprio in casa del più amabile, del più dolce, del più compito signore. Devo aiutarvi a disporre i vostri bauli?

- Ma certo, in fede mia, mio vecchio soldato! Avete forse voi fatto servizio coi marinai della guardia imperiale?

- Oh! Oh! Oh! Oh! - disse Nanon - che roba è questa: i marinai della guardia? E' roba salata? Roba che va sull'acqua?

- Suvvia, cercate la mia veste da camera che è in questa valigia.

Ecco qui la chiave.

Nanon rimase stupita nel vedere una veste da camera di seta verde a fiorami d'oro e a disegni antichi.

- E vi mettete quest'affare per andare a letto? - chiese.

- Sì.

- Santa Vergine! Che bel paliotto d'altare per la parrocchia! Ma caro signorino, donatelo alla chiesa, e vi salverete l'anima, altrimenti ve la farà perdere. Oh, come siete grazioso così! Vado a chiamare la signorina perché vi veda.

- Andiamo, Nanon, poiché così vi si chiama, volete stare zitta?

Lasciatemi coricare, metterò a posto le mie cose domani, e se la mia veste da camera vi piace tanto, sarete voi a salvarvi la vostra anima. Sono troppo buon cristiano per rifiutarvela andandomene, e allora ne potrete fare quello che vorrete.

Nanon rimase piantata sui suoi piedi, contemplando Carlo senza poter prestar fede alle sue parole.

- Regalarmi un così bell'ornamento? - disse andandosene. - Il signore già sogna. Buona notte.

- Buona notte, Nanon.

"Che cosa sono venuto a fare qui?" si disse Carlo addormentandosi.

"Mio padre non è uno sciocco, il mio viaggio deve avere uno scopo.

Bah!, a domani gli affari seri, diceva non so più quale grullo della Grecia".

"Santa Vergine, com'è grazioso mio cugino!" si disse Eugenia interrompendo le preghiere, che quella sera rimasero incomplete.

La signora Grandet non ebbe alcun pensiero, coricandosi. Sentiva, attraverso l'uscio di comunicazione posto al centro del tramezzo, che l'avaro andava su e giù per la stanza. Come tutte le mogli timide, aveva studiato a fondo il carattere del suo signore. Come la procellaria prevede la burrasca, da certi segni impercettibili lei aveva presentito la tempesta interiore che agitava Grandet e, per usare l'espressione di cui si serviva, in quei casi faceva la morta. Grandet guardava l'uscio internamente rivestito di lamiera che aveva fatto porre al suo studio e si diceva: "Quale idea bizzarra ha avuto mio fratello di lasciarmi in eredità suo figlio!

Bella successione! Io non ho da dargli neppure venti scudi. E che cosa sarebbero poi venti scudi per questo damerino, che guardava con l'occhialetto il mio barometro, come se avesse voluto farne del fuoco?".

E pensando alle conseguenze di quel testamento di dolore, Grandet era forse più agitato di quanto non lo fosse stato suo fratello nel momento di stenderlo.

"Avrò davvero quell'abito d'oro?..." diceva Nanon, che si addormentò vestita del suo paliotto d'altare, sognando fiori, tabì, damaschi, per sa prima volta in vita sua; mentre Eugenia fece sogni d'amore.

Nella pura e monotona vita delle giovinette, giunge un'ora deliziosa in cui il sole diffonde i suoi raggi nella loro anima, il fiore esprime pensieri, i palpiti del cuore comunicano al cervello la loro calda fecondità e fondono le idee in un vago desiderio; giorno d'innocente malinconia e di soavi gioie! Quando i bimbi cominciano a vedere, sorridono; quando una ragazza intravede il sentimento nella natura, sorride come sorrideva quand'era bimba. Se la luce è il primo amore della vita, l'amore non è forse la luce del cuore? Il momento di vedere chiaro nelle cose di questo mondo era giunto per Eugenia. Mattiniera come tutte le ragazze di provincia, si levò di buon'ora, recitò la preghiera e iniziò la toletta, occupazione che da quel giorno cominciava ad avere uno scopo. Lisciò dapprima i suoi capelli castani, ne avvolse le grosse trecce sulla testa con la più grande cura, evitando che i capelli uscissero fuori dalle trecce, e diede alla sua pettinatura una simmetria che pose in risalto il timido candore del suo volto, armonizzando la semplicità dei particolari con l'ingenuità dei lineamenti. Lavandosi più volte le mani nell'acqua pura che le induriva e arrossava la pelle, essa si guardò le belle braccia rotonde, e si chiese come facesse suo cugino ad aver le mani così morbidamente bianche, le unghie così ben curate. Si mise le calze nuove e le scarpe più graziose. Si allacciò accuratamente, non tralasciando alcun occhiello. Infine, desiderando, per la prima volta in vita sua, di apparire bella, si rese conto del piacere di possedere un abito nuovo, ben tagliato, che la rendesse attraente. Quando la sua toletta fu terminata, sentì suonare l'orologio della parrocchia e si meravigliò che fossero solo le sette. Il desiderio di avere tutto il tempo necessario per acconciarsi bene l'aveva fatta alzare troppo presto. Ignara dell'arte di accomodare dieci volte un ricciolo e di studiarne l'effetto, Eugenia incrociò le braccia, si affacciò alla finestra, contemplò il cortile, lo stretto giardino e le alte terrazze che lo dominavano; veduta malinconica, limitata, ma non priva di quelle misteriose bellezze che sono proprie dei luoghi solitari o della natura incolta. Appresso alla cucina c'era un pozzo circondato da un parapetto, con una carrucola sostenuta da un braccio di ferro ricurvo, al quale si avvolgeva una vite dai pampini vizzi, arrossati, riarsi dal sole. Da lì, il tortuoso tralcio saliva per il muro, ci si abbarbicava, correva lungo la casa e terminava su di una legnaia dove la legna era disposta con tanta esattezza quanta possono averne i libri d'un bibliofilo. Il selciato del cortile aveva quelle tinte nerastre prodotte col tempo dai muschi, dalle erbe, e dall'assenza di transito. Le mura spesse erano rivestite come d'una camicia verde, striata di lunghe tracce scure. Finalmente, gli otto gradini sovrastanti in fondo al cortile e che conducevano alla porta del giardino, erano sconnessi e sepolti sotto alte erbe, come la tomba d'un cavaliere sotterrato dalla vedova al tempo delle crociate. Al di sopra di uno strato di pietre tutte corrose, si levava un cancello di legno marcito, mezzo cadente per la sua vecchiaia, ma al quale si congiungevano capricciosamente alcune piante rampicanti. Ai lati del cancello si protendevano i rami attorti di due meli imbozzacchiti. Tre viali paralleli, imbrecciati e separati da aiuole la cui terra era trattenuta da un bordo di bosso, componevano il giardino che terminava sotto la terrazza, in un ombroso boschetto di tigli. A un capo, piante di lamponi; all'altro, un immenso noce che curvava i suoi rami fino allo studio del bottaio. Una giornata limpida e il bel sole degli autunni, propri delle rive della Loira, cominciavano a dissipare la velatura impressa dalla notte ai pittoreschi elementi, ai muri, alle piante che ornavano il giardino e il cortile. Eugenia scoprì incanti del tutto nuovi nell'aspetto di queste cose, che fino allora erano state così comuni per lei. Mille pensieri confusi nascevano nella sua anima, e vi crescevano via via che crescevano al di fuori i raggi del sole. Essa provò insomma quel moto di piacere vago, inesplicabile, che avvolge l'essere morale, come una nube avvolgerebbe l'essere fisico. Le sue riflessioni si accordavano con i particolari di quel singolare paesaggio, e le armonie del suo cuore si allearono con le armonie della natura. Quando il sole raggiunse un'ala di muro, da cui piovevano dei capelvenere dalle foglie spesse a colori cangianti come il collo dei piccioni, celesti raggi di speranza illuminarono l'avvenire di Eugenia, che ora provò diletto a guardare quell'ala di muro, i suoi fiori pallidi, le sue campanelle azzurre e le sue erbe appassite, cui si fuse un ricordo gentile come quelli dell'infanzia. Il fruscio che ogni foglia faceva in quel cortile sonoro, staccandosi dal proprio ramo, rispondeva alle segrete interrogazioni della ragazza, che sarebbe rimasta lì, tutta la giornata, senza accorgersi della fuga delle ore. Poi sopraggiunsero tumultuosi moti dell'anima. Si alzò più volte, si mise davanti allo specchio, e vi si mirò come un autore in buona fede contempla la propria opera per criticarsi e per dir male di se stesso.

Non sono abbastanza bella per lui. Questo era il pensiero di Eugenia, pensiero umile e fecondo di sofferenze. La povera ragazza non era giusta verso se stessa; ma la modestia, o meglio il timore, è una delle prime virtù dell'amore. Eugenia apparteneva proprio a quel tipo di gioventù di forte costituzione, come se ne trova nella piccola borghesia, e la cui bellezza sembra volgare; ma, pur somigliando alla Venere di Milo, le sue forme erano ingentilite da quella soavità del sentimento cristiano che purifica la donna e le dà una distinzione sconosciuta agli scultori antichi. Aveva una grossa testa, la fronte maschia ma delicata del Giove di Fidia, e gli occhi grigi ai quali la sua casta vita, riflettendovisi interamente, imprimeva una luce sprizzante. I lineamenti del suo volto tondeggiante, un tempo fresco e roseo, erano stati ingrossati da un vaiolo abbastanza clemente da non lasciarvi traccia, ma che aveva distrutto il vellutato della pelle, così dolce e fine, tuttavia, che il puro bacio della madre vi lasciava al passaggio un segno rosso. Il naso era un po' troppo pronunciato, ma si armonizzava con una bocca d'un rosso carminio, le cui labbra increspate erano piene d'amore e di bontà. Il collo era d'un rotondo perfetto. Il seno colmo, accuratamente velato, attirava lo sguardo e faceva sognare; gli mancava senza dubbio un po' di quella grazia che dona la toletta; ma, per chi se ne intendeva, la rigidezza dell'alta statura doveva costituire un fascino. Eugenia, alta e robusta, non aveva dunque niente di quel grazioso che piace ai più; ma era bella, di quella bellezza così facile a riconoscersi e di cui si invaghiscono soltanto gli artisti. Il pittore che sulla terra cerca un modello per la celeste purezza di Maria, che chiede a tutta la natura femminile quegli occhi modestamente fieri divinati da Raffaello, quelle linee virginali che talvolta dà la natura, ma che una vita cristiana e pudica può solo conservare o far acquisire: un tale pittore, innamorato di un così raro modello, avrebbe trovato subito nel volto di Eugenia la nobiltà innata ignara di se stessa; avrebbe visto sotto una fronte calma un mondo d'amore, e nel taglio degli occhi, nella conformazione delle palpebre, un non so che di divino. I suoi tratti, il sembiante che l'espressione del piacere non aveva mai né alterato né stancato, somigliavano alle linee d'orizzonte dolcemente spiccanti nella lontananza dei laghi tranquilli. Quella fisionomia calma, colorita, circonfusa di luce come un leggiadro fiore appena schiuso, riposava l'animo, comunicava l'incanto della coscienza che ci si rifletteva, e avvinceva lo sguardo. Eugenia era ancora sulla riva della vita, dove fioriscono le illusioni infantili, dove si colgono le margherite con un piacere che diventerà più tardi sconosciuto.

Sicché, specchiandosi, senza sapere ancora cosa fosse l'amore, si disse: "Sono troppo brutta, non mi guarderà neppure".

Poi aprì l'uscio della sua camera che dava sulle scale, e tese l'orecchio per ascoltare i rumori della casa. "Non si è ancora alzato" pensò, ascoltando la tosse mattinale di Nanon che andava e veniva, spazzava la sala, accendeva il fuoco, rimetteva il cane alla catena e discorreva con le sue bestie nella stalla. Quindi scese subito, e corse da Nanon che mungeva la mucca.

- Nanon, mia buona Nanon, fa un po' di crema per il caffè di mio cugino.

- Ma signorina, bisognava pensarci ieri - disse Nanon, che diede in una grossa risata. - Non posso farla la crema. Ma quanto è carino, vostro cugino, carino, ma proprio carino! Voi non lo avete visto nella sua palandrana di seta e d'oro. Io invece, sì. La sua biancheria è fine come la cotta del signor curato.

- Nanon, allora preparaci una focaccia.

- E chi mi dà la legna per il fuoco, e la farina, e il burro? - disse Nanon la quale, nella sua qualità di primo ministro di Grandet, assumeva a volte un'importanza enorme agli occhi di Eugenia e di sua madre. - Vogliamo derubare il padrone per trattar bene vostro cugino? Chiedeteglielo voi il burro, la farina, la legna: è vostro padre, e ve ne può dare. Eccolo che scende per le provviste...

Eugenia scappò in giardino, tutta spaventata nel sentir tremare la scala sotto i passi di suo padre. Provava già gli effetti di quel profondo pudore e di quella coscienza particolare della nostra felicità che ci fa credere, forse non senza ragione, che i nostri pensieri siano scritti in fronte e che balzino agli occhi altrui.

Accorgendosi finalmente della gelida nudità della casa paterna, la povera giovane provava una specie di dispetto nel non poterla mettere in armonia con l'eleganza del cugino. Provò un bisogno appassionato di fare qualcosa per lui: che cosa? Lei stessa non ne sapeva nulla. Ingenua e schietta, si abbandonava alla sua natura angelica senza diffidare delle sue impressioni e dei suoi sentimenti. Il solo vedere suo cugino aveva destato in lei le inclinazioni naturali della donna, e queste dovettero dispiegarsi tanto più vivacemente in quanto, avendo raggiunto i ventitré anni, si trovava nella pienezza della sua intelligenza e dei suoi desideri. Per la prima volta sentì nel cuore una specie di terrore alla vista del padre, vide in lui il padrone della propria sorte, e si credette colpevole di un fallo nascondendogli qualcuno dei suoi pensieri. Si mise a camminare a passi precipitosi, meravigliandosi di respirare un'aria più pura, di sentire i raggi del sole più vivificanti, e di attingervi un calore morale, una vita nuova. Mentre cercava un pretesto per far fare la focaccia, si accendeva tra Nanon e Grandet uno di quei battibecchi così rari tra di loro come le rondini d'inverno. Munito delle sue chiavi egli era sceso per misurare la quantità dei viveri necessari ai pasti della giornata - E' avanzato pane di ieri? - disse a Nanon.

- Neanche una briciola, signore.

Grandet prese una grossa pagnotta, ben infarinata, formata in uno di quei panieri piatti che servono per fare il pane in Angiò e stava per tagliarla, quando Nanon gli disse:

- Oggi siamo in cinque, signore.

- E' vero - rispose Grandet - ma la pagnotta pesa sei libbre, e ne avanzerà. E poi, vedrai, questi giovanotti di Parigi non mangiano pane.

- E allora mangeranno la "frippe" - disse Nanon.

Nell'Angiò la frippe, parola del lessico popolare, significa quel che si mangia col pane: dal burro spalmato sui crostini, "frippe" volgare, fino alla marmellata di pesca, la più fine delle "frippe"; e tutti quelli che, nell'infanzia, hanno leccato la "frippe" e lasciato il pane, capiranno la portata di questa locuzione.

- No - rispose Grandet - non mangiano né "frippe" né pane. Sono quasi come ragazze da marito.

Infine, dopo aver parsimoniosamente ordinato il pasto quotidiano, il brav'uomo stava per avviarsi verso la piccola stanza in cui si conservava la frutta, dopo avere, beninteso, chiuso gli armadi della dispensa, quando Nanon lo fermò per dirgli: - Signore, datemi però farina e burro per fare una focaccia ai ragazzi.

- Ma vorresti forse saccheggiare la casa per mio nipote?

- Non pensavo proprio a vostro nipote più che al cane, più di quanto non ci pensiate voi. Ma intanto non mi avete dato che sei pezzi di zucchero, e ce ne vogliono otto.

- Ohé!, Nanon, sai che non ti ho mai visto a questo modo? Ma che cosa ti passa dunque per la testa? Sei forse la padrona tu, qui?

Sei pezzi di zucchero bastano.

E allora vostro nipote con che cosa addolcirà il caffè?

- Con due pezzi; ne farò a meno io.

- Voi fare a meno dello zucchero, alla vostra età? Preferirei comprarvelo di tasca mia.

- Impicciati dei fatti tuoi.

Nonostante il calo del prezzo, lo zucchero era sempre, agli occhi del bottaio, la più preziosa derrata coloniale, e per lui valeva sempre sei franchi la libbra. L'obbligo di economizzarlo, sotto l'Impero, era diventata la sua più indelebile abitudine. Ma tutte le donne, anche le più semplici, sanno giocare d'astuzia per raggiungere i loro scopi, e così Nanon lasciò la faccenda dello zucchero per ottenere la focaccia.

- Signorina - gridò dalla finestra - non è vero che volete la focaccia?

- No, no - rispose Eugenia.

- Andiamo, Nanon - disse Grandet sentendo la voce della figlia- prendi. - Aprì la madia dov'era la farina, gliene diede la quantità giusta e aggiunse qualche oncia di burro al pezzo che aveva già tagliato.

- Ora ci vuole la legna per accendere il forno - disse l'implacabile Nanon.

- Va bene, prendine quanta ne occorre - gli rispose malinconicamente - ma allora fa' una torta di frutta e cuoci al forno tutto la cena, così non accenderai due fuochi.

- Eh! - esclamò Nanon - non avete bisogno di dirmelo.

Grandet gettò sul suo fedele ministro uno sguardo quasi paterno. - Signorina - gridò la cuoca - avremo una focaccia - . Papà Grandet ritornò carico di frutta e ne dispose una prima scodellata sul tavolo di cucina. - Guardate, signore - gli disse Nanon - che begli stivali ha vostro nipote! Che cuoio, e come odora! Ma con che cosa si puliscono, questi? Devo usare il vostro lucido all'uovo?

- Nanon, credo che l'uovo guasterebbe quel cuoio. Del resto, tu digli che non conosci il modo di dar la cera al marocchino, sì, è marocchino, e vedrai che lui stesso a Saumur comprerà e ti porterà quel che occorre per lucidare i suoi stivali. Ho sentito dire che in quella vernice ci mettono dello zucchero per renderla brillante.

Allora è buona da mangiare - disse la domestica avvicinando gli stivali al suo naso. - Ma senti, ma senti, odorano come l'acqua di colonia della signora. Ah, che cosa curiosa!

- Curioso! - disse il padrone - trovi curioso spendere per gli stivali più soldi di quanti non ne valga chi li porta?

- Signore - essa disse al secondo viaggio del suo padrone che aveva chiuso lo stanzino della frutta, - non mi farete fare il bollito un paio di volte alla settimana, dato che c'è vostro...

- Sì.

- Allora dovrò andare dal macellaio.

- Niente affatto, ci farai il brodo di pollo, i fittavoli non te lo faranno mancare. Ma voglio dire a Cornoiller di ammazzarmi qualche corvo. E' la selvaggina che fa il miglior brodo del mondo.

- E' vero, signore, che mangiano i morti?

- Che stupida sei, Nanon! Mangiano, come tutti, quello che trovano. E forse che pure noi non viviamo di morti? Che cosa è la successione? - Papà Grandet, non avendo altri ordini da impartire, tirò fuori l'orologio e, vedendo che poteva ancora disporre di una mezz'ora prima della colazione, prese il cappello, baciò la figlia e le disse: - Vuoi fare una passeggiata lungo la Loira, per i miei prati? Ci devo sbrigare qualche faccenda.

Eugenia andò a mettersi il cappello di paglia, foderato di taffetà rosa; poi, padre e figlia discesero per la strada tortuosa fino alla piazza.

- Dove ve ne andate, così di buon mattino? - disse il notaio Cruchot incontrando Grandet.

- A vedere alcune cosette - questi rispose senza lasciarsi ingannare circa lo scopo della passeggiata mattutina dell'amico.

Quando papà Grandet andava a vedere qualche cosa, il notaio sapeva per esperienza che c'era sempre di che guadagnare con lui. E perciò lo accompagnò.

- Venite, Cruchot? - disse Grandet al notaio. - Poiché vi annovero fra i miei amici, vi dimostrerò come sia una bestialità piantare i pioppi in un buon terreno...

- E vi sembrano dunque niente i sessantamila franchi che vi hanno fatto intascare quelli che avevate nelle vostre praterie della Loira? - disse Cruchot spalancando due occhi inebetiti. - Siete stato fortunato! Tagliare gli alberi proprio quando a Nantes mancava il legno bianco e venderli a trenta franchi!

Eugenia ascoltava senza sapere che era arrivata al momento più solenne della sua vita e che il notaio si accingeva a far pronunciare su di lei una decisione paterna e sovrana. Grandet era arrivato ai magnifici prati che possedeva sulle rive della Loira e dove trenta braccianti erano intenti a sterrare, colmare, livellare le fosse occupate prima dai pioppi.

- Cruchot, guardate quanto terreno occupa un pioppo - disse al notaio. - Giovanni - gridò a un bracciante - mi... mi... misura con la canna in tu... tu... tutti i sensi!

- Quattro volte otto piedi - rispose il bracciante, dopo aver finito.

- Trentaduepiedi perduti - disse Grandet a Cruchot. - Avevo su questa linea trecento pioppi, non è vero ? Ora... trece... ce...

ce... cento volte trenta d... ue pie... piedi me ne man... man...

man... mangiavano ci... inquecento di fieno; aggiungeteci due volte tanto ai lati, millecinquecento; altrettanto le file del centro. In totale me... me... mettiamo mille balle di fieno.

- Ebbene! - disse Cruchot, per aiutare il suo amico - mille balle di quel fieno valgono circa seicento franchi.

- Di.. di.. dite mi... mi... mille duecento perché ce ne sono tre o quattrocento di guaime. Allora, ca... ca... ca... calcolate quel che mi... milleduecento franchi all'anno du... du... durante quaranta anni da.. danno co... co... con gli in.. in... interessi con... con... composti che... che... che... sapete.

- Vada per sessantamila franchi - disse il notaio.

- Lo credo bene! Sa... sa... saranno sessantamila franchi. E allora - riprese il vignaiolo senza più balbettare - duemila pioppi di quarant'anni non mi renderebbero neppure cinquantamila franchi. C'è dunque una perdita. Sono stato io ad accorgermi di questo - disse Grandet, assumendo un'aria orgogliosa. - Giovanni - riprese a dire-colma le fosse, non quelle dalla parte della Loira, dove pianterai i pioppi che ho comprato. Vicino alla riva, si nutriranno a spese del governo - aggiunse volgendosi verso Cruchot e imprimendo alla verruca del suo naso un leggero movimento che valeva come il più ironico dei sorrisi.

- E' chiaro: i pioppi non si devono piantare che su terreni magri - disse Cruchot, stupefatto dai calcoli di Grandet.

- Signorsì - rispose ironicamente il bottaio.

Eugenia, che contemplava il sublime paesaggio della Loira senza ascoltare i calcoli del padre, prestò invece attenzione alla parole di Cruchot sentendo dire al suo cliente: E così, avete fatto venire un genero da Parigi; non si parla che di vostro nipote in tutta Saumur. Avrò presto un contratto da stipulare, papà Grandet?

- Vo... voi siete u... u... scito di buo... buon'ora per dirmi questo ? - riprese Grandet, accompagnando tale riflessione con un movimento della verruca. - Ebbene, mio vecchio cameeeerata, sarò franco, vi dirò quel che vooo... vooo... lete sa... sapere.

Preferirei, veeedete ge... gettare mia fi... fi... figlia nella Loira, piuttosto che daaarla a sua cuuugino: po... po... tete diiirlo a tutti. Ma no, lasciate pure che la gen... te chiacchieri.

Questa risposta diede il capogiro a Eugenia. Le lontane speranze che avevano cominciato a spuntare nel suo cuore, d'un subito fiorirono, si realizzarono e formarono un fascio di fiori, che vide recisi e giacenti a terra. Dal giorno precedente, essa s'era attaccata a Carlo con tutti quei legami di felicità che uniscono le anime; ormai li avrebbe corroborati il dolore. Non è forse nobile destino della donna quello d'esser più toccata dalle pompe della miseria che dagli splendori della fortuna? Come mai il sentimento paterno aveva potuto spegnersi in fondo al cuore di suo padre? Di quale delitto Carlo era colpevole? Domande misteriose!

Il suo amore nascente, mistero tanto profondo, si avvolgeva già di misteri. Si incamminò verso casa con le gambe tremanti e, imboccando la vecchia strada scura, prima così gaia per lei, le trovò un aspetto triste, ci respirò la malinconia che il tempo e le cose vi avevano impresso. L'amore le aveva impartito tutti i suoi insegnamenti. A pochi passi dalla casa, precedette il padre e l'attese alla porta dopo aver picchiato. Ma Grandet, visto nelle mani del notaio un giornale ancora sotto fascia, gli aveva chiesto: - A quanto sono i fondi pubblici?

- Voi non volete darmi ascolto, Grandet - gli rispose Cruchot. - Comprateli presto, c'è ancora da guadagnare il venti per cento in due anni, oltre gli interessi a un tasso eccellente; cinquemila lire di rendita per ottantamila franchi. I fondi stanno a ottanta franchi e cinquanta.

- Vedremo - rispose Grandet, lisciandosi il mento.

- O, mio Dio! - disse il notaio.

- Perché, cosa c'è? - esclamò Grandet nel momento in cui Cruchot gli metteva il giornale sotto gli occhi dicendogli: - Leggete questo articolo...

"Il signor Grandet, uno dei commercianti più stimati di Parigi, si è fatto ieri saltar le cervella dopo aver fatto la sua solita comparsa in Borsa. Aveva già inviato al presidente della Camera dei Deputati le sue dimissioni, e s'era già dimesso anche dalle funzioni di giudice al tribunale di commercio. I fallimenti dei signori Roguin e Souchet, rispettivamente suo agente di cambio e suo notaio, lo hanno portato alla rovina. La stima li cui godeva il signor Grandet e il suo credito erano tuttavia tali, che egli avrebbe certamente trovato sovvenzioni sulla piazza li Parigi. E' doloroso che un uomo tanto onorato abbia ceduto a un primo impeto li disperazione", eccetera.

- Lo sapevo - disse il vecchio vignaiolo al notaio.

Queste parole agghiacciarono Cruchot il quale, nonostante la sua impassibilità di notaio, si sentì scorrere un brivido per la schiena pensando che il Grandet di Parigi aveva forse implorato invano i milioni dal Grandet di Saumur.

- E suo figlio, ieri sera così allegro...

- Non sa ancora nulla - rispose Grandet con la stessa calma.

- Arrivederci, signor Grandet - disse Cruchot, che capì tutto e andò a rassicurare il presidente di Bonfons.

Entrando, Grandet trovò la colazione pronta. La signora Grandet che Eugenia abbracciò con impeto per baciarla con quella viva effusione di cuore che ci produce un dolore segreto, era già sulla sua sedia a zoccoli e lavorava a maglia certe sue maniche per l'inverno.

Mangiate pure - disse Nanon, scendendo i gradini quattro a quattro; - il ragazzo sta dormendo come un cherubino. Quanto è grazioso con gli occhi chiusi! Sono entrata, l'ho chiamato. Come se avessi parlato al muro.

- Lascialo dormire - disse Grandet. - Si sveglierà sempre troppo presto oggi per apprendere brutte notizie.

- Cosa è dunque accaduto? - chiese Eugenia mettendo nel caffè due zollette di zucchero che pesavano non si sa bene quanti grammi e che il brav'uomo si divertiva a tagliare lui stesso nei ritagli di tempo. La signora Grandet, che non aveva osato fare quella domanda, guardò il marito.

- Suo padre si è fatto saltare le cervella.

- Mio zio?... - disse Eugenia.

- Oh, povero ragazzo! - gridò la signora Grandet.

- Sì, povero - ripeté Grandet - perché non ha più un soldo.

- E intanto dorme come se fosse il re della terra - disse Nanon con un accento dolce.

Eugenia smise di mangiare. Il suo cuore si strinse, come si stringe quando per la prima volta la compassione, provocata dalla disgrazia che colpisce colui che si ama, si diffonde in tutto l'essere di una donna. E si mise a piangere.

- Non lo conoscevi neppure, tuo zio, e allora perché piangi? - le disse suo padre, lanciandole uno di quegli sguardi di tigre affamata che indubbiamente doveva gettare ai suoi mucchi d'oro.

- Ma signore - disse la domestica - come non sentire pietà per quel povero ragazzo che dorme come un ghiro senza sapere quel che l'aspetta?

- Non parlo con te Nanon! Tieni la lingua a posto.

Eugenia imparò da quel momento che la donna innamorata deve sempre celare i propri sentimenti. E non pronunciò parola.

- Spero che fino al mio ritorno non gli direte nulla - disse alla moglie il vecchio, continuando. - Devo andare a far sistemare il fosso dei prati lungo la strada. Tornerò a mezzogiorno per la seconda colazione, e allora parlerò con mio nipote delle sue faccende. Quanto a te, Eugenia, se piangi per quel bellimbusto, puoi smetterla. Partirà, e al più presto, per le Indie. E non lo vedrai più...

Il padre prese i guanti posati sulla falda del cappello, li calzò con la sua calma abituale, li assestò intrecciando tra loro le dita, e uscì.

- Oh, mamma, io soffoco - gridò Eugenia quando fu sola con la madre. - Non ho mai sofferto tanto - . La signora Grandet, vedendo sua figlia impallidire, aprì la finestra e le fece respirare l'aria pura. - Mi sento meglio - disse Eugenia dopo un momento.

Una tale crisi nervosa in un temperamento fino allora in apparenza calmo e freddo scosse la signora Grandet, che guardò sua figlia con quella intuizione simpatica di cui sono dotate le madri per l'oggetto della loro tenerezza, e indovinò tutto. Ma, in verità, la vita delle celebri sorelle ungheresi attaccate l'una all'altra per un errore della natura, non era stata più intima di quella di Eugenia e di sua madre, vissute sempre insieme in quel vano di finestra, insieme in chiesa, e respiranti insieme la stessa atmosfera.

- Mia povera figliola - disse la signora Grandet, prendendo fra le sue mani la testa di Eugenia per appoggiarla al suo seno.

A quelle parole, la ragazza rialzò il capo, interrogò la madre con uno sguardo, ne scrutò i segreti pensieri, e le disse:

- Perché mandarlo nelle Indie? Se ha avuto una disgrazia, non deve forse restare qui? Non è il nostro più prossimo parente?

- Sì, figlia mia, questo sarebbe molto naturale; ma tuo padre avrà le sue ragioni, e noi dobbiamo rispettarle.

La madre e la figlia sedettero silenziose, l'una sulla sedia a zoccoli, l'altra sulla sua poltroncina; e tutte e due ripresero il loro lavoro. Piena di riconoscenza per l'ammirevole comprensione testimoniatale da sua madre, Eugenia le baciò la mano dicendole:

- Quanto sei buona, mamma mia cara! - Queste parole fecero raggiare il vecchio volto materno, avvizzito da lunghe sofferenze.

- Lo trovi bello? - le chiese Eugenia.

La signora Grandet rispose solo con un sorriso; poi, dopo un istante di silenzio, disse a bassa voce:

- Ne saresti già dunque innamorata? Sarebbe male.

- Male - riprese Eugenia - e perché? Piace a te, piace a Nanon, perché non dovrebbe piacermi? Ma su, mamma, apparecchiamo la tavola per la sua colazione. - Gettò via il lavoro, e la madre fece altrettanto dicendole:

- Pazzerella! - Ma fu lieta di giustificare la follia di sua figlia, condividendola. Eugenia chiamò Nanon.

- Che volete ancora, signorina?

- Potrai farci un po' di crema per mezzogiorno?

- Per mezzogiorno sì - rispose la vecchia domestica.

- Bene, ma intanto fagli un caffè forte! ho sentito dire dal signor de Grassins che il caffè si fa sempre molto forte a Parigi.

Mettine parecchio.

- E dove volete che lo vada a prendere?

- Compralo.

- E se il padrone m'incontra?

- E' andato ai suoi prati.

- Corro. Ma vi avverto che il signor Fessard mi ha già chiesto se a casa nostra c'erano i tre Magi, quando mi ha dato la stearica.

Tutta la città saprà che facciamo questi sprechi.

- Se tuo padre si accorge di qualche cosa - disse la signora Grandet - è capace di picchiarci.

- Ebbene ci picchierà, e noi riceveremo le sue busse in ginocchio.

La signora Grandet levò gli occhi al cielo per tutta risposta.

Nanon si mise la cuffia e uscì. Eugenia apparecchiò la tavola con biancheria di bucato, andò a cercare qualche grappolo d'uva che si era divertita a stendere sulle corde del granaio, camminò lungo il corridoio con passo leggero per non svegliare il cugino, e non poté fare a meno di non ascoltare davanti alla porta della sua camera il respiro che emanava a intervalli uguali dalle sue labbra. "La sventura veglia mentre lui dorme", si disse. Prese le foglie di vite più verdi, dispose i grappoli così graziosamente come avrebbe potuto farlo un esperto maestro di casa, e li collocò trionfalmente sulla tavola. Fece man bassa in cucina, delle pere contate da suo padre, e le dispose a piramide tra le foglie.

Andava, veniva, trottava, saltellava. Avrebbe voluto saccheggiare tutta la casa del padre; ma egli aveva la chiave di tutto. Nanon tornò con due uova fresche. Vedendo le uova, Eugenia provò il desiderio di saltarle al collo.

- Il fittavolo della Landa ne aveva nel suo paniere, gliele ho chieste, e lui me le ha date per farmi piacere, il bravo ragazzo.

Dopo due ore di preparativi, durante le quali Eugenia lasciò venti volte il lavoro per andare a vedere se il caffè bolliva, per andare ad ascoltare il rumore che faceva suo cugino alzandosi, riuscì a preparare una colazione molto semplice, poco costosa, che derogava tuttavia tremendamente dalle abitudini inveterate della casa. La colazione di mezzogiorno si consumava in piedi. Ognuno prendeva un po' di pane, un frutto o del burro, e beveva un bicchiere di vino. Nel vedere la tavola apparecchiata vicino al fuoco, una delle poltrone posta davanti al coperto di suo cugino, i due piatti di frutta, il portauova, la bottiglia di vino bianco, e lo zucchero ammonticchiato in un piattino, Eugenia tremò in tutte le membra pensando soltanto allora agli sguardi che le avrebbe lanciato il padre, se fosse entrato in quel momento. E perciò guardava pure spesso la pendola, per calcolare se il cugino avrebbe fatto in tempo a far colazione prima del ritorno del brav'uomo.

- Sta' tranquilla, Eugenia, se tuo padre verrà, mi addosserò io la responsabilità di tutto - disse la signora Grandet.

Eugenia non poté trattenere una lacrima.

- Oh!, mia buona mamma - esclamò - non ti ho mai voluto bene abbastanza!

Carlo, dopo aver fatto mille giri per la camera, canterellando, finalmente discese. Per fortuna, non erano che le undici. Il Parigino! Aveva messo tanta civetteria nell'abbigliarsi, quanta ne avrebbe usata se si fosse trovato nel castello della nobile dama che viaggiava in Scozia. Entrò con quell'aria affabile e sorridente che sta così bene alla gioventù, e che fece provare a Eugenia una gioia venata di tristezza. Egli aveva preso con spirito il disastro dei suoi castelli in Angiò e si avvicinò alla zia molto giocondamente.

- Avete passato bene la notte, cara zia? E voi, cugina?

- Bene? e voi? - disse la signora Grandet.

- Io, benissimo.

- Dovrete avere appetito, cugino - disse Eugenia - mettetevi a tavola.

- Ma io non faccio mai colazione prima di mezzogiorno, ora in cui mi alzo. Tuttavia ho mangiato così male in viaggio, che farò come volete. Del resto... - E tirò fuori dalla tasca il più delizioso orologio piatto che Breguet abbia mai fabbricato. - To', sono appena le undici. Sono stato mattiniero.

- Mattiniero? - disse la signora Grandet.

- Sì, ma volevo mettere a posto la mia roba. Ebbene, mangerò volentieri qualche cosa: un'inezia, un po' di pollo, una pernice.

- Santa Vergine! - esclamò Nanon nell'udire queste parole.

- Una pernice - diceva fra sé Eugenia, che per una pernice avrebbe speso tutto il suo peculio.

- Accomodatevi - gli disse la zia.

Il dandy si lasciò cadere sulla poltrona come una bella signora sul suo divano. Eugenia e sua madre presero le sedie e si misero vicino a lui dinanzi al fuoco.

- Vivete sempre qui? - domandò loro Carlo, trovando la sala ancora più brutta di giorno di quanto non gli fosse sembrata alla luce delle candele.

- Sempre - gli rispose Eugenia guardandolo - fuorché durante la vendemmia. Allora andiamo ad aiutare Nanon e alloggiamo nell'abbazia di Noyers.

- Non fate mai qualche passeggiata?

- Qualche volta la domenica, dopo i vespri, se è bel tempo - disse la signora Grandet - andiamo sul ponte, o a veder falciare il fieno.

- Avete qui un teatro?

- Andare al teatro - esclamò la signora Grandet - vedere i commedianti? Ma, signore, non sapete che questo è un peccato mortale?

- Ecco, signore - disse Nanon portando le uova - vi serviremo dei polli al guscio.

- Oh! le uova fresche - disse Carlo, il quale, come tutte le persone abituate al lusso, non pensava già più alla pernice. - Ma sono deliziose! Non ci sarebbe un po' di burro, cara ragazza?

- Ah!, del burro? Ma allora non avrete la focaccia - disse la domestica.

- Ma dagli il burro, Nanon - esclamò Eugenia.

La giovane osservava suo cugino che preparava i crostini, e ne era tanto soddisfatta, quanto la più sensibile sartina di Parigi nel vedere rappresentare un melodramma nel quale trionfi l'innocenza.

E' pur vero che Carlo, educato da una madre assai fine, perfezionato da una donna alla moda, aveva movenze civettuole, eleganti, lievi, come quelle d'una piccola amante. La compassione e la tenerezza d'una giovane hanno un influsso veramente magnetico. Sicché Carlo, vedendosi fatto oggetto delle attenzioni della cugina e della zia, non poté sottrarsi all'influsso dei sentimenti che si dirigevano verso di lui e che, per così dire, lo inondavano. Egli gettò su di Eugenia uno di quegli sguardi lucenti di bontà, carezzevoli, uno sguardo che sembrava un sorriso. Si accorse, osservando Eugenia, della squisita armonia dei lineamenti di quel puro volto, della sua innocente espressione, del chiaro magico dei suoi occhi, dove scintillavano giovanili pensieri d'amore, e dove il desiderio ignorava la voluttà.

- In fede mia, cara cugina, se vi trovaste a un palco e in toletta all'Opéra, vi garantisco che la zia avrebbe proprio ragione:

fareste commettere molti peccati di desiderio agli uomini e di gelosia alle donne.

Questo complimento serrò il cuore di Eugenia e lo fece palpitare di gioia, benché non avesse compreso nulla.

- Oh!, cugino, voi volete prendere in giro una povera provinciale.

- Se mi conosceste, cugina, sapreste ch'io aborro dall'ironia, che fa inaridire il cuore e offende tutti i sentimenti... - E inghiottì con molta grazia il crostino imburrato. - No, forse, io non ho tanto spirito da burlarmi degli altri, e un tale difetto mi fa molto torto. A Parigi, si trova modo di assassinare un uomo dicendogli: Ha buon cuore. Questa frase vuol dire: quel povero ragazzo è stupido come un rinoceronte. Ma poiché sono ricco e stimato, capace di colpire un fantoccio al primo colpo alla distanza di trenta passi con qualsiasi specie di pistola e in campo aperto, chi burla mi rispetta.

- Ciò che dite, caro nipote, dimostra che avete buon cuore.

- Che bell'anello che avete - disse Eugenia - sono indiscreta se vi chiedo di vederlo?

Carlo tese la mano sfilando l'anello, ed Eugenia arrossì sfiorando con la punta delle dita le unghie rosee del cugino.

- Guardate mamma, che bel lavoro.

- Oh, ce n'è dell'oro - disse Nanon che portava il caffè.

- E che cosa è mai questo? - chiese Carlo ridendo. E indicava un recipiente oblungo, di terra scura, verniciato, maiolicato internamente, orlato da una frangia di cenere, e in fondo al quale cadeva il caffè, che tornava alla superficie ribollendo.

- E' caffè bollito - disse Nanon.

- Ah!, cara zia, io lascerò almeno qualche traccia benefica del mio passaggio qui. Siete alquanto arretrati! Vi insegnerò io a fare del buon caffè in una caffettiera alla Chaptal!

E tentò di spiegare il funzionamento della caffettiera alla Chaptal.

- Ah!, ma se ci vuole tanto - disse Nanon - bisognerebbe passarci la vita. Non farò mai il caffè così. Ah, sì... E chi taglierebbe l'erba per la mucca, se dovessi fare il caffè in questo modo?

- Lo farò io - disse Eugenia - Bambina - disse la signora Grandet guardando la figlia.

A questa parola, che ricordava il dolore che fra poco avrebbe colpito il disgraziato giovane, le tre donne tacquero e lo guardarono con un'aria di commiserazione che lo colpì.

- Cosa avete mai, cugina?

- Zitta! - disse la signora Grandet a Eugenia, che stava per parlare.

- Tu sai, figliola mia, che tuo padre si è assunto l'incarico di parlare al signore...

- Dite pure a Carlo - interruppe il giovane Grandet.

- Ah!, vi chiamate Carlo? E' un bel nome - esclamò Eugenia.

Le disgrazie previste arrivano quasi sempre. In quel momento Nanon, la signora Grandet ed Eugenia, che non pensavano senza un brivido al ritorno del vecchio bottaio, udirono un colpo di picchiotto il cui rumore era loro ben noto.

- Ecco il babbo - disse Eugenia.

E tolse il piattino con lo zucchero, lasciandone qualche pezzo sulla tovaglia. Nanon portò via il piatto delle uova. La signora Grandet si alzò come una cerva spaurita. Fu un timor panico, di cui Carlo dovette ben meravigliarsi.

- Che diamine avete? - chiese loro.

- Ma è il babbo che viene - disse Eugenia.

- Ebbene?...

Il signor Grandet entrò, lanciò un suo sguardo significativo sulla tavola, su Carlo: vide tutto.

- Ah!, ah! Avete fatto festa a vostro nipote, bene, molto bene benissimo! - disse senza balbettare. - Quando dorme il gatto, i topi ballano.

- Festa?... - si disse Carlo incapace di immaginare il regime e le abitudini della casa.

- Dammi il mio bicchiere, Nanon - disse il brav'uomo.

Eugenia portò il bicchiere. Grandet trasse dal taschino un coltello del manico di corno dalla lunga lama, tagliò una fetta di pane, prese un po' di burro, lo spalmò con cura, e si mise a mangiare in piedi. In quel momento Carlo stava mettendo lo zucchero nel suo caffè. Papà Grandet vide i pezzi di zucchero, guardò la moglie che impallidì, e fece tre passi; si chinò verso l'orecchio della povera donna e le disse:

- E dove avete mai preso tutto questo zucchero?

- Nanon è andata a comprarlo da Fessard, non ce n'era più.

E' impossibile immaginare l'interesse profondo che questa scena muta destava nelle tre donne: Nanon aveva lasciato i fornelli e guardava nella sala per vedere come le cose sarebbero andate.

Carlo, assaggiato il caffè, lo trovò troppo amaro, e cercò lo zucchero che Grandet aveva già riposto.

- Che cosa volete, nipote?

- Lo zucchero.

- Metteteci del latte - rispose il padrone di casa - e il vostro caffè s'addolcirà.

Eugenia riprese il piattino con lo zucchero che Grandet aveva già riposto, e lo rimise in tavola, guardando il padre tranquillamente. Certo, la parigina che, per agevolare la fuga dell'amante, sostiene con le sue deboli braccia una scala di seta, non mostra tanto coraggio quanto ne mostrava Eugenia rimettendo lo zucchero sulla tavola. L'amante ricompenserà la parigina, che gli farà vedere orgogliosamente un bel braccio pesto, i cui lividi saranno bagnati di lacrime, di baci, e guariti dal piacere; mentre Carlo non avrebbe mai saputo il segreto della profonda agitazione che spezzava il cuore della cugina, fulminata in quel momento dallo sguardo del vecchio bottaio.

- E tu, moglie, non mangi?

La povera ilota si fece avanti, tagliò contrita un pezzo di pane, e prese una pera. Eugenia offrì audacemente al padre un grappolo d'uva dicendogli:

- Mangia un po' della mia uva conservata, papà! E voi pure, cugino, ne prenderete, non è vero? Sono andata a prendere questi bei grappoli proprio per voi.

- Ohé!, se qualcuno non le ferma, queste donne saccheggeranno tutta Saumur per voi, nipote. Quando avrete finito, andremo insieme in giardino, poiché devo dirvi alcune cose che proprio non sono zuccherate.

Eugenia e sua madre lanciarono a Carlo uno sguardo, e dall'espressione di esso il giovane non poté ingannarsi.

- Che cosa vogliono dire queste parole, zio? Dopo la morte della mia povera mamma (a queste due ultime parole, la sua voce si ammorbidì) non c'è disgrazia possibile per me...

- Nipote mio, chi può conoscere i dolori coi quali Dio vuol provarci? - gli disse la zia.

- Ta! ta! ta! ta! - disse Grandet - ecco che cominciano le sciocchezze. Io guardo con una certa pena, nipote, le vostre belle mani bianche. - E gli mostrò quella specie di scapole di montone che la natura aveva posto alle estremità delle sue braccia. - Ecco delle mani fatte apposta per raccogliere gli scudi! Voi siete stato abituato a porre i vostri piedi entro la pelle con cui si fabbricano i portafogli dove noi chiudiamo i biglietti di banca.

Male! Male!

- Che cosa volete dire, zio? Vorrei essere impiccato se capisco una parola.

- Venite con me - disse Grandet. L'avaro fece scattare la lama del coltello, bevve il resto del vino bianco e aprì la porta.

- Cugino, fatevi coraggio!

L'accento della ragazza aveva agghiacciato Carlo, che seguì il suo terribile parente, in preda a mortali inquietudini. Eugenia, sua madre e Nanon andarono in cucina, punte da una invincibile curiosità di spiare i due attori della scena che stava per svolgersi nel piccolo giardino umido, dove lo zio passeggiò dapprima in silenzio col nipote. Grandet non era imbarazzato a dover partecipare a Carlo la morte di suo padre, ma provava una specie di compassione sapendolo senza un soldo, e cercava le parole adatte per addolcire l'espressione di quella cruda verità.

"Avete perduto vostro padre", era dire ben poca cosa. I padri muoiono prima dei figli. Ma: "Voi non possedete più niente!" erano parole in cui si trovavano assommate tutte le disgrazie della terra. Perciò il brav'uomo fece, per la terza volta, in silenzio, il giro del viale centrale, e la sabbia scricchiolava sotto le scarpe. Nelle grandi circostanze della vita, la nostra anima si attacca tenacemente ai luoghi in cui i piaceri e i dolori si riversano su di noi. Carlo perciò esaminava con attenzione particolare i bossi del giardinetto, le foglie pallide che cadevano, i guasti delle mura, le bizzarrie degli alberi da frutto, dettagli pittoreschi che dovevano rimanere impressi nel suo ricordo, eternamente frammisti a quell'ora suprema, da una mnemotecnica particolare alle passioni.

- Fa caldo, è bel tempo - disse Grandet - aspirando una gran boccata d'aria.

- Si, zio, ma perché...

- Ebbene!, ragazzo mio - riprese lo zio - ho da darti cattive notizie. Tuo padre sta molto male...

- E io sono ancora qui? - disse Carlo. - Nanon! - gridò - presto, i cavalli da posta. Troverò una vettura in paese - aggiunse volgendosi verso suo zio, che restava immobile.

- I cavalli e la vettura sono inutili - rispose Grandet. Carlo rimase muto, impallidì, e i suoi occhi divennero fissi. - Sì, povero ragazzo, hai indovinato. E' morto. Ma questo è niente. C'è qualcosa di più grave. Si è fatto saltare le cervella.

- Mio padre?...

- Sì. Ma questo è niente. I giornali commentano il fatto come se ne avessero il diritto. To', leggi.

Grandet, che si era fatto prestare il giornale da Cruchot, pose il fatale articolo sotto gli occhi di Carlo. In quel momento il povero ragazzo, ancora fanciullo, ancora nell'età in cui i sentimenti si manifestano con ingenuità, ruppe in lacrime.

"Andiamo bene" si disse Grandet. "I suoi occhi mi spaventavano.

Ora piange, eccolo salvo. Questo è ancora nulla", mio povero nipote, - riprese Grandet ad alta voce senza badare se Carlo lo ascoltasse - questo è nulla, tu ti consolerai; ma...

- Mai!, mai! Padre mio! Padre mio!

- Ti ha ridotto alla miseria, non hai più un soldo.

- E che cosa m'importa di questo! Dov'è mio padre, mio padre?

Il pianto e i singhiozzi risuonavano tra quelle mura in modo straziante, e si ripercuotevano con gli echi. Le tre donne, prese dalla compassione, piangevano: le lacrime sono contagiose come il riso. Carlo, senza più ascoltare suo zio, fuggi nel cortile, imboccò la scala, salì in camera, e si gettò ti traverso sul letto nascondendo il volto nelle coperte per piangere a suo agio, lontano dai parenti.

- Bisogna far passare il primo acquazzone - disse Grandet rientrando in sala dove Eugenia e sua madre avevano subito ripreso i loro posti, e lavoravano con mani tremanti, dopo essersi asciugati gli occhi. - Ma questo ragazzo è un buono a nulla, si occupa più dei morti che del denaro.

Eugenia ebbe un brivido nel sentire suo padre esprimersi in questo modo sul più santo dei dolori. Da quel momento, essa cominciò a giudicare suo padre. Anche se attutiti, i singhiozzi di Carlo si ripercuotevano in quella casa sonora; e il suo pianto profondo, che sembrava uscire dalle viscere della terra, ebbe fine soltanto verso sera, dopo essersi gradatamente affievolito.

- Povero ragazzo! - disse la signora Grandet.

Fatale esclamazione! Papà Grandet guardò la moglie, Eugenia e la zuccheriera; si ricordò della colazione eccezionale preparata per il parente sventurato, e si piantò nel mezzo della sala.

- A proposito, spero - disse con la sua calma abituale - che non continuerete nelle vostre prodigalità, signora Grandet. Non vi dò mica il mio denaro per ingozzare di zucchero questo scioccherello.

- La mamma non c'entra nulla - disse Eugenia. - Sono io che...

- Forse perché sei maggiorenne - riprese Grandet interrompendo la figlia - vorresti contraddirrni? Bada, Eugenia...

- Babbo, al figlio di vostro fratello non doveva mancare in casa vostra il...

- Ta, ta, ta, ta - disse il bottaio in quattro toni cromatici - il figlio di mio fratello di qui, mio nipote di là. Carlo non è nulla per noi, non ha il becco d'un quattrino; suo padre è fallito; e dopo che questo bellimbusto avrà pianto a sazietà, sloggerà da qui; non voglio che metta la rivoluzione in casa mia.

- Che vuol dire, babbo, fallire? - domandò Eugenia.

- Fallire - riprese il padre - significa commettere l'azione più disonorevole tra tutte quelle che possono disonorare un uomo.

- Deve essere un peccato molto grave - disse la signora Grandet - e vostro fratello sarà dannato.

- Andiamo, basta con le tue litanie - disse a sua moglie alzando le spalle. - Il fallimento, Eugenia - egli riprese - è un furto che la legge prende disgraziatamente sotto la sua protezione.

Certe persone, ad esempio, hanno ceduto le loro merci a Guglielmo Grandet fidando sulla sua reputazione d'onore e di probità; ma lui si è preso tutto e non lascia loro che gli occhi per piangere. Un bandito da strada è preferibile al bancarottiere: quello almeno, ti assalta, e tu puoi difenderti e poi rischia la testa; ma l'altro... Insomrna, Carlo è disonorato.

Queste parole echeggiarono nel cuore della povera ragazza e lo oppressero con tutto il loro peso. Onesta come è delicato un fiore nato nel folto d'una foresta, essa non conosceva né le massime che regolano la vita della società, né i suoi ragionamenti capziosi, né i suoi sofismi; accettò dunque l'atroce spiegazione del fallimento che suo padre le dava a bella posta, senza farle conoscere la differenza che passa tra un fallimento involontario e un fallimento fraudolento.

- Ma voi, babbo, non avete potuto impedire questa disgrazia?

- Mio fratello non mi ha interpellato. Del resto, egli è in debito di quattro milioni.

- Che cosa sono i milioni, babbo? - essa domandò con la ingenuità d'un bambino che crede di poter trovare subito ciò che desidera.

- Quattro milioni - disse Grandet - sono quattro milioni di pezzi da venti soldi, e ci vogliono cinque pezzi da venti soldi per fare cinque franchi.

- Mio Dio!, mio Dio!, - esclamò Eugenia - come mai mio zio aveva quattro milioni? C'è qualche altra persona in Francia, che ne abbia altrettanti? - (Papà Grandet si accarezzava il mento, sorrideva, e la sua verruca sembrava dilatarsi). - E quale sarà la sorte di mio cugino Carlo?

- Partirà per le Indie, dove, secondo il desiderio di suo padre, cercherà di fare fortuna.

- Ma ha il denaro per andare là?

- Gli pagherò io il viaggio... fino a... sì, fino a Nantes.

Eugenia abbracciò con impeto suo padre.

- Ah!, babbo, come siete buono, voi!

E lo abbracciava in un modo, da rendere quasi vergognoso Grandet, che sentiva qualche rimorso di coscienza.

- Ci vuole molto tempo per accumulare un milione?

- Perbacco! - disse il bottaio - tu sai quanto vale un napoleone.

Ebbene, ne occorrono cinquantamila per fare un milione.

- Mamma, faremo dire delle novene per lui.

- Ci stavo pensando - rispose la madre.

- Ecco, sempre spendere denaro - esclamò il padre. - Ma credete dunque che ce ne siano a migliaia e a centinaia, qui?

In quell'istante un lamento sordo, più lugubre di tutti gli altri, risuonò nel granaio e agghiacciò di terrore Eugenia e sua madre.

- Nanon, va' su a vedere che non si ammazzi - disse Grandet. - E voi due - riprese rivolgendosi verso la moglie e la figlia, che a queste parole erano impallidite - non fate sciocchezze. Vi lascio.

Vado a fare la corte ai nostri Olandesi, che se ne vanno oggi. Poi andrò a vedere Cruchot e a parlare con lui di tutta questa faccenda.

Uscì. Quando Grandet ebbe chiuso la porta, Eugenia e sua madre respirarono a loro agio. Prima di quella mattina, mai la ragazza s'era sentita a disagio in presenza di suo padre; ma, da qualche ora, mutava a ogni momento di sentimenti e d'idee.

- Mamma, quanti luigi si ricavano da una botte di vino?

- Tuo padre vende le sue da cento a centocinquanta franchi, qualche volta a duecento, secondo quel che ho sentito dire.

- E quando col raccolto fa millequattrocento botti di vino...

- In fede mia, figliola, non so quanto ci faccia; tuo padre non mi parla mai dei suoi affari.

- Ma allora il babbo deve essere ricco.

- Forse. Ma il signor Cruchot mi ha detto che aveva comprato Froidfond due anni or sono. E questo lo avrà messo in ristrettezze.

Eugenia, non comprendendo più nulla circa le ricchezze di suo padre, non andò più in là coi suoi calcoli.

- Non mi ha neppure visto, il poverino - disse Nanon rientrando. - Sta disteso come un vitello sul letto, e piange come una Maddalena, che è proprio una pena a vederlo! Ma perché è così addolorato quel povero bel giovane?

- Andiamo subito su a confortarlo, mamma; e se qualcuno busserà, scenderemo.

La signora Grandet rimase indifesa di fronte all'armoniosa voce di sua figlia. Eugenia era sublime, era donna. Tutt'e due, col cuore palpitante, salirono alla camera di Carlo. L'uscio era aperto. Il giovane non vedeva, non sentiva nulla. Immerso nelle lacrime, emetteva gemiti inarticolati.

- Come vuol bene a suo padre! - disse Eugenia a bassa voce.

Era impossibile non riconoscere nell'accento di queste parole le speranze di un cuore a sua insaputa appassionato. Sicché la signora Grandet rivolse a sua figlia uno sguardo pieno di sentimenti materni, poi a bassa voce le disse all'orecchio:

- Bada, tu forse già lo ami.

- Amarlo! - riprese Eugenia. - Ah!, se tu sapessi quel che babbo ha detto!

Carlo si volse, vide la zia e la cugina.

- Ho perduto mio padre, il mio povero babbo! Se mi avesse confidato il segreto della sua disgrazia, avremmo lavorato insieme per mettervi riparo. Mio Dio! Il mio buon babbo! Ero tanto sicuro di rivederlo, che credo di averlo abbracciato freddamente.

I singhiozzi gli mozzarono la parola.

- Pregheremo per lui - disse la signora Grandet. - Rassegnatevi alla volontà di Dio.

- Cugino mio - disse Eugenia - fatevi coraggio! La perdita che avete subito è irreparabile: pensate ora a salvare il vostro onore...

Con quell'istinto, con quella finezza della donna che ha spirito in ogni cosa, anche quando essa consola, Eugenia voleva distrarre il dolore del cugino per farlo occupare di se stesso.

- Il mio onore?... - esclamò il giovane mandando indietro i capelli con un gesto brusco, e si sedette sul letto incrociando le braccia. - Ah! è vero. Mio padre, diceva lo zio, è fallito - .

Lanciò uno sguardo straziante e si nascose il volto fra le mani..

- Lasciatemi, cugina, lasciatemi! Mio Dio! Mio Dio! Perdonate a mio padre, che ha dovuto chissà quanto soffrire.

C'era qualcosa di orribilmente toccante nel vedere l'espressione di questo dolore giovanile, schietto, senza calcoli, senza secondi fini. Era un pudico dolore che i cuori semplici di Eugenia e di sua madre compresero quando Carlo fece un gesto per chiedere loro d'esser lasciato solo. Esse discesero, ripresero in silenzio i loro posti vicino alla finestra, e lavorarono per circa un'ora, senza dirsi una parola. Eugenia aveva intravisto, con lo sguardo furtivo gettato sugli oggetti del giovane, quello sguardo delle ragazze che vedono tutto in un batter d'occhio, i graziosi ninnoli della sua toletta, le forbici, i rasoi ornati d'oro. Quello sprazzo di lusso visto attraverso il dolore le rese Carlo ancor più interessante, forse per contrasto. Mai un avvenimento così grave, mai uno spettacolo tanto drammatico aveva colpito l'immaginazione di quelle due creature, continuamente immerse nella calma e nella solitudine.

- Mamma - disse Eugenia - dovremo mettere il lutto per lo zio.

- Tuo padre deciderà su questo - rispose la signora Grandet.

Rimasero di nuovo in silenzio. Eugenia dava i suoi punti con una regolarità di movimento che avrebbe rivelato a un osservatore i fecondi pensieri della sua meditazione. Il primo desiderio di quell'adorabile ragazza era di condividere il lutto di suo cugino.

Verso le quattro, un brusco colpo di picchiotto risuonò nel cuore della signora Grandet.

- Che cosa ha mai tuo padre? - disse alla figlia.

Il vignaiolo entrò tutto allegro. Dopo essersi tolto i guanti, si fregò le mani fin quasi da spellarsi se l'epidermide non fosse stata conciata come il cuoio di Russia, salvo l'odore di larice e d'incenso. Passeggiava per la stanza, guardava che tempo faceva.

Alla fine il suo segreto gli sfuggì di bocca.

- Moglie mia - disse senza balbettare - me li sono giocati tutti.

Il vino è venduto. Gli olandesi e i belgi partivano stamattina, io mi sono messo a passeggiare per la piazza, davanti al loro albergo, con aria indifferente... Coso, che tu conosci mi si è avvicinato. I proprietari di tutti i buoni vigneti conservano il loro raccolto e preferiscono aspettare, e io non li ho davvero dissuasi. Il nostro belga era disperato. Io me ne sono accorto.

Affare fatto, acquista il nostro raccolto a duecento franchi la botte, versando la metà in contanti. Pagamento in oro. Le cambiali sono firmate, ed ecco sei luigi per te. Fra tre mesi, il prezzo dei vini calerà.

Queste ultime parole furono pronunciate con un tono calmo, ma così profondamente ironico, che i cittadini di Saumur, raggruppati in quel momento sulla piazza, e annientati dalla notizia della vendita che Grandet aveva concluso, avrebbero provato un fremito se le avessero ascoltate. Un timor panico avrebbe fatto calare il prezzo dei vini del cinquanta per cento.

- Avete fatto mille botti quest'anno, babbo? - chiese Eugenia.

- Sì, "fifiglia".

Questa parola era l'espressione superlativa della gioia del vecchio bottaio.

- Sono perciò duecentomila pezzi da venti soldi.

- Sì, signorina Grandet.

- Allora, babbo, voi potete facilmente venire in aiuto di Carlo.

La meraviglia, la collera, lo stupore di Baldassarre nello scorgere il "Mane-Techel-Fares" non si potrebbero paragonare al freddo corruccio di Grandet il quale, non pensando più a suo nipote, lo ritrovava nel cuore e nei calcoli di sua figlia.

- Ma insomma!, da quando questo bellimbusto ha messo piede nella MIA casa, tutto va di traverso. Vi siete messe su un piede di spreco e di lusso. Io non voglio di queste cose. Credo di sapere, ell'età mia, come devo regolarmi! E poi, non ho lezioni da prendere né da mia figlia né da nessun altro. Farò per mio nipote ciò che sarà conveniente fare, e voi non dovete metterci il naso.

Quanto poi a te, Eugenia - aggiunse rivolgendosi alla figlia - non parlarmene più, altrimenti ti spedisco all'abbazia di Noyers, con Nanon, a cambiare aria; e non più tardi di domani, se ci ricadi.

Dov'è dunque quel ragazzo, è sceso?

- No, caro - rispose la signora Grandet.

- E che cosa fa, allora?

- Piange suo padre - rispose Eugenia.

Grandet guardò la figlia senza poter trovare una parola da ridire.

Dopotutto, era un po' padre anche lui. Dopo aver fatto uno o due giri per la sala, salì in fretta nel suo studio per riflettere sull'investimento del denaro nei fondi pubblici. I duemila jugeri di bosco tagliato gli avevano reso seicentomila franchi; aggiungendo a tale somma il denaro dei pioppi, le rendite dell'annata precedente e dell'annata in corso, oltre ai duecentomila franchi della vendita poco prima conclusa, poteva mettere insieme un totale di novecentomila franchi. Il venti per cento che si poteva guadagnare in poco tempo sulla rendita, che in quel momento era quotata a ottanta franchi, lo tentava. Fece i conti del suo affare sul giornale nel quale era annunciata la morte del fratello udendo, senza ascoltarli, i gemiti del nipote.

Nanon venne a bussare al muro per invitare il padrone a scendere:

il pranzo era pronto. Giunto sotto l'androne e all'ultimo gradino della scala, Grandet diceva a se stesso: "Con l'interesse dell'otto per cento, l'affare lo farò. In due anni avrò centocinquantamila franchi, che ritirerò da Parigi in oro sonante".

- Ebbene, mio nipote dov'è?

- Dice che non vuol mangiare - rispose Nanon. - Ma questo non gli fa bene.

- Tanto di risparmiato - replicò il padrone.

- Ah, certo! - essa rispose.

- Oh! non piangerà in eterno. La fame scaccia il lupo dalla tana.

Il pranzo fu stranamente silenzioso.

- E ora - disse la signora Grandet quando la tavola fu sparecchiata - dobbiamo prendere il lutto.

- E' proprio vero che non sapete cosa inventare per buttar via il denaro. Il lutto si porta nel cuore e non negli abiti.

- Ma il lutto d'un fratello è indispensabile, e la Chiesa ci comanda di...

- Compratevi gli abiti da lutto coi vostri sei luigi. Per me basterà un po' di crespo.

Eugenia alzò gli occhi al cielo senza dire una parola. Per la prima volta nella sua vita, le sue generose inclinazioni sopite, compresse, ma d'un colpo destate, venivano a ogni istante offese.

Quella sera fu simile in apparenza a mille altre della loro esistenza monotona, ma fu certo la più orribile. Eugenia lavorò senza mai alzare la testa, e non adoperò la scatola che Carlo il giorno prima aveva disprezzato. La signora Grandet lavorò di maglia alle sue maniche. Grandet rigirò i suoi pollici per quattr'ore immerso in calcoli i cui risultati dovevano, l'indomani, sbalordire Saumur. Nessuno venne quella sera a far visita alla famiglia. In quel momento, tutta la città non faceva che parlare del colpo fatto da Grandet, del fallimento di suo fratello e dell'arrivo di suo nipote. Per cedere al bisogno di chiacchierare dei loro interessi comuni, tutti i proprietari di vigneti dell'alta e della media società di Saumur si trovavano in casa del signor de Grassins, e scagliavano terribili imprecazioni contro l'ex sindaco. Nanon filava, e il rumore del suo arcolaio fu la sola voce che si fece udire sotto il soffitto grigio della sala.

- Stasera non consumiamo davvero la lingua - essa disse mostrando i suoi denti bianchi e grossi come mandorle pelate.

- Non bisogna mai sprecare nulla - rispose Grandet destandosi dalle sue meditazioni. Egli vedeva in prospettiva otto milioni in tre anni, e navigava su quella vasta distesa d'oro. - Andiamocene a letto. Andrò a dire buona notte a mio nipote a nome di tutti e a sentire se vuol prendere qualcosa.

La signora Grandet rimase sul pianerottolo del primo piano per ascoltare il colloquio che stava per svolgersi tra Carlo e il brav'uomo. Eugenia, più audace di sua madre, salì due gradini, - Ebbene, nipote, siete addolorato? Sì, piangete, è naturale. Un padre è un padre. Ma bisogna sopportare il male con rassegnazione.

Mi sto occupando di voi, mentre piangete. Sono un buon parente, vedete. Andiamo, coraggio. Volete bere un bicchierino di vino? Il vino non costa nulla a Saumur, qui si offre come in India una tazza di tè. Ma - disse Grandet continuando - voi siete al buio.

Male! Male! bisogna vedere chiaro in ciò che si fa. Grandet si avvicinò al caminetto. - To' - esclamò - ecco una stearica. E dove diamine l'hanno pescata? Quelle birbe demolirebbero il solaio della casa per cuocere le uova a questo ragazzo.

Udendo queste parole, la madre e la figlia rientrarono nelle loro camere e si ficcarono a letto con la celerità dei topi spaventati che si rintanano nei loro buchi.

- Signora Grandet, possedete forse un tesoro? - disse l'uomo entrando nella camera della moglie.

- Caro, sto dicendo le mie preghiere, aspettate un momento - rispose con una voce alterata la povera donna.

- Che il diavolo si porti il tuo buon Dio! - replicò Grandet brontolando. Gli avari non credono affatto in una vita futura, il presente è tutto, per loro. Questa riflessione getta una orribile luce sull'epoca attuale in cui, più che in alcun altro tempo, il denaro domina le leggi, la politica e i costumi. Istituzioni, libri, uomini e dottrine, tutto cospira a minare la credenza in una vita futura sulla quale l'edificio sociale si basa da milleottocento anni. Oggi la tomba è un passaggio poco temuto.

L'avvenire, che ci attendeva al di là del "requiem", è stato trasportato nel presente. Giungere "per fas et nefas" al paradiso terrestre del lusso e dei vani piaceri, pietrificare il proprio cuore e macerare il corpo in vista di possessi passeggeri, come un tempo si soffriva il martirio della vita in vista dei beni eterni, ecco l'idea di tutti, idea per altro scritta ovunque, perfino nelle leggi, che domandano al legislatore; "Quanto paghi?", invece di chiedergli . "Che pensi?". Quando una tale dottrina sarà passata dalla borghesia al popolo, cosa diventerà il Paese?

- Moglie, hai finito? - disse il vecchio bottaio.

- Caro, sto pregando per te.

- Benissimo!, buonanotte. Domattina ne riparleremo.

La povera donna si addormentò come lo scolaro che, non avendo imparato la lezione, teme di trovare al suo risveglio, il volto irritato del maestro. Nel momento in cui, per il timore, si avvolgeva nelle lenzuola per non sentir più nulla, Eugenia entrò di soppiatto, le si avvicinò, in camicia, a piedi nudi, e la baciò in fronte.

- Oh!, mia buona mamma - disse - domani gli dirò che sono stata io.

- No, ti manderebbe a Noyers. Lascia fare a me, non mi mangerà mica.

- Senti, mamma?

- Cosa?

- Non senti?, lui piange ancora.

- Ma va' a letto, figliola... Prenderai freddo ai piedi. Il pavimento è umido.

Così trascorse quella solenne giornata che doveva pesare su tutta la vita della ricca e povera ereditiera, il cui sonno non fu più né così completo né così puro come era stato fino allora. Molto spesso alcune azioni della vita umana sembrano, letteralmente parlando, inverosimili, anche se vere. Ma ciò non accade forse perché si trascura quasi sempre di gettare nelle nostre determinazioni spontanee una specie di luce psicologica, non spiegando le ragioni misteriosamente concepite che le hanno rese necessarie? Forse la profonda passione di Eugenia andrebbe analizzata nelle sue fibre più delicate; giacché essa divenne, direbbe qualche bello spirito, una malattia, e influì su tutta la sua esistenza. Molti preferiscono negare le soluzioni piuttosto che misurare la forza dei rapporti, dei modi, dei legami che saldano segretamente un fatto con un altro nell'ordine morale. Qui dunque il passato di Eugenia sarà, per gli osservatori della natura umana, di garanzia alle ingenuità della sua irriflessione e alla spontaneità delle effusioni della sua anima. Più la sua vita era stata tranquilla, più vivamente la pietà femminile, il più ingegnoso dei sentimenti, si dispiegò nell'animo suo. Perciò, turbata dagli eventi della giornata, essa si svegliò più volte per tendere l'orecchio verso la camera del cugino, credendo di averne udito i sospiri che dal giorno prima le risuonavano in cuore. Ora le sembrava che dovesse morire di dolore, ora di fame. Verso il mattino, udì sicuramente una tremenda esclamazione. Si vestì subito e accorse mentre era appena giorno pian piano presso il cugino, che aveva lasciato l'uscio della camera aperto. La stearica si era tutta consumata nello scodellino del candeliere.

Carlo, vinto dalle forze della natura, dormiva vestito, seduto su di una poltrona, la testa riversa sul letto; sognava, come sogna chi è a stomaco vuoto. Eugenia poté piangere a suo agio; poté ammirare quel giovane e bel viso, impietrito dal dolore, gli occhi gonfiati dalle lacrime e che, sebbene chiusi, parevano piangere ancora. Carlo indovinò, per simpatia, la presenza di Eugenia, aprì gli occhi e la vide intenerita.

- Scusate, cugina - disse, inconscio dell'ora e del luogo in cui si trovava.

- Ci sono qui dei cuori che vi comprendono, cugino, e noi abbiamo pensato che vi potesse occorrere qualcosa. Dovreste coricarvi, a restare così vi stanchereste troppo.

- Avete ragione.

- Allora, addio.

E se ne andò in fretta, vergognosa e insieme felice di essere venuta. Solo l'innocenza è capace di simili audacie. La virtù consapevole è buona calcolatrice quanto il vizio. Eugenia che, vicina a suo cugino, non aveva tremato, poté a stento tenersi in piedi quando fu nella propria camera. L'inesperienza della sua vita era a un tratto cessata, ragionò, si mosse mille rimproveri.

"Che idea si sarà fatta di me? Crederà che io lo ami". Era proprio ciò che essa desiderava di più: vederglielo credere. L'amore sincero ha una sua prescienza e sa che l'amore suscita l'amore.

Quale avvenimento per questa ragazza solitaria, l'essere entrata così furtivamente in camera di un giovanotto. Non ci sono forse in amore pensieri, azioni che equivalgono, per alcune anime, a un santo fidanzamento?

Un'ora dopo, entrò nella camera della madre, e l'aiutò a vestirsi, come era abituata a fare. Poi, insieme andarono a sedersi al loro posto davanti alla finestra, e aspettarono Grandet con quell'ansia che agghiaccia il cuore o lo riscalda, lo stringe o lo dilata, secondo i caratteri, allorché si teme una scenata, una punizione; sentimento così naturale, del resto, che è provato anche dagli animali domestici, al punto da gridare per il lieve dolore di una punizione e da tacere quando si feriscono per una loro inavvertenza. Il brav'uomo discese, ma parlò con aria distratta alla moglie, baciò Eugenia, e si mise a tavola sembrando non pensar più alle minacce del giorno prima.

- Che ne è di mio nipote? In fondo, il ragazzo non dà fastidio.

- Signore, dorme - rispose Nanon.

- Tanto meglio, così non avrà bisogno della stearica - disse Grandet in tono beffardo.

Quella clemenza insolita, quell'amara gaiezza colpirono la signora Grandet, che guardò il marito con molta attenzione. Il brav'uomo... Qui forse conviene far osservare che in Turenna, nell'Angiò, nel Poitou, in Bretagna, la parola "brav'uomo", già spesso da noi usata per designare Grandet, è attribuita agli uomini più crudeli come ai più bonari, quando sono arrivati a una certa età. Questo titolo non pregiudica affatto la mansuetudine individuale. Il brav'uomo prese dunque cappello e guanti e disse:

- Vado a fare due passi in piazza, per vedere se incontro i Cruchot.

- Eugenia, tuo padre cova di certo qualcosa.

Infatti Grandet, che abitualmente dormiva poco, impiegava metà della notte nei calcoli preliminari che conferivano ai suoi progetti, alle sue riflessioni, ai suoi piani, la loro sorprendente giustezza e assicuravano a essi quel costante successo di cui tanto si meravigliavano gli abitanti di Saumur.

Ogni potere umano è un composto di pazienza e di tempo. I forti vogliono e vegliano. La vita dell'avaro è un costante esercizio della potenza umana posta al servizio della personalità. Egli si basa su due soli sentimenti: l'amor proprio e l'interesse; ma poiché l'interesse è in certo modo l'amor proprio solido e ben inteso, l'attestazione continua d'una superiorità reale, l'amor proprio e l'interesse sono le parti di un medesimo tutto:

l'egoismo. Da qui deriva forse la prodigiosa curiosità che suscitano gli avari quando sono abilmente rappresentati sulla scena. Ogni spettatore è legato con un filo a questi personaggi che fanno presa su tutti i sentimenti umani e tutti li riassumono.

Qual è l'uomo senza desiderio, e quale desiderio sociale si soddisferà senza denaro? Grandet covava realmente dentro di sé qualcosa, secondo l'espressione usata da sua moglie. C'era in lui, come in tutti gli avari, un persistente bisogno di giocare una partita con gli altri uomini, di guadagnare legalmente i loro scudi. Imporsi sugli altri, non è forse compiere un atto di potenza, concedersi perpetuamente il diritto di sprezzare quelli che, troppo deboli, si lasciano in questo basso mondo divorare?

Oh!, chi ha ben compreso il simbolo dell'agnello tranquillamente accovacciato ai piedi di Dio, il più commovente emblema di tutte le vittime della Terra, quello della loro sorte, cioè la Sofferenza e la Debolezza glorificate? Questo agnello, l'avaro lo lascia ingrassare, lo tiene all'addiaccio, lo uccide, lo cuoce, lo mangia e poi lo sprezza. Il nutrimento degli avari consiste nel denaro e nello sprezzo. Durante la notte, le idee del brav'uomo avevano preso un altro corso; da lì, la sua demenza. Egli aveva ordito una trama per beffarsi dei parigini, per ingannarli, raggirarli, manipolarli a suo modo, farli andare e venire, sudare, sperare, impallidire; per divertirsi a loro spese, lui, vecchio bottaio dal fondo della sua sala grigia, salendo la scala tarlata della sua casa di Saumur. Il nipote lo aveva tenuto occupato. Egli voleva salvare l'onore del fratello morto senza che ciò costasse un soldo né al nipote né a lui. I suoi capitali stavano per essere collocati per tre anni, e in questo periodo egli non avrebbe avuto che da amministrare i propri beni; occorreva perciò un alimento alla sua attività maliziosa, e lo aveva trovato nel fallimento del fratello. Non sentendo tra le sue zampe nulla da dissanguare, voleva stritolare i parigini a beneficio di Carlo, e dimostrarsi fratello generoso a buon mercato. L'onore della famiglia entrava così poco nel suo progetto, che la sua buona volontà deve essere paragonata al bisogno provato dai giocatori di vedere ben giocata una partita nella quale essi non hanno spesso alcuna posta. E i Cruchot gli erano necessari, ma non voleva andarli a cercare, e aveva deciso di far sì che venissero a casa sua, e di dare inizio quella stessa sera alla commedia la cui trama era stata da poco concepita, per essere l'indomani, senza che ciò gli costasse un soldo, oggetto di ammirazione da parte di tutta la città.

Nell'assenza del padre, Eugenia ebbe la fortuna di potersi occupare apertamente del suo amato cugino, di spargere su di lui senza timore i tesori della sua compassione: una delle sublimi superiorità della donna, la sola che essa voglia far sentire; la sola che essa perdoni all'uomo di lasciarle avere su di lui. Per tre o quattro volte, Eugenia andò ad ascoltare il respiro del cugino; a sapere se dormiva, se stava per svegliarsi; poi, quando egli si alzò, la crema, il caffè, le uova, la frutta, i piatti, il bicchiere, tutto quel che faceva parte della colazione, fu per lei oggetto di qualche cura. Salì lesta la vecchia scala per ascoltare quel che faceva suo cugino. Si vestiva? Piangeva ancora? Giunse alla soglia dell'uscio.

- Cugino!

- Cugina!

- Volete far colazione in sala o in camera?

- Dove volete.

- Come vi sentite ?

- Cugina mia cara, mi vergogno di aver appetito.

Questa conversazione attraverso l'uscio era per Eugenia tutto un episodio di romanzo.

- Ebbene, vi porteremo la colazione in camera, per non contrariare mio padre.

E discese in cucina con la leggerezza d'un uccello. - Nanon, va' a mettere in ordine la sua camera.

Quella scala così spesso salita, discesa, dove risuonava il più piccolo rumore, sembrava a Eugenia aver perduto il suo carattere di vetustà, la vedeva luminosa, parlava, era giovane come lei, giovane come il suo amore cui essa serviva. Infine sua madre, la sua buona e indulgente madre, volle assecondare i suoi desideri d'amore, e quando la camera di Carlo fu in ordine, andarono tutte e due a tenere compagnia allo sventurato: la carità cristiana non comandava di consolarlo? Le due donne attinsero dalla religione non pochi piccoli sofismi per giustificare il loro comportamento.

Carlo Grandet si vide dunque fatto oggetto delle premure più affettuose e più tenere. Il suo cuore addolorato sentì vivamente la dolcezza di quell'amicizia vellutata, di quella squisita simpatia, che quelle due anime sempre tenute in soggezione seppero effondere trovandosi per un momento libere nella regione delle sofferenze, loro sfera naturale. Sentendosi autorizzate dal vincolo della parentela, Eugenia si mise a riordinare la biancheria, gli oggetti di toletta che il cugino aveva portato con sé, e poté estasiarsi a suo agio di tutte le lussuose bagattelle, dei ninnoli d'argento, d'oro cesellato che le capitavano sotto le mani, e che vi teneva a lungo, col pretesto di esaminarli. Carlo vide non senza una profonda tenerezza l'interessamento generoso che gli prestavano la zia e la cugina; conosceva abbastanza la società parigina per sapere che nella sua posizione non avrebbe ormai trovato che cuori indifferenti o freddi. Eugenia gli apparve in tutto lo splendore della sua particolare bellezza. Ammirò da quel momento l'innocenza di quei costumi che la sera prima aveva schernito. Così, quando Eugenia prese dalle mani di Nanon il bricco di maiolica colmo di caffè con la crema per offrirlo al cugino con tutta l'ingenuità del suo sentimento e dandogli un affettuoso sguardo, gli occhi di lui si inumidirono di lacrime; gli prese la mano e la baciò.

- Ebbene, che cosa avete ancora? - gli chiese.

- Sono lacrime di riconoscenza - le rispose.

Eugenia si volse di scatto verso il caminetto per prendere i doppieri.

- Nanon, prendete, portate via - essa disse.

Quando guardò il cugino, era ancora molto rossa in viso, ma almeno i suoi sguardi poterono mentire e non dimostrare la gioia eccessiva che le inondava il cuore; ma i loro occhi espressero uno stesso sentimento, e le loro anime si fusero in uno stesso pensiero: l'avvenire era loro. Quella dolce emozione fu tanto più deliziosa per Carlo, immerso nel suo immenso dolore, quanto meno era attesa. Un colpo di picchiotto richiamò le due donne ai loro posti. Per fortuna poterono discendere abbastanza rapidamente la scala per trovarsi al lavoro quando Grandet entrò. Se le avesse incontrate sotto l'androne ciò sarebbe bastato per destare i suoi sospetti. Dopo la colazione, che il brav'uomo consumò in tutta fretta, il guardiano, al quale il compenso promesso non era stato ancora pagato, giunse da Froidfond portando una lepre, qualche pernice uccisa nel parco, alcune anguille e due lucci dovuti dai mugnai.

- Eh! Eh!, questo bravo Cornoiller, arriva come il cacio sui maccheroni. E' buona da mangiare, quella roba?

- Sì, caro e generoso signore, è presa da due giorni.

- Andiamo, Nanon, alla svelta - disse il brav'uomo. - Prendi questa roba, ci servirà per il pranzo, invito i due Cruchot.

Nanon spalancò gli occhi e guardò tutti.

- Ma - disse - e il lardo e le spezie?

- Moglie - disse Grandet - da' sei franchi a Nanon, e ricordami di andare in cantina a cercar del buon vino.

- E così, signor Grandet - riprese il guardiano che aveva preparato un'arringa per far decidere la questione dei suoi emolumenti - signor Grandet...

- Ta, ta, ta, ta - disse Grandet - so già quel che vuoi dire, sei un buon diavolo, ne parleremo domani, oggi ho troppo da fare.

Moglie, dagli cento soldi - disse alla signora Grandet. E si eclissò. Alla povera donna non sembrò vero di acquistare la pace con undici franchi. Sapeva per esperienza che Grandet taceva per quindici giorni, dopo essersi ripreso a quel modo, un po' per volta, il denaro che le aveva donato.

- Prendi, Cornoiller - disse facendogli scivolare dieci franchi nella mano - un giorno o l'altro compenseremo meglio i tuoi servizi.

Cornoiller non ebbe nulla da obiettare. E andò via.

- Signora - disse Nanon, che aveva calzato la sua cuffia nera e preso il suo paniere - mi bastano tre franchi, tenete pure il resto. Vedrete che andrà bene lo stesso.

- Facci un buon pranzo, Nanon, ci sarà anche mio cugino - disse Eugenia.

- Certamente deve accadere qualcosa di straordinario - disse la signora Grandet. - Questa è la terza volta, dal giorno del nostro matrimonio, che tuo padre invita a pranzo qualcuno.

Verso le quattro, nel momento in cui Eugenia e la madre avevano finito di apparecchiare per sei coperti e il padrone di casa aveva portato su dalla cantina alcune bottiglie di quei vini squisiti che i provinciali conservano con cura, Carlo entrò nella sala. Il giovane era pallido. I suoi gesti, il suo contegno, i suoi sguardi e il tono della sua voce erano improntati a una tristezza piena di grazia. Egli non fingeva il dolore, soffriva realmente, e il velo disteso sui suoi lineamenti dalla pena gli conferiva quell'aria interessante che tanto piace alle donne. Per questo Eugenia lo amò ancora di più. Forse anche la sventura lo aveva avvicinato a lei.

Carlo non era più quel ricco e bel giovane posto in una sfera per lei irraggiungibile, ma un parente caduto in una nera miseria. La miseria genera l'eguaglianza. La donna ha in comune con gli angeli questo: che gli esseri sofferenti le appartengono. Carlo ed Eugenia si compresero e si parlarono solamente con gli occhi poiché il povero dandy decaduto, l'orfano, si mise in un canto, ci rimase muto, calmo e fiero; ma, di quando in quando, lo sguardo dolce e carezzevole della cugina riluceva su di lui, l'obbligava ad abbandonare i suoi tristi pensieri, a lanciarsi con lei per i campi della Speranza e dell'Avvenire, dove lei amava impegnarsi con lui. In quel momento la città di Saumur era più sottosopra per il pranzo offerto da Grandet ai Cruchot, di quanto non lo fosse stato il giorno prima per la vendita del suo raccolto, che rappresentava un delitto di alto tradimento verso gli altri proprietari. Se il politico vignaiolo avesse offerto il pranzo con lo stesso fine che costò la coda al cane di Alcibiade, sarebbe stato forse un grand'uomo; ma, troppo superiore a una città della quale si faceva beffe a ogni occasione, non gli importava nulla di Saumur. I de Grassins, venuti ben presto a conoscenza della morte violenta e del fallimento probabile del padre di Carlo, decisero di recarsi la sera stessa in casa del loro cliente, per prendere parte al suo dolore ed esprimergli i loro sensi di amicizia, ma in pari tempo per informarsi dei motivi che potevano averlo indotto a invitare, in simile circostanza, i Cruchot a pranzo. Alle cinque precise, il presidente C. di Bonfons e suo zio notaio giunsero azzimati fino ai denti. I convitati presero posto a tavola e cominciarono a far molto onore al pranzo. Grandet aveva un aspetto grave, Carlo era silenzioso, Eugenia muta, la signora Grandet non parlò più del solito, in modo che quel pranzo fu un vero banchetto funebre. Quando si levarono da tavola, Carlo disse a sua zia e a suo zio:

- Permettetemi di ritirarmi. Devo sbrigare una lunga e triste corrispondenza.

- Fate pure, nipote.

Quando dopo la sua uscita, il brav'uomo ritenne che Carlo non avrebbe potuto udire nulla e sarebbe stato immerso nella sua scrittura, guardò con aria sorniona la moglie.

- Signora Grandet, ciò che abbiamo da dire sarebbe latino per voi due; sono le sette e mezza, e non farete male ad andarvi a chiudere nel vostro portafoglio. Buona notte, figliola.

Baciò Eugenia, e le due donne uscirono. Allora cominciò la scena nella quale papà Grandet, più che in alcun altro momento della sua vita, mise in opera l'astuzia che aveva acquistato nel commercio con gli uomini, e che gli valeva spesso, da parte di coloro ai quali mordeva troppo rudemente la pelle, il soprannome di vecchio cane. Se l'ex-sindaco di Saumur avesse avuto mire più ambiziose, se fortunate circostanze, facendolo arrivare alle sfere superiori della società, lo avessero inviato nei congressi in cui sono trattati gli affari delle nazioni, ed egli si fosse valso del genio di cui lo aveva dotato il proprio interesse personale, nessun dubbio che sarebbe stato gloriosamente utile alla Francia.

Tuttavia, può darsi anche che, fuori di Saumur il brav'uomo avrebbe fatto una magra figura. Forse accade agli uomini come a certi animali: portati fuori dei climi in cui sono nati, non prolificano più.

- Si... si... si... si... gnor pre... pre... pre... presidente, voooi di... di... di... dicevate che il faaaalliiimento...

La balbuzie, simulata da tanto tempo dal brav'uomo e che passava per naturale come la sordità di cui si lamentava quando il tempo era piovoso, divenne, in quella congiuntura, così faticosa per i due Cruchot che questi, ascoltando il vignaiolo, facevano smorfie senza accorgersene e sforzi come se avessero voluto terminare le parole nelle quali incespicava a bella posta. Qui forse, diventa necessario narrare la storia della balbuzie e della sordità di Grandet. Nessuno, nell'Angiò, più dell'astuto vignaiolo sentiva meglio e poteva più nettamente pronunciare il francese angioino.

Una volta però, malgrado tutta la sua furberia, era rimasto gabbato da un Israelita, il quale, durante la discussione, portava la mano all'orecchio a mo' di corno acustico, col pretesto di ascoltare meglio, e tartagliava così bene cercando le parole, che Grandet, vittima della propria umanità, si credette obbligato di suggerire al malizioso giudeo le parole e le idee che il giudeo sembrava cercare, di completare lui stesso i ragionamenti del detto giudeo, di parlare come avrebbe dovuto parlare il dannato giudeo, d'essere insomma il giudeo e non Grandet. Il bottaio uscì da quel combattimento bizzarro dopo aver concluso il solo affare di cui dovette pentirsi per tutta la sua vita commerciale. Ma se ci perse, pecuniariamente parlando, ci guadagnò moralmente una buona lezione e, più tardi, ne raccolse i frutti. Così il brav'uomo finì per benedire il giudeo che gli aveva insegnato l'arte di far perdere la pazienza all'avversario commerciale, e tenendolo occupato a esprimere il suo pensiero, di fargli perdere costantemente di vista il proprio. Ora, nessun affare, più di quello di cui si trattava, esigette l'impiego della sordità, della balbuzie, e delle ambagi incomprensibili nei quali Grandet avviluppava le sue idee. Innanzi tutto, non voleva assumere la responsabilità delle sue idee; poi, voleva restare padrone della sua parola, e lasciare nel dubbio le sue vere intenzioni.

- Signor di Bon... Bon... Bonfons...

Per la seconda volta in tre anni Grandet chiamava il Cruchot nipote: signor di Bonfons. Il presidente poté credersi scelto quale genero dall'artificioso brav'uomo:

- Vooooooi di... di... di... dicevate dunque che i fallimenti po... po... po... possono, in ce... erti casi, essere impe...

pe... pe... diti da... da...

- Dagli stessi tribunali di commercio. Questo avviene tutti i giorni - disse il signor C. di Bonfons, cogliendo a volo l'idea di papà Grandet o credendo indovinarla e volendo affettuosamente spiegargliela. - Ascoltate.

- A... a... scolto - rispose umilmente il brav'uomo assumendo il malizioso contegno di un fanciullo che ride interiormente del suo professore, pur sembrando prestargli la massima attenzione.

- Quando un uomo stimabile e stimato, come era, ad esempio, il defunto vostro fratello a Parigi...

- Mi... io fratello, si.

- E' minacciato da un dissesto...

- Que... questo si chia... chiama di... di... dissesto?

- Sì. Se il fallimento è imminente, il tribunale di commercio, dal quale egli è perseguibile (seguitemi bene) ha la facoltà di nominare, tramite ordinanza, per la ditta in dissesto, dei liquidatori. Liquidare non è fallire, capite? Col fallimento un uomo è disonorato; ma liquidando, resta un uomo onesto.

- E' ben di... di... di... diverso, se questo non co... co...

co... co... sta più caro - disse Grandet.

- Ma una liquidazione si può anche fare, senza l'intervento del tribunale di commercio. Giacché - disse il presidente fiutando la sua presa di tabacco - in che modo si dichiara un fallimento?

- Già, non ci ho mai pe... pe.. pe... pensato - rispose Grandet.

- In primo luogo - riprese il magistrato - col deposito del bilancio alla cancelleria del tribunale, compilato dal commerciante stesso o da un suo rappresentante, debitamente autorizzato. In secondo luogo, su istanza dei creditori. Ora, se, il commerciante non deposita il bilancio, se nessun creditore chiede al tribunale un'ordinanza che dichiari il suddetto commerciante in fallimento, che accade?

- Sì, ve... ve... diamo.

- In tal caso la famiglia del defunto, i suoi rappresentanti, i suoi eredi, o lo stesso commerciante, se non è morto, o i suoi amici, se è nascosto, liquidano. Avete forse intenzione di liquidare gli affari di vostro fratello? - domandò il presidente.

- Ah!, Grandet - esclamò il notaio - fareste bene. C'è ancora dell'onore nel fondo delle nostre province. Se voi salvaste il vostro nome, perché si tratta proprio del vostro nome, sareste un uomo....

- Sublime - disse il presidente interrompendo suo zio.

- Certamente - replicò il vecchio vignaiolo - mi... mio fr...

fra... fratello si chia... chia... chia... chiamava Grandet, pro... proprio come me. E'... è... è... è sicuro e certo. I...

i... i... io non dico di no. E, e, e, questa li... li... li...

liquidazione po... po... potrebbe in tuuutti i casi, essere sooootto tutti i ra... ra... rapporti assai vantaggiosa agli in.., in... in... interessi di mio ni... ni... nipote, al quale vo...

vo... voglio bene. Ma bisogna vedere. Io non co... co... conosco la gente furba, di Parigi. Io... sto a Sau... au... mur, io, no?

Le mie proooopaggini! I miei fooossati.., e, insomma, io devo badare ai miei aaaffari. Non ho mai fatto ca... ca... cambiali.

Che cosa è una cambiale? Ne... ne... ne ho ricevute mo... molte, ma non ne ho mai fi... fi... rmate. Si... ri... ri... cevono e si ssscooontano. Ecco tuuuutto quel che... che... che... so. Ho se...

se... se... sentito di... di.. dire che si po... po... tevano riscacattare le ca... ca... cambiali...

- Sì - disse il presidente. - Si possono acquistare le cambiali in circolazione sulla piazza, pagando un tanto per cento. Capite?

Grandet portò la mano all'orecchio a guisa di corno acustico e il presidente gli ripeté la frase.

- Ma - rispose il vignaiolo - c'è ddddunque da guadagnare in tutto questo? I... i... io non so niente, alla mia eeetà, di tuuutte queste cooose io de... devo re... stare qui per ba... ba... badare al grano. Il grano s'ammassa ed è è è cool grano che si pa...

paga. Priima di tutto bisogna ba... ba... badare a... al ra...

ra... raccolto. Ho aaaffari più i... i... importanti e i... i...

interessanti a Froidfond. Non posso a... a... abbandonare la mi...

mi... mi... mia casa peeer degli imbrogli di... di... di tuuutti i dia... diavoli, dove non caaapi... pisco un'acca. Vooi dite che...

che dovrei, per li... li... li... liquidare, per fermare la dichiarazione di fallimento, andare a Parigi. Ma non ci si può mica trooo... ovare contemporaneamente in... in... in due luoghi, a meno di essere un u... u... u... uccellino...

- Capisco - esclamò il notaio. - Ma, mio vecchio amico, voi avete degli amici, dei vecchi amici, pronti a sacrificarsi per voi.

"E allora", pensava dentro di sé il vignaiolo, "decidetevi!".

- E se qualcuno partisse alla volta di Parigi, vi cercasse il più forte creditore di vostro fratello Guglielmo, e gli dicesse...

- Un mo... mo... momento - riprese il brav'uomo - gli dicesse:

cosa? Qua... qualche co... co... cosa di que... que... questo genere: "Il signor Grandet di Saumur di qua, il signor Grandet det... det... di Saumur là. Era affezionato a suo fratello, vuol bene a suo ni... ni... pote. Grandet è un buon pa... pa... parente ed è animato dalle migliori intenzioni. Ha venduto il suo ra...

ra.. raccolto. Non fate dichiarare il fa... fa... fa...

fallimento, riunitevi, no... no... nominate dei li... li...

liquidatori. Aaallora Grandet ve... ee...drà. Voooi o... o...

otterrete di più liquidando che non la... la... lasciando alla giustizia di ficcarci il na... na... naso...". Non è così?

- Giusto! - disse il presidente.

- Perché, vedete, signor di Bon... Bon... Bon... fons, bisogna riflettere prima di de... decidersi. Chi non... non... non può, non... non può. In ogni af... af... affare oooneneroso, peeer non andare in ro... ro... rovina, bisogna conoscere il pro e il contro. Eh!, non è vero?

- Certamente - disse il presidente. - Io sono del parere che, in pochi mesi, sarà possibile riscattare i crediti per una certa somma, e pagare integralmente mediante un concordato. Ah! Ah!, se ne fa fare di strada ai cani mostrandogli un pezzo di lardo.

Quando non si sia stata dichiarazione di fallimento e voi siate in possesso dei titoli di credito, diventate bianco come la neve.

- Come ne... ne.. neve? - ripeté Grandet, rimettendo la mano all'orecchio. - Non capisco cosa c'entri la ne... ne.. neve.

- E allora - esclamò il presidente - statemi a sentire.

- A... a... ascolto.

- Una cambiale è una merce, che può avere i suoi alti e i suoi bassi. Questa è una deduzione del principio di Geremia Bentham sull'usura. Questo pubblicista ha dimostrato che il pregiudizio che colpisce d'infamia gli usurai è una sciocchezza.

- Oh! - fece il brav'uomo.

- Ammesso che, in linea di principio, secondo Bentham, il denaro è una merce, e che ciò che rappresenta denaro diviene egualmente merce - riprese il presidente; - ammesso che è notorio che, sottoposta alle variazioni abituali che regolano le cose commerciali, anche la merce-cambiale, con questa o quella firma, come il tale o il tal altro articolo abbonda o manca sulla piazza, è cara o scende a vil prezzo, il tribunale ordina..., cioè (che sciocco che sono, scusatemi) sono del parere che potrete riabilitare vostro fratello col venticinque per cento.

- Voooi lo chia... chia... chia... chiamate Ge... Ge... Ge...

Geremia Ben...

- Bentham, è un inglese.

- Questo Geremia ci farà evitare molte lamentazioni negli affari - disse il notaio ridendo.

- Questi inglesi hanno qua... qua... qualche volta del buon... on senso - disse Grandet. - Così se... se... se... secondo Ben...

Ben... Bentham, se le cambiali di mio fratello va... va... va...

valgono... non valgono. Sì. Di... di.. di... dico bene, non è vero? Questo mi pare chiaro... I creditori sarebbero... No, non sarebbero. Mi ca... pisco da me.

- Permettetemi di spiegarvi tutto ciò - disse il presidente. - In linea di diritto, se voi siete in possesso di tutti i crediti dovuti dalla ditta Grandet, vostro fratello o i suoi eredi non devono niente a nessuno. Bene.

- Bene - ripeté il bonuomo.

- In linea di equità, se le cambiali di vostro fratello si negoziano (negoziano, capite bene questo termine?) su piazza con un tanto per cento di perdita; se uno dei vostri amici, passato da quelle parti, le ha riscattate, dal momento che i creditori non sono stati costretti in alcun modo a cederle, la successione del fu Grandet di Parigi viene a trovarsi legalmente liquidata.

- E' vero, gli a... a.. a... affari sono affari - disse il bottaio. - Ciò pooooosto... Ma, tuttavia, voi ca... ca... ca...

capite che è di... di... difficile. I... i... i... io non ho soooldi, né... né... né tempo, né tempo, né...

- Certo voi non potete disturbarvi. Ebbene, se volete, vado io a Parigi (mi rimborserete le spese di viaggio, che sono una sciocchezza). Vedrò i creditori, ci parlerò, chiederò una proroga e tutto si accomoderà con un supplemento di pagamento che aggiungerete ai valori della liquidazione, in modo da rientrare nei titoli di credito.

- Ve... ve... ve... vedremo, io non po... po... po... posso, i...

i... i... io non voglio i... i... i... impegnarmi, se... senza che... Chi... chi... chi non può non può. Mi caaaaapite?

- Questo è giusto.

- Ho la testa pie... pie... piena di tutto quel che voooi m'a...

a... a... avete sca... sca... scaricato. E' la... la... la prima volta in vita mia che i... io sono co... costretto a pen...

pensare a...

- Certo, non siete mica un giureconsulto.

- Io sono un po... po... povero vignaiolo, e non so nulla di quel che mi a... a... avete de... de... detto; bi... bi... bisogna che ci pensi su.

- E allora - riprese il presidente assumendo l'atteggiamento di chi vuol concludere.

- Nipote! - fece il notaio interrompendolo con un tono di rimprovero.

- Cosa c'è, zio? - rispose il presidente.

- Lascia che il signor Grandet ti spieghi le sue intenzioni. Si tratta in questo momento di un mandato importante. Il nostro caro amico deve definirlo congruam...

Un colpo di picchiotto che annunciò l'arrivo della famiglia de Grassins, il loro ingresso e i loro convenevoli impedirono a Cruchot di finire la frase. Il notaio fu contento di quella interruzione, Grandet già lo guardava di traverso, e la sua verruca indicava una tempesta interna. Ma innanzi tutto il prudente notaio non trovava conveniente che un presidente di tribunale di prima istanza andasse a Parigi per farvi capitolare dei creditori e mettere le mani in un affare imbrogliato che intaccava le leggi della stessa probità; e poi, non avendo ancora sentito esprimere da papà Grandet la benché minima velleità di pagare chicchessia, tremava istintivamente al pensiero di vedere suo nipote compromesso in quell'affare. Approfittò allora del momento in cui i de Grassins entravano per prendere il presidente sotto braccio e condurlo nel vano della finestra.

- Ti sei già abbastanza esposto, nipote mio, ora basta con questo zelo. Il desiderio di avere la figlia ti accieca. Diamine!, non bisogna mica fare come la cornacchia quando bacchia le noci.

Lascia ora a me guidare la barca, e tu aiutami soltanto nella manovra. Non mi sembra sia proprio compito tuo compromettere la tua dignità di magistrato in una simile...

Non finì la frase; sentiva il signor de Grassins che diceva al vecchio bottaio, stendendogli la mano:

- Grandet; abbiamo saputo la tremenda disgrazia che ha colpito la vostra famiglia, il disastro della ditta Guglielmo Grandet e la morte di vostro fratello; veniamo a dirvi tutta la parte che prendiamo a questo triste evento.

- Non c'è altra disgrazia - disse il notaio interrompendo il banchiere - che la morte del signor Grandet junior. Egli non si sarebbe certo ucciso se avesse avuto l'idea di chiedere aiuto al fratello. Il nostro vecchio amico, che ha sentimento d'onore fino alla punta delle unghie, intende liquidare i debiti della ditta Grandet di Parigi. Mio nipote, il presidente, per evitargli i fastidi di un affare meramente giudiziario, si è offerto di partire immediatamente per Parigi, al fine di transigere coi creditori e soddisfarli convenientemente.

Queste parole, confermate dall'atteggiamento del vignaiolo che si lisciava il mento, sorpresero stranamente i tre de Grassins, i quali lungo la strada avevano fatto tutte le maldicenze possibili sull'avarizia di Grandet, accusandolo quasi di fratricidio.

- Ah!, lo sapevo bene - esclamò il banchiere guardando sua moglie.

- Che ti dicevo per la strada? Grandet ha il senso dell'onore fino alla cima dei capelli, e non sopporterà mai che il suo nome abbia la più leggera macchia! Il denaro senza l'onore è una malattia.

Nelle nostre province l'onore non è ancora morto! Bene, molto bene, Grandet. Io sono un vecchio soldato, non so nascondere il mio pensiero; lo esprimo rudemente: quel che voi fate è, per mille fulmini!, sublime.

- Aaallora il su... su... sub... sublime è mo... mo... molto caro - rispose il brav'uomo mentre il banchiere gli stringeva calorosamente la mano.

- Ma questo, mio buon Grandet, e non dispiaccia al signor presidente - riprese de Grassins - è un affare puramente commerciale, che richiede un negoziante consumato. Bisogna intendersi di partite di giro, di esborsi, di calcoli d'interesse.

Io devo andare a Parigi per alcuni affari miei, e potrei allora con l'occasione occuparmi di...

- Vedremo allora di ce... ce... cercare di coooombinare tu...

tutte e due le rispettive po... po... possibilità e senza im...

im... impegnarmi in qualche cosa che i... i... io non voooo...

orrei fare - disse Grandet balbettando. - Giacché, vedete, il signor presidente mi chiedeva naturalmente il rimborso delle spese di viaggio.

- Il brav'uomo non balbettò più nel pronunciare queste ultime parole.

- Oh! - disse la signora de Grassins - ma è un piacere andare a Parigi. Io pagherei volentieri per andarci.

E fece un segno al marito, come per incoraggiarlo a soffiare l'incarico ai loro avversari, a qualunque costo; poi guardò molto ironicamente i due Cruchot, che assunsero un'aria umiliata.

Grandet prese allora il banchiere per un bottone del suo abito e lo portò in un angolo.

- Avrei più fiducia in voi che non nel presidente - gli disse. - E poi, gatta ci cova - aggiunse muovendo la sua verruca. - Io voglio investire nella rendita; ho qualche migliaio di franchi di rendita da acquistare, ma non voglio pagarla che ottanta franchi. Mi hanno detto che questa roba ribassa a fine mese. Voi ve ne intendete, no?

- Perdio! Ebbene, dovrei dunque comprare per voi qualche migliaio di lire di rendita?

- Una sciocchezza, tanto per cominciare. Ma acqua in bocca. Voglio fare questo gioco senza che se ne sappia nulla. Voi dovreste concludermi l'affare per la fine del mese, ma non parlatene ai Cruchot perché potrebbero aversene a male E dato che andate a Parigi, coglieremo l'occasione per vedere che aria tira per mio nipote.

- Siamo intesi. Partirò domani con la posta - disse ad alta voce de Grassins - e verrò a prendere le vostre ultime istruzioni a...

a che ora?

- Alle cinque, prima di pranzo - disse il vignaiolo, fregandosi le mani.

I due partiti rimasero ancora qualche istante schierati l'uno contro l'altro. De Grassins, dopo una pausa, e battendo sulla spalla di Grandet, disse:

- E' una bellezza avere dei parenti come voi...

- Sì, sì senza che ciò appaia - rispose Grandet - io sono un buon pa... parente. Volevo bene a mio fratello, e lo dimostrerò se...

se ciò non costa...

- Noi vi lasciamo, Grandet - gli disse il banchiere interrompendolo fortunatamente prima che terminasse la frase. - Anticipando la partenza, bisogna che metta in ordine alcuni affari.

- Bene, bene. Io pure, pe... pe... per quel che vo... voi sapete mi ri... ri... ritirerò nella mia ca... camera delle deliberazioni, come dice il presidente Cruchot.

"Maledizione!, non sono più il signor di Bonfons", pensò maliziosamente il magistrato, il cui volto assunse l'espressione di un giudice annoiato da una arringa.

I capi delle due famiglie rivali se ne andarono insieme. Né gli uni né gli altri pensarono più al tradimento di cui si era reso colpevole Grandet la mattina verso il paese vinicolo, e si sondarono a vicenda ma invano, per conoscere quel che pensassero circa le reali intenzioni del brav'uomo a proposito di quel nuovo affare.

- Venite con noi dalla signora Dorsonval? - disse de Grassins al notaio.

- Ci verremo più tardi - rispose il presidente. - Se mio zio lo permette, ho promesso alla signorina de Gribeaucourt di passare da lei un momento, e ci andremo subito.

- Arrivederci, allora - disse la signora de Grassins. E, quando i de Grassins si trovarono a qualche passo di distanza dai due Cruchot, Adolfo disse al padre:

- La masticano male, eh?

- Sta' zitto, figliolo - gli replicò la madre - possono ancora sentirci. Del resto, quel che tu dici non è di buon gusto e sa molto d'università.

- Hai visto, zio - esclamò il magistrato quando vide i de Grassins già lontani - ho cominciato con l'essere il presidente di Bonfons, e ho finito con l'essere semplicemente un Cruchot.

- Mi sono bene accorto del tuo disappunto; ma il vento spirava favorevolmente ai de Grassins. Saresti così sciocco, con tutto il tuo spirito?... Lasciali imbarcarsi su di un "vedremo" di papà Grandet, e sta' tranquillo, ragazzo mio: non per questo Eugenia non sarà tua moglie.

Dopo pochi minuti la notizia della magnanima decisione di Grandet si sparse in tre case contemporaneamente, e in tutta la città non si parlò che di quell'abnegazione fraterna. Ognuno perdonava a Grandet la vendita da lui fatta in spregio della fede giurata tra i proprietari, ammirando il suo senso dell'onore, esaltando una generosità di cui non lo si credeva capace. E' proprio del carattere francese entusiasmarsi, andare in collera, appassionarsi per la meteora del momento, per tutto ciò che ha d'instabile l'attualità. Gli enti collettivi, i popoli, sarebbero forse privi di memoria?

Quando papa Grandet ebbe chiuso la porta, chiamò Nanon.

- Non slegare il cane e non andare a dormire, perché dobbiamo lavorare insieme. Alle undici Cornoiller dovrà trovarsi alla porta di casa con la carrozza di Froidfond. Sta' attenta a quando arriva, in modo da evitare che bussi, e digli d'entrare senz'altro. Le ordinanze di polizia vietano lo schiamazzo notturno. E poi, il quartiere non ha bisogno di sapere che io parto.

Detto questo, Grandet risalì nel suo studio, dove Nanon lo sentì muovere, frugare, andare, venire, ma con precauzione. Non voleva evidentemente svegliare né la moglie né la figlia, e soprattutto non richiamare l'attenzione del nipote, contro il quale aveva già scagliato una maledizione scorgendo luce nella sua camera. A notte fonda, Eugenia, preoccupata del cugino, credette di aver sentito il lamento di un moribondo, e per lei quel moribondo non poteva essere che Carlo: lo aveva lasciato così pallido, così disperato!

Forse s'era ucciso. Si mise in fretta addosso una specie di pelliccia col cappuccio, e fece per uscire. Sulle prime una viva luce che filtrava attraverso le fessure dell'uscio della sua stanza la fece temere che la casa andasse a fuoco; ma presto si rassicurò udendo i passi pesanti di Nanon e la sua voce tra il nitrito di parecchi cavalli.

"Che il babbo porti via mio cugino?", si disse schiudendo l'uscio con tanta precauzione da impedire che cigolasse, ma in modo da vedere quel che avveniva nel corridoio.

A un tratto i suoi occhi s'incontrarono con quelli di suo padre, il cui sguardo, per quanto vago e indifferente, l'agghiacciò di terrore. Il brav'uomo e Nanon erano accoppiati da una grossa stanga, ogni estremo della quale poggiava sulla loro spalla destra e sosteneva una corda cui era appeso un barilotto simile a quelli che papà Grandet si divertiva a costruire nel suo forno nei momenti d'ozio.

- Santa vergine!, signore, come pesa - disse a voce bassa Nanon.

- Peccato che siano soltanto soldoni! - rispose il brav'uomo. - Sta' attenta a non urtare il candeliere.

Questa scena era illuminata da una sola candela posta fra due sbarre della ringhiera.

- Cornoiller - disse Grandet al suo guardiano "in partibus" - hai preso le pistole?

- No signore. Ma, diamine!; che c'è da temere per i vostri soldoni?...

- Oh, niente - disse papà Grandet.

- Del resto, cammineremo svelti - riprese il guardiano - i vostri fittavoli hanno scelto per voi i migliori cavalli.

- Bene, bene. Tu non gli hai mica detto dove andavo, no?

- Se neanche lo sapevo!

- Bene. La vettura è solida?

- Questa, padrone? Questa ne tiene anche tremila. Ma, quanto pesano i vostri maledetti barili?

- Oh! - disse Nanon - lo so bene io. Poco più poco meno di milleottocento.

- Vuoi stare zitta, Nanon? Dirai a mia moglie che sono andato in campagna. Sarò di ritorno all'ora di pranzo. Va' svelto, Cornoiller, che bisogna trovarci ad Angers prima delle nove.

La vettura partì. Nanon mise il catenaccio alla porta, sciolse il cane, si coricò con le spalle tutte indolenzite, e nessuno del quartiere suppose né della partenza di Grandet, né dello scopo del suo viaggio. La segretezza del brav'uomo era completa. Nessuno vedeva mai un soldo in quella casa piena d'oro. Saputo la mattina dalle chiacchiere di piazza che l'oro aveva raddoppiato di prezzo in seguito a numerosi armamenti intrapresi a Nantes, e che alcuni speculatori erano arrivati ad Angers per farne acquisto, il vecchio vignaiolo, facendosi semplicemente prestare i cavalli dai suoi fittavoli, si mise in grado di andarci a vendere il proprio e ritirare, in buoni del ricevitore generale del Tesoro, la somma necessaria all'acquisto della rendita, dopo averla aumentata dell'aggio.

"Il babbo parte", disse Eugenia, che dall'alto della scala aveva sentito tutto. Il silenzio era tornato nella casa e il lontano rotolio della vettura, che cessò a poco a poco, non si udiva già più in Saumur addormentata. In quel momento, Eugenia sentì nel suo cuore, prima che con l'orecchio, un lamento che traversò le pareti, e che proveniva dalla camera di suo cugino. Una striscia luminosa, sottile come la lama d'una sciabola, passava per la fessura dell'uscio e tagliava orizzontalmente i balaustri della vecchia scala. "Soffre", si disse salendo due gradini. Un secondo gemito la fece giungere fino al pianerottolo della camera. L'uscio era socchiuso, e lo spinse. Carlo dormiva, con la testa riversa fuori della vecchia poltrona; la sua mano aveva lasciato cadere la penna e toccava quasi il suolo. Il respiro agitato causato dalla posizione del giovane impressionò da principio Eugenia, che entrò senz'altro.

"Deve essere ben stanco", si disse guardando una decina di lettere sigillate e ne lesse gli indirizzi: ai Signori Farry, Breilman e Compagnia, carrozzieri - Al signor Buisson, sarto, eccetera.

"Certamente ha voluto sistemare i suoi affari per poter poi subito lasciare la Francia", pensò. Il suo sguardo si posò su due lettere aperte. Le seguenti parole, con le quali una di esse cominciava:

"Mia cara Annetta...", le procurarono il capogiro. Il suo cuore palpitò, i suoi piedi le s'inchiodarono sul pavimento. La sua cara Annetta... Egli ama, dunque, ed è riamato! Ogni speranza è perduta! Che cosa le avrà scritto? Queste idee le traversarono la mente e il cuore. Leggeva quelle parole ovunque, anche sulle mattonelle in lettere di fiamma. "Già rinunciare a lui! No, non leggerò quella lettera. Devo andarmene. Ma, se invece la leggessi?". Guardò Carlo, gli prese dolcemente la testa, la posò sulla spalliera della poltrona, ed egli lasciò fare come un bambino che, anche in sonno, riconosce la madre e ne riceve, senza svegliarsi, cure e baci. Come una madre, Eugenia sollevò la mano che penzolava e, come una madre, lo baciò dolcemente sui capelli.

Cara Annetta! Un demonio le gridava queste due parole nelle orecchie. "So che forse faccio male, ma io la leggerò, quella lettera", si disse. Eugenia volse la testa, poiché la sua nobile probità si ribellava. Per la prima volta in vita sua, il bene e il male erano presenti ambedue nel suo cuore. Fino a quel momento essa non aveva mai dovuto arrossire di alcuna azione. La passione, la curiosità, furono più forti di lei. A ogni frase, il cuore le si gonfiò sempre di più e l'ardore pungente che animò il suo spirito durante quella lettura le rese ancor più gustose le gioie del primo amore. "Mia cara Annetta, nulla avrebbe dovuto separarci, se non la sciagura che mi colpisce e che nessuna prudenza umana avrebbe saputo prevedere. Mio padre si è suicidato, la sua fortuna e la mia sono interamente perdute. Rimango orfano a una età in cui, per il genere di educazione che mi è stata data, posso essere considerato ancora un ragazzo, e devo tuttavia risollevarmi uomo dall'abisso in cui sono caduto. Ho impiegato una parte della notte a fare i miei calcoli. Se voglio lasciare la Francia da uomo onesto, e su questo non c'è dubbio, non ho neppure cento franchi per andare a tentare la sorte nelle Indie o in America. Sì, mia povera Anna, andrò in cerca di fortuna sotto i climi più avversi. Sotto quei cieli, è sicura e sollecita, secondo quel che mi è stato detto. A Parigi non saprei proprio restare. Né il mio animo né il mio volto sono fatti per sopportare gli affronti, la freddezza, il disprezzo che toccano all'uomo rovinato, al figlio del fallito! Buon Dio! Essere debitore di due milioni!... Verrei ucciso in duello entro la prima settimana. E perciò non ci ritornerò più. Neppure il tuo amore, il più tenero e il più devoto che mai abbia nobilitato cuore d'uomo, potrebbe attirarmi. Ahimé!, mia diletta, non ho denaro sufficiente per venire da te, per darti, per ricevere un ultimo bacio, un bacio nel quale potrei trovare la forza necessaria alla mia impresa...".

"Povero Carlo, ho fatto bene a leggere! Ho un po' d'oro, glielo darò", disse Eugenia.

E riprese la lettura, dopo essersi asciugata le lacrime.

"Io non avevo mai pensato ai guai della miseria. Se troverò i cento luigi indispensabili al viaggio, non avrò un soldo per procurarmi una paccottiglia. Ma no, io non avrò né cento luigi né un luigi, non saprò quanto denaro mi rimarrà se non dopo il pagamento dei miei debiti a Parigi. Se non mi resterà nulla, me ne andrò tranquillamente a Nantes, m'imbarcherò come semplice marinaio, e là comincerò come hanno cominciato quegli uomini energici che, giovani, non avevano un soldo e sono ritornati, ricchi, dalle Indie. Da questa mattina ho freddamente guardato in faccia il mio avvenire. Esso è più terribile per me che per chiunque altro, per me vezzeggiato da una madre che mi adorava, dal migliore dei padri, e che, al mio ingresso nel mondo, ho incontrato l'amore di un'Anna. Io non ho conosciuto che i fiori della vita: questa felicità non poteva durare troppo. Ho tuttavia, mia cara Annetta, più coraggio di quanto non possa averne un giovane spensierato, soprattutto un giovane abituato alle carezze della più deliziosa donna di Parigi, cullato nella dolcezza della famiglia, cui tutto sorrideva in casa e i cui desideri erano leggi per un padre... Oh! Annetta, mio padre è morto... Ebbene!, ho riflettuto sulla mia posizione, ho riflettuto anche sulla tua. Mi sono invecchiato in ventiquattro ore. Cara Anna, anche se per avermi presso di te, a Parigi, tu sacrificassi tutte le soddisfazioni che ti procura il lusso, le tue tolette, il tuo palco all'Opéra, non si arriverebbe mai a disporre della cifra necessaria alla mia vita dissipata; e poi, non saprei accettare tanto sacrificio. Ci dobbiamo perciò lasciare oggi per sempre".

"La lascia, santa vergine! Oh!, che felicità!...".

Eugenia saltò dalla gioia. Carlo fece un movimento, essa ne provò un brivido di terrore; ma fortunatamente per lei, non si svegliò.

E riprese:

"Quando potrò tornare? Non lo so, Il clima delle Indie fa invecchiare rapidamente un europeo, e soprattutto un europeo che lavora. Mettiamo che ritorni fra dieci anni. Fra dieci anni tua figlia ne avrà diciotto, e sarà la tua compagna, ma anche la tua spia. Per te, la società sarà crudele, e tua figlia forse ancora di più. Abbiamo avuto esempi di certi giudizi mondani e di certe ingratitudini filiali: sappiamo approfittarne. Conserva nel fondo dell'anima tua come conserverò io stesso il ricordo di questi quattro anni di felicità, e resta fedele, se puoi, al tuo povero amico. Non saprei tuttavia esigerlo perché, tu lo vedi, mia cara Annetta, io mi devo conformare alla mia situazione, considerare borghesemente la vita, e calcolarla al suo giusto valore. Devo perciò pensare al matrimonio, che si pone come una necessità della mia nuova esistenza; ti confesserò che ho trovato qui, a Saumur, presso mio zio, una cugina i cui modi, il volto, lo spirito e il cuore ti piacerebbero, e che, inoltre, mi sembra abbia...".

"Doveva essere proprio stanco, per aver interrotto di scriverle", disse fra sé Eugenia, vedendo la lettera interrotta alla metà di questa frase.

Lo giustificava! E non era forse impossibile che l'innocente ragazza si avvedesse della freddezza cui era improntata quella lettera? Alle giovani religiosamente educate, ignare e pure, tutto è amore dal giorno in cui mettono il piede nelle regioni incantate dell'amore. Esse vi procedono avvolte dalla celeste luce che la loro anima proietta, e che riflette i suoi raggi sul loro amato; esse lo colorano coi fuochi del loro proprio sentimento e gli conferiscono i loro più nobili pensieri. Gli errori della donna provengono quasi sempre dal suo credere nel bene, o dal confidare nel vero. Per Eugenia, queste parole: mia cara Annetta, mia diletta, le risuonavano nel cuore come il più soave linguaggio d'amore e le carezzavano l'anima come, nella sua infanzia, le note divine del "Venite adoremus", ripetute dall'organo, le carezzavano l'orecchio. Del resto, le lacrime che bagnavano ancora gli occhi di Carlo accusavano in lui tutte quelle nobiltà del cuore da cui una giovane deve essere sedotta. Poteva essa sapere che, se Carlo amava tanto suo padre e lo compiangeva così sinceramente, quella tenerezza proveniva meno dalla bontà del suo cuore che dalla bontà paterna? Il signor Guglielmo Grandet e sua moglie, appagando continuamente i capricci del loro figliolo, dispensandogli tutti i piaceri della ricchezza, gli avevano impedito di fare quegli orribili calcoli di cui sono più o meno colpevoli, a Parigi, la maggior parte dei figli, quando, dinanzi ai godimenti parigini, formulano desideri e concepiscono piani che vedono con rammarico incessantemente rimandati o ritardati dalla permanenza in vita dei loro genitori. La prodigalità del padre arrivò perfino a infondere nel cuore del figlio un amore filiale verace senza secondi fini.

Tuttavia Carlo era sempre un figlio di Parigi, abituato dai costumi di Parigi, dalla stessa Annetta, a calcolare tutto, ed era già vecchio sotto la maschera della giovinezza. Egli aveva ricevuto la detestabile educazione di quella società dove, in una sola serata, si commettono in pensieri, in parole, più delitti di quanti non ne punisca la Giustizia in Corte d'Assise; dove le battute spiritose assassinano le più nobili idee, dove non si è considerati forti se non quando si sa vedere giusto; e, in quel mondo, vedere giusto vuol dire non credere a nulla, né ai sentimenti, né agli uomini e neppure agli eventi. Vi se ne fabbricano di falsi. Là, per vedere giusto, bisogna soppesare, ogni mattina, la borsa d'un amico, sapersi porre politicamente al di sopra di tutto quel che accade; intanto, conviene non ammirare nulla, né le opere d'arte, né le nobili azioni, e ritenere qual movente d'ogni cosa l'interesse personale. Dopo mille follie, la grande dama, la bella Annetta, obbligava Carlo a riflettere seriamente, gli parlava della sua futura posizione, passandogli fra i capelli una mano profumata; accomodandogli un ricciolo, gli faceva calcolare la vita: lo femminizzava e lo materializzava.

Doppia corruzione, ma corruzione elegante e fine: di buon gusto.

- Siete un ingenuo, Carlo - gli diceva. - Mi ci vorrà fatica a insegnarvi che cosa è il mondo. Vi siete comportato male col signor de Lupeaulx. So bene che è un uomo poco rispettabile, ma aspettate che non sia più al potere, e allora poi lo disprezzerete a vostro agio. Sapete cosa ci diceva la signora Campan? "Figlioli miei, finché uno è ministro, adoratelo; appena è caduto, date una mano a trascinarlo nell'immondezzaio". Finché è al potere, è una specie di dio; una volta abbattuto, vale ancor meno di Marat nella fogna, perché lui è vivo, e Marat era morto. La vita è una serie di combinazioni, e bisogna studiarle, seguirle, per riuscire a mantenersi sempre in buona posizione.

Carlo era un uomo troppo alla moda, era stato reso sempre troppo felice dai suoi genitori, troppo adulato dalla società per poter nutrire nobili sentimenti. Il grano d'oro che la madre gli aveva posto nel cuore s'era disteso nella trafila parigina, egli lo aveva usato in superficie e lo aveva logorato con lo sfregamento.

Ma Carlo non aveva allora che ventun anni. A questa età, la freschezza della vita sembra inseparabile dal candore dell'anima.

La voce, lo sguardo, l'aspetto sembrano in armonia coi sentimenti.

E' per questo che il giudice più inflessibile, l'avvocato più incredulo, l'usuraio meno arrendevole esitano sempre a credere alla durezza del cuore, alla corruzione dei calcoli, quando gli occhi navigano ancora in un fluido puro e quando non ci sono rughe sulla fronte. Carlo non aveva mai avuto occasione di applicare la massima della morale parigina, e fino a quel giorno era stato digiuno d'esperienza. Ma, a sua insaputa, l'egoismo gli era stato inoculato. I germi dell'economia politica ad uso del parigino, latenti nel suo cuore, non dovevano tardare a fiorirci, non appena da spettatore ozioso fosse passato ad attore nel dramma della vita reale. Quasi tutte le ragazze si abbandonano alle dolci lusinghe di tali esteriorità; ma, anche se Eugenia fosse stata prudente e osservatrice, come lo sono certe ragazze di provincia, avrebbe forse potuto diffidare del cugino, quando, in lui, i modi, le parole, le azioni si accordavano ancora con le ispirazioni del cuore? Un caso, fatale per lei, le fece raccogliere le ultime effusioni di vera sensibilità che si trovasse in quel giovane cuore, e ascoltare, per così dire, gli ultimi sospiri della coscienza. Essa lasciò dunque quella lettera per lei piena d'amore, e si mise con compiacimento a contemplare il cugino addormentato: le fresche illusioni della vita illuminavano ancora, per lei, quel volto, e prima di tutto giurò a se stessa di amarlo per sempre. Poi, gettò lo sguardo sull'altra lettera senza dare troppa importanza a questa nuova indiscrezione; e, se incominciò a leggerla, fu per acquistare nuove prove delle nobili qualità che, simile in questo a tutte le donne, attribuiva a colui che ormai prediligeva:

"Mio caro Alfonso, nel momento in cui tu leggerai questa lettera io non avrò più amici; ma ti confesso che, pur dubitando di tante persone della buona società abituate a prodigare questa parola, non ho dubitato della tua amicizia. Ti incarico perciò di regolare i miei affari, e conto su di te, per trarre un buon profitto da tutto quel che possiedo. Penso che ormai tu conoscerai la mia situazione. Io non ho più nulla, e intendo partire per le Indie.

Ho scritto a tutte le persone alla quali credo di dover del danaro e ne troverai qui accluso l'elenco esatto per quanto mi sia stato possibile compilarlo a memoria. La mia biblioteca, i mobili, le vetture, i cavalli eccetera basteranno, credo, a pagare i miei debiti. Terrò per me solo quelle cianfrusaglie senza valore che possono servire a costituirmi una prima paccottiglia. Mio caro Alfonso, ti spedirò da qui, per questa vendita, una regolare procura da servire in caso di contestazioni. Ti prego di spedirmi tutte le mie armi. Serberai per te Briton. Nessuno potrebbe pagare il prezzo di quella stupenda bestia e perciò preferisco offrirla a te, come l'anello che, secondo l'uso, il morente lascia al suo esecutore testamentario. I Farry, Breilmon e C.ia. mi hanno costruito una comodissima vettura da viaggio, ma non me l'hanno ancora consegnata; procura che se la trattengano senza chiedermi alcun indennizzo; se non accettassero questa proposta, evita tutto quel che potrebbe compromettere la mia correttezza, date le circostanze in cui mi trovo. Devo dare all'isolano sei luigi, perduti al gioco, non dimenticarti di...".

"Che caro cugino!" si disse Eugenia lasciando la lettera, e fuggendo a passettini nella sua camera, recando con sé una delle candele accese. Là giunta, non fu senza una viva emozione di piacere che aprì il cassetto di un vecchio mobile di quercia, una delle più belle opere dell'epoca chiamata "Rinascenza", e sul quale si vedeva ancora, mezzo cancellata, la famosa Salamandra reale. Dal cassetto trasse una grossa borsa di velluto rosso a ghiande d'oro e orlata di consunta canutiglia, proveniente dall'eredità della nonna. Poi, soppesò con molto orgoglio la borsa e volle rifare un po' il conto, ormai scordato, del suo piccolo peculio. Mise da parte innanzi tutto venti portoghesi ancora nuove, coniate sotto il regno di Giovanni Quinto, nel 1725, il cui valore reale era, al cambio, di cinque lisbonine e cioè di centosessantotto franchi e sessantaquattro centesimi ciascuna, come le aveva detto suo padre, ma il cui valore convenzionale era di centottanta franchi, data la rarità e la bellezza di queste monete, che splendevano come soli. "Item", cinque genovine o pezzi da cento lire di Genova, altra moneta rara e che valeva ottantasette franchi al cambio, ma cento per gli amatori d'oro.

Queste le provenivano dal vecchio signor La Bertellière. "Item", tre quadruple d'oro spagnole di Filippo Quinto, coniate nel 1729, regalatele dalla signora Gentillet, che, offrendogliele, le ripeteva ogni volta la stessa frase: "Questo grazioso canarino, questa monetina d'oro, vale novantotto lire! Tenetela da conto, piccina, sarà il fiore del vostro tesoro". "Item", quel che suo padre stimava di più (l'oro di queste monete era a ventitré carati e frazione), cento ducati d'Olanda coniati nell'anno 1756, e che valevano ognuno tredici franchi. "Item", una grande curiosità!.., delle specie di medaglie preziose per gli avari, tre rupie col segno della Bilancia, e cinque rupie col segno della Vergine, tutte d'oro puro a ventiquattro carati, la magnifica moneta del Gran Mogol, ognuna delle quali valeva trentasette franchi e quaranta centesimi, al peso, ma almeno cinquanta franchi per i conoscitori che amano maneggiare l'oro. "Item", il napoleone da quaranta franchi avuto l'antivigilia e che essa aveva negligentemente messo dentro la borsa rossa. Questo tesoro conteneva monete nuove e vergini, vere opere d'arte di cui papà Grandet talvolta chiedeva notizia e voleva rivedere, per enumerare particolarmente alla figlia tutte le virtù intrinseche, quali la bellezza dell'orlo, la nitidezza delle incisioni, l'eleganza delle lettere i cui vivi spigoli non si erano ancora consumati. Ma lei non pensava né a quelle rarità, ne alla mania di suo padre, né al pericolo cui si esponeva privandosi di un tesoro così caro a suo padre; no, lei pensava solo a suo cugino, e giunse finalmente a capire, dopo qualche errore di calcolo, che possedeva circa cinquemila ottocento franchi di valore reale, i quali, in commercio, potevano essere venduti a circa duemila scudi. Alla vista delle sue ricchezze, si mise a battere le mani, come un bambino obbligato a contenere l'esuberanza della sua gioia con ingenue movenze del corpo. Così, il padre e la figlia avevano contato ognuno la propria fortuna: lui, per andare a vendere il suo oro; Eugenia, per gettare il suo in un oceano di affetto. Essa ripose le monete nella vecchia borsa, la prese e risalì senza esitazione. La miseria segreta del cugino le fece dimenticare l'ora notturna, le convenienze; e poi si sentiva forte della sua coscienza, della sua dedizione, della sua felicità. Nel momento in cui apparve sulla soglia dell'uscio, portando in una mano una candela, nell'altra la borsa, Carlo si svegliò, vide sua cugina e rimase a bocca aperta per la meraviglia. Eugenia si fece avanti, posò il candeliere sul tavolo e disse con voce commossa:

- Cugino, devo chiedervi scusa d'un fallo grave che ho commesso verso di voi; ma Dio me lo perdonerà, questo peccato, se vorrete dimenticarlo.

- Ma di che cosa si tratta? - disse Carlo stropicciandosi gli occhi.

- Ho letto quelle due lettere.

Carlo arrossì.

- Come mai è accaduto? - essa riprese - perché sono salita?

Veramente, in questo momento, non lo so più. Ma sono tentata di non pentirmi poi troppo di aver letto quelle lettere, dato che esse mi hanno fatto conoscere il vostro cuore, la vostra anima e...

- E cosa? - domandò Carlo.

- E i vostri progetti, la necessità in cui vi trovate di disporre di una somma...

- Cara cugina...

- Zitto, zitto, cugino, non parlate così forte, non svegliamo nessuno. Ecco - disse aprendo la borsa - le economie di una povera ragazza che non ha bisogno di niente. Carlo, accettatele. Fino a stamane non sapevo cosa fosse il denaro, voi me lo avete insegnato, non è che un mezzo, ecco tutto. Un cugino è quasi un fratello, e voi potete ben prendere in prestito il denaro di vostra sorella.

Eugenia, donna e fanciulla insieme, non aveva previsto rifiuti, e suo cugino taceva.

- Ebbene, rifiutereste, forse? - chiese Eugenia, i cui palpiti risuonarono in quel profondo silenzio.

L'esitazione del cugino la umiliò, ma la necessità in cui egli si trovava si ripresentò più vivamente al suo spirito, ed essa piegò le ginocchia.

- Non mi rialzerò fino a che non avrete accettato quest'oro! - disse - cugino, vi prego, rispondetemi : ... Che io sappia se volete farmi l'onore, se siete generoso, se...

Nell'udire il grido d'una così nobile disperazione, Carlo lasciò cadere alcune lacrime sulle mani della cugina, che strinse per impedirle di inginocchiarsi. Accogliendo quelle lacrime calde, Eugenia prese la borsa e gliene versò il contenuto sul tavolo.

- Ebbene, sì, non è vero? - essa disse piangendo di gioia. - Non temete, cugino, voi sarete ricco. Quest'oro vi porterà fortuna; un giorno me lo renderete; del resto, noi diventeremo soci, e io accetterò tutte le condizioni che vorrete. Ma non dovreste far troppo conto di questo dono.

Carlo poté finalmente esprimere i suoi sentimenti.

- Sì, Eugenia, avrei un'anima meschina, se non accettassi.

Tuttavia, niente per niente, confidenza per confidenza.

- Che volete dire con questo? - disse lei spaventata.

- Sentite, mia cara cugina, io ho là... - E s'interruppe per mostrare sul cassettone un cofanetto quadrato racchiuso in un astuccio di cuoio. - Là, vedete, ho una cosa che mi è preziosa quanto la vita. Quel cofanetto è un dono di mia madre. Da questa mattina sto pensando che, se potesse uscire dalla tomba, venderebbe lei stessa l'oro che il suo affetto le ha fatto prodigare in quel "nécéssaire"; ma, compiuta da me, una tale azione mi sembrerebbe un sacrilegio - . Eugenia strinse in modo convulso la mano del cugino udendo queste ultime parole. No - egli riprese dopo una breve pausa, durante la quale si scambiarono uno sguardo commosso - no, io non voglio né distruggerlo, né rischiarlo nel mio viaggio. Eugenia cara, voi ne sarete la depositaria. Mai amico avrà confidato qualcosa di più sacro al proprio amico. Giudicatene voi - . Andò a prendere il cofanetto, ne tolse la custodia, l'aprì e mostrò tristemente alla cugina meravigliata un "nécéssaire" la cui lavorazione dava all'oro un valore ben superiore a quello del suo peso. - Ciò che voi state ammirando è nulla - le disse spingendo una molla che rivelò un doppio fondo. - Ecco quel che, per me, vale tutto il mondo - .

Trasse fuori due ritratti, due capolavori della signora di Mirbel, riccamente contornati di perle.

- Oh! che bella signora, è forse quella a cui scriv...

- No - disse lui sorridendo. - Questa donna è mia madre, ed ecco mio padre, che sono vostra zia e vostro zio. Eugenia, dovrei supplicarvi in ginocchio di custodire questo tesoro. Se io dovessi morire perdendo la vostra piccola fortuna, quest'oro vi risarcirebbe il danno; e a voi sola posso affidare i due ritratti, voi sola siete degna di conservarli, ma poi distruggeteli affinché dopo di voi non cadano in altre mani... - Eugenia taceva. - Ebbene, sì, non è vero - egli aggiunse con dolcezza.

Udendo le parole del cugino, essa gli rivolse il primo sguardo di donna innamorata, uno di quegli sguardi nei quali c'è insieme civetteria e profondità; lui le prese la mano e la baciò.

- Angelo di purezza!, tra noi, non è vero?..., il denaro non conterà mai nulla. Il sentimento, che solo gli dà qualche valore, sarà ormai tutto, per noi.

- Voi assomigliate a vostra madre. La sua voce era dolce come la vostra?

- Oh!, ben più dolce...

- Sì, per voi - essa disse abbassando le palpebre. - Andiamo, Carlo, ora voglio che vi corichiate, siete stanco. A domani.

Ritrasse dolcemente la mano da quella del cugino, che l'accompagnò facendole luce. Quando furono entrambi sulla soglia dell'uscio:

- Ah!, perché mai sono rovinato! - egli disse.

- Oh!, mio padre è ricco, almeno lo credo - essa rispose.

- Povera figliola - riprese Carlo avanzando d'un passo nella camera e appoggiando le spalle al muro - ma allora non avrebbe lasciato morire il mio, non vi farebbe vivere in questo squallore, e insomma vivrebbe in altro modo.

- Ma possiede Froidfond.

- E quanto vale Froidfond?

- Non lo so; ma c'è poi anche Noyens.

- Sarà una misera fattoria!

- Ha vigneti, prati...

- Miserie - disse Carlo con aria sdegnosa. - Se vostro padre avesse solo ottantaquattromila lire di rendita, abitereste forse in una camera così fredda e nuda? - aggiunse, inoltrandosi col piede sinistro. - Qui staranno anche i miei tesori - disse mostrando il vecchio canterano per celare il suo pensiero.

- Andate a dormire - disse lei impedendogli di entrare nella camera in disordine.

Carlo si ritirò, e si diedero la buona notte con uno scambievole sorriso.

Entrambi si addormentarono nello stesso sogno, e Carlo cominciò da allora a gettare qualche rosa sul suo lutto. L'indomani mattina, la signora Grandet trovò la figlia che passeggiava, prima di colazione, in compagnia di Carlo. Il giovane era ancora triste, come doveva esserlo uno sventurato disceso, per così dire, nel fondo del suo sconforto e che, misurando l'abisso nel quale era caduto, aveva sentito tutto il peso della sua vita futura.

- Il babbo non tornerà che all'ora di pranzo - disse Eugenia scorgendo l'inquietudine dipinta sul volto della madre.

Era facile vedere nei modi, nel volto di Eugenia e nella singolare dolcezza assunta dalla sua voce, una conformità di pensiero tra lei e il cugino. Le loro anime si erano ardentemente fuse prima forse di aver ben misurato la forza dei sentimenti attraverso i quali si univano l'una all'altro. Carlo si trattenne in sala, e la sua malinconia vi fu rispettata. Le tre donne ebbero un gran da fare. Avendo Grandet dimenticato di accudire alle sue faccende, ogni tanto veniva qualcuno. Il conciatetti, lo stagnaro, il muratore, i terrazzieri, il falegname, alcuni fattori, alcuni fittavoli, gli uni per combinare il prezzo di certe riparazioni, gli altri per pagare quote d'affitto o incassare denaro. La signora Grandet ed Eugenia dovettero perciò andare e venire, rispondere agli interminabili discorsi degli operai e dei campagnoli. Intanto Nanon ammucchiava le corrisposte agricole in cucina. Essa aspettava sempre di ricevere gli ordini del padrone per sapere quel che doveva essere tenuto per i bisogni della casa e quel che doveva essere venduto al mercato. L'abitudine del brav'uomo era come quella d'un gran numero di gentiluomini di campagna, di bere cioè il vino andato a male e di mangiare la frutta guasta. Verso le cinque di sera, Grandet fu di ritorno da Angers con quattordicimila franchi ricavati dalla vendita dell'oro e recando nel portafoglio buoni di Stato che gli fruttavano un interesse fino al giorno in cui avrebbe dovuto pagare le rendite.

Aveva lasciato Cornoiller ad Angers per governare i cavalli mezzo sfiniti e riportarli pian piano dopo averli fatti ben riposare.

- Torno da Angers, moglie - disse. - Ho appetito.

Nanon gli gridò dalla cucina: - Ma non avete mangiato niente da ieri?

- Niente rispose il bonuomo.

Nanon portò la zuppa. De Grassins venne a prendere le istruzioni dal suo cliente nel momento in cui la famiglia era a tavola. Papà Grandet non aveva neppure visto il nipote.

- Mangiate pure con comodo, Grandet - disse il banchiere. - Intanto parleremo. Sapete quanto vale l'oro ad Angers, dove si è andati a cercarlo per Nantes? Ho intenzione di inviarne là un certo quantitativo.

- E' inutile - rispose il bonuomo - ce n'è già a sufficienza.

Siamo troppo buoni amici perché io non debba risparmiarvi una perdita di tempo.

- Ma là l'oro vale tredici franchi e cinquanta centesimi.

- Dite piuttosto valeva.

- E da dove diavolo è arrivato?

- Sono andato questa notte ad Angers - gli rispose Grandet a bassa voce.

Il banchiere trasalì dalla sorpresa. Poi una conversazione all'orecchio s'intavolò fra i due, durante la quale de Grassins e Grandet guardarono più volte Carlo. Nel momento in cui senza dubbio il vecchio bottaio disse al banchiere di acquistare per suo conto centomila lire di rendita, de Grassins si lasciò di nuovo sfuggire un gesto di meraviglia.

- Signor Grandet - disse a Carlo - io parto per Parigi; e se aveste commissioni da darmi...

- Nessuna, signore. Vi ringrazio - rispose Carlo.

- Ringraziatelo meglio, nipote mio. Il signore va per sistemare gli affari della ditta Guglielmo Grandet.

- Ci sarebbe dunque qualche speranza? - domandò Carlo.

- Ma come - esclamò il bottaio con un orgoglio ben simulato - non siete forse mio nipote? Il vostro onore è anche il nostro. Non vi chiamate Grandet?

Carlo si alzò, strinse papà Grandet, lo abbracciò, impallidì e uscì. Eugenia guardava suo padre con ammirazione.

- Allora, addio, mio buon de Grassins, servitor vostro, e impegolatemi bene quella gente! - I due diplomatici si diedero una stretta di mano, il vecchio bottaio accompagnò il banchiere fino alla porta, poi, dopo averla chiusa, tornò e disse a Nanon sprofondandosi nella poltrona: - Mi vuoi dare un ribes? - Ma, troppo eccitato per star fermo, si alzò, guardò il ritratto del signor La Bertellière e si mise a cantare, facendo quel che Nanon chiamava passi di danza:

Tra le guardie francesi avevo un buon papà.

Nanon, la signora Grandet, Eugenia si guardarono in silenzio.

L'allegria del vignaiolo le faceva sempre temere quando arrivava al suo acme. La serata finì ben presto. Innanzi tutto papà Grandet volle andare a coricarsi di buon'ora; e, quando lui era a letto, in casa sua tutto doveva dormire; come, quando Augusto beveva, la Polonia doveva essere ubriaca. E poi, Nanon, Carlo ed Eugenia non erano meno stanchi del padrone di casa. Quanto alla signora Grandet, essa dormiva, mangiava, beveva, camminava secondo i desideri del marito. Tuttavia, durante le due ore accordate alla digestione, il bottaio, più faceto di quanto non lo fosse mai stato, pronunciò non pochi dei suoi apoftegmi particolari, dei quali uno solo darà la misura del suo spirito. Quando ebbe trangugiato il suo rosolio, guardò il bicchiere.

- Non si sono neppure accostate le labbra a un bicchiere, che è già vuoto! Ecco la nostra storia. Non si può essere ed essere stati. Gli scudi non possono correre e restare nella borsa, altrimenti la vita sarebbe troppo bella.

Fu gioviale e clemente. Quando Nanon venne col suo arcolaio:

- Devi essere stanca - le disse. - Lascia la tua canapa.

- Eh!, già!, mi annoierei - rispose la domestica.

- Povera Nanon! Vuoi un po' di ribes?

- Ah!, per il ribes, non dico di no, la signora lo fa molto meglio dei farmacisti. Quello che vendono loro è robaccia.

- Ci mettono troppo zucchero, e allora non sa più di niente - disse il brav'uomo.

L'indomani la famiglia, riunita alle otto per la colazione, offrì il quadro della prima scena d'una vera intimità. La disgrazia aveva presto unito la signora Grandet, Eugenia e Carlo; la stessa Nanon simpatizzava con loro senza saperlo. Tutti e quattro cominciarono a formare una medesima famiglia. Quanto al vecchio vignaiolo, la sua avarizia soddisfatta, e la certezza di veder presto partire il bellimbusto senza dovergli pagare altro che il viaggio a Nantes, gli resero quasi indifferente la presenza del nipote in casa. Lasciò i due ragazzi, giacché così chiamava Carlo ed Eugenia, liberi di comportarsi come meglio avessero creduto sotto la vigilanza della signora Grandet, nella quale riponeva una completa fiducia per quanto riguardava la morale pubblica e religiosa. La sistemazione dei prati e dei fossati lungo la strada, le piantagioni di pioppi lungo la Loira, e i lavori invernali nei vigneti e a Froidfond lo tennero esclusivamente occupato. Da allora cominciò per Eugenia la primavera dell'amore.

Dalla scena di quella notte in cui la cugina diede il tesoro al cugino, il suo cuore aveva seguito il tesoro. Complici tutti e due dello stesso segreto, si guardavano esprimendosi una mutua comprensione, che approfondiva i loro sentimenti e li rendeva loro più comuni, più intimi, mettendoli, per così dire, tutti e due al di fuori della vita ordinaria. La parentela non permetteva forse una certa dolcezza negli accenti, una tenerezza negli sguardi?

Così, Eugenia si compiacque nel sopire le sofferenze del cugino nelle gioie infantili d'un amore nascente. Non ci sono graziose somiglianze tra gli inizi dell'amore e quelli della vita? Non si culla il bimbo con dolci canzoni e sguardi amorosi? Non gli si raccontano favole meravigliose che indorano il suo avvenire? Per lui la speranza non spiega incessantemente le ali radiose? Non versa egli, di volta in volta, lacrime di gioia e di dolore? Non bisticcia per cose da nulla, per le pietruzze con le quali cerca di costruire un instabile palazzo, per un mazzolino di fiori dimenticati non appena colti? Non è avido di approfittare del tempo, di progredire nella vita? L'amore è la nostra seconda trasformazione. L'infanzia e l'amore furono la stessa cosa per Eugenia e per Carlo: fu la prima passione con tutte le sue fanciullaggini, tanto più carezzevoli per i loro cuori in quanto avvolti nella malinconia. Dibattendosi fin sul nascere sotto i veli del lutto, quell'amore era del resto ancor meglio in armonia con la semplicità provinciale di quella casa in rovina. Scambiando egli qualche parola con la cugina presso il ciglio del pozzo, in quel cortile silenzioso; trattenendosi essi in quel giardinetto, seduti su di un banco muscoso fino all'ora del tramonto, occupati a dirsi dei nonnulla, o raccolti nella calma che regnava tra il bastione e la casa, come sotto le arcate di una chiesa, Carlo comprese la santità dell'amore; giacché la sua gran dama, la sua cara Annetta, non gliene aveva fatto conoscere che i turbamenti tempestosi. Egli lasciava in quel momento la passione parigina, civettuola, vanitosa, sfrontata, per l'amore puro e autentico.

Amava quella casa le cui abitudini non gli sembravano più così ridicole. Scendeva presto al mattino, per poter conversare con Eugenia qualche istante prima che Grandet venisse a distribuire le provviste; e, quando i passi del brav'uomo risuonavano per le scale, si rifugiava in giardino. La piccola colpevolezza di quell'appuntamento mattutino, segreto anche per la madre di Eugenia, e di cui Nanon fingeva di non accorgersi, conferiva all'amore più innocente del mondo la viva attrazione dei piaceri proibiti. Poi, quando, dopo la colazione, papà Grandet era uscito per andare a sorvegliare le sue proprietà e i lavori agricoli, Carlo rimaneva tra la madre e la figlia, provando delizie sconosciute nel prestar loro le sue mani per dipanare il filo d'una matassa, nel vederle lavorare, nel sentirle chiacchierare.

La semplicità di quella vita quasi monastica, che gli rivelò la bellezza di quelle anime cui il mondo era sconosciuto, lo toccò vivamente. Egli non aveva mai creduto possibile in Francia simili costumi e ne aveva ammesso l'esistenza solo in Germania, seppure in un mondo di favola e nei romanzi di Augusto Lefontaine. Ben presto, per lui Eugenia fu l'ideale della Margherita di Goethe, salvo il fallo. Insomma, di giorno in giorno i suoi sguardi, le sue parole rapirono la povera ragazza, che si abbandonò deliziosamente alla corrente dell'amore, afferrava la felicità come un nuotatore afferra il ramo d'un salice per trarsi dal fiume e riposarsi sulla riva. Il dolore d'un prossimo distacco non rattristava già le ore più felici di quelle fuggitive giornate?

Ogni giorno un piccolo avvenimento ricordava loro la prossima separazione. Così, tre giorni dopo la partenza di de Grassins, Carlo fu condotto da Grandet al Tribunale di Prima Istanza con quella solennità che i provinciali mettono in simili atti, per firmare la rinuncia alla successione di suo padre. Ripudio terribile! Una specie di apostasia domestica. Poi si recò dal notaio Cruchot per far stendere due procure, una per de Grassins, un'altra per l'amico incaricato di vendere i suoi mobili. Poi si dovevano compiere le formalità necessarie per ottenere un passaporto per l'estero. Infine, quando giunsero i semplici abiti da lutto che aveva ordinato a Parigi, Carlo chiamò un sarto di Saumur, e gli vendette il suo guardaroba inutile. Questo gesto piacque in modo particolare a papà Grandet.

- Ah!, eccovi come un uomo che deve imbarcarsi e che vuol fare fortuna - gli disse vedendolo vestito con una redingote di pesante stoffa nera. - Bene, molto bene!

- Vi prego di credere - gli rispose Carlo - che saprò ben adeguarmi alla mia situazione.

- Che cosa è questo? - disse il brav'uomo i cui occhi si animarono alla vista di una manciata d'oro che Carlo gli mostrò.

- Signore, ho messo insieme i miei bottoni, i miei anelli, tutto il superfluo che possiedo e che poteva avere qualche valore; ma, non conoscendo nessuno a Saumur, volevo pregarvi questa mattina di...

- Di comprare questa roba? - disse Grandet interrompendolo.

- No, zio, di indicarmi una persona onesta che...

- Date a me, nipote, andrò a sistemare questa roba sù, e saprò dirvi ciò che vale, presso a poco al centesimo. Oro da gioielli - disse esaminando una lunga catena - da diciotto a diciannove carati.

Il brav'uomo stese la sua larga mano e portò via il quantitativo d'oro.

- Cugina - disse Carlo - permettetemi di offrirvi questi due fermagli, che potranno servirvi per mettere dei nastri ai vostri polsi, una specie di braccialetto assai alla moda adesso.

- Accetto ben volentieri, cugino mio - disse lei con uno sguardo d'intelligenza.

- Zia, eccovi il ditale di mia madre, lo conservavo gelosamente fra i miei oggetti da viaggio - disse Carlo presentando un grazioso ditale d'oro alla signora Grandet, che da dieci anni ne desiderava uno.

- Non ci sono ringraziamenti che bastino, nipote caro - disse la vecchia madre, i cui occhi s'inumidirono di lacrime. - Sera e mattina nelle mie preghiere aggiungerò la più fervida di tutte per voi, recitando quella per i viaggiatori. Se morissi, Eugenia conserverà lei questo gioiello.

- E' un valore di novecentottantanove franchi e settantacinque centesimi, nipote - disse Grandet aprendo l'uscio. - Ma, per evitarvi la noia di vendere questi oggetti, ve ne corrisponderò il valore... in lire.

L'espressione: in lire, significa sulle rive della Loira che gli scudi da sei lire devono essere accettati per sei franchi, senza detrazione.

- Non osavo proporvelo - rispose Carlo - ma in realtà mi ripugnava commerciare i miei gioielli nella città dove voi abitate. I panni sporchi si lavano in famiglia, diceva Napoleone. Vi ringrazio della vostra cortesia.

Grandet si grattò un orecchio, e ci fu un momento di silenzio. - Mio caro zio - riprese Carlo guardandolo con aria inquieta, come se avesse temuto di urtare la sua suscettibilità - mia cugina e mia zia si sono compiaciute di accettare un mio piccolo ricordo; vogliate voi pure gradire questi gemelli, che per me sono ormai inutili: vi ricorderanno un povero ragazzo che, lontano da voi, penserà certo a quelli che ormai rappresentano tutta la sua famiglia.

- Ragazzo mio!, ragazzo mio, non bisogna dar via tutto così... Che cosa hai avuto tu, moglie? - disse volgendosi avidamente verso di lei - ah! un ditale d'oro. E tu, figlia, tò, dei fermagli di diamanti. Andiamo, accetto i tuoi gemelli, ragazzo mio, - riprese stringendo la mano di Carlo. - Ma... tu mi permetterai di...

pagarti... il tuo, sì... il tuo viaggio per le Indie. Si, voglio pagarti il viaggio. Tanto più che, vedi, ragazzo mio, stimando i tuoi gioielli, ho calcolato solo il valore dell'oro, e c'è forse da guadagnare qualcosa sulla lavorazione. Allora è detto. Ti darò millecinquecento franchi... in lire, che Cruchot mi presterà; poiché qui io non ho il becco di un quattrino, a meno che Perrottet, che è in ritardo col pagamento dell'affitto, non me lo paghi. Anzi, anzi, andrò proprio a cercarlo.

Prese il cappello, calzò i guanti e uscì.

- Dunque ve ne andrete - disse Eugenia rivolgendogli uno sguardo di tristezza e insieme di ammirazione.

- E' necessario - egli disse chinando il capo.

Da qualche giorno, il contegno, i modi, le parole di Carlo erano diventati quelli di un uomo profondamente afflitto, ma che, sentendo pesare su di sé gravi responsabilità, trae nuovo coraggio dalla propria disgrazia. Non sospirava più, s'era fatto uomo.

Così, Eugenia giudicò meglio che mai il carattere di suo cugino quando lo vide scendere in sala vestito coi suoi abiti di pesante stoffa nera, che ben si adattavano al suo volto pallido e al suo mesto contegno. Anche le due donne misero il lutto il giorno in cui assistettero con Carlo a un "Requiem" celebrato nella parrocchia in suffragio dell'anima del defunto Guglielmo Grandet.

All'ora della seconda colazione, Carlo ricevette delle lettere da Parigi, e le lesse.

- Ebbene!, cugino mio, siete soddisfatto dei vostri affari? - disse Eugenia a bassa voce.

- Non fare mai queste domande, figlia mia - rispose Grandet. - Che diavolo!, io non ti parlo dei miei, e perché vuoi ficcare il naso in quelli di tuo cugino? Lascialo stare, quel ragazzo.

- Oh!, io non ho segreti - disse Carlo.

- Ta... ta... ta... nipote mio, imparerai che bisogna tenere la lingua a freno in commercio.

Quando i due innamorati si trovarono soli nel giardino, Carlo disse a Eugenia, traendola a sedere accanto a lui sul vecchio banco sotto il noce:

- Non mi ero sbagliato rivolgendomi ad Alfonso, si è com portato a meraviglia. Ha fatto i miei interessi con prudenza e lealtà. Non ho più alcun debito a Parigi, tutti i miei mobili sono stati venduti bene ed egli mi annuncia di avere, secondo i consigli miei e di un capitano di lungo corso, impiegato tremila franchi che rimanevano nell'acquisto di una paccottiglia composta di curiosità europee, dalle quali si può ricavare un eccellente profitto nelle Indie. Ha spedito i colli a Nantes, dove si trova un bastimento sotto carico per Giava. Fra cinque giorni, Eugenia, dovremo dirci addio per sempre forse, ma ad ogni modo per molto tempo. La paccottiglia e diecimila franchi che mi mandano due miei amici rappresentano ben poca cosa per cominciare. Non posso pensare al ritorno prima che siano trascorsi molti anni. Cara cugina, non impegnate la mia vita e la vostra, io posso morire, forse vi si presenterà una ricca sistemazione.

- Mi amate?... - lei disse.

- Oh!, sì, tanto - egli rispose con una profondità d'accento che rivelava una pari profondità di sentimento.

- Aspetterò, Carlo. Dio! Mio padre è in finestra - essa disse respingendo il cugino, che s'avvicinava per abbracciarla.

Eugenia corse a ripararsi sotto l'androne, Carlo la seguì; vedendolo, essa si ritirò ai piedi della scala e aprì la porta a sdrucciolo; poi, senza sapere bene dove andasse, Eugenia si trovò presso il bugigattolo di Nanon, nel punto meno illuminato del corridoio; là Carlo, che l'aveva seguita, le prese la mano, la trasse sul suo cuore, le cinse la vita e la strinse dolcemente a sé. Eugenia non seppe più resistere - ebbe e diede il più puro, il più soave, ma anche il più completo di tutti i baci.

- Cara Eugenia, un cugino è meglio d'un fratello, perché può sposarti - le disse Carlo...

- E così sia! - esclamò Nanon aprendo l'uscio del suo tugurio.

I due innamorati, spauriti, si rifugiarono in sala, dove Eugenia riprese il suo lavoro, e dove Carlo si mise a leggere le litanie della Vergine nel libro di preghiere della signora Grandet.

- Tò - disse Nanon - stiamo recitando tutti le nostre preghiere.

Dal momento in cui Carlo ebbe annunciato la sua partenza, Grandet si mise in moto per far credere che s'interessava molto di lui; si mostrò generoso in tutto ciò che non gli costava nulla, si occupò di trovargli un imballatore, e disse che questi pretendeva di vendere le sue casse troppo care; volle allora per forza fabbricarle lui stesso, e all'uopo adoperò alcune vecchie assi; si alzò di buon mattino per piallare, misurare, spianare, inchiodare le sue assicelle e confezionare con esse belle casse, nelle quali imballò tutta la roba di Carlo; s'incaricò di farle scendere col battello sulla Loira, di assicurarle, e di spedirle in tempo utile a Nantes.

Dopo il bacio nel corridoio, le ore volavano per Eugenia con una spaventosa rapidità. In certi momenti avrebbe voluto seguire il cugino. Chi ha conosciuto la più travolgente delle passioni, quella la cui durata è ogni giorno abbreviata dall'età, dal tempo, da una malattia mortale, da alcune delle fatalità umane, comprenderà i tormenti d'Eugenia. Essa piangeva spesso passeggiando in quel giardino, diventato ora troppo stretto per lei, come il cortile, la casa, la città: spaziava già sulla vasta distesa dei mari. Finalmente la vigilia della partenza arrivò. Al mattino, durante l'assenza di Grandet e di Nanon, il prezioso cofanetto nel quale si trovavano i due ritratti fu solennemente collocato nell'unico tiretto del canterano che si poteva chiudere a chiave, e dove si trovava la borsa ora vuota. Nel riporre quel tesoro non mancarono in gran numero baci e lacrime. Quando Eugenia pose la chiave nel suo seno, non ebbe il coraggio d'impedirne a Carlo di baciarne il punto in cui era stata messa.

- Non uscirà mai da qui, amico mio.

- Anche il mio cuore vi starà sempre.

- Ah!, Carlo, non sta bene - essa disse con un lieve accento di rimprovero.

- Non siamo forse sposati? - egli rispose - ho la tua parola, eccoti la mia.

"Tuo, per sempre", fu detto due volte, dall'uno e dall'altra.

Nessuna promessa fatta su questa terra fu più pura: il candore di Eugenia aveva momentaneamente santificato l'amore di Carlo.

All'indomani mattina la colazione fu triste. Nonostante la veste da camera dai rabeschi dorati e una crocetta d'oro donatale da Carlo, la stessa Nanon, libera di manifestare i propri sentimenti, ebbe le lacrime agli occhi.

- Oh!, povero signorino, che se ne va sul mare! Che Dio lo accompagni!

Alle dieci e mezza, la famiglia si avviò per accompagnare Carlo alla diligenza per Nantes. Nanon, che aveva sciolto il cane e chiuso la porta, volle portare la valigia di Carlo. Tutti i negozianti della vecchia strada erano sulla soglia delle loro botteghe per veder passare quel corteo, al quale si aggiunse quando furono sulla piazza il notaio Cruchot.

- Non piangere, Eugenia - le disse la madre.

- Nipote mio - disse Grandet sotto la porta dell'albergo - baciando Carlo sulle due gote - partite povero, tornate ricco, e troverete l'onore di vostro padre salvo. Ve ne rispondo io, Grandet, giacché, allora starà solo a voi di....

- Ah!, caro zio, voi addolcite l'amarezza della mia partenza. Non è questo il più bel regalo che mi potete fare?

Non comprendendo le parole del vecchio bottaio, che aveva interrotto, Carlo sparse sul viso abbronzato dello zio lacrime di riconoscenza, mentre Eugenia stringeva con tutta la forza la mano del cugino e quella del padre. Soltanto il notaio sorrideva ammirando l'astuzia di Grandet, poiché soltanto lui aveva ben capito ciò che il brav'uomo aveva voluto dire. I quattro cittadini di Saumur, contornati da molte persone, rimasero dinanzi alla vettura fino a che questa non partì; poi, quando scomparve sul ponte e il rumore ne echeggiò lontano: Buon viaggio! - disse il vignaiolo. Fortunatamente il notaio Cruchot fu il solo a sentire questa esclamazione. Eugenia e la madre erano andate in un punto della strada da cui potevano vedere ancora la diligenza, e agitavano i loro fazzoletti bianchi, segno al quale rispose Carlo sventolando il suo.

- Mamma, vorrei avere per un istante la forza di Dio - disse Eugenia nel momento in cui non vide più il fazzoletto di Carlo Per non interrompere il corso degli eventi che si succedettero in seno alla famiglia Grandet, è necessario dare in anticipo uno sguardo alle operazioni che il brav'uomo fece a Parigi per il tramite di de Grassins. Un mese dopo la partenza del banchiere, Grandet possedeva un'iscrizione sul libro del Debito Pubblico di centomila lire di rendita acquistata a ottanta franchi netti. I dati ricavati, alla sua morte, dal suo inventario, non hanno mai potuto fornire la benché minima luce sui mezzi che la diffidenza gli suggerì per tramutare il prezzo di quella iscrizione nella iscrizione stessa. Il notaio Cruchot pensò che Nanon fosse stata, a sua insaputa, lo strumento fedele del trapasso dei fondi. Verso quell'epoca la domestica si assentò per cinque giorni, col pretesto di andare a sistemare qualcosa a Froidfond, come se il brav'uomo fosse stato tipo da lasciare qualcosa in pendenza.

Quanto agli affari della ditta Guglielmo Grandet, tutte le previsioni del bottaio si avverarono.

Alla Banca di Francia si hanno, come ognuno sa, gli elementi più esatti sulle grandi fortune di Parigi e dei vari dipartimenti. I nomi di de Grassins e di Felice Grandet di Saumur vi erano conosciuti, e vi godevano di quella stima accordata alle celebrità finanziarie che si basano su immense proprietà terriere libere da ipoteche. L'arrivo del banchiere di Saumur, incaricato, si diceva, di liquidare onorevolmente la ditta Grandet di Parigi, bastò dunque a evitare alla memoria del defunto commerciante l'onta dei protesti. I sigilli furono tolti alla presenza dei creditori, e il notaio di famiglia procedette regolarmente all'inventario della successione. Ben presto de Grassins riunì i creditori, i quali, all'unanimità, elessero liquidatore il banchiere di Saumur, unitamente a Francesco Keller, titolare d'una ricca azienda, uno dei principali interessati, e conferirono loro tutti i poteri necessari per salvare a un tempo l'onore della famiglia e i creditori. Il credito di cui godeva Grandet di Saumur, la speranza che egli infuse nel cuore dei creditori tramite de Grassins, facilitarono le transazioni; non si trovò un solo recalcitrante fra i creditori. Nessuno pensava di passare il proprio credito in conto Profitti e Perdite, e ognuno diceva: "Grandet di Saumur pagherà!". Trascorsero sei mesi. I parigini avevano ritirato gli effetti in circolazione e li conservavano in fondo ai loro portafogli; primo risultato che voleva ottenere il bottaio. Nove mesi dopo la prima assemblea, i due liquidatori distribuirono il quarantasette per cento a ogni creditore. Tale somma rappresentò il ricavo della vendita dei valori, possedimenti, beni e cose di vario genere appartenuti al fu Guglielmo Grandet, eseguita con fedeltà scrupolosa. La liquidazione fu informata alla più meticolosa probità. I creditori si compiacquero di riconoscere l'ammirevole e incontestabile onore dei Grandet. Dopo che queste lodi ebbero circolato il tempo conveniente, i creditori chiesero il resto del loro denaro. Dovettero scrivere una lettera collettiva a Grandet.

- Ci siamo - disse il vecchio bottaio gettando la lettera al fuoco - pazienza, amici miei.

In risposta alle richieste contenute in quella lettera Grandet di Saumur chiese il deposito presso un notaio di tutti i titoli di credito esistenti contro la successione del fratello, accompagnati dalla quietanza dei pagamenti già eseguiti, col pretesto di verificare ì conti e di stabilire secondo correttezza lo stato della successione. Il deposito suscitò mille difficoltà. In genere, il creditore è una specie di maniaco. Oggi disposto a concludere, domani vuol mettere tutto a ferro e fuoco; più tardi diventa ultra-accomodante. Oggi sua moglie è di buon umore, il bimbo ha messo un dente, in casa tutto va bene, egli non vuol rimetterci un soldo; domani piove, non può uscire, è malinconico, e allora dice sì a ogni proposta, pur di finirla; dopodomani gli occorrono garanzie, alla fine del mese vorrà farvi gli atti, il carnefice! Il creditore somiglia a quel passero in libertà sulla coda del quale s'invitano i bambini a mettere un pizzico di sale; ma il creditore ritorce questa immagine contro il suo credito, di cui non riesce a recuperare niente. Grandet aveva osservato le variazioni atmosferiche dei creditori, e quelli di suo fratello obbedirono a tutti i suoi calcoli. Gli uni andarono in bestia e opposero un netto rifiuto al deposito. "Bene!, benissimo", diceva Grandet fregandosi le mani nel leggere le lettere che gli scriveva a tal proposito de Grassins. Altri non consentirono al deposito se non alla condizione di far bene accertare i loro diritti, di non rinunciare ad alcuno di essi, e di riservarsi anche quello di far dichiarare il fallimento. Altra corrispondenza, dopo la quale Grandet di Saumur acconsentì a tutte le riserve richieste.

Negoziando questa concessione, i creditori condiscendenti fecero intendere le loro ragioni ai creditori intransigenti. Il deposito fu eseguito, non senza qualche lamentela. "Quel brav'uomo", fu detto a de Grassins, "prende in giro voi e noi". Ventitré mesi dopo la morte di Guglielmo Grandet, molti commercianti, distratti dal giro degli affari di Parigi, avevano dimenticato il recupero dei crediti Grandet, o ci pensavano solo per dirsi: "Comincio a credere che quel quarantasette per cento è tutto ciò che potrò cavarne fuori". Il bottaio aveva contato sul potere del tempo, che, diceva, è un buon diavolo. Alla fine del terzo anno, de Grassins scrisse a Grandet che, pagando il dieci per cento dei due milioni e quattrocentomila franchi ancora dovuti dalla ditta Grandet, avrebbe indotto i creditori a consegnargli i loro titoli.

Grandet rispose che il notaio e l'agente di cambio, i cui spaventosi fallimenti avevano causato la morte del fratello, vivevano, loro!, e potevano essersi rimessi in sesto, e che perciò bisognava procedere contro di loro per tirarne fuori qualcosa e diminuire la cifra del deficit. Alla fine del quarto anno, il deficit fu debitamente fissato nella cifra di un milione e duecentomila franchi. Ci furono trattative che durarono sei mesi tra i liquidatori e i creditori, tra Grandet e i liquidatori. In breve, vivamente sollecitato a pagare, Grandet di Saumur rispose ai due liquidatori, verso il nono mese di quell'anno, che suo nipote, il quale aveva fatto fortuna nelle Indie, gli aveva manifestato l'intenzione di pagare integralmente i debiti del padre; che egli non poteva quindi assumersi la responsabilità di soddisfarli senza averlo consultato; che attendeva una risposta. I creditori, verso la metà del quinto anno, erano ancora tenuti in scacco con la parola "integralmente", di tanto in tanto lasciata cadere dal sublime bottaio, il quale rideva sotto i baffi, e non diceva mai: quei "Parigini!", senza lasciarsi sfuggire un fine sorriso e una bestemmia. Ma ai creditori fu riservata una sorte inaudita nei fasti del commercio. Essi si ritroveranno nella posizione in cui li aveva lasciati Grandet al momento in cui gli avvenimenti di questa storia li obbligheranno a ricomparirvi.

Quando la rendita raggiunse 115, papà Grandet vendette, ritirò da Parigi circa due milioni quattrocentomila franchi in oro, che andarono a raggiungere nei suoi barilotti i seicentomila franchi d'interessi composti che gli avevano fruttato i suoi titoli. De Grassins restava intanto a Parigi. Ecco perché! Innanzi tutto fu eletto deputato; poi s'incapricciò, lui padre di famiglia, ma annoiato della noiosa vita saummurese, di Fiorina, una delle più graziose attrici del teatro di Madame, e nel banchiere si ebbe una recrudescenza del quartiermastro. E' inutile parlare della sua condotta; essa fu giudicata a Saumur profondamente immorale. Sua moglie si considerò molto fortunata di avere i beni separati e di possedere abbastanza cervello per condurre l'azienda di Saumur, i cui affari continuarono a essere trattati sotto il suo nome, al fine di riparare i danni causati al patrimonio dalle pazzie del signor de Grassins. I Crusciottiani peggiorarono così bene la falsa situazione della quasi vedova, che essa maritò assai male sua figlia, e dovette rinunciare al matrimonio di suo figlio con Eugenia Grandet. Adolfo raggiunse de Grassins a Parigi e vi divenne, si disse, un pessimo soggetto. I Cruchot trionfarono.

- Vostro marito non ha buon senso - disse Grandet - prestando una somma alla signora de Grassins, contro garanzie. Vi compiango molto, perché siete una brava donnina.

- Ah!, signore - rispose la povera signora - chi avrebbe mai potuto immaginare che il giorno in cui partì da casa vostra per andare a Parigi, andava incontro alla sua rovina?

- Il cielo mi è testimonio, signora, che ho fatto di tutto fino all'ultimo momento per impedirglielo. Il signor presidente voleva a ogni costo sostituirlo; e se teneva tanto ad andarci, ora ne sappiamo il perché! - In questa forma Grandet dichiarava di non aver alcun obbligo verso i de Grassins.

In ogni situazione, le donne trovano più ragioni di dolore che non l'uomo, e soffrono più di lui. L'uomo ha la sua forza e l'esercizio del suo potere; agisce, si muove, traffica, pensa, guarda all'avvenire e vi trova una consolazione. Così faceva Carlo. Ma la donna rimane lì, resta faccia a faccia col dolore da cui nulla la distrae, discende fino al fondo dell'abisso che esso ha aperto, lo misura e spesso lo riempie coi suoi voti e le sue lacrime. Così faceva Eugenia. Essa si iniziava al suo destino.

Avere sentimento, amare, soffrire, sacrificarsi, di questo sarà sempre intessuta la vita della donna. Eugenia, doveva essere tutta la donna, ma senza quel che la consola. La sua felicità, fitta quanto i chiodi disseminati nel muro, secondo la sublime espressione di Bossuet, non avrebbe dovuto un giorno riempirle neppure il cavo della mano. I dolori non si fanno mai attendere, e per lei arrivarono presto. All'indomani della partenza di Carlo, la casa Grandet riprese il suo aspetto normale per tutti, fuorché per Eugenia, che la trovò improvvisamente vuota. All'insaputa del padre, volle che la camera di Carlo rimanesse nello stato in cui egli l'aveva lasciata. La signora Grandet e Nanon furono volentieri complici di questo "statu quo".

- Chi sa che non torni più presto di quanto non crediamo? - essa disse.

- Ah!, vorrei che già fosse qui - rispose Nanon. Mi ci ero abituata tanto bene a lui! Era così gentile, così educato, si potrebbe dire quasi bello e coi capelli inanellati come una ragazza-. Eugenia guardava Nanon. - Santa Vergine, signorina, ma voi avete certi occhi da dannarvi l'anima! Non guardate a quel modo, per l'amor di Dio.

Da quel giorno, la bellezza della signorina Grandet prese un nuovo carattere. I gravi pensieri d'amore da cui la sua anima era lentamente invasa, la dignità della donna amata conferirono ai suoi lineamenti quella specie di splendore che i pittori rendono con una aureola. Prima dell'arrivo del cugino, Eugenia poteva essere paragonata alla Vergine prima della concezione; dopo la sua partenza rassomigliava alla Vergine madre: essa aveva concepito l'amore. Queste due Marie così diverse e così ben rappresentate da qualche pittore spagnolo, costituiscono una delle più luminose figure del cristianesimo. Tornando dalla messa, a cui si recò all'indomani della partenza di Carlo, e a cui aveva fatto voto di assistere ogni giorno, essa acquistò, dal libraio della città, una carta geografica che inchiodò accanto al suo specchio, per seguire il cugino nel suo viaggio verso le Indie, per potersi mettere un po', sera e mattina, nel bastimento che lo trasportava, per vederlo, per rivolgergli mille domande, per dirgli: "Stai bene?

Non soffri? Pensi a me, guardando quella stella, di cui mi hai insegnato a conoscere la bellezza e l'utilità?". Poi, il mattino, se ne stava pensosa sotto il noce, seduta sulla panca di legno tarlato e ornato di muschio grigio dove s'erano dette tante belle cose, tanti nonnulla, dove avevano costruito i castelli in aria del loro bel sogno d'amore. Essa pensava all'avvenire guardando il cielo dal ristretto spazio che le mura le consentivano di abbracciare; poi la vecchia ala di muro, e il tetto sotto il quale era la camera di Carlo. Fu insomma l'amore solitario, l'amore vero che persiste, che si insinua in tutti i pensieri, e diviene la sostanza, o, come avrebbero detto i nostri padri, il tessuto della vita. Quando i sedicenti amici di papà Grandet venivano la sera a far la partita, era gaia, dissimulava; ma, durante tutte le mattine, parlava di Carlo con sua madre e con Nanon. Nanon aveva capito che poteva compatire i dolori della padroncina senza mancare ai doveri verso il suo vecchio padrone, lei che diceva a Eugenia:

- Se avessi avuto un uomo, io, l'avrei... seguito fino all'inferno. Lo avrei... che!... insomma, mi sarei fatta ammazzare per lui; ma... niente. Morirò senza sapere che cosa è la vita. Ci credereste, signorina, che quel vecchio di Cornoiller, che poi è un brav'uomo, gira attorno alla mia sottana, per le mie rendite, proprio come quelli che vengono qui ad annusare il tesoro del padrone, facendovi la corte? Io me ne accorgo, perché ancora sono un po' furba, benché sia grossa come una torre; ebbene!, signorina, questo mi fa piacere, quantunque non sia proprio l'amore.

Due mesi trascorsero così. Quella vita domestica, un tempo tanto monotona, s'era animata per l'immenso interesse del segreto che teneva unite più intimamente le tre donne. Per loro, sotto il soffitto grigiastro della sala, Carlo viveva, andava, veniva ancora. Sera e mattina Eugenia apriva e contemplava il ritratto della zia. Una domenica mattina venne sorpresa dalla madre nel momento in cui stava cercando i lineamenti di Carlo in quelli del ritratto. La signora Grandet fu allora iniziata al terribile segreto del cambio fatto dal viaggiatore col tesoro di Eugenia.

- Gli hai dato tutto? - disse la madre spaventata. - Che dirai dunque a tuo padre, il primo dell'anno, quando vorrà vedere il tuo oro?

Gli occhi di Eugenia divennero fissi; e le due donne rimasero in preda a un terrore mortale per metà della mattinata. Esse furono così turbate, da non fare in tempo alla messa cantata, e si recarono solo a quella per i militari. Tre giorni dopo, l'anno 1819 sarebbe finito. Tre giorni dopo avrebbe avuto inizio un tremendo dramma, una tragedia borghese senza veleno, né pugnale, né sangue sparso; ma per gli attori, più crudele di tutti i drammi avvenuti nella illustre famiglia degli Atridi.

- Che ne sarà di noi? - disse la signora Grandet alla figlia, lasciando cadere il lavoro a maglia sulle ginocchia.

La povera madre subiva da due mesi tali turbamenti, da non aver ancora finito le maniche di lana di cui aveva bisogno per il prossimo inverno. Questo fatto domestico, di minima importanza all'apparenza, ebbe tristi conseguenze per lei. Per la mancanza delle maniche, il freddo la colpì in malo modo durante una sudata fatta a causa di una spaventosa scenata del marito.

- Pensavo, povera figlia mia, che, se mi avessi confidato il tuo segreto, avremmo fatto in tempo a scrivere a Parigi al signor de Grassins. Egli avrebbe potuto mandarci alcune monete d'oro simili alle tue; e, sebbene Grandet le conosca bene, forse...

- Ma dove avremmo potuto trovare tanto denaro?

- Avrei impegnato quel che è mio... Del resto il signor de Grassins ci avrebbe certo...

- Ormai non siamo più in tempo - rispose Eugenia con una voce cupa e alterata interrompendo la madre. - Domani mattina non dobbiamo andar da lui ad augurargli il buon anno in camera sua?

- Ma, figlia mia, non potrei ricorrere ai Cruchot?

- No, no, sarebbe darmi nelle loro mani e metterci a ricasco loro.

E poi, ho deciso così. Ho tatto bene quel che ho fatto, e non mi pento di nulla. Dio mi proteggerà. Sia fatta la sua santa volontà.

Ah!, se aveste letto la sua lettera, non avreste pensato che ad aiutarlo, mamma mia. - L'indomani mattina, primo gennaio 1820, il terrore flagrante cui madre e figlia erano in preda, suggerì loro la più naturale delle scuse per non recarsi solennemente nella camera di Grandet. L'inverno dal 1819 al 1820 fu uno dei più rigidi dell'epoca. La neve era alta sui tetti.

La signora Grandet disse al marito, quando sentì che si muoveva nella sua camera:

- Grandet, fa accendere da Nanon un po' di fuoco in camera mia; il freddo è così forte che gelo sotto le coperte. Sono arrivata a un'età in cui ho bisogno di qualche riguardo. Del resto - riprese dopo una breve pausa - Eugenia verrà a vestirsi qui. La povera ragazza potrebbe buscarsi una malattia se facesse toletta in camera sua con un tempo simile. Poi verremo ad augurarti il buon anno vicino al fuoco, in sala.

- Ta, ta, ta, che lingua! Come cominci l'anno, signora Grandet!

Non hai mai parlato tanto. Eppure non credo che tu abbia mangiato pane intinto nel vino. - Ci fu un momento di silenzio. - Ebbene! - riprese il brav'uomo, al quale senza dubbio la proposta di sua moglie garbava - farò come vorrete, signora Grandet. Sei proprio una brava moglie, e non voglio che ti colga qualche male all'età tua, per quanto in genere i La Bertellière siano di vecchio cemento. Eh!, non è vero? - esclamò dopo una pausa. - E poi, noi siamo loro eredi, e gli perdono.

- Siete allegro, stamane, signore - disse gravemente la povera donna.

- Sempre allegro, io...

Lieto, lieto, o bottaio, racconcia la bigoncia.

aggiunse, entrando in camera della moglie già bell'e vestito. - Sì, corpo di bacco, fa proprio un bel freddo. Faremo una buona colazione, moglie mia. De Grassins mi ha mandato un pasticcio di fegato d'oca tartufato! Ora vado a prenderlo alla posta. Deve averci aggiunto un doppio napoleone per Eugenia - le disse all'orecchio. - Non ho più oro, moglie mia. Avevo ancora qualche vecchia moneta, a te lo posso dire; ma ho dovuto privarmene per gli affari - . E, per celebrare il primo giorno dell'anno, la baciò in fronte.

- Eugenia - gridò la buona mamma - non so su quale fianco tuo padre ha dormito; ma è di buon umore, stamattina. E via!, ce la caveremo.

- Ma che cosa ha il padrone? - disse Nanon entrando in camera della padrona per accendervi il fuoco. Prima di tutto mi ha detto:

"Buon giorno, buon anno, bestiona! Va' ad accrescere il fuoco da mia moglie, perché sente freddo". Poi sono rimasta come una stupida quando l'ho visto tendermi una mano per darmi uno scudo di sei franchi quasi punto tosato! Eccolo, signora, lo vedete? Oh!, che brav'uomo. E' una degna persona, dopotutto. Ce ne sono di quelli che più invecchiano, più induriscono; invece lui, diventa dolce come il vostro ribes, si fa sempre più buono. E' proprio un perfetto e brav'uomo...

Il segreto di quella gioia era da ricercarsi nel completo successo della speculazione di Grandet. Il signor de Grassins, dopo aver detratto le somme che gli doveva il bottaio per lo sconto dei centocinquantamila franchi di effetti olandesi, e per il dippiù che gli aveva anticipato per completare la somma necessaria all'acquisto delle centomila lire di rendita, gli aveva inviato, con la diligenza, trentamila franchi in scudi, rimanenza degli interessi sul semestre, e gli aveva annunciato il rialzo dei fondi pubblici. Erano allora a 89, e i più noti capitalisti li compravano, a fine gennaio a 92. Grandet guadagnava, da due mesi, il dodici per cento sui suoi capitali; aveva appurato i suoi conti, e stava ormai per riscuotere cinquantamila franchi ogni sei mesi senza dover pagare né imposte né indennizzi. Egli si rendeva conto dell'utilità della rendita, impiego per il quale i provinciali manifestano una ripugnanza invincibile, e si vedeva, in meno di cinque anni, padrone di un capitale di sei milioni messo insieme senza troppa fatica, e che, aggiunto al valore delle sue proprietà immobiliari, avrebbe costituito un patrimonio colossale. I sei franchi regalati a Nanon erano forse il compenso di un grande servizio che la domestica aveva a sua insaputa reso al suo padrone.

- Oh!, oh!, dove se ne va papà Grandet, che corre da stamattina come se andasse a spegnere un incendio? - si chiesero i negozianti intenti ad aprire le loro botteghe. Poi, quando lo videro tornare seguito da un fattorino delle messaggerie che trasportava su di una carriola alcuni sacchi pieni:

- L'acqua va sempre al mare, il brav'uomo andava verso i suoi scudi - diceva uno.

- Gliene arrivano da Parigi, da Froidfond, dall'Olanda! - diceva un altro.

- Finirà per comprare tutta Saumur - esclamava un terzo.

- Se ne infischia del freddo, è sempre dietro ai suoi affari - diceva una donna al marito.

- Eh!, eh!, signor Grandet, se quella roba v'incomodasse - gli disse un mercante di stoffe, il suo più prossimo vicino - ve ne sbarazzo io.

- Ma non sono che soldi! - rispose il vignaiolo.

- D'argento - disse il facchino a bassa voce.

- Se vuoi che pensi poi a te, acqua in bocca - disse il brav'uomo al facchino aprendo la porta di casa.

- Ah!, vecchia volpe, lo credevo sordo - pensò il facchino; - ma pare che quando fa freddo ci senta bene.

- Eccoti venti soldi come strenna, e acqua in bocca! Fila! - gli disse Grandet. - Nanon ti riporterà la carriola. Nanon, le donne sono andate alla messa?

- Sì, signore.

- Andiamo, marcia! Al lavoro! - gridò caricandola di sacchi. In un momento gli scudi furono trasportati nella sua stanza dove si rinchiuse. - Quando la colazione sarà pronta, bussami al muro.

Riporta la carriola alle Messaggerie.

La famiglia fece colazione solo alle dieci.

- Qui tuo padre non chiederà di vedere il tuo oro, - disse la signora Grandet alla figlia tornando dalla messa. - E poi, mostra d'avere freddo. Del resto avremo tempo di rifare il tuo tesoro per il giorno del tuo compleanno...

Grandet scese la scala pensando a metamorfosare prontamente i suoi scudi parigini in buon oro e alla sua mirabile speculazione sulle rendite di Stato. Era deciso a impiegare in questa forma i suoi frutti fino a quando la rendita non raggiungesse il tasso di cento franchi. Meditazione funesta per Eugenia. Non appena entrò, le due donne gli augurarono buon anno, la figlia saltandogli al collo e vezzeggiandolo, la signora Grandet gravemente e con dignità.

- Ah!, ah!, bambina mia - disse baciando la figlia sulle gote - io lavoro per te, vedi? Voglio la tua felicità. Ci vuole denaro per essere felici. Senza soldi, marameo. To', eccoti un napoleone nuovo di zecca, l'ho fatto venire da Parigi. Corpo di bacco, non c'è un grano d'oro in casa. Non ci sei che tu ad avere dell'oro.

Fammi vedere il tuo oro, "fifiglia".

- Oh!, fa troppo freddo, facciamo colazione - gli rispose Eugenia.

- Va bene, allora dopo, eh? Ci aiuterà a digerire. Quel grullo di de Grassins ci ha mandato questa roba - riprese. - E allora sotto, mangiate, donne mie, tanto non costa niente. Lavora bene de Grassins, sono contento di lui. Quel baccalà rende un servizio a Carlo, e pure gratis. Sta sistemando molto bene gli affari del mio povero fratello. Oh!, Oh! - fece con la bocca piena, dopo una pausa - sapete che è molto buono? Mangialo, mangialo, moglie mia!

questo ti nutrirà almeno per due giorni.

- Non ho appetito. Sono tutta malandata, lo sai.

- Ma va là! Tu puoi rimpinzarti senza paura di far crepare il tuo stomaco; sei una La Bertellière, una donna forte. Sei un po' giallina, sì, ma il giallo mi piace.

L'attesa di una morte ignominiosa e pubblica sarebbe stata forse meno terribile per un condannato, di quanto non lo fosse per la signora Grandet e per sua figlia l'attesa degli eventi che dovevano chiudere quella colazione familiare. Più il vecchio vignaiolo allegramente parlava e mangiava, più il cuore delle due donne si stringeva. Ma almeno la figlia aveva un appoggio in tale congiuntura: essa traeva forza dal suo amore.

"Per lui, per lui", diceva tra sé e sé, "soffrirei mille morti".

A questo pensiero, lanciava alla madre sguardi sfavillanti di coraggio.

- Sbarazza tutta questa roba - disse Grandet a Nanon quando, verso le undici, la colazione ebbe termine; - ma lasciaci la tavola.

Staremo più comodi per vedere il tuo piccolo tesoro - disse guardando Eugenia. - Piccolo in fede mia, poi no. Tu possiedi, come valore intrinseco, cinquemilanovecentocinquantanove franchi, che, coi quaranta di questa mattina, fanno seimila franchi meno uno. Ebbene, te lo darò io questo franco per completare la somma, perché, vedi, "fifiglia".... Ebbene, perché stai ad ascoltarci?

Alza i tacchi Nanon, e va' al tuo lavoro - disse il brav'uomo.

Nanon scomparve.

- Sentimi, Eugenia, bisogna che tu mi dia il tuo oro. Non lo rifiuterai certo a tuo "papadre, fifiglietta" mia, no? - Le due donne restavano silenziose.

- Non ho più oro, io. Lo avevo, ma adesso non l'ho più. Ti restituirò i seimila franchi in lire, e tu le impiegherai come ti dirò io. Non è più il caso di pensare al corredo. Quando ti mariterò, e questo avverrà presto, ti troverò uno sposo che potrà offrirti il più bel corredo di cui si sarà mai parlato in provincia. Ascoltami dunque, "fifiglia". Si presenta una bella occasione: puoi impiegare i tuoi seimila franchi in cartelle del Debito Pubblico, e ogni sei mesi riscuoterai circa duecento franchi d'interesse, senza imposte, né indennizzi, né grandine, né gelate, né maree, né niente altro di quel che insidia le rendite immobiliari. Ti dispiace forse di privarti del tuo oro, eh, "fifiglia"? Portamelo qui lo stesso. Raccoglierò per te monete d'oro, olandesi, portoghesi, rupie del Mogol, genovine; e, con quelle che ti regalerò per la tua festa, in tre anni avrai ricostituito la metà del tuo piccolo tesoro aureo. Che ne dici, "fifiglia"? Alza il viso. Suvvia, vai a prenderlo, quel tesoretto.

Dovresti ringraziarmi perché ti rivelo i segreti e i misteri di vita e di morte degli scudi. Giacché gli scudi vivono e brulicano come gli uomini; vanno, vengono, sudano, producono.

Eugenia si alzò, ma, dopo aver fatto qualche passo verso l'uscio, si voltò bruscamente, guardò il padre in viso e gli disse:

- Il mio oro non l'ho più.

- Non hai più il tuo oro? - esclamò Grandet rizzandosi sui garretti come un cavallo che sente sparare il cannone a dicci passi da sé.

- No, non l'ho più.

- Tu ti sbagli, Eugenia.

- No.

- Maledizione!

Quando il bottaio imprecava così, il pavimento tremava.

- Dio buono e santo!, ecco che la signora impallidisce - esclamò Nanon.

- Grandet, la tua ira mi farà morire - disse la povera donna.

- Ta, ta, ta, ta, voialtri non morite mai, nella vostra famiglia!

Eugenia, che ne avete fatto delle vostre monete? - gridò scagliandosi verso di lei.

- Signore - disse la figlia rifugiatasi fra le ginocchia della signora Grandet - mia madre sta soffrendo. Guardate, non uccidetela.

Grandet fu spaventato dal pallore diffuso sul volto della moglie, già così giallo.

- Nanon, aiutatemi a mettermi a letto - disse la madre con voce fioca. - Mi sento morire. - Nanon accorse a dare il braccio alla padrona, così fece Eugenia, e solo con pene infinite riuscirono a farla salire nella sua camera, giacché sveniva di gradino in gradino. Grandet rimase solo. Tuttavia qualche istante dopo, salì sette od otto gradini, e gridò:

- Eugenia, quando avete messo letto vostra madre, scendete qui subito.

- Sì, padre mio.

Essa non tardò a tornare, dopo aver rassicurato sua madre.

- Figliola - le disse Grandet - ditemi dov'è il vostro tesoro.

- Babbo, se voi mi fate regali di cui non sia interamente padrona, riprendeteveli - rispose freddamente Eugenia, cercando il napoleone sul caminetto e tendendoglielo.

Grandet afferrò avidamente il napoleone e se lo cacciò nel taschino.

- Lo credo bene che non ti darò più niente. Nemmeno tanto così - disse facendo schioccare l'unghia del pollice sotto gli incisivi.

- Disprezzate dunque vostro padre, non avete confidenza in lui, non sapete dunque che cosa è un padre? Se non è tutto per voi, non è nulla. Dov'è il vostro oro?

- Babbo, vi voglio bene e vi rispetto, malgrado la vostra collera; ma vi farò umilmente osservare che ho ventidue anni. Mi avete detto troppo spesso che sono maggiorenne per non saperlo. Del mio denaro ho fatto l'uso che meglio mi è sembrato, e state pur certo che l'ho collocato bene...

- Dove?

- E' un segreto inviolabile - essa disse. - Non avete anche voi i vostri segreti?

- Ma io sono il capo della famiglia, e non posso avere gli affari miei?

- E pure questo è affar mio.

- Dev'essere un cattivo affare, se non potete dirlo a vostro padre, signorina Grandet.

- E' eccellente, e non posso dirlo a mio padre.

- Ma almeno si può sapere quando avete dato via il vostro oro? - Eugenia fece col capo un cenno di diniego. - Lo avevate ancora il giorno della vostra festa, no? - Eugenia, diventata scaltra per amore quanto suo padre lo era per avarizia, ripeté lo stesso segno col capo. - Ma non s'è mai vista una testardaggine simile, né simile furto - disse Grandet con una voce che andò crescendo, e che fece gradatamente risuonare la casa. - Come!, qui, nella mia casa, sotto i miei occhi, qualcuno avrebbe preso il tuo oro? Il solo oro che c'era! E io non dovrò sapere chi è costui? L'oro è cosa cara. Le più oneste ragazze possono commettere dei falli, dare non so che, e questo accade sia nelle famiglie nobili come nelle borghesi; ma dare via dell'oro, poiché lo avete dato a qualcuno, no? - Eugenia rimase impassibile. - Si è mai vista una figlia simile? E sono io sì o no vostro padre? Se lo avete collocato, avrete una ricevuta...

- Ero libera sì o no di farne quel che meglio credevo? Era mio?

- Ma tu sei una bambina.

- Maggiorenne.

Sbalordito dalla logica della figlia, Grandet impallidì, batté i piedi a terra, bestemmiò; poi trovando finalmente le parole, gridò:

- Maledetta serpe d'una figlia! Ah! Mala pianta, tu sai bene che ti amo, e ne abusi. E lei uccide suo padre! Perdio, tu devi aver gettato la nostra fortuna ai piedi di quello scalcagnato che porta gli stivali di marocchino. Maledizione!, non posso diseredarti, corpo d'una botte! ma maledico te, tuo cugino, e i figli tuoi!

Vedrai che da tutto questo non verrà fuori nulla di buono, mi capisci? Se è a Carlo che... Ma no, è impossibile. Che! Quel perfido bellimbusto mi avrebbe svaligiato? - E guardò sua figlia che restava muta e fredda. - E lei non si muove, non batte ciglio, è più Grandet di Grandet! Ma almeno non avrai dato il tuo oro per nulla, no? Andiamo, parla - . Eugenia guardò il padre, rivolgendogli uno sguardo ironico che lo offese. - Eugenia, voi siete in casa mia; da vostro padre. Per rimanerci, dovete sottomettervi ai suoi ordini. I preti vi ordinano di obbedirmi - .

Eugenia abbassò la testa. - Voi mi offendete in quel che ho di più caro, riprese - e voglio vedervi sottomessa. Andate in camera vostra. Ci rimarrete fino a quando non vi avrò permesso di uscirne. Nanon vi porterà pane e acqua. Mi avete sentito? Andate!

Eugenia ruppe in lacrime e corse dalla madre. Dopo aver fatto un certo numero di volte il giro del giardino, sotto la neve, senza accorgersi del freddo, Grandet pensò che la figlia si fosse rifugiata presso la madre; e, lusingato di poterla cogliere in fallo di disobbedienza ai suoi ordini, si arrampicò per la scala con l'agilità di un gatto, e apparve nella camera della signora Grandet nel momento in cui questa accarezzava i capelli d'Eugenia, il cui volto era affondato nel seno materno.

- Consolati, mia povera figliola, tuo padre si calmerà.

- Lei non ha più padre - disse il bottaio. - Siamo proprio io e voi, signora Grandet, che abbiamo messo al mondo una figlia così disobbediente come questa? Bella educazione, e religiosa soprattutto. Com'è che vi trovo qui ancora? Via, in prigione, in prigione, signorina.

- Volete privarmi di mia figlia? - disse la signora Grandet col viso rosso di febbre.

- Se la volete tenere con voi, portatevela via, andatevene entrambe di casa. Perdio, dov'è l'oro, che se n'è fatto dell'oro?

Eugenia si alzò, lanciò uno sguardo d'orgoglio a suo padre, e rientrò nella sua camera, alla quale il brav'uomo diede un giro di chiave.

- Nanon - gridò - spegni il fuoco in sala - . E si mise a sedere su di una poltrona presso il caminetto della moglie, dicendole:

- Lo ha dato certamente a quel miserabile seduttore di Carlo che non mirava ad altro che al nostro denaro.

La signora Grandet trovò, nel pericolo che minacciava sua figlia e nel suo sentimento materno, abbastanza forza per restare in apparenza fredda, muta e sorda.

- Non sapevo niente di tutto questo - rispose volgendosi verso la parete del letto per non subire gli sguardi scintillanti del marito. - La vostra violenza mi fa tanto soffrire che, se devo dar retta ai miei presentimenti, non uscirò di qui che coi piedi in avanti. In questo momento avreste dovuto, signore, risparmiare un simile dolore a me, che non vi ho dato mai alcun dispiacere, almeno lo credo. Vostra figlia vi vuol bene, la credo innocente quanto un bimbo appena nato; e allora non la fate soffrire, revocate la vostra sentenza. Il freddo è acuto, potreste farle venire qualche grave malattia.

- Non la vedrò né le parlerò. Resterà nella sua camera a pane e acqua finché non avrà dato soddisfazione a suo padre. Che diavolo!, il capo d'una famiglia deve pur sapere dove va a finire l'oro di casa sua. Lei possedeva le sole rupie che si trovassero in Francia forse e poi delle genovine, dei ducati d'Olanda.

- Signor Grandet, Eugenia è la nostra figlia unica, e se anche le avesse gettate in acqua...

- In acqua? - gridò il brav'uomo - in acqua! Siete pazza, signora Grandet. Quel che ho detto ho detto, e voi lo sapete. Se volete che la pace torni in casa, fate confessare a vostra figlia, fatele sputare il suo segreto. Le donne s'intendono meglio tra di loro, che non con noi. Qualunque cosa abbia potuto fare, io non me la mangerò mica. Ha forse paura di me? Se anche avesse indorato suo cugino dalla testa ai piedi, ormai egli è in alto mare, no?, e non possiamo corrergli dietro...

- Ebbene, signore... - Eccitata dalla crisi nervosa di cui era preda, o dalla disgraziata situazione della figlia, che acuiva la sua tenerezza e la sua intelligenza, la perspicacia fece scorgere alla signora Grandet un movimento terribile della verruca di suo marito, nel momento in cui stava per rispondergli; e cambiò idea senza cambiar di tono. - Ebbene, signore, credete forse che io abbia su di lei un potere maggiore del vostro? Lei non mi ha detto niente, ha preso da voi.

- Perbacco!, che lingua lunga avete stamattina! Ta, ta, ta, ta.

Volete provocarmi? Le tenete mano, forse?

E guardò fisso sua moglie.

- Se proprio, signor Grandet, volete uccidermi, non avete che da continuare così. Io vi dico, signore, e dovesse costarmi la vita, ve lo ripeto ancora: avete torto di fronte a vostra figlia, essa è più ragionevole di voi. Quel denaro le apparteneva, non ha potuto che farne buon uso, e solo Dio ha il diritto di riconoscere le nostre buone azioni. Signore, ve ne supplico, perdonate Eugenia!... Allevierete solo così l'effetto del colpo che mi ha causato la vostra collera, e mi salverete forse la vita. Mia figlia, signore, rendetemi mia figlia!

- Me ne vado - disse. - La mia casa è insopportabile, madre e figlia ragionano e parlano come se... Bru! Puà! Mi avete fatto proprio un bel regalo per capodanno. Eugenia - egli gridò. - Sì, sì, piangete. Quel che avete fatto vi procurerà dei rimorsi, capite? A che cosa vi serve allora mangiare il buon Dio sei volte ogni tre mesi, se poi regalate l'oro di vostro padre di nascosto a un fannullone che vi divorerà anche il cuore quando non avrete più altro da prestargli? Vedrete quel che vale il vostro Carlo coi suoi stivali di marocchino e la sua aria di "noli me tangere".

Egli non ha né cuore né anima, se osa portarsi via il tesoro d'una povera ragazza senza l'approvazione dei genitori. - Quando il portone fu chiuso, Eugenia uscì dalla camera e accorse presso sua madre.

- Avete avuto molto coraggio per vostra figlia - le disse.

- Vedi, figliola mia, a che cosa conducono le cose illecite?... Mi hai fatto dire una bugia.

- Oh! chiederò a Dio che punisca me sola.

- Ma è proprio vero - disse Nanon accorrendo sconvolta - che la signorina deve stare a pane ed acqua per il resto dei suoi giorni?

- Che importa, Nanon? - disse tranquillamente Eugenia.

- Già, e io dovrei mangiare la "frippe" quando la padroncina mangia pane secco? No, no!

- Non parlare di questo con nessuno, Nanon - disse Eugenia.

- Sarò muta come un pesce, ma vedrete...

Grandet pranzò da solo per la prima volta dopo ventiquattro anni.

- Eccovi dunque vedovo, signore - gli disse Nanon. E' spiacevole essere vedovo con due donne in casa.

- Non parlo con te. Tieni la lingua a posto, o ti caccio via. Che hai nella casseruola, che sento ribollire sul fornello?

- Sono grassi che sto squagliando...

- Verrà gente stasera, accendi il fuoco.

I Cruchot, la signora de Grassins e suo figlio arrivarono alle otto, e rimasero sorpresi nel non vedere né la signora Grandet né la figlia.

- Mia moglie è un poco indisposta, Eugenia l'assiste - rispose il vecchio vignaiolo il cui viso non tradì alcuna emozione.

Dopo un'ora passata in chiacchiere insignificanti, la signora de Grassins, che era salita per far visita alla signora Grandet, discese, e ognuno le domandò:

- Come sta la signora?

- Ma, proprio niente bene - disse. - Il suo stato mi sembra veramente preoccupante. Alla sua età, bisogna aversi ogni riguardo, papà Grandet.

- Ci penseremo - rispose il vignaiolo con aria distratta.

Ognuno gli augurò la buona notte. Quando i Cruchot furono in strada, la signora de Grassins, disse loro:

- Ci deve essere qualcosa di nuovo dai Grandet. La madre sta male parecchio, e non lo capisce. La figlia ha gli occhi rossi, come chi ha pianto a lungo. Che il padre la voglia maritare contro la sua volontà?

Quando il vignaiolo fu a letto, Nanon in pantofole e in punta di piedi andò da Eugenia, e le portò un pasticcio fatto in casseruola.

- Prendete, signorina - disse la brava ragazza - Cornoiller mi ha regalato una lepre. Mangiate tanto poco, che questo pasticcio vi durerà almeno otto giorni, e, col freddo che fa, non c'è pericolo che vada a male. E così, non starete a pane secco. Questo non fa davvero bene.

- Povera Nanon - disse Eugenia stringendole la mano.

- L'ho fatto proprio buono, proprio delicato, e lui non se ne è accorto. Ho comprato il lardo, il lauro, tutto coi miei sei franchi; sono ben padrona di farne quel che voglio. - Poi la domestica fuggì, credendo di sentire Grandet.

Per qualche mese, il vignaiolo andò a trovare sua moglie in ore diverse della giornata, senza mai pronunciare il nome della figlia, senza vederla, né fare a lei la benché minima allusione.

La signora Grandet non lasciò più la camera, e, di giorno in giorno, le sue condizioni peggiorarono. Ma nulla fece piegare il vecchio bottaio. Egli restava irremovibile, aspro e freddo come un pilastro di granito. Continuò ad andare e venire secondo le sue abitudini; ma non balbettò più, parlò anche meno, e si mostrò negli affari più duro di quanto non fosse mai stato. Spesso gli capitava di commettere qualche errore di calcolo.

- Deve essere successo qualcosa dai Grandet - dicevano i Crusciottiani e i Grassinisti.

- Che cosa sarà successo in casa Grandet? - divenne una domanda convenuta che veniva rivolta abitualmente in tutti i salotti di Saumur. Eugenia andava in chiesa sotto la sorveglianza di Nanon.

All'uscita, se la signora de Grassins le rivolgeva qualche parola, rispondeva in modo evasivo e senza soddisfare la sua curiosità.

Tuttavia fu impossibile in capo a due mesi nascondere sia ai tre Cruchot, sia alla signora de Grassins, il segreto della reclusione d'Eugenia. Arrivò il momento in cui mancarono i pretesti per giustificare la sua costante assenza. Poi, senza che fosse possibile conoscere da chi il segreto fosse stato tradito, tutta la città venne a sapere che dal primo dell'anno la signorina Grandet, per ordine di suo padre, era stata rinchiusa nella sua camera, a pane e acqua, senza fuoco; che Nanon preparava per lei delle leccornie e gliele portava durante la notte; si seppe pure che la ragazza poteva vedere e curare sua madre solo quando il padre era fuori casa. La condotta di Grandet fu allora giudicata molto severamente. Tutta la città lo mise per così dire fuori legge, riesumò i suoi inganni, le sue durezze, e lo scomunicò.

Quando passava, ognuno lo additava mormorando. Quando la figlia scendeva la via tortuosa per recarsi alla messa o ai vespri, accompagnata da Nanon, tutti gli abitanti si affacciavano alle finestre per osservare con curiosità il contegno della ricca ereditiera e il suo volto, in cui erano impresse una malinconia e una dolcezza angeliche. La sua reclusione, l'avversione di suo padre, non le importavano nulla. Non le restava forse da vedere la carta geografica, la panchina, il giardino, l'ala di muro, e non risentiva ancora sulle labbra il miele che le avevano lasciato i baci d'amore? Essa ignorò per qualche tempo le dicerie di cui era oggetto in città, come le ignorò suo padre. Religiosa e pura di fronte a Dio, la sua coscienza e l'amore l'aiutavano a sopportare pazientemente la collera e la vendetta paterna. Ma un dolore profondo faceva tacere in lei tutti gli altri dolori. Ogni giorno, sua madre, dolce e tenera creatura, abbellita dalla luce diffusa dalla sua anima prossima alla tomba, sua madre deperiva ogni giorno di più. Spesso Eugenia si rimproverava d'essere stata la causa innocente della crudele, della lenta malattia che la struggeva. Quei rimorsi, anche se calmati dalla madre, l'avvicinavano ancor più strettamente al suo amore. Tutte le mattine, non appena suo padre era uscito, accorreva al capezzale della madre, e là, Nanon le portava la colazione. Ma la povera Eugenia, triste e sofferente per le sofferenze della madre, ne indicava il volto a Nanon con un gesto muto, piangeva e non osava parlare del cugino. La signora Grandet, per prima, era costretta a dirle:

- Dove sarà LUI? Perché LUI non scrive?

La madre e la figlia ignoravano completamente le distanze.

- Pensiamo a lui, mamma - rispondeva Eugenia - ma non ne parliamo.

Voi soffrite, ed è a voi che bisogna pensare prima di tutto.

TUTTO, ERA LUI.

- Mie care - diceva la signora Grandet - non rimpiango la vita.

Dio mi ha protetto facendomi guardare con gioia alla fine delle mie miserie.

Le parole di questa donna erano sempre sante e cristiane. Quando, al momento di far colazione vicino a lei, il marito andava a passeggiare per la sua camera, essa gli aveva tenuto, nei primi mesi dell'anno, gli stessi discorsi, ripetuti con una dolcezza angelica, ma con la fermezza di una donna cui una morte vicina dava il coraggio che le era mancato durante la vita.

- Signore, vi ringrazio dell'interessamento che avete per la mia salute - gli rispondeva quando lui le aveva rivolto la più banale delle domande - ma se volete rendere gli ultimi miei momenti meno amari e alleviare i miei dolori, perdonate nostra figlia; mostratevi cristiano, sposo e padre.

Udendo queste parole, Grandet sedeva accanto al letto e si comportava come un uomo il quale, vedendo venire un acquazzone si pone tranquillamente al riparo sotto un portone; ascoltava silenziosamente sua moglie e non rispondeva nulla. Quando le più toccanti, le più tenere, le più religiose preghiere gli erano rivolte, egli diceva:

- Sei un po' palliduccia oggi, povera moglie mia - . L'oblio più completo di sua figlia sembrava impresso sulla sua fronte di coccio, sulle sue labbra chiuse. Non si commuoveva neppure alle lacrime che le sue vaghe risposte, i cui termini erano su per giù sempre gli stessi, facevano scorrere lungo il pallido volto della moglie.

- Dio vi perdoni, signore - essa diceva - come vi perdono io.

Forse un giorno avrete bisogno d'indulgenza.

Da quando sua moglie si era ammalata, egli non aveva più osato servirsi del suo terribile: ta, ta, ta, ta! Ma con ciò il suo dispotismo non era stato disarmato da quell'angelo di dolcezza, la cui bruttezza spariva di giorno in giorno, fugata dall'espressione delle qualità morali che fiorivano sul suo volto. Era tutt'anima.

L'angelo della preghiera sembrava purificarla, attenuare i lineamenti più grossolani del suo viso, e lo faceva risplendere.

Chi non ha osservato il fenomeno di questa trasfigurazione sui santi volti in cui le abitudini dell'anima finiscono per trionfare sui tratti più rudemente impressi, conferendo loro quell'animazione particolare dovuta alla nobiltà e alla purezza dei pensieri elevati? Lo spettacolo di questa trasformazione compiuta dalle sofferenze che consumavano i lembi dell'essere umano in questa donna agiva, seppure debolmente, sul vecchio bottaio, il cui carattere rimase tuttavia di bronzo. Se la sua parola non fu più sdegnosa, un imperturbabile silenzio, che salvaguardava la sua superiorità di padre di famiglia, dominò la sua condotta. Non appena la fedele Nanon compariva al mercato, subito qualche frizzo, qualche sfavorevole commento sul suo padrone le fischiavano all'orecchio; ma, quantunque l'opinione pubblica condannasse severamente papà Grandet, la domestica lo difendeva per l'onore della casa.

- Ebbene! - diceva ai detrattori del brav'uomo - non diventiamo forse tutti più cattivi invecchiando? Perché non dovrebbe incallirsi un po' anche lui? Smettetela allora con le vostre menzogne. La signorina vive come una regina. Sta sola perché così le piace di stare. Del resto i padroni hanno le loro ragioni.

Ma, una sera, verso la fine della primavera, la signora Grandet, consumata dal dolore, ancor più che dalla malattia, non essendo riuscita, malgrado le preghiere, a far riconciliare Eugenia col padre, confidò le sue pene segrete ai Cruchot.

- Mettere una figlia di ventitré anni a pane e acqua?... - esclamò il presidente di Bonfons - e senza motivo; ma questo è un reato di SEVIZIE VIOLENTE; LEI PUO' PROTESTARE CONTRO, E TANTO IN SU CHE...

- Suvvia, nipote - disse il notaio - lasciate andare il vostro gergo di tribunale. State tranquilla, signora, e vedrete che da domani farò finire questa reclusione.

Sentendo parlare di sé, Eugenia uscì dalla sua camera.

- Signori - disse venendo avanti con fierezza - vi prego di non occuparvi di questa cosa. Mio padre è padrone in casa sua. Finché abiterò presso di lui, gli devo obbedienza. La sua condotta non deve essere sottoposta né all'approvazione né alla disapprovazione di chicchessia, egli non è responsabile che di fronte a Dio. Io pretendo dalla vostra amicizia il più profondo riserbo a questo riguardo. Biasimare mio padre sarebbe come intaccare la nostra stessa reputazione. Vi sono grata, signori, dell'interessamento che mi dimostrate; ma vi sarei grata ancora di più se voleste far cessare le dicerie offensive che corrono per la città, e di cui sono venuta per caso a conoscenza.

- Ha ragione - disse la signora Grandet.

- Signorina, il miglior modo per impedire alla gente di mormorare, è quello di farvi rendere la libertà - le rispose rispettosamente il vecchio notaio colpito dalla bellezza che la reclusione, la malinconia e l'amore avevano impresso sul volto di Eugenia.

- Ebbene, figliola, lascia che il signor Cruchot accomodi lui la faccenda, dato che è sicuro del successo. Conosce tuo padre e sa come va preso. Se vuoi vedermi contenta per quel poco tempo che mi resta di vita, bisogna, a ogni costo, che tuo padre e tu vi riconciliate.

L'indomani, secondo una abitudine presa da quando Eugenia era reclusa, Grandet andò a passeggiare nel piccolo giardino. Aveva scelto per questa passeggiata il momento in cui Eugenia si pettinava. Giunto al noce, il brav'uomo si nascondeva dietro il tronco dell'albero, ci rimaneva alcuni istanti a contemplare la lunga chioma della figlia, ed era combattuto certamente tra i propositi che gli suggeriva la tenacia del carattere e il desiderio di riabbracciare sua figlia. Spesso restava seduto sulla panchina di legno tarlato dove Carlo ed Eugenia s'erano giurati un eterno amore, mentre anche lei guardava il padre di sfuggita o riflesso nello specchio. Se lui si alzava e riprendeva a passeggiare, lei si sedeva con compiacimento alla finestra e si metteva a guardare l'ala di muro da cui pendevano tanti bei fiori, da cui uscivano, di tra i crepacci, i capelvenere, i convolvoli e una pianta grassa, gialla o bianca, un "Sedum", abbondantissimo nei vigneti di Saumur, e di Tours. Il notaio Cruchot arrivò di buon'ora e trovò il vecchio vignaiolo seduto in quel bel mattino di giugno sulla panchina, con la schiena appoggiata al muro divisorio, intento a guardare la figlia.

- In che cosa posso servirvi, Cruchot? - disse scorgendo il notaio.

- Vengo a parlarvi di affari.

- Ah!, ah!, avete forse un po' d'oro da darmi in cambio di scudi?

- No, no, non si tratta di denaro, ma di vostra figlia Eugenia.

Tutti parlano di lei e di voi.

- Di che s'impicciano? Ognuno è padrone in casa sua.

- D'accordo, ognuno è padrone anche d'ammazzarsi, o, quel che è peggio, di buttare il suo denaro dalla finestra.

- Come sarebbe a dire?

- Eh!, ma vostra moglie sta molto male, amico mio. Sarebbe bene che consultaste il signor Bergerin, la signora è in pericolo di morte. Se morisse senza essere stata curata a dovere, non so quanto potreste rimanere tranquillo.

- Ta! ta! ta! ta!, voi sapete allora cos'ha mia moglie! Questi medici, una volta messo il piede in casa, vengono cinque o sei volte al giorno.

- E allora, Grandet fate come vi pare. Noi siamo vecchi amici; non c'è, in tutta Saumur, un uomo che più di me prenda a cuore le vostre cose; il mio dovere era quello d'avvertirvi. E ora, qualunque cosa accada, voi siete maggiorenne, andiamo, e sapete come dovete regolarvi. Ma non è questa la ragione per cui sono venuto. Si tratta forse, di qualcosa ancor più grave per voi. Del resto, non desiderate certo far morire vostra moglie, vi è troppo utile. E allora pensate alla situazione in cui verrete a trovarvi, di fronte a vostra figlia, se la signora Grandet perisse. Dovreste rendere i conti a Eugenia; poiché avete i beni in comune con vostra moglie. Vostra figlia avrà il diritto di reclamare la divisione del patrimonio, di far vendere Froidfond. Insomma, essa è erede di vostra moglie, dalla quale non potete ereditare.

Queste parole furono come un fulmine per il brav'uomo, che non era così forte in diritto come lo era in commercio. Egli non aveva mai pensato a una licitazione.

- E perciò vi esorto a trattarla con dolcezza disse Cruchot terminando il suo dire.

- Ma lo sapete, Cruchot, quel che ha fatto?

- Cosa? - fece il notaio, desideroso di ricevere una confidenza da papà Grandet e di conoscere la causa del litigio.

- Ha dato via il suo oro.

- E con questo? Non era suo? - chiese il notaio.

- Mi dicono tutti così - disse il brav'uomo, lasciandosi cadere le braccia con un gesto tragico.

- Ma andiamo!, per una miseria - riprese a dire Cruchot - conviene porre ostacoli alle concessioni che le domanderete alla morte di sua madre?

- Ah!, e voi chiamate una miseria seimila franchi d'oro?

- Oh!, mio vecchio amico, sapete quel che costerebbero l'inventario e la divisione dei beni di vostra moglie, se Eugenia la esigesse?

- Quanto?

- Due, tre e anche quattrocentomila franchi, forse! Non bisognerebbe licitarli e venderli per conoscere l'esatto valore?

Mentre, mettendovi d'accordo....

- Maledizione! - esclamò il vignaiolo che sedette impallidendo - questa la vedremo, Cruchot.

Dopo un momento di silenzio e d'agonia, il brav'uomo guardò il notaio e gli disse: - La vita è ben dura! E di quanti dolori è seminata! Cruchot - riprese a dire solennemente - voi non mi volete ingannare, è vero? Giuratemi sul vostro onore che quanto mi andate raccontando è basato sul diritto. Fatemi vedere il Codice, voglio vedere il Codice!

- Ma, amico mio - rispose il notaio - volete che io non conosca il mio mestiere?

- Allora è proprio vero. Sarò spogliato, tradito, ucciso, divorato da mia figlia.

- E' l'erede di sua madre.

- Ecco a che servono i figli! Ah!, ma quanto a mia moglie, le voglio bene. Per fortuna è robusta. E' una La Bertellière.

- Non le resta un mese di vita.

Il bottaio si batté una mano sulla fronte, si allontanò, tornò e, dando uno sguardo tremendo a Cruchot - Che fare? - gli disse.

- Eugenia potrà rinunciare puramente e semplicemente all'eredità di sua madre. Voi non vorrete certo diseredarla, no? Ma, per ottenere ciò, non la maltrattate. Quel che vi dico, mio vecchio amico, è contro il mio interesse. Non vivo forse di liquidazioni, inventari, vendite, divisioni?...

- Vedremo, vedremo. Non parliamo più di questo, Cruchot. Mi scombussolate tutte le viscere. Vi è capitato un po' d'oro?

- No; ma ho qualche vecchio luigi, una diecina, ve li darò. Ma riappacificatevi con Eugenia, buon amico. Tutta Saumur, credetemi, vi è contro.

- Canaglie!

- Consolatevi, la rendita è a 99. Siate dunque contento una volta nella vita.

- A 99, Cruchot?

- Sì.

- Eh! Eh!, 99! - disse il brav'uomo accompagnando il vecchio notaio alla porta. Poi, troppo agitato da quel che gli era stato detto per rimanere in casa, salì dalla moglie e le disse: - Beh!, passa pure la giornata con tua figlia, io vado a Froidfond. Siate brave tutte e due. E' l'anniversario del nostro matrimonio, moglie mia cara: ecco, prendi dieci scudi per un altarino del Corpus Domini. Era tanto che ne volevi fare uno, compratelo! Divertitevi, state allegre, state bene. Viva l'allegria! - Gettò dieci scudi da sei franchi sul letto della moglie e le prese la testa per baciarla in fronte. - Brava donna, stai meglio, non è vero?

- Come potete pensare che si possa ricevere in casa vostra il Dio che perdona, tenendo vostra figlia lontana dal vostro cuore? - essa disse con accento commosso.

- Ta, ta, ta, ta - disse papà Grandet con voce carezzevole - a questo poi ci penseremo.

- Bontà divina!, Eugenia! - gridò la madre arrossendo per Ia gioia - vieni ad abbracciare tuo padre, ti perdona!

Ma il brav'uomo era già scomparso. E marciava veloce verso i suoi campi, cercando di mettere un po' d'ordine nelle sue idee sconvolte. Grandet era entrato da poco nel suo settantaseiesimo anno. Negli ultimi due anni soprattutto la sua avarizia era aumentata come aumentano tutte le passioni radicate nell'uomo.

Secondo un'osservazione fatta sugli avari, sugli ambiziosi, su tutte le persone la cui vita è stata consacrata a una idea dominante, egli era portato a prediligere più particolarmente un simbolo della sua passione. La vista dell'oro, il possesso dell'oro erano diventati la sua monomania. Il dispotismo del suo carattere era aumentato in proporzione della sua avarizia, e l'abbandonare la direzione anche della più piccola parte dei suoi beni alla morte della moglie gli sembrava una cosa contro natura.

Far conoscere l'ammontare del suo patrimonio alla figlia, inventariare tutti i suoi beni universali mobili e immobili per licitarli?... "Tanto varrebbe tagliarsi la gola", disse ad alta voce in mezzo a un podere esaminando i ceppi di vite. Alla fine, prese la sua-decisione, tornò a Saumur all'ora di pranzo, risoluto a cedere dinanzi a Eugenia, a vezzeggiarla, a lusingarla, per poter morire regalmente avendo nelle mani fino all'ultimo respiro le redini dei suoi milioni. Nel momento in cui il brav'uomo, che solo per caso aveva preso, uscendo, la chiave, saliva la scala pian piano per andare dalla moglie, Eugenia aveva portato sul letto della madre il bel cofanetto. Ambedue, in assenza di Grandet, si procuravano il piacere di vedere il ritratto di Carlo, guardando quello di sua madre.

- E' proprio la sua fronte e la sua bocca! - diceva Eugenia nel momento in cui il vignaiolo apriva l'uscio. Allo sguardo che suo marito diede all'oro, la signora Grandet esclamò:

- Mio Dio, abbiate pietà di noi!

Il brav'uomo si gettò sul cofanetto come una tigre si avventa su di un bimbo addormentato.

- Che cosa è questo? - disse portando via il tesoro e andando a mettersi vicino alla finestra. - E' oro buono!, è oro! - esclamò.

- E quanto!, peserà almeno due libbre. Ah!, ah! Carlo ti ha dato questo in cambio delle tue belle monete. Eh!, perché non dirmelo?

E' un ottimo affare, "fifiglia"! Non per nulla sei mia figlia, ti riconosco. - Eugenia tremava in tutte le sue membra. - Non è vero che è roba di Carlo, questa?

- Sì, papà, non è roba mia. Questo oggetto racchiude un deposito sacro.

- Ta, ta, ta, ta, lui si è preso la tua ricchezza, e ora bisogna pur ricostituire il tuo tesoro.

- Babbo!...

Il brav'uomo prese un suo coltello per far saltare una placca d'oro, e dovette per far questo posare il cofanetto su di una sedia. Eugenia si slanciò per riprenderlo; ma il bottaio, che aveva contemporaneamente tenuto d'occhio la figlia e il cofanetto, la respinse con tale violenza, stendendo il braccio, da farla cadere sul letto della madre.

- Signore, signore - esclamò la madre rizzandosi sul letto.

Grandet aveva aperto il coltello e s'accingeva a distaccare l'oro.

- Babbo - esclamò Eugenia gettandosi in ginocchio e trascinandosi così, per giungere più vicino al brav'uomo e sollevare le mani verso di lui - babbo in nome di tutti i Santi e della Vergine, in nome di Cristo, che è morto sulla croce, in nome della vostra salvezza eterna, babbo, in nome della mia vita, non toccatelo!

Questo cofanetto non è né vostro né mio; è di uno sventurato parente che me lo ha consegnato, e a cui devo renderlo intatto.

- Perché lo stavi guardando, se è un deposito? Vedere, è peggio che toccare.

- Padre mio, non lo guastate, ascoltate?

- Signore, abbiate pietà - disse la madre.

- Babbo - gridò Eugenia con voce così squillante che Nanon, spaventata, corse di sopra. Eugenia afferrò un coltello che era alla portata della sua mano e se ne armò.

- Ebbene? - le disse tranquillo Grandet sorridendo freddamente.

- Signore, signore, voi mi assassinate - disse la madre.

- Babbo, se il vostro coltello intacca anche una sola particella di quell'oro, io mi trafiggo con questo. Voi avete già fatto ammalare mortalmente mia madre, ora ucciderete anche vostra figlia. Avanti dunque, ferita per ferita.

Grandet lasciò il coltello sul cofanetto, e guardò sua figlia esitando.

- Ne saresti dunque capace, Eugenia?

- Sì, signore - disse la madre.

- Lo farebbe come lo dice - esclamò Nanon. - Siate allora ragionevole, signore, una volta almeno nella vostra vita - . Il bottaio guardò l'oro e la figlia alternativamente per un istante.

La signora Grandet svenne. - Ecco, avete visto, caro signore?, la signora muore - gridò Nanon.

- Tieni, figlia, non bisticciamo per un cofanetto. Riprenditelo, dunque! - esclamò vivacemente il bottaio, gettando l'oggetto sul letto. - E tu, Nanon, va' a chiamare il signor Bergerin. Andiamo, mamma - disse baciando la mano della moglie - non è niente, va':

abbiamo fatto la pace. Non è vero, figlia? Non più pan secco, mangerai tutto quello che vorrai. Ah!, ecco, riapre gli occhi.

Ebbene, mamma, mammetta, mammettina, suvvia! Tò, guarda, abbraccio Eugenia. Lei ama suo cugino, ebbene, lo sposerà se lo vuole, gli conserverà il cofanetto. Ma vivi a lungo, mia povera moglie.

Andiamo, muoviti! Ascoltami, tu avrai il più bell'altarino che si sia mai fatto a Saumur.

- Mio Dio, perché trattare così vostra moglie e vostra figlia? - disse con voce fioca la signora Grandet.

- Non lo farò più, mai più - esclamò il bottaio. Sta' a vedere, moglie mia. - Andò nel suo studio, e tornò con un pugno di luigi che sparse sul letto. - Prendi Eugenia, prendi, moglie, questo è per voi - disse maneggiando i luigi. - Andiamo, sta' allegra, moglie mia; pensa a star bene, che non mancherà nulla né a te né a Eugenia. Ecco cento luigi d'oro per lei. Ma questi non li regalerai, Eugenia, è vero?

La signora Grandet e la figlia si guardarono stupite.

- Riprendeteli pure, padre, noi non abbiamo bisogno che del vostro affetto.

- Ebbene, sia così - disse intascando i luigi - viviamo come buoni amici. Scendiamo tutti in sala per il pranzo, per giocare alla tombola tutte le sere con la posta di due soldi. Divertitevi! No, moglie mia?

- Ahimè, lo vorrei proprio, se ciò può farvi piacere - disse la morente - ma non ho la forza di alzarmi.

- Povera mamma - disse il bottaio - tu non sai quanto ti voglio bene. E a te, figliola mia! - L'abbracciò e la baciò. - Oh! come è dolce baciare una figlia dopo un dissenso! Figlia mia! Ecco, vedi, mammetta, ora non siamo che una persona sola. Adesso va' a riporre questo - disse a Eugenia mostrandole il cofanetto. - Va', non temere. Non te ne parlerò mai più.

Il signor Bergerin, il più celebre medico di Saumur, arrivò subito. Finita la visita, egli dichiarò chiaramente a Grandet che sua moglie stava molto male, ma che una grande tranquillità, un regime adatto e cure minuziose avrebbero potuto ritardare la sua morte alla fine dell'autunno circa.

- Costerà caro? - disse il brav'uomo - occorrono medicine?

- Poche medicine, ma molte cure - rispose il medico, che non poté trattenere un sorriso.

- E poi, signor Bergerin, - rispose Grandet - voi siete un galantuomo, non è vero? Mi affido a voi, venite a visitare mia moglie tutte le volte che vi sembrerà utile. Cercate di far guarire la mia buona moglie; le voglio tanto bene, sapete, anche se non lo dimostro, perché, in me, tutto avviene qui dentro, e mi scombussola l'anima. Ho avuto dei dispiaceri. I dispiaceri sono entrati in casa mia con la morte di mio fratello, per il quale devo spendere, a Parigi, certe somme... gli occhi della testa, se sapeste! e non è ancora finita. Arrivederci, signore se potete salvare mia moglie, salvatela, quand'anche questo dovesse costare cento o duecento franchi.

Malgrado i voti fervidi che Grandet formulava per la salute della moglie, di cui temeva come una prima morte l'apertura della successione; malgrado l'accondiscendenza che dimostrava in ogni occasione per i più piccoli desideri della madre e della figlia di ciò stupite; malgrado le cure più affettuose prodigate da Eugenia, la signora Grandet andò rapidamente verso la fine. Ogni giorno s'indeboliva di più e deperiva come deperisce la maggior parte delle donne colpite, a quell'età, da una malattia. Era diventata gracile come le foglie degli alberi in autunno. I raggi del cielo la facevano risplendere come quelle foglie che il sole attraversa e indora. Fu una morte degna della sua vita, una morte tutta cristiana: e non è dire, con ciò, sublime? Nel mese di ottobre del 1822 rifulsero particolarmente le sue virtù, la sua rassegnazione angelica e l'amore per sua figlia; si spense senza essersi lasciata sfuggire un lamento. Agnello immacolato, saliva al cielo, e non rimpiangeva di questa terra altro che la dolce compagna della sua fredda vita, alla quale i suoi ultimi sguardi sembravano predire mille mali. Tremava al pensiero di dover lasciare quella pecorella candida come lei, sola in un mondo egoista che avrebbe voluto strapparle il suo vello, i suoi tesori.

- Figliola mia - le disse prima di spirare - non c'è felicità che in cielo, e tu un giorno lo saprai.

All'indomani della sua morte, Eugenia trovò nuovi motivi per affezionarsi a quella casa dove era nata, dove aveva tanto sofferto, dove sua madre era morta. Non poteva guardare la finestra e la seggiola con gli zoccoli in sala senza versare lacrime. Credette di aver disconosciuto l'animo del vecchio babbo vedendosi ora fatta oggetto delle sue cure più tenere: le dava il braccio per scendere a colazione; la guardava con un occhio quasi benevolo per delle ore intere, la covava insomma come se fosse stata d'oro. Il vecchio bottaio somigliava ora così poco a se stesso, tremava talmente dinanzi a lei, che Nanon e i Crusciottiani, testimoni della sua debolezza, la attribuirono alla sua tarda età, e temerono qualche indebolimento delle sue facoltà; ma il giorno in cui la famiglia prese il lutto, dopo il pranzo al quale fu invitato il notaio Cruchot, il solo che conoscesse il segreto del suo cliente, il perché della condotta del brav'uomo fu conosciuto.

- Mia cara figliola - disse a Eugenia - quando la tavola fu sparecchiata e gli usci furono accuratamente chiusi, tu sei dunque l'erede di tua madre, e dobbiamo regolare alcune faccenduole tra noi due. Non è vero, Cruchot?

- Sì.

- Ma è proprio necessario occuparsene oggi, babbo?

- Sì, sì, figlia. Non potrei rimanere nell'incertezza in cui mi trovo. Spero che non vorrai dispiacermi.

- Oh!, babbo.

- E allora bisogna definire tutto questa sera.

- E che cosa devo fare?

- Ma, figlia, questo non è affar mio. Diteglielo voi, Cruchot.

- Signorina, il vostro signor padre non vorrebbe né dividere né vendere i suoi beni, né pagare tasse enormi per il contante che può possedere. E allora, a tale scopo, bisognerebbe evitare di far l'inventario di tutto il patrimonio che oggi è indiviso tra voi e il vostro signor padre....

- Cruchot, siete ben sicuro di questo, per parlarne così davanti a una bambina?

- Lasciatemi dire, Grandet.

- Sì, sì, amico mio. Né voi né mia figlia vorrete certo spogliarmi. Non è vero, figlia?

- Ma insomma, signor Cruchot, che cosa devo fare? - chiese Eugenia spazientita.

- Ebbene! - disse il notaio - bisognerebbe firmare questo atto col quale rinunciate alla successione della vostra signora madre, lasciando a vostro padre l'usufrutto di tutti i beni indivisi tra voi, e di cui egli vi assicura la nuda proprietà...

- Io non capisco nulla di quanto mi dite - rispose Eugenia - datemi l'atto, e indicatemi dove devo firmare.

Papà Grandet guardava ora l'atto e ora la figlia, ora la figlia e ora l'atto, provando così violente emozioni da doversi asciugare alcune gocce di sudore venutegli sulla fronte.

- Figlia - disse - se invece di firmare questo atto che costerebbe molto far registrare, tu volessi rinunciare puramente e semplicemente alla successione della tua povera cara mamma defunta, e fidarti ti me per l'avvenire, lo preferirei. In questo caso, ti corrisponterei ogni mese una bella grossa rendita di cento franchi. Cosi potresti far celebrare tutte le messe che vorrai in suffragio ti coloro cui le fai dire... Eh!, cento franchi al mese, in lire?

- Farò tutto quel che vorrete, babbo.

- Signorina - disse il notaio - è mio dovere farvi osservare che così voi vi private...

- Eh!, mio Dio - essa disse - che m'importa?

- Basta Cruchot. E' fatto, è fatto - esclamò Grandet prendendo la mano della figlia e battendoci sopra la propria. - Eugenia, non ritirerai la tua parola, sei una ragazza a modo, no?

- Oh! babbo...

Egli la baciò con effusione, la strinse fra le sue braccia fin quasi a toglierle il respiro.

- Vedi, figliola mia, tu rendi la vita a tuo padre; ma gli rendi quel che ti ha dato: siamo pari. Ecco come si fanno gli affari. La vita è un affare. Ti benedico! Tu sei una figlia virtuosa, che vuol bene al suo papà. Adesso fa' pure quel che vuoi. Allora a domani, Cruchot - disse guardando il notaio esterrefatto. - E stenderete l'atto di rinuncia alla cancelleria del tribunale.

L'indomani, verso mezzogiorno, fu firmata la dichiarazione con la quale Eugenia compiva lei stessa la propria spogliazione.

Tuttavia, malgrado la parola data, alla fine del primo anno il vecchio bottaio non aveva ancora dato un soldo dei cento franchi mensili così solennemente promessi alla figlia. Perciò, quando Eugenia gliene parlò scherzando, non poté fare a meno di arrossire; salì in fretta al suo studio, tornò e le offrì circa un terzo dei gioielli che aveva preso al nipote.

- Tieni, piccola - disse con un accento pieno d'ironia - vuoi questi invece dei tuoi milleduecento franchi?

- Oh!, babbo, me li date veramente?

- Te ne darò altrettanti l'anno prossimo - disse gettandoglieli nel grembiule. Così in poco tempo avrai tutti i tuoi ciondoli - aggiunse fregandosi le mani, felice di poter speculare sul sentimento di sua figlia.

Tuttavia il vecchio, benché ancora robusto, sentì la necessità d'iniziare la figlia ai segreti dell'amministrazione domestica.

Per due anni di seguito le fece ordinare in sua presenza i pasti e riscuotere i canoni d'affitto. Le insegnò un po' alla volta i nomi, l'importanza dei poderi, delle fattorie. Verso il terzo anno l'aveva così bene abituata ai suoi sistemi d'avaro e li aveva così perfettamente fatti diventare in lei abitudini, che le lasciò senza timore le chiavi della dispensa, e ne fece la padrona della casa.

Cinque anni trascorsero senza alcun avvenimento importante nell'esistenza monotona d'Eugenia e del padre. Si susseguirono gli stessi atti, costantemente compiuti con la regolarità cronometrica dei movimenti della vecchia pendola. La profonda malinconia della signorina Grandet non era più un segreto per nessuno; ma, se ognuno ne poté immaginare la causa, mai una parola pronunciata da lei giustificò le supposizioni che tutti gli ambienti di Saumur formulavano sullo stato d'animo della ricca ereditiera. La sua unica compagnia erano i tre Cruchot e qualcuno dei loro amici che essi avevano pian piano introdotto in casa. Le avevano insegnato a giocare a whist, e venivano tutte le sere a fare la partita.

Nell'anno 1827, suo padre, cominciando a sentire il peso delle infermità, fu obbligato a iniziarla ai segreti dei suoi beni immobiliari, e le raccomandava, in caso di difficoltà, di rivolgersi a Cruchot, il notaio, la cui probità gli era ben nota.

Poi, verso la fine di quell'anno, il brav'uomo fu, all'età di ottantadue anni, colpito da una paralisi che fece rapidi progressi. Grandet fu spacciato dal signor Bergerin. Pensando che presto si sarebbe trovata sola al mondo, Eugenia si attaccò, per così dire, ancor più al padre e saldò ancor più fortemente quest'ultimo vincolo d'affetto. Nel suo pensiero, come in quello di tutte le donne che amano, l'amore era il mondo intero, e Carlo non era lì. Essa fu sublime nelle cure e nelle attenzioni per il suo vecchio padre, le cui facoltà cominciavano a declinare, ma la cui avarizia persisteva istintivamente. Cosicché la morte di quell'uomo non fu in contrasto con la sua vita. Fin dal mattino si faceva trasportare tra il caminetto della sua camera e l'uscio dello studio, senza dubbio zeppo d'oro. Rimaneva lì immobile, ma guardando volta per volta con ansietà quelli che venivano a trovarlo e l'uscio foderato di ferro. Voleva essere informato dei più piccoli rumori che sentiva; e, con grande meraviglia del notaio, udiva lo sbadiglio del cane in cortile. Si destava dal suo stupore apparente il giorno e l'ora in cui si dovevano riscuotere i fitti, fare i conti coi fittavoli, dare quietanze. Agitava allora la poltrona a rotelle fino a portarla di fronte all'uscio dello studio. Lo faceva aprire dalla figlia e sorvegliava che la stessa mettesse a posto in segreto i sacchetti d'argento, e richiudesse l'uscio. Poi ritornava al suo posto silenziosamente non appena essa gli aveva restituito la preziosa chiave, sempre da lui tenuta nella tasca del panciotto, e che tastava di tanto in tanto. Intanto il notaio, il suo vecchio amico, intuendo che la ricca ereditiera avrebbe inevitabilmente sposato suo nipote il presidente, se Carlo Grandet non fosse tornato, raddoppiava cure e attenzioni: veniva tutti i giorni a mettersi agli ordini di Grandet, andava per suo incarico a Froidfond, nei poderi, nelle praterie, nelle vigne; vendeva i raccolti, e tramutava tutto in oro e in argento, che andava ad aggiungersi segretamente ai sacchetti accatastati nello studio. Infine giunsero i giorni dell'agonia, durante i quali la robusta costituzione del brav'uomo venne alle prese con lo sfacelo. Egli volle rimanere seduto accanto al fuoco, dinanzi all'uscio del suo studio. Attirava a sé e si teneva strette tutte le coperte che gli erano messe addosso, e diceva a Nanon:

- Stringi, stringi, che non mi rubino - . Quando poteva aprire gli occhi, dove s'era rifugiata tutta la sua vita, li volgeva verso l'uscio dello studio in cui erano i suoi tesori dicendo alla figlia: - Ci sono? Ci sono? - con una voce che dimostrava una specie di timor panico.

- Sì, babbo.

- Bada all'oro, portamene un po' -. Eugenia gli spargeva alcuni luigi su di un tavolo, ed egli rimaneva ore intere con gli occhi fissi sui luigi, come un bambino che, quando comincia a vedere, contempla stupidamente lo stesso oggetto; e, come un bambino, gli sfuggiva un sorriso penoso.

- Questo mi riscalda! - diceva talvolta con un'espressione di beatitudine sul viso.

Quando il curato della parrocchia andò a somministrargli i sacramenti, i suoi occhi, spenti in apparenza già da qualche ora, si rianimarono alla vista della croce, dei candelieri, dell'aspersorio d'argento che guardò fisso, e la sua verruca vibrò per l'ultima volta. Quando il prete gli avvicinò alle labbra il crocifisso d'argento dorato per fargli baciare il Cristo, egli fece un orribile gesto per afferrarlo. Questo ultimo sforzo gli costò la vita. Chiamò quindi Eugenia, che già non vedeva più sebbene stesse inginocchiata innanzi a lui e bagnasse di lacrime una mano ormai fredda.

- Babbo, beneditemi.

- Abbi cura di tutto. Me ne renderai conto laggiù disse provando con questa ultima parola che il Cristianesimo deve essere la religione degli avari.

Eugenia Grandet si trovò dunque sola al mondo in quella casa, non avendo che Nanon cui poter rivolgere uno sguardo con la certezza d'essere ascoltata e compresa, Nanon, il solo essere che l'amava disinteressatamente e col quale poteva parlare dei suoi dolori.

Nanon era una provvidenza per Eugenia. Così che per lei non fu più una domestica, ma una umile amica. Dopo la morte del padre Eugenia seppe dal notaio Cruchot che possedeva trecentomila lire di rendita in beni stabili nel circondario di Saumur, sei milioni investiti in rendita tre per cento acquistati a sessanta franchi, che valeva allora settantasette franchi; più di due milioni in oro e centomila franchi in scudi, senza contare gli arretrati da riscuotere. La stima totale dei suoi beni ammontava a diciassette milioni.

"Dove sarà mio cugino?", essa si chiese.

Il giorno in cui il notaio Cruchot consegnò alla sua cliente lo stato della successione, divenuta chiara e liquida, Eugenia rimase sola con Nanon; erano sedute ambedue a ciascun lato del caminetto di quella sala così vuota, dove tutto era ricordo, dalla seggiola coi zoccoli su cui sedeva la madre di Eugenia, fino al bicchiere in cui aveva bevuto il cugino.

- Nanon, siamo rimaste sole...

- Sì, signorina; e, se sapessi dov'è quel caro signorino andrei a piedi a cercarlo.

- C'è il mare tra noi - essa disse.

Mentre la povera ereditiera piangeva così in compagnia della vecchia domestica, in quella fredda e oscura casa, che per lei rappresentava tutto l'universo, da Nantes a Orléans non si parlava che dei diciassette milioni della signorina Grandet. Uno dei suoi primi atti fu quello di assegnare milleduecento franchi di rendita vitalizia a Nanon, che, possedendo già altri seicento franchi, diventò un ottimo partito. In meno di un mese, essa passò dallo stato di zitella a quello di maritata, sotto la protezione di Antonio Cornoiller, il quale fu nominato guardiano generale delle terre e delle proprietà della signorina Grandet. La signora Cornoiller ebbe sulle sue coetanee un immenso vantaggio.

Quantunque avesse cinquantanove anni, non sembrava averne più di quaranta: I suoi lineamenti forti avevano resistito agli attacchi del tempo. Grazie al regime della sua vita monastica, sfidava la vecchiaia con un bel colorito, con una salute di ferro. Forse non era stata mai così bene come il giorno del suo matrimonio. Trasse partito dalla sua bruttezza, e apparve grossa, grassa, forte, con un'aria di felicità sul suo viso indistruttibile che fece invidiare a non pochi la sorte di Cornoiller.

- Ha buona cera - diceva il mercante di stoffe. - E' capace di far figli - disse il venditore di sale; - s'è conservata come in salamoia, con rispetto parlando. Lei è ricca, e quel giovanotto di Cornoiller ha fatto un bel colpo - diceva un altro vicino. Uscendo dalla vecchia casa, Nanon, cui tutto il vicinato voleva bene, non ricevette che complimenti nel discendere la strada tortuosa per recarsi in parrocchia. Per regalo di nozze Eugenia le donò tre dozzine di posate. Cornoiller, sorpreso da una tale magnificenza, parlava della sua padrona con le lacrime agli occhi; si sarebbe fatto tagliare a pezzi per lei. Diventata la confidente di Eugenia, la signora Cornoiller si ebbe ormai una felicità pari a quella di avere un marito: ebbe finalmente anche lei una dispensa da aprire, da chiudere, provviste da distribuire la mattina, come faceva il suo defunto padrone. Poi ebbe sotto di sé due domestiche, una cuoca e una cameriera incaricati di rammendare la biancheria di casa, di confezionare gli abiti della signorina.

Cornoiller rivestì insieme le funzioni di guardiano e di amministratore. Inutile dire che la cuoca e la cameriera scelte da Nanon erano due vere perle. La signorina Grandet ebbe così quattro persone di servizio la cui devozione era senza limiti. I fittuari non si accorsero della morte del brav'uomo, tanto rigidamente egli aveva stabilito gli usi e costumi della sua amministrazione, che fu scrupolosamente continuata dal signore e dalla signora Cornoiller.

A trent'anni Eugenia non conosceva ancora nessuna delle felicità della vita. La sua scialba e triste infanzia era trascorsa vicino a una madre il cui cuore misconosciuto, strapazzato, aveva sempre sofferto. Abbandonando con gioia l'esistenza, quella madre aveva compianto la figlia che doveva ancora vivere; e le aveva lasciato nell'animo lievi rimorsi ed eterni rimpianti. Il primo, il solo amore d'Eugenia era, per lei, ragione di malinconia. Dopo aver intravisto il suo innamorato per qualche giorno, essa gli aveva dato il cuore tra due baci furtivamente accettati e resi, poi egli era partito, mettendo tutto un mondo tra lei e lui. Quell'amore, maledetto dal padre, le era quasi costato la vita della madre e non le procurava che dolori misti a fragili speranze. Così fino allora lei aveva inseguito la felicità perdendo le forze e senza rinnovarle. Nella vita morale, come nella vita fisica, esiste una aspirazione e una respirazione: l'animo ha bisogno di assorbire i sentimenti di un'altra anima, di assimilarli per restituirglieli più ricchi. Senza questo bel fenomeno umano, non c'è vita per il cuore; l'aria allora gli manca, soffre, deperisce. Eugenia cominciava a soffrire. Per lei, la ricchezza non era né una potenza né una consolazione; la ragione della sua esistenza era l'amore, la religione, la fede nell'avvenire. L'amore le spiegava l'eternità. Il suo cuore e il Vangelo le indicavano due mondi da raggiungere. S'immergeva notte e giorno nel profondo di due pensieri infiniti, che per lei forse non erano che un solo. Si raccoglieva in se stessa, amando, e credendosi amata. Dopo sette anni la sua passione aveva tutto invaso. I suoi tesori non erano i milioni i cui frutti s'accumulavano, ma il cofanetto di Carlo, i due ritratti appesi al capezzale, i gioielli ripresi a suo padre, disposti solennemente su di uno strato di ovatta in un tiretto del forziere, il ditale della zia, che sua madre aveva adoperato, e che tutti i giorni lei usava religiosamente per lavorare a un ricamo, tela di Penelope, iniziata solo per poter mettere al dito quell'oro così pieno di ricordi. Non sembrava affatto verosimile che la signorina Grandet volesse maritarsi durante il lutto. La sua sincera devozione era ben nota. E così la famiglia Cruchot, la cui politica era saggiamente guidata dal vecchio abate, si contentò di circuire l'ereditiera usandole le premure più affettuose. In casa sua, tutte le sere, la sala si riempiva di una società composta dei più caldi e più fedeli Crusciottiani del paese, che si sforzavano di cantar le lodi della padrona di casa in tutti i toni. Essa aveva il suo medico ordinario di camera, il grande elemosiniere, il ciambellano, la prima dama di corte, il primo ministro, soprattutto il cancelliere, un cancelliere che voleva suggerirle sempre tutto. Se l'ereditiera avesse desiderato un paggio per reggerle lo strascico, gliene avrebbero subito trovato uno. Era una regina, e la più abilmente adulata di tutte le regine. L'adulazione non proviene mai dalle grandi anime, è l'appannaggio di spiriti mediocri, che riescono a rimpicciolirsi ancor più per entrare più facilmente nella sfera vitale delle persone attorno alle quali gravitano. L'adulazione sottintende un interesse. E infatti le persone che andavano ad ammobiliare con la loro presenza tutte le sere la sala della signorina Grandet, da loro chiamata signorina di Froidfond, riuscivano meravigliosamente a colmarla di complimenti. Quel concerto di elogi, nuovo per Eugenia, la fece sul principio arrossire; ma insensibilmente, e sebbene quelle lodi fossero grossolane, il suo orecchio si abituò così bene a sentir vantare la sua bellezza, che se qualche nuovo venuto l'avesse trovata brutta, a un tale giudizio sfavorevole sarebbe rimasta molto più sensibile allora che non otto anni prima. Poi finì per amare quelle soddisfazioni che metteva segretamente ai piedi del suo idolo. Si abituò dunque poco per volta a lasciarsi trattare da sovrana e a vedere la sua corte al completo ogni sera. Il signor presidente di Bonfons era l'eroe di quel piccolo circolo, dove il suo spirito, la sua persona, la sua cultura, la sua cortesia venivano continuamente ammirati. Un tale faceva osservare che, negli ultimi sette anni, aveva molto aumentato la sua fortuna, che Bonfons valeva almeno diecimila franchi di rendita e che si trovava incuneato, come tutti i beni dei Cruchot, nei vasti possessi dell'ereditiera.

- Sapete, signorina - le diceva un assiduo - che i Cruchot hanno quarantamila lire di rendita?

- E poi, tutte le loro economie - riprendeva una vecchia Crusciottiana, la signorina de Gribeancourt. - Un signore di Parigi è venuto ultimamente a offrire al signor Cruchot duecentomila franchi per rilevare il suo studio. E certo lo venderà, se sarà nominato giudice di pace.

- Vuol succedere al signor di Bonfons nella presidenza del tribunale, e allora già prende le sue precauzioni - rispose la signora d'Orsonval - perché il signor presidente diventerà consigliere, poi presidente della Corte, non gli manca nulla per far carriera.

- Sì, è un uomo molto distinto - diceva un altro. - Non trovate anche voi, signorina?

Il signor presidente aveva procurato di mettersi in armonia con la parte che voleva rappresentare. Malgrado i suoi quarant'anni, malgrado il viso bruno arcigno, appassito come quasi tutte le fisionomie dei magistrati, si dava l'aria di un giovanotto, giocherellava con un frustino, non fiutava tabacco in casa della signorina di Froidfond, vi si presentava sempre in cravatta bianca, con una camicia il cui sparato a larghe pieghe gli dava un'aria di famiglia con gli individui della specie gallinacea.

Egli parlava ormai familiarmente alla bella ereditiera, e le diceva:

- La nostra cara Eugenia! - E poi, eccezion fatta per il numero delle persone, sostituita la tombola col "whist" e tolti il signore e la signora Grandet, la scena con la quale ha avuto inizio questa storia era pressa a poco sempre la stessa. La muta inseguiva sempre Eugenia e i suoi milioni; ma la muta, più numerosa, abbaiava meglio, e accerchiava comunque la preda in piena intesa. Se Carlo fosse arrivato dall'interno delle Indie, avrebbe dunque trovato gli stessi personaggi e gli stessi interessi. La signora de Grassins, verso la quale Eugenia era perfetta di grazia e di bontà, continuava a tormentare i Cruchot.

Ma la figura di Eugenia avrebbe dominato il quadro; anche allora, come una volta, Carlo sarebbe stato sempre il sovrano. Tuttavia c'era stato un progresso. Il mazzo di fiori presentato un tempo a Eugenia il giorno del suo compleanno dal presidente, era divenuto periodico. Tutte le sere egli ne portava uno, grande e magnifico, alla ricca ereditiera, che la signora Cornoiller disponeva ostentatamente in un vaso, e poi gettava di nascosto in un angolo del cortile, non appena i visitatori se ne erano andati.

All'inizio della primavera, la signora de Grassins cercò di turbare la felicità dei Crusciottiani parlando a Eugenia del marchese di Froidfond, il cui casato in rovina avrebbe potuto risollevarsi se l'ereditiera avesse voluto restituirgli il feudo mediante un contratto di matrimonio. La signora de Grassins faceva risaltare la dignità di pari e il titolo di marchese, e, interpretando il sorriso sdegnoso di Eugenia per una approvazione, andava dicendo che il matrimonio del signor presidente Cruchot non era poi tanto sicuro come si credeva.

- Quantunque il signor de Froidfond abbia cinquant'anni - diceva - non sembra aver più età del signor Cruchot; è vedovo, ha figli, è vero; ma è marchese, sarà pari di Francia, e coi tempi che corrono dove trovare un altro matrimonio di questo calibro? Io so di sicuro che papà Grandet, riunendo tutte le sue proprietà al feudo di Froidfond, aveva l'intenzione d'innestarsi coi Froidfond. Me lo ha detto tante volte. Era furbo, il brav'uomo.

- Ma come mai, Nanon - disse una sera Eugenia coricandosi - egli non mi ha scritto in sette anni?...

Mentre queste cose accadevano a Saumur, Carlo faceva fortuna nelle Indie. La sua paccottiglia era stata subito ben venduta. Aveva realizzato rapidamente una somma di seimila dollari. Il passaggio dell'Equatore gli fece perdere molti pregiudizi; si accorse che il miglior modo di arricchire era, nelle regioni intertropicali, come in Europa, quello di comprare e di vendere uomini. Si recò quindi sulle coste dell'Africa e vi praticò la tratta di negri, accoppiando al commercio degli uomini quello delle merci che si potevano più vantaggiosamente scambiare sui diversi mercati dove lo conducevano i suoi interessi. Mise negli affari un'attività che non gli lasciava un momento libero. Era dominato dall'idea di ricomparire a Parigi con tutto lo splendore di una grande fortuna, e di riconquistare una posizione più brillante ancora di quella da cui era caduto. A forza di passare di gente in gente, di paese in paese, d'osservare i costumi diversi, le sue idee si modificarono, divenne scettico. Non ebbe più nozioni ben determinate sul giusto e l'ingiusto, vedendo considerato come un delitto in un paese quel che era virtù in un altro. Sempre alle prese con l'interesse, il suo cuore divenne freddo, si contrasse, si inaridì. Il sangue dei Grandet non mentì. Carlo divenne duro, avido di guadagno. Vendette cinesi, negri, nidi di rondine, bambini, artisti; esercitò l'usura su vasta scala. L'abitudine di frodare i diritti di dogana lo rese meno scrupoloso verso i diritti dell'uomo. Si recava spesso a Saint-Thomas per acquistarci a vil prezzo le merci rubate dai pirati, e le portava sui mercati in cui mancavano. Se il nobile e puro volto di Eugenia lo accompagnò nel primo viaggio come quella immagine della Vergine che i marinai spagnoli pongono sui loro bastimenti, e attribuì i suoi primi successi al magico influsso dei voti e delle preghiere di quella dolce ragazza, più tardi, le negre, le mulatte, le bianche, le giavanesi, le almee, le orge d'ogni colore, e le avventure avute nei diversi paesi cancellarono completamente il ricordo della cugina, di Saumur, della casa, della panca, del bacio colto nel corridoio. Egli rammentava solo il giardinetto cinto da vecchie mura, perché là aveva avuto inizio il suo destino avventuroso; ma rinnegava la famiglia: suo zio era un vecchio cane che gli aveva truffato i gioielli; Eugenia non era nel suo cuore né nei suoi pensieri, essa occupava un posto negli affari come creditrice della somma di seimila franchi: questa condotta e queste idee spiegano il silenzio di Carlo Grandet.

Nelle Indie, a Saint-Thomas, sulle coste d'Africa, a Lisbona e negli Stati Uniti, lo speculatore aveva assunto, per non compromettere il suo nome, lo pseudonimo di Sepherd. Carlo Sepherd poteva senza alcun rischio mostrarsi ovunque infaticabile, audace, avido, come un uomo che, deciso a far fortuna "qui buscumque viis", si affretta a farla finita con l'infamia per vivere onestamente durante il resto della vita. Con un tale sistema il suo successo fu rapido e brillante. Nel 1827, dunque, egli tornava a Bordeaux, a bordo della "Maria Carolina", un grazioso brigantino appartenente a una compagnia realista. Possedeva un milione e novecentomila franchi in tre barilotti di polvere d'oro solidamente cerchiati, da cui contava ricavare il sette o l'otto per cento commerciandoli a Parigi. Su quel brigantino si trovava pure un gentiluomo della corte di Sua Maestà il re Carlo Decimo, il signor d'Aubrion, un buon vecchio che aveva commesso la pazzia di sposare una donna alla moda, e i cui beni erano nelle isole.

Per porre riparo alle prodigalità della signora d'Aubrion, era andato a realizzare le sue proprietà. Il signore e la signora d'Aubrion, della famiglia d'Aubrion di Buch, il cui ultimo "capitano" era morto nel 1789, ridotti a vivere con una ventina di migliaia di lire di rendita, avevano una figlia alquanto brutta che la madre voleva maritare senza dote, poiché il suo patrimonio le era appena sufficiente per vivere a Parigi. Era una impresa il cui successo sarebbe sembrato problematico a tutti, nonostante l'abilità che si riconosce alle dame della buona società. Perciò la stessa signora d'Aubrion disperava quasi, guardando la figlia, di riuscire a darla a chicchessia, fosse pure un uomo ebbro di nobiltà. La signorina d'Aubrion era lunga come una libellula; magra, gracile, con una bocca dall'espressione sdegnosa, sulla quale scendeva un naso troppo lungo, grosso in punta, flavescente allo stato normale, ma completamente rosso dopo i pasti, una specie di fenomeno vegetale tanto più spiacevole in un viso pallido e dall'aria annoiata che in ogni altro. Insomma, era quale poteva desiderarla una madre di trentotto anni, che, tuttora bella, aveva ancora delle pretese. Ma, per controbilanciare tali svantaggi, la marchesa d'Aubrion aveva saputo dare a sua figlia un'aria assai distinta, l'aveva sottoposta a un regime che conservava provvisoriamente il naso in un ragionevole incarnato, le aveva fatto apprendere l'arte di vestirsi con gusto, l'aveva dotata di modi graziosi, le aveva insegnato a lanciare quegli sguardi malinconici che interessano un uomo e gli fanno credere che incontrerà l'angelo tanto invano cercato; le aveva anche insegnato la manovra del piede, in modo da avanzarlo opportunamente e farne ammirare la piccolezza, al momento in cui il naso commetteva l'impertinenza di arrossire; insomma, aveva tratto da sua figlia un partito quanto mai soddisfacente. Con maniche larghe, busti ingannevoli, vestiti rigonfi e accuratamente guarniti, busto ad alta pressione, aveva ottenuto prodotti femminili così curiosi che, ad ammaestramento delle madri, avrebbe dovuto depositarli in un museo. Carlo strinse una grande intimità con la signora d'Aubrion, che non chiedeva di meglio. Molti sostengono, anzi, che, durante la traversata, la bella signora d'Aubrion non trascurò alcun mezzo per accaparrarsi un genero tanto ricco. Sbarcando a Bordeaux, nel giugno del 1827, il signore, la signora, la signorina d'Aubrion e Carlo presero alloggio insieme nello stesso albergo e insieme partirono per Parigi. Il palazzo dei d'Aubrion era carico d'ipoteche, Carlo doveva liberarlo. La madre aveva già parlato del piacere che avrebbe avuto di cedere il pianterreno al genero e alla figlia.

Non condividendo i pregiudizi del signor d'Aubrion sulla nobiltà, aveva promesso a Carlo Grandet di ottenere dal buon Carlo Decimo un decreto reale che lo avrebbe autorizzato, lui Grandet, a portare il nome d'Aubrion, a prenderne lo stemma, e a succedere mediante la costituzione di un maggiorasco di trentaseimila lire di rendita, ad Aubrion, nel titolo di "capitano" di Buch e marchese d'Aubrion. Riunendo i loro patrimoni, vivendo in buona armonia, e con l'aiuto di qualche sinecura, si sarebbe riusciti a mettere insieme in casa d'Aubrion, cento e più mila lire di rendita. "E quando si hanno centomila lire di rendita, un uomo, una famiglia, e si è ricevuti a Corte, giacché vi farò nominare gentiluomo di camera, si diventa tutto quel che si vuole", essa diceva a Carlo. "E così voi sarete, a vostra scelta, referendario al Consiglio di Stato, prefetto, segretario d'ambasciata o ambasciatore. Carlo Decimo protegge molto d'Aubrion, si conoscono da ragazzi".

Inebriato d'ambizione da quella donna, Carlo aveva accarezzato durante la traversata tutte quelle speranze che gli erano state presentate da una mano abile, e sotto forma di confidenze versate da cuore a cuore. Ritenendo gli affari del padre sistemati dallo zio, egli si vedeva già piazzato di colpo nel quartiere di Saint- Germain, dove tutti allora volevano essere ammessi, e dove, all'ombra del naso paonazzo della signorina Matilde, egli sarebbe riapparso sotto le spoglie del conte d'Aubrion, come i Dreux riapparvero un giorno sotto quelle di Brézé. Abbagliato dalla prosperità della Restaurazione che aveva lasciato vacillante, preso dal fascino delle idee aristocratiche, la sua ebbrezza, che aveva cominciato a manifestarsi sul bastimento, perdurò a Parigi dove decise di fare del tutto per raggiungere quell'alta posizione che l'egoista sua suocera gli aveva fatto intravedere. Sua cugina non era dunque più per lui che un punto nello spazio di quella brillante prospettiva. Rivide Annetta. Da donna di mondo quale era, essa consigliò con insistenza al suo amico d'un tempo di contrarre quel matrimonio, e gli promise appoggio in tutte le sue imprese ambiziose. Annetta era felice di far sposare una signorina brutta e noiosa a Carlo, che il soggiorno nelle Indie aveva reso molto seducente: il suo colorito si era infatti abbronzato, i suoi modi erano diventati decisi, arditi, come lo sono quelli degli uomini abituati a tagliar corto, a dominare, a riuscire. Carlo respirò più a suo agio a Parigi, vedendo che poteva sostenervi una parte importante. De Grassins, informato del suo ritorno, del prossimo matrimonio, della sua fortuna, lo andò a trovare per parlargli dei trecentomila franchi medianti i quali avrebbe potuto riscattare i debiti del padre. Trovò Carlo in colloquio col gioielliere al quale aveva ordinato dei gioielli per il dono di nozze alla signorina d'Aubrion e che gliene stava mostrando i disegni. Malgrado i magnifici diamanti che Carlo aveva portato dalle Indie, le montature, l'argenteria, i gioielli importanti e quelli da poco della giovane coppia richiesero oltre duecentomila franchi. Carlo ricevette de Grassins, senza dapprima riconoscerlo, con l'impertinente sussiego d'un giovane alla moda che, nelle Indie aveva già ucciso quattro uomini in vari duelli. Il signore de Grassins era già andato da lui tre volte, Carlo lo ascoltò freddamente; poi gli rispose, senza averlo ben compreso:

- Gli affari di mio padre non sono i miei. Vi ringrazio, signore della premura che vi siete preso, e di cui non saprei approfittare. Non ho raggranellato quasi due milioni col sudore della mia fronte per andarli poi a buttare ai piedi dei creditori di mio padre.

- E se vostro padre venisse, fra qualche giorno, dichiarato in fallimento?

- Signore, di qui a qualche giorno, io mi chiamerò conte d'Aubrion. Capite quindi che ciò mi riuscirebbe del tutto indifferente. Del resto, voi sapete meglio di me che quando un uomo ha centomila lire di rendita, suo padre non è mai fallito - aggiunse sospingendo cortesemente il signore de Grassins verso la porta.

Al principio del mese di agosto di quell'anno, Eugenia era seduta sulla panchina di legno dove suo cugino le aveva giurato un eterno amore, e dove faceva colazione quand'era bel tempo. La povera ragazza proprio in quel momento si compiaceva di rievocare, nella fresca e radiosa mattina, i grandi, i piccoli avvenimenti del suo amore, e le catastrofi da cui era stato seguito. Il sole illuminava la graziosa ala di muro tutta screpolata, quasi in rovina, che la capricciosa ereditiera aveva proibito di toccare, sebbene Cornoiller ripetesse spesso alla moglie che un giorno o l'altro qualcuno vi sarebbe rimasto schiacciato sotto. In quel momento il portalettere bussò, consegnò una lettera alla signora Cornoiller, che corse in giardino gridando: - Signorina, una lettera! - La diede alla padrona dicendole: - E' quella che aspettate?

Queste parole risuonarono fortemente nel cuore d'Eugenia, come risuonarono realmente fra le mura del cortile e del giardino.

- Parigi! E' sua. E' tornato.

Eugenia impallidì, e lasciò per un istante la lettera intatta.

Palpitava troppo forte per poterla dissigillare e leggere. Nanon rimase in piedi, le mani sui fianchi, mentre la gioia sembrava uscire come un fumo dalle rughe del suo viso bruno.

- Ma leggete, signorina...

- Ah!, Nanon, perché torna a Parigi, se è partito da Saumur?

- Leggete, e lo saprete.

Eugenia dissigillò la lettera tremando. Ne cadde un assegno sulla ditta: "Signora de Grassins e Corret di Saumur". Nanon lo raccolse.

"Mia cara cugina...".

"Non sono più Eugenia" essa pensò. E il suo cuore si serrò.

"Voi...". "Mi dava del tu!".

Incrociò le braccia, non osò più proseguire, e grosse lacrime le vennero agli occhi.

- E' morto? - domandò Nanon.

- Non scriverebbe - disse Eugenia.

Essa lesse questa lettera:

"Mia cara cugina, apprenderete, credo, con dispiacere, il successo delle mie imprese. Voi mi avete portato fortuna, sono ritornato ricco, e ho seguito i consigli dello zio, la cui morte e quella della zia mi sono state rese note or ora dal signor de Grassins.

La morte dei nostri genitori è nella natura delle cose, e noi dobbiamo succedere loro. Spero che a quest'ora vi sarete consolata. Nulla resiste al tempo e io lo sto provando. Sì, mia cara cugina, disgraziatamente per me, il momento delle illusioni è passato. Che volete! Viaggiando attraverso tanti paesi, ho riflettuto sulla vita. Sono partito che ero un ragazzo, e sono ritornato uomo. Oggi, penso a tante cose alla quali non pensavo prima. Voi siete libera, cugina mia, e io pure; nulla impedirebbe, in apparenza, la realizzazione dei nostri piccoli progetti; ma io sono troppo leale per nascondervi la situazione dei miei affari.

Non ho dimenticato che io non mi appartengo; mi sono sempre ricordato durante le lunghe traversate della panchina di legno...".

Eugenia si alzò come se fosse stata sui carboni ardenti, e andò a sedersi su di un gradino del cortile. "... della panchina di legno dove ci siamo giurati di amarci per sempre, del corridoio, della sala grigia, della mia camera in soffitta, e della notte in cui mi avete reso, con la vostra delicata gentilezza, l'avvenire più facile. Sì, questi ricordi hanno sorretto il mio coraggio, e io mi sono detto che voi pensavate sempre a me come io pensavo spesso a voi, all'ora tra noi convenuta. Avete guardato le nuvole alle nove? Sì, non è vero? Ed è per questo che io non voglio tradire una amicizia per me sacra; no, io non devo ingannarvi. Si tratta, in questo momento, per me, d'un matrimonio che soddisfa tutte le idee che io mi sono fatto sul matrimonio. L'amore, nel matrimonio, è una chimera. Oggi la mia esperienza mi dice che bisogna obbedire a tutte le leggi sociali e salvaguardare col matrimonio tutte le convenienze volute dal mondo. Ora già c'è tra noi una differenza d'età che, forse, influirebbe più sul vostro avvenire, mia cara cugina, che non sul mio. Io non parlerò né dei vostri costumi, né della vostra educazione, né delle vostre abitudini, che non sono affatto in armonia con la vita di Parigi, e che non quadrerebbero certamente coi miei ulteriori progetti. Ho infatti, tra l'altro, intenzione di darmi un alto tono di vita, di ricevere molto, mentre mi pare di ricordare che voi preferite una vita dolce e tranquilla. No, sarò ancora più franco, facendovi arbitra della mia situazione; avete il diritto di conoscerla, avete il diritto di giudicarla. Oggi io posseggo ottantamila lire di rendita.

Questo denaro mi consente di unirmi alla famiglia d'Aubrion, la cui ereditiera, una giovane di diciannove anni, mi porta col matrimonio il suo nome, un titolo, la carica di gentiluomo onorario di camera di Sua Maestà, e una posizione fra le più brillanti. Vi confesserò, mia cara cugina, che io non amo affatto la signorina d'Aubrion; ma, unendomi a lei, assicuro ai miei figli una situazione sociale i cui vantaggi saranno in avvenire incalcolabili; ogni giorno di più le idee monarchiche riacquistano favore. Allora, fra qualche anno, mio figlio, divenuto marchese d'Aubrion, avendo un maggiorasco di quarantamila lire di rendita, potrà assumere nello Stato il posto che più gli converrà scegliere. E' nostro dovere sacrificarsi per i nostri figli. Come vedete, cara cugina, vi ho esposto con la massima sincerità lo stato del mio cuore, delle mie aspirazioni e della mia ricchezza.

Può darsi che voi abbiate dimenticato le nostre fanciullaggini dopo sette anni di assenza; ma io, non ho dimenticato né la vostra bontà né le mie parole; le ricordo tutte, anche quelle date con leggerezza e alle quali un giovane meno coscienzioso di me, con un cuore meno giovane e meno probo, non penserebbe più. Dicendovi che penso solo a fare un matrimonio di convenienza, e che mi ricordo ancora dei nostri amori di ragazzi, non mi rimetto forse interamente alla vostra discrezione, non vi rendo arbitra della mia sorte, non vi dico che, se devo rinunciare alle mie ambizioni sociali, mi contenterei volentieri di quella semplice e pura felicità di cui mi avete offerto così commoventi prove?...

- Tan, ta, ta, - Tan, ta, ti. - Tinn, ta, ta, - Tunn! - Tunn, ta, ti. - Tinn, ta, ta... eccetera, aveva cantato Carlo Grandet sull'aria di 'Non più andrai', mentre firmava:

Vostro devoto cugino, CARLO".

"Perbacco!, questo si chiama agire in piena regola" egli si disse.

Aveva poi preso l'assegno, e aveva aggiunto queste parole:

"P. S. Unisco alla lettera un assegno sul banco de Grassins di ottomila franchi al vostro ordine, pagabile in oro, comprensivo degli interessi e del capitale della somma che avete avuto la bontà di prestarmi. Attendo da Bordeaux una cassa dove si trovano alcuni oggettini che mi permetterete di offrirvi in segno della mia eterna riconoscenza. Potrete rimandarmi a mezzo della diligenza il mio cofanetto al palazzo d'Aubrion, via Hillerin- Bertin".

- Con la diligenza! - disse Eugenia. - Una cosa per la quale avrei dato mille volte la mia vita!

Spaventoso e completo disastro. Il bastimento naufragava senza lasciare né un cordame, né una tavola sul vasto oceano delle speranze. Vedendosi abbandonate certe donne vanno a strappare il loro amante dalle braccia d'una rivale, la uccidono e fuggono in capo al mondo: sul patibolo o nella tomba. Questo, senza dubbio, è bello; il movente del delitto è una sublime passione che s'impone alla Giustizia umana. Altre donne invece chinano il capo e soffrono in silenzio; vanno morenti e rassegnate piangendo e perdonando, pregando e ricordando, fino all'ultimo sospiro. Questo è l'amore, l'amore vero, l'amore degli angeli; l'amore fiero che vive del suo dolore e ne muore. Questo fu il sentimento di Eugenia dopo aver letto quell'orribile lettera. Volse lo sguardo al cielo, pensando alle ultime parole della madre, che, come accade ad alcuni moribondi, aveva proiettato sull'avvenire un colpo d'occhio penetrante, lucido; poi Eugenia, rammentando quella morte e quella vita profetica, misurò con uno sguardo tutto il suo destino. Non le restava più che spiegar le ali, tendere al cielo, e vivere in preghiera fino al giorno della sua liberazione.

- Mia madre aveva ragione - disse piangendo - Soffrire e morire.

Tornò lentamente dal giardino nella sala. Contrariamente alle sue abitudini, non passò per il corridoio; ma ritrovò il ricordo del cugino in quella vecchia sala grigia dove, sul caminetto, era rimasto sempre un certo piattino di cui si serviva tutte le mattine a colazione, insieme a una zuccheriera di vecchio Sèvres.

Quella mattina doveva essere solenne e piena di eventi per lei.

Nanon le annunciò il curato della parrocchia. Questi, parente dei Cruchot, favoriva le mire del presidente di Bonfons. Da qualche giorno, il vecchio abate lo aveva indotto a parlare alla signorina Grandet, in un senso puramente religioso, dell'obbligo in cui si trovava di contrarre matrimonio. Vedendo il suo pastore, Eugenia credette che venisse a chiederle i mille franchi che donava ogni mese ai poveri, e disse a Nanon di andarli a prendere; ma il curato sorrise.

- Oggi, signorina, vengo a parlarvi d'una povera ragazza di cui tutto Saumur s'interessa, e che, mancando di carità verso se stessa, non vive cristianamente.

- Mio Dio!, signor curato, mi trovate in un momento in cui mi è impossibile pensare al prossimo, ora non posso pensare che a me.

Sono tanto infelice, non ho altro rifugio che la Chiesa; essa ha un grembo abbastanza ampio per contenere tutti i nostri dolori, e sentimenti abbastanza fecondi per potervi attingere senza tema di esaurirli.

- Ebbene!, signorina, occupandoci di questa ragazza ci occuperemo di voi. Ascoltatemi. Se volete la vostra salvezza non avete che due vie da seguire: o lasciare il mondo o seguirne le leggi.

Obbedire al vostro destino terreno o al vostro destino celeste.

- Ah!, la vostra voce mi parla nel momento in cui volevo ascoltare una voce. Sì, Dio vi conduce qui, padre. Dirò addio al mondo e vivrò con Dio solo nel silenzio e nel ritiro.

- E' necessario, figlia mia, riflettere prima a lungo su questa repentina decisione. Il matrimonio è una vita, il velo è una morte.

- Ebbene!, la morte, la morte subito, signor curato - essa disse con una impressionante vivacità.

- La morte!, ma voi avete grandi doveri da compiere verso la società, signorina. Non siete dunque la madre dei poveri cui date vestiti, legna per l'inverno e lavoro per l'estate? La vostra grande ricchezza è un prestito che va reso, e voi l'avete santamente accettata per questo. Seppellirvi in un convento, sarebbe un egoismo; e non dovete restare zitella. Prima di tutto:

potreste amministrare da sola la vostra immensa fortuna? Forse così la perdereste. Avreste subito mille cause giudiziarie e vi trovereste implicata in inestricabili difficoltà. Date retta al vostro pastore: uno sposo vi è utile, voi dovete conservare quel che Dio vi ha dato. Vi parlo come a una pecorella prediletta. Voi amate troppo sinceramente Dio per non provvedere alla salvezza dell'anima in questo mondo, di cui siete uno dei più belli ornamenti, e a cui date santi esempi.

In quel momento, la signora de Grassins si fece annunciare.

Giungeva guidata da un desiderio di vendetta e da una grande disperazione.

- Signorina - disse. - Ah!, è qui il signor curato. Taccio allora; venivo per parlarvi d'affari, ma vedo che siete molto occupata.

- Signora - disse il curato - vi lascio il campo libero.

- Oh, signor curato - disse Eugenia - tornate di qui a poco, il vostro consiglio m'è in questo momento ben necessario.

- Sì, mia povera ragazza - disse la signora de Grassins.

- Che volete dire con questo? - chiesero la signorina Grandet e il curato.

- Non mi è forse noto il ritorno di vostro cugino, e il suo matrimonio con la signorina d'Aubrion?... Una donna non ha mai la testa in aria.

Eugenia arrossì e rimase silenziosa; ma prese la decisione di assumere da quel momento l'impassibile contegno di suo padre.

- Ebbene!, signora - rispose con ironia - io devo allora avere certamente la testa in aria, non capisco quel che volete dire.

Parlate, parlate pure avanti al signor curato, egli è, voi lo sapete, la mia guida spirituale.

- Ebbene!, signorina, ecco quel che de Grassins mi scrive.

Leggete.

Eugenia lesse questa lettera:

"Mia cara moglie, Carlo Grandet è tornato dalle Indie, e si trova a Parigi da un mese...

"Un mese!" si disse Eugenia lasciando ricadere la mano. Dopo una pausa riprese a leggere.

"... Ho dovuto far due volte anticamera prima di poter parlare al futuro visconte d'Aubrion. Sebbene tutta Parigi parli del suo matrimonio, e siano già state fatte tutte le pubblicazioni...

"Allora egli mi scriveva proprio quando...", si disse Eugenia.

Essa non terminò la frase, non gridò come avrebbe fatto una parigina "Che mascalzone!" Ma, pur non essendo espresso, lo sdegno non fu meno completo. "... Questo matrimonio è ancora in alto mare; il marchese d'Aubrion non darà sua figlia al figlio di un bancarottiere. Sono andato a informarlo di tutti i passi che suo zio e io abbiamo fatto per regolare gli affari del padre, e delle abili manovre con le quali siamo riusciti a tenere i creditori tranquilli fino a oggi. Quel piccolo impertinente non ha avuto la sfrontatezza di rispondere a me, che per cinque anni mi sono dedicato notte e giorno a salvaguardare i suoi interessi e il suo onore, che gli affari di suo padre non erano i suoi? Un legale avrebbe il diritto di chiedergli trenta o quarantamila franchi d'onorari, in ragione dell'un per cento sulla somma dei crediti.

Ma, pazienza; essendo legittimamente dovuti un milione e duecentomila franchi ai creditori, farò dichiarare suo padre in fallimento. Io mi sono imbarcato in questo affare sulla parola di quel vecchio caimano di Grandet, e ho fatto delle promesse in nome della famiglia Grandet. Se il signor visconte d'Aubrion si cura così poco del proprio onore, io tengo invece molto al mio. E perciò esporrò la mia situazione ai creditori. Tuttavia, ho troppo rispetto verso la signorina Eugenia, alla cui parentela con lei, in tempi più fortunati, avevamo pensato, per agire senza che tu le abbia prima parlato di questa faccenda...".

A questo punto, Eugenia restituì freddamente la lettera senza finire di leggerla.

- Vi ringrazio - disse alla signora de Grassins - VEDREMO...

- In questo momento, avete proprio la stessa voce del defunto vostro padre - disse la signora de Grassins.

- Signora, ricordatevi che dovete pagare ottomila e cento franchi in oro - le disse Nanon.

- E' vero; usatemi la cortesia di venir con me, signora Cornoiller.

- Signor curato - disse Eugenia con un nobile sangue freddo datole dal pensiero che stava per esprimere - sarebbe commettere un peccato quello di restare in stato di verginità nel matrimonio?

- Questo è un caso di coscienza la cui soluzione mi è ignota. Se volete sapere quel che ne pensa nella sua "Summa de Matrimonio" il celebre Sanchez, potrò dirvelo domani.

Il curato uscì, la signorina Grandet salì nello studio del padre e ci trascorse la giornata, sola, senza voler scendere all'ora del pranzo, malgrado le insistenze di Nanon. Ricomparve la sera, all'ora in cui gli assidui del suo circolo arrivavano. Mai la sala dei Grandet era stata così affollata come in quella sera. La notizia del ritorno e dello sciocco tradimento di Carlo s'era diffusa per tutta la città. Ma per quanto acuta fosse la curiosità dei visitatori, essa non venne soddisfatta. Eugenia, prevenuta, non lasciò trasparire sul suo volto sereno le crudeli emozioni che la turbavano. Seppe assumere un aspetto sorridente in risposta a coloro che vollero testimoniarle il loro compatimento con sguardi o parole malinconiche. Seppe insomma celare il suo dolore sotto i veli della cortesia. Verso le nove le partite ebbero termine e i giocatori lasciarono i tavoli, regolarono i loro conti e discussero sugli ultimi colpi del "whist" andando a raggiungere la cerchia dei conversatori. Nel momento in cui tutti si alzarono per lasciare la sala, ci fu un colpo di scena che ebbe eco in Saumur, e anche oltre i confini del circondario e delle quattro prefetture circonvicine.

- Restate, signor presidente - disse Eugenia al signor de Bonfons vedendo che prendeva il bastone.

A queste parole, non ci fu nessuno nella numerosa compagnia che non si sentisse commosso. Il presidente impallidì e fu costretto a sedersi.

- I milioni al presidente - disse la signorina de Gribeaucourt.

- E' chiaro, il presidente di Bonfons sposa la signorina Grandet - esclamò la signora d'Orsonval.

- Questo è il più bel colpo della partita - disse l'abate.

- E' un bel "schleem" - disse il notaio.

Ognuno disse la sua, ognuno lanciò il suo frizzo, tutti vedevano l'ereditiera salita sui suoi milioni, come su di un piedistallo.

Il dramma iniziatosi nove anni prima aveva il suo epilogo. Dire, davanti a tutta Saumur, al presidente di restare, non era come annunciare che voleva far di lui il proprio marito? Nelle piccole città, le convenienze sono così severamente osservate, che una infrazione di quel genere vale quanto la più solenne delle promesse.

- Signor presidente - gli disse Eugenia con voce commossa quando furono soli - so quel che vi piace in me. Giurate di lasciarmi libera per tutta la vita, di non ricordarmi nessuno dei diritti che il matrimonio vi dà su di me, e la mia mano è vostra. Oh! - essa riprese vedendolo mettersi in ginocchio - non ho ancora detto tutto. Io non devo ingannarvi, signore. Ho nel cuore un sentimento inestinguibile. L'amicizia è il solo sentimento che posso accordare a mio marito; non voglio né offenderlo, né contravvenire alle leggi del mio cuore. Ma voi non avete la mia mano e la mia fortuna che al prezzo d'un immenso servigio.

- Sono qui pronto a tutto - disse il presidente.

- Ecco un milione e duecentomila franchi, signor presidente - disse traendo dal suo seno un foglio - partite per Parigi, non domani, non questa notte, ma subito. Recatevi dal signor de Grassins, fatevi dare il nome di tutti i creditori di mio zio, riuniteli, pagate tutti i debiti che la sua successione presenta, per capitale e interessi del cinque per cento dal giorno in cui il debito fu contratto fino a quello del rimborso, e infine vogliate far fare una ricevuta generale vidimata dal notaio, in perfetta regola. Siete magistrato, e mi rimetto completamente a voi per regolare questo affare. Voi siete un uomo leale, un galantuomo; io mi affiderò alla vostra parola per attraversare i pericoli della vita al riparo del vostro nome. Avremo l'uno per l'altro una reciproca indulgenza. Ci conosciamo da tanto tempo, siamo quasi parenti, non vorrete rendermi infelice.

Il presidente cadde ai piedi della ricca ereditiera palpitando di gioia e d'angoscia.

- Sarò il vostro schiavo - le disse.

- Quando avrete la ricevuta, signore - riprese guardandolo freddamente - la recherete con tutti i titoli di credito a mio cugino Grandet e gli consegnerete questa lettera. Al vostro ritorno; manterrò la mia parola.

Il presidente capì che doveva la mano della signorina Grandet a un ripicco amoroso; e perciò si affrettò a eseguire gli ordini con la maggior prontezza, a evitare qualsiasi riconciliazione tra i due innamorati.

Quando il signor di Bonfons fu uscito, Eugenia si lasciò cadere sulla poltrona e ruppe in lacrime. Tutto era consumato. Il presidente prese la diligenza e si trovò a Parigi l'indomani sera.

Nella mattinata del giorno successivo all'arrivo, andò da de Grassins. Il magistrato convocò i creditori nello studio del notaio dove si trovavano depositati i titoli, e presso il quale non uno mancò all'appello. Sebbene fossero creditori, bisogna render loro giustizia: furono puntuali. Là, il presidente di Bonfons, a nome della signorina Grandet, versò loro il capitale e gli interessi dovuti. Il pagamento degli interessi rappresentò per il commercio parigino uno degli avvenimenti più sorprendenti dell'epoca. Quando la ricevuta fu registrata e de Grassins fu pagato dei suoi onorari con la somma di cinquantamila franchi che gli aveva assegnato Eugenia, il presidente si recò al palazzo d'Aubrion, e ci trovò Carlo nel momento in cui questi rientrava nel suo appartamento, dopo uno scontro col suocero. Il vecchio marchese gli aveva dichiarato proprio allora che non gli avrebbe dato la mano della figlia se non quando tutti i creditori di Guglielmo Grandet fossero stati soddisfatti.

Il presidente gli consegnò innanzi tutto la seguente lettera:

"Caro cugino, il signor presidente di Bonfons ha preso l'incarico di rimettervi la quietanza di tutte le somme dovute da mio zio e quella con cui riconosco di averle ricevute da voi. Mi si è parlato di fallimento. Ho pensato che il figlio di un fallito non avrebbe forse potuto sposare la signorina d'Aubrion. Sì, cugino, avete giudicato bene il mio spirito e i miei modi: non sono fatta per la società, non ne conosco né i calcoli né i costumi, e non saprei darvi i piaceri che voi volete trovarvi. Siate felice, secondo le convenzioni sociali alle quali avete sacrificato il nostro primo amore. Per rendere la vostra felicità completa, io non posso perciò offrirvi che l'onore di vostro padre. Addio, avrete sempre una fedele amica nella vostra cugina, EUGENIA".

Il presidente sorrise all'esclamazione che quell'ambizioso giovane non poté reprimere al momento in cui ricevette l'atto autentico.

- Li annunceremo reciprocamente i nostri matrimoni - gli disse.

- Ah!, voi sposate Eugenia. Ebbene!, ne sono contento, è una brava ragazza. Ma - riprese colpito a un tratto da una riflessione luminosa - è ricca?

- Aveva - rispose il presidente con aria beffarda circa diciannove milioni quattro giorni fa; ma oggi non ne ha che diciassette.

Carlo guardò il presidente con aria stupita.

- Diciassette... mil...

- Diciassette milioni, sissignore. Tra la signorina Grandet e me, mettiamo insieme sposandoci, settecentocinquantamila lire di rendita.

- Mio caro cugino - disse Carlo ritrovando un po' della sua presenza di spirito - potremo aiutarci a vicenda.

- D'accordo - disse il presidente. - Ecco, inoltre, una cassettina che devo consegnare solo a voi - aggiunse posando su di un tavolo il cofanetto.

-Ebbene!, mio caro amico - disse la signora marchesa d'Aubrion entrando senza badare a Cruchot - non date alcuna importanza a ciò che vi ha detto poco fa quel povero signor d'Aubrion, al quale la duchessa de Chaulieu aveva fatto girare la testa. Ve lo ripeto, nulla potrà impedire il vostro matrimonio....

- Nulla, signora - rispose Carlo. - I tre milioni un tempo dovuti da mio padre sono stati pagati ieri.

- In contanti? - essa disse.

- Integralmente, capitale e interessi, e ora farò riabilitare la sua memoria.

- Che sciocchezza! - esclamò la suocera. - Chi è questo signore? - essa disse all'orecchio del genero, accorgendosi solo allora di Cruchot.

- Il mio amministratore - le rispose a bassa voce.

La marchesa salutò altezzosamente il signor di Bonfons, e uscì.

- Ci stiamo già aiutando - disse il presidente prendendo il suo cappello. - Addio, cugino.

"Mi ha preso in giro, quel cacatoa di Saumur. Mi verrebbe la voglia di cacciargli sei pollici di ferro nel ventre".

Il presidente intanto era uscito. Tre giorni dopo, il signor di Bonfons, ritornato a Saumur, fece le pubblicazioni del suo matrimonio con Eugenia. Sei mesi dopo, veniva nominato consigliere della corte reale di Angers. Prima di lasciare Saumur, Eugenia fece fondere l'oro dei gioielli per così lungo tempo preziosi al suo cuore, e li consacrò insieme agli ottomila franchi del cugino, in un ostensorio d'oro facendone dono alla parrocchia in cui aveva tanto pregato Dio per lui! E divise il suo tempo fra Angers e Saumur. Il marito, che diede prova di fedeltà in una circostanza politica, fu nominato presidente di sezione e poi primo presidente dopo qualche anno. Attese con impazienza le nuove elezioni generali per avere un seggio alla Camera. Aspirava già a essere Pari, e allora...

- Allora il re sarà dunque suo cugino - diceva Nanon - la signora Cornoiller, borghese di Saumur, cui la padrona annunciava le altre posizioni cui era chiamata. Tuttavia il signor presidente di Bonfons (egli aveva finalmente abolito il patrimonio di Cruchot) non riuscì a realizzare nessuna delle sue idee ambiziose. Morì otto giorni dopo essere stato eletto deputato di Saumur. Dio, che vede tutto e colpisce sempre giusto, lo puniva senza dubbio dei suoi calcoli e dell'abilità giuridica con la quale aveva misurato, "accurante Cruchot", il suo contratto di matrimonio, in base al quale i due futuri sposi si donavano reciprocamente "qualora non avessero avuto figli, l'universalità dei loro beni, mobili e immobili senza eccezioni e riserve, in piena proprietà, dispensandosi anche dalla formalità dell'inventario, senza che l'omissione del predetto inventario possa essere impugnata dai loro eredi o aventi causa, intendendosi che la predetta donazione sia", eccetera. Questa clausola può spiegare il profondo rispetto che il presidente ebbe sempre per la volontà, per la solitudine della signora di Bonfons. Le donne indicavano il signor primo presidente come uno degli uomini più delicati, lo compiangevano e giungevano spesso perfino a malignare sul dolore, sulla passione d'Eugenia, ma nel modo con cui le donne sanno accusare un'altra donna: con le più crudeli ipocrisie.

- La signora presidentessa di Bonfons deve esser proprio ben malata per lasciar così solo suo marito. Povera donnina! Guarirà presto? Ma che cosa ha? Una gastrite? Un cancro? Perché non si fa visitare da qualche medico? Sta diventando gialla da un po' di tempo in qua, dovrebbe sentire le celebrità mediche di Parigi.

Come fa a non desiderare un bambino? Se vuol molto bene a suo marito, come si dice, come mai non dargli un erede, con la posizione che ha? Ma sapete che tutto ciò è molto brutto, e che se si trattasse d'un capriccio, sarebbe proprio riprovevole? Povero presidente!

Dotata di quel fine intuito che il solitario esercita con le sue continue meditazioni e con la visione precisa mediante la quale afferra le cose che ricadono nella propria sfera, Eugenia, avvezza dalla sventura e dalla più recente sua esperienza a indovinare tutto, sapeva benissimo che il presidente desiderava la sua morte per restare l'unico possessore di quella immensa fortuna, cui s'era aggiunta per successione quella dello zio notaio e dello zio abate, che Dio aveva avuto la fantasia di chiamare a sé. La povera reclusa aveva compassione del presidente. La Provvidenza la vendicò dei calcoli e della nefanda indifferenza di uno sposo che rispettava, come la migliore delle garanzie, la passione senza speranza che Eugenia nutriva. Dare la vita a un bimbo, non era forse troncare le speranze dell'egoismo, le gioie dell'ambizione accarezzate dal primo presidente? Iddio elargì quindi masse d'oro alla sua prigioniera per la quale l'oro era indifferente e che aspirava al cielo, che viveva pia e buona, in santi pensieri, che soccorreva sempre i poveri in segreto. La signora di Bonfons rimase vedova a trentasei anni, ricca di ottocentomila lire di rendita, ancora bella, ma come è bella una dama prossima ai quaranta anni. Il suo volto è bianco, disteso, calmo. La sua voce è dolce e raccolta, le sue maniere sono semplici. Essa ha tutta la nobiltà del dolore, la santità di una persona che non ha macchiato la propria anima a contatto col mondo, ma anche la rigidezza della vecchia zitella e le abitudini meschine che crea la vita ristretta di provincia. Malgrado le sue ottocentomila lire di rendita, vive come aveva vissuto la povera Eugenia Grandet; accende il fuoco nella sua camera solo i giorni in cui un tempo suo padre le permetteva di accendere un caminetto della sala, e lo spegne secondo il programma in vigore in gioventù. Veste sempre come sua madre. La casa di Saumur, casa senza sole, senza calore, sempre immersa in una penombra, malinconica, è l'immagine della sua vita.

Accumula con cura le sue rendite, e forse sembrerebbe parsimoniosa se non smentisse la maldicenza con un nobile impiego della sua ricchezza. Pie e caritatevoli fondazioni, un ospizio per i vecchi e scuole cristiane per i fanciulli, una biblioteca pubblica riccamente dotata, testimoniano ogni anno contro l'avarizia rimproveratale da certuni. Le chiese di Saumur devono a lei alcune migliorie. La signora di Bonfons che, ironicamente, è chiamata "Signorina", ispira generalmente un religioso rispetto. Quel nobile cuore, che batteva solo per i sentimenti più teneri, doveva dunque essere sottomesso ai calcoli dell'interesse umano.

L'argento doveva comunicare le sue fredde tinte a quella vita celeste, insinuando la diffidenza per i sentimenti.

- Tu sola mi vuoi bene - essa diceva a Nanon.

La mano di quella donna medica le piaghe nascoste di tutte le famiglie. Eugenia si avvia verso il cielo accompagnata da un corteo di opere buone. La grandezza del suo animo attenua le meschinità della sua educazione e i costumi della sua vita giovanile. Tale la storia di questa donna, che non è di questo mondo pur trovandosi in mezzo al mondo; che, fatta per essere una magnifica sposa e madre, non ha né marito, né figli, né famiglia.

Da qualche giorno si parla di un suo nuovo matrimonio. La gente di Saumur si occupa di lei e del signor marchese di Froidfond, la cui famiglia comincia a circuire la ricca vedova come un tempo avevano fatto i Cruchot. Nanon e Cornoiller parteggiano, si dice, per il marchese, ma nulla di più falso. Né Nanon, né Cornoiller hanno tanta malizia da comprendete la corruzione del mondo.

 

Parigi, settembre 1833.

 

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