Victor Hugo



NOVANTATRÉ

 

 

 

 

PARTE PRIMA - IN MARE

 

 

LIBRO PRIMO
IL BOSCO DELLA SAUDRAIE

 

Negli ultimi giorni di maggio del 1793, un battaglione parigino, di quelli condotti in Bretagna da Santerre, esplorava il temibile bosco della Saudraie, in quel di Astille. Non erano più di trecento uomini, giacché il battaglione era stato decimato dall'aspra guerra che conduceva. Era il tempo in cui, dopo le Argonne, Jemmape e Valmy, del primo battaglione di Parigi, di seicento volontari, rimanevano ventisette uomini, del secondo trentatré e del terzo cinquantasette.

Tempi di epiche lotte.

I battaglioni mandati da Parigi in Vandea erano di novecentododici uomini ciascuno. Ogni battaglione disponeva di tre pezzi d'artiglieria. Erano stati allestiti in quattro e quattr'otto. Il 25 aprile, essendo ministro della Giustizia Gohier e ministro della Guerra Bouchotte, la sezione del Buon Consiglio aveva proposto di mandare alcuni battaglioni di volontari in Vandea; il Lubin membro della Comune, aveva esteso il rapporto; il primo maggio Santerre era pronto a far partire dodicimila uomini, trenta cannoni da campagna e un battaglione di artiglieri. Tali battaglioni, messi insieme così in fretta, furono costituiti tanto bene, che servono ancor oggi da modello, le odierne compagnie di fanteria di linea si costituiscono appunto in base all'organico di quei battaglioni, salvo che in esse viene modificato il vecchio rapporto tra il numero degli uomini di truppa e quello dei sottufficiali.

Il 28 aprile, la Comune di Parigi aveva dato ai volontari del Santerre questa consegna: "Né grazia né quartiere!" Alla fine di maggio, dei dodicimila che avevano lasciato Parigi, ne erano morti ottomila.

Il battaglione impegnato nel bosco della Saudraie era in all'erta.

Nessuna fretta in nessuno. Tutti guardavano a un tempo a destra e a sinistra, davanti e di dietro. Kléber disse: "Il soldato ha un occhio nella schiena". Era un pezzo che marciavano. Che ora poteva essere? in che momento si era del giorno? Sarebbe stato difficile dirlo, ché in selvaggi macchioni come quelli che percorrevano, c'è sempre una specie di crepuscolo, né è mai chiaro in quei boschi.

Il bosco della Saudraie era tragico. La guerra civile aveva cominciato a perpetrare i suoi delitti, fin dal novembre 1792, appunto in quelle boscaglie. Mousqueton, lo zoppo feroce, era sbucato da quei folti funesti; la quantità di omicidi che erano stati commessi là dentro faceva rizzare i capelli. Non c'era luogo più spaventevole di quello.

I soldati vi si internavano con precauzione. Tutto era pieno di fiori; si aveva attorno una tremula muraglia di rami, dai quali pioveva la deliziosa frescura del fogliame; qualche raggio di sole sforacchiava qua e là quelle verdi tenebre, a terra l'iride comune e quella delle paludi, il narciso dei prati, la giunchiglia, fiorellino che annunzia il bel tempo, lo zafferano di primavera ricamavano e trapungevano un folto tappeto di vegetazione, in cui formicolavano tutte le forme del muschio, da quella che pare un bruco a quella che assomiglia a una stella. I soldati procedevano passo passo, in silenzio, scostando pian piano gli arbusti. Sopra le baionette, gli uccelli cinguettavano.

La Saudraie era uno di quei macchioni in cui una volta, nei tempi tranquilli, era stata fatta la "Houicheba", che è la caccia notturna agli uccelli; ora vi si dava la caccia all'uomo.

Il ceduo era tutto di betulle, di faggi e di querce; il terreno era piatto; il muschio e l'erba folta attutivano il trepestio degli uomini in marcia. Nessun sentiero, o sentieri che subito si perdevano.

Agrifogli, pruni selvatici, felci, siepi di robinia e alti rovi dovunque. Impossibile scorgere un uomo a dieci passi. Di tanto in tanto, trasvolava fra i rami un airone o una folaga, indizio di vicinanza d'una palude.

Si procedeva. Tutti camminavano alla ventura, con inquietudine, temendo di trovare quello che cercavano.

Di tanto in tanto s'imbattevano in tracce di accampamenti, spiazzi bruciacchiati, erbe calpestate, bastoni in croce, rami insanguinati:

là era stato cucinato il rancio, qui era stata celebrata la messa, colà erano stati medicati dei feriti. Ma coloro che erano passati di là, erano scomparsi. Dov'erano? Molto lontano, forse; o forse vicinissimi, nascosti, col trombone in pugno? Il bosco pareva deserto.

Il battaglione raddoppiava di prudenza. Solitudine, epperò diffidenza.

Non si vedeva nessuno, ragione di più per temere qualcuno. Avevano a che fare con una foresta malfamata.

Era probabile una imboscata.

Trenta granatieri, distaccati in qualità di esploratori, e comandati da un sergente, precedevano a grande distanza il grosso. Li accompagnava la vivandiera del battaglione. Le vivandiere andavano volentieri con le pattuglie di punta. Si corrono dei pericoli, è vero, ma si vede qualche cosa. La curiosità è una delle forme del coraggio femminile.

A un tratto i componenti di quella esigua pattuglia in avanscoperta ebbero il noto sussulto dei cacciatori quando raggiungono la tana. Nel pieno di un folto si era avvertito come un soffio; era parso di notare tra le fronde un certo qual movimento. I soldati si scambiarono dei cenni.

Nella specie di rovistamento, di ricerca affidata agli esploratori, non occorre che si immischino gli ufficiali: quel che deve essere fatto, si fa da sé.

In meno di un minuto, il punto dove era stato avvertito il movimento fu accerchiato, circoscritto in un cerchio di fucili spianati. Il buio centro del macchione fu preso di mira contemporaneamente da ogni parte, e i soldati, col dito sul grilletto e l'occhio sul punto sospetto, non attesero più altro, per mitragliarlo, che l'ordine del sergente.

La vivandiera, intanto, si era arrischiata a guardare attraverso i cespugli, e nel momento in cui il sergente stava per gridare:

"Fuoco!", ella gridò:

- Fermi! - Poi, rivolgendosi ai soldati, spiegò: - Non sparate, camerati! - e si ficcò nella boscaglia.

Tutti la seguirono.

C'era qualcuno, infatti.

Nel più folto della boscaglia, sul ciglio di una di quelle piccole radure rotonde che lasciano nei boschi le carbonaie ardendo le radici degli alberi, in una specie di buca fatta dai rami, qualche cosa come un ridottino di fronde, una donna sedeva sul muschio, tenendo al seno un neonato che poppava e sulle ginocchia le testoline bionde di due bimbi addormentati.

L'imboscata non consisteva in altro.

- Che fate qui, voi? - gridò la vivandiera.

La donna alzò la testa.

Furiosa, la vivandiera soggiunse:

- Siete pazza, da stare qui?

Poi riprese, esplicativa:

- Un momento ancora, ed eravate spacciata!

Rivolgendosi quindi ai soldati, la vivandiera disse ancora:

- E' una donna!

- Lo vediamo bene, perbacco! - disse un granatiere.

La vivandiera riprese:

- Venire nei boschi a farsi massacrare!... Come può passare per la mente di commettere simili bestialità?

La donna, stupefatta, spaventata, impietrita, guardava attorno, come in un sogno, quei fucili, quelle sciabole, quelle baionette, quelle facce feroci.

I due bimbi si svegliarono e gridarono.

- Ho fame! - disse uno.

- Ho paura! - disse l'altro.

Il neonato continuava a poppare.

La vivandiera gli rivolse la parola:

- Hai ragione tu, - gli disse.

La madre era muta dal terrore.

Il sergente le gridò:

- Non abbiate timore; siamo il battaglione del Berretto Rosso, noi!

La donna rabbrividì dalla testa ai piedi. Guardò il sergente, rude faccia di cui non si scorgevano che le sopracciglia, i baffi, e due braci, che erano gli occhi.

- Il battaglione dell'ex Croce Rossa, - aggiunse la vivandiera.

E il sergente continuò:

- Chi sei tu, signora?

La donna lo osservava, atterrita. Era magra, giovane, pallida, a sbrendoli; portava l'ampio cappuccio delle contadine bretoni e la coperta di lana assicurata al collo con una cordicella. Lasciava vedere il seno nudo con una indifferenza da femmina. I suoi piedi, senza scarpe né calze, sanguinavano.

- E' una povera! - disse il sergente.

E la vivandiera riprese con la sua voce soldatesca e femminea, dolce dopo tutto:

- Come vi chiamate?

In un balbettio quasi indistinto, la donna mormorò:

- Michelina Fléchard.

Frattanto la vivandiera accarezzava con la grossa sua mano la testolina del poppante.

- Che età ha questo marmocchio? - domandò.

La madre non capì. La vivandiera insistette.

- Vi ho domandato l'età di questo qui.

- Ah! - disse la madre. - Diciotto mesi.

- E' grande, - disse la vivandiera. - Non deve più poppare. Bisognerà divezzarlo. Minestra gli daremo.

La madre cominciava a rassicurarsi. I due bimbi che si erano svegliati erano più incuriositi che spaventati. Contemplavano le piume.

- Oh! - disse la madre; - hanno una fame!

Quindi soggiunse:

- Non ne ho, di latte.

- Daremo loro da mangiare, - gridò il sergente. - E anche a te. Ma questo non basta. Quali sono le tue opinioni politiche?

La donna guardò il sergente e non rispose verbo.

- Capisci la mia domanda?

Ella balbettò:

- Sono stata messa in convento da giovanissima; ma mi sono maritata, non sono una monaca. Le suore mi hanno insegnato a parlare francese.

Hanno dato fuoco al paese. Siamo scappati così in fretta, che non ho avuto tempo di mettermi le scarpe.

- Ti domando quali sono le tue opinioni politiche, io!

- Non so cosa intendiate.

Il sergente proseguì:

- Ci sono donne che fanno la spia, ecco tutto. Si devono fucilare.

Suvvia, parla! Non sei una zingara, tu? Qual è la tua patria?

Ella continuò a guardarlo come se non capisse. Il sergente ripeté:

- Qual è la tua patria?

- Non lo so, - ella disse.

- Come non sai quale sia il tuo paese?

- Ah! il mio paese? Si che lo so.

- E allora, qual è il tuo paese?

La donna rispose:

- E' la fattoria di Siscoignard, nella parrocchia di Azé.

Toccò al sergente di stupirsi, questa volta. Rimase un momento sovrappensiero. Poi riprese:

- Hai detto?

- Siscoignard.

--Ma non è una patria, Siscoignard!

- E' il mio paese.

E, dopo un momento di riflessione, la donna soggiunse:

- Capisco, signore. Voi siete francesi, io sono bretone.

- E allora?

- Non è lo stesso paese.

- Ma è la stessa patria! - gridò il sergente.

La donna si limita a rispondere:

- Sono di Siscoignard.

- Vada per Siscoignard! - riprese il sergente. - La tua famiglia è di là?

- Sì.

- Che cosa fa?

- Sono morti tutti. Non ho più nessuno.

Il sergente, che era un pochino quel che si dice un bel parlatore, continuò l'interrogatorio:

- Tutti hanno parenti, che diavolo! se ne hanno o se ne hanno avuti.

Chi sei? Parla.

La donna ascoltò sbalordita quel "o se ne hanno avuti", che assomigliava più a un grido di bestia selvatica che a una parola umana.

La vivandiera sentì il bisogno d'intervenire. Si rimise a carezzare il poppante e diede un buffetto sulla gota degli altri due.

- Come si chiama la lattante? - domandò.- E' bene una bambina, questa.

La madre rispose: - Giorgina.

- E il maggiore? Giacché è un uomo questo monello.

- Gian Renato.

- E il minore? Ché è un uomo anche lui, e paffutello per giunta, quest'altro.

- Alano, - disse la madre.

- Carini, questi piccoli, - disse ancora la vivandiera, - hanno già l'aria di essere qualcuno.

Frattanto, il sergente insisteva:

- Parla, dunque, signora. Hai una casa?

- Ne avevo una.

- Dove?

- Ad Azé.

- Perché non stai a casa tua?

- Perché l'hanno bruciata.

- Chi?

- Non so. Una battaglia.

- Di dove vieni?

- Di là.

- Dove vai?

- Non so.

- Al fatto! Al fatto! Chi sei?

- Non so.

- Non sai chi sei?

- Siamo gente che scappiamo.

- Di che partito sei?

- Non lo so.

- Sei per gli azzurri? sei per i bianchi? Con chi stai?

- Sto coi miei figli.

Ci fu una pausa. La vivandiera disse:

- Non ne ho avuto di figlioli, io. Non ne ho avuto tempo.

Il sergente ricominciò:

- Ma i tuoi parenti? Suvvia, signora, facci sapere chi sono i tuoi parenti. Io, per esempio, mi chiamo Radoub, sono sergente, sono della via Cherche-Midi, mio padre e mia madre erano della stessa contrada, posso parlare dei miei. Parlaci dei tuoi. Dicci chi erano i tuoi genitori.

- Erano i Fléchard, ecco tutto.

- Sì, i Fléchard sono i Fléchard come i Radoub sono i Radoub. Ma si ha pure una condizione. Che cosa erano i tuoi? Che cosa facevano? Che cosa fanno? Che cosa flechardavano i tuoi Fléchard?

- Erano contadini. Mio padre era infermo e non poteva lavorare, per via che aveva ricevuto delle bastonate che il signore, il suo signore, il nostro signore, gli aveva fatto dare; il che era un tratto di bontà, perché mio padre aveva preso un coniglio, cosa per la quale si era condannati a morte; ma il signore lo aveva graziato, dicendo:

"Dategli solo cento bastonate"; e mio padre era rimasto storpio.

- E poi?

- Mio nonno era ugonotto. Il signor curato lo fece mandare alle galere. Ero piccolissima.

- E poi?

- Il padre di mio marito era un contrabbandiere di sale. Il re lo fece impiccare.

- E che cosa fa tuo marito?

- In questi giorni si batteva.

- Per chi?

- Per il re.

- E poi?

- Santo Dio ! per il suo signore.

- E poi?

- Santo Dio! per il signor curato.

- Corpo di mille bombe! - sagrò un granatiere.

La donna sussultò dallo spavento.

- Come vedete, signora, siamo parigini, noi, - disse graziosamente la vivandiera.

La donna congiunse le mani ed esclamò:

- O mio Dio signore Gesù!

- Niente superstizioni! - ingiunse il sergente.

La vivandiera si sedette a fianco della donna e si tirò fra le ginocchia il maggiore dei due bimbi, che non si oppose. I ragazzi si rassicurano come si spaventano, così, senza che se ne sappia il perché. Si direbbe che abbiano un avvertimento interiore.

- Povera la mia donna di questo paese, - ella cominciò, - avete dei gran bei figliuoli, non c'è che dire. S'indovina l'età che hanno. Il grande ha quattro anni, suo fratello ne ha tre. Che ghiottona, per esempio, questa pupattola che poppa! Ah, mostro! la vuoi smettere di mangiare tua madre in questo modo? Suvvia, signora, non dovete temere di nulla. Dovreste entrare nel battaglione. Fareste come me. Mi chiamo la Ussara, io. Un soprannome, si sa. Ma preferisco chiamarmi la Ussara che signorina Bicorneau, come mia madre. Sono la cantiniera, che è quanto dire quella che dà da bere quando ci si mitraglia e ci si ammazza a vicenda. Un po' come il diavolo e l'acqua santa. Abbiamo su per giù lo stesso piede; vi darò un palo delle mie scarpe. Ero a Parigi, il 10 agosto, io! Ho dato da bere a Westermann. Se ne son fatti di progressi! Ho visto ghigliottinare Luigi Sedicesimo, Luigi Capeto, come si dice. Non voleva. Ascoltatemi, diamine! E dire che il 13 gennaio faceva cuocere le castagne e rideva con la sua famiglia!

Quando l'hanno steso di forza sopra la basculla, come la chiamano, non aveva più né marsina né scarpe. Non aveva che la camicia, una sottoveste a puntini, i calzoni di stoffa grigia e calze di seta grigia. Le ho viste, io, queste cose. La carrozza che lo aveva portato là, era verniciata di verde. Venite con noi, via! Sono tutti bravi ragazzi, nel battaglione; sarete la cantiniera numero due. Vi insegnerò io il mestiere. Oh, una cosa semplicissima! Bariletto e gavettino in mano, si va nel putiferio, in mezzo ai fuochi di fila, tra le cannonate, dentro al parapiglia, gridando: "Chi vuol bere un gotto, ragazzi?". Tutto qui. Mesco da bere a tutti, io. Proprio. Ai bianchi come agli azzurri, sebbene io sia un'azzurra, e una buona azzurra per giunta. Ma dò da bere a tutti. Hanno tutti sete, i feriti.

Si muore senza distinzione di opinioni. Dovrebbero stringersi la mano, quelli che muoiono. Che stramberia, quella di battersi! Venite con noi! Se rimarrò ammazzata, mi sostituirete. Sembro così, io, vedete?

ma sono una buona donna e un uomo di fegato. Non temete nulla.

Terminato che la vivandiera ebbe di parlare la donna mormora:

- La nostra vicina si chiamava Maria Giovanna e la nostra fantesca si chiamava Maria Claudia.

Frattanto, il sergente Radoub rimproverava il granatiere:

- Sta zitto, tu! L'hai spaventata, quella signora! Non si bestemmia davanti alle donne.

- Gli è che è pur sempre un vero rompicapo per il comprendonio d'un galantuomo, - ribatté il granatiere, - vedere certi irochesi della Cina che hanno il suocero storpiato dal signore, il nonno galeotto per via del curato e il padre impiccato dal re, e che si battono, per la malora! e si rivoltano e si fanno mettere a pezzi per il signore, il curato e il re!

Il sergente gridò:

- Silenzio nelle file!

- Stiamo zitti, sergente, - riprese il granatiere, - ma ciò non toglie che fa stizza vedere che una bella donna così si espone a farsi sgozzare per i begli occhi di un pretonzolo!

- Granatiere, - disse il sergente; - non siamo al circolo della sezione delle Picche, qui. Bando all'eloquenza!

E si rivolse alla donna:

- E tuo marito, signora, che fa? Che ne è stato di lui?

- Non ne è stato più niente, perché l'hanno ammazzato.

- Dove?

- Nella siepe.

- Quando?

- Tre giorni fa.

- Chi?

- Non lo so.

- Come! non sai chi ha ammazzato tuo marito?

- No.

- Un azzurro, forse? o un bianco?

- Una fucilata.

- Tre giorni fa?

- Sì.

- Da che parte?

- Dalla parte di Ernée. Mio marito è caduto. Ecco.

- E che hai fatto, tu, da quando è morto tuo marito?

- Porto via i piccini.

- E dove li porti?

- Sempre avanti.

- Dove dormi?

- Per terra.

- Che cosa mangi?

- Nulla.

Il sergente ebbe quella smorfia tutta militare che fa toccare il naso dai baffi.

- Nulla?

- Voglio dire prugnole, more dei rovi, quando ne rimangono ancora dell'anno passato, chicchi di mirtillo, germogli di felce.

- Già. E' quanto dire nulla.

Il maggiore dei bimbi, che pareva capisse, gemette:

- Ho fame!

Il sergente si trasse di tasca un pezzo di pagnotta e lo porse alla madre. La madre ruppe il pane in due pezzi e li diede ai bimbi. I piccini vi piantarono avidamente i denti.

- Non ne ha tenuto, per sé, - brontolò il sergente.

- Perché non ha fame, - disse un soldato.

- Perché è la madre, - disse il sergente.

I bimbi smisero di masticare - Da bere, - disse uno dei due.

- Da bere, - ripeté l'altro.

- Non c'è nemmeno un ruscello in questo bosco del diavolo! - disse il sergente.

La vivandiera prese la tazza di rame che le pendeva dalla cintola assieme al gavettino, girò la chiavetta del bariletto che portava a tracolla, versò alcune gocce nella tazza e accostò la tazza alle labbra dei bimbi.

Il primo bevve e fece una smorfia.

Il secondo bevve e sputò.

- Eppure, è buona, - disse la vivandiera.

- Acquavite? - domandò il sergente.

- Sì, e della migliore. Ma son gente di campagna.

E la donna si bevve il rimanente Il sergente riprese:

- Così, dunque, te la svigni, eh, signora?

- Bisogna pure.

- A rotta di collo attraverso i campi, eh?

- Corro con tutte le mie forze, poi cammino, poi casco.

- Povera parrocchiana! - esclamò la vivandiera.

- Combattono, - balbetta la donna. - Sono tutta circondata da fucilate. Non so che cosa abbiano tra loro. Mi hanno ammazzato mio marito, io non ho capito altro che questo.

Il sergente batté forte a terra il calcio del fucile, e sbottò:

- Che stupida guerra, corpo di un asino!

La donna proseguì:

- La notte scorsa, ci siamo coricati in una "émousse".

- Tutt'e quattro?

- Tutt'e quattro.

- Coricati?

- Coricati.

- Allora - disse il sergente, - coricati in piedi.

E si rivolse ai soldati:

- Sapete, camerati, che cosa chiamano "émousse" questi selvaggi? un alberone morto e cavo, dove un uomo si può infilare come dentro a un fodero. Che cosa volete? Non sono obbligati a essere parigini, vi pare?

- Coricarsi nel cavo d'un albero! - commentò la vivandiera; - e con tre figliuoli!

- E quando i piccoli strillavano, - riprese il sergente, - doveva essere curiosa, per quelli che passavano e non vedevano nulla di nulla, sentire una pianta gridare: "papà, mamma!".

- Fortuna che siamo in estate, - sospirò la madre.

Ella guardava per terra, rassegnata, con negli occhi lo sbalordimento delle catastrofi.

I soldati, silenziosi, facevano cerchio intorno a quella miseria.

Una vedova, tre orfani, la fuga, l'abbandono, la solitudine, la guerra rombante intorno intorno, all'orizzonte, la fame, la sete, null'altro da mangiare che l'erba, nessun altro tetto all'infuori del cielo.

Il sergente si avvicinò alla donna e fissò gli occhi sulla bambina che poppava. La piccina si staccò dal seno, voltò pian piano la testa, guardò con le sue belle pupille azzurre la spaventosa faccia piena di peli, irsuta e fulva, che si chinava sopra di lei, e si mise a sorridere.

Il sergente si raddrizzò. Si vide una grossa lacrima scorrergli giù per la guancia e fermarglisi sulla punta d'un baffo, come una perla.

Alzò la voce.

- Camerati! concludo, da tutto questo, che il battaglione sta per diventare padre. D'accordo? Adottiamoli, questi tre marmocchi!

- Viva la repubblica! - gridarono i granatieri.

- E' detto! - conferma il sergente.

Stese ambo le mani sopra la madre e i fanciulli.

- Ecco, - disse, - i figli del battaglione del Berretto Rosso.

La vivandiera si mise a saltare dalla gioia.

- Tre teste in un berretto! - ella esclamò.

Poi scoppiò in singhiozzi. Baciò perdutamente la povera vedova, e le disse:

- Che aria da birba ha già, la piccola!

- Viva la repubblica! - ripeterono i soldati.

E il sergente disse alla madre:

- Venite, cittadina

 

 

 

LIBRO SECONDO

LA CORVETTA "CLAYMORE"

 

1.

INGHILTERRA E FRANCIA CONGIUNTE

 

Nella primavera del 1793, nel momento in cui la Francia, assalita contemporaneamente su tutte le sue frontiere, aveva la patetica distrazione della caduta dei girondini, ecco che cosa accadeva nella Manica.

Una sera, il primo giugno, a Jersey, nella piccola baia deserta di Bonnenuit, circa un'ora prima del tramonto del sole, con uno di quei tempi nebbiosi che tornano comodi a chi ha da fuggire, in quanto sono pericolosi per navigare, una corvetta spiegava le vele. L'equipaggio di quel bastimento era francese, ma il bastimento stesso faceva parte della flottiglia inglese posta di stazione e come di sentinella alla punta orientale dell'isola. Il principe di La Tour d'Auvergne, che era della casa di Bouillon, comandava la flottiglia inglese, e appunto per ordine suo, per espletare un servizio urgente e speciale, la corvetta era stata distaccata.

Quella corvetta, immatricolata alla Trinity-House con il nome di "Claymore", era, apparentemente, una corvetta da carico, ma in realtà una corvetta da guerra. Aveva la tozza e pacifica struttura mercantile; ma era meglio non fidarsene. Era stata costruita con duplice intento: quello dell'astuzia e quello della forza: trarre in inganno, se possibile; combattere, se necessario. Per il servizio che aveva da espletare quella notte, il carico era stato sostituito, nel frapponte, da trenta carronate di grosso calibro. Queste trenta carronate, sia che si prevedesse una tempesta, sia che si volesse dare alla nave un aspetto bonaccione, erano al coperto, vale a dire fortemente ammarrate all'interno con triplici catene e con la volata appoggiata ai portelli tappati a dovere. Dal di fuori, nulla si vedeva: le cannoniere erano dissimulate, i portelli chiusi: era come se alla corvetta fosse stata messa una specie di maschera. Quelle carronate avevano le ruote di bronzo, a raggi, vecchio modello, detto "modello radiato". Le corvette di ordinanza i cannoni li hanno solo sul ponte; questa, fatta per la sorpresa e l'imboscata, era a ponte disarmato ed era stata costruita in modo da poter portare, come abbiamo visto più sopra, una batteria nel frapponte. La "Claymore" era di garbo tozzo e massiccio, pure era una buona camminatrice; era il più solido scafo di tutta la marina inglese, e in combattimento valeva su per giù come una fregata, sebbene non avesse per albero di mezzana che un alberello con una semplice randa. Il suo timone, di forma fuor del comune e sapiente, aveva una sagoma curva quasi unica, che era costata cinquanta lire sterline nei cantieri di Southampton.

L'equipaggio, tutto francese, era composto di ufficiali emigrati e di marinai disertori. Erano uomini accuratamente scelti: non uno che non fosse buon marinaio, buon soldato e buon realista. Avevano in tal modo il triplice fanatismo della nave, della spada e del re.

Assieme con l'equipaggio, era imbarcato un mezzo battaglione di fanteria di marina, che poteva, al bisogno, essere sbarcato.

La corvetta "Claymore" aveva per capitano un cavaliere di San Luigi, il conte di Boisberthelot, uno dei migliori ufficiali della vecchia marina reale; per secondo, il cavaliere di La Vieuville, che aveva comandato, nelle guardie francesi, la compagnia in cui era stato sergente Hoche, e per pilota il più sagace padrone di barca di Jersey, Filippo Gacquoil.

Che quella nave avesse da compiere qualche cosa di straordinario, saltava subito all'occhio. Vi si era, infatti, appena imbarcato un uomo che aveva tutta l'aria di starsi cacciando in un'avventura. Era un vecchio alto, dritto e robusto, dalla faccia severa, di cui sarebbe difficile precisare l'età, giacché sembrava giovane e vecchio a un tempo, uno di quegli uomini che sono pieni d'anni e pieni di forza, che hanno i capelli bianchi sulla fronte e un lampo nello sguardo; quarant'anni, quanto a vigore, e ottanta quanto ad autorità. Nel momento in cui era salito sulla corvetta, il suo mantello da mare si era dischiuso e tutti avevano potuto vederlo, sotto quel mantello, vestito di quelle larghe brache, che son dette "bragon-bras", di stivali alla cacciatora, e di una casacca di pelle di capra, che mostrava per diritto il cuoio con passamani di seta, e per rovescio il pelo irto e incolto, costume completo del contadino bretone. Tali vecchie casacche bretoni erano a due usi: servivano tanto nei giorni di festa che in quelli di lavoro, ché si potevano rivoltare, mettendo in mostra ora il lato villoso ora quello ricamato: pelli di bestia tutta la settimana, abiti di gala alla domenica. L'abito da contadino indossato da quel vecchio, era, come per avvalorare una verosimiglianza cercata e voluta, logoro alle ginocchia e nei gomiti, e pareva essere stato portato a lungo. Il suo mantello da mare, poi, di stoffa grossolana, pareva un cencio da pescatore. Quel vecchio aveva in testa il cappello tondo che allora usava, alto di cocuzzolo e largo di tesa, che, abbassato, denota il contadino, e, rialzato da una parte da un cordoncino e da una coccarda, ha un che di militare. Il vecchio portava quel cappello abbassato alla contadina, senza cordoncino né coccarda.

Lord Balcarres, governatore dell'isola, e il principe di La Tour d'Auvergne l'avevano personalmente accompagnato e istallato a bordo.

L'agente segreto dei principi, Gélambre, ex guardia del corpo del signor conte d'Artois, aveva presieduto egli stesso all'allestimento della sua cabina, spingendo la premura e il rispetto, sebbene egli stesso gentiluomo di non ultimo grado, fino a seguire il vecchio portandone la valigia. Lasciandolo per ritornare a terra, il signor di Gélambre aveva rivolto a quel contadino un profondo saluto; quanto a lord Balcarres, gli aveva detto: "Buona fortuna, generale!", e il principe di La Tour d'Auvergne aveva soggiunto: "Arrivederci, cugino mio".

"Contadino" era infatti il nome col quale gli appartenenti all'equipaggio si erano subito messi a designare il loro passeggero, nei brevi dialoghi che gli uomini di mare hanno tra loro. Pur senza saperne di più, però essi capivano che quel contadino non era un contadino più di quanto la loro corvetta da guerra non fosse una corvetta da carico.

C'era poco vento. La "Claymore" lasciò Bonnenuit, passò davanti alla Boulay-Bay e fu per alcun tempo in vista correndo bordate, poi decrebbe nella notte che infittiva e scomparve.

Un'ora dopo, Gélambre, rientrato a casa sua a Saint-Hélier, spedì, con l'espresso di Southampton, al signor conte d'Artois, al quartiere generale del duca d'York, le righe che seguono:

"Monsignore, la partenza ha avuto luogo or ora. La riuscita è certa.

Fra otto giorni tutta la costa sarà in fiamme, da Granville a Saint- Malo".

Quattro giorni prima, per mezzo di un emissario segreto, il rappresentante Prieur della Marna, in missione presso l'esercito delle coste di Cherbourg e residente per il momento, a Granville, aveva ricevuto, vergato con la stessa scrittura del dispaccio che abbiamo riferito qui sopra, il seguente messaggio:

"Cittadino rappresentante, il primo giugno, all'ora della marea, la corvetta da guerra "Claymore", a batteria mascherata, spiegherà le vele per deporre sulla costa di Francia un uomo, di cui eccovi i connotati: statura alta, vecchio, capelli bianchi, vesti da contadino, mani da aristocratico. Domani vi manderò maggiori particolari. L'uomo sbarcherà il 2 mattina. Avvertite la squadra, catturate la corvetta, fate ghigliottinare il vecchio".

 

 

 

2.

NOTTE SULLA NAVE E SUL PASSEGGERO

 

La corvetta, invece di puntare verso il sud e di dirigersi dalla parte di Santa Caterina, aveva messo la prua a nord, poi aveva virato a ovest e si era risolutamente cacciata tra Serke Jersey, in quel braccio di mare che viene chiamato il Passaggio del Disastro. A quei tempi non c'era alcun faro né sull'una né sull'altra di quelle due coste.

Il sole era tramontato del tutto, la notte era buia più di quanto lo siano, di solito, le notti estive. Era una notte di luna, ma grandi nuvole, da equinozio più che da solstizio, coprivano il cielo, e, secondo ogni apparenza, la luna non sarebbe stata visibile che quando, li lì per tramontare, avrebbe toccato l'orizzonte. V'erano nubi che pendevano fin sul mare, coprendolo di nebbia.

Tutta favorevole, quella oscurità.

L'intenzione di Gacquoil, il pilota, era di lasciarsi Jersey a sinistra e Guernesey a destra e di raggiungere, con una audace traversata tra Hanois e Dover, una qualunque baia del litorale di Saint-Malo. Era una rotta meno breve di quella dei Minquiers, ma più sicura, in quanto la squadra francese, d'ordinario, aveva per consegna di fare soprattutto la ronda tra Saint-Hélier e Granville.

Se il vento secondava, se nulla sopravveniva, Gacquoil sperava, coprendo la corvetta di vele, di raggiungere la costa di Francia sul far del giorno.

Tutto procedeva ottimamente; la corvetta aveva appena oltrepassato Gros-Nez. Verso le nove, il tempo fece finta di imbronciarsi, come dicono i marinai, e ci fu vento, e il mare si agitò. Ma quel vento era buono, e quel mare era mosso senza essere violento. Comunque, a certi colpi di mare, la prua della corvetta si ricopriva d'acqua.

Il "contadino", che lord Balcarres aveva chiamato "generale", e al quale il principe di La Tour d'Auvergne aveva detto "cugino mio", aveva il piede da marinaio e passeggiava con tranquilla gravità sul ponte della corvetta. Pareva non accorgersi nemmeno che era molto scossa. Di tanto in tanto tirava fuori dalla tasca della sua casacca una tavoletta di cioccolata, spezzandone e masticandone un pezzo, ché i suoi bianchi capelli non gli impedivano per nulla di avere tutti i suoi bravi denti.

Non parlava con nessuno, salvo che, ogni tanto, a bassa voce e brevemente, col capitano, che lo ascoltava con deferenza e pareva considerare quel passeggero come più elevato in grado a bordo di lui stesso.

La "Claymore", abilmente pilotata, rasentò, inosservata nella nebbia, la dirupata costa settentrionale di Jersey, serrandosele sotto, per via del pericoloso scoglio Pierres-de-Leeq, che sporge nel mezzo del braccio di mare tra Jersey e Serk. Gacquoil, in piedi alla barra, segnalava di volta in volta la Grève de Leeq, Gros-Nez, Plémont, e faceva scivolare la corvetta fra quelle catene di scogli, a tastoni, in certo qual modo, ma con sicurezza, come uno che sia di casa e conosca i sentieri dell'oceano. La corvetta non aveva fanale di prua, per timore di denunciare il suo passaggio in quei mari sorvegliati.

Tutti si felicitavano della nebbia. All'altezza di Grande-Etape, la nebbia era così fitta, che l'alto profilo del Pinnacolo si discerneva appena appena. Fu udito scoccar le dieci al campanile di Saint-Ouen:

segno che il vento si manteneva di poppa. Tutto continuava a procedere ottimamente; il mare diventava sempre più ondoso, per via della vicinanza della Corbière.

Poco dopo le dieci, il conte di Boisberthelot e il cavaliere di La Vieuville riaccompagnarono l'uomo dalle vesti da contadino fino alla sua cabina, che era l'alloggio dello stesso capitano. Quando fu lì per entrarvi, il vecchio disse loro abbassando la voce:

- Signori, voi sapete che importanza abbia il segreto. Silenzio fino al momento dell'esplosione. Qui, il mio nome lo conoscete soltanto voi.

- Lo porteremo con noi nella tomba, - rispose Boisberthelot.

- Quanto a me - riprese il vecchio - fossi pure davanti alla morte, non lo direi di sicuro Ed entrò in cabina.

 

 

 

3.

NOBILTA' E PLEBE CONGIUNTE

 

Il comandante e il secondo risalirono sul ponte e ripresero a camminare uno di fianco all'altro, chiacchierando. Parlavano, evidentemente, del loro passeggero, ed ecco, a un dipresso, il dialogo che il vento disperdeva nelle tenebre.

Il Boisberthelot brontolò sottovoce all'orecchio di La Vieuville:

- Vedremo, ora, se è un capo.

La Vieuville rispose:

- Frattanto, è un principe.

- Quasi.

- Gentiluomo in Francia, ma principe in Bretagna.

- Come i La Trémouille, come i Rohan.

- Coi quali è imparentato.

Boisberthelot riprese:

- In Francia e nelle carrozze del re, egli è marchese, come io sono conte e voi siete cavaliere.

- Le carrozze! eh! sono lontane le carrozze! - esclamò La Vieuville. - Siamo alle carrette, per adesso.

Ci fu un silenzio.

Boisberthelot riprese a dire:

- In mancanza di un principe francese, si prende un principe bretone.

- In mancanza di tordi... Anzi, in mancanza di una aquila, si piglia un corvo...

- Preferirei un avvoltoio, - disse il Boisberthelot. E La Vieuville ribatté:

- Certo! un becco e artigli.

- Vedremo.

- Sì, - riprese La Vieuville, - è ora che ci sia un capo. Io sono del parere del Tinténiac: "un capo e della polvere!". Ecco, comandante, io conosco su per giù tutti i capi possibili e impossibili; quelli di ieri, quelli di oggi e quelli di domani; nessuno di essi è l'uomo di guerra che ci occorre. In questa indiavolata Vandea occorre un generale che sia al tempo stesso un procuratore: bisogna annoiare il nemico, disputargli il mulino, il cespuglio, il fosso, il ciottolo; bisogna provocarlo, trarre vantaggio da tutto, avere l'occhio su tutto, massacrare molto, dare esempi su esempi, non aver sonno né pietà. Ora come ora, in quell'esercito di contadini ci sono degli eroi, ma non un capitano. D'Elbée è una nullità, Lescure è malato, Bonchamps fa grazia, è buono, stupido. La Rochejacquelin è un magnifico sottoluogotenente, Silz è un ufficiale di aperta campagna, non idoneo alla guerra di espedienti; Chathelineau è un ingenuo carrettiere, Stofflet un astuto guardacaccia, Bérard è un inetto, Boulainvilliers è ridicolo, Charrette orribile. E non parlo del barbiere Gastone, giacché, perdinci! a che serve avversare la rivoluzione, e che differenza c'è tra i repubblicani e noi, se facciamo comandare i gentiluomini dai parrucchieri?

- Fatto sta che questa canaglia di rivoluzione ci si attacca anche a noi.

- Una vera rogna per la Francia!

- Rogna del terzo stato, - riprese il Boisberthelot.

- Soltanto l'Inghilterra ce ne può tirar fuori.

- Ce ne tirerà fuori, non dubitarne, capitano.

- E' ben brutta, intanto.

- Certo! Villani dappertutto. La monarchia, che ha per generale in capo Stofflet, guardacaccia del signor di Maulevrier, non ha nulla da invidiare alla repubblica, che ha per ministro Pache, figlio del portinaio del duca di Castries. Che riscontro in questa guerra di Vandea: da una parte Santerre il birraio, dall'altra Gastone l'apprendista parrucchiere!

- Ho una certa stima di questo Gastone, io, mio caro La Vieuville. Non si è poi comportato male, quando ha avuto il comando di Guéméné. Ha bellamente archibugiato trecento azzurri, dopo averli costretti a scavarsi la loro propria tomba.

- Alla buon'ora! Ma l'avrei fatto anch'io altrettanto bene che lui.

- Senza dubbio, perbacco. Ed io non meno.

- Le grandi azioni di guerra, - riprese La Vieuville, - richiedono nobiltà in chi le compie. Sono cose da cavalieri, non da parrucchieri.

- Eppure, - ribatté il Boisberthelot, - ci sono, in questo terzo stato, degli uomini stimabili. Quell'orologiaio Joly, per esempio. Era stato sergente nel reggimento di Fiandra, si fa capo vandeano, comanda una banda della costa; ha un figlio che è repubblicano, e, mentre il padre serve tra i bianchi, il figlio serve negli azzurri.

S'incontrano. Battaglia. Il padre fa prigioniero il figlio e gli brucia le cervella.

- E' dei buoni, costui, - dice La Vieuville.

- Un Bruto realista, - riprese Boisberthelot.

- Il che non toglie che è insopportabile essere comandato da un Coquereau, un Jean-Jean, un Moulins, un Focart, un Boujin, un Chouppes!

- Dall'altra parte, mio caro cavaliere, la collera non è meno grande che dalla nostra. Noi siamo pieni di borghesi, loro sono pieni di nobili. Credete forse che i sanculotti siano contenti d'essere comandati dal conte di Canclaux, dal visconte di Miranda, dal visconte di Beauharnais, dal conte di Valenza, dal marchese di Custine e dal duca di Biron?

- Che ginepraio!

- E dal duca di Chartres!

- Figlio di "Egalité". A proposito, quando sarà, re, costui?

- Mai!

- Sale al trono, vi dico. E' portato in su dai suoi delitti.

- E ricacciato in giù dai suoi vizi, - disse Boisberthelot.

Ci fu un altro silenzio, poi Boisberthelot riprese:

- Eppure aveva voluto riconciliarsi. Era venuto a vedere il re. C'ero io, a Versailles, quando gli hanno sputato sulla schiena.

- Dall'alto dello scalone?

- Sì.

- Hanno fatto bene.

- Lo chiamavamo Borbone il barbone (1).

- E' calvo, pieno di pustole, regicida, beh!

E La Vieuville soggiunse:

- Ero a Ouersant con lui, io.

- Sul "Santo Spirito"?

- Sì.

- Se avesse obbedito al segnale di stringere il vento che gli faceva l'ammiraglio d'Orvilliers, avrebbe impedito agli inglesi di passare.

- Certo.

- E' vero che si sia nascosto in fondo alla stiva?

- No. Ma bisogna dirlo lo stesso.

E La Vieuville sbottò in una risata.

Boisberthelot riprese.

- Ce ne sono di imbecilli! Quel Boulainvillier di cui parlavate or ora, per esempio, La Vieuville. L'ho conosciuto da vicino, io. In principio, i contadini erano armati di picche, orbene, non s'era forse fissato in mente di farne dei picchieri? Voleva insegnar loro l'esercizio della picca per traverso e della picca bassa, con la punta in avanti. Aveva sognato di trasformare quei selvaggi in soldati regolari. Pretendeva insegnar loro a smussare gli angoli di un quadrato e a formare dei battaglioni vuoti al centro. Farfugliava loro la vecchia parlata militare. Per dire un caposquadra, diceva un "cap d'escadre", che era l'appellativo dei caporali sotto Luigi Quattordicesimo. Si ostinava, con tutti quei bracconieri, a mettere in piedi un reggimento. Aveva compagnie regolari, i cui sergenti si schieravano in cerchio tutte le sere per ricevere la parola e la controparola d'ordine dal sergente della prima compagnia, che la bisbigliava all'orecchio del sergente della seconda, il quale la diceva al suo vicino, che la trasmetteva al successivo, e così di orecchia in orecchia, fino all'ultimo. Espulse dai ranghi un ufficiale che non si era alzato a testa scoperta per ricevere la parola d'ordine dalla bocca del sergente. Immaginatevi come finì tutta quella faccenda. Quell'allocco non capiva che i contadini debbono essere trattati da contadini, e che non si fanno uomini di caserma con uomini dei boschi. Sì, quel Boulainvillier l'ho conosciuto, io.

Fecero alcuni passi, ciascuno immerso nei propri pensieri.

Poi la conversazione proseguì:

- A proposito: si ha avuto la conferma dell'uccisione di Dampierre?

- Sì, comandante.

- Davanti a Condé?

- Al campo di Pamars. Da una palla di cannone.

Boisberthelot trasse un sospiro. - Il conte di Dampierre! Un altro dei nostri, che era con loro.

- Buon viaggio! - disse La Vieuville.

- E dove sono le Madame (2)?

- A Trieste.

- Sempre?

- Sempre.

E La Vieuville esclamò:

- Ah, quella repubblica! Quante rovine per così poco! E pensare che questa rivoluzione è scoppiata per pochi milioni di deficit!

- Bisogna diffidare dei piccoli punti di partenza! - disse Boisberthelot.

- Va tutto male, - riprese La Vieuville.

- Sì. La Rouarie è morto, Du Dresnay è idiota e che tristi armeggioni sono tutti quei vescovi! quei Coucy, vescovo della Rochelle, quel Beaupoil Saint-Aulaire, vescovo di Poitiers, quel Mercy, vescovo di Luçon, amante della signora di L'Eschasserie!...

- Che si chiama Servanteau, lo sapete, comandante? L'Eschasserie è il nome d'una terra.

- E quel falso vescovo di Agra, che è curato di non so dove?

- Di Dol. Si chiama Guillot di Folleville. E' coraggioso, del resto, si batte.

- Dei preti, quando occorrerebbero dei soldati! Vescovi che non sono vescovi! generali che non sono generali.

La Vieuville interruppe Boisberthelot.

- Avete in cabina il "Monitore", comandante?

- Sì.

- Che opere si danno a Parigi, in questo momento?

- "Adele e Paolina" e "La caverna".

- Quanto vorrei assistervi!

- Vi assisterete. Fra un mese saremo a Parigi.

Boisberthelot meditò un momento, e soggiunse:

- Al più tardi. Così ha detto il signor Windham a milord Hood.

- Non è vero, allora, comandante, che tutto vada così male!

- Tutto andrebbe bene, perbacco, a condizione che la guerra in Bretagna fosse condotta a dovere.

La Vieuville scrolla la testa.

- Sbarcheremo la fanteria di marina, comandante?

- Sì, se la costa ci è favorevole; no, se ci è ostile. Talvolta la guerra deve sfondare gli usci, talaltra deve sgattaiolare dentro. La guerra civile bisogna sempre che abbia in tasca un grimaldello. Si farà il possibile. Quello che conta è il capo.

E Boisberthelot, pensoso, aggiunse:

- Che ne pensereste del cavaliere di Dieuzie, voi, La Vieuville?

- Del giovane?

- Sì, - Per comandare?

- Sì.

- Che è anche lui un ufficiale da campo aperto e da battaglia manovrata. La boscaglia non conosce che il contadino.

- Rassegnatevi, allora, al generale Stofflet e al generale Cathelineau.

La Vieuville pensò un momento, poi disse:

- Ci vorrebbe un principe, un principe di Francia, un principe del sangue. Un vero principe.

- Perché? Chi dice principe...

- Dice pusillanime. Lo so, comandante; ma è per l'effetto che farebbe agli occhi sbalorditi degli insorti vandeani.

- Non se la sentono di venire, i principi, mio caro cavaliere.

- Se ne farà a meno.

Boisberthelot fece quel gesto incosciente, che consiste nel premersi la fronte con la mano, come per strizzarne una idea.

Poi riprese:

- E facciamone la prova, dopo tutto, di questo generale.

- E' un gran gentiluomo.

- Credete che basterà?

- Purché sia dei buoni, - disse La Vieuville.

- Vale a dire feroce, - precisò Boisberthelot.

Il conte e il cavaliere si guardarono.

- Avete detto la parola esatta, voi, signor di Boisberthelot. Feroce!

Sì, proprio di questo abbiamo bisogno. E' la guerra senza misericordia, questa, l'ora dei sanguinari. I regicidi hanno mozzato la testa a Luigi Sedicesimo, noi strapperemo gambe e braccia ai regicidi. Sì, il generale che ci vuole è il generale Inesorabile.

Nell'Angiò e nell'alto Poitou, i capi fanno i magnanimi, diguazzano nella generosità, e tutto va a rovescio. Nel Marais e nel paese di Retz i capi sono atroci, e là tutto procede a dovere. Charrette tiene testa a Parrein solo e in quanto è feroce. Iena contro iena.

Boisberthelot non ebbe il tempo di rispondere a La Vieuville. La Vieuville ebbe la parola bruscamente mozzata in bocca da un grido disperato, e nel medesimo istante si udì un rumore che non assomigliava a nessuno dei rumori che si è soliti sentire. Grido e rumori venivano dall'interno della nave.

Il capitano e il luogotenente si precipitarono verso il frapponte, ma non vi poterono entrare. Tutti i cannonieri ne risalivano smarriti.

Era accaduta una cosa spaventevole.

 

 

 

NOTE:

 

  1. Letteralmente, in francese, "Bourbon le Bourbeux" (Borbone il Fangoso).
  2. "Madama", titolo riservato alle figlie del re, del delfino e alla moglie del fratello del re.

 

 

 

4.

"TORMENTUM BELLI"

[Tormento di guerra: N.d.T]

 

Una delle carronate della batteria, un pezzo da ventiquattro, si era staccato.

E' il più terribile di tutti gli avvenimenti che possano verificarsi in mare, questo, forse. Nulla di più terribile può accadere a una nave da guerra al largo, in piena navigazione.

Un cannone che spezza i suoi ormeggi diventa di punto in bianco non si sa che bestia sovrannaturale. E' una macchina che si trasforma in un mostro. Quella massa corre sulle sue ruote, ha movimenti da palla di biliardo, si piega col rullio, si tuffa col beccheggio, va, viene, si ferma, sembra meditare, riprende la corsa, attraversa come una freccia la nave da un capo all'altro, compie delle giravolte, si sottrae, fugge, s'impenna, urta, sgretola, uccide stermina. E' un ariete che batte la muraglia a suo capriccio, con l'aggravante che l'ariete è di ferro e la muraglia di legno. E' la massa in libertà della materia, si direbbe che questo perpetuo schiavo si vendichi; sembra che la cattiveria insita in ciò che noi chiamiamo gli oggetti inerti esca ed esploda a un tratto; dà l'impressione d'un qualche cosa che perda la pazienza e si prenda una strana, oscura rivincita; nulla di più inesorabile della collera dell'inanimato. Quel forsennato blocco ha gli sbalzi della pantera, la pesantezza dell'elefante, l'agilità del sorcio, l'ostinatezza dell'ascia, l'inatteso dell'onda, i guizzi del lampo, la sordità del sepolcro. Pesa diecimila chili e rimbalza come una palla da gioco. Compie giravolte bruscamente interrotte da angoli retti. Che fare? Come venirne a capo? Una tempesta cessa, un ciclone passa, un vento cade, un albero spezzato si sostituisce, una falla si tura, un incendio si spegne: ma come uscirne con quell'enorme bruto di bronzo? Come regolarsi con esso? Un alano, potete persuaderlo, potete sbalordire un toro, affascinare un boa, spaventare una tigre, intenerire un leone; ma non c'è nulla da fare con questo mostro d'un cannone sguinzagliato. Ucciderlo non potete, è morto. E al tempo stesso vive. Vive d'una vita sinistra, che gli viene dall'infinito. Ha sotto di sé un tavolato, che lo dondola. E' mosso dalla nave, che è mossa dal mare, che è mosso dal vento. Questo sterminatore è un trastullo. E' in balia della nave, delle onde, dei venti: da ciò la sua spaventevole vitalità. Che fare a quell'ingranaggio? Come impastoiare quel mostruoso meccanismo del naufragio? Come prevedere il suo andare e venire, i suoi ritorni, i suoi impuntamenti, i suoi cozzi? Ognuno dei suoi urti contro le murate può sfondare la nave.

Come indovinare quegli spaventevoli serpeggiamenti? Si ha a che fare con un proiettile che muta opinione, che sembra aver delle idee, e cambia direzione ogni momento. Come fermare ciò che è giocoforza evitare? L'orribile cannone si dimena, procede, indietreggia, colpisce a destra, colpisce a sinistra, sfugge, passa, sconcerta l'attesa, frantuma l'ostacolo, schiaccia gli uomini al pari di mosche. Tutto il terrore della situazione sta nella mobilità del tavolato. Come combattere un piano inclinato pieno di capricci? La nave ha, per così dire, prigioniera nel ventre la folgore, che cerca di sfuggire:

qualcosa di simile a un tuono che rotoli sopra un terremoto.

In un baleno l'intero equipaggio fu in piedi. La colpa era del capo pezzo, che aveva trascurato di stringere a dovere la madrevite della catena di arresto e mal imbragato le quattro ruote della carronata:

Quella negligenza, consentendo qualche spostamento al telaio dell'affusto, smuoveva i cunei d'arresto, e aveva finito per mandar fuori di posto l'imbragatura. Il canapo si era spezzato, di modo che il cannone non era più legato all'affusto. L'imbragatura fissa, che impedisce il rinculo, non era ancora in uso a quei tempi. Venuta, pertanto, una violenta ondata a urtare contro il portello, la carronata mal imbrigliata aveva indietreggiato, e, spezzata la catena, si era messa formidabilmente a scorrazzare nel frapponte.

Per farsi un'idea di quello strano slittamento, ci si immagini una goccia d'acqua che corra sopra un vetro.

Nel momento in cui si spezzò la catena d'arresto, i cannonieri erano nella batteria, quali in gruppi, quali sparsi, intenti a quei lavori di preparazione che i marinai usano compiere in previsione d'una chiamata al combattimento. La carronata, lanciata dal beccheggio, s'aprì un solco in quel mucchio d'uomini e ne schiacciò di primo impeto quattro; ripresa, poi, e rilanciata dal rullio, tagliò in due un quinto disgraziato e andò a urtare alla murata di babordo un pezzo della batteria, smontandolo. Da ciò il grido di disperazione che s'era udito. Tutti gli uomini si ammassarono sulla scala. In un batter d'occhio la batteria fu deserta.

L'enorme pezzo era stato lasciato solo. Era abbandonato a se stesso.

Era padrone di sé e padrone della nave. Poteva farne quel che volesse.

Tutto quell'equipaggio d'uomini, uso a ridere nel pieno della battaglia, tremava. Impossibile dire lo spavento.

Il capitano Boisberthelot e il luogotenente La Vieuville, che pure erano due intrepidi, si erano fermati in cima alla scala, e muti, pallidi, esitanti, guardavano nel frapponte. Qualcuno li scostò del gomito e discese.

Era il loro passeggero, il "contadino", l'uomo di cui avevano parlato un momento prima.

Giunto in fondo alla scala, costui si fermò.

 

 

 

5.

"VIS ET VIR"

[La forza e l'uomo: N.d.T.]

 

Il cannone andava e veniva nel frapponte. Si sarebbe detto il vivente carro dell'Apocalisse. La lanterna di bordo, che dondolava nella batteria, sotto la ruota di prora, aggiungeva a quella visione un vertiginoso avvicendarsi d'ombra e di luce. La forma del cannone si cancellava nella violenza della sua corsa, e il cannone stesso appariva ora nero nella luce, ora riverberante, nell'oscurità, vaghi chiarori.

E continuava nella demolizione della nave. Già aveva fracassato quattro altri pezzi e aperto due spaccature nella murata, fortunatamente al di sopra della linea di immersione, ma dalle quali, se fosse sopraggiunta una burrasca, l'acqua sarebbe entrata di sicuro.

Si scagliava freneticamente sull'ossatura; le porche, robustissime, resistevano, in quanto i legni incurvati hanno una solidità tutta particolare, ma se ne sentivano gli scricchiolii sotto quella smisurata mazza, che batteva, con una specie di inaudita ubiquità, da tutte le parti a un tempo. Una pallottolina di piombo scossa in una bottiglia, non dà più rapide e più insensate percosse. Le quattro ruote passavano e ripassavano sugli uomini uccisi, li tagliavano, li smembravano, li sminuzzavano, e dei cinque cadaveri avevano fatto venti tronconi, che rotolavano da un capo all'altro della batteria. Le teste morte sembravano gridare; rivoli di sangue serpeggiavano sul tavolato secondo le oscillazioni impresse dal rullio. Il fasciame, avariato in più punti, cominciava a sconnettersi. Tutta la nave era piena d'un mostruoso fragore.

Il capitano non aveva tardato a riprendere il suo sangue freddo, e, dietro suo ordine, era stato gettato nel frapponte, dal boccaporto, quanto poteva essere atto a smorzare o a intralciare la sfrenata corsa del cannone; materassi, amache, vele di ricambio, rotoli di gomene, sacchi dell'equipaggio, nonché le balle di falsi assegnati di cui la corvetta aveva un intero carico: infamia inglese considerata come un atto di buona guerra.

Che potevano fare, però, quei cenci, dal momento che nessuno osava discendere per disporli come sarebbe bisognato? In pochi minuti fu tutto sminuzzato.

C'era giusto quel tanto di mare mosso che occorreva perché l'accidente fosse completo il più possibile. Era da desiderarsi una tempesta; poteva darsi che essa avesse a ribaltare il cannone, del quale, una volta che fosse stato con le quattro ruote all'aria, non sarebbe stato difficile impadronirsi.

La rovina, frattanto, andava aumentando. C'erano scorticature, fratture, persino agli alberi, che, incassati nella struttura della chiglia, attraversano i ponti della nave, fungendovi come da grossi pilastri rotondi. Sotto il convulso percuotere del cannone, l'albero di mezzana si era incrinato; lo stesso albero maestro era incrinato.

La batteria si sgangherava. Dieci cannoni su trenta erano fuori di combattimento; le brecce nei fianchi si moltiplicavano, e la corvetta cominciava a imbarcare acqua.

Il vecchio passeggero disceso nel frapponte pareva un uomo di sasso in fondo alla scaletta. Teneva fisso su quella devastazione un occhio severo. Non faceva un movimento. Pareva impossibile fare un passo nella batteria. Ogni movimento della carronata in libertà pareva dovesse provocare lo sfondamento della nave. Qualche momento ancora, e il naufragio sarebbe stato inevitabile.

O morire o mettere fine alla devastazione. Bisognava prendere una decisione, ma quale?

Che combattente, quella carronata!

Si trattava di immobilizzare quella spaventevole pazza.

Si trattava di agguantare quel lampo.

Si trattava di atterrare quel fulmine.

Boisberthelot disse a La Vieuville:

- Credete in Dio, voi, cavaliere?

La Vieuville rispose:

- Sì. No. Qualche volta.

- Durante la tempesta?

- Sì. E nei momenti come questo.

- Infatti, soltanto Dio ce ne può tirar fuori, - disse Boisberthelot.

Tutti tacevano, lasciando che la carronata provocasse il suo orribile fracasso.

Dal di fuori, l'ondata, battendo la nave, rispondeva agli urti del cannone coi colpi di mare. Si sarebbe detto l'alternarsi di due martelli.

A un tratto, in quella specie di inaccessibile circo in cui balzava il cannone sfuggito, si vide apparire un uomo con una sbarra di ferro in pugno. Era l'autore della catastrofe, il capo pezzo colpevole di negligenza e cagione del disastro, il comandante della carronata.

Avendo fatto il male, voleva rimediarvi. Aveva impugnato con una mano una sbarra di manovra, con l'altra una trozza a nodo scorsoio, ed era saltato, attraverso il boccaporto, nel frapponte.

Cominciò allora, spettacolo titanico, una cosa selvaggia: il combattimento del cannone contro il cannoniere; la battaglia della materia e dell'intelligenza; il duello della cosa contro l'uomo.

L'uomo si era appostato in un angolo, e, sbarra in un pugno, corda nell'altro, addossato a una porca, piantato sopra i garretti che parevano pilastri d'acciaio, livido, calmo, tragico, come radicato nell'impiantito, aspettava.

Aspettava che il cannone gli passasse vicino.

Il cannoniere conosceva il suo pezzo, e gli pareva che il pezzo dovesse conoscere lui. Vivevano insieme da tempo. Quante volte l'uomo aveva cacciato al pezzo la mano nella gola! Era il suo mostro familiare. Cominciò a parlargli come al proprio cane. - Vieni! - gli diceva. Forse gli voleva bene.

Pareva desiderare che il pezzo andasse da lui.

Ma andare da lui, era andare su di lui. E allora era perduto. Come evitare d'essere schiacciato? Il problema era quello. Tutti guardavano, atterriti. Non un petto respirava liberamente, eccezion fatta, forse, per il petto del vecchio solo nel frapponte coi due contendenti, sinistro testimonio.

Anche costui correva il rischio d'essere sfracellato dal pezzo, né si muoveva.

Sotto di loro, la cieca onda del mare dirigeva il combattimento.

Nel momento in cui, accettando quello spaventoso corpo a corpo, il cannoniere era andato a provocare il cannone, volle il caso che l'ondeggiamento marino mantenesse per un istante immobile e come stupefatta la carronata. - Vieni, dunque! - le diceva l'uomo, ed essa pareva ascoltare.

Subito la carronata balzò su di lui. L'uomo schivò il colpo. Fu la lotta. Inaudita. La fralezza che si azzuffava con l'invulnerabilità.

Il bestiario di carne che assaliva la belva di bronzo. Da una parte una forza, un'anima dall'altra.

Tutto accadeva in una penombra. Era come l'indistinta visione di un prodigio.

Cosa strana, un'anima! e si sarebbe detto che il cannone ne avesse una anche lui; ma un'anima di odio e di rabbia. Quella cecità pareva avere occhi. Il mostro aveva l'aria di spiare l'uomo. C'era, o almeno si sarebbe potuto credere che ci fosse, dell'astuzia in quella massa.

Sceglieva anch'essa il suo momento. Era chissà quale gigantesco insetto di ferro, che aveva, o pareva avesse, la volontà di un dèmone.

A tratti, quella colossale cavalletta cozzava contro il basso soffitto della batteria, poi ricadeva sulle sue quattro ruote come una tigre sulle sue quattro zampe, e si rimetteva a correre addosso all'uomo.

Flessibile, agile, accorto, l'uomo si torceva come un colubro sotto tutti quei movimenti da folgore. Egli evitava i cozzi, ma i colpi ai quali si sottraeva ricadevano sulla nave e continuavano a demolirla.

Alla carronata era rimasto attaccato un troncone di catena, che, chissà come, si era impigliata nella vite del bottone di culatta. Una estremità di quella catena era fissata all'affusto. L'altra, libera, roteava perdutamente attorno al cannone, di cui esagerava tutti i sobbalzi. La vite la teneva come una mano chiusa, e quella catena, aggiungendo ai colpi di ariete i colpi di scudiscio, turbinava intorno al cannone in modo terribile, frustino di ferro in un pugno di bronzo.

Rendeva più complessa la lotta, quella catena.

Pure l'uomo lottava. Di quando in quando, anzi, era l'uomo che attaccava il cannone. Strisciava lungo la murata, con sbarra e corda alla mano; il cannone pareva capire, e, quasi subodorasse un tranello, fuggiva. Formidabile, l'uomo lo inseguiva.

Cose simili non possono andar per le lunghe. Parve che a un tratto il cannone si dicesse: "Orsù, bisogna farla finita!"; e si fermò. Si sentì che si avvicinava lo scioglimento. Il cannone, in attesa, pareva avesse o aveva, giacché era per tutti un essere, una feroce premeditazione. D'un tratto, si precipitò sul cannoniere. Il cannoniere si fece da un lato, lo lasciò passare e, ridendo gli gridò:

- Da capo! - Il cannone, come furibondo mandò in pezzi una carronata di babordo; poi, riafferrato dall'invisibile fionda che lo teneva, si slanciò, a tribordo, sull'uomo, che gli sfuggì di nuovo. Tre carronate si sfasciarono sotto l'urto del cannone; allora, come accecato, come non sapesse più che si facesse, voltò le spalle all'uomo, rotolò da poppa a prora, sgangherò la ruota di prora e andò ad aprire una breccia in quel fasciame. L'uomo si era rifugiato ai piedi della scaletta, a pochi passi dal vecchio testimonio. Teneva in resta la sbarra di manovra. Il cannone parve lo scorgesse, e, senza darsi la pena di voltarsi, indietreggiò sull'uomo con la prontezza d'un colpo di scure. L'uomo, con le spalle alla murata, era perduto. Tutto l'equipaggio manda un grido.

Ma il vecchio passeggero, fino allora immobile, si era slanciato, a sua volta, più rapido di quelle selvagge rapidità. Aveva afferrato una balla di falsi assegnati e, a rischio d'essere schiacciato, era riuscito a gettarla tra le ruote della carronata. Quel movimento decisivo e pericoloso non sarebbe stato eseguito con esattezza e precisione maggiori da un uomo rotto a tutti gli esercizi descritti nel libro di Durosel sulla "Manovra del cannone di marina".

La balla funzionò come un cuneo. Un ciottolo arresta un masso, un ramo fa deviare una valanga. La carronata inciampò. Il cannoniere, a sua volta, afferrando a volo quella temibile occasione, cacciò la sua sbarra di ferro tra i raggi d'una delle ruote posteriori. Il cannone si fermò.

Tendeva a inchinarsi da una parte. Con un movimento di leva impresso alla sbarra, l'uomo lo fece vacillare del tutto. La pesante massa si rovesciò col frastuono di una campana che precipiti e l'uomo, gettandosi innanzi a corpo morto, grondante di sudore, passò il nodo scorsoio della trozza al collo di bronzo del mostro atterrato.

Era finita. L'uomo aveva vinto. La formica aveva avuto ragione del mastodonte. Il pigmeo aveva fatto prigioniero il tuono.

Soldati e marinai batterono le mani.

Tutto l'equipaggio si precipitò di sotto con cavi e catene, e il cannone fu ammarrato in un momento.

Il cannoniere salutò il passeggero.

- Signore, - gli disse; - m'avete salvato la vita.

Il vecchio aveva ripreso il suo atteggiamento impassibile e non rispose.

 

 

 

6.

I DUE PIATTI DELLA BILANCIA

 

L'uomo aveva vinto; ma si poteva dire che aveva vinto anche il cannone. L'immediato naufragio era scongiurato, ma non per questo la corvetta era salva. Lo sfasciamento della nave pareva irrimediabile.

Il fasciame mostrava cinque brecce, di cui una grandissima a prua.

Venti carronate su trenta giacevano distrutte nel loro quadrato. Anche la carronata ripresa e rimessa alla catena era fuori servizio; la vite del bottone di culatta era forzata, e impossibile, pertanto, il puntamento. La batteria era ridotta a nove pezzi. La stiva imbarcava acqua. Era necessario correre immediatamente alle avarie e azionare le pompe.

Il frapponte, ora che si poteva guardarlo, era spaventevole da vedersi. L'interno della gabbia d'un elefante infuriato, non può essere sconciato peggio.

Per quanto grande fosse per la corvetta la necessità di non essere scorta, c'era una necessità ancora più imperiosa: il salvataggio immediato. Era stato necessario rischiarare il ponte con alcuni fanali, disposti qua e là sulla murata.

Frattanto per tutto il tempo che era durata quella tragica diversione, essendo l'equipaggio tutto assorto in quell'interrogativo di vita o di morte, nessuno si era curato di sapere quanto accadeva fuori della corvetta. La nebbia si era infittita; il tempo era mutato; il vento aveva fatto della nave quanto aveva voluto; erano fuori rotta, in vista di Jersey e di Guernesey, più a sud di quanto non avrebbero dovuto essere, e con un mare, per giunta, sbrigliato anzi che no.

Grossi cavalloni venivano a baciare, temibili baci, le piaghe spalancate della corvetta. Il dondolio del mare era minaccioso. La brezza diventava vento. Si profilava una burrasca, una tempesta, forse. A quattro ondate di distanza, già non si scorgeva più nulla.

Mentre gli uomini d'equipaggio riparavano alla lesta e sommariamente le devastazioni del frapponte, accecavano le falle e rimettevano in batteria i pezzi sfuggiti al disastro, il vecchio passeggero era risalito sul ponte.

Si era appoggiato all'albero maestro. Non aveva punto badato a un movimento che si era verificato nella corvetta. Il cavaliere di La Vieuville aveva fatto disporre in ordine di battaglia, a destra e a sinistra dell'albero maestro, i soldati di fanteria di marina, e, a un colpo di fischietto del mastro d'equipaggio, i marinai intenti alla manovra si erano allineati in piedi sui pennoni.

Il conte di Boisberthelot inoltrò verso il passeggero.

Dietro al capitano camminava un uomo smarrito, anelante, con gli abiti in disordine, ma con aria nondimeno soddisfatta.

Era il cannoniere tanto opportunamente rivelatosi poco prima domatore di mostri, che aveva avuto ragione della carronata.

Il conte fece al vecchio vestito da contadino il saluto militare, e disse:

- Ecco l'uomo, generale.

Il cannoniere stava ritto, con gli occhi bassi, nella posizione regolamentare.

Il conte di Boisberthelot riprese:

- Generale, non pensate voi che in considerazione di ciò che quest'uomo ha fatto ci sia qualche cosa da fare anche per i suoi superiori?

- Lo penso sì, - disse il vecchio.

- Vogliate darne l'ordine, - propose Boisberthelot.

- Tocca a voi darlo. Siete voi il capitano.

- Ma voi siete il generale, - insistette Boisberthelot.

Il vecchio guardò il cannoniere.

- Avvicinati, - gli disse.

Il cannoniere fece un passo.

Il vecchio si voltò dalla parte del conte di Boisberthelot, staccò la croce di San Luigi del capitano e l'annodò al camiciotto del cannoniere.

- Hurrah! - gridarono i marinai.

I soldati di marina presentarono le armi.

E il vecchio passeggero, indicando col dito il cannoniere sbalordito, soggiunse:

- E adesso quest'uomo sia fucilato.

Lo stupore tenne dietro all'acclamazione.

Allora, in mezzo a un silenzio da tomba, il vecchio alzò la voce.

Disse:

- Questa nave è stata compromessa da una negligenza. Forse in questo momento essa è perduta. Essere in mare, è come essere di fronte al nemico. Una nave che compie una traversata è un esercito che dà battaglia. La tempesta si nasconde, ma non manca mai. Tutto il mare è una imboscata. Pena di morte a ogni errore commesso di fronte al nemico. Di errori riparabili non ce ne sono. Il coraggio deve essere ricompensato, e la negligenza deve essere punita.

Queste parole cadevano una dopo l'altra, lentamente, gravemente, con una specie di inesorabile cadenza, come colpi di accetta sopra una quercia.

E il vecchio, guardando i soldati, aggiunse:

- Eseguite!

L'uomo sul cui camiciotto brillava la croce di San Luigi curvò la testa.

A un cenno del conte di Boisberthelot due marinai scesero nel frapponte e ne tornarono su, recando l'amaca-sudario; il cappellano di bordo, che, da quando erano salpati, era stato in preghiera nel quadrato ufficiali, accompagnava i due marinai. Un sergente fece uscire dalle righe dodici soldati, che dispose in due scaglioni, a sei a sei; il cannoniere, senza dire una parola, si collocò tra i due scaglioni. Il cappellano, crocifisso in pugno, si fece avanti e gli si mise accanto. - Avanti! - ordinò il sergente. Il plotone si diresse a lenti passi verso la prora; i due marinai che portavano il sudario gli tenevano dietro.

Sulla corvetta si stabilì un cupo silenzio. Lontano soffiava un uragano.

Pochi momenti dopo una detonazione deflagrò nelle tenebre, balenò uno sprazzo di luce, poi tutto tacque, e si udì il tonfo di un corpo che cade in acqua.

Il vecchio passeggero, sempre addossato all'albero maestro, aveva incrociato le braccia, e meditava.

Boisberthelot, puntando verso di lui l'indice della mano sinistra, disse a bassa voce a La Vieuville:

- La Vandea ha una testa

 

 

 

7.

CHI METTE ALLA VELA METTE AL LOTTO

 

Ma che ne sarebbe stato della corvetta?

Le nubi, che per tutta la notte si erano confuse con i cavalloni, avevano finito con l'abbassarsi a tal punto, che non c'era più orizzonte e tutto il mare era come sotto un mantello. Non c'era altro che nebbia. Congiuntura sempre pericolosa, anche per una nave in piena efficienza. Alla nebbia si aggiungevano i cavalloni.

Tempo, non se ne era perso affatto. La corvetta era stata alleggerita gettando in mare tutto ciò che era stato possibile spazzar via del disastro causato dalla carronata: i cannoni smontati, gli affusti stritolati, le ossature contorte e schiodate, le strutture di legno o di ferro fracassate. Erano stati aperti i portelli, e cadaveri e resti umani avvolti in grosse tele incatramate erano stati fatti scivolare su delle assi dentro le onde.

Il mare cominciava ad essere insostenibile. Non che la tempesta si fosse fatta proprio imminente; sembrava anzi di udir decrescere l'uragano che rumoreggiava dietro l'orizzonte e la raffica si spostava verso il nord; ma i cavalloni si mantenevano altissimi, indizio d'un cattivo fondo del mare. E la corvetta, ammalata come era, resisteva poco alle scosse; le grandi ondate potevano riuscirle funeste.

Gacquoil, al timone, era pensoso.

Fare buon viso a cattiva sorte è un'abitudine, per chi comanda in mare.

La Vieuville, che era, nei disastri, un temperamento piuttosto allegro, si avvicinò a Gacquoil.

- E allora, pilota, - disse; - l'uragano fa fiasco. La voglia di starnutire gli è rientrata. Ce la caveremo. Avremo vento, ecco tutto.

Serio, Gacquoil rispose:

- Chi ha vento, ha onde.

Né ridente né triste: così è il marinaio. La risposta aveva un senso inquietante. Per una nave che imbarca acqua, avere onde significa riempirsi in breve. Gacquoil aveva sottolineato questo pronostico con un vago aggrottar di sopracciglia. Forse, dopo la catastrofe del cannone e del cannoniere, La Vieuville aveva avuto un po' troppo fretta di dir parole gioviali e leggere. Ci sono cose, che, quando si è al largo, portano disgrazia. Il mare è segreto; non si sa mai che cosa abbia. Bisogna stare in guardia.

La Vieuville sentì il bisogno di ridiventare grave.

- Dove siamo, pilota? - domandò.

Il pilota rispose:

- Siamo dove Dio vuole.

Un pilota è un padrone. Si deve sempre lasciarlo fare, e spesso si deve lasciarlo dire. Quel tipo d'uomini, del resto, non dice un gran che. La Vieuville si allontanò.

Aveva fatto una domanda al pilota; gli rispose l'orizzonte.

Il mare si schiarì di colpo.

Le nebbie che radevano le onde si squarciarono; tutto l'oscuro sconvolgimento delle onde si spiegò a perdita di vista in una mezza luce crepuscolare: ed ecco che cosa si vide.

Il cielo aveva come un coperchio di nubi; ma le nubi non toccavano più il mare; a est compariva un chiarore, che era lo spuntare del giorno; a ovest illividiva un altro chiarore, che era il tramonto della luna.

Quei due chiarori formavano all'orizzonte, uno di fronte all'altro, due sottili strisce di luce pallida tra il mare cupo e il cielo tenebroso.

Su quelle due luminosità si disegnavano, diritte e immobili, nere sagome.

A ponente, contro il cielo rischiarato dalla luna, spiccavano tre alte rocce, ritte come celtici "menhir".

A levante, sul pallido orizzonte del mattino, si drizzavano otto vele disposte in ordine e spaziate fra loro in modo temibile.

Le tre rocce erano uno scoglio; le otto vele erano una squadra.

Avevano a tergo i Minquiers, una roccia di pessima reputazione, e di fronte la squadra francese. A ovest l'abisso, a est la carneficina; erano tra un naufragio e una battaglia.

Per far fronte allo scoglio, la corvetta disponeva di uno scafo forato, di una attrezzatura sgangherata, di un'alberatura scossa alla radice; per fronteggiare la battaglia disponeva di un'artiglieria di cui ventun pezzi su trenta erano smontati, e i migliori cannonieri della quale erano morti.

L'alba trapelava appena appena; avevano ancora davanti un po' di notte. Quella notte poteva anzi durare ancora abbastanza a lungo, essendo prodotta specialmente dalle nubi, che erano alte, dense e profonde, e avevano il solido aspetto di una volta.

Il vento, che aveva finito con lo spazzar via le nebbie più basse, spingeva la corvetta sui Minquiers.

Eccessivamente stanca e malconcia com'era, la nave non obbediva quasi più al timone; rullava più che non navigasse, e, schiaffeggiata dall'onda, non le resisteva affatto.

I Minquiers, tragico scoglio, erano allora ancora più aspri d'oggigiorno. Parecchie torri di quella cittadella dell'abisso sono state spianate dall'incessante sbriciolamento provocato dal mare; la configurazione degli scogli si modifica; non per nulla le onde si chiamano "lame" in francese; ogni marea è un colpo di sega. Toccare i Minquiers, a quel tempo, significava perire.

Quanto alla squadra, era quella di Cancale, divenuta poi celebre sotto il comando di quel capitano Duchesne, che Lequinio chiamava "padre Duchène".

La congiuntura era critica. Senza saperlo, la corvetta, durante lo scatenamento della carronata, aveva dirottato, procedendo piuttosto verso Granville che verso Saint-Malo. Quand'anche le fosse stato possibile navigare e spiegar vele, i Minquiers le sbarravano il ritorno verso Jersey e la squadra le impediva di giungere in Francia.

Niente tempesta, del resto; ma, come aveva detto il pilota, l'onda non mancava. Agitandosi su un fondo irto di scogli sotto un vento impetuoso, il mare era selvaggio.

Il mare non dice mai subito che cosa voglia. C'è di tutto nella voragine, anche un po' di cavillo. Si potrebbe quasi dire che il mare segua una procedura; avanza e indietreggia, propone e si disdice, abbozza una burrasca e vi rinuncia, promette l'abisso e non lo mantiene, minaccia il nord e colpisce il sud. La "Claymore" aveva avuto nebbia e temuto la tormenta tutta la notte; ora il mare si era smentito; ma in modo feroce: aveva abbozzato la tempesta e dato corpo allo scoglio. Era sempre, sotto un'altra forma, il naufragio.

Alla rovina sui frangenti, si aggiungeva poi lo sterminio in combattimento. Un nemico completava l'altro.

- Di qui il naufragio, di là la battaglia! - esclamò in una coraggiosa risata La Vieuville; - abbiamo cinquina d'ambo i lati.

8.

9 = 380.

La corvetta non era quasi più che un relitto.

C'era, nel livido chiarore diffuso, nella nerezza delle nubi, nella confusa mobilità dell'orizzonte, nel misterioso aggrottamento delle onde, una solennità sepolcrale. Eccettuato il vento, che sibilava con soffio ostile, tutto taceva. La catastrofe usciva dalla voragine con maestà. Somigliava piuttosto a una apparizione, che a un attacco.

Nulla si muoveva tra le rocce, nulla si muoveva sulle navi. Era un non so qual cupo silenzio. Si aveva a che fare con alcunché di reale? Si sarebbe detto un sogno trascorrente sul mare. Le leggende ne hanno, di tali visioni; la corvetta era, in certo qual modo, tra lo scoglio dèmone e la flotta fantasma.

Il conte di Boisberthelot impartì sottovoce alcuni ordini a La Vieuville, che discese nella batteria; poi il capitano impugnò il cannocchiale e andò a collocarsi a poppa, a fianco del pilota.

Tutto lo sforzo di Gacquoil consisteva nel mantenere la corvetta controvento, ché se fosse stata presa di fianco dal vento e dal mare, si sarebbe inevitabilmente capovolta.

- Dove siamo, pilota? - domandò il capitano.

- Sui Minquiers.

- Da che banda?

- Da quella brutta.

- Che fondo abbiamo?

- Roccia appuntita.

- E' possibile imbozzarsi?

- Morire è sempre possibile, - sentenziò il pilota.

Il capitano puntò il cannocchiale ad ovest ed esaminò i Minquiers; poi lo puntò ad est, e considerò le vele in vista.

Il pilota continuò, come parlando a se stesso:

- Sono i Minquiers. Servono d'appoggiatoio al gabbiano comune quando abbandona l'Olanda, e al gabbiano dal mantello nero.

Il capitano, intanto, aveva contato le vele.

C'erano in realtà otto navi correttamente disposte, che ergevano sull'acqua il loro profilo di guerra. Al centro si scorgeva l'alta mole d'un vascello a tre ponti.

Il capitano interrogò il pilota.

- Conoscete quelle vele?

- Certo, - rispose Gacquoil.

- Che roba è?

- La squadra.

- Di Francia.

- Del diavolo.

Ci fu un silenzio. Il capitano riprese:

- E' tutta là la squadra?

- Non tutta.

Il 2 aprile, infatti, Valazé aveva annunciato alla Convenzione che nella Manica incrociavano dieci fregate e sei vascelli di linea. Quel ricordo si riaffacciò alla mente del capitano.

- Infatti, - convenne, - la squadra è di sedici bastimenti, e qui non ce ne sono che otto.

- Il rimanente, - disse Gacquoil, - si gingilla laggiù avanti e indietro lungo tutta la costa e spia.

Senza smettere di guardare attraverso il cannocchiale, il capitano mormorò:

- Un vascello a tre ponti, due fregate di prima classe, cinque di seconda.

- Ma anch'io, - brontolò Gacquoil, - le ho spiate.

- Buoni bastimenti, - disse il capitano. - Li ho comandati un po' tutti, io...

- Io, - disse il Gacquoil, - li ho veduti da vicino, e non li prendo di sicuro uno per l'altro. Ho i loro connotati nel cervello.

Il capitano passò il cannocchiale al pilota.

- Lo distinguete bene il bastimento d'alto bordo, voi pilota?

- Sì, comandante. E' il vascello "Costa d'Oro".

- Che quelli laggiù hanno sbattezzato, - disse il capitano. - Una volta si chiamava "Stati di Borgogna". Una nave nuova. Centoventotto cannoni.

Si tirò fuori di tasca un taccuino e una matita, e scrisse sul taccuino il numero 128.

Poi proseguì:

- Che vela è la prima a babordo, pilota?

- E' la "Sperimentata".

- Fregata di prima classe. Cinquantadue cannoni. Due mesi fa era in armamento a Brest.

Il capitano segnò sul suo taccuino il numero 52.

- E la seconda a babordo, che vela è, pilota?

- La "Driade".

- Fregata di prima classe. Quaranta cannoni da diciotto. E' stata in India. Ha una bella storia militare.

E scrisse sotto il numero 52 il numero 40. Poi, rialzando la testa:

- A tribordo, adesso.

- Sono tutte fregate di seconda classe, comandante. Cinque.

- Qual è la prima, a partire dal vascello?

- La "Risoluta".

- Trentadue cannoni da diciotto. E la seconda?

- La "Richemont".

- Stessa forza. E dopo?

- L'"Ateo" (1).

- Nome curioso per mettersi in mare. E dopo?

- La "Calipso".

- "E dopo?

- La "Corsara".

- Cinque fregate da trentadue ciascuna.

Il capitano scrisse, sotto ai primi numeri, 160.

- Le riconoscete bene, voi pilota, - disse.

- E voi, - rispose il Gacquoil, - le conoscete bene, comandante.

Riconoscere è qualche cosa, conoscere è meglio.

Il capitano teneva l'occhio fisso sul suo taccuino e addizionava tra i denti.

- Centoventotto, cinquantadue, quaranta, centosessanta.

La Vieuville risaliva in quel mentre sul ponte.

- Cavaliere, - gli gridò il capitano; - siamo di fronte a trecentottanta cannoni.

- Sia! - disse La Vieuville.

- Voi tornate dall'ispezione, La Vieuville; quanti cannoni abbiamo assolutamente in grado di far fuoco?

- Nove.

- Sia! - disse a sua volta Boisberthelot.

Riprese il cannocchiale dalle mani del pilota e tornò a guardare l'orizzonte.

Le otto navi, silenziose e nere, parevano immobili; ma ingrandivano.

Si avvicinavano insensibilmente.

La Vieuville fece il saluto militare.

- Comandante, - disse il La Vieuville, - eccovi il mio rapporto. Io diffidavo di questa corvetta "Claymore"; è sempre seccante essere imbarcato bruscamente su una nave che non vi conosce o che non vi ama.

Nave inglese, traditrice per i francesi. E quella cagna di carronata l'ha dimostrato. Ho compiuto la visita. Buone ancore. Non si tratta di ferro fuso. Sono fucinate con sbarre saldate al maglio. Le cicale delle ancore sono solide. Ottime gomene, di facile manovra e della lunghezza regolamentare: centoventi braccia. Munizioni in abbondanza.

Sei cannonieri morti. Centosettantun colpi da sparare per ogni pezzo.

- Perché non ci sono che nove pezzi, - mormorò il capitano.

Boisberthelot puntò il cannocchiale all'orizzonte. Il lento appressarsi della squadra continuava.

Le carronate hanno questo di buono, che bastano tre uomini per manovrarle; ma presentano un inconveniente: la loro gettata è minore e il loro tiro meno preciso di quello dei cannoni. Bisognava pertanto lasciar giungere la squadra a portata delle carronate.

Il capitano impartì gli ordini a bassa voce. Nella nave si stabilì il silenzio. L'ordine di prepararsi al combattimento non fu suonato, ma fu eseguito ugualmente. La corvetta era fuori di combattimento contro gli uomini non meno che contro i flutti. Fu tratto, da quel relitto d'una nave da guerra, tutto il partito possibile. Furono accumulati vicino alle trozze, sulla passerella, cavi e gherlini di ricambio quanti se ne poterono trovare, onde potere, al bisogno, rafforzare l'alberatura. Fu messa in ordine l'infermeria. Amache e sacchi dei marinai furono, come voleva la moda navale di allora, addossati contro il parapetto; protezione che garantiva contro le pallottole di fucile, ma non contro le palle da cannone. Furono portati i calibratoi, sebbene fosse un po' tardi per verificare i calibri; ma nessuno aveva preveduto tutti quegli incidenti. Ogni marinaio ricevette una giberna e si infilò nella cintura un paio di pistole e un pugnale. Le brande furono piegate, le artiglierie puntate, i moschetti preparati. Asce e uncini d'arrembaggio furono disposti a dovere. I depositi dei cartocci e quelli delle palle furono approntati. La santabarbara fu aperta.

Ogni uomo prese il suo posto. Tutto questo senza che nessuno pronunciasse parola, come nella camera d'un moribondo. Fu una cosa rapida e lugubre.

Poi la corvetta venne imbozzata. Essa aveva sei ancore come una fregata. Vennero gettate tutt'e sei: l'ancora di guardia a prua, l'ancora di tonneggio a poppa, l'ancora di flusso dalla parte verso il largo, l'ancora di corrente dalla parte dei frangenti, l'ancora d'afforco a tribordo, e l'ancora maestra a babordo.

Le nove carronate rimaste vive furono piazzate tutt'e nove in batteria da una sola parte, quella del nemico.

La squadra, non meno silenziosa, aveva anch'essa completata la sua manovra. Gli otto bastimenti formavano ora un semicerchio, di cui i Minquiers costituivano la corda. La "Claymore", circoscritta in quel semicerchio, e impacchettata del resto dalle sue proprie ancore, era addossata allo scoglio, che è quanto dire al naufragio.

Era come una muta intorno a un cinghiale, una muta che non latrava, ma mostrava i denti.

Si sarebbe detto che, tanto da una parte quanto dall'altra, si aspettasse.

I cannonieri della "Claymore" erano ai loro pezzi.

Boisberthelot disse a La Vieuville:

- Ci terrei a cominciare io il fuoco.

- Piacere da civettina, - disse La Vieuville.

 

 

 

NOTE:

  1. "Archivi della marina". Stato della flotta nel marzo 1793 (Nota dell'autore).

 

 

 

9.

QUALCUNO SCAPPA

 

Il passeggero non aveva lasciato il ponte. Impassibile, osservava ogni cosa.

Boisberthelot gli si avvicinò:

- Signore, - disse, - i preparativi sono fatti. Ora siamo aggrappati alla nostra tomba; non ce ne staccheremo. Siamo prigionieri della squadra o dello scoglio. O arrenderci al nemico o affondare nei frangenti: non abbiamo altra scelta. Ci resta una via d'uscita:

morire. Combattere è meglio che naufragare. Per me, preferisco essere mitragliato che annegato; in materia di morte, preferisco il fuoco all'acqua. Il morire, però, è affar nostro signore, non vostro. Voi siete l'uomo scelto dai principi, avete una grande missione da compiere, quella di dirigere la guerra in Vandea. La vostra perdita significherebbe forse la perdita della monarchia; dunque, dovete vivere. L'onore, a noialtri, impone di rimanere qui; a voi impone invece di andarvene. Voi, generale, abbandonerete la nave. Vi darò un uomo e un canotto. Raggiungere la costa con un giro non è impossibile.

Non è ancora giorno. Le onde sono alte, il mare scuro: sfuggirete. Si danno casi in cui fuggire è vincere.

Il vecchio, agitando la testa severa, fece un grave cenno di consenso.

Il conte di Boisberthelot alzò la voce:

- Soldati e marinai! - gridò.

Ogni movimento cessò, e da tutti i punti della nave le facce si voltarono verso il capitano.

Egli proseguì:

- L'uomo che è fra noi rappresenta il re. E' stato affidato a noi; dobbiamo preservarlo. Egli è necessario al trono di Francia; in mancanza di un principe, egli sarà, tale è almeno la nostra speranza, il capo della Vandea. E' un grande uomo di guerra. Doveva approdare in Francia con noi; deve approdarvi senza di noi. Salvare la testa è come salvare tutto quanto.

- Sì! sì! si! - gridarono tutte le voci dell'equipaggio.

Il capitano continuò:

- Sta per correre, anche lui, seri pericoli. Non è facile raggiungere la costa. Bisognerebbe che il canotto fosse grande, per affrontare l'alto mare, e bisogna che sia piccolo perché possa sfuggire alla squadra. Si tratta di andare ad approdare in un punto qualsiasi, che sia sicuro, e piuttosto dalla parte di Fougères che dalla parte di Coutances. Occorre un marinaio in gamba, buon rematore e buon nuotatore, che sia del paese e che conosca i passi. E' ancora abbastanza buio perché il canotto possa allontanarsi dalla corvetta senza essere scorto. Eppoi, sta per esserci del fumo che lo nasconderà del tutto. La sua piccolezza lo aiuterà a cavarsela dai bassifondi. La donnola scappa, là dove la pantera incappa. Per noi non c'è scampo, ma per il canotto sì. Si allontanerà a forza di remi, le navi nemiche non lo scorgeranno; nel frattempo, del resto, noi, qui, li faremo divertire. E' detto?

- Sì! sì! sì! - gridò l'equipaggio.

- Non c'è un minuto da perdere, - riprese il capitano. - C'è un uomo di buona volontà?

Nel buio, un marinaio uscì dalle file, e disse:

- Io

 

 

 

10.

SCAPPA PROPRIO?

 

Pochi minuti dopo, uno di quei piccoli canotti chiamati iole, particolarmente adibiti al servizio dei comandanti, si staccava dalla nave. In quel canotto vi erano due uomini, il vecchio passeggero, a poppa, e il marinaio "di buona volontà" a prua. La notte era ancora oscurissima. Il marinaio, in conformità alle indicazioni ricevute dal capitano, remava vigorosamente in direzione dei Minquiers. Non c'era alcun'altra uscita possibile, del resto.

In fondo al canotto erano state gettate alcune provviste: un sacco di biscotti, una lombata di bue affumicato e un barile d'acqua.

Nel momento in cui la iole aveva preso il mare, La Vieuville, beffardo in cospetto dell'abisso, si era chinato al di sopra della ruota di poppa della corvetta, e, ridacchiando, aveva rivolto al canotto questo saluto:

- Buono per scappare, ottimo per affogarsi.

- Signore, - disse il pilota; - smettiamola di ridere.

Lo scostamento fu subito effettuato e in breve tra la corvetta e il canotto ci fu una bella distanza. Il vento e l'onda secondavano il rematore, e la piccola imbarcazione fuggiva rapidamente, ondeggiando nel crepuscolo e nascosta dalle grandi pieghe delle onde.

Regnava sul mare non si sapeva qual cupa attesa.

D'un tratto, in quel vasto e tumultuoso silenzio dell'oceano si alzò una voce, che, ingrossata dal portavoce come dalla maschera di bronzo dell'antica tragedia, pareva quasi sovrumana.

Era il capitano Boisberthelot che prendeva la parola.

- Marinai del re, - egli gridò, - inchiodate la bandiera bianca all'albero maestro. Tra poco vedremo spuntare il nostro ultimo sole.

E un colpo di cannone partì dalla corvetta.

- Viva il re! - gridò l'equipaggio.

Si udì allora, in fondo in fondo all'orizzonte, un altro grido immenso, lontano, confuso e nondimeno distinto:

- Viva la repubblica!

E un rombo simile a quello di trecento fulmini deflagrò nelle profondità dell'oceano.

La battaglia incominciava.

Il mare si coprì di fumo e di fuoco.

I getti di schiuma sollevati dalle palle che cadevano in acqua picchiettarono le onde da ogni parte.

La "Claymore" incominciò a sputare colpi sulle otto navi; al tempo stesso, l'intera squadra, raggruppata a mezza luna intorno alla "Claymore", faceva fuoco con tutte le sue batterie. L'orizzonte s'incendiò. Si sarebbe detto un vulcano sorgente dal mare. Il vento torceva quella immensa porpora della battaglia, in cui le navi apparivano e scomparivano come spettri. In primo piano, il nero scheletro della corvetta si disegnava su quello sfondo rosseggiante.

In vetta all'albero maestro si distingueva la bandiera dai fiordalisi.

I due uomini che erano nel canotto tacevano.

Il bassofondo triangolare dei Minquiers, specie di trinacria sottomarina, è più vasto dell'intera isola di Jersey. Il mare lo copre, e ha per punto culminante una piattaforma che neppure le più alte maree riescono a sommergere e dal quale si staccano verso nord- est sei possenti rupi disposte in linea retta, che fanno l'effetto di un grande muraglione crollato qua e là. Lo stretto tra la piattaforma e i sei scogli non può essere praticato che da barche di poco pescaggio. Di là da quello stretto si trova il largo.

Il marinaio che si era assunto di portare in salvo il canotto cacciò l'imbarcazione nello stretto. Metteva in tal modo i Minquiers tra la battaglia e il canotto. Nello stretto canale governò abilmente in modo da evitare i frangenti sia di babordo che di tribordo. Le rupi, adesso, nascondevano la battaglia. Il bagliore dell'orizzonte e il furibondo fragore del cannoneggiamento cominciavano adesso a decrescere, per via della distanza che andava aumentando; dal susseguirsi delle detonazioni, però, si poteva capire che la corvetta teneva duro e che intendeva consumare fino all'ultima le sue centosettantuno bordate.

Il canotto non tardò a trovarsi in acqua libera, fuori dello scoglio, fuori della battaglia, fuori della portata dei proiettili.

A poco a poco il profilo del mare si andava facendo meno cupo, i luccichii, bruscamente sommersi da chiazze nere, si allargavano, le schiume complicate si frangevano in getti di luce; bianchi riflessi ondeggiavano sulla cresta delle onde. Spuntò il giorno.

Il canotto era al sicuro per quanto riguardava il nemico, ma il più difficile rimaneva ancora da fare. Si era messo in salvo dalla mitraglia, ma non dal naufragio. Era in alto mare, impercettibile guscio, senza vela, senz'albero, senza bussola, avendo per unica risorsa il remo, di fronte all'oceano e all'uragano, atomo in balìa dei colossi.

Allora, in quella immensità, in quella solitudine, alzando la faccia illividita dal mattino, l'uomo che era a prua del canotto guardò fissamente l'uomo che era a poppa, e gli disse:

- Io sono il fratello dell'uomo che avete fatto fucilare.

 

 

 

LIBRO TERZO

HALMALO

 

1.

LA PAROLA E' IL VERBO

 

Il vecchio rialzò la testa pian piano. L'uomo che gli parlava aveva su per giù trent'anni. Aveva la fronte abbronzata dal mare; i suoi occhi erano strani: lo sguardo sagace del marinaio nella candida pupilla del contadino. Stringeva possentemente i remi nei pugni. Di aspetto era dolce. Gli si vedevano alla cintura un pugnale, due pistole e un rosario.

- Chi siete? - domandò il vecchio.

- Ve l'ho detto or ora.

- E che cosa volete da me?

L'uomo abbandonò i remi, incrociò le braccia e rispose:

- Ammazzarvi.

- Come vorrete, - disse il vecchio.

L'uomo alzò la voce:

- Preparatevi.

- A che cosa?

- A morire.

- Perché? - domandò il vecchio.

Ci fu silenzio. L'uomo parve per un attimo esterrefatto dalla domanda.

Riprese:

- Dico che vi voglio ammazzare.

- E io vi chiedo il perché.

Negli occhi del marinaio balenò un lampo:

- Perché avete ucciso mio fratello.

Il vecchio, calmo, ribatté:

- Ho cominciato col salvargli la vita.

- E' vero. Prima l'avete salvato, e poi l'avete ucciso.

- Non sono stato io a ucciderlo.

- Chi l'ha ucciso, allora?

- La sua colpa.

Il marinaio guardò il vecchio a bocca spalancata; poi le sue sopracciglia tornarono ad aggrottarsi in modo selvaggio.

- Come vi chiamate? - domandò il vecchio.

- Mi chiamo Halmalo, ma non avete nessun bisogno di conoscere il mio nome per essere ucciso da me.

In quel momento spuntò il sole. Un raggio batté in pieno sul viso al marinaio e illuminò vivamente quella fisionomia selvaggia. Il vecchio lo osservava attentamente.

Il cannoneggiamento, che non si era per nulla interrotto, aveva ora interruzioni e scosse di agonia. Sull'orizzonte gravitava una vasta nuvola di fumo. Il canotto, che il rematore non governava più, andava alla deriva.

Il marinaio impugnò con la destra una delle pistole che aveva alla cintura e afferrò con la sinistra il rosario.

Il vecchio si rizzò in piedi.

- Credi in Dio, tu? - gli domandò.

- Padre nostro che è nei cieli, - rispose il marinaio. E si fece il segno della croce.

- Hai la mamma, tu?

- Sì.

E il marinaio si fece un secondo segno di croce. Poi riprese:

- E' detta. Vi db un minuto, monsignore.

E armò la pistola.

- Perché mi chiami monsignore?

- Perché siete un signore. Si vede.

- E tu, ce l'hai, un signore?

- Sì. E uno grande. Si può vivere senza un signore, forse?

- Dov'è?

- Non lo so. Ha lasciato il paese. Si chiama signor marchese di Lantenac, visconte di fontenay, principe di Bretagna; è il signore delle Sette Foreste. Non l'ho mai visto, io, il che non gl'impedisce d'essere un buon padrone.

- E gli obbediresti, tu, se lo vedessi?

- Certo. Se non gli obbedissi, sarei un pagano, toh! si deve obbedire a Dio, e poi al re, che è come Dio, e poi al signore, che è come il re. Ma tutto questo non conta; voi avete ucciso mio fratello, bisogna che io uccida voi.

Il vecchio rispose:

- Innanzi tutto, ho ucciso tuo fratello, e ho fatto bene.

Il marinaio contrasse il pugno sulla pistola.

- Suvvia! - disse.

- Sia, - disse il vecchio.

E, tranquillo, soggiunse:

- Dov'è il prete?

Il marinaio lo guardò:

- Il prete?

- Sì, il prete. A tuo fratello ho dato un prete, io. Tu devi darne uno a me.

- Non ne ho, io, - disse il marinaio.

E continuò:

- Si hanno forse preti in alto mare?

Le convulse detonazioni del combattimento si udivano giungere sempre più di lontano.

- Quelli che muoiono laggiù, ce l'hanno, - disse il vecchio.

- Questo è vero, - mormorò il marinaio. - Hanno il signor cappellano.

Il vecchio proseguì:

- Perdi la mia anima, tu; ed è una cosa grave.

Il marinaio abbassò la testa, pensoso.

- E perdendo la mia anima, - riprese il vecchio, - perdi la tua.

Ascolta. Ascolta. Ho compassione di te io. Farai quello che vorrai. Ho compiuto il mio dovere io, poco fa, salvando la vita a tuo fratello, innanzi tutto e poi togliendogliela, e compio il mio dovere adesso, cercando di salvare la tua anima. Rifletti. E' una faccenda tua. Odi le cannonate in questo momento? Ci sono laggiù uomini che lasciano la vita, disperati che agonizzano, mariti che non rivedranno più le loro mogli, padri che non rivedranno più i loro figliuoli, fratelli che, come te, non rivedranno più il loro fratello. E per colpa di chi? per colpa del tuo, di un fratello. Tu credi in Dio, vero? Orbene, allora sai che Dio soffre, in questo momento; Dio soffre nel suo cristianissimo figlio il re di Francia, che è bimbo come il bambino Gesù ed è in prigione nella torre del Tempio; Dio soffre nella sua chiesa di Bretagna; Dio soffre nelle sue cattedrali insultate ne' suoi vangeli stracciati, nei suoi oratori violati; Dio soffre nei suoi preti assassinati. Che cosa venivamo a fare, noi, in quella nave che in questo momento soccombe? Venivamo a soccorrere Dio. Se tuo fratello fosse stato buon servitore, se avesse fedelmente compiuto la sua bisogna d'uomo savio e utile, la disgrazia della carronata non sarebbe accaduta, la corvetta non sarebbe stata disalberata, non avrebbe dirottato, non sarebbe caduta in mezzo a quella flotta di perdizione, e a quest'ora noi sbarcheremmo in Francia, tutti, da quei valorosi uomini di guerra e di mare che siamo, sciabola in pugno, bianca bandiera spiegata, numerosi, contenti, festosi, e andremmo ad aiutare i coraggiosi contadini della Vandea a salvare la Francia, a salvare il re, a salvare Dio. Ecco che cosa venivamo a fare; ecco che cosa faremmo. Ed è quanto io, l'unico rimasto, vengo a fare. Ma tu ti ci opponi. In questa lotta degli empi contro i preti, in questa lotta dei regicidi contro il re, in questa lotta di Satana contro Dio, tu stai per Satana. Tuo fratello è stato il primo aiutante del demonio, tu sei il secondo. Egli ha cominciato, tu porti a termine. Sei per i regicidi contro il trono, tu; sei per gli empi contro la Chiesa. Togli a Dio l'ultima sua risorsa. Dacché io, io che rappresento il re, non sarò laggiù, le capanne continueranno ad ardere, le famiglie a piangere, i preti a sanguinare, la Bretagna a soffrire, e il re a stare in prigione, e Gesù Cristo a essere in angoscia. E chi avrà fatto questo?

Tu. Va! è faccenda tua, questa. Io contavo su di te proprio per il contrario. Mi sono sbagliato. Ah! si, è vero, tu hai ragione; ho ucciso tuo fratello, io! Tuo fratello era stato coraggioso, io l'ho ricompensato; era stato colpevole, e l'ho punito. Era venuto meno al suo dovere; io non sono venuto meno al mio. Quello che ho fatto, lo tornerei a fare. E, lo giuro per la grande santa Anna d'Auray che ci guarda: in un caso simile, così come ho fatto fucilare tuo fratello, farei fucilare mio figlio. Tu sei il padrone, adesso. Sì, ti compiango. Hai mentito al tuo capitano. Tu, cristiano, sei senza fede; tu, bretone, sei senza onore; sono stato affidato alla tua lealtà e accettato dal tuo tradimento; offri la mia morte a coloro ai quali avevi promesso la mia vita. Sai tu chi perdi, in questa faccenda? Te stesso! Togli la mia vita al re e consegni la tua eternità al demonio.

Orsù commetti il tuo delitto: sta bene. Dilapidi facilmente la tua parte di paradiso, tu. Grazie a te, il diavolo vincerà, grazie a te, le chiese cadranno, grazie a te i pagani continueranno a fondere le campane e a farne cannoni; gli uomini saranno mitragliati con ciò che salvava le anime. In questo momento in cui parlo, la campana che ha suonato il tuo battesimo uccide forse tua madre. Orsù, aiuta il demonio. Non ti fermare. Sì, io ho condannato tuo fratello, ma, sappilo: sono uno strumento di Dio, io. Ah! giudichi le strade del Signore, tu? Giudicherai dunque anche il fulmine che è nel cielo? Ne sarai giudicato tu, o disgraziato! Bada a quello che stai per fare.

Sai tu anche soltanto se sono in stato di grazia, io? No. Ma non importa. Fa quello che vuoi. Sei libero di gettarmi in inferno e di gettartici tu pure con me. La dannazione mia e la tua sono in mano tua. Il responsabile, davanti a Dio, sarai tu. Siamo soli, l'uno di fronte all'altro, nell'abisso. Continua, porta a termine, compi. Io sono vecchio e tu sei giovane; io sono senza armi e tu sei armato; uccidimi!

Mentre il vecchio, in piedi, con voce più alta del fragore del mare, diceva queste parole, il fluttuare delle onde lo faceva apparire ora nell'ombra ora nella luce. Il marinaio si era fatto livido; grosse gocce di sudore gli cadevano dalla fronte; tremava come una foglia; tratto tratto, baciava il rosario. Quando il vecchio ebbe finito, buttò via la pistola e cadde in ginocchio.

- Grazia, monsignore! perdonami! - gridò. - Voi parlate come il buon Dio. Mio fratello ha avuto torto. Farò di tutto per rimediare alla sua colpa. Disponete di me. Ordinate. Obbedirò.

- Ti faccio grazia! - sentenziò il vecchio.

 

 

 

2.

MEMORIA DI CONTADINO VALE SCIENZA DI CAPITANO

 

Le provvigioni che erano nel canotto non furono inutili.

I due fuggiaschi, costretti a lunghi giri, impiegarono trentasei ore a raggiungere la costa. Trascorsero una notte in mare; ma la notte fu bella; con troppa luna comunque, per gente che cercava di non farsi vedere.

Dovettero a tutta prima allontanarsi dalla Francia e raggiungere il largo vero Jersey.

Udirono la suprema bordata della corvetta folgorata, così come si ode l'ultimo ruggito del leone che i cacciatori uccidono nella foresta.

Poi sul mare si ridistese il silenzio.

Quella corvetta, la "Claymore", morì allo stesso modo del "Vendicatore"; la gloria, però, l'ha ignorato. Contro il proprio paese non si è eroi, mai.

Halmalo era un marinaio sorprendente; compì miracoli di destrezza e d'intelligenza; quell'itinerario improvvisato attraverso scogli, cavalloni e agguato nemico, fu un capolavoro. Il vento era diminuito e il mare si era fatto favorevole.

Halmalo evitò i Caux dei Minquiers, doppiò l'Argine dei Buoi, vi si andò a riparare, allo scopo di prendere qualche ora di riposo nella minuscola insenatura che vi si forma a nord durante la bassa marea; poi, ridiscendendo a sud, trovò modo di passare tra Grandville e le isole Chausey senza essere scorto né dalla vedetta di Chausey né da quella di Grandville. Si cacciò nella baia di San Michele, che era un bell'ardimento, per via della vicinanza di Cancale, ancoraggio della squadra.

La sera del secondo giorno, circa un'ora prima del tramonto del sole, si lasciò dietro il monte San Michele e andò ad approdare su un greto che è sempre deserto perché pericoloso: vi si affonda nelle sabbie mobili.

Per fortuna, la marea era alta.

Halmalo spinse l'imbarcazione quanto più avanti gli fu possibile; tastò la sabbia, la trovò solida, vi fece incagliare il canotto e saltò in terra.

Dopo di lui, il vecchio scavalcò il bordo ed esaminò l'orizzonte.

- Monsignore, - disse Halmalo; - siamo alla foce del Cuesnon, qui.

Quelli che vedete, sono Beauvoir a destra e Huisnes a sinistra. Il campanile che ci sta davanti è Ardevon.

Il vecchio si chinò sulla barca, ne prese un biscotto, che si mise in tasca, e disse ad Halmalo:

- Prendi il resto.

Halmalo cacciò nel sacco quanto era rimasto sia di carne che di biscotto, e si caricò il sacco sulle spalle. Fatto questo, disse:

- Debbo guidarvi o vi debbo seguire, monsignore?

- Né una cosa né l'altra.

Halmalo guardò il vecchio, stupefatto.

Il vecchio continuò:

- Dobbiamo separarci, Halmalo. Essere in due non serve a nulla.

Bisogna essere in mille, o soli.

S'interruppe, trasse di tasca un nodo di seta verde, alquanto simile a una coccarda, al centro del quale era ricamato un giglio d'oro. Poi riprese:

- Sai leggere?

- No.

- Bene! Un uomo che sa leggere è un impaccio. Hai buona memoria?

- Sì.

- Bene! Ascolta, Halmalo. Adesso tu prenderai a destra e io andrò a sinistra. Io andrò dalla parte di Fougères, tu da quella di Bazouges.

Tienti il sacco, che ti dà l'aria d'un contadino. Nascondi le armi.

Tagliati un bastone nelle siepi. Striscia tra la segale, che è alta.

Scivola dietro i muriccioli di cinta. Scavalca gli steccati per procedere attraverso i campi. Sta alla larga dai passanti. Evita strade e ponti. Non entrare in Pontorson. Ah! dovrai attraversare il Cuesnon. Come lo passerai?

- A nuoto.

- Bene. E poi, c'è un guado. Sai dove si trova?

- Tra Ancey e Vieux-Viel.

- Bene. Sei proprio del paese, tu.

- Ma vien notte. Dove si coricherà monsignore?

- A me, ci penso io. E tu, dove ti coricherai?

- I tronchi d'albero cavi non mancano. Prima di essere marinaio, sono stato contadino.

- Butta via quel cappello da marinaio, che ti tradirebbe. Troverai pure un berrettone, qua o là.

- Oh! di berrettoni se ne trovano dappertutto. Il primo pescatore che incontro mi venderà il suo.

- Sta bene. Ascolta, adesso. Conosci i boschi, tu?

- Tutti.

- Di tutto il paese?

- Da Noirmontier fino a Laval.

- Conosci anche i nomi?

- Conosco i boschi, conosco i nomi, conosco tutto, io.

- Non dimenticherai nulla?

- Nulla.

- Sta bene. Attento, adesso. Quante leghe puoi fare in un giorno?

- Dieci. Quindici. Diciotto. Venti, se occorre.

- Occorrerà. Non perdere una parola di quello che ti sto per dire.

Andrai nel bosco di Saint-Aubin.

- Presso Lamballe?

- Sì. Sul ciglio del burrone che corre tra Saint-Rieul e Plédéliac c'è un grosso castagno. Ti fermerai là. Non vedrai nessuno.

- Il che non toglie che ci sarà qualcuno. Lo so.

- Farai il richiamo. Sai fare il richiamo?

Halmalo gonfiò le gote, si voltò dalla parte del mare e si udi l'"huhu" della civetta.

Si sarebbe detto che quel singulto venisse dalle profondità della notte. Era somigliante e sinistro.

- Bene! - disse il vecchio. - Ci sei.

Porse ad Halmalo il nodo di seta verde.

- Questo è il mio nodo di comando. Prendilo. Importa che ancora nessuno sappia il mio nome. Ma questo nodo basta. Il giglio vi è stato ricamato da Madama Reale nella prigione del Tempio.

Halmalo mise un ginocchio a terra. Ricevette con un tremito il nodo dal fiordaliso, e vi appressò le labbra. Poi, fermandosi come atterrito da quel bacio:

- Posso? - domandò.

- Sì, dal momento che baci il crocefisso.

Halmalo baciò il giglio.

- Alzati! - disse il vecchio.

Halmalo si rialzò e mise il nodo in seno.

Il vecchio proseguì:

- Ascolta bene quello che ti dico. Ecco l'ordine: "Insorgete. Niente quartiere". Dunque, sul ciglio del bosco di Saint-Aubin tu farai il richiamo. Tre volte lo farai. Alla terza volta vedrai uscire da terra un uomo.

- Da un buco sotto gli alberi. Lo so.

- Quell'uomo è Planchenault, che qui chiamano Cuore di Re. Gli mostrerai questo nodo. Capirà. Andrai poi, per una strada che escogiterai tu stesso, al bosco di Astillé. Ci troverai un uomo tutto sbilenco, soprannominato Moschetto, che non fa grazia a nessuno. Gli dirai che io gli voglio bene, e che metta in moto le sue parrocchie.

Andrai poi nel bosco di Cuesbon, a una lega da Ploërmel. Farai il richiamo della civetta; un uomo uscirà da un buco; è il signor Thuault, siniscalco di Ploërmel, che ha fatto parte di quella che si chiama l'assemblea costituente, ma dalla parte buona. Gli dirai di mettere in stato di difesa il castello di Cuesbon, che è del marchese di Guer, emigrato. Burroni, macchie, terreno ineguale, buona località.

Il signor Thuault è un uomo retto e di spirito. Andrai quindi a Saint- Ouen-les-Foits, e parlerai a Giovanni Chouan, che per me è il vero capo. Andrai poi nel bosco di Ville-Anglose, ci vedrai Guitter, che chiamano San Martino: gli dirai di tenere d'occhio un certo Courmesnil, genero del vecchio Goupil di Préfeln, che è il caporione della giacobineria di Argentan. Tieni bene in mente ogni cosa. Non scrivo niente perché non bisogna scrivere niente. La Rouarie ha scritto una lista, e ciò ha rovinato ogni cosa. Andrai poi al bosco di Rougefeu, dove c'è Miélette, che varca d'un salto i burroni, puntellandosi su una lunga pertica - Che si chiama "ferte".

- Sai servirtene?

- Non sono un bretone, forse? non sono un contadino? La "ferte" è la nostra amica; ci ingrandisce il braccio e ci allunga le gambe.

- Il che è quanto dire che rimpicciolisce il nemico e accorcia le distanze. Ottimo arnese.

- Una volta, con la mia "ferte", ho tenuto testa a tre gabellotti armati di sciabola.

- Quando è stato?

- Dieci anni fa.

- Sotto il re?

- Ma sì!

- Ti sei dunque battuto sotto il re?

- Ma sì!

- Contro chi?

- Parola mia, non lo so. Ero contrabbandiere di sale.

- Sta bene.

- Ciò si diceva battersi contro le gabelle. Sono la stessa cosa che il re, le gabelle?

- Sì. No. Ma non è necessario che tu le capisca queste cose.

- Chiedo scusa a monsignore d'aver fatto una domanda a monsignore.

- Continuiamo. Conosci la Tourgue?

- Se conosco la Tourgue? Sono di là.

- Come?

- Certo, dal momento che sono di Parigné.

- Già, la Tourgue non è lontana da Parigné.

- Se conosco la Tourgue! il gran castello rotondo che è il castello di famiglia dei miei signori! C'è una porta di ferro che separa la costruzione nuova dalla costruzione vecchia, una porta che non riuscirebbe a sfondarla nemmeno un cannone. Appunto nella costruzione nuova c'è il famoso libro su san Bartolomeo, che la gente veniva a vedere per curiosità. Ci sono rane, nell'erba. Ho giocato, io, con quelle rane, da piccino. E il passaggio sotterraneo! Lo conosco, io.

Non ci sono più che io, forse, a conoscerlo.

- Che passaggio sotterraneo? Non so che cosa intendi dire.

- Serviva una volta, nei tempi andati, quando la Tourgue era assediata. Quelli di dentro potevano svignarsela per un passaggio sotterraneo che mette capo nel bosco.

- Un passaggio sotterraneo di quel genere c'è infatti nel castello della Jupellière, come pure al castello della Hunaudaye e alla torre Campéon; ma alla Tourgue non c'è nulla di simile.

- Ma sì che c'è, monsignore. Io non conosco i passaggi di cui parla monsignore. Non conosco che quello della Tourgue, perché sono di là. E anzi, non ci sono che io a conoscere quel passaggio. Non se ne parlava. Era proibito, perché quel passaggio era servito al tempo delle guerre del signor di Rohan. Mio padre conosceva il segreto e me lo mostrò. Conosco il segreto per entrare e il segreto per uscire. Se sono nella foresta, posso andare nella torre, e se sono nella torre posso andare nella foresta. Senza che mi si veda. E quando i nemici entrano, non c'è più nessuno. Ecco che cosa è la Tourgue. Oh! la Conosco, io.

Il vecchio rimase un momento in silenzio.

- Evidentemente ti sbagli. Se ci fosse un segreto simile, io lo conoscerei.

- Ne sono sicuro, monsignore. C'è una pietra che gira.

- Ah, ho capito! Credete alle pietre che girano, voialtri contadini, alle pietre che cantano, alle pietre che vanno, di notte, a bere al ruscello accanto. Tutte fandonie.

- Ma se l'ho fatta girare io stesso, la pietra...

- Come altri l'hanno udita cantare. Camerata, la Tourgue è una sicura e forte bastiglia, facile da difendere; ma chi facesse assegnamento su un'uscita sotterranea per cavarsela, sarebbe un ingenuo.

- Ma, monsignore...

Il vecchio fece una spallucciata.

- Non perdiamo tempo. Parliamo delle nostre faccende.

Il tono perentorio di quelle parole mise di colpo fine all'insistenza di Halmalo.

Il vecchio riprese:

- Continuiamo. Ascolta. Da Rougefeu ti recherai nel bosco di Montchevrier, dov'è Benedicite, che è il capo dei dodici. E' ancora uno dei buoni. Recita il "benedicite" mentre fa archibugiare la gente.

Niente smancerie, in guerra. Da Montchevrier andrai...

Si interruppe.

- Dimenticavo il danaro.

Si trasse di tasca e mise in mano ad Halmalo una borsa e un portafoglio.

- In questo portafoglio ci sono trentamila franchi in assegnati, qualche cosa come tre lire e dieci soldi; vero è che sono falsi, ma i veri non valgono mica di più; in questa borsa, invece, bada, ci sono cento luigi in oro. Ti dò tutto quello che possiedo. Qui, non ho più bisogno di nulla, io. E' preferibile, del resto, che non si possa trovare danaro su di me. Riprendo. Da Montchevrier andrai ad Antrain, dove vedrai il signor di Frotté; da Antrain alla Jupellière, dove vedrai il signor di Rochecotte; dalla Jupellière a Noirieux, dove vedrai l'abate Baudoin. Sarai capace di ricordarti ogni cosa?

- Come il "pater".

- Vedrai a Saint-Brice-en-Cogle il signor Dubois-Guy, a Morannes, che è un borgo fortificato, il signor di Turpin, e a Chateau-Gonthier il principe di Talmont.

- Mi parlerà un principe, forse?

- Dal momento che ti parlo io.

Halmalo si tolse il cappello.

- Tutti ti riceveranno bene vedendo questo giglio di Madama. Non dimenticare che devi andare in località dove sono montagnardi e patriottardi. Dovrai travestirti. Sono così stupidi,quei repubblicani, che con una marsina turchina, un cappello a tre punte e una coccarda tricolore si passa dovunque. Non ci sono più reggimenti, non ci sono più uniformi, i corpi non sono numerati; ognuno si mette addosso lo straccio che vuole. Andrai a Saint-Mhervé. Ci vedrai Gaulier, detto Pierone. Andrai all'accampamento di Parné, dove si trovano gli uomini dalle facce annerite. Mettono nei fucili la sabbia, costoro, e doppia carica di polvere per fare più fracasso; fanno bene.

Ma devi dir loro soprattutto di uccidere, di uccidere, di uccidere.

Andrai al campo della Vache-Noire, che si trova su un'altura in mezzo al bosco della Charnie, poi al campo dell'Avoine, poi al campo Verde, poi a quello delle Formiche. Andrai al Grand-Bordage, detto anche Haut-des-Prés, abitato da una vedova, la cui figlia è stata sposata da Treton, detto l'Inglese. Il Grand-Bordage si trova nella parrocchia di Quélaines. Andrai a visitare Epineux-le-Chevreuil, Sillé-le-Guillaume, Parannes, e tutti gli uomini che sono in tutti i boschi. Avrai amici, e li manderai sul margine dell'Alto e del Basso Maine, vedrai Giovanni Treton nella parrocchia di Vaisges, Senza-rimpianti al Bignon, Chambord a Bonchamps, i fratelli Corbin a Maisoncelles, e il Piccolo- senza-paura a Saint-Jan-sur-Erve: è quello stesso che si chiama Bourdoiseau. Fatto tutto questo, e data dovunque la parola d'ordine "Insorgete. Niente quartiere", raggiungerai il grande esercito, l'esercito cattolico e regio, dovunque si troverà. Vedrai i signori di Elbée, di Lescure, della Rochejaquelein e quelli fra i capi che allora saranno ancora vivi. Mostrerai loro il mio nodo di comando. Sanno già che cos'è. Tu non sei che un marinaio, ma Cathelineau non è che un carrettiere. Dirai loro questo, da parte mia: "E' ora di combattere le due guerre assieme; la grande e la piccola. La grande fa più chiasso, la piccola rende di più. La Vandea è buona, la guerriglia alla Chouan è peggiore; e, nelle guerre civili, la peggiore è la migliore. La bontà di una guerra si giudica dalla quantità di male che produce".

Si interruppe.

- Ti dico tutte queste cose, Halmalo. Tu non capisci le parole, ma capisci le cose. Ho concepito fiducia in te vedendoti manovrare il canotto; non conosci la geometria, e compi, in mare, evoluzioni sorprendenti; chi sa condurre una barca può pilotare una insurrezione; dal modo come hai sbrogliato la matassa sul mare, affermo che te la caverai egregiamente in tutte le mie incombenze. Continuo: dirai dunque ai capi, su per giù, come potrai, ma dirai bene di sicuro, questo che ti dico: "Preferisco la guerra delle foreste alla guerra della pianura; non ci tengo ad allineare centomila contadini sotto la mitraglia dei soldati azzurri e sotto l'artiglieria del signor Carnot; tra un mese voglio avere cinquecentomila ammazzatori, imboscati nelle macchie. L'esercito repubblicano è la mia selvaggina. Braccheggiare è guerreggiare. Sono lo stratega della macchia io". Già, ecco un'altra parola che tu non capirai. Fa lo stesso; capirai questo: "Niente quartiere, e imboscate dovunque! Voglio fare le cose più alla Chouan che alla vandeana". Aggiungerai che gli inglesi sono con noi.

"Prendiamo la repubblica tra due fuochi. L'Europa ci aiuta. Facciamola finita con la rivoluzione. I re le fanno la guerra dei regni, noi facciamole la guerra delle parrocchie". Ecco quello che devi dire. Hai capito?

- Sì. Bisogna mettere a fuoco e sangue ogni cosa.

- Così è.

- Niente quartiere.

- A nessuno. Proprio.

- Andrò dovunque.

- E sta in guardia, ché questo è un paese dove ci vuole un nulla a essere un uomo morto.

- La morte, non mi interessa. Chi muove il primo passo consuma forse le ultime sue scarpe.

- Sei un coraggioso, tu.

- E se mi chiedono il nome di monsignore?

- Non è ancora tempo di saperlo. Dirai che non lo conosci, e sarà la verità.

- Dove rivedrò monsignore?

- Dove sarò.

- Come farò a saperlo?

- Perché lo sapranno tutti. Fra otto giorni la gente parlerà di me, darò degli esempi, vendicherò il re e la religione, e tu riconoscerai benissimo che si parlerà di me.

- Capisco.

- Non dimenticare niente.

- State tranquillo.

- E adesso parti. Che Dio ti guidi. Va'!

- Farò tutto quello che mi avete detto. Andrò. Parlerò. Obbedirò.

Comanderò.

- Bene.

- E se riesco...

- Ti farò cavaliere di San Luigi.

- Come mio fratello. E se non riesco, mi farete fucilare.

- Come tuo fratello.

- Sta bene, monsignore.

Il vecchio chinò la testa e parve sprofondare in una seria meditazione. Quando rialzò gli occhi, era solo. Halmalo non era più che un punto nero scomparente nell'orizzonte.

Il sole era tramontato.

I gabbiani grigi e quelli neri rientravano: essere sul mare, è essere fuori.

Si avvertiva nello spazio quella specie d'inquietudine che precede la notte; le raganelle gracidavano, i beccaccini si alzavano a volo dagli stagni fischiando, i gabbianelli, le taccole, le ghiandaie facevano il loro chiasso serotino; gli uccelli d'acqua si chiamavano, ma rumori umani nessuno. La solitudine era profonda. Non una vela nella baia, non un contadino fra i campi. La distesa deserta a perdita di vista. I grandi cardi delle sabbie fremevano. Il cielo bianco del crepuscolo gettava sulla spiaggia una gran luce livida. Lontano, nella cupa pianura, paludosi specchi d'acqua parevano lastre di stagno posate per terra. Dal largo, soffiava il vento.

 

 

 

LIBRO QUARTO

TELLMARCH

 

1.

LA SOMMITA' DELLA DUNA

 

Il vecchio aspettò che Halmalo fosse scomparso, poi si ravvolse ben bene nel suo mantello da mare e si mise in cammino. Andava a passi lenti, pensoso. Si dirigeva verso Huisnes, mentre Halmalo se ne andava verso Beauvoir.

Dietro di lui si ergeva, enorme triangolo nero, con la sua tiara da cattedrale e la sua corazza da fortezza, con le sue grosse torri di levante, l'una tonda, l'altra quadrata, che aiutano la montagna a sostenere il peso della chiesa e del paese, il monte San Michele, che sta all'oceano come la piramide di Cheope sta al deserto.

Le sabbie mobili della baia del monte San Michele spostano insensibilmente le loro dune. C'era a quel tempo, tra Huisnes ed Ardevon, una duna molto elevata che oggi non c'è più. Quella duna, spianata da un colpo di equinozio, aveva la rara dote di essere antica e di portare sulla sua sommità una pietra miliare erettavi nel dodicesimo secolo, in memoria del concilio tenuto ad Avranches contro gli assassini di san Tommaso di Cantorbéry. Dall'alto di quella duna, si scopriva tutto il paese ed era possibile orientarsi.

Il vecchio si diresse verso quella duna e vi salì.

Quando fu su, si addossò alla pietra miliare, si sedette su uno dei quattro pilastrini che ne segnano gli spigoli, e si mise a esaminare quella specie di carta geografica che aveva sotto i piedi. Sembrava cercare una strada in un paese che gli era peraltro ben noto. In quell'ampio paesaggio, fosco per via del crepuscolo, non c'era nulla di preciso all'infuori dell'orizzonte, nero sul biancore del cielo.

Vi si scorgevano i raggruppamenti di tetti di undici borghi e paesini, e si distinguevano, a parecchie leghe di distanza, tutti i campanili della costa, che sono altissimi, affinché possano, all'occorrenza, servire da punto di riferimento a quelli che si trovano in mare.

Dopo qualche momento il vecchio parve aver trovato, in quel chiaroscuro, quello che cercava. Il suo sguardo si fermò su un gruppo d'alberi, di muri e di tetti che si scorgeva sì e no in mezzo alla spianata e ai boschi, e che era una fattoria. Ebbe il soddisfatto cenno di testa d'un uomo che dice in cuor suo: "E' quella!", e si mise a tracciare con un dito nello spazio l'abbozzo di un itinerario attraverso le siepi e i colti. Tratto tratto, esaminava un oggetto informe e poco distinto che si agitava al di sopra del tetto principale della fattoria e pareva si chiedesse: "Che è mai?". Era alcunché d'incolore e di confuso per via dell'ora; non era una banderuola metallica, perché ondeggiava, né c'era alcuna ragione perché fosse una vera e propria bandiera.

Era stanco; rimaneva volentieri seduto su quel pilastrino, e si lasciava andare a quella specie di vago oblio che il primo minuto di riposo dà agli uomini stanchi.

C'è un'ora del giorno che si potrebbe chiamare l'assenza di ogni rumore: è l'ora serena, l'ora della sera. Era appunto quell'ora. Il vecchio ne godeva. Guardava. Ascoltava. Che cosa? La tranquillità.

Perfino le belve hanno il loro istante di malinconia. D'un subito, quella tranquillità fu, non turbata, ma accentuata da voci che passavano. Erano voci di donne e di bambini. Simili gioiosi inattesi rintocchi si danno, talvolta, nell'ombra. Non si vedeva minimamente, per via degli interposti cespugli, il gruppo dal quale uscivano le voci, ma quel gruppo camminava ai piedi della duna e se ne andava dalla parte della pianura e del bosco. Quelle voci salivano fresche e distinte fino al vecchio pensoso, ed erano così vicine, che egli non ne perdeva sillaba.

Una voce di donna diceva:

- Spicciamoci, Flécharde. E' di qui che si va?

- No, di là.

E il dialogo continuava tra le due voci, una alta, l'altra timida.

- Come chiamate quella fattoria che abitiamo adesso?

- Herbe-en-Pail.

- Ne siamo ancora lontani?

- Un buon quarto d'ora.

- Spicciamoci ad andar a mangiare la zuppa.

- Siamo davvero in ritardo.

- Bisognerebbe correre. Ma i vostri marmocchi sono stanchi. Non siamo che due donne, noi; non possiamo portare tre bambini. E voi, del resto, ne portate già uno, voi, Flécharde. Un vero piombo. L'avrete svezzata questa golosaccia, ma quanto a portarla, la portate sempre.

Cattiva abitudine. Fatela camminare un po', dunque. Pazienza! la zuppa sarà fredda.

- Oh, ma che buone scarpe mi avete dato! Si direbbero fatte per me.

- E' sempre meglio che andare a piedi nudi.

- Lesto, su, Gian Renato!

- Proprio lui ci ha fatto perdere tempo. Deve parlare a tutte le contadinelle che incontra, lui: la fa da uomo.

- Ha quasi cinque anni, diamine!

- Di' un po', Gian Renato; perché hai parlato a quella piccina, là in paese?

Una voce infantile, da maschietto, rispose:

- Perché la conosco.

La donna riprese:

- Come? la conosci?

- Sì, - rispose il bimbo; - perché mi ha regalato delle bestie, stamattina.

- Questa è grossa! - esclamò la donna; - non siamo da queste parti che da tre giorni, lui è grosso come un pugno, e ha già la morosa!

Le voci si allontanarono. Ogni rumore cessò.

 

 

 

2.

"AURES HABET ET NON AUDIET"

[Ha orecchi e non ode]

 

Il vecchio rimaneva immobile. Non pensava. Era tanto se fantasticava.

Intorno a lui tutto era serenità, assopimento, fiducia, solitudine.

Era ancora giorno chiaro sopra la duna, ma quasi notte giù sul piano, e assolutamente notte nei boschi. A oriente ascendeva la luna. Alcune stelle picchiettavano l'azzurro pallido dello zenit. Quell'uomo, per quanto pieno di violente preoccupazioni, si inabissava nell'ineffabile mansuetudine dell'infinito. Avvertiva, entro di sé, sorgere quella oscura alba, la speranza, se il vocabolo speranza può applicarsi alle aspettative della guerra civile. Per il momento, gli sembrava che, uscendo da quel mare, stato fino a poco prima tanto inesorabile, e mettendo piede a terra, ogni pericolo fosse svanito. Nessuno conosceva il suo nome, egli era solo, perduto per il nemico, senza alcuna traccia dietro di sé, giacché la superficie del mare non serba nulla, nascosto, ignorato, non supposto neppure. Sentiva un non sapeva qual supremo acquietamento. Ancora un poco, e si sarebbe addormentato.

Per quell'uomo in preda, tanto interiormente quanto esteriormente, a tanti tumulti, ciò che dava uno strano fascino alla calma che ora attraversava, era, sulla terra come in cielo, un profondo silenzio.

Non si udiva che il vento, che veniva dal mare; ma il vento è un continuo accompagnamento, e cessa quasi di essere un rumore, tanto diventa una abitudine.

A un tratto, balzò in piedi.

La sua attenzione era stata richiamata di colpo. Osservò l'orizzonte.

Qualche cosa infondeva al suo sguardo una fissità tutta particolare.

Era il campanile di Cormeray che egli guardava; l'aveva proprio davanti, in fondo alla pianura. In quel campanile infatti avveniva un non so che di straordinario.

Il suo profilo spiccava nettamente; si vedeva la torre sormontata dalla sua piramide, e, tra la torre e la piramide, la cella campanaria, quadrata, forata, senza schermi laterali, e aperta agli sguardi da tutt'e quattro i lati, com'è uso nei campanili bretoni.

Ora, quella cella campanaria appariva alternativamente aperta e chiusa; a intervalli uguali, l'alta sua finestra si disegnava prima tutta bianca, poi tutta nera; attraverso ad essa si scorgeva prima il cielo, poi non si vedeva più; prima c'era luce, poi la luce veniva occultata; e l'apertura e la chiusura si susseguivano da un secondo all'altro con la regolarità d'un martello sull'incudine.

Il vecchio aveva quel campanile di Cormeray proprio davanti a sé, a circa due leghe di distanza; guardò a destra il campanile di Baguer- Pican, anch'esso dritto sull'orizzonte; la cella di quel campanile si apriva e si chiudeva come quella di Cormeray.

Guardò a sinistra il campanile di Tanis; la cella del campanile di Tanis si apriva e si chiudeva come quella di Baguer-Pican.

Guardò tutti i campanili dell'orizzonte, uno dopo l'altro, a sinistra i campanili di Courtils, di Précey, di Crollon e della Croix- Avranchin; alla destra i campanili di Raz-sur-Cuesnon, di Mordrey e di Pas; di fronte, il campanile di Pontorson. La cella di tutti quei campanili era alternativamente nera e bianca.

Che voleva dire ciò?

Significava che tutte le campane erano in moto.

Per apparire e scomparire così, poi, bisognava che fossero agitate in modo furioso.

Che era? La campana a martello indubbiamente.

Suonavano la campana a martello, la suonavano freneticamente, la suonavano dovunque, da tutti i campanili, in tutte le parrocchie, in tutti i paesi. E non si udiva nulla.

Ciò era dovuto alla distanza, che impediva ai suoni di giungere, e al vento di mare che spirava dalla parte opposta e portava tutti i rumori della terra fuori dell'orizzonte.

Tutti quei campanili forsennati che chiamavano da dovunque, e al tempo stesso quel silenzio: nulla poteva essere più sinistro.

Il vecchio guardava e ascoltava.

Non udiva la campana a martello; la vedeva. Vedere la campana a martello: strana sensazione.

Con chi ce l'avevano quelle campane?

Contro chi quella campana a martello?

 

 

 

3.

UTILITA' DEI CARATTERI GROSSI

 

Qualcuno era braccato di sicuro.

Chi?

Quell'uomo d'acciaio ebbe un fremito.

Non poteva trattarsi di lui. Nessuno poteva aver indovinato il suo arrivo. Impossibile che i rappresentanti in missione fossero già informati. Non aveva fatto che sbarcare. La corvetta, evidentemente, era colata a picco senza che ne sfuggisse neppure un uomo. E poi, nella stessa corvetta, nessuno, eccettuato Boisberthelot e La Vieuville, conosceva il suo nome.

I campanili continuavano il loro concerto selvaggio. Egli li esaminava e li contava macchinalmente, mentre il suo fantasticare, spinto da una congettura all'altra, aveva la fluttuazione che dà il passaggio da una sicurezza profonda a una terribile incertezza. Eppure, dopo tutto, quella campana a martello si poteva spiegare in molti modi, e il vecchio finiva per rassicurarsi, dicendosi: "Alla fin fine, nessuno sa del mio arrivo e nessuno conosce il mio nome".

Da qualche momento, di sopra e dietro di lui si andava producendo un lieve rumore. Somigliava al fruscio d'una foglia d'albero agitata. A tutta prima non vi fece caso; poi, siccome il rumore persisteva, e si potrebbe dire insisteva, finì per voltarsi. Non era una foglia, ma un foglio di carta. Il vento stava staccando, al di sopra della sua testa, un largo manifesto appiccicato alla pietra miliare. L'avevano messo là da poco, giacché era ancora umido e offriva buona presa al vento, che si era messo a giocare con lui e a distaccarlo.

Il vecchio aveva scalato la duna dalla parte opposta, cosicché, arrivando, non aveva veduto il manifesto.

Montò sul pilastrino sul quale era seduto e posò la mano sull'angolo del manifesto sollevato dal vento. Il cielo era sereno, i crepuscoli sono lunghi, in giugno; le basi della duna erano tenebrose, ma la sommità era illuminata; una parte del manifesto era stampata a grosse lettere, ed era ancora abbastanza chiaro perché si potesse leggerle.

Lesse questo:

"REPUBBLICA FRANCESE, UNA E INDIVISIBILE "Noi, Prieur della Marna, rappresentante del popolo in missione presso l'esercito delle Coste di Cherbourg, ordiniamo:

"L'ex marchese di Lantenac, visconte di fontenay, sedicente principe di Bretagna, furtivamente sbarcato sulla costa di Granville, è messo fuori della legge. La sua testa è messa a prezzo: a chi lo consegnerà, vivo o morto, sarà pagata la somma di sessantamila lire. Tale somma non sarà pagata in assegnati, ma in oro. Un battaglione dell'esercito delle Coste di Cherbourg sarà immediatamente mandato incontro e in cerca dell'ex marchese di Lantenac. I comuni sono tenuti a prestargli man forte.

"Dato nella casa del comune di Granville, il 2 giugno 1793"

"Firmato: Prieur della Marna"

 

Sotto a quel nome c'era un'altra firma, di carattere molto più piccolo, che non si poteva leggere per via della poca luce che rimaneva.

Il vecchio si tirò il cappello fin sugli occhi, incrociò il mantello da mare sotto il mento e discese rapidamente dalla duna.

Evidentemente, era inutile indugiare su quell'altura rischiarata.

C'era forse già stato troppo a lungo; la sommità della duna era l'unico punto del paesaggio che fosse rimasto visibile.

Quando fu giù, nel buio, rallentò il passo.

Si diresse, secondo l'itinerario che si era tracciato, verso la fattoria, in quanto aveva probabilmente le sue buone ragioni per ritenersi sicuro, da quella parte.

Tutto era deserto. Era l'ora in cui non passa più nessuno.

Dietro un cespuglio, si fermò, si sciolse il mantello, rivoltò la casacca dalla parte villosa, si riannodò al collo il mantello, che era un cencio legato con la corda, e si rimise in via.

C'era chiaro di luna.

Giunse all'incrocio di due strade, dove si rizzava una vecchia croce di sasso. Sul piedistallo della croce si distingueva un quadrato bianco: verosimilmente un manifesto simile a quello che aveva letto poco prima. Il vecchio gli si avvicinò.

- Dove andate? - gli domandò una voce.

Egli si volse.

Là, tra le siepi, c'era un uomo di statura non meno alta della sua, vecchio al pari di lui, come lui dai capelli bianchi, ma ancora più a sbrendoli di lui. Quasi il suo sosia.

Quell'uomo si appoggiava a un lungo bastone.

Egli riprese:

- Dove andate, vi domando?

- Dove sono, innanzitutto? - domandò il vecchio con calma quasi altezzosa.

L'uomo rispose:

- Siete nella signoria di Tanis; io ne sono il mendicante e voi ne siete il signore.

- Io?

- Sì, voi, signor marchese di Lantenac.

 

 

 

4.

IL PITOCCO

 

Il signor marchese di Lantenac (lo chiameremo ormai col suo nome), rispose gravemente:

- Sia. Consegnatemi.

L'uomo proseguì:

- Siamo entrambi in casa nostra, qui; voi nel castello, io nella macchia.

- Finiamola. Fate quel che dovete. Consegnatemi, - disse il marchese.

L'uomo continuò:

- Andavate alla fattoria d'Herbe-en-Pail, non è vero?

- Sì.

- Non andateci.

- Perché?

- Perché ci sono gli azzurri.

- Da quando?

- Da tre giorni.

- Hanno resistito gli abitanti della fattoria e quelli dei casolari?

- No. Hanno aperto tutte le porte.

- Oh! - esclamò il marchese.

L'uomo indicò col dito il tetto della fattoria, che si scorgeva a qualche distanza di là, al di sopra degli alberi.

- Vedete il tetto, signor marchese?

- Sì.- - Vedete quel che c'è sopra?

- Che sventola?

- Sì.

- E' una bandiera.

- Tricolore, - disse l'uomo.

Era l'oggetto che già aveva attirato l'attenzione del marchese dall'alto della duna.

- Non stanno suonando campane a martello, forse?

- Sì.

- E perché mai?

- Per causa vostra, evidentemente.

- Ma non si odono?

- Lo impedisce il vento.

L'uomo continuò:

- Avete visto il vostro manifesto?

- Sì.

- Vi cercano.

E, gettando uno sguardo dalla parte della fattoria, soggiunse:

- C'è un mezzo battaglione, là dentro.

- Di repubblicani?

- Parigini.

- Andiamoci, allora.

E mosse un passo verso la fattoria. L'uomo lo afferrò per un braccio.

- Non andateci.

- E dove volete che vada?

- Venite da me.

Il marchese guardò il mendicante.

- Ascoltate, signor marchese; non è bello, da me, ma è sicuro. Una capanna più bassa d'una cantina. Per pavimento un letto di fuchi; per soffitto un tetto di rami e di erbe. Venite. Alla fattoria sareste fucilato. Da me dormirete. Dovete essere stanco; e domattina gli azzurri si saranno rimessi in marcia. Allora andrete dove vorrete. Il marchese osservava l'uomo.

- Di che partito siete, voi? - gli domandò. - Siete repubblicano?

Siete monarchico?

- Sono un povero, io.

- Né monarchico né repubblicano?

- Non credo.

- Siete per o contro il re?

- Non ho tempo per queste cose.

- Che ne pensate di quanto avviene?

- Non ho di che vivere.

- Eppure venite in mio aiuto.

- Ho visto che eravate fuori della legge. Che cosa è la legge? Si può dunque esserne fuori? Non capisco. E io, sono dentro la legge, io? o sono fuori della legge? Non ne so niente. Significa essere dentro la legge, morire di fame?

- Da quando morite di fame?

- Da che vivo.

- E mi salvate?

- Sì.

- Perché?

- Perché ho detto: "Ecco uno ancora più povero di me. Io ho il diritto di respirare; lui non ce l'ha!".

- E' vero. E mi salvate.

- Senza dubbio. Eccoci fratelli, monsignore. Io chiedo pane, voi chiedete vita. Siamo due mendicanti.

- Ma lo sapete che la mia testa è messa a prezzo?

- Sì.

- Come lo sapete?

- Ho letto il manifesto.

- Sapete leggere ?

- Sì. E anche scrivere. Perché dovrei essere un bruto?

- Allora, dal momento che sapete leggere, e giacché avete letto il manifesto, sapete che chi mi consegnasse guadagnerebbe sessantamila franchi?

- Lo so.

- Non in assegnati.

- Sì, lo so, in oro.

- Lo sapete che sessantamila franchi sono una fortuna?

- Sì.

- E che qualcuno che mi consegnasse farebbe la propria fortuna?

- Sta bene, e dopo?

- La propria fortuna!

- Appunto quello che ho pensato. Vedendovi, mi sono detto: "Quando penso che qualcuno che consegnasse quell'uomo guadagnerebbe sessantamila franchi e farebbe la propria fortuna! Affrettiamoci a nasconderlo".

Il marchese seguì il povero.

Entrarono in un folto. Là era la tana del mendicante. Era una specie di camera che una grossa vecchia quercia aveva lasciato prendere, sul suo, da quell'uomo. Era scavata sotto le sue radici e coperta dai suoi rami. Era buia, bassa, nascosta, invisibile. C'era posto per due.

- Ho previsto che avrei potuto avere un ospite, - disse il mendicante.

Quella specie di alloggio sotterraneo, meno raro, in Bretagna, di quanto non si creda, si chiama, nella lingua del paese, "carnichot"; nome che si applica pure a certi nascondigli praticati nello spessore dei muri.

E' arredata da qualche pignatta, da un giaciglio di paglia o di alghe lavate ed essiccate, da una grossolana coperta di saia e da qualche moccolo di sego, ai quali si accompagna un acciarino e alcuni gambi cavi di acanto, che servono per accenderli.

I due si curvarono, strisciarono un poco, penetrarono nella camera, che le grosse radici dell'albero suddividevano in bizzarri scompartimenti, e si sedettero su un mucchio di alghe secche, che costituivano il letto. L'intervallo tra due radici per dove si entrava, e che fungeva da porta, dava un po' di luce. Era sopraggiunta la notte, ma lo sguardo si adatta al buio, e si finisce sempre per trovare un po' di luce anche nell'ombra. Un riflesso del chiarore lunare imbiancava vagamente l'entrata. C'era in un angolo una brocca d'acqua, una focaccia di grano saraceno e un mucchietto di castagne.

- Ceniamo, - disse il povero.

Si divisero le castagne; il marchese offrì il suo pezzo di biscotto, addentarono la stessa pagnotta di grano saraceno e bevvero uno dopo l'altro dalla brocca.

Conversarono.

Il marchese si mise a interrogare quell'uomo.

- Così, tutto quello che capita, o niente, sono la stessa cosa per voi?

- Su per giù. Voialtri siete signori. Sono faccende vostre.

- Ma insomma, quello che accade...

- Accade lassù.

E il mendicante soggiunse:

- E ci sono cose, poi, che accadono ancora più in alto: il sole che sorge, la luna che cresce o che cala, e sono queste le cose di cui mi occupo io.

Bevve una sorsata alla brocca, e disse:

- Che buona acqua fresca!

E riprese:

- Come trovate quest'acqua, monsignore?

- Come vi chiamate? - domandò il marchese.

- Mi chiamo Tellmarch, e mi chiamano il Pitocco.

- Lo so. Si dice così da queste parti.

- Significa mendicante. Mi chiamano anche il Vecchio. - Proseguì: - Sono quarant'anni che mi chiamano il Vecchio.

- Quarant'anni! Ma eravate giovane, allora.

- Giovane, non sono mai stato. Voi, invece, signor marchese, lo siete sempre. Avete gambe di vent'anni, scalate la grande duna. Io, invece, comincio a non poter più camminare; dopo un quarto di lega sono stanco. Eppure siamo della stessa età; ma i ricchi hanno sopra di noi un vantaggio, quello di mangiare tutti i giorni. Mangiare, mantiene.

Dopo un momento di silenzio, il mendicante continuò:

- Poveri! ricchi! che faccenda terribile. E' questo che produce le catastrofi. O almeno, così pare a me. I poveri vogliono essere ricchi, i ricchi non vogliono essere poveri. Credo che, in fondo, la questione stia tutta qui. Non me ne occupo. Gli avvenimenti sono gli avvenimenti. Io non sto né per il creditore né per il debitore. So che c'è un debito da pagare, e che lo si sta pagando. Ecco tutto. Avrei preferito che non si uccidesse il re, ma mi sarebbe difficile dirne la ragione. Con tutto questo, mi si risponde: "Ma una volta, come vi impiccavano la gente agli alberi, per una inezia!". Toh! io, per una misera fucilata sparata a un capriolo del re, ho visto impiccare un uomo che aveva moglie e sette figliuoli. C'è il suo dire, tanto da una parte che dall'altra.

Tacque ancora; poi soggiunse:

- Capite bene che io non so le cose molto esattamente. Si viene, si va, accadono delle cose. Per me, me ne sto sotto le stelle.

Tellmarch s'interruppe ancora una volta, sovrappensiero; poi continuò:

- Sono un po' un empirico, io, un po' dottore; conosco le erbe, traggo vantaggio dalle piante; i contadini mi vedono tutto attento davanti a nulla, e ciò mi fa prendere per uno stregone. Credono, perché mi vedono sovrappensiero, che io sia sapiente.

- Siete di qui? - domandò il marchese.

- Non ne sono mai uscito.

- Mi conoscete?

- Certo. L'ultima volta che vi ho visto, è stato al tempo della vostra ultima traversata, due anni fa. Siete andato di qui in Inghilterra.

Poco fa, ho scorto un uomo sopra la duna. Un uomo di alta statura.

Sono rari gli uomini alti; la Bretagna è un paese di uomini piccoli.

Ho guardato bene. Avevo letto il manifesto. Ho detto: "Toh!", e quando siete disceso, c'era la luna, vi ho riconosciuto.

- Eppure, io non vi conosco affatto.

- Voi mi avete visto, ma non mi avete veduto.

E Tellmarch il Pitocco soggiunse:

- Ma io vi vedevo, io. Da mendicante a passante, lo sguardo non è il medesimo.

- Vi ho incontrato altre volte, forse?

- Spesso, dal momento che sono il vostro mendicante. Io ero il povero della strada bianca del vostro castello. Dandosi l'occasione mi avete anche fatto l'elemosina; ma chi dà non guarda; chi riceve esamina e osserva. Chi dice mendicante, dice spia. Io, però, sebbene sia spesso triste, cerco di non essere una cattiva spia. Tendevo la mano; voi non vedevate che la mano, e ci gettavate l'elemosina di cui avevo bisogno la mattina per non morire di fame alla sera. Si sta ventiquattr'ore senza mangiare, alle volte. Talvolta un soldo è la vita. Io vi debbo la vita, ve la restituisco.

- E' vero; voi mi salvate.

- Sì, vi salvo, monsignore.

E la voce di Tellmarch si fece seria.

- A una condizione.

- Quale?

- Che non veniate qui per fare del male.

- Vengo qui per fare del bene, - disse il marchese.

- Dormite, - disse il mendicante.

Si coricarono a fianco a fianco sul letto di alghe. Il mendicante si addormentò di colpo. Il marchese, sebbene stanchissimo, rimase qualche tempo immerso nei suoi pensieri; poi, in quell'ombra, guardò il povero, e si coricò. Coricarsi su quel letto, era coricarsi per terra; ne approfittò per appoggiare l'orecchio contro il suolo, e ascoltò.

C'era sotto la terra un sordo ronzio; è risaputo che il suono si propaga nelle profondità del suolo; si udiva il rumore delle campane.

La campana a martello continuava.

Il marchese si addormentò.

 

 

 

5.

FIRMATO: GAUVAIN

 

Quando si risvegliò, era giorno fatto.

Il mendicante era in piedi, non nella tana, perché ritti, lì, non si poteva stare; ma fuori, e sulla soglia. Si appoggiava a un bastone.

Gli batteva in faccia il sole.

- Monsignore, - disse Tellmarch; - al campanile di Tanis sono appena suonate le quattro. Ho udito i quattro rintocchi; dunque, il vento è cambiato, e abbiamo quello di terra. Non odo nessun altro rumore; dunque lo scampanare a martello è cessato. Tutto è tranquillo nella fattoria e nel cascinale d'Herbe-en-Pail. Gli azzurri dormono o se ne sono andati. Il pericolo peggiore è passato; sarà bene separarci. E' l'ora in cui io me ne vado.

Indicò un punto dell'orizzonte.

- Vado da quella parte.

Poi indicò il punto opposto:

- Andatevene da quest'altra, voi.

Il mendicante fece al marchese un grave saluto con la mano. Poi soggiunse, indicando quel che rimaneva della cena:

- Portate con voi delle castagne, se avete fame.

Un momento dopo, era scomparso sotto gli alberi.

Il marchese si alzò e se ne andò dalla parte indicatagli da Tellmarch.

Era l'incantevole ora che la vecchia lingua rustica normanna chiama l'"annunziatrice del giorno". Si udivano cinguettare il cardellino e il passero delle siepi. Il marchese seguì il sentiero che aveva percorso venendo il giorno prima. Uscì dal folto e si ritrovò al crocicchio segnato dalla croce di sasso. Il manifesto c'era sempre, bianco e come giulivo al sole nascente. Si ricordò che in calce al manifesto c'era qualche cosa che non aveva potuto leggere la sera prima per via della piccolezza delle lettere e della poca luce che c'era. Il manifesto terminava infatti, sotto la firma "Prieur della Marna", con queste due righe in carattere minuto:

"Constatata l'identità dell'ex marchese di Lantenac, il medesimo sarà immediatamente passato per le armi. Firmato: Il maggiore comandante la colonna di spedizione, Gauvain".

- Gauvain! - esclamò il marchese.

Si immerse, immobile, in una profonda riflessione, l'occhio fisso sul manifesto, e ripeté:

- Gauvain!

Si rimise in cammino, si volse, guardò la croce, ritornò sui suoi passi e lesse ancora una volta il manifesto.

Poi si allontanò a passi lenti. Chi gli fosse stato vicino, l'avrebbe udito mormorare a mezza voce: "Gauvain!".

Dal fondo dei tratturi incassati dov'egli si ficcava, i tetti della fattoria, che si era lasciata a sinistra, non si vedevano. Rasentava un'altura scoscesa, tutta coperta di giunchi in fiore, della specie chiamata "lungaspina". L'altura aveva per sommità una di quelle prominenze di terra che là si chiamano "hure". Ai piedi dell'altura, lo sguardo si perdeva immediatamente sotto gli alberi. Le foglie erano come imbevute di luce. Tutta la natura denotava la profonda gioia del mattino.

A un tratto, quel paesaggio divenne terribile. Fu come l'esplosione di una imboscata. Una Dio sa quale tromba costituita da grida selvagge e da colpi di fucile si abbatté su quei campi e quei boschi raggianti, e si vide innalzarsi, dalla parte dov'era la fattoria, un grande fumacchio solcato da fiamme chiare, come se il cascinale e la masseria non fossero più che una bica di paglia che ardesse. Fu una cosa subitanea e lugubre, il brusco passaggio dalla calma alla furia, un'esplosione dell'inferno in piena aurora, l'orrore senza transizione. Dalle parti di Herbe-en-Pail si battevano. Il marchese si fermò.

Non c'è nessuno che, in un caso simile, non l'abbia provato: la curiosità è più forte del pericolo. Si vuol sapere, quand'anche ci si dovesse lasciare la pelle. Il marchese salì sull'altura ai cui piedi correva il tratturo incassato. Di lassù si poteva essere scorti, ma si vedeva. Fu sulla "hure" in pochi minuti. Guardò.

C'erano infatti fuoco di fucileria e incendio. Si udivano clamori, si vedeva il fuoco. La fattoria era come il centro di non si sapeva quale catastrofe. Che era? Veniva forse assaltata, la fattoria d'Herbe-en- Pail? Ma da chi? Si trattava di un combattimento? O non era, piuttosto, una esecuzione militare? Gli azzurri, come era loro ordinato da un decreto rivoluzionario, punivano spessissimo, appiccandovi il fuoco, le fattorie e i paesi refrattari. Si incendiavano, per esempio, tutte le fattorie e tutte le cascine che non avevano operato le abbattute d'alberi prescritte dalla legge, e che non avevano praticato, nei folti, passaggi per la cavalleria repubblicana. Così era particolarmente stata punita da poco la parrocchia di Bourgon, vicino a Ernée. Che anche Herbe-en-Pail fosse in quel frangente? Saltava subito all'occhio che nessuno dei passaggi strategici comandati dal decreto era stato praticato nelle macchie e nei recinti di Tanis e d'Herbe-en-Pail. Ne era forse quello il castigo? Era forse arrivato un ordine all'avanguardia che occupava la fattoria? Che facesse parte d'una di quelle colonne di spedizione soprannominate "colonne infernali", quella avanguardia?

Una intricatissima e quanto mai selvaggia boscaglia circondava da ogni parte l'altura in cima alla quale il marchese si era messo in osservazione. Quella boscaglia, che veniva chiamata la selvetta d'Herbe-en-Pail, ma che aveva le dimensioni di un bosco, si stendeva fino alla fattoria, e nascondeva, come tutte le macchie bretoni, una rete di burroni, di sentieri e di tratturi incassati: labirinti in cui gli eserciti repubblicani si smarrivano.

L'esecuzione, se si trattava di una esecuzione, doveva essere stata feroce, giacché fu breve. Come tutte le cose brutali, fu sbrigata in un lampo. L'atrocità delle guerre civili comporta simili azioni selvagge. Mentre il marchese, aggiungendo congettura a congettura, esitante a scendere, esitante a rimanere, ascoltava e spiava, quel fragore di sterminio cessò, o, per meglio dire, si disperse. Il marchese constatò che nel macchione avveniva come lo sparpagliarsi d'un gruppo di gente furibonda ed allegra. Si manifestò, sotto gli alberi, uno spaventevole formicolio. Dalla fattoria, si gettavano nella boscaglia. C'erano tamburi che battevano la carica. Fucilate non se ne sparavano più. Pareva piuttosto una battuta; si sarebbe detto che frugassero, che dessero la caccia, che stanassero; era evidente che cercavano qualcuno. Il rumore era diffuso e profondo; era un putiferio di parole di collera e di trionfo, un rumore composto di clamori. Non vi si distingueva niente. Di colpo, nello stesso modo in cui un lineamento si profila dentro un fumo, qualche cosa in quel tumulto divenne articolato e preciso: era un nome, un nome ripetuto da mille voci, e il marchese udì nettamente questo grido: - Lantenac!

Lantenac! il marchese di Lantenac!

Cercavano lui.

 

 

 

6.

LE PERIPEZIE DELLA GUERRA CIVILE

 

Subito, intorno a lui, e da ogni parte a un tempo, la boscaglia si gremì di fucili, di baionette e di sciabole; nella penombra si rizzò una bandiera tricolore, il grido "Lantenac" gli rimbombò all'orecchio, e ai suoi piedi, attraverso la sterpaglia e i rami, apparvero facce violente.

Il marchese era solo, ritto in vetta all'altura, visibile da ogni punto del bosco. Vedeva sì e no quelli che gridavano il suo nome, ma era veduto da tutti. Se c'erano mille fucili nel bosco, egli era là come un bersaglio. Non distingueva in quel folto altro che pupille ardenti; fisse su di lui.

Si tolse il cappello, ne rialzò la falda; strappò da un giunco una lunga spina secca, si trasse di tasca una coccarda bianca, fissò con la spina la falda rialzata e la coccarda al cocuzzolo del cappello, e, ripiantandosi in testa il cappello medesimo, la cui falda rialzata lasciava chiaramente scorgere la sua fronte e la sua coccarda, disse ad alta voce, parlando a tutta la foresta a un tempo:

- L'uomo che cercate sono io. Io sono il marchese di Lantenac, visconte di fontenay, principe bretone, luogotenente generale degli eserciti del re. Facciamola finita. Puntate! Fuoco!

E, spalancando con ambo le mani il giubbone di pelle di capra, mostrò il petto nudo.

Abbassò gli occhi, cercando con lo sguardo i fucili puntati, e si vide circondato da uomini in ginocchio.

Si alzò un grido immenso: - Viva Lantenac! Viva monsignore! Viva il generale!

Al tempo stesso, cappelli che volavano per aria, sciabole che turbinavano allegramente, e dovunque, nella boscaglia, si vedevano sollevarsi bastoni, in cima ai quali si agitavano berretti di lana scura.

Lo circondava una banda vandeana.

Quella banda, vedendolo, si era inginocchiata.

Narra la leggenda che c'erano, nelle antiche foreste turinge, esseri strani, specie di giganti, più e meno che uomini, i quali erano considerati dai romani come orribili animali, dai germani come incarnazioni divine, e che, a seconda di coloro nei quali s'imbattevano, correvano l'alea di essere sterminati o adorati.

Il marchese provò qualche cosa di simile a quel che doveva provare uno di quegli esseri, quando, aspettandosi di essere trattato come un mostro, si vedeva bruscamente trattato come un dio.

Tutti quegli occhi pieni di temibili lampi si fissavano sul marchese con una specie di selvaggio amore.

Quella folla era armata di fucili, di sciabole, di falci, di zappe, di bastoni; tutti avevano in testa grandi feltri o berretti scuri, con bianche coccarde; si notava su tutti una profusione di rosari e di amuleti. Indossavano larghe brache aperte al ginocchio e casacche di pelo. Avevano uose di cuoio, garretti nudi, capelli lunghi. Taluni avevano un aspetto feroce, tutti l'occhio ingenuo.

Un uomo, giovane e di bell'aspetto, attraversò quella ressa inginocchiata e salì a gran passi verso il marchese. Era, come i contadini, con la testa coperta da un feltro a falda rialzata e a coccarda bianca e vestito d'una casacca di pelo, ma aveva le mani bianche e una fine camicia, e portava sopra la veste una sciarpa di seta bianca, cui era appesa una spada dalla impugnatura indorata.

Giunto sulla prominenza di terra, gettò via il cappello, si tolse la sciarpa, mise un ginocchio a terra, presentò al marchese la sciarpa e la spada, e disse:

- Vi cercavamo infatti, e vi abbiamo trovato. Eccovi la spada del comando. Questi uomini sono vostri, adesso. Io ero loro comandante, salgo di grado: sono soldato vostro. Accettate il nostro omaggio, monsignore. Dateci i vostri ordini, generale.

Poi fece un cenno. Alcuni uomini che portavano una bandiera tricolore uscirono dal bosco. Quegli uomini salirono fino al marchese e deposero la bandiera ai suoi piedi. Era la bandiera che egli aveva poco prima intravista in mezzo agli alberi.

- Generale, - disse il giovane che gli aveva offerto la spada e la sciarpa; - questa è la bandiera che abbiamo, poco fa, presa agli azzurri allogati nella fattoria di Herbe-en-Pail. Io mi chiamo Gavard, monsignore, e fui alle dipendenze del marchese di La Rouarie.

- Sta bene, - disse il marchese.

E calmo e grave si cinse la sciarpa.

Poi sfoderò la spada, e agitandola nuda sopra la propria testa:

- In piedi! - disse. - E viva il re!

Tutti si alzarono.

E si udì nella profondità del bosco un clamore frenetico e trionfante:

"Viva il re! Viva il nostro marchese! Viva Lantenac!".

Il marchese si rivolse a Gavard:

- In quanti siete, dunque?

- Settemila.

E mentre discendevano dall'altura, intanto che i contadini scostavano gli sterpi davanti ai passi del marchese di Lantenac, Gavard proseguì:

- Nulla di più semplice, monsignore. Tutto si spiega in una parola.

Non si aspettava che una scintilla. Il manifesto della repubblica, rivelando la vostra presenza, ha fatto insorgere il paese per il re.

Noi eravamo inoltre stati avvertiti sotto mano dal sindaco di Granville che è dei nostri: lo stesso che salvò l'abate Olivier.

Questa notte si è suonato a martello.

- Per chi?

- Per voi.

- Ah! - disse il marchese.

- Ed eccoci qui, - riprese Gavard.

- E siete in settemila?

- Oggi. Domani saremo quindicimila. Tale è la leva del paese. Quando il signor Enrico di La Rochejaquelin partì per l'esercito cattolico, fu suonato a martello, e in una notte sei parrocchie, Isernay, Corqueux, gli Echaubroignes, gli Aubiers, Saint-Aubin e Nueil gli condussero diecimila uomini. Non si avevano munizioni; furono trovate presso un muratore sessanta libbre di polvere da mina, e il signor di La Rochejaquelin è partito con quella. Eravamo sicuri che dovevate trovarvi qua o là in questa foresta, e vi cercavamo.

- E avete assaltato gli azzurri nella fattoria d'Herbe-en-Pail?

- Il vento aveva impedito loro di udire la campana a martello. Non diffidavano per niente. Quelli della cascina, che sono patriottardi, li avevano ricevuti bene. Stamane, abbiamo investito la fattoria, gli azzurri dormivano, e tutto fu fatto in un momento. Ho un cavallo. Vi degnate di accettarlo, generale?

- Sì.

Un contadino condusse un cavallo bianco bardato alla militare. Il marchese, senza valersi dell'aiuto che gli porgeva Gavard, montò a cavallo.

- Urrah! - gridarono i contadini, ché i gridi inglesi sono molto in auge sulla costa bretone-normanna, in perpetua relazione con le isole della Manica.

Gavard fece il saluto militare e domandò:

- Quale sarà il vostro quartier generale, monsignore?

- Innanzi tutto la foresta di Fougères.

- Una delle vostre sette foreste, marchese.

- Occorre un prete.

- Ne abbiamo uno.

- Chi?

- Il vicario della cappella Erbrée.

- Lo conosco. Ha fatto il viaggio di Jersey.

Un prete uscì dalle file, e disse:

- Tre volte.

Il marchese volse la testa.

- Buongiorno, signor vicario. Fra poco avrete da fare.

- Tanto meglio, signor marchese.

- Avrete gente da confessare. Quelli che vorranno. Non si costringe nessuno.

- Signor marchese, - disse il prete; - Gastone, a Guéménée, costringe i repubblicani a confessarsi.

- E' un parrucchiere, - disse il marchese. - Ma la morte deve essere libera.

Gavard, che si era allontanato per impartire qualche ordine, ritornò.

- Attendo i vostri ordini, generale.

- Innanzi tutto il ritrovo è nella foresta di Fougères. Che tutti si disperdano e vi si rechino.

- L'ordine è già stato dato.

- Non mi avete detto che quelli di Herbe-en-Pail avevano ricevuto bene gli azzurri?

- Sì, generale.

- Avete bruciato la fattoria?

- Sì.

- Avete bruciato il cascinale?

- No.

- Bruciatelo.

- Gli azzurri hanno tentato di difendersi; ma erano centocinquanta e noi eravamo settemila - Che azzurri erano?

- Azzurri di Santerre.

- Quello che ha ordinato ai tamburi di rullare mentre tagliavano la testa del re. E' un battaglione di parigini, allora?

- Un mezzo battaglione.

- Come si chiama?

- Sulla bandiera è scritto: "Battaglione del Berretto Rosso", generale.

- Bestie feroci.

- Che ne dobbiamo fare dei feriti?

- Finiteli.

- Che ne dobbiamo fare dei prigionieri?

- Fucilateli.

- Ce ne sono circa ottanta.

- Fucilateli tutti.

- Ci sono due donne.

- Anche loro.

- Ci sono tre fanciulli.

- Portateli con voi. Si vedrà poi che farne.

E il marchese spronò il cavallo.

 

 

 

7.

NIENTE GRAZIA (PAROLA D'ORDINE DELLA COMUNE) NIENTE QUARTIERE (PAROLA D'ORDINE DEI PRINCIPI)

 

Mentre accadeva questo dalle parti di Tanis, il mendicante se ne era andato verso Crollon. Si era cacciato nei borri, sotto il vasto frascame che non lascia trapelare rumori, disattento da tutto e attento a ogni inezia, come aveva detto egli stesso, piuttosto fantasticone che pensieroso, poiché chi pensa ha una mira, chi fantastica non ne ha; errabondo, ciondolone, sostante a mangiare qua e là un germoglio di acetosa selvatica, a bere alle sorgenti, alzando a tratti la testa a lontani rumori per poi rientrare nel risplendente fascino della natura; offrendo i suoi stracci al sole, udendo forse lo strepito degli uomini, ma prestando ascolto al canto degli uccelli.

Era vecchio e lento. Non poteva spingersi lontano. Come aveva detto al marchese di Lantenac, un quarto di lega lo stancava. Compì un breve giro dalla parte della Croix-Avranchin, e, quando ne ritornò, era già scesa la sera.

Un po' al di là di Macey, il sentiero che seguiva lo condusse su una specie di culmine sgombro d'alberi, di dove si vede molto lontano e di dove si scopre tutto l'orizzonte dall'ovest fino al mare.

Una nuvola di fumo attrasse la sua attenzione.

Nulla di più dolce di una nuvola di fumo, e nulla di più spaventevole.

Vi sono nuvole di fumo tranquille, e vi sono nuvole di fumo scellerate. Una nuvola di fumo, lo spessore e il colore di una nuvola di fumo, costituisce tutta la differenza che corre tra la pace e la guerra, tra la fraternità e l'odio, tra l'ospitalità e il sepolcro, tra la vita e la morte. Una nuvola di fumo che sale tra gli alberi può significare quanto c'è di più delizioso al mondo, il focolare, o ciò che c'è di più spaventoso, l'incendio; e tutta la felicità come tutta la sventura dell'uomo, talvolta, stanno dentro a quella cosa sparsa al vento.

La nuvola di fumo guardata da Tellmarch era inquietante.

Era nera, con subitanei bagliori rossastri, come se il braciere dal quale scaturiva avesse delle intermittenze e finisse di spegnersi, e si alzava al di sopra d'Herbe-en-Pail.

Tellmarch affrettò il passo e si diresse verso quel fumo. Era quanto mai stanco, ma voleva sapere di che si trattasse.

Giunse alla sommità d'una costa cui erano addossati il cascinale e la fattoria.

Fattoria e cascinale erano scomparsi.

Un mucchio di catapecchie che ardevano: Herbe-en-Pail era tutta là.

Se c'è una cosa che stringe il cuore a vederla, più dell'incendio di un palazzo, è l'incendio di una capanna. Una capanna in fiamme è pietosa. La devastazione che si abbatte sulla miseria, l'avvoltoio che si accanisce contro il lombrico: c'è in quei fatti un non so qual controsenso che stringe il cuore.

Se si presta fede alla leggenda biblica, la creatura umana che guarda un incendio resta mutata in statua; per un istante, Tellmarch fu appunto questa statua. Lo spettacolo che aveva sotto gli occhi lo rese immobile. Quella distruzione si compiva in silenzio. Non un grido si elevava, non un sospiro umano si confondeva con quella nuvola di fumo; quella fornace manipolava e terminava di divorare quel villaggio senza che si udisse altro rumore all'infuori dello scoppiettio delle travature e del crepitio delle stoppie. A tratti, il fumo si squarciava, i tetti sfondati lasciavano scorgere le camere spalancate, il braciere mostrava tutti i suoi rubini, e cenci scarlatti, e poveri vecchi mobili color porpora si rizzavano nei vani vermigli. Tellmarch aveva così il sinistro abbacinamento del disastro.

Alcuni alberi d'un castagneto contiguo alle case avevano preso fuoco e vampeggiavano.

Tellmarch ascoltava, cercando di udire una voce, una chiamata, un clamore. Nulla si muoveva, all'infuori delle fiamme, tutto taceva, salvo l'incendio. Erano dunque fuggiti tutti quanti?

Dov'era tutta la gente viva e laboriosa di Herbe-en-Pail? Che ne era stato di tutto quel piccolo popolo?

Tellmarch discese la pendice.

Aveva davanti a sé un funebre enigma. Gli si andava avvicinando senza fretta con l'occhio fisso. Procedeva verso quella rovina con la lentezza di un'ombra; in quella tomba, si sentiva fantasma.

Arrivò a quella che era stata la porta della fattoria e guardò nel cortile, che, adesso, non aveva più muri di sorta e si confondeva col villaggio che le si aggruppava intorno.

Quel che aveva visto non era niente. Non aveva ancora scorto altro che il terribile; ora gli apparve l'orribile.

In mezzo al cortile c'era un monticello nero, vagamente modellato da un lato dalla fiamma, dall'altro dalla luna; quel monticello era un mucchio d'uomini, quegli uomini erano morti.

Intorno a quel mucchio si allargava una grande pozzanghera che fumava un poco; l'incendio si rifletteva in quella pozzanghera; ma questa non aveva bisogno del fuoco per esser rossa: era sangue.

Tellmarch si avvicinò. Si mise a esaminare, uno dopo l'altro, quei corpi giacenti: erano tutti cadaveri.

La luna illuminava, l'incendio pure.

Quei cadaveri erano soldati. Tutti erano a piedi nudi; erano loro state portate via le scarpe. Erano state prese loro anche le armi; avevano ancora le loro uniformi, che erano azzurre; si distinguevano qua e là, nell'ammonticchiamento delle membra e delle teste, cappelli forati, con coccarde tricolori. Erano repubblicani. Erano quei parigini che, ancora il giorno prima, erano là pieni di vita ed erano accantonati nella fattoria d'Herbe-en-Pail. Quegli uomini erano stati suppliziati, come dava a vedere la caduta simmetrica dei loro corpi; erano stati fulminati sul posto, e con cura. Erano morti tutti quanti.

Non un rantolo usciva dal mucchio.

Tellmarch passò quella rivista di cadaveri senza ometterne neppure uno; tutti erano crivellati di pallottole.

Quelli che li avevano fucilati, avendo probabilmente fretta di recarsi altrove, non si erano concesso il tempo di seppellirli.

Stava già per ritirarsi, quando i suoi occhi caddero su un basso muricciolo che era nel cortile, e scorse quattro piedi che sporgevano dall'angolo di quel muro.

Quei piedi erano calzati; erano più piccoli degli altri; Tellmarch si avvicinò. Erano piedi di donna.

Due donne giacevano a fianco a fianco dietro il muricciolo, fucilate anch'esse.

Tellmarch si chinò su di loro. Una di quelle donne indossava una specie di uniforme; accanto a lei era un bariletto sventrato e vuoto:

era una vivandiera. Aveva quattro pallottole nella testa. Era morta.

Tellmarch esaminò l'altra. Era una contadina. Era livida e sbalordita.

Aveva gli occhi chiusi. Nessuna ferita alla testa. Le sue vesti, ridotte a brandelli indubbiamente dalle sue fatiche, cadendo si erano dischiuse e lasciavano scorgere un torso seminudo. Tellmarch le aprì del tutto e vide a una spalla la tonda ferita d'una pallottola: aveva la clavicola spezzata. Guardò il seno livido.

- Madre e nutrice, - mormorò.

La toccò. Non era fredda.

Non aveva altra ferita all'infuori della clavicola spezzata e la piaga alla spalla.

Le posò la mano sul cuore e avvertì un debole battito. Non era morta.

Tellmarch si rizzò in piedi, e gridò con voce terribile:

- Non c'è nessuno, qui. dunque?

- Sei tu, Pitocco? - rispose una voce, così bassa che si udiva appena.

Contemporaneamente, una testa si sporse fuori da un buco tra le macerie.

Poi un'altra faccia apparve da un'altra stamberga.

Erano due contadini che si erano nascosti, i soli che sopravvivessero.

La nota voce del Pitocco li aveva rassicurati e fatti uscire dai nascondigli dove si erano appiattati.

Mossero verso Tellmarch tremando ancora a verga a verga.

Tellmarch aveva potuto gridare, ma non poteva parlare. Così sono le emozioni profonde.

Indicò loro col dito la donna stesa ai suoi piedi.

- E' ancora viva, forse? - domandò uno dei contadini.

Tellmarch annuì con la testa.

- E l'altra donna, è viva anche lei? - domandò l'altro contadino.

Tellmarch fece cenno che no.

Il contadino che si era mostrato per primo riprese:

- Tutti morti, gli altri, vero? L'ho visto. Ero nella mia cantina.

Come si ringrazia Dio, in quei momenti, di non avere famiglia! La mia casa bruciava. Signore Gesù! hanno ucciso tutti. Questa donna aveva dei bambini. Tre. Piccoli. I bambini gridavano: "Mamma!". La madre gridava: "Bimbi miei!". Hanno ucciso la madre e condotto via i bambini. E io l'ho visto, mio Dio! mio Dio! mio Dio! Quelli che hanno massacrato tutti quanti se ne sono andati. Erano contenti. Hanno condotto via i piccini e uccisa la madre. Ma lei non è morta, vero?

non è morta? Di' un po', Pitocco, credi che la potrai salvare? Vuoi che ti aiutiamo a portarla nel tuo buco?

Tellmarch fece cenno di sì.

Il bosco confinava con la fattoria. In breve ebbero fatto una barella con rami e felci. Collocarono sulla barella la donna sempre immobile, e si avviarono nella boscaglia, i due contadini portando la barella, uno davanti, l'altro di dietro, e Tellmarch sostenendo il braccio della donna e tastandole il polso.

Così camminando i due contadini ciarlavano, e, al di sopra della donna insanguinata di cui la luna rischiarava il pallido volto, si scambiavano esclamazioni di sgomento:

- Ammazzare tutti!

- Bruciare ogni cosa!

- Ah! Signore mio Iddio! Si sarà gente a questo modo, adesso?

- Chi l'ha voluto, è stato quel vecchio alto.

- Sì, chi comandava era lui.

- Non l'ho visto quando hanno fucilato. Era presente?

- No. Era andato via. Ma non importa; tutto fu fatto per ordine suo.

- E' stato lui a far tutto, allora.

- Aveva detto: "Ammazzate! bruciate! niente quartiere!".

- E' un marchese.

- Sì, visto che è il nostro marchese.

- Come si chiama, dunque?

- Il signore di Lantenac.

Tellmarch alzò gli occhi al cielo e mormorò fra i denti:

- Se lo avessi saputo

 

 

 

PARTE SECONDA - A PARIGI

 

LIBRO PRIMO

CIMOURDAIN

 

1.

LE STRADE DI PARIGI A QUEL TEMPO

 

Si viveva in pubblico; si mangiava su tavole apparecchiate fuori dell'uscio; le donne, sedute sulle gradinate delle chiese, facevano filacce cantando la "Marsigliese"; il parco Monceau e il Lussemburgo erano piazze d'armi; a ogni crocevia c'erano armaioli che lavoravano a tutto andare, fabbricando fucili sotto gli occhi dei passanti, che battevano le mani; sulle bocche di tutti, non si udivano che queste parole: "Pazienza. Siamo in tempo di rivoluzione!". Tutti sorridevano eroicamente. Tutti andavano a teatro come ad Atene durante la guerra del Peloponneso; sulle cantonate si leggevano manifesti di questo tenore: "L'assedio di Thionville" - "La madre di famiglia salvata dalle fiamme" - "Il circolo degli Spensierati" - "Giovanna, la maggiore delle papesse" - "I filosofi soldati" - "L'arte di amare al paese". I tedeschi erano alle porte; correva voce che il re di Prussia avesse fatto prenotare alcuni palchi al teatro dell'Opera. Tutto era spaventevole e nessuno era spaventato. La tenebrosa legge dei sospetti, delitto di Merlin di Douai, rendeva visibile la ghigliottina al di sopra di ogni testa. Un procuratore, chiamato Séran, denunciato, aspettava che andassero ad arrestarlo, in veste da camera e in pantofole, suonando il flauto alla finestra. Nessuno pareva aver tempo. Tutti si affrettavano. Non un cappello che non avesse una coccarda. Le donne dicevano: "Siamo belle sotto il berretto rosso".

Parigi sembrava tutta un sol trasloco. I negozi dei rigattieri erano ingombri di corone, di mitrie, di scettri di legno dorato e di gigli, spoglie delle case reali. Era la demolizione della monarchia in marcia. Si vedevano presso gli straccivendoli cappe e rocchetti in vendita a "qualunque prezzo". Ai Porcherons e da Ramponneau, uomini imbaccuccati in cotte e stole, in groppa a somari bardati con pianete, si facevano mescere il vino dell'osteria nei cibori delle cattedrali.

In via Saint-Jacques, selciatori a piedi nudi fermavano la carretta d'un facchino che vendeva scarpe, si quotavano un tanto a testa e acquistavano quindici paia di scarpe, che mandavano alla Convenzione per i nostri soldati. I busti di Franklin, di Rousseau, di Bruto e, bisogna aggiungere, di Marat, abbondavano; al di sotto d'uno di quei busti del Marat in via Cloche-Perce, era appesa sotto vetro, in una cornice di legno nero, una requisitoria contro Molouet con fatti a riprova e, in margine, queste due righe: "Questi particolari mi sono stati forniti dall'amante di Silvano Bailly, buon patriota, che mi usa qualche bontà. - Firmato: Marat". Sulla piazza del Palazzo Reale, l'iscrizione della fontana: "quantos effundit in usus!" [A quanto grandi utilità s'effonde!] era nascosta da due grandi tele a tempera, rappresentanti, l'una Cahier de Gerville in atto di denunciare all'Assemblea nazionale il segno di riconoscimento dei "chiffonnistes" di Arles, l'altra Luigi Sedicesimo ricondotto da Varennes nella sua reale carrozza, e sotto questa carrozza una tavola legata con delle corde, che reggeva alle due estremità due granatieri con la baionetta inastata.

Dei grandi negozi, pochi erano aperti: mercerie e chincaglierie ambulanti circolavano su carrelli trascinati da donne, illuminati da candele che sgocciolavano il sego sulle mercanzie; botteghe all'aria aperta erano esercite da ex monache in bionda parrucca; una rammendatrice, che aggiustava calze in uno sgabuzzino, era una contessa; una sarta era una marchesa; la signora di Boufflers abitava una soffitta di dove scorgeva il suo palazzo. Dovunque correvano strilloni, che offrivano "fogli-notizie". Coloro che nascondevano il mento nella cravatta si chiamavano "scrofolosi". Pullulavano i cantatori ambulanti. La folla fischiava il Pitou, scrittore di canzoni monarchiche, che del resto era un coraggioso, giacché fu arrestato ventidue volte, e fu tradotto davanti al tribunale rivoluzionario per essersi battuto il fondo delle reni pronunciando il vocabolo "civismo". Vedendo la propria testa in pericolo, esclamò: "Ma il colpevole non è la mia testa, è proprio l'opposto!", il che fece ridere i giudici e lo salvò. Quel Pitou scherniva la moda dei nomi greci e latini; la sua canzone favorita si riferiva a un ciabattino, da lui chiamato Cujus, e del quale chiamava Cujusdam la moglie.

Dovunque si ballava la carmagnola; però, non si diceva "il cavaliere e la dama", si diceva "il cittadino e la cittadina". Si ballava nei chiostri in rovina, con lampioni sull'altare, con quattro candele rette da due bastoni in croce appesi alla volta, e con le tombe sotto i piedi di chi ballava. La gente indossava marsine azzurre, da tiranno. C'erano spille da camicia "berretto della libertà", fatte di pietruzze bianche, turchine e rosse. Via Richelieu si chiamava via della Legge; il Faubourg Saint-Antoine si chiamava Faubourg della Gloria; sulla piazza della Bastiglia sorgeva una statua della Natura.

Noti passanti venivano mostrati a dito da tutti: lo Chatelet, il Didier, il Nicolas e il Guarnier-Delaunay, che vegliavano alla porta del falegname Duplay (1), Voullant che non mancava un giorno di assistere al lavoro della ghigliottina e seguiva le carrettate di condannati, chiamando quell'usanza "andare alla messa rossa", Montflabert, giurato rivoluzionario e marchese, che si faceva chiamare "Dieci Agosto". Si guardavano sfilare gli allievi della Scuola militare, qualificati dai decreti della Convenzione "aspiranti alla scuola di Marte", e dal popolo "paggi di Robespierre". Si leggevano i proclami del Fréron, denunciante i sospetti del delitto di "botteghismo". I "moscardini", assembrati alle porte dei municipi, sbeffeggiavano i matrimoni civili; si ammassavano al passaggio della sposa e dello sposo e dicevano: "Sposi "municipaliter"". Agli Invalidi, le statue dei santi e dei re avevano in testa berretti frigi. Si giocava a carte sui pilastrini dei crocicchi; i mazzi di carte erano anch'essi in piena rivoluzione: i re erano sostituiti dai geni, le donne dalle libertà, i fanti dalle uguaglianze e gli assi dalle leggi. Si vangavano i pubblici giardini; alle Tuileries lavorava l'aratro. A tutto questo era confuso, specialmente nei partiti sopraffatti, una certa qual altezzosa sazietà di vivere. Un uomo scriveva a Fouquier-Tinville: "Abbiate la bontà di liberarmi dalla vita. Eccovi il mio indirizzo". Champcenetz veniva arrestato per aver esclamato in pieno Palazzo Reale: "A quando la rivoluzione in Turchia?

Vorrei vedere la repubblica alla Porta!". Giornali dovunque. Garzoni parrucchieri arricciavano in pubblico parrucche da donna, mentre il padrone leggeva ad alta voce il "Monitore"; altri commentavano in mezzo a capannelli di gente, con gran dovizia di gesti, il giornale "Intendiamoci", di Dubois-Crancé, o la "Trombetta del padre Bellerose". Si dava il caso che i barbieri fossero al tempo stesso salumieri, e allora si vedevano prosciutti e salsicciotti pendere a fianco d'un manichino dai capelli d'oro. C'erano negozianti che vendevano sulla pubblica via "vini di emigrati"; uno offriva vini di cinquantadue tipi diversi; altri barattavano pendole foggiate a mo' di lira e sofà del tipo "alla duchessa"; un parrucchiere ostentava questa insegna: "Io rado il clero, pettino la nobiltà, accomodo il terzo stato". La gente andava a farsi fare il gioco delle carte da Martin, al numero 173 di via d'Angiò, già Delfina. Mancava il pane; mancava il carbone; mancava il sapone; si vedevano passare mandrie di vacche da latte provenienti dalle province. Alla Vallée, si vendeva l'agnello a quindici franchi la libbra. Un manifesto della Comune assegnava a ogni bocca una libbra di carne per decade. Alla porta dei negozi si faceva la coda, ed è rimasta leggendaria quella che andava dalla bottega d'un droghiere di via Petit-Carreau fino a metà della via Montorgueil. Fare la coda si diceva "tenere la corda", per via d'una lunga fune che prendevano in mano, uno dopo l'altro, quelli che si mettevano in fila.

Le donne, in tanta miseria, erano coraggiose e dolci. Trascorrevano le notti ad attendere che venisse la loro volta d'entrare dal fornaio.

Gli espedienti riuscivano bene, alla rivoluzione; essa alleviava quella angoscia senza limiti con due mezzi pericolosi: l'assegnato e il calmiere; l'assegnato era la leva, il calmiere era il fulcro. Tale empirismo salvò la Francia. Il nemico, tanto quello di Coblenza quanto quello di Londra, speculava sull'assegnato. Andavano e venivano donnine allegre, che offrivano lavanda, giarrettiere e catenelle, e speculavano; c'erano gli speculatori del Perron di via Vivienne, dalle scarpe infangate, dai capelli unti e dal berretto di pelo a coda di volpe, e c'erano quelli di via di Valois, stivaletti lucidi, lo stuzzicadenti in bocca, cappello peloso in testa, che le donnine allegre trattavano familiarmente. Il popolo dava loro la caccia, come ai ladri, che i monarchici chiamavano "cittadini attivi". Pochissimi furti, del resto. Feroce miseria e stoica probità. Gli straccioni e i morti di fame passavano davanti alle vetrine dei gioiellieri di Palazzo Uguaglianza con gli occhi gravemente abbassati. In una visita domiciliare operata dalla Sezione Antonio in casa di Beaumarchais, una donna, in giardino, colse un fiore: il popolo la schiaffeggiò. La legna costava quattrocento franchi d'argento alla carrettata; si vedeva gente, per la strada, che segava il legname del loro letto.

D'inverno, le fontane erano gelate; l'acqua costava venti soldi al secchio; tutti si costituivano portatori d'acqua. Il luigi d'oro valeva tremilanovecentocinquanta franchi. Una corsa in carrozza da piazza costava cinquecento franchi. Dopo una giornata di corse si udiva questo dialogo: "Quanto vi debbo, cocchiere?". "Seimila lire".

Un'erbivendola vendeva per ventimila franchi al giorno. Un mendicante diceva:

"Aiutatemi, per carità! Mi mancano duecentotrenta lire per pagarmi le scarpe". All'imbocco dei ponti, si vedevano colossi scolpiti e dipinti da David, che Mercier insultava chiamandoli "enormi pulcinella di legno". Quei colossi rappresentavano il Federalismo e la Coalizione atterrati. Nessuna debolezza in quel popolo. La severa gioia di averla finita con i troni. I volontari affluivano, offrendo i loro petti.

Ogni strada dava un battaglione. Le bandiere dei distretti andavano e venivano, ciascuna col suo motto. Su quella del distretto dei Cappuccini si leggeva: "Nessuno ci farà la barba". Su un'altra: "Non più nobiltà, se non nel cuore". Su tutti i muri manifesti grandi, piccoli, bianchi, gialli, verdi, rossi, stampati, manoscritti sui quali si leggeva questo grido: "Viva la Repubblica!". I bimbi balbettavano: "Ça ira!".

Questi bimbi erano l'immenso avvenire.

Con l'andar del tempo, alla città tragica succedette la città cinica; le strade di Parigi hanno avuto due aspetti rivoluzionari nettamente distinti tra di loro, prima e dopo il 9 termidoro; la Parigi di Saint- Just lasciò il posto alla Parigi di Tallien. Sono le continue antitesi di Dio, queste: immediatamente dopo il Sinai apparve la Courtille (2).

Un accesso di follia pubblica, è cosa che si verifica. Si era già visto ottant'anni prima. Si esce da Luigi Quattordicesimo come si esce da Robespierre: con un gran bisogno di respirare. Da ciò la Reggenza, che apre il secolo, e il Direttorio, che lo conclude. Due saturnali dopo due terrorismi. La Francia se la svigna fuori del chiostro puritano come fuori di quello monarchico con la gioia di una nazione in vacanza.

Dopo il 9 termidoro, Parigi fu grandiosa d'un gaudio fuori luogo.

Traboccò una gioia malsana. Alla frenesia di morire tenne dietro la frenesia di vivere, e la grandezza si eclissò. Si ebbe un Trimalcione che si chiamò Grimod di La Reynière, si ebbe l'"Almanacco dei Ghiottoni". Si pranzò, nei mezzanini del Palazzo Reale, al frastuono delle fanfare, con orchestre di donne che battevano il tamburo e suonavano la trombetta; regnò, archetto in pugno, il direttore d'orchestra; si cenò, da Méot, all'"orientale", in mezzo a incensieri pieni di profumi. Il pittore Boze dipingeva le sue figliole, innocenti e deliziose testine di sedici anni, da "ghigliottinate", vale a dire scollacciate e con le camicie rosse. Alle violente danze nelle chiese in rovina tennero dietro i balli di Ruggieri, di Luquet, di Wenzel, di Mauduit, della Montansier; alle gravi cittadine che facevano filacce tennero dietro le sultane, le selvagge, le ninfe; ai piedi scalzi, coperti di sangue, di fango e di polvere, dei soldati, tennero dietro i piedi nudi delle donne, ornati di diamanti; insieme con l'impudicizia, fece la sua ricomparsa l'improbità; ci furono, in alto, i fornitori e, in basso, i ladruncoli; Parigi fu gremita da un formicolio di ladri, e ciascuno dovette vegliare sul suo "luc", che è quanto dire sul suo portafoglio. Uno dei passatempi, era quello di andare a vedere, in piazza del Palazzo di Giustizia, le ladre messe alla berlina: si era costretti a legar loro le gonne. All'uscita dai teatri, i monelli offrivano carrozzelle dicendo: "C'è posto per due, cittadino e cittadina". Non si strillava più il "Vecchio cordigliere" e l'"Amico del popolo", ma si strillava la "Lettera di Pulcinella" e la "Petizione dei monelli"; il marchese De Sade presiedeva la sezione delle Picche, in piazza Vendôme. La reazione era gioviale e feroce; i "Dragoni della Libertà" del '92 rinascevano sotto il nome di "Cavalieri del Pugnale". Sul palcoscenico, frattanto, si concretò il tipo di Jocrisse. Si ebbero le "meravigliose" e, al di là delle meravigliose, le "inconcepibili"; si giurò sulla propria "paole victimée" e sulla propria "paole verte"; si indietreggiò da Mirabeau fino al Bobèche (3). Parigi va e viene in questo modo; è l'enorme pendolo della civiltà; tocca a volta a volta l'uno e l'altro polo, le Termopili e Gomorra. Dopo il '93, la rivoluzione attraversò una singolare eclissi; il secolo parve dimenticare di portare a termine ciò che aveva cominciato; s'interpose una non si sapeva qual orgia, occupò il primo piano, ricacciò nel secondo la spaventosa apocalisse, velò la smisurata visione e, dopo lo spavento, scoppiò a ridere. La tragedia scomparve nella parodia, e in fondo all'orizzonte carnascialeschi vapori cancellarono vagamente Medusa.

Ma nel '93, l'anno in cui ci troviamo, le vie di Parigi avevano ancora tutto l'aspetto grandioso e selvaggio degli inizi. Avevano i loro oratori, il Varlet che portava in giro una baracca montata su ruote dall'alto della quale arringava i passanti; avevano i loro eroi, uno dei quali si chiamava "il capitano dei bastoni ferrati"; avevano i loro favoriti, Guffroy, autore del libello "Rougiff". Di queste popolarità, ve ne erano alcune malefiche; altre erano sane. Una fra tutte era onesta e fatale: quella di Cimourdain.

 

 

 

NOTE:

 

  1. Maurizio Duplay, falegname parigino, era il padrone di casa di Robespierre.
  2. La Courtille: quartiere di Parigi, luogo di divertimenti.
  3. Antoine Mardelard, detto Bobèche; comico del tempo dell'Impero e della Restaurazione.

 

 

 

2.

CIMOURDAIN

 

Cimourdain era una coscienza pura, ma tetra. Aveva in sé l'assoluto.

Era stato prete, il che è grave. L'uomo può, come il cielo, avere una serenità nera; basta qualche cosa che faccia in lui la notte. Il sacerdozio aveva fatto la notte in Cimourdain. Chi è stato prete, lo è sempre.

Ciò che fa in noi la notte può lasciare in noi le stelle. Cimourdain era pieno di virtù e di verità, che però brillavano nelle tenebre.

La sua storia era detta in breve. Era stato curato di paese e precettore in una grande famiglia, poi aveva avuto una piccola eredità, e si era reso indipendente.

Era soprattutto un ostinato. Si valeva della meditazione come ci si vale d'una tenaglia; non si riteneva in diritto di abbandonare un'idea che quando ne era venuto a capo; pensava con accanimento. Conosceva tutte le lingue d'Europa e un po' le altre; studiava continuamente, il che lo aiutava a mantenere la sua castità; ma non c'è nulla di più pericoloso d'una simile resistenza.

Prete, egli aveva, per orgoglio, caso o altezza d'animo, osservato i suoi voti; ma la sua fede non aveva potuto conservarla. La scienza l'aveva demolita. Il dogma, in lui, era come svanito. Allora, esaminandosi, si era sentito come mutilato, e non potendosi spretare, aveva lavorato a rifarsi uomo. Ma in modo austero. Gli avevano tolto la famiglia, aveva adottato la patria; gli avevano rifiutato una donna, aveva sposato l'umanità. Tale enorme pienezza, in fondo, non è che il vuoto.

I suoi genitori, contadini, avevano voluto, facendolo prete, farlo uscire dal popolo; lui vi era rientrato.

E vi era rientrato appassionatamente. Guardava i sofferenti con una tenerezza temibile. Da prete, era diventato filosofo, e da filosofo atleta. Luigi Quindicesimo era ancora vivo, che già Cimourdain si sentiva confusamente repubblicano. Di quale repubblica? Della repubblica di Platone, forse, e forse anche della repubblica di Dracone.

Gli era stato proibito di amare; egli si era messo a odiare. Odiava la menzogna, la monarchia, la teocrazia, la sua veste da prete; odiava il presente, e chiamava a grandi grida l'avvenire; lo presentiva, lo intravedeva in anticipo, lo indovinava spaventevole e magnifico; concepiva, a scioglimento della compassionevole miseria umana, alcunché di simile a un vendicatore, che sarebbe stato un liberatore.

Adorava da lontano la catastrofe.

Nel 1789 questa catastrofe era sopravvenuta e l'aveva trovato pronto.

Cimourdain si era gettato in quel grande rinnovamento umano con logica, che è quanto dire, per una mentalità della sua tempra, inesorabilmente. La logica non si intenerisce. Aveva vissuto i grandi anni rivoluzionari, e aveva, a ciascuno di quei soffi, trasalito: '89, la caduta della Bastiglia, la fine del supplizio dei popoli; '90, il 19 giugno, la fine del feudalesimo; '91, Varennes, la fine della regalità; '92, l'avvento della repubblica. Aveva veduto spuntare la rivoluzione, né era uomo da aver timore di quella gigantessa; quella crescita di ogni cosa l'aveva anzi vivificato; e, sebbene già quasi vecchio - aveva cinquant'anni, e un prete invecchia più rapidamente d'un altro uomo - si era messo a crescere, anche lui. Aveva, di anno in anno, guardato ingrandire gli avvenimenti, ed era ingrandito al pari di essi. Aveva temuto, a tutta prima, che la rivoluzione abortisse, la osservava; essa aveva dalla sua la ragione e il diritto; egli esigeva che avesse il successo, e via via che essa spaventava gli altri, egli si sentiva rassicurato. Voleva che quella Minerva coronata dalle stelle dell'avvenire, fosse anche Pallade, e avesse per scudo la maschera anguicrinita (1). Voleva che il divino suo occhio potesse al bisogno gettare sui demoni l'infernale bagliore e rendere loro terrore per terrore.

Era così arrivato al '93.

Il '93 è la guerra dell'Europa contro la Francia e della Francia contro Parigi. E che cosa è la rivoluzione? La vittoria della Francia sull'Europa e di Parigi sulla Francia. Da ciò l'immensità di quello spaventevole minuto, '93, più grande di tutto il resto del secolo.

Nulla di più tragico dell'Europa che attacca la Francia e della Francia che attacca Parigi. Dramma che ha le proporzioni di una epopea.

Il '93 è un anno intenso. L'uragano vi si scatena in tutta la sua collera e in tutta la sua grandezza. Cimourdain vi si sentiva a suo agio. Quell'ambiente forsennato, selvaggio e splendido si addiceva all'apertura delle sue ali. Quell'uomo aveva, come l'aquila di mare, una profonda calma interiore, congiunta al gusto del rischio all'esterno. Certe nature alate, selvatiche e tranquille, sono fatte per i grandi venti. Oh, se esistono le anime da tempesta!

Aveva una pietà tutta particolare, riservata unicamente agli sventurati. Davanti a quella specie di sofferenza che mette orrore, egli si sacrificava. Nulla gli ripugnava. Il suo genere di bontà era quello. Era orridamente, e divinamente, soccorrevole. Cercava le ulcere per baciarle. Le belle azioni laide a vedersi sono le più difficili da compiere: egli le preferiva. Un giorno, all'ospedale, un uomo stava per morire, soffocato da un tumore alla gola, ascesso fetido, spaventevole, forse contagioso, che si sarebbe dovuto vuotare immediatamente. Cimourdain era presente; applicò la bocca sul tumore, succhiò, sputando ogni volta che ne aveva piena la bocca, vuotò l'ascesso e salvò l'uomo. Siccome, a quel tempo, portava ancora la veste da prete, qualcuno disse: "Se faceste la stessa cosa al re, sareste vescovo". "Al re, non la farei", rispose Cimourdain. L'atto e la risposta lo resero popolare, nei quartieri poveri di Parigi.

Egli faceva pertanto tutto quanto voleva di coloro che soffrono, che piangono e che minacciano. Al tempo delle escandescenze contro gli accaparratori, escandescenze tanto fertili di equivoci, fu Cimourdain, che, con una parola, impedì il saccheggio di una barca carica di sapone nella darsena San Nicola, e che disperse i furibondi assembramenti che fermavano le carrozze alla barriera San Lazzaro.

Fu lui che, dieci giorni dopo il 10 agosto, spinse il popolo ad abbattere le statue dei re. Cadendo, esse uccisero. In piazza Vendôme, una donna, certa Regina Violet, fu schiacciata da Luigi Quattordicesimo, al collo del quale aveva messo una fune che essa tirava. Quella statua di Luigi Quattordicesimo era stata ritta cento anni; l'avevano eretta il 12 agosto 1692; fu rovesciata il 12 agosto 1792. In piazza della Concordia, un certo Guinguerlot, per aver chiamato canaglie i demolitori, fu accoppato sul piedistallo di Luigi Quindicesimo. La statua fu fatta a pezzi. Tempo dopo se ne fecero soldi. Solo il braccio sfuggì; il braccio destro, che Luigi Quindicesimo stendeva con gesto da imperatore romano. Fu dietro domanda di Cimourdain che il popolo offrì e una deputazione recò quel braccio a Latude, l'uomo che era stato sotterrato per trentasette anni alla Bastiglia. Chi avrebbe detto a Latude, quando imputridiva vivo, con la gogna al collo e la catena sul ventre, in fondo a quella prigione, per ordine di quel re, la cui statua dominava Parigi, che quella prigione sarebbe caduta, che quella statua sarebbe caduta, che egli sarebbe uscito dal sepolcro, e che la monarchia vi sarebbe entrata, che lui, il prigioniero, sarebbe stato il possessore di quella mano di bronzo che aveva firmato il suo ordine d'arresto, e che di quel re di fango non sarebbe rimasto altro che quel braccio di bronzo?

Cimourdain era di quegli uomini che hanno in sé una voce, e l'ascoltano. Tali uomini sembrano distratti. Niente affatto: sono attenti.

Cimourdain sapeva tutto e ignorava ogni cosa. Sapeva tutto quanto ha attinenza con la scienza, e ignorava tutto ciò che si riferisce alla vita. Da ciò la sua rigidezza. Aveva gli occhi bendati come la Temi di Omero. Possedeva la cieca certezza della freccia, che non vede che il segno, e ci va. Nulla di più temibile, nelle rivoluzioni, della linea retta. Cimourdain procedeva diritto davanti a sé, fatale.

Egli credeva che, nelle genesi sociali, il terreno solido fosse il punto estremo; errore proprio agli spiriti che sostituiscono la ragione con la logica. Andava oltre la Convenzione; andava oltre la Comune; era del Vescovado.

L'associazione del Vescovado, così detta perché teneva le sue sedute in una sala del vecchio palazzo episcopale, era piuttosto un viluppo d'uomini che una associazione. Qui assistevano, come alla Comune, quei silenziosi e significativi spettatori che avevano indosso, come dice il Garat, "tante pistole quante tasche". Il Vescovado era uno strano guazzabuglio; guazzabuglio cosmopolita e parigino, due cose che non si escludono affatto, Parigi essendo il luogo dove batte il cuore dei popoli. Qui era la grande incandescenza plebea. In confronto del Vescovado, la Convenzione era fredda e la Comune era tiepida. Il Vescovado era una di quelle formazioni rivoluzionarie che sono simili alle formazioni vulcaniche. Conteneva di tutto: ignoranza, bestialità, probità, eroismo, collera e polizia. Brunswick (2) aveva là dentro propri agenti. C'erano uomini degni di Sparta e uomini degni della galera. La grande maggioranza erano forsennati e onesti. La Gironda aveva detto, per bocca di Isnard, presidente momentaneo della Convenzione, una frase mostruosa: "State attenti, parigini. Non resterà pietra su pietra della vostra città, e un giorno si cercherà il posto dove fu Parigi". Quella frase aveva suscitato il Vescovado.

Alcuni uomini, e, come abbiamo detto, uomini di tutte le nazioni, avevano sentito la necessità di stringersi attorno a Parigi.

Cimourdain vi si era aggregato.

Quel gruppo reagiva contro chi reagiva. Era scaturito da quel pubblico bisogno di violenza che costituisce il lato temibile e misterioso delle rivoluzioni. Forte di questa forza, il Vescovado si era subito assegnato la sua parte. Nei giorni in cui Parigi si sollevava, chi sparava il cannone era la Comune, chi suonava a martello le campane era il Vescovado.

Cimourdain credeva, nell'implacabile sua ingenuità, che tutto ciò che era al servizio del vero fosse equo: il che lo rendeva idoneo a dominare i partiti estremi. I furfanti intuivano in lui l'uomo onesto, ed erano contenti. I delitti sono lusingati d'essere presieduti da una virtù. Li imbarazza e torna loro gradito. Palloy, l'architetto che aveva sfruttato la demolizione della Bastiglia, vendendo quelle pietre a suo profitto, e che, incaricato di intonacare la cella di Luigi Sedicesimo, aveva, per zelo, coperto il muro di sbarre, di catene e di gogne; Gonchon, l'oratore sospetto del Faubourg Saint-Antoine, del quale furono trovate, tempo dopo, le ricevute; Fournier, l'americano che, il 17 luglio, aveva sparato su Lafayette un colpo di pistola, tirato, si diceva, dallo stesso Lafayette; Henriot, che usciva da Bicêtre (3), e che era stato domestico, saltimbanco, ladro e spia prima di essere generale e di puntar cannoni sulla Convenzione; La Reynie, l'ex gran vicario di Chartres, che aveva sostituito il breviario con il "Padre Duchêne", erano tutti tenuti in rispetto da Cimourdain, e in dati momenti, per impedire ai peggiori di fare qualche passo falso, bastava che sentissero in guardia davanti a essi quel temibile candore convinto. Così Saint-Just atterriva Schneider.

Al tempo stesso, la maggioranza del Vescovado, composta specialmente da poveri e da uomini violenti, che erano buoni, credeva in Cimourdain e lo seguiva. Egli aveva per vicario, o aiutante di campo che dir si voglia, Danjou, quell'altro prete repubblicano che il popolo amava per l'alta sua statura e aveva battezzato Abate Seipiedi. Qualora lo avesse voluto, Cimourdain avrebbe condotto ovunque l'intrepido capo che tutti chiamavano Generale la Picca, e quell'ardimentoso Tronchon detto Gran Nicola, che aveva tentato di salvare la signora di Lamballe, dandole il braccio e facendole scavalcare i cadaveri, cosa che sarebbe riuscita senza la feroce facezia di Charlot, il barbiere.

La Comune sorvegliava la Convenzione, il Vescovado sorvegliava la Comune. Cimourdain, animo retto e alieno dall'intrigo, aveva spezzato più di un filo misterioso in mano a Pache, che Beurnonville chiamava "l'uomo nero". Al Vescovado, Cimourdain trattava alla pari con tutti.

Veniva consultato da Dobsent e da Momoro. Parlava in spagnolo a Gusman, in italiano a Pio, in inglese ad Arturo, in fiammingo a Pereyra, in tedesco all'austriaco Proly, bastardo d'un principe.

Creava l'intesa fra quelle discordanze. Da ciò una posizione oscura e forte. Hébert lo temeva.

Cimourdain aveva, in quei tempi e in quei gruppi tragici, la potenza degli inesorabili. Era un impeccabile che si ritiene infallibile.

Nessuno mai l'aveva visto piangere. Gelida e inaccessibile virtù, egli era lo spaventevole uomo giusto.

Nessuna via di mezzo, per un prete, nella rivoluzione. Un prete non poteva concedersi alla prodigiosa avventura in atto che per i più ignobili o i più eccelsi motivi: bisognava che egli fosse infame o sublime. Cimourdain era sublime; ma sublime nell'isolamento, nell'inaccessibilità, nell'inospitale lividore; sublime dentro una cerchia di precipizi. L'hanno, questa sinistra verginità, le alte montagne.

Cimourdain aveva l'apparenza d'un uomo comune con indosso panni qualunque, d'aspetto povero. Giovane, era stato tonsurato; vecchio, era calvo. I pochi capelli che aveva erano grigi. La sua fronte era ampia, e su quella fronte, per l'osservatore, c'era un segno.

Cimourdain aveva un modo di parlare brusco, appassionato e solenne, la voce breve, l'accento perentorio, la bocca triste e amara, l'occhio chiaro e profondo, e una certa qual aria sdegnata su tutto il volto.

Tale era Cimourdain.

Nessuno, oggi, conosce il suo nome. Ne ha, di questi terribili ignoti, la storia.

 

 

 

NOTE:

 

  1. Anguicrinita: di medusa.
  2. Brunswick: comandante degli eserciti coalizzati contro la Francia.
  3. Bicêtre: manicomio di Parigi.

 

 

 

3.

UN CANTUCCIO NON IMMERSO NELLO STIGE

 

Era poi un uomo, un uomo simile? Poteva nutrire un affetto il servitore del genere umano? Non era egli forse eccessivamente un'anima per essere un cuore? E poteva, quell'enorme abbraccio, che accoglieva tutto e tutti, riservarsi a qualcuno? Poteva amare, Cimourdain?

Diciamolo senz'altro: sì.

Da giovane, nella sua qualità di precettore in una casa quasi principesca, aveva avuto un allievo, figlio ed erede della casa. Lo aveva amato e lo amava. E' così facile amare un fanciullo! Che cosa non si perdona a un bimbo? Gli si perdona d'essere signore, d'essere principe, d'essere re. L'innocenza dell'età fa dimenticare i delitti della stirpe; la debolezza dell'essere fa dimenticare la tracotanza del ceto. E' così piccolo, che gli si perdona d'essere grande. Lo schiavo gli perdona d'essere il padrone. Il vecchio negro idolatra il bimbetto bianco. Cimourdain si era appassionatamente affezionato al suo allievo. L'infanzia ha questo di ineffabile: si possono sfogare su di essa tutti gli amori. Tutto ciò che in Cimourdain poteva amare si era, per così dire, abbattuto su quel fanciullo. Quel dolce essere innocente era diventato una specie di preda per quel cuore condannato alla solitudine. Lo amava con tutte le tenerezze a un tempo, come padre, come fratello, come amico, come creatore. Era figlio suo quel fanciullo. Il figlio, non della sua carne; ma del suo spirito. Egli non era il padre, né quella era opera sua; ma era il maestro, e quello era il suo capolavoro. Di quel piccolo signore egli aveva fatto un uomo. Chissà? forse un grand'uomo. Così sono i sogni. All'insaputa della famiglia (si ha forse bisogno di permesso per creare una intelligenza, una volontà, una rettitudine?), all'insaputa della famiglia aveva comunicato al giovane visconte suo allievo tutto il progresso che aveva in sé; gli aveva inoculato il temibile virus della sua virtù; aveva infuso in quelle vene la propria convinzione, la propria coscienza, il proprio ideale. In quel cervello di aristocratico aveva travasato l'anima del popolo.

La mente allatta. L'intelligenza è una mammella. Tra la balia che dà il proprio latte e il precettore che dà il proprio pensiero, c'è una certa analogia. Si danno casi in cui il precettore è più padre del padre, così come la balia è spesso più madre della madre. Cimourdain era legato al suo allievo da questa profonda paternità spirituale. La sola vista di quel fanciullo lo inteneriva.

Aggiungiamo, inoltre, che in quel caso sostituire il padre era facile:

il fanciullo non ne aveva più. Era orfano. Suo padre era morto, sua madre era morta. A vegliare su di lui, non c'erano più che una nonna cieca e un prozio assente. La nonna morì. Il prozio, capo della famiglia, uomo di spada e di grande signoria, onusto di cariche a corte, rifuggiva dal vecchio maniero di famiglia, viveva a Versailles, andava alla guerra e lasciava solo l'orfanello nel castello solitario.

Il precettore era dunque il "maestro" in tutta l'estensione del termine.

Aggiungiamo pure che Cimourdain aveva veduto nascere il bimbo che era diventato poi suo discepolo. L'orfanello, ancora piccolissimo, aveva avuto una grave malattia. Cimourdain, in quel pericolo di morte, l'aveva vegliato giorno e notte. Chi cura è il medico, ma è l'infermiere che salva, e Cimourdain aveva salvato il bambino. Il suo allievo non soltanto gli aveva dunque dovuto l'educazione, l'istruzione, la scienza; ma gli aveva anche dovuto la convalescenza e la salute; il suo allievo non soltanto doveva a lui il pensiero, ma doveva a lui anche d'essere al mondo. Ora, siccome noi adoriamo quelli che ci debbono tutto, Cimourdain adorava quel fanciullo.

Poi era sopravvenuto il naturale distacco della vita. Compiuta l'educazione, Cimourdain aveva dovuto lasciare il fanciullo diventato giovanotto. Con che gelida e incosciente crudeltà si compiono tali separazioni! Con quanta tranquillità le famiglie accomiatano il precettore che lascia il suo pensiero in un ragazzo, e la balia che vi lascia le sue viscere! Cimourdain, pagato e messo alla porta, era uscito dal mondo d'in alto e rientrato nel mondo d'in basso; la serranda tra i grandi e i piccoli si era richiusa; il giovin signore, ufficiale per diritto di nascita, e creato di punto in bianco capitano, era partito per una guarnigione qualunque; l'umile precettore, già in cuor suo prete restìo, si era affrettato a ridiscendere in quello scuro pianterreno della Chiesa che si chiamava basso clero; e aveva perduto di vista il suo allievo.

Poi era sopravvenuta la rivoluzione, e il ricordo di quell'essere di cui aveva fatto un uomo aveva continuato a covare in lui, nascosto, ma non spento, dall'immensità dei pubblici avvenimenti.

Modellare una statua e infonderle la vita, è bello; modellare una intelligenza e infonderle la verità, è ancora più bello. Cimourdain era il Pigmalione di un'anima.

Uno spirito può avere un figlio.

Questo allievo, questo figliolo, questo orfano era l'unico essere che egli amasse sulla terra.

Ma era vulnerabile, un siffatto uomo, sia pure in un affetto di quella sorta?

E' quello che vedremo.

 

 

 

LIBRO SECONDO

LA TAVERNA DI VIA DEL PAVONE

 

1.

MINOSSE, EACO E RADAMANTO

 

C'era, in via del Pavone, una taverna che era detta caffè. Tale caffè aveva un retrobottega, storico, oggigiorno. Là s'incontravano talvolta, quasi segretamente, uomini potenti e sorvegliati al punto che esitavano a parlarsi in pubblico. Là era stato scambiato, il 23 ottobre 1792, un famoso bacio tra la Montagna e la Gironda. Là Garat, sebbene nelle sue "Memorie" non ne convenga affatto, era andato in traccia di notizie nella lugubre notte in cui, messo al sicuro in via de Beaume il Clavière, fermò la sua carrozza sul Pont-Royal per ascoltare la campana a martello.

Il 28 giugno 1793 tre uomini erano riuniti attorno a una tavola in quel retrobottega. Le loro sedie non si toccavano; erano seduti ciascuno a un lato della tavola, lasciando vuoto il quarto. Erano circa le otto di sera; fuori, in istrada, era ancora chiaro, ma in quel retrobottega era già buio, e una lampada a becchi multipli, un lusso per quei tempi, appesa al soffitto, illuminava la tavola.

Il primo di quei tre uomini era pallido, giovane, serio, con le labbra esili e lo sguardo freddo. Aveva nelle guance un tic nervoso, che doveva incomodarlo di sicuro quando sorrideva. Era incipriato, inguantato, spazzolato, abbottonato. La sua marsina azzurro chiaro non faceva una grinza. Portava pantaloni di nanchino, calze bianche, cravatta alta, "jabot" pieghettato, scarpine a fibbie d'argento. Gli altri due uomini erano, uno una specie di gigante, l'altro una specie di nano. L'uomo alto, scomposto in una gran marsina di stoffa scarlatta, con il collo nudo in una cravatta disciolta, che gli ricadeva ancora più sotto dello "jabot", il panciotto aperto e mancante di bottoni, portava stivali con risvolti e aveva i capelli irti, sebbene vi si indovinasse un rimasuglio di pettinatura e di acconciatura: quella sua capigliatura aveva un non so che di criniera.

Aveva la faccia butterata dal vaiolo, una ruga di collera tra le sopracciglia, la piega della bontà ai lati della bocca, le labbra tumide, i denti grossi, un pugno da facchino, l'occhio sfavillante.

Quello piccolo era un uomo giallognolo, che, seduto, pareva deforme.

Aveva la testa rovesciata all'indietro, gli occhi iniettati di sangue, livide chiazze sul viso, un fazzoletto annodato sui capelli grassi e lisci, niente fronte e una bocca enorme e terribile. Portava pantaloni con solette per i piedi, scarpe larghe, un panciotto che aveva l'aria d'essere stato di raso bianco, e, sopra a quel panciotto, un giubbone, nelle cui pieghe una linea dura e diritta lasciava indovinare un pugnale.

Il primo di quegli uomini si chiamava Robespierre, il secondo Danton, il terzo Marat.

Erano soli in quel retrobottega. Davanti a Danton c'erano un bicchiere e una bottiglia di vino coperta di polvere che ricordava il boccale di birra di Lutero; davanti a Marat c'era una tazzina di caffè; davanti a Robespierre solo delle carte.

Vicino a quelle carte si scorgeva uno di quei pesanti calamai di piombo, rotondi e striati, che coloro i quali sono stati scolari al principio di questo secolo si ricordano di sicuro. Accanto al calamaio era buttata una penna. Sulle carte era posato un grosso sigillo di rame sul quale si leggeva "Palloy Fecit", e che rappresentava un minuscolo ed esatto modello della Bastiglia.

In mezzo alla tavola era spiegata una carta della Francia. Fuori, sulla soglia dell'uscio, stava il cane di guardia di Marat, quel Lorenzo Basse, fattorino del numero 18 di via dei Cordeliers, che il 13 luglio, circa quindici giorni dopo quel 26 giugno, doveva assestare una sediata sulla testa d'una donna chiamata Carlotta Corday, la quale si trovava in quel momento a Caen, assorta in certe sue fantasie.

Lorenzo Basse era il portatore di bozze dell'"Amico del popolo".

Quella sera, condotto dal suo padrone al caffè di via del Pavone, aveva la consegna di tener chiusa la saletta dove si trovavano Marat, Danton e Robespierre, e di non lasciarvi entrare nessuno, a meno che non si trattasse di qualcuno del comitato di salute pubblica, della Comune o del Vescovado.

Robespierre non voleva chiudere l'uscio in faccia al Saint-Just, Danton non voleva chiuderlo in faccia a Pache, e Marat non voleva chiuderlo in faccia a Gusman.

La conferenza durava già da un pezzo. Aveva per argomento le carte sparse sulla tavola, di cui Robespierre aveva dato lettura. Le voci cominciavano a farsi alte. Fra quei tre uomini brontolava qualcosa di simile alla collera. Da fuori si udivano, di tanto in tanto, scoppi di voce. A quel tempo, l'abitudine delle pubbliche tribune pareva avere statuito il diritto di ascoltare. Era il tempo in cui lo spedizioniere Fabrizio Paris guardava dal buco della serratura che cosa facesse il comitato di salute pubblica. Il che, sia detto di sfuggita, non fu inutile, giacché fu appunto quel Paris che avvertì Danton la notte dal 30 al 31 marzo 1794. Lorenzo Basse aveva incollato l'orecchio all'uscio del retrobottega dov'erano Danton, Marat e Robespierre.

Lorenzo Basse serviva Marat, ma era del Vescovado.

 

 

 

2.

"MAGNA TESTANTUR VOCE PER UMBRAS"

[Con grande voce gridano a testimonianza attraverso le ombre]

 

Danton si era appena alzato e aveva vivamente spinto indietro la sedia.

- Ascoltate, - gridò. - Non c'è che una cosa che urga: la repubblica in pericolo. Non conosco che una cosa, io: liberare la Francia dal nemico. Per ottenere questo, tutti i mezzi sono buoni. Tutti! tutti!

tutti! Quando tutti i pericoli sono contro di me, io ricorro a tutti gli espedienti; e quando temo ogni cosa, sfido tutto. Il mio pensiero è un leone. Niente mezze misure, niente falsi pudori in tempo di rivoluzione. Non è una bacchettona, Nemesi. Facciamo in modo d'essere spaventevoli e utili. Guarda forse dove mette le zampe, l'elefante?

Schiacciamo il nemico.

Robespierre rispose con dolcezza:

- E' ben quello che voglio.

E soggiunse: - Il problema sta nel sapere dov'è questo nemico.

- All'estero, e ve l'ho cacciato io, - disse Danton.

- All'interno, e io lo sorveglio, - disse Robespierre.

- E io tornerò a cacciarlo fuori, - riprese Danton.

- Non lo si caccia fuori, il nemico interno.

- Che se ne fa, allora?

- Si stermina.

- Acconsento, - disse a sua volta Danton.

Quindi riprese:

- Vi dico che è all'estero, Robespierre.

- Danton, vi dico che è all'interno.

- Robespierre, è alla frontiera.

- E' in Vandea, Danton.

- Calmatevi, - disse una terza voce; - è dovunque, e voi siete perduti.

Chi parlava, era Marat.

Robespierre guardò Marat e riprese tranquillamente:

- Bando alle generalizzazioni. Io preciso. Ecco dei fatti.

- Pedante! - brontolò Marat.

Robespierre posò le mani sulle carte spiegate davanti a lui e continuò:

- Vi ho letto i dispacci di Prieur della Marna. Vi ho comunicato le informazioni fornite da quel Gélambre. Ascoltate, Danton: la guerra con l'estero non è nulla; la guerra civile è tutto. La guerra con l'estero è una scorticatura al gomito; la guerra civile è l'ulcera che rode il fegato. Da quanto vi ho letto, risulta una cosa; questa: la Vandea, sparpagliata fino a oggi sotto diversi capi, sta per concentrarsi. Sta per avere un capitano unico...

- Un brigante centrale, - mormorò Danton.

- Si tratta, - proseguì Robespierre, - dell'uomo sbarcato vicino a Pontorson il 2 giugno. Avete visto chi è. Notate che tale sbarco coincide con l'arresto dei rappresentanti in missione, Prieur della Costa d'Oro e Romme, a Bayeux, operato da quel distretto traditore del Calvados il 2 giugno, il giorno stesso.

- E il loro trasferimento al castello di Caen, - disse Danton.

Robespierre riprese:

- Continuo a riassumere i dispacci. La guerra dei boschi si organizza su vasta scala. Contemporaneamente, si prepara una calata inglese; vandeani e inglesi è come dire Bretagna con Bretagna. I selvaggi del Finistère parlano la stessa lingua dei barbari della Cornovaglia. Vi ho messo sotto gli occhi una lettera intercettata da Puisaye, dov'è detto che "ventimila giubbe rosse distribuite agli insorti ne faranno sollevare centomila". Quando l'insurrezione dei contadini sarà completa, la calata inglese non mancherà di sicuro. Ecco il piano.

Seguitelo sulla carta.

Robespierre puntò il dito sulla carta e proseguì:

- Gli inglesi hanno la scelta del punto di sbarco, da Cancale a Paimpol. Craig preferirebbe la baia di Saint-Brieuc, il Cornwallis la baia di Saint-Cast. Ma questi sono particolari. La riva sinistra della Loira è tenuta dall'esercito vandeano ribelle, e, quanto alle ventotto leghe allo scoperto tra Ancenis e Pontorson, quaranta parrocchie normanne hanno promesso il loro concorso. La calata si farà su tre punti: Plérin, Iffiniac e Pléneuf; da Plérin andranno a Saint-Brieuc, e da Pléneuf a Lamballe; il secondo giorno sarà raggiunto Dinan, dove sono novecento prigionieri inglesi, e contemporaneamente verranno occupati Saint-Jouan e Saint-Méen; sarà lasciata là un po' di cavalleria; il terzo giorno, due colonne si dirigeranno, una da Jouan su Bédée, l'altra da Dinan su Becherel, che è una fortezza naturale, dove verranno piazzate due batterie; il quarto giorno, saranno a Rennes. Rennes è la chiave della Bretagna. Chi tiene Rennes possiede tutto. Presa Rennes, cadono Chateauneuf e Saint-Malo. A Rennes ci sono un milione di cartucce e cinquanta pezzi d'artiglieria da campagna...

- Che quelli arrafferebbero, - mormorò Danton.

Robespierre continuò:

- Termino. Da Rennes, tre colonne si getteranno una su Fougères, una su Vitré, una su Redon. Siccome i ponti sono interrotti, i nemici si muniranno, l'avete già visto esattamente, di pontoni e di tavole, e avranno guide per ritrovare i punti guadabili dalla cavalleria. Da Fougères si irradieranno su Avranches, da Redon su Ancenis, da Vitré su Laval. Nantes si arrenderà, Brest si arrenderà. Redon mette in loro mani tutto il corso della Vilaine, Fougères dà loro la strada di Normandia, Vitré apre loro la strada di Parigi. Tra quindici giorni si avrà un esercito di briganti di trecentomila uomini, e tutta la Bretagna sarà del re di Francia.

- Che è quanto dire del re d'Inghilterra, - precisò Danton.

- No. Del re di Francia, - ribatté Robespierre.

E soggiunse:

- Il re di Francia è peggio. Ci vogliono quindici giorni per scacciare lo straniero, e milleottocento anni per sopprimere la monarchia.

Il Danton, che si era tornato a sedere, piantò i gomiti sulla tavola, cacciandosi la testa fra le mani, assorto.

- Il pericolo, voi lo vedete, - disse Robespierre. - Vitré apre agli inglesi la strada di Parigi.

Danton sollevò la fronte e lasciò cadere ambo le sue manacce contratte sulla carta, come su un'incudine.

- Forse che Verdun non apriva la strada di Parigi ai prussiani, Robespierre?

- E con questo?

- E con questo, si cacceranno via gli inglesi come si sono cacciati via i prussiani.

E Danton si alzò di nuovo.

Robespierre posò la sua gelida mano sul pugno febbrile del Danton.

- Danton, la Champagne non è per i prussiani; la Bretagna invece è per gli inglesi. Riprendere Verdun è guerra contro lo straniero; riprendere Vitré è guerra civile.

E Robespierre mormorò con un accento gelido e profondo:

- Differenza seria.

Poi riprese:

- Tornatevi a sedere, Danton, e guardate la carta, invece di sferrarle dei pugni.

Ma Danton era tutto assorto nei suoi pensieri.

- Questa è grossa! - esclamò. - Vedere la catastrofe a ovest quando è a oriente. Robespierre, vi concedo che l'Inghilterra ci venga contro dall'Oceano; ma anche la Spagna si erge sui Pirenei, ma anche l'Italia è in piedi sulle Alpi, ma anche la Germania ci viene addosso dal Reno.

E in fondo, c'è il grande orso russo. Robespierre, il pericolo è un cerchio, e noi ci siamo dentro. All'estero la coalizione, all'interno il tradimento. A mezzogiorno Servant dischiude la porta della Francia al re di Spagna; al nord Dumouriez passa al nemico. Del resto, egli aveva sempre minacciato meno l'Olanda che Parigi. Nerwinde cancella Jemmapes e Valmy. Il filosofo Rabaut Saint-Etienne, traditore, da quel protestante che è, corrisponde con il cortigiano Montesquiou.

L'esercito è decimato. Non c'è un battaglione, ormai, che conti più di quattrocento uomini; il prode reggimento di Due Ponti è ridotto a centocinquanta uomini; il campo di Pamars è stato ceduto; a Givet non restano più che cinquecento sacchi di farina; noi retrocediamo su Landau; Wurmser spinge da presso Kléber; Magonza soccombe valorosamente, Condé vigliaccamente, allo stesso modo di Valenciennes.

Il che non toglie che Chancel, difensore di Valenciennes, e il vecchio Féraud, difensore di Condé, siano due eroi non meno di Meunier, che difendeva Magonza. Ma tutti gli altri tradiscono. Dharville tradisce a Aix-la-Chapelle, Mouton tradisce a Bruxelles, Valence tradisce a Bréda, Neuilly tradisce a Limbourg, Miranda tradisce a Maestricht; Stengel, traditore, Lanoue, traditore, Ligonnier, traditore, Menou, traditore, Dillon, traditore; ripugnante moneta spicciola di Dumouriez. Esempi occorrono. Le contromarce di Custine mi sembrano sospette; sospetto Custine di preferire la lucrosa presa di Francoforte alla presa utile di Coblenza. Francoforte può pagare quattro milioni di contributi di guerra, sia pure. Ma che conta, questo, di fronte al nido degli emigrati distrutto? Tradimento, vi dico. Meunier è morto il 13 giugno. Kléber è solo, adesso. Frattanto, Brunswick ingrossa e viene avanti. Pianta la bandiera tedesca su tutte le località francesi che occupa. Il margravio di Brandeburgo, oggi, è l'arbitro d'Europa; s'intasca le nostre province; si aggiudicherà anche il Belgio, lo vedrete. Si direbbe che noi lavoriamo per Berlino; se la cosa continua e se non vi mettiamo riparo, la rivoluzione francese si farà a profitto di Potsdam; avrà avuto per unico risultato d'ingrandire lo staterello di Federico Secondo, e noi avremo ucciso il re di Francia per il re di Prussia.

E Danton, terribile, scoppiò in una risata Il riso di Danton fece sorridere Marat.

- Avete ciascuno il vostro pallino, voi. Voi Danton, la Prussia; voi Robespierre, la Vandea. Voglio precisare anch'io. Non vedete il vero pericolo, voi; eccolo: i caffè e le bische. Il caffè di Choiseul è giacobino, il caffè Patin è monarchico, il caffè del Convegno attacca la Guardia Nazionale, il caffè di Porta San Martino la difende, il caffè della Reggenza è contro Brissot, il caffè Corazza gli è favorevole, il caffè Procopio giura su Diderot, il caffè del Teatro Francese giura su Voltaire, alla Rotonda si stracciano gli assegnati, i caffè Saint-Marceau sono in furore, il caffè Manouri solleva la questione delle farine, al caffè di Foy ciarle e sgrugnoni, al Perron ronzio di calabroni finanzieri. Questa è la faccenda seria.

Danton non rideva più. Marat sorrideva sempre. Sorriso di nano, peggiore d'una risata di colosso.

- Scherzate, Marat? - rombò Danton.

Marat ebbe quel convulso movimento di fianchi, allora così celebre. Il suo sorriso era scomparso.

- Ah! vi riconosco, cittadino Danton. Proprio voi mi avete, in piena Convenzione, chiamato "l'individuo Marat". Ascoltate. Ascoltate. Io vi perdono. Attraversiamo un momento balordo. Ah! scherzo, io. Che uomo sono io, infatti? Ho denunciato Chazot, ho denunciato Pétion, ho denunciato Kersaint, ho denunciato Moreton, ho denunciato Dufriche- Valazé, ho denunciato Ligonnier, ho denunciato Menou, ho denunciato Banneville, ho denunciato Gensonné, ho denunciato Biron, ho denunciato Lidon e Chambon, ho avuto torto forse? Io fiuto il tradimento nel traditore e trovo utile denunciare il reo prima del reato. Ho l'abitudine di dire il giorno prima quello che voialtri dite il giorno dopo. Sono l'uomo che ha proposto all'assemblea un piano completo di legislazione penale. Che ho fatto fino ad ora? Ho chiesto che si istruissero le sezioni allo scopo di disciplinarle alla rivoluzione, ho fatto togliere i suggelli di trentadue incartamenti, ho reclamato i diamanti depositati nelle mani di Roland, ho dimostrato che i brissotini avevano consegnato al comitato di sicurezza generale mandati d'arresto in bianco, ho segnalato le omissioni del rapporto del Lindet sui delitti di Capeto, ho votato il supplizio del tiranno entro le ventiquattr'ore, ho difeso i battaglioni Mauconseil e Repubblicano, ho impedita la lettura della lettera di Narbonne e di Malhouet, ho presentato una mozione per i soldati feriti, ho fatto sopprimere la commissione dei sei, ho presentito nella faccenda di Mons il tradimento del Dumouriez, ho chiesto che si prendessero in ostaggio centomila parenti degli emigrati, per i commissari consegnati al nemico, ho proposto di dichiarare traditore qualunque rappresentante oltrepassasse la cinta daziaria, ho smascherato, nei torbidi di Marsiglia, la fazione di Roland, ho insistito perché fosse messa a prezzo la testa del figlio di Egalité, ho difeso Bouchotte, ho voluto l'appello nominale per scacciare Isnard dal suo seggio, ho fatto dichiarare che i parigini hanno bene meritato dalla patria. Per questo sono trattato da burattino da Louvet, e il Finistère chiede che io sia espulso, la città di Loudun auspica che io venga esiliato, la città d'Amiens desidera che mi venga messa la museruola, Coburgo vuole che mi si arresti, e Lecointe-Puyraveau propone alla Convenzione di decretarmi pazzo. Così è! cittadino Danton, perché mi avete fatto venire al vostro conciliabolo se non per conoscere il mio parere? Vi chiedevo forse di parteciparvi, io? tutt'altro. Non sono proprio portato ai colloqui segreti con controrivoluzionari tipo Robespierre e voi. Del resto, dovevo aspettarmelo, voi non mi avete capito; voi non meglio del Robespierre, e Robespierre non meglio di voi. Non ce ne sono, dunque, qui, d'uomini di Stato? E' proprio necessario farvi compitare la politica, dunque? mettervi i puntini sulle i? Quel che vi ho detto, significa: vi sbagliate tutt'e due. Il pericolo non è né a Londra, come crede Robespierre, né a Berlino, come lo crede Danton: è a Parigi. E' nella mancanza di unità, nel diritto che ciascuno ha di tirare l'acqua al suo mulino, a cominciar da voi due; e nella polverizzazione degli spiriti, nell'anarchia delle volontà...

- L'anarchia? - interruppe Danton. - E chi altro la fa, se non voi?

Marat non si fermò.

- Robespierre, Danton, il pericolo sta in questo mucchio di caffè, in questo ammasso di bische, in questa moltitudine di circoli, circolo dei Neri, circolo dei Federati, circolo delle Signore, circolo degli Imparziali, che risale al Clermont-Tonnerre e che è stato il circolo monarchico del 1790, circolo sociale immaginato dal prete Claudio Fauchet, circolo dei Berretti di Lana, fondato dal gazzettiere Prudhomme, eccetera; senza contare il vostro circolo dei Giacobini, Robespierre, e il vostro circolo dei Cordiglieri, Danton. Il pericolo sta nella carestia, che ha indotto il facchino Blin a impiccare alla lanterna del Palazzo di Città il fornaio del mercato Palu, Francesco Denis, e sta nella giustizia, che ha impiccato il facchino Blin per aver impiccato il fornaio Denis. Il pericolo sta nella carta moneta che viene deprezzata. In via del Tempio è caduto per terra un assegnato di cento franchi, e un passante, un uomo del popolo, ha detto: "Non vale la pena di raccattarlo". Gli speculatori e gli accaparratori, quelli sono il pericolo! Bella prodezza piantar la bandiera nera sul Palazzo di Città! Arrestate il barone di Trenck voi, ma non basta. Torcetegli il collo a quel vecchio prigioniero intrigante. Credete di cavarvela perché il presidente della Convenzione pone una corona civica sulla testa di Labertèche, che ha ricevuto quarantun sciabolate a Jemmapes, e al quale lo Chénier fa da apristrada? Commedie e ciurmerie. Ah! non badate a Parigi, voi! Ah!

cercate lontano il pericolo, voi, mentre è qui vicino! A che vi serve la vostra polizia, Robespierre? Giacché avete le vostre spie, voi:

Payan alla Comune, Coffinhal al tribunale rivoluzionario, David al comitato di sicurezza generale, Couthon al comitato di salute pubblica. Sono bene informato, come vedete. Ebbene, sappiatelo: il pericolo è sulle vostre teste, il pericolo è sotto i vostri piedi, si cospira, si cospira, si cospira; i passanti per le strade si leggono tra loro i giornali e si scambiano cenni di testa; seimila uomini, sforniti della carta di civismo, emigrati rimpatriati, moscardini e reazionari, sono nascosti nelle cantine, nei solai e negli anditi di legno del Palazzo Reale; dai fornai si fa la coda, e le massaie, sulla soglia degli usci, congiungono le mani e dicono: "Quando l'avremo, la pace?". Avete un bell'andarvi a rinchiudere, per essere tra di voi, nella sala del consiglio esecutivo: tutto quello che dite è risaputo.

E se ne volete la prova, Robespierre, eccovi le parole che avete detto ieri sera a Saint-Just: "Barbaroux comincia a mettere pancia; ciò lo impaccerà nella fuga". Sì, il pericolo è dovunque, e soprattutto al centro, a Parigi. Gli ex complottano, i patrioti vanno a piedi nudi, gli aristocratici arrestati il 9 marzo sono già stati rilasciati, i cavalli di lusso, che dovrebbero essere attaccati ai cannoni sulla frontiera, ci inzaccherano per le strade, il pane di quattro libbre vale tre franchi e dodici soldi, i teatri rappresentano opere sconce, e Robespierre farà ghigliottinare Danton.

- Sciocchezze! - disse Danton.

Robespierre guardava attentamente la carta.

- Un dittatore! - gridò bruscamente Marat: - ecco quel che ci vuole.

Voi, Robespierre, sapete che io voglio un dittatore.

Robespierre rialzò la testa.

- Lo so, Marat: voi o io.

- Io o voi, - disse Marat.

Danton brontolò fra i denti:

- Sì, prendila, la dittatura!

Marat vide l'aggrottamento di sopracciglia di Danton. - Suvvia, - disse. - Un ultimo sforzo. Mettiamoci d'accordo. Lo stato di cose ne vale la pena. Non ci siamo forse già messi d'accordo per la giornata del 31 maggio? Il problema d'insieme è ancora più grave del girondinismo, che è una questione di dettaglio. In quello che dite voi c'è del vero; ma il vero, tutto il vero, il vero vero è quello che dico io. A mezzogiorno, il federalismo; a ovest il realismo; a Parigi, il duello della Convenzione e della Comune; alle frontiere, l'indietreggiamento di Custine e il tradimento di Dumouriez. Che cos'è tutto questo? Lo smembramento. Che cosa ci occorre? L'unità. Lì sta la salvezza. Ma spicciamoci. Bisogna che Parigi assuma il governo della rivoluzione. Se perdiamo un'ora, domani i vandeani possono essere a Orléans e i prussiani a Parigi. Questo ve lo concedo, Danton; questo ve lo concedo, Robespierre. Sia. Orbene, la conclusione è la dittatura. Prendiamo la dittatura. Noi tre rappresentiamo la rivoluzione. Siamo le tre teste di Cerbero noi. Di queste tre teste, una parla, e siete voi, Robespierre, l'altra ruggisce, e siete voi, Danton...

- L'altra ancora morde, - disse Danton, - e siete voi, Marat.

- Quanto a mordere, mordono tutt'e tre, - disse Robespierre.

Ci fu un silenzio. Poi il dialogo, pieno di cupi sussulti, ricominciò:

- Ascoltate, Marat. Prima di sposarsi, bisogna conoscersi. Come avete saputo la frase che ho detto ieri a Saint-Just?

- Questo è affar mio, Robespierre.

- Marat!

- E' mio dovere chiarirmi, è affar mio informarmi.

- Marat!

- Mi piace sapere.

- Marat!

- Robespierre, io so quello che voi dite a Saint-Just come so quello che Danton dice a Lacroix; come so quello che succede sul Quai dei Théatins, al palazzo di Labriffe, asilo in cui si danno convegno le ninfe dell'emigrazione; come so quel che succede nella casa dei Thilles, vicino a Gonesse, che è di Valmerange, l'ex amministratore delle poste, dove si recavano un tempo Maury e Cazalès, dove sono andati poi Sieyès e Vergniaud, e dove, adesso, si va una volta la settimana.

Pronunciando quel "si", Marat guardò Danton.

Danton esclamò:

- Se avessi due quattrini di potere, sarebbe una cosa terribile.

Marat proseguì:

- So quello che dite voi, Robespierre, come so quello che accadeva nella torre del Tempio, quando vi tenevamo a ingrassare Luigi Sedicesimo, e lo facevamo così bene, che, nel solo mese di settembre, il lupo, la lupa e i lupicini mi hanno fatto fuori ottantasei ceste di pesche. In quel frattempo, il popolo è affamato. So questo, come so che Roland è stato nascosto in un locale che dà su un cortile interno, in via della Harpe; come so che seicento delle picche del 14 luglio erano state fabbricate da Faure, magnano del duca d'Orléans; come so quello che si fa in casa della Saint-Hilaire, amante di Sillery; nei giorni di ballo, è lo stesso vecchio Sillery che frega con la pomice il pavimento del salotto giallo di via Neuve-des-Mathurins; Buzot e Kersaint vi pranzavano. Saladin vi ha pranzato il 27, e con chi, Robespierre? Col vostro amico Lasource.

- Ciarle, - mormorò Robespierre. - Lasource non è mio amico.

E, pensoso, soggiunse:

- Frattanto, a Londra ci sono diciotto fabbriche di assegnati falsi.

Marat continuò con voce tranquilla, che tradiva però un leggero tremito, il che era spaventoso:

- Siete la fazione degli importanti, voi. Sì, io so tutto, malgrado quello che Saint-Just chiama "il silenzio di Stato".

Marat accentuò queste parole, guardò Robespierre e proseguì:

- So quello che si dice alla vostra tavola nei giorni in cui Lebas invita David ad andare ad assaggiare i piattini preparati dalla sua fidanzata, Elisabetta Duplay, vostra futura cognata, Robespierre. Io sono l'occhio enorme del popolo, e, dal fondo della mia cantina, vi guardo. Sì, io vedo; sì, io odo; sì, io so. A voi bastano le piccole cose. Vi ammirate fra voi. Il Robespierre si fa contemplare dalla sua signora di Chalabre, la figlia del marchese di Chalabre, quello che giocò il "whist" con Luigi Quindicesimo la sera dell'esecuzione di Damiens. Sì, portiamo tutti alta la testa. Saint-Just sta di casa in una cravatta. Legendre è corretto, pastrano nuovo e panciotto bianco, col pizzo fuori, allo scopo di far dimenticare il suo grembiale.

Robespierre s'immagina che la storia vorrà sapere che indossava una finanziera color oliva alla Costituente e una marsina azzurro cielo alla Convenzione. Ha le pareti della camera tappezzate dei suoi ritratti...

Con voce ancora più calma di quella di Marat, Robespierre interruppe:

- E voi, Marat, avete il vostro in tutte le fogne.

Continuarono così, su un tono da conversazione, la cui lentezza accentuava la violenza delle botte e delle risposte, aggiungendo una certa qual ironia alle minacce.

- Voi Robespierre avete qualificato quelli che vogliono il rovesciamento dei troni "Don Chisciotti del genere umano".

- E voi, Marat, dopo il 4 agosto, nel vostro numero 559 dell'"Amico del Popolo", già, mi sono messo bene in mente il numero, perché è utile, avete chiesto che si restituissero ai nobili i loro titoli. "Un duca è sempre un duca", avete detto.

- Voi, Robespierre; nella seduta del 7 dicembre, avete difeso la moglie di Roland contro Viard.

- Proprio come mio fratello ha difeso voi, Marat quando foste attaccato ai Giacobini. Che cosa si prova con ciò?... Nulla.

- E' noto il gabinetto delle Tuileries dove voi, Robespierre, avete detto a Garat: "Sono stanco della rivoluzione".

- E voi, Marat, è proprio qui, in questa osteria, che il 29 ottobre avete abbracciato Barbaroux.

- Voi, Robespierre, avete detto a Buzot: "Che roba è la repubblica?".

- E voi, sempre qui, in questa osteria, avete invitato a colazione tre marsigliesi per tenervi compagnia, Marat.

- Quanto a voi, Robespierre, vi fate scortare da un bullo del mercato armato di bastone.

- E voi, Marat, la vigilia del 10 agosto, avete pregato Buzot di aiutarvi a fuggire a Marsiglia, travestito da fantino.

- Durante le esecuzioni di settembre, voi vi siete tenuto nascosto, Robespierre.

- E voi, Marat, vi siete fatto vedere.

- Voi, Robespierre, avete gettato a terra il berretto rosso.

- Sì, dal momento che lo portava un traditore. Ciò che fregia Dumouriez insudicia Robespierre.

- Voi, Robespierre, avete rifiutato, durante il passaggio dei soldati del Chateauvieux, di coprire d'un velo la testa di Luigi Sedicesimo.

- Ho fatto di meglio che velargli la testa, io: gliel'ho mozzata.

Danton intervenne, ma come l'olio interviene nel fuoco.

- Robespierre, Marat, - egli disse, - calmatevi.

A Marat non garbava essere nominato per secondo. Si voltò:

- Di che s'immischia Danton? - domandò.

Danton diede un balzo:

- Di che m'immischio, io? Di questo. Niente fratricidi, niente lotte fra due uomini che servono il popolo; basta la guerra con l'estero, basta la guerra civile: la guerra domestica sarebbe di troppo. Ecco di che mi immischio. Sono io, inoltre, che ho fatto la rivoluzione, e non voglio che venga disfatta. Ecco di che mi immischio.

Senza alzare la voce, Marat rispose:

- Impicciatevi di rendere i vostri conti.

- I miei conti? - gridò Danton. - Andate a chiederli ai passi delle Argonne, alla Champagne liberata, al Belgio conquistato, agli eserciti presso i quali sono già stato quattro volte a offrire il petto alla mitraglia! andate a chiederli alla piazza della Rivoluzione, al patibolo del 21 febbraio, al trono atterrato, alla ghigliottina, questa vedova...

Marat interruppe Danton:

- La ghigliottina è una vergine; ci si corica su di essa, ma non la si feconda.

- Che ne sapete, voi? - ribatté Danton. - Io la feconderò, io! ...

- Vedremo, - disse Marat.

E sorrise.

Danton vide quel sorriso.

- Marat, - gridò; - voi siete l'uomo nascosto; io sono l'uomo dell'aria aperta e della piena luce. Odio la vita dei rettili. Essere scolopendra non mi garba. Voi abitate una cantina; io abito la strada.

Voi non comunicate con nessuno; io, chiunque passa può vedermi e parlarmi.

- Volete salire da me, bel giovanottino? - brontolò Marat.

E smettendo di sorridere, riprese con accento imperioso: - Danton, rendete conto dei trentatremila scudi di argento sonante, che vi ha pagato Montmorin in nome del re, col pretesto di indennizzarvi della vostra carica di procuratore al Castelletto.

- Io fui del 14 luglio, - disse Danton con alterigia.

- E la guardia mobile? e i diamanti della corona?

- Io fui del 6 ottobre.

- E i furti del vostro "alter ego" Lacroix nel Belgio?

- Io fui del 20 giugno.

- E i prestiti fatti alla Montansier?

- Al ritorno da Varennes, io spingevo il popolo.

- E la sala dell'Opera che fu costruita col danaro fornito da voi?

- Ho armato le sezioni di Parigi, io.

- E le centomila lire di fondi segreti del ministero della giustizia?

- Ho fatto il 10 agosto, io.

- E i due milioni di spese segrete dell'Assemblea, di cui vi siete intascato la quarta parte?

- Ho fermato il nemico in marcia e sbarrato il passo ai re coalizzati.

- Prostituto! - disse Marat.

Danton balzò in piedi, spaventevole.

- Sì, - gridò; - sono una sgualdrina, io; ho venduto il mio grembo, ma ho salvato il mondo.

Robespierre aveva ripreso a rodersi le unghie. Non poteva né ridere né sorridere, lui. Il riso, lampo di Danton, e il sorriso, punzecchiatura di Marat, gli mancavano.

Danton riprese:

- Sono come l'oceano, io; ho il mio flusso e il mio riflusso; a bassa marea si scorgono i miei bassifondi, ad alta marea si vedono le mie ondate.

- La vostra schiuma, - disse Marat.

- La mia tempesta, - disse Danton.

Contemporaneamente a Danton, si era alzato anche Marat. Esplose egli pure. Il colubro divenne drago di punto in bianco.

- Ah! - gridò; - ah! Robespierre! ah! Danton! non mi volete dare ascolto voi! Ebbene, io vi dico che siete perduti. La vostra politica sbocca a delle impossibilità d'andare più oltre; non avete più via d'uscita, voi; e fate cose che vi chiudono innanzi tutte le porte, eccettuata quella della tomba.

- E' la nostra grandezza, - disse Danton.

E fece una spallucciata.

Marat continuò:

- Sta in guardia, Danton. Anche Vergniaud ha la bocca larga e le labbra tumide e le sopracciglia colleriche. Anche Vergniaud è butterato come Mirabeau e come te; ma ciò non ha impedito il 31 maggio. Ah! fai le spallucce, tu! Certe volte, alzare le spalle fa cadere la testa. Te lo dico io, Danton; il tuo vocione, la tua cravatta male annodata, le tue scarpe molli, le tue cenette, le tue grandi tasche, sono cose che riguardano la Luisella.

Luisella era il vezzeggiativo che Marat dava alla ghigliottina.

Proseguì:

- Quanto a te, Robespierre, sei un moderato, ma ciò non ti servirà a nulla. Va, incipriati, pettinati, spazzolati, fai lo zerbinotto, sfoggia pure biancherie, sii lezioso, arricciato, impomatato, non andrai per ciò meno a finire in piazza di Grève. Leggi la dichiarazione di Brunswick: non sarai trattato meglio del regicida Damiens, sei lì, adesso, teso teso da quattro spille, come sarai tirato un giorno da quattro cavalli che ti squarteranno.

- Eco di Coblenza! - mormorò il Robespierre fra i denti.

- Non sono l'eco di nulla, io, Robespierre; sono il grido di tutto.

Ah! siete giovani, voi. Che età hai tu, Danton? Trentaquattro anni.

Che età hai tu, Robespierre? Trentatré anni. Ebbene, io vivo da sempre; sono la vecchia sofferenza umana, io. Ho seimila anni.

- E' vero, - ribatté Danton; - da seimila anni Caino si è conservato nell'odio come il rospo nella pietra: la pietra si rompe, Caino salta fra gli uomini, ed è Marat.

- Danton! - gridò Marat. E un livido bagliore gli lampeggiò negli occhi.

- Che c'è? - disse Danton.

Così parlavano quei tre uomini formidabili. Disputa di tuoni.

 

 

 

3.

SUSSULTO DALLE FIBRE PROFONDE

 

Il dialogo ebbe una tregua. I tre titani rientrarono per un momento ciascuno nel proprio pensiero.

I leoni sono turbati dalle idre. Robespierre si era fatto pallidissimo e Danton rosso quanto mai. Entrambi fremevano. La fulva pupilla di Marat si era spenta; la calma, una calma imperiosa, si era ristabilita sulla faccia di quell'uomo temuto dai temibili.

Danton si sentiva vinto, ma non voleva arrendersi. Riprese a dire:

- Marat parla ad altissima voce di dittatura e di unità; ma egli non ha che un unico potere: quello di dissolvere.

Schiudendo le esili labbra, Robespierre aggiunse:

- Per parte mia, sono del parere di Anacharsi Cloots: "Né Roland né Marat".

- E io, - rispose Marat, - dico: "Né Danton né Robespierre".

Li guardò entrambi fisso fisso, e soggiunse:

- Consentitemi di darvi un consiglio, Danton. Voi siete innamorato, avete intenzione di riammogliarvi; non impicciatevi più di politica, siate saggio.

E, facendo un passo indietro verso l'uscio per andarsene, fece loro questo sinistro saluto:

- Addio, signori!

Danton e Robespierre ebbero un fremito.

In quel momento una voce si alzò dal fondo della saletta, e disse:

- Tu hai torto, Marat.

Tutti si voltarono. Mentre Marat perorava, e senza che i tre se ne fossero accorti, qualcuno era entrato dall'uscio posteriore.

- Ah! sei tu, cittadino Cimourdain, - disse Marat. - Buongiorno!

Era Cimourdain infatti.

- Dico che hai torto, Marat, - egli riprese.

Marat si fece verde. Era il suo modo d'impallidire.

Cimourdain soggiunse:

- Tu sei utile, ma Robespierre e Danton sono necessari. Perché minacciarli? Unione, unione, cittadini! il popolo vuole che si sia uniti.

Quell'entrata fece l'effetto d'una secchiata d'acqua fredda, e, come il sopraggiungere di un estraneo nel pieno di una lite in famiglia, calmò, se non il fondo, almeno la superficie.

Cimourdain avanzò verso la tavola.

Danton e Robespierre lo conoscevano. Spesso avevano notato nelle pubbliche tribune della Convenzione quell'oscuro uomo potente, che il popolo salutava. Robespierre, comunque, formalista, domandò:

- Come avete fatto a entrare, cittadino?

- E' del Vescovado, - rispose Marat con una voce in cui si avvertiva una certa qual sottomissione.

Marat sfidava la Convenzione, guidava la Comune e temeva il Vescovado.

E' una legge, questa.

Mirabeau sente agitarsi a una profondità sconosciuta Robespierre; Robespierre sente agitarsi Marat; Marat sente agitarsi Hébert; Hébert sente agitarsi Babeuf. Finché gli strati sotterranei sono tranquilli, l'uomo politico può camminare; ma sotto il rivoluzionario c'è un sottosuolo, e anche i più arditi si fermano inquieti quando avvertono sotto i loro piedi la stessa agitazione che produssero sopra le loro teste.

Saper distinguere l'agitazione che proviene dalle cupidige dall'agitazione che proviene dai princìpi, combattere l'una e assecondare l'altra: in ciò sta il genio e la virtù dei grandi rivoluzionari.

Danton vide piegare Marat.

- Oh! il cittadino Cimourdain non è di troppo, - disse.

E porse la mano al Cimourdain. Poi:

- Perbacco! - disse. - Spieghiamo la situazione al cittadino Cimourdain. Giunge a proposito. Io rappresento la Montagna, Robespierre rappresenta il comitato di salute pubblica, Marat rappresenta la Comune, Cimourdain rappresenta il Vescovado. Darà la prevalenza all'uno o all'altro dei nostri pareri.

- Sia, - disse Cimourdain, grave e semplice. - Di che si tratta?

- Della Vandea, - disse Robespierre.

--La Vandea! - esclamò Cimourdain.

E riprese: - E' la grande minaccia, quella. Se la rivoluzione perisce, perirà per causa della Vandea. Una Vandea è da temere più di dieci Germanie. Perché viva la Francia, bisogna uccidere la Vandea.

Queste poche parole gli cattivarono Robespierre.

Robespierre, nondimeno, fece questa domanda:

- Non siete un ex prete, voi?

L'aspetto da prete non sfuggiva al Robespierre, che riconosceva al di fuori quello che aveva dentro di sé.

Cimourdain rispose:

- Sì, cittadino.

- Che importa, questo? - esclamò Danton. - Quando i preti sono buoni, valgono più degli altri. In tempo di rivoluzione i preti si fondono per farne cittadini, come le campane per farne soldi e cannoni. Danjou è prete, Daunou è prete. Tommaso Lindet è vescovo di Evreux. Voi, Robespierre, vi sedevate alla Convenzione a gomito a gomito con Massieu, vescovo di Beauvais. Il grande vicario Vaugeois era del comitato d'insurrezione del 10 agosto. Chabot è cappuccino. E' stato don Gerle a fare il giuramento del Pallamaglio; è stato l'abate Audran a far dichiarare l'Assemblea nazionale superiore al re; è stato l'abate Goutte a chiedere alla Legislativa che si togliesse il baldacchino dal seggio di Luigi Sedicesimo; è stato l'abate Grégoire a provocare l'abolizione della regalità.

- Appoggiato, - sogghignò Marat, - dall'istrione Collot d'Herbois.

Hanno fatto tutto loro due soli: il prete ha rovesciato il trono, il commediante ha abbattuto il re.

- Torniamo alla Vandea, - disse Robespierre.

- E allora, - domandò Cimourdain, - che cosa c'è? Che cosa fa questa Vandea?

Robespierre rispose:

- Fa questo: ha un capo. Sta per diventare spaventevole.

- Chi è questo capo, cittadino Robespierre?

- Un ex marchese di Lantenac, che si qualifica principe bretone.

Cimourdain ebbe un gesto.

- Lo conosco, - disse. - Sono stato cappellano in casa sua.

Pensò un momento, e riprese:

- Prima d'essere un uomo di guerra, era un donnaiolo.

- Come Biron, che fu Lauzun, - disse Danton.

E Cimourdain, pensoso, aggiunse:

- Sì, è un ex gaudente. Dev'essere terribile.

- Spaventoso, - disse Robespierre. - Arde i paesi, finisce i feriti, massacra i prigionieri, fucila le donne.

- Le donne?

- Sì. Tra le altre, ha fatto fucilare una madre di tre figlioli. Non si sa che ne sia stato di questi fanciulli. Inoltre, è un condottiero.

Di guerra, se ne intende.

- Già, - rispose Cimourdain. - Fece la guerra dell'Hannover, e i soldati dicevano: "Richelieu di sopra, Lantenac di sotto"; ma il vero generale fu Lantenac. Chiedetene al vostro collega Dussaulx.

Robespierre rimase un momento sovrappensiero, poi, tra lui e Cimourdain il dialogo riprese:

- Orbene, cittadino Cimourdain, quell'uomo è in Vandea.

- Da quando?

- Da tre settimane.

- Bisogna metterlo fuori della legge.

- Già fatto.

- Bisogna mettere una taglia sul suo capo.

- Già fatto.

- Bisogna offrire molto danaro a chi lo prenderà.

- Già fatto.

- Non in assegnati.

- Già fatto.

- In oro.

- Già fatto.

- E si deve ghigliottinarlo.

- Sarà fatto.

- Da chi?

- Da voi.

- Da me?

- Si, sarete delegato dal comitato di salute pubblica, con pieni poteri.

- Accetto, - disse Cimourdain.

Robespierre era rapido nelle sue scelte; qualità di uomo di Stato.

Prese dalla cartella che aveva innanzi un foglio di carta bianca in testa al quale si leggeva, stampato: "Repubblica Francese, una e indivisibile. Comitato di salute pubblica".

Cimourdain continuò:

- Sì, accetto. Terribile contro terribile. Lantenac è feroce, lo sarò anch'io. Guerra a morte con quell'uomo. Ne libererò la repubblica, a Dio piacendo.

Ebbe una pausa, poi riprese :

- Sono prete. Fa lo stesso; credo in Dio.

- Dio è invecchiato, - disse Danton.

- Io credo in Dio, - disse Cimourdain impassibile.

D'un cenno di testa, Robespierre, sinistro, approvò. Cimourdain riprese:

- Presso chi sarò delegato?

Robespierre rispose:

- Presso il comandante della colonna di spedizione mandata contro Lantenac. Vi avverto, però, che è un nobile.

Danton esclamò:

- Altra cosa di cui me la rido. Un nobile? E con questo? Avviene del nobile quel che avviene del prete. Se è buono, è ottimo. La nobiltà è un pregiudizio; ma non bisogna averlo più in un senso che nell'altro, più contro che in favore di essa. O che Saint-Just non è forse un nobile, Robespierre? Fiorello di Saint-Just, perbacco! Anacharsi Cloots è barone. Il nostro amico Carlo Hesse, che non manca a una seduta dei Cordiglieri, è principe e fratello del langravio regnante di Herse-Rothenbourg. Montaut, l'intimo di Marat, è marchese di Montaut. Nel tribunale rivoluzionario c'è un giurato che è frate e un giurato che è nobile, Leroy, marchese di Montflabert. Sono entrambi sicuri.

- E dimenticate, - soggiunse Robespierre, - il capo della giuria rivoluzionaria.

- Antonelle?

- Che è il marchese Antonelle, - disse Robespierre.

Danton riprese:

- Un nobile è Dampierre, che si è appena fatto ammazzare per la repubblica davanti a Condé, e un nobile è Beaurepaire, che si è fatto saltare le cervella piuttosto che aprire le porte di Verdun ai prussiani.

- Il che non impedisce, - brontolò Marat, - che il giorno in cui Condorcet disse: "I Gracchi erano nobili", Danton non abbia gridato al Condorcet: "Tutti i nobili sono traditori, a cominciare da Mirabeau per finire con te".

La voce grave di Cimourdain si alzò di tono:

- Cittadino Danton, cittadino Robespierre, voi forse avete ragione di aver fiducia; ma il popolo diffida, e non ha torto di diffidare.

Quando si tratta d'un prete incaricato di sorvegliare un nobile, la responsabilità è doppia e bisogna che il prete sia inflessibile.

- Certo, - disse Robespierre.

Cimourdain soggiunse:

- E inesorabile.

Robespierre riprese:

- Sta bene, cittadino Cimourdain. Avrete a che fare con un giovane.

Siccome avete il doppio della sua età, avrete qualche ascendente su di lui. Bisogna dirigerlo ma trattarlo con riguardo. Pare che non manchi di attitudini militari; sotto questo aspetto, tutti i rapporti sono unanimi. Fa parte di un corpo d'armata che fu staccato dall'esercito del Reno per essere inviato in Vandea. E' appena arrivato dalla frontiera dove ha meravigliato per la sua intelligenza e per il suo coraggio. Conduce la colonna di spedizione in modo veramente superiore. Tiene da quindici giorni in iscacco quel vecchio marchese di Lantenac. Lo incalza e lo risospinge davanti a sé. Finirà col metterlo con le spalle al mare e buttarvelo dentro. Lantenac possiede l'astuzia d'un vecchio generale, e lui ha l'audacia d'un giovane condottiero. Questo giovane conta già nemici e invidiosi. L'aiutante generale Léchelle ne è geloso.

- Questo Léchelle, - intervenne Danton, - vuol essere generale in capo. Ma non ha in suo favore che un gioco di parole: "Ci vuole la scala [l'échelle] per salire sulla carretta [Charette]". Frattanto, Charette lo batte.

- E non vuole, - proseguì Robespierre, - che alcun altro all'infuori di lui batta Lantenac. La sventura della guerra di Vandea consiste appunto in queste rivalità. Eroi comandati male, ecco che cosa sono i nostri soldati. Un semplice capitano degli ussari, Chambon, entra in Saumur con un trombettiere, suonando il "Ça ira", e prende Saumur; potrebbe continuare e prendere Cholet, ma non ha ordini, e si ferma.

Bisogna rivedere tutti i comandi della Vandea. Si sparpagliano i corpi di guardia e si disperdono le forze; un esercito sparpagliato è un esercito paralizzato, è un masso ridotto in polvere. Al campo di Paramé non ci sono più che tende. Fra Tréguier e Dinan ci sono cento piccoli posti inutili, coi quali si potrebbe costituire una divisione e proteggere tutto il litorale. Léchelle, appoggiato da Parrein, sguarnisce la costa a nord col pretesto di proteggere la costa a sud, e apre così la Francia agli inglesi. Mezzo milione di contadini sollevati e una calata dell'Inghilterra in Francia: ecco il piano di Lantenac. Il giovane comandante della colonna di spedizione punta la spada alle reni di quel Lantenac e lo stringe da presso e lo batte senza il permesso di Léchelle. Ora, Léchelle è suo superiore, così Léchelle lo denuncia. I pareri su quel giovane sono contrastanti.

Léchelle vuole farlo fucilare. Prieur della Marna lo vuol promuovere aiutante generale.

- Mi pare che quel giovane abbia grandi qualità, - disse Cimourdain.

- Ma ha un difetto.

L'interruzione era di Marat.

- Quale? - domandò Cimourdain.

- La clemenza, - disse Marat; che proseguì: - E' risoluto in battaglia, e tenero dopo. Cade nell'indulgenza, perdona, grazia, protegge le suore e le monache. salva le mogli e le figlie degli aristocratici, rilascia i prigionieri, mette in libertà i preti.

- Colpa grave, - sentenziò Cimourdain.

- Delitto, - disse Marat.

- Qualche volta, - disse Danton.

- Spesso, - disse Robespierre.

- Quasi sempre, - riprese Marat.

- Sempre, quando si ha a che fare coi nemici della patria, - disse Cimourdain.

Marat si voltò verso di lui.

- E che ne faresti dunque tu d'un comandante repubblicano che mettesse in libertà un comandante realista?

- Sarei del parere di Léchelle - lo farei fucilare.

- O ghigliottinare, - disse Marat.

- A scelta, - disse Cimourdain.

Danton si mise a ridere.

- Mi piace tanto l'una cosa che l'altra.

- Sta pur sicuro che l'una cosa o l'altra l'avrai, - brontolò Marat.

E il suo sguardo, staccandosi da Danton, ritornò su Cimourdain.

- Dunque, cittadino Cimourdain, se un comandante repubblicano tentennasse, gli faresti tagliare la testa, tu?

- Entro le ventiquattro ore.

- Ebbene, - riprese Marat; - io sono del parere del Robespierre, bisogna mandare il cittadino Cimourdain in qualità di commissario delegato del comitato di salute pubblica presso il comandante della colonna di spedizione dell'esercito delle coste. A proposito, come si chiama questo comandante?

Robespierre rispose:

- E' un ex, un nobile.

E si mise a sfogliare la cartella.

- Diamo al prete da custodire il nobile, - disse Danton. - Io diffido d'un prete che sia solo; diffido di un nobile che sia solo. Quando sono insieme non li temo. L'uno sorveglia l'altro, e vanno bene.

Lo sdegno caratteristico del sopracciglio di Cimourdain si accentuò; ma trovando indubbiamente che, in fondo, l'osservazione era giusta, non si voltò affatto verso Danton, e alzò la voce severa:

- Se il comandante repubblicano che mi è affidato fa un passo falso, pena di morte.

Robespierre, gli occhi sull'incartamento, disse:

- Ecco il nome. Cittadino Cimourdain, il comandante sul quale avrete pieni poteri è un ex visconte. Si chiama Gauvain.

Cimourdain impallidì.

- Gauvain! - esclamò.

Marat notò il pallore di Cimourdain.

- Il visconte Gauvain, - ripeté Cimourdain.

- Sì, - disse Robespierre.

- Ebbene? - disse Marat, l'occhio fisso su Cimourdain.

Vi fu un attimo di pausa. Poi Marat riprese:

- Cittadino Cimourdain, accettate voi, alle condizioni indicate da voi stesso, la missione di commissario delegato presso il comandante Gauvain? E' detto?

- E? detto, - rispose Cimourdain, che andava facendosi sempre più pallido.

Robespierre prese la penna che aveva accanto, scrisse con la sua scrittura lenta e corretta quattro righe sul foglio di carta che recava in testa l'indicazione "Comitato di salute pubblica", firmò e passò il foglio e la penna a Danton; Danton firmò, e Marat, che non distoglieva gli occhi dalla faccia livida di Cimourdain, firmò dopo Danton.

Riprendendo il foglio, Robespierre lo datò e lo restituì a Cimourdain, che lesse:

"ANNO SECONDO DELLA REPUBBLICA "Sono dati pieni poteri al cittadino Cimourdain, commissario delegato del comitato di salute pubblica presso il cittadino Gauvain, comandante la colonna di spedizione dell'esercito delle coste.

"Robespierre - Danton - Marat".

E, sotto le firme:

"28 giugno 1793".

Il calendario rivoluzionario, detto calendario civile, non esisteva ancora legalmente, a quell'epoca, né doveva essere adottato dalla Convenzione, su proposta di Romme, che il 5 ottobre 1793.

Mentre Cimourdain leggeva, Marat lo fissava.

Marat disse a mezza voce, come se parlasse a se stesso:

- Bisognerà far precisare ogni cosa con un decreto della Convenzione o con una ordinanza speciale del comitato di salute pubblica. C'è ancora qualche cosa da fare.

- Cittadino Cimourdain, - domanda Robespierre; - dove abitate?

- Alla Corte di commercio.

- Toh! anch'io, - disse Danton. - Siete mio vicino.

Robespierre riprese:

- Non c'è un momento da perdere. Domani riceverete il vostro decreto di nomina in piena regola, firmato da tutti i membri del comitato di salute pubblica. Questa è una conferma dell'incarico, che vi accrediterà in special modo presso i rappresentanti in missione, Philippeaux, Prieur della Marna, Lecointre, Alquier e gli altri.

Sappiamo chi siete. I vostri poteri sono illimitati. Potete promuovere generale Gauvain o mandarlo al patibolo. Avrete il decreto domani alle tre. Quando partirete?

- Alle quattro, - disse Cimourdain.

E si separarono.

Rincasando, Marat avvertì Simona Evrard (1) che il giorno dopo si sarebbe recato alla Convenzione.

 

 

 

NOTE:

 

  1. Simona Evrard: amante di Marat.

 

 

 

LIBRO TERZO

LA CONVENZIONE

 

1.

LA CONVENZIONE (1)

 

Ci accostiamo alla grande vetta.

Ecco la Convenzione.

Davanti a questa sommità lo sguardo si fissa.

Sull'orizzonte degli uomini non è mai apparso nulla di più alto.

C'è l'Himalaia e c'è la Convenzione.

La Convenzione è forse il punto culminante della storia.

Essa vivente, dacché un'assemblea vive, la gente non si rendeva conto di quel che fosse la Convenzione. Ai suoi contemporanei ne sfuggiva per l'appunto la grandezza. Tutti erano troppo spaventati per essere sbalorditi. Tutto ciò che è grande ha un suo sacro orrore. Ammirare i mediocri e le colline è cosa facile; ma ciò che è troppo alto, tanto un genio quanto una montagna, tanto un'assemblea quanto un capolavoro, spaventa, se visto troppo da vicino. Ogni cima sembra una esagerazione. Scalare stanca. Si fa il fiato grosso, sui dirupi, si scivola sulle scarpate, ci si ferisce sulle asperità che sono altrettante bellezze; i torrenti, spumeggiando, denunciano i precipizi, le nubi nascondono le vette; l'ascesa atterrisce quanto la caduta. Da ciò, più spavento che ammirazione. L'avversione per ciò che è grande, bizzarro sentimento, si prova davvero. Gli abissi si vedono, le eminenze no. Si scorge il mostro, il prodigio non si vede.

Così, a tutta prima, fu considerata la Convenzione. Fatta per essere contemplata dalle aquile, fu squadrata dai miopi.

Oggi, in prospettiva, essa disegna, sullo sfondo del cielo, uno sfondo sereno e tragico, l'immenso profilo della rivoluzione francese.

(2) Il 14 luglio aveva liberato.

Il 10 agosto aveva fulminato.

Il 21 settembre fondò.

Il 21 settembre. L'equinozio. L'equilibrio. "Libra". La bilancia. La repubblica, come fece notare Romme, fu proclamata sotto questo emblema dell'Uguaglianza e della Giustizia. L'annuncio ne fu dato da una costellazione.

La Convenzione è il primo "avatar" del popolo. Fu con essa che si aprì la grande pagina nuova e che incominciò l'attuale avvenire.

A ogni idea occorre un involucro visibile; a ogni principio occorre una abitazione. Una chiesa, è Dio fra quattro mura; a ogni dogma occorre un tempio. Quando la Convenzione fu, ci fu un primo problema da risolvere: alloggiare la Convenzione.

Fu dapprima presa la Cavallerizza, poi le Tuileries. Vi si rizzarono una impalcatura, con fregio e grande chiaroscuro dipinto da David, banchi simmetrici, una tribuna quadrata, pilastri paralleli, zoccoli simili a ceppi, lunghe travi rettilinee, alveoli rettangolari, dove si pigiava la moltitudine, che venivano chiamati pubbliche tribune, un velario romano, panneggiamenti greci, e in quegli angoli a squadra e in quelle linee rette venne allogata la Convenzione. Fu messa, in tanta geometria, tanta tempesta. Sulla tribuna era dipinto in grigio il berretto rosso. I realisti cominciarono col ridere di quel berretto rosso in grigio, di quell'aula posticcia, di quel monumento di cartone, di quel santuario di cartapesta, di quel pantheon di fango e di sputi. Come avrebbe fatto presto a scomparire! Le colonne erano fatte con doghe di botti, le volte erano di assicelle, i bassorilievi erano di stucco, i cornicioni erano di abete, le statue erano di gesso, i marmi erano dipinti, le pareti erano di tela: e in quel provvisorio la Francia costruì l'eterno.

Le pareti della sala della Cavallerizza, quando la Convenzione incominciò a tenervi le sue sedute, erano tutte rivestite da manifesti che avevano pullulato in Parigi al tempo del ritorno da Varennes. Su uno si leggeva:

"Il re ritorna. Bastonare chi l'applaudirà, impiccare chi l'insulterà". Su un altro: "Silenzio. Cappelli in testa. Passerà davanti ai suoi giudici". Su un altro ancora: "Il re ha preso di mira la nazione. Ha sparato a lungo. Tocca alla nazione, adesso, sparare".

Su un altro: "La legge! La legge!". Tra quelle pareti la Convenzione giudicò Luigi Sedicesimo.

Alle Tuileries, che dopo il 10 maggio 1793, quando la Convenzione vi andò a tenere le sue sedute, si chiamarono Palazzo Nazionale, la sala delle sedute occupava tutto l'intervallo tra il padiglione dell'Orologio, chiamato Padiglione Unità, e il padiglione Marsan, chiamato padiglione Libertà. Il padiglione di Flora si chiamava padiglione Uguaglianza. Alla sala delle sedute si accedeva dal grande scalone di Giovanni Bullant. Sotto il primo piano, occupato dall'assemblea, tutto il pianterreno del palazzo costituiva una specie di lunga sala delle guardie, ingombra di fasci d'armi e di letti da campo delle truppe di ogni arma che vegliavano intorno alla Convenzione. L'assemblea aveva una guardia d'onore, detta dei "granatieri della Convenzione".

Un nastro tricolore separava il castello, dov'era l'assemblea, dal giardino, dove il popolo andava e veniva.

(3) Terminiamo di dire che cos'era la sala delle sedute. Tutto interessa, di quel luogo terribile.

Entrando, una cosa colpiva subito lo sguardo, ed era, tra due larghe finestre, un'alta statua della Libertà.

Quarantadue metri di lunghezza, dieci di larghezza, undici di altezza erano le dimensioni di quello che era stato il teatro del re e che divenne il teatro della rivoluzione. L'elegante e magnifica sala costruita dal Vigarani per i cortigiani sparì sotto la selvaggia impalcatura che nel '93 dovette subire il peso del popolo. Questa impalcatura, sulla quale sorgevano le tribune, aveva, particolare che vale la pena di essere notato, per unico punto d'appoggio un pilastro di legno. Questo pilastro di legno era d'un sol pezzo e reggeva una campata di dieci metri. Poche cariatidi hanno lavorato come questo pilastro: ha sostenuto per anni la rude spinta della rivoluzione. Ha sorretto l'acclamazione, l'entusiasmo, l'ingiuria, il chiasso, il tumulto, l'immenso caos delle collere, la sommossa. Non ha piegato.

Dopo la Convenzione, ha visto il consiglio degli Anziani. Il 18 brumaio l'ha messo in disparte.

Allora Percier sostituì il pilastro di legno con delle colonne di marmo, che durarono meno.

L'ideale degli architetti, talvolta, è singolare. L'architetto di via Rivoli ha avuto per ideale la traiettoria d'una palla di cannone; l'architetto di Carlsruhe ha avuto per ideale un ventaglio; si direbbe che l'ideale dell'architetto che progettò la sala dove, il 10 maggio 1793, andò a tenere le sue sedute la Convenzione, sia stato un gigantesco tiretto da cassettone. Era lunga, alta e liscia. A uno dei lati maggiori del parallelogramma era addossato un vasto semicerchio; era l'emiciclo dei banchi dei rappresentanti, senza tavolo né leggii.

Garan-Coulon, che scriveva molto, scriveva sul ginocchio. Di fronte ai banchi, la tribuna; davanti alla tribuna, il busto di Lepelletier- Saint-Fargeau; dietro alla tribuna, il seggio del presidente.

La testa del busto superava un poco l'orlo della tribuna, motivo per cui venne più tardi rimosso.

L'emiciclo si componeva di diciannove banchi semicircolari, posti l'uno dietro l'altro. Segmenti rettilinei di banco prolungavano l'emiciclo da una parte e dall'altra.

In basso, nel ferro di cavallo ai piedi della tribuna, stavano gli uscieri.

A un lato della tribuna era appeso al muro, in una cornice di legno nero, un cartello alto nove piedi, che portava, su due pagine separate da uno scettro, la "Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo". All'altro lato c'era uno spazio vuoto, che, col tempo, fu occupato da un quadro simile, contenente la costituzione dell'anno secondo, le due pagine della quale erano separate da una spada. Sopra la tribuna, sopra la testa dell'oratore, fremevano, uscendo da un profondo palco a due scompartimenti, gremito di popolo, tre immense bandiere tricolori, quasi orizzontali, appoggiate a un'ara sulla quale si leggevano queste parole: "La Legge". Dietro quell'ara si ergeva, come a sentinella della libera parola, un enorme fascio romano, alto come una colonna.

Colossali statue ritte contro il muro, fronteggiavano i rappresentanti. Il presidente aveva alla sua destra Licurgo e alla sua sinistra Solone; sopra la Montagna c'era Platone.

Quelle statue avevano per piedistalli semplici dadi, posti su un cornicione a sbalzo che girava tutto attorno ala sala e separava il pubblico dall'assemblea. Gli spettatori puntavano i gomiti su quel cornicione.

Il quadro incorniciato di nero del cartello dei "Diritti dell'Uomo", giungeva fino al cornicione e interrompeva il disegno del fregio.

Effrazione della linea retta, che faceva brontolare Chabot. "E' brutto", egli diceva a Vadier.

Sulle teste delle statue si alternavano corone di quercia e corone di lauro.

Un verde panneggiamento, sul quale erano dipinte in un verde più cupo le stesse corone, scendeva a grosse pieghe rigide dal cornicione che correva in giro in giro e tappezzava tutta la parte inferiore della sala occupata dall'assemblea. Al di sopra di quel panneggiamento, la muraglia era bianca e gelida. In essa si aprivano, come se fossero state ritagliate con lo stampo, senza modanature né viticci, due ripiani di pubbliche tribune di cui le inferiori erano quadrate e le superiori semicircolari. Gli archivolti, come esigeva la regola, poiché il Vitruvio non era stato detronizzato, erano sovrapposti agli architravi. Lungo ciascuno dei lati maggiori della sala correvano dieci tribune, mentre i lati minori reggevano due palchi smisurati:

ventiquattro in tutto. In essi si stipava la folla.

Gli spettatori delle tribune inferiori traboccavano su tutte le sporgenze piatte, si raggruppavano su tutti i rilievi architettonici.

Una lunga sbarra di ferro, solidamente infissa ad altezza di appoggio, serviva da parapetto alle tribune superiori e garantiva gli spettatori contro la pressione della calca che saliva le scale. Una volta, comunque, un uomo fu precipitato nell'assemblea, e cadendo sfiorò Massieu, vescovo di Beauvais. Non si accoppò, e disse: "Toh! serve dunque a qualche cosa un vescovo!".

La sala della Convenzione poteva contenere duemila persone, e, nei giorni di insurrezione, tremila.

La Convenzione teneva due sedute, una di giorno, l'altra di sera.

La spalliera del seggio presidenziale era tonda, a borchie dorate. La sua tavola era sorretta da quattro mostri alati a un solo piede, che si sarebbero detti usciti dalle apocalissi per assistere alla rivoluzione. Sembrava che fossero stati staccati dal carro di Ezechiele perché andassero a trainare la carretta di Sanson (1).

Sulla tavola presidenziale c'era un grosso campanello, una campana quasi, un grande calamaio di rame, e un "in-folio" rilegato in pergamena, che era il registro dei processi verbali.

Su quella tavola hanno sgocciolato il loro sangue teste mozze portate in cima a una picca.

Si accedeva alla tribuna da una scalinata di nove gradini. Quei gradini erano alti, ripidi e scomodi quanto mai. Un giorno fecero inciampare Gensonné, che li saliva: "E' una scala da patibolo!", disse. "Facci il tirocinio!", gli gridò Carrier.

Là dove il muro era sembrato troppo nudo, e negli angoli della sala, l'architetto aveva collocato per decorazione fasci con la scure in fuori.

A destra e a sinistra della tribuna c'erano zoccoli che reggevano due candelabri di dodici piedi d'altezza che portavano in cima quattro paia di lampade a becchi plurimi. In ognuna delle tribune pubbliche c'era un candelabro simile. Sugli zoccoli di quei candelabri erano scolpiti dei cerchi che il popolo chiamava "collari da ghigliottina".

I banchi dell'assemblea salivano fin quasi al cornicione delle tribune; i rappresentanti e il pubblico potevano conversare tra loro.

Le uscite dalle tribune davano in un labirinto di corridoi, pieni talvolta d'un selvaggio clamore.

La Convenzione colmava il palazzo e traboccava fin nei palazzi accanto, quello di Longueville e quello di Coigny. Fu nel palazzo di Coigny che, dopo il 10 agosto, a prestar fede a una lettera di lord Bradford, fu trasportato il regio mobilio. Per vuotare le Tuileries ci vollero due mesi.

I comitati erano collocati nelle vicinanze della sala: nel padiglione Uguaglianza la legislazione, l'agricoltura e il commercio; nel padiglione Libertà, la marina, le colonie, le finanze, gli assegnati, la salute pubblica; nel padiglione Unità la guerra.

Il comitato di sicurezza generale comunicava direttamente con quello di salute pubblica a mezzo di un buio corridoio illuminato notte e giorno da una lampada, dove andavano e venivano le spie di tutti i partiti. Vi si parlava sottovoce.

La sbarra d'ingresso della Convenzione fu spostata parecchie volte. Di solito, era a destra del presidente.

Alle due estremità della sala, i due tramezzi verticali che limitavano a destra e a sinistra gli emicicli concentrici dell'anfiteatro, lasciavano tra essi e il muro due corridoi angusti e profondi cui immettevano due cupe porte quadrate. Si entrava e si usciva da quelle.

I rappresentanti entravano direttamente nell'aula da un uscio che dava sulla terrazza dei Foglianti.

Quella sala, di giorno poco illuminata da scialbe finestre, mal rischiarata, al sopravvenire del crepuscolo, da due livide fiaccole, aveva un non so che di notturno. Quella mezza illuminazione si addizionava alle tenebre della sera. Le sedute al bagliore delle lampade erano lugubri. Non ci si vedeva. Da una estremità all'altra della sala, da destra a sinistra, s'insultavano gruppi di facce che si indovinavano appena. Si incontravano senza riconoscersi. Un giorno Laignelot, correndo alla tribuna, va a cozzare, nel corridoio, contro qualcuno. "Scusa, Robespierre!", dice. "Per chi mi prendi?", risponde una voce rauca. "Scusa, Marat!", dice Laignelot.

In basso, a destra e a sinistra del presidente, c'erano due tribune riservate. Già, era strano, ma alla Convenzione c'erano spettatori privilegiati. Quelle tribune erano le sole che avessero un panneggiamento. Quel panneggiamento era sollevato, al centro dell'architrave, da due ghiande d'oro. Le tribune del popolo erano nude.

Tutto quell'insieme era violento, selvaggio, regolare. La correttezza nella ferocia: la rivoluzione, si potrebbe quasi dire, è tutta qui. La sala della Convenzione offriva il più completo campionario di ciò che gli artisti chiamarono poi "l'architettura messidoro". Era gracile e massiccia. I costruttori di quel tempo prendevano per bello la simmetria. L'ultima parola del Rinascimento era stata detta sotto Luigi Quindicesimo, e si aveva avuto una reazione. Il nobile era stato spinto fino allo scipito, e la purezza fino alla noia. In architettura esiste la schifiltà. Dopo le abbacinanti orge di forma e di colore del secolo diciottesimo, l'arte si era messa a dieta, né si permetteva più che la linea retta. Un simile genere di progresso sfocia nella bruttezza. L'arte, ridotta a scheletro: ecco il fenomeno.

L'inconveniente delle saggezze e delle astinenze di quella specie è appunto quello: lo stile è così sobrio, che diventa magro.

Indipendentemente da ogni emozione politica, e non avuto riguardo che all'architettura, da quella sala si sprigionava un certo brivido.

Tornavano vagamente alla memoria l'antico teatro, i palchi inghirlandati, il soffitto azzurro e porpora, il lampadario sfaccettato, i candelabri dai riflessi diamantini, le tappezzerie color tortora, la profusione di amorini e di ninfe sul sipario e sui panneggiamenti, tutto l'idillio regale e galante, dipinto, scolpito e dorato, che aveva riempito del suo sorriso quel luogo severo, e si guardavano dovunque, intorno, quei duri angoli retti, freddi e taglienti come l'acciaio; era qualche cosa come il Boucher ghigliottinato dal David.

(4) Chi vedeva l'assemblea non pensava più alla sala. Chi vedeva il dramma non pensava più al teatro. Nulla di più deforme e di più sublime. Un gran numero di eroi e un gregge di vigliacchi. Belve su una montagna, rettili in un pantano. Ivi formicolavano, si davano di gomito, si provocavano, si minacciavano, lottavano e vivevano tutti quei combattenti che oggi sono fantasmi.

Titanico elenco.

A destra, la Gironda, legione di pensatori; a sinistra la Montagna, schiera d'atleti. Da una parte Brissot che aveva ricevuto la chiave della Bastiglia; Barbaroux, al quale obbedivano i marsigliesi; Kervélégan, che teneva in pugno il battaglione di Brest, accasermato nel sobborgo di San Marcello; Gensonné, che aveva stabilito la supremazia dei rappresentanti sui generali; il fatale Guadet, al quale una notte, alle Tuileries, la regina aveva mostrato il delfino addormentato; Guadet baciò la fronte del fanciullo e fece cadere la testa del padre; Salles, chimerico denunciatore delle intimità della Montagna con l'Austria; Sillery, lo zoppo della destra, come Couthon era lo sciancato della sinistra; Lause-Duperret, che, trattato da "scellerato" da un giornalista, l'invitò a pranzo, dicendo: "So che "scellerato" non vuol dire se non l'uomo che non la pensa come noi"; Rabaut-Saint Etienne, che aveva incominciato il suo almanacco del 1790 con queste parole: "La rivoluzione è finita"; Quinet, uno di quelli che fecero cadere Luigi Sedicesimo; il giansenista Camus, che redigeva la costituzione civile del clero, credeva ai miracoli del diacono Pâris, e si prosternava tutte le notti davanti a un Cristo alto sette piedi inchiodato a una parete della sua camera; Fauchet, un prete, che, con Camillo Desmoulins, aveva fatto il 14 luglio; Isnard, che commise il delitto di dire: "Parigi sarà distrutta", nello stesso momento in cui Brunswick diceva: "Parigi sarà arsa"; Giacobbe Dupont, il primo che gridò: "Io sono ateo" e al quale Robespierre rispose:

"L'ateismo è aristocratico"; Lanjuinais, dura, sagace e valida testa bretone; Ducos, l'Eurialo di Boyer-Fonfrède; Rebecqui, Pilade di Barbaroux; Rebecqui si dimetteva perché non s'era ancora provveduto a ghigliottinare Robespierre; Richaud, che combatteva la permanenza delle sezioni; Lasource, che aveva pronunciato questo apoftegma assassino: "Disgrazia alle nazioni riconoscenti!", e che, ai piedi del patibolo, doveva contraddirsi con queste altere parole gettate ai montagnardi: "Noi moriamo perché il popolo dorme, e voi morirete perché il popolo si sveglierà"; Biroteau, che fece decretare l'abolizione dell'inviolabilità, e fu in tal modo, senza saperlo, causa del suo male, rizzandosi da sé il proprio patibolo; Carlo Villette, che salvaguardò la propria coscienza con questa protesta:

"Non intendo votare sotto i coltelli"; Louvet, l'autore del "Faublas", che doveva finire libraio al Palazzo Reale, con Lodoïska al banco; Mercier, l'autore del "Quadro di Parigi", che esclamava: "Tutti i re hanno sentito sulla loro nuca il 21 gennaio"; Marec, preoccupato dalla "fazione degli antichi limiti"; il giornalista Carra, che, ai piedi del patibolo, disse al carnefice: "Mi secca morire. Avrei voluto vedere il seguito"; Vigée, che si proclamava granatiere del secondo battaglione di Mayenne-et-Loire, e che, minacciato dalle pubbliche tribune, esclamava: "Chiedo che al primo mormorio delle tribune ci si ritiri tutti, per recarci a Versailles, spada in mano!"; Buzot, riservato alla morte per fame; Volazé, promesso al suo proprio pugnale; Condorcet, che doveva morire a Bourg-la-Reine diventato Borgo Uguaglianza, denunciato dall'Orazio che aveva in tasca; Pétion, il cui destino era d'essere adorato dalla folla nel 1792 e divorato dai lupi nel 1794; venti altri ancora, Pontécoulant, Marboz, Lidon, Saint- Martin, Dussaulx, traduttore di Giovenale, che aveva fatto la campagna dell'Hannover, Boileau, Bertrand, Lesterp-Beauvais, Lesage, Gomaire, Gardien, Mainvieille, Dupiantier, Lacaze, Antiboul e alla testa un Barnave, che veniva chiamato Vergniaud.

Dall'altra parte, Antonio Luigi Leone Fiorello di Saint-Just, pallido, dalla fronte bassa, dal profilo corretto, dall'occhio misterioso, dalla tristezza profonda, di ventitré anni; Merlino di Thionville, che i tedeschi chiamavano "Feuer-Teufel", il "diavolo di fuoco", Merlino di Douai, il colpevole autore della legge dei sospetti; Soubrany, che il popolo di Parigi, il primo pratile, chiese per generale; l'ex curato Lebon, che impugnava la sciabola con la mano che aveva cosparso l'acqua benedetta; Billaud-Varennes, che intravedeva la magistratura dell'avvenire: non giudici, ma arbitri; Fabre d'Eglantine, che ebbe una graziosissima trovata, il calendario repubblicano come Rouget de Lisle ebbe una ispirazione sublime, la "Marsigliese", tanto l'uno che l'altro, però, senza recidiva; Manuel, procuratore della Comune, che aveva detto: "Un re morto non è un uomo di meno"; Goujon, che era entrato in Tripstadt, in Newstadt e in Spira, e aveva visto fuggire l'esercito prussiano; Lacroix, avvocato mutato in generale, fatto cavaliere di San Luigi sei giorni prima del 10 agosto; Fréron- Thersite, figlio di Fréron-Zoïle; Ruhll, l'inesorabile frugatore dell'armadio di ferro, predestinato al grande suicidio repubblicano, dovendosi uccidere lo stesso giorno in cui sarebbe morta la repubblica; Fouché, anima di demonio, faccia di cadavere; Camboulas, l'amico del padre Duchêne, che diceva a Guillotin: "Tu sei del circolo dei Foglianti, ma tua figlia è del circolo dei Giacobini"; Jagot, che a quanti compiangevano la nudità dei prigionieri rispondeva: "Una prigione è un abito di pietra"; Javogues, lo spaventevole esumatore delle tombe di San Dionigi; Osselin, proscrittore, che nascondeva in casa sua una proscritta, la signora Charry; Bentabolle, che, quando presiedeva, faceva segno alle tribune di applaudire o di fischiare; il giornalista Robert, marito della signorina Kéralio, la quale scriveva:

"Né Robespierre né Marat vengono da me; Robespierre ci verrà quando vorrà, Marat non ci verrà mai"; Garan-Coulon, che aveva fieramente chiesto, quando la Spagna era intervenuta nel processo di Luigi Sedicesimo, che l'assemblea non si degnasse di leggere la lettera d'un re a favore di un re; Grégoire, dapprima vescovo degno della Chiesa primitiva, ma che più tardi, sotto l'Impero, cancellò il repubblicano Grégoire con il conte Grégoire; Amar, che diceva: "Tutta la terra condanna Luigi Sedicesimo. A chi dunque appellarsi contro il giudizio?

Ai pianeti"; il Rouyer, che si era opposto, il 21 gennaio, a che si sparasse il cannone del Ponte Nuovo, dicendo: "Una testa di re non deve fare, cadendo, più rumore della testa d'un altro uomo"; Chénier, fratello di Andrea; Vadier, uno di quelli che posavano una pistola sulla tribuna; Tanis, che diceva al Momoro: "Voglio che Marat e Robespierre si abbraccino alla mia tavola, in casa mia". "Dove abiti?". "A Charenton". "Altrove mi avrebbe stupito" (2), diceva Momoro; Legendre, che fu il macellaio della rivoluzione di Francia come Pride era stato il macellaio della rivoluzione d'Inghilterra; "Vieni che t'accoppo!", gridava a Lanjuinais. E questi gli rispondeva:

"Fai prima decretare che io sono un bue".

Collot d'Herbois, il lugubre commediante che aveva sul volto l'antica maschera dalle due bocche, che dicono sì e no, approvando con l'una quanto biasimava con l'altra, colpendo Carrier a Nantes e deificando Châlier a Lione, mandando Robespierre al patibolo e Marat al Pantheon; Génissieux, che chiedeva la pena di morte contro chiunque avesse su di sé la medaglia "Luigi Sedicesimo martire"; Leonardo Bourdon, il maestro di scuola che aveva offerto la propria casa al vecchio del monte Giura; Topsent, marinaio; Goupilleau, avvocato; Lorenzo Lecointre, negoziante; Duhem, medico; Sergent, statuario; David, pittore; Giuseppe Egalité, principe. Altri ancora: Lecointe-Puiraveau che chiedeva che Marat fosse dichiarato per decreto "in stato di demenza"; Robert Lindet, l'inquietante creatore di quella piovra la cui testa era il comitato di sicurezza generale e che copriva la Francia di ventunmila tentacoli chiamati comitati rivoluzionari; Leboeuf, sul quale Girey-Dupré, nel suo "Natale dei falsi patrioti" aveva scritto questo verso:

Leboeuf [il bue] vide Legendre e mugghiò.

Tommaso Paine, americano, e clemente; Anacharsi Cloots, tedesco, barone, milionario, ateo, hebertista, candido; l'integro Lebas, amico dei Duplay; Rovère, uno dei rari uomini che sono cattivi per la cattiveria, ché l'arte per l'arte esiste più di quanto non si creda; Charlier, che voleva si desse del "voi" agli aristocratici; Tallien, elegiaco e feroce, che farà il 9 termidoro per amore; Cambacérès, procuratore, che sarà principe; Carrier, procuratore, che sarà tigre; Laplanche, che un giorno gridò: "Chiedo la priorità per il cannone di allarme"; Thuriot, che voleva il voto ad alta voce dei giurati del tribunale rivoluzionario; Bourdon dell'Oise, che provocava a duello Chambon, denunciava Paine e veniva denunciato da Hébert; Fayau, che proponeva "l'invio di un esercito incendiario in Vandea"; Tavaux, che il 13 aprile fu quasi un mediatore fra la Gironda e la Montagna; Vernier, che chiedeva che i caporioni dei girondini e quelli dei montagnardi andassero a servire come semplici soldati; Rewbell, che si chiuse in Magonza; Bourbotte, che ebbe il cavallo ucciso sotto di sé alla presa di Saumur; Guimberteau, che condusse l'esercito delle Coste di Cherbourg; Jard-Panvilliers, che condusse l'esercito delle Coste della Rochelle; Lecarpentier, che condusse la squadra di Cancale; Roberjot, atteso dalla trappola di Rastadt; Prieur della Marna, che portava sui campi di battaglia la sua vecchia controspallina di comandante di squadrone; Levasseur della Sarthe, che, con una parola, decideva Serrent, comandante del battaglione di Saint-Amand, a farsi ammazzare; Reverchon, Maure, Bernardo di Saintes, Carlo Richard, Lequinio, e, in vetta al gruppo un Mirabeau detto Danton.

Fuori di questi due campi, ma tale da tenerli in rispetto entrambi, si ergeva un uomo: Robespierre.

(5) Al di sotto si curvavano lo spavento, che può essere nobile, e la paura, che è sempre volgare. Sotto le passioni, sotto gli eroismi, sotto le dedizioni, sotto le collere, stava la tetra ressa degli anonimi. I bassifondi dell'assemblea si chiamavano la Pianura. C'era colà tutto ciò che ondeggia: gli uomini che dubitano, che esitano, che indietreggiano, che temporeggiano, che spiano, ciascuno temendo qualcuno. La Montagna erano gente d'elezione, la Gironda erano gente d'elezione; la Pianura era la folla. La Pianura si riassumeva e si compendiava in Sieyès.

Sieyès, uomo profondo diventato vacuo. Si era fermato al terzo stato e non aveva potuto salire fino al popolo. Si danno mentalità fatte per rimanere a mezza costa. Sieyès chiamava tigre Robespierre, che a sua volta lo chiamava talpa. Quel metafisico aveva messo capo non alla saggezza, ma alla prudenza. Era cortigiano, non servitore della rivoluzione. Prendeva una pala e andava, col popolo, a lavorare al Campo di Marte, attaccato alla stessa carretta di Alessandro di Beauharnais. Consigliava altrui l'energia di cui non si valeva affatto. Diceva ai girondini: "Mettete il cannone dalla vostra". Ci sono pensatori che sono lottatori; quelli stavano, come Condorcet, con Vergniaud, o, come Camillo Desmoulins, con Danton. Ci sono i pensatori che vogliono vivere: costoro erano con Sieyès.

Anche i vini più generosi hanno la loro feccia. Sotto alla Pianura, c'era ancora il Pantano: repellente ristagno che lasciava scorgere le trasparenze dell'egoismo. Qui batteva i denti la muta attesa dei tremebondi. Nulla di più miserevole. Tutti gli obbrobri, e nessuna vergogna; la collera latente; la rivolta sotto la servitù. Erano cinicamente atterriti, costoro; avevano tutte le specie di coraggio della vigliaccheria; preferivano la Gironda e sceglievano la Montagna.

Le decisioni dipendevano da loro, ed essi pencolavano dalla parte che aveva la meglio; abbandonavano Luigi Sedicesimo a Vergniaud, Vergniaud a Danton, Danton a Robespierre, Robespierre a Tallien. Mettevano alla gogna Marat vivo e divinizzavano Marat morto. Sostenevano tutto fino al giorno in cui rovesciavano tutto. Avevano l'istinto della spinta decisiva da dare a tutto ciò che traballa. Ai loro occhi, siccome si erano posti a servizio a condizione che si fosse solidi, traballare era tradirli. Erano il numero, erano la forza, erano la paura. Da ciò l'audacia delle turpitudini.

Da ciò il 31 maggio, l'11 germinale, il 9 termidoro; tragedie impostate dai giganti, risolte dai nani.

(6) A quegli uomini pieni di passioni erano frammisti gli uomini pieni di sogni. L'utopia era presente sotto tutte le sue forme: sotto la forma bellicosa che ammetteva il patibolo, e sotto la forma innocente che aboliva la pena di morte: spettro dalla parte dei troni, angelo dalla parte dei popoli. Di fronte alle menti che combattevano c'erano le menti che meditavano. Gli uni avevano in testa la guerra, gli altri la pace; un cervello, Carnot, partoriva quattordici eserciti; un altro cervello, Giovanni Debry, meditava una federazione democratica universale. Fra quelle furibonde eloquenze, fra quelle voci urlanti e tuonanti, c'erano fecondi silenzi. Lakanal taceva, e combinava nel suo pensiero l'educazione pubblica nazionale; Lanthenas taceva, e creava le scuole primarie; Revellière-Lepeaux taceva, e sognava di elevare la filosofia alla dignità di religione. Altri si occupavano di cose particolari, più piccole e più pratiche. Guyton-Morveaux studiava il risanamento degli ospedali; Maire, l'abolizione delle servitù effettive; Giovanni Bon-Saint-André, la soppressione della prigione per debiti e dell'arresto personale dei debitori a richiesta del creditore; Romme, la proposta di Chappe (3); il Duboë, il riordinamento degli archivi; Coren-Fustier, la creazione del gabinetto di anatomia e del museo di storia naturale; Guyomard, la navigazione fluviale e lo sbarramento della Schelda. L'arte aveva i suoi fanatici e perfino i suoi monomaniaci; il 21 gennaio, mentre la testa della monarchia cadeva in piazza della Rivoluzione, Bézard, rappresentante dell'Oise, andava a vedere un quadro del Rubens trovato in un solaio di via Saint-Lazare. Artisti, oratori, profeti, uomini colossi come Danton, uomini infantili come Cloots, gladiatori e filosofi, tutti procedevano verso la stessa meta, il progresso. Nulla li sconcertava.

La grandezza della Convenzione consisté nel cercare la quantità di realtà insita in ciò che gli uomini chiamano l'impossibile. A una delle sue estremità, Robespierre aveva l'occhio fisso sul diritto; all'altra estremità, Condorcet aveva l'occhio fisso sul dovere.

Condorcet era un sognatore, un uomo limpido; Robespierre era un uomo d'azione, e talvolta, nelle crisi finali delle società invecchiate, azione significa sterminio. Le rivoluzioni hanno due versanti, salita e discesa, e portano, disposte su questi versanti, tutte le stagioni, dal gelo ai fiori. Ogni zona di questi versanti produce gli uomini che si addicono al suo clima, da coloro che vivono nel sole a coloro che vivono nel fulmine.

(7) La gente si mostrava a dito la svolta del corridoio di sinistra dove Robespierre aveva bisbigliato all'orecchio del Garat, l'amico di Clavière, queste minacciose parole: "Clavière ha cospirato dovunque ha respirato". In quel medesimo cantuccio, comodo per appartarsi e dare sfogo sottovoce alla propria collera, Fabre d'Eglantine aveva altercato con Romme e gli aveva rimproverato di sfigurare il suo calendario col cambiamento di "fervidoro" in "termidoro". Si mostrava a dito anche il cantuccio dove sedevano, a gomito a gomito, i sette rappresentanti dell'Alta Garonna, che, chiamati per primi a pronunciare il loro verdetto su Luigi Sedicesimo, avevano risposto uno dopo l'altro: Mailhe: la morte. Delmas: la morte. Projean: la morte.

Calès: la morte. Ayral: la morte. Julien: la morte. Desascy: la morte.

Eterna ripercussione che empì tutta la storia, e che, da quando esiste l'umana giustizia, ha sempre messo l'eco del sepolcro sul muro del tribunale. Si mostravano a dito, in quella tumultuosa confusione di facce, tutti quegli uomini dai quali era uscito il clamore dei voti tragici; Paganel, che aveva detto: "La morte. Un re non torna utile che con la sua morte"; Millaud, che aveva detto: "Oggigiorno, se la morte non esistesse bisognerebbe inventarla"; il vecchio Raffron del Trouillet che aveva detto: "La morte, presto!"; Goupilleau che aveva gridato: "Il patibolo, subito. La lentezza aggrava la morte"; Sieyès, che aveva avuto questa funerea concisione: "La morte"; Thuriot, che aveva respinto l'appello al popolo proposto da Bizot: "Come? Assemblee di primo grado? Come? Quarantaquattromila tribunali? Sarebbe un processo senza fine. La testa di Luigi Sedicesimo avrebbe il tempo di incanutire, prima di cadere"; Agostino-Bon Robespierre, che, dopo il fratello, aveva esclamato: "Non conosco l'umanità che sgozza i popoli e perdona ai despoti. La morte! Chiedere un rinvio è sostituire all'appello al popolo un appello ai tiranni"; Foussedoire, che sostituiva Bernardino di Saint-Pierre, che aveva detto: "L'effusione del sangue umano mi fa orrore; ma il sangue d'un re non è il sangue d'un uomo. La morte!"; Giovanni-Bon-Saint-André, che aveva detto: "Non c'è popolo libero senza tiranno morto"; Lavicomterie, che aveva proclamato questa formula: "Fintanto che il tiranno respira, la libertà soffoca. La morte!"; Chateauneuf-Randon, che aveva gettato questo grido: "La morte di Luigi Ultimo!"; Guyardin, che aveva emesso questo voto: "Sia decapitato a Barriera Rovesciata" (la Barriera Rovesciata era la barriera del Trono); Tellier, che aveva detto: "Si fonda, per sparare contro il nemico, un cannone del calibro della testa di Luigi Sedicesimo". E gli indulgenti: Gentil, che aveva detto:

"Voto la reclusione. Fare un Carlo Primo significa fare un Cromwell"; Bancal, che aveva detto: "L'esilio! Voglio vedere il primo re dell'universo condannato a esercitare un mestiere per guadagnarsi la vita"; Albouys, che aveva detto: "Il bando! Che questo spettro vivente vada errabondo attorno ai troni"; Zangiacomi, che aveva detto: "La detenzione. Serbiamo vivo il Capeto come uno spaventapasseri"; Chaillon, che aveva detto: "Viva! Non intendo fare un morto di cui Roma farà un santo". Mentre tali sentenze cadevano da quelle labbra severe, e, una dopo l'altra, si disperdevano nella storia, nelle tribune donne scollacciate e agghindate contavano i voti, con una lista in mano, e conficcavano degli spilli sotto ogni voto.

Dove è entrata la tragedia, l'orrore e la compassione rimangono.

Vedere la Convenzione, in qualsiasi momento della sua supremazia, fu come rivedere il giudizio dell'ultimo Capeto. Si sarebbe detto che in ogni suo atto entrasse la leggenda del 21 gennaio. La temibile assemblea era piena di quei fatali aliti che erano passati sulla vecchia fiaccola monarchica, che ardeva da diciotto secoli, e l'avevano spenta; il decisivo processo di tutti i re nella persona di un re era come un punto di partenza della grande guerra che essa faceva al passato; quale che fosse la seduta della Convenzione alla quale si assisteva, si vedeva proiettarvisi l'ombra del patibolo di Luigi Sedicesimo; gli spettatori si riferivano gli uni agli altri le dimissioni di Kersaint, le dimissioni di Roland, il caso di Duchatel, deputato delle Due Sèvres, che si fece portare malato sul suo letto, e, morente, votò per la vita, il che fece ridere Marat; e si cercavano con gli occhi il rappresentante, oggi dimenticato dalla storia, che, dopo quella seduta di trentasette ore, caduto di stanchezza e di sonno sul suo banco, e svegliato dall'usciere venuta che fu la sua volta di votare, dischiuse gli occhi, disse: "La morte!", e si riaddormentò.

Nel momento in cui condannarono a morte Luigi Sedicesimo, Robespierre aveva ancora diciotto mesi da vivere, Danton quindici mesi, Vergniaud nove mesi, Marat cinque mesi e tre settimane, Lepelletier-Saint- Fargeau un giorno. Breve e terribile respiro delle bocche umane

(8) Il popolo aveva sulla Convenzione una finestra aperta: le pubbliche tribune; e quando la finestra non bastava, apriva la porta, e la strada entrava nell'assemblea. Tali invasioni della folla in quel senato sono una delle più sorprendenti visioni della storia. Di solito, tali irruzioni erano cordiali. Il crocicchio fraternizzava con la sedia curule. La cordialità di un popolo che un giorno, in tre ore, aveva preso i cannoni degli Invalidi e quarantamila fucili, era però pur sempre una cordialità temibile. Ogni momento una sfilata interrompeva la seduta: era una deputazione ammessa alla barra, petizioni, omaggi, offerte. La picca d'onore del sobborgo di Sant'Antonio entrava, portata da donne. Alcuni inglesi offrivano ventimila paia di scarpe ai piedi nudi dei nostri soldati. "Il cittadino Arnoux", diceva il "Monitore", "curato di Aubignan, comandante del battaglione della Drome, chiede di marciare alle frontiere, e che gli sia conservata la sua cura". I delegati delle sezioni arrivavano recando su barelle piatti, patene, calici, ostensori, mucchi d'oro, d'argento e di similoro, offerte alla patria da quella moltitudine in cenci e chiedevano per tutto compenso il permesso di ballare la carmagnola davanti alla Convenzione. Chenard, Narbonne e Vallière andavano a cantar strofe in onore della Montagna.

La sezione del Monte Bianco recava il busto di Lepelletier, e una donna posava un berretto rosso sulla testa del presidente, che la baciava; "le cittadine della sezione del Mail", gettavano fiori "ai legislatori"; gli "allievi della patria" entravano, musica in testa, a ringraziare la Convenzione di avere "preparato la prosperità del secolo"; le donne della sezione delle Guardie Francesi offrivano rose; le donne della sezione dei Campi Elisi offrivano una corona di quercia; le donne della sezione del Tempio si presentavano alla barra a giurare "di non congiungersi che con veri repubblicani"; la sezione di Molière presentava una medaglia di Franklin che veniva appesa, per decreto, alla corona della statua della libertà; i trovatelli, dichiarati figli della repubblica, sfilavano, con indosso l'uniforme nazionale; le ragazze della sezione del Novantadue arrivavano in lunghe vesti bianche, e il giorno dopo il "Monitore" recava queste righe: "Il presidente riceve un mazzo di fiori dalle mani innocenti di una giovane bellezza". Gli oratori salutavano le folle; talvolta le lusingavano; dicevano alla moltitudine: "Tu sei infallibile, sei irreprensibile, sei sublime"; il popolo ha un lato infantile, gli piacciono gli zuccherini. Talvolta la sommossa attraversava l'assemblea, vi entrava furibonda e ne usciva calmata, come il Rodano che attraversa il lago Lemano, e che è lutolento quando vi entra, azzurro quando ne esce.

Talvolta era meno pacifica, e Henriot faceva portare davanti alla porta delle Tuileries graticole per arroventare le palle di cannone.

(9) Nel tempo stesso che sprigionava rivoluzione, quell'assemblea produceva civiltà. Fornace sì, ma anche fucina. In quel tino dove ribolliva il terrore fermentava il progresso. Da quel caos d'ombra e da quella tumultuosa fuga di nuvole uscivano immensi raggi di luce, paralleli alle leggi eterne. Raggi rimasti sull'orizzonte, per sempre visibili nel cielo dei popoli, che sono uno la giustizia, l'altro la tolleranza, l'altro la bontà, l'altro la ragione, l'altro la verità, l'altro l'amore. La Convenzione promulgava questo grande assioma: "La libertà del cittadino finisce dove comincia la libertà di un altro cittadino", il che riassume in due righe tutta l'umana sociabilità.

Essa dichiarava sacra l'indigenza; dichiarava sacra l'infermità nel cieco e nel sordomuto divenuti pupilli dello Stato; sacra la maternità nella ragazza madre, che consolava e risollevava; sacra l'infanzia nell'orfano che faceva adottare dalla patria; sacra l'innocenza nell'accusato assolto, che indennizzava. Marchiava d'infamia la tratta dei negri; aboliva la schiavitù. Proclamava la solidarietà civica.

Decretava gratuita l'istruzione. Organizzava l'educazione nazionale con la scuola normale a Parigi, la scuola centrale nei capoluoghi e la scuola primaria nel comune. Istituiva i conservatori e i musei.

Decretava l'unità del codice, l'unità di peso e di misura, e l'unità di calcolo grazie al sistema decimale. Metteva le basi alla finanza della Francia, facendo susseguire alla lunga bancarotta monarchica il credito pubblico. Dava alla circolazione il telegrafo, alla vecchiaia gli ospizi sussidiati, alla malattia gli ospedali purificati, all'insegnamento la scuola politecnica, alla scienza l'ufficio delle longitudini, allo spirito umano l'Istituto. Era cosmopolita al tempo stesso che nazionale. Degli undicimiladuecentodieci decreti che uscirono dalla Convenzione, un terzo hanno una mira politica, i due terzi uno scopo umano. Essa dichiarava la morale universale base della società e la coscienza universale base della legge. E tutto ciò, servitù abolita, fraternità proclamata, umanità protetta, coscienza umana rettificata, legge del lavoro trasformata in diritto e da oneroso diventato soccorrevole, I ricchezza nazionale consolidata, infanzia istruita e assistita, lettere e scienze divulgate, lumi accesi su tutte le cime, ausilio a tutte le miserie, promulgazione di tutti i princìpi, la Convenzione lo faceva avendo nelle viscere quell'idra che era la Vandea, e sulle spalle quel branco di tigri che erano i re.

(10) Luogo immenso. Erano colà tutti i tipi umani, inumani e sovrumani.

Epico ammasso di antagonismi. Qui Guillotin scansava David, Bazire insultava Chabot, Guadet schermiva Saint-Just, Vergniaud sdegnava Danton, Louvet attaccava Robespierre, Buzot denunciava Egalité, Chambon marchiava d'infamia Pache, tutti esecravano Marat. E quanti nomi bisognerebbe registrare ancora! Armouville, detto Berretto Rosso, perché non prendeva mai parte alle sedute se non in berretto grigio, amico del Robespierre e pure decisissimo, "dopo Luigi Sedicesimo, a ghigliottinare Robespierre" per amore dell'equilibrio; Massieu, collega e anima gemella di quel buon Lamourette, vescovo che doveva lasciare il suo nome a un bacio; Lehardy del Morbihan, che stigmatizzava i preti di Bretagna; Barère l'uomo delle maggioranze, che presiedeva quando Luigi Sedicesimo si presentò alla sbarra, e che stava a Paméla come il Louvet stava a Lodoïska; l'oratoriano Daunou che usava dire: "Acquistiamo tempo"; Dubois-Crancé, al cui orecchio usava curvarsi Marat; il marchese di Chateauneuf, Laclos, Hérault di Séchelles, che indietreggiava davanti all'Henriot, gridando:

"Cannonieri, ai vostri pezzi!"; Julien, che paragonava la Montagna alle Termopili; Gamon, che voleva una tribuna pubblica unicamente riservata alle donne; Laloy, che decretò gli onori della seduta al vescovo Gobel, recatosi alla Convenzione per deporre la mitra e mettersi il berretto rosso; Lecompte, che esclamava: "Si va dunque a gara a spretarsi?"; Feraud di cui Boissy-d'Anglas saluterà la testa, lasciando alla storia questo quesito da risolvere: "Ha salutato la testa, che è quanto dire la vittima, o la picca, che è quanto dire gli assassini, Boissy-d'Anglas?". I due fratelli Duprat, uno montagnardo, l'altro girondino, che si odiavano come i due fratelli Chénier.

Sono state pronunciate da quella tribuna frasi così vertiginose, che hanno talvolta, all'insaputa di quello stesso che le pronuncia, il fatidico accento delle rivoluzioni, e in conseguenza delle quali i fatti materiali sembrano assumere di punto in bianco un non so che di malcontento e di appassionato, come se avessero preso in mala parte le cose appena udite; quel che accade sembra corrucciato da quello che si dice; le catastrofi sopraggiungono, furibonde e come esasperate dalle parole degli uomini. Così una voce, in montagna, basta a staccare una valanga. Una parola di troppo può essere seguita da un crollo. Se non si fosse parlato, ciò non sarebbe accaduto. Si direbbe, talvolta, che gli avvenimenti sono irascibili.

Appunto in tal modo, per una parola d'oratore mal compresa, cadde la testa di madama Elisabetta (4).

Alla Convenzione l'intemperanza di linguaggio era un diritto.

Le minacce volavano e si incrociavano nella discussione, come le faville nell'incendio. PETION: Robespierre, venite al fatto. - ROBESPIERRE: Il fatto siete voi, Pétion. Ci verrò, e voi lo vedrete; - UNA VOCE: Morte a Marat! - MARAT: Il giorno in cui Marat morrà, non ci sarà più Parigi, e il giorno in cui Parigi perirà, non ci sarà più repubblica; - BILLAUD-VARENNES si alza e dice: Noi vogliamo... - BARERE l'interrompe: Tu parli come un re; - Un altro giorno, PHILIPPEAUX: Un membro ha sguainato la spada contro di me. - AUDOUIN:

Presidente, richiamate all'ordine l'assassino. - IL PRESIDENTE:

Aspettate. - PANIS: Presidente, richiamo all'ordine voi, io. - Si rideva, anche, gagliardamente. LECOINTRE: Il curato del Chant-de-Bout si lamenta di Fauchet, suo vescovo, che gli proibisce di ammogliarsi; - UNA VOCE: Non vedo perché Fauchet, che non difetta di amanti, voglia impedire agli altri d'aver moglie; UN'ALTRA VOCE: Prete, ammogliati! - Le tribune intervenivano nella discussione. Davano del tu all'assemblea. Un giorno il rappresentante Ruamps sale alla tribuna.

Aveva una natica molto più grossa dell'altra. Uno spettatore gli gridò: - Voltala dalla parte della destra visto che hai una "guancia" alla David!... - Tali erano le libertà che il popolo si prendeva con la Convenzione. Una volta, comunque, durante il tumulto dell'11 aprile 1793, il presidente fece arrestare un disturbatore delle tribune.

Un giorno la seduta ebbe per testimonio il vecchio Buonarroti.

Robespierre prende la parola e parla per due ore, guardando Danton, ora fissamente, che era grave, ora obliquamente, che era peggio.

Fulmina a bruciapelo. Conclude con una esplosione indignata, piena di parole di morte: - Si sa chi sono gli intriganti, si sa chi sono i corruttori e i corrotti, si conoscono i traditori: sono in questa stessa assemblea. Ci odono, noi li vediamo e non togliamo loro gli occhi di dosso. Guardino al di sopra del loro capo e vedranno la spada della legge. Guardino nella loro coscienza e vi scorgeranno la loro infamia. Stiano in guardia. - E quando Robespierre ha finito, Danton, con la faccia al soffitto, gli occhi semichiusi, un braccio penzoloni dallo schienale del suo seggio, si rovescia all'indietro, e si sente canticchiare:

Roussel minore tien delle concioni che, quando brevi son, lunghe non sono.

Le imprecazioni scoppiavano a botta e risposta: "Cospiratore!", "Assassino!", "Scellerato!", "Fazioso!", "Moderato!". Si denunciavano a vicenda al busto di Bruto che era là dentro. Apostrofi, ingiurie, sfide. Sguardi furibondi da una parte all'altra. Pugni tesi, pistole intravedute, pugnali mezzo sguainati. Enorme vampeggiare della tribuna. Alcuni parlavano come se già fossero sotto la ghigliottina.

Le teste ondeggiavano, spaventose e terribili. Montagnardi, girondini, foglianti, moderati, terroristi, giacobini, cordiglieri; diciotto preti regicidi.

Uomini! uomini! Nuvole di fumo spinte in ogni direzione

(11) Spiriti in preda al vento.

Ma quel vento era un vento di prodigio.

Essere un membro della Convenzione, era essere una onda dell'oceano.

Ciò era vero per i più grandi. La forza d'impulso veniva dall'alto.

C'era nella Convenzione una volontà che era quella di tutti e non era quella di nessuno. Quella volontà era un'idea, un'idea indomabile e smisurata, che soffiava nell'ombra dall'alto del cielo. Questo, noi lo chiamiamo la Rivoluzione. Quando questa idea passava, abbatteva uno e sollevava un altro; si portava via questo in schiuma e frangeva quello contro gli scogli. Quella idea sapeva dove andava, e spingeva davanti a sé l'abisso. Imputare della rivoluzione gli uomini è come imputare della marea le onde.

La rivoluzione è un'azione dell'Ignoto. Chiamatela azione buona o azione cattiva, a seconda che aspirate all'avvenire o al passato, ma lasciatela a colui che l'ha compiuta. Sembra essere l'opera collettiva dei grandi eventi e dei grandi individui commisti; ma in realtà è la risultante degli eventi. Gli avvenimenti spendono, gli uomini pagano.

Gli avvenimenti dettano, gli uomini firmano. Il 14 luglio è firmato Camillo Desmoulins, il 10 agosto è firmato Danton, il 2 settembre è firmato Marat, il 21 settembre è firmato Grégoire, il 21 gennaio è firmato Robespierre; ma Desmoulins, Danton, Marat, Grégoire, Robespierre non sono che cancellieri. Il redattore enorme e sinistro di queste grandi pagine ha un nome: Dio, e una maschera: Destino.

Robespierre credeva in Dio. Certo!

La rivoluzione è una forma del fenomeno immanente che ci preme da tutte le parti e che chiamiamo Necessità.

Davanti a questo misterioso groviglio di benefici e di sofferenze si erge il "Perché?" della Storia.

"Perché sì". Questa risposta di colui che non sa nulla è pure la risposta di colui che sa tutto.

Di fronte a queste catastrofi climateriche che devastano e vivificano la civiltà, si esita a giudicare il particolare. Biasimare o lodare gli uomini in considerazione del risultato, è un po' come se si lodassero o biasimassero le cifre in considerazione del totale. Ciò che deve passare passa; ciò che deve alitare, alita. L'eterna serenità non soffre di questi aquiloni. Al di sopra delle rivoluzioni stanno la verità e la giustizia, come il cielo stellato al di sopra delle tempeste.

(12) Tale era quella smisurata Convenzione: campo trincerato del genere umano assaltato da tutte le tenebre a un tempo; fuochi notturni di un esercito d'idee assediate; immenso bivacco di spiriti su un versante d'abisso. Non c'è nulla in tutta la storia di paragonabile a quell'ammasso di persone, che era a un tempo senato e plebaglia, conclave e crocicchio, areopago e pubblica piazza, tribunale e accusato.

La Convenzione ha sempre piegato sotto il vento; ma questo vento usciva dalla bocca del popolo ed era l'alito di Dio.

E oggi, trascorsi ottant'anni, ogni qualvolta davanti al pensiero d'un uomo, quale che sia, storiografo o filosofo, appare la Convenzione, quest'uomo sosta e medita. Impossibile non porre attenzione a questo grande passaggio d'ombre.

 

 

 

NOTE:

 

  1. Sanson: boia di Parigi.
  2. A Charenton si trovava già il manicomio di Parigi.
  3. Il telegrafo ottico.
  4. Madama Elisabetta: sorella di Luigi Sedicesimo.

 

 

 

2.

MARAT TRA LE QUINTE

 

Come aveva annunciato a Simona Evrard, Marat all'indomani dell'incontro di via del Pavone, si recò alla Convenzione.

C'era, alla Convenzione, un marchese maratiano, Luigi di Montaut, lo stesso che, tempo dopo, offerse alla Convenzione una pendola decimale, sormontata dal busto del Marat.

Nel momento in cui Marat entrava, Chabot si era appena avvicinato a Montaut.

- Oh, ex... - egli disse.

Montaut alzò gli occhi.

- Perché mi chiami ex?

- Perché lo sei.

- Io?

- Dal momento che eri marchese.

- Mai!

- Bah!

- Mio padre era soldato, mio nonno tessitore.

- Che diamine ci vai contando, Montaut?

- Non mi chiamo Montaut, io.

- Come ti chiami allora?

- Mi chiamo Maribon.

- In fondo, per me è lo stesso, - disse lo Chabot.

E soggiunse tra i denti:

- E' una gara a chi non è mai stato marchese.

Marat si era fermato nel corridoio di sinistra e guardava Montaut e Chabot.

Ogni qualvolta Marat entrava, si faceva un gran parlottare. Lontano da lui, però. Intorno a lui tutti tacevano. Marat non vi badava neppure.

Disdegnava il "gracidare del pantano".

Nella penombra degli scuri banchi inferiori, Conpé dell'Oise, Prunelle, Villars, vescovo, che tempo dopo fu membro dell'Accademia francese, Boutroue, Petit, Plaichard, Bonet, Thibaudeau, Valdruche se lo mostravano a dito.

- Toh! Marat!

- Non è malato, allora?

- Sì, dal momento che è in veste da camera.

- In veste da camera?

- Sì, perbacco.

- Si permette tutto, quello.

- Osa venire alla Convenzione in quell'arnese!

- Dal momento che un giorno vi è venuto coronato di lauro, può ben venirci in veste da camera !

- Faccia di bronzo e denti di verderame.

- Si direbbe nuova, quella veste da camera.

- Di che è fatta?

- Di seta di Lione.

- Rigata.

- Guardate un po' che rovesci.

- Sono di pelle.

- Di tigre.

- No, di ermellino.

- Falso.

- Oh! ha le calze!

- Strano !

- E scarpe con la fibbia.

- D'argento.

- Gli zoccoli di Camboulas non gliele perdoneranno di sicuro.

Su altri banchi si ostentava di non vedere Marat. Parlavano d'altro.

Santhonax abbordava Dussaulx.

- Sapete, Dussaulx?

- Che cosa ?

- L'ex conte di Brienne?

- Che era alla "Force" con l'ex duca di Villeroy?

- Precisamente.

- Li ho conosciuti entrambi. E allora?

- La loro paura era così grande, che salutavano tutti i Berretti rossi di tutti i carcerieri, e che un giorno si rifiutarono di giocare una partita a picchetto perché veniva presentato loro un mazzo di carte con re e regine.

- E con questo?

- Li hanno ghigliottinati ieri.

- Tutt'e due?

- Tutt'e due.

- Insomma, come si erano comportati in prigione?

- Da vili.

- E come si sono comportati sul patibolo?

--Da intrepidi.

E Dussaulx esclamava:

- Morire è più facile che vivere.

Barère stava leggendo un rapporto. Si trattava della Vandea. Novecento uomini del Morbihan, muniti di artiglieria, erano partiti per soccorrere Nantes. Redon era minacciato dai contadini. Paimboeuf era assalito. Una pattuglia navale incrociava a Maindrin per impedire gli sbarchi. Da Ingrande fino a Maure, tutta la riva sinistra della Loira era irta di batterie realiste. Tremila contadini erano padroni di Pornic. Essi gridavano "Viva gli inglesi!". Una lettera di Santerre alla Convenzione, che Barère leggeva, terminava in questo modo:

"Settemila contadini hanno assalito Vannes. Li abbiamo respinti, e hanno lasciato nelle nostre mani quattro cannoni...".

- E quanti prigionieri? - interruppe una voce.

Barère continuò: - "Post-scriptum" della lettera: "Non abbiamo prigionieri, perché non ne facciamo più".

Marat, sempre immobile, non ascoltava: era come assorto in una severa preoccupazione.

Teneva in mano e spiegazzava tra le dita una carta sulla quale, chi l'avesse spiegata, avrebbe potuto leggere queste righe, di scrittura di Momoro; probabilmente una risposta a una domanda posta dal Marat:

"Non c'è nulla da fare contro l'onnipotenza dei commissari delegati, tanto meno contro i delegati del comitato di salute pubblica.

Génissieux ha avuto un bel dire, nella seduta del 6 maggio: "Ogni commissario è più che un re", non ha ottenuto nulla. Hanno potere di vita e di morte. Massade ad Angers, Trullard a Saint-Arnaud, Nyon presso il generale Marcé, Parrein all'esercito delle Sables, Millières all'esercito di Niort, sono onnipossenti. Il circolo dei giacobini è arrivato al punto di nominare Parrein generale di brigata. Le circostanze assolvono tutto. Un delegato del comitato di salute pubblica tiene in iscacco un generale in capo".

Marat finì di spiegazzare il foglio, se lo mise in tasca, e inoltrò lentamente verso Montaut e Chabot, che continuavano a parlare e non l'avevano veduto entrare.

Chabot diceva:

- Maribon o Montaut, ascolta questo: vengo adesso dal comitato di salute pubblica.

- E che vi si fa?

- Danno un nobile da custodire a un prete.

- Ah!

- Un nobile come te...

- Non sono nobile, io, - disse Montaut.

- A un prete...

- Come te.

- Non sono prete, io, - disse Chabot.

Entrambi sbottarono a ridere.

- Precisa l'aneddoto, - riprese Montaut.

- Ecco di che si tratta. Un prete, di nome Cimourdain, è delegato con pieni poteri presso un visconte chiamato Gauvain; questo visconte comanda la colonna di spedizione dell'esercito delle Coste. Si intende impedire al nobile di barare e al prete di tradire.

- Cosa semplicissima, - rispose Montaut. - Basta mettere la morte nell'avventura.

- Sono qui io per questo, - disse Marat.

I due alzarono la testa.

- Buongiorno, Marat, - disse Chabot. - E' raro che tu assista alle nostre sedute.

- Il dottore mi ordina i bagni, - rispose Marat.

- Si deve diffidare dei bagni, - riprese Chabot. - Seneca è morto nel bagno.

Marat sorrise:

- Non c'è nessun Nerone, qui, Chabot.

- Ci sei tu, - disse una rude voce.

Era Danton, che passava e saliva al suo banco.

Marat non si voltò neppure.

Egli abbassò la testa tra le due facce di Montaut e di Chabot.

- Ascoltate. Sono qui per una faccenda seria. Uno di noi tre, oggi, deve proporre un progetto di decreto alla Convenzione.

- Io no, - disse Montaut; - nessuno mi dà retta. Sono marchese.

- Me, - disse Chabot, - non mi ascolta nessuno. Sono cappuccino.

- E anche a me, - disse Marat, - non dà retta nessuno. Sono Marat.

Ci fu tra loro un attimo di silenzio.

Non era facile da interrogare, Marat, quando era preoccupato. Montaut, nondimeno, arrischiò una domanda.

- Che decreto desideri, Marat?

- Un decreto che punisca di morte un comandante militare che faccia evadere un ribelle prigioniero.

Intervenne Chabot.

- Questo decreto esiste. E' stato votato a fine aprile.

- Allora è come se non esistesse, - disse Marat. - Dovunque, in tutta la Vandea, è una gara a chi fa evadere prigionieri, e l'asilo è impunito.

- Gli è, Marat, che è andato in disuso.

- Bisogna rimetterlo in vigore, Chabot.

- Indubbiamente.

- E per questo parlarne alla Convenzione.

- Non è necessaria la Convenzione, Marat. Basta il comitato di salute pubblica.

- Lo scopo è raggiunto, - soggiunse Montaut, - se il comitato di salute pubblica fa affiggere il decreto in tutti i comuni della Vandea, e dà due o tre buoni esempi.

- Sugli alti papaveri, - riprese Chabot. - Sui generali.

- Questo, infatti, basterà, - brontolò Marat.

- Marat, - riprese Chabot; - vai tu stesso a dirlo al comitato di salute pubblica.

Marat lo fissò negli occhi, il che non era una cosa gradevole, neppure per Chabot.

- Chabot, - egli disse; - il comitato di salute pubblica è presso Robespierre. Non ci vado da Robespierre, io.

- Ci andrò io, - disse Montaut.

- Bene, - disse Marat.

Il giorno dopo veniva spiccato in tutte le direzioni un ordine del comitato di salute pubblica, che ingiungeva di affiggere nelle città e nei paesi della Vandea e di far strettamente eseguire il decreto che comminava la pena di morte per ogni connivenza nelle evasioni di briganti e d'insorti prigionieri.

Quel decreto non era che un primo passo. La Convenzione doveva andare ancora più lontano. Alcuni mesi dopo, l'11 brumaio anno secondo, (novembre 1793), a proposito di Laval, che aveva aperto le sue porte ai vandeani fuggiaschi, decretò che ogni città che avesse dato asilo ai ribelli sarebbe stata demolita e distrutta.

Da parte loro, i principi d'Europa, nel manifesto del duca di Brunswick, ispirato dagli emigrati e redatto dal marchese di Linnon, intendente del duca d'Orléans, avevano dichiarato che ogni francese preso con le armi alla mano sarebbe stato fucilato, e che, se fosse caduto un capello dalla testa del re, Parigi sarebbe stata rasa al suolo.

Ferocia contro barbarie.

 

 

 

PARTE TERZA - IN VANDEA

 

LIBRO PRIMO

LA VANDEA

 

1.

LE FORESTE

 

C'erano allora in Bretagna sette foreste orribili. La Vandea è la rivolta-prete. Questa rivolta ha avuto per ausiliario la foresta. Le tenebre si aiutano tra loro.

Le sette Foreste Nere di Bretagna erano la foresta Fougères, che sbarra la strada tra Dol e Avranches; la foresta di Princé, che ha otto leghe di circonferenza; la foresta di Paimpont, piena di borri e di corsi d'acqua, quasi inaccessibile dalla parte di Brignon, con una facile via di ritirata su Concornet, che era un borgo realista; la foresta di Rennes, di dove si udivano le campane a martello delle parrocchie repubblicane, sempre numerose presso le città; qui Puysaye perdette il Focard; la foresta di Machecoul, che aveva per belva lo Charette; la foresta della Garnache, che apparteneva ai La Trémouille, ai Gauvain e ai Rohan; la foresta di Brocelandia, che era delle fate.

C'era un gentiluomo in Bretagna, che aveva il titolo di signore delle Sette Foreste. Era il visconte di fontenay, principe bretone.

Il principe bretone, infatti, esisteva indipendentemente dal principe francese. I Rohan erano principi bretoni. Garnier di Saintes, nel suo rapporto alla Convenzione, 15 nevoso anno secondo, così qualifica il principe di Talmont: "Questo Capeto dei briganti, sovrano del Maine e della Normandia".

La storia delle foreste bretoni, dal 1792 al 1800, potrebbe essere scritta a parte, e allora si mescolerebbe alla vasta avventura della Vandea come una leggenda.

La storia ha la sua verità, la leggenda ha la propria. La verità leggendaria è di natura diversa dalla verità storica. La verità leggendaria è l'invenzione avente per risultato la realtà. La storia e la leggenda, del resto, hanno la stessa mira: dipingere sotto l'uomo del momento l'uomo eterno.

La Vandea può essere interamente spiegata solo a condizione che la leggenda completi la storia. Occorre la storia per l'insieme e la leggenda per il particolare.

Diciamo subito che la Vandea ne vale la pena. La Vandea è un prodigio.

Questa Guerra degli Ignoranti, così stupida e così splendida, abominevole e magnifica, ha desolato e inorgoglito la Francia. La Vandea è una piaga, che è una gloria.

In certe ore la società umana ha i suoi enigmi, enigmi che per i saggi si risolvono in luce e per gli ignoranti in oscurità e in barbarie. Il filosofo esita ad accusare. Egli tiene conto del turbamento prodotto dai problemi. I problemi non transitano senza proiettare sotto di sé un'ombra, come le nuvole.

Se si vuol capire la Vandea, ci si immagini questo antagonismo: da una parte la rivoluzione francese, dall'altra il contadino bretone. Si provi un po' a collocare di fronte a quegli incomparabili avvenimenti, immensa minaccia di tutti i benefici a un tempo, impeto di collera della civiltà, furiosa esasperazione del progresso, smisurato e inintelligibile miglioramento, quel grave e singolare selvaggio, quell'uomo dall'occhio chiaro e dai capelli lunghi, che viveva di latte e di castagne, che non si interessava di nulla che fosse al di là del suo tetto di stoppie, della sua siepe e del suo fossato, che era capace di distinguere ogni casale delle vicinanze dal suono della sua campana, che non si valeva dell'acqua altro che per bere, che indossava una casacca di pelle con arabeschi di seta, trasandata e ricamata, che si tatuava i vestiti come i suoi antenati, i celti, si erano tatuate le facce, che rispettava il padrone nel suo boia, che parlava una lingua morta, il che è come far abitare una tomba al proprio pensiero, che pungolava i buoi, affilava la falce, sarchiava il grano nero, impastava la focaccia di granturco, venerava innanzitutto l'aratro e poi la nonna, che credeva alla santa Vergine e alla Dama bianca, devoto tanto all'altare quanto all'alta pietra misteriosa ritta in mezzo alla landa, contadino nella pianura, pescatore sulla costa, bracconiere nella macchia, innamorato dei suoi re, dei suoi signori, dei suoi preti, delle sue pulci; pensoso, spesso immobile per ore ed ore sulla grande spiaggia deserta, cupo ascoltatore del mare.

E ci si domandi poi se questo cieco poteva accettare quella luce.

 

 

 

2.

GLI UOMINI

 

Il contadino ha due punti d'appoggio: il campo che lo nutre e il bosco che lo nasconde.

Che cosa fossero le foreste bretoni si potrebbe difficilmente immaginarlo: erano città. Nulla di più sordo, di più muto e di più selvaggio di quegli inestricabili grovigli di spini e di ramaglia.

Quelle vaste boscaglie erano ricoveri materiati di immobilità e di silenzio. Non vi era solitudine di più morta e sepolcrale apparenza.

Se si fosse potuto, di punto in bianco e d'un sol colpo fulmineo, radere gli alberi, si sarebbe bruscamente visto in quell'ombra un formicolio di uomini.

Pozzi rotondi e angusti, esternamente mascherati da coperture di sasso e di rame, prima verticali e poi orizzontali, si allargavano sotto terra a mo' di imbuto e mettevano in stanze tenebrose. Appunto questo trovò Cambise in Egitto e Westermann in Bretagna. In Egitto nel deserto, in Bretagna nella foresta. Nelle cantine egizie c'erano dei morti, in quelle di Bretagna c'erano dei vivi. Una delle più selvagge radure del bosco di Misdon, tutta perforata di gallerie e di celle in cui andava e veniva un popolo misterioso, si chiamava Grande Città.

Un'altra radura, non meno deserta al di sopra e non meno abitata al di sotto, si chiamava Piazza Reale.

Questa vita sotterranea, in Bretagna, risaliva a tempi immemorabili.

In ogni tempo l'uomo si era rifugiato là dall'uomo. Da ciò le tane da rettili scavate sotto le radici degli alberi. La cosa datava dal tempo dei druidi, e alcune di quelle cripte erano antiche quanto i "dolmen".

Larve della leggenda, mostri della storia: tutto era trascorso su quel buio paese: Teutato, Cesare, Hoel, Neomene, Goffredo d'Inghilterra, Alano Guanto di Ferro, Pietro Mauclerc, la casa francese di Blois, la casa inglese di Montfort, i re e i duchi, i nuovi baroni di Bretagna, i giudici di Grands Jours, i conti di Nantes in dissidio con i conti di Rennes, i vagabondi, i malandrini, le grandi compagnie, Renato Secondo, visconte di Rohan, i governatori del re, il "buon duca di Chaulnes", che impiccava i contadini sotto le finestre di madama di Sévigné, i macelli signorili nel quindicesimo secolo, le guerre di religione nei secoli sedicesimo e diciassettesimo, i trentamila cani addestrati alla caccia all'uomo nel diciottesimo; sotto quello spaventoso scalpiccìo, il popolo aveva preso la decisione di scomparire. I trogloditi per sfuggire i celti, i celti per sottrarsi ai romani, i bretoni per scappare ai normanni, gli ugonotti per togliersi ai cattolici, i contrabbandieri per svignarsela dai gabellieri, si erano, gli uni dopo gli altri, rifugiati dapprima nelle foreste, poi nel sottosuolo: bestiale risorsa. A tanto, la tirannia riduce le nazioni. Da duemila anni a questa parte, il dispotismo, sotto tutte le sue specie, la conquista, il feudalesimo, il fanatismo, il fisco braccavano quella misera Bretagna smarrita, specie di inesorabile battuta che non cessava sotto una forma che per ricominciare sotto un'altra. Gli uomini si nascondevano sottoterra.

Lo spavento, che è una specie di collera, era bell'e pronto negli animi, e le tane erano bell'e pronte nei boschi, quando la repubblica francese deflagrò. La Bretagna si mise in rivolta, in quanto si trovò oppressa da quello sprigionamento di forze. Sbaglio non raro negli schiavi.

 

 

 

3.

CONNIVENZA TRA UOMINI E FORESTE

 

Le tragiche foreste bretoni ripresero la loro vecchia funzione e furono serventi e complici di quella ribellione, come erano state di tutte le altre.

Il sottosuolo di certe foreste era una specie di madrepora, scavata e attraversata in ogni senso da uno sconosciuto dedalo di cunicoli, di celle e di gallerie. Ciascuna di quelle celle cieche dava rifugio a cinque o sei uomini. Il difficile era respirarvi. Si conoscono alcune straordinarie cifre che consentono di farsi un'idea di quella potente organizzazione della grande rivolta contadina. Nell'Ille-et-Vilain, nella foresta di Pertre, asilo del principe di Talmont, non si sentiva un alito, non si scorgeva una traccia umana, e c'erano seimila uomini con Focard; nel Morbihan, nella foresta di Meulac, non si vedeva nessuno, e c'erano ottomila uomini. Eppure quelle due foreste di Pertre e di Meulac non sono affatto annoverate tra le foreste bretoni.

Se si camminava là sopra, era una cosa terribile. Quei macchioni ipocriti, gremiti di combattenti appiattiti in una specie di labirinto sotterraneo, erano come enormi spugne scure, da dove, sotto la pressione di quel piede gigantesco che era la rivoluzione, zampillava la guerra civile.

Invisibili battaglioni erano in agguato. Quegli eserciti ignorati serpeggiavano sotto gli eserciti repubblicani, scaturivano di punto in bianco dal suolo e vi rientravano, balzavano innumerevoli e svanivano, dotati di ubiquità e di dispersione, prima valanghe e poi polvere; colossi che avevano il dono di potersi impicciolire; giganti per combattere, nani per scomparire. Giaguari con abitudini da talpe.

Non solo le foreste, c'erano; c'erano i boschi. Come al di sotto le città ci sono i paesi, così al di sotto delle foreste c'erano le boscaglie. Le foreste erano collegate tra loro dal dedalo, sparso un po' dovunque, dei boschi. Gli antichi castelli, che erano fortezze; i casali, che erano accampamenti; le fattorie, che erano recinti tutto trappole e imboscate; le masserie, scavate intorno intorno da burroni e irte di alberi come di palizzate, erano le maglie di quella rete, nella quale gli eserciti repubblicani andavano a incappare.

La cosiddetta "boscaglia" era appunto tutto quell'insieme.

C'era il bosco di Misdon, al cui centro si allargava uno stagno, e che apparteneva a Giovanni Chouan; c'era il bosco di Gennes, che era di Taillefer; c'era il bosco della Huisserie, che apparteneva a Gouge-le- Bruaut; il bosco della Charmie, che apparteneva a Courtillé il Bastardo, detto Apostolo San Paolo, comandante del campo della Vacca Nera; il bosco di Burgault, che era di quell'enigmatico signor Giacomo, riservato a una fine misteriosa nel sotterraneo di Juvardeil; c'era il bosco di Charreau dove il Pimousse e il Petit-Prince, attaccati dalla guarnigione di Châteaunef, andavano a prendere per la cintola nelle file repubblicane i granatieri, che portavano via prigionieri; il bosco della Heureuserie, testimonio della rotta del posto di Longue-Faye; il bosco dell'Aulne di dove si spiava la strada fra Rennes e Laval; il bosco della Gravelle che un principe di Le Trémouille aveva guadagnato al gioco della palla; il bosco di Lorges nelle Coste del Nord, dove Carlo di Boishardy regnò dopo Bernardo di Villeneuve; il bosco di Bagnard, presso fontenay, dove Lescure offrì battaglia a Chalbos, che pur essendo uno contro cinque, accettò; il bosco della Durondais, disputato un tempo da Alano il Grande ed Hérispoux, figlio di Carlo il Calvo; il bosco di Croqueloup, sul limitare di quella landa dove Coquerau mozzava la testa ai prigionieri; il bosco della Croix-Bataille che assisté agli omerici insulti di Gamba d'Argento a Morière, e di Morière a Gamba d'Argento; il bosco della Saudraie, che abbiamo visto perlustrare da un battaglione di parigini. E molti altri ancora.

In parecchie di queste foreste e di questi boschi, non solo c'erano villaggi sotterranei raggruppati intorno alla tana del capo, ma c'erano inoltre veri e propri casali di basse capanne nascoste sotto gli alberi, e così numerosi, che talvolta la foresta ne era gremita.

Spesso li tradiva il fumo. Due di quei casali del bosco di Moisdon sono rimasti celebri: Lorrière, presso Létang, e, dalla parte di Saint-Ouen-les-Toits, il gruppo di capanne chiamato la Rue-de-Bau.

Le donne vivevano nelle capanne e gli uomini nelle cripte. Essi utilizzavano per questa guerra le gallerie delle fate e i vecchi cunicoli celtici. Ai fuggiaschi veniva portato il mangiare; ma ce ne furono di quelli che dimenticati, morirono di fame. Si trattava, del resto, di malaccorti, che non avevano saputo riaprire i loro pozzi. Di solito, il coperchio, fatto di muschio e di rami, era così artisticamente congegnato, che, mentre era impossibile, dall'esterno, distinguerlo tra l'erba, era facilissimo da aprire e da chiudere dall'interno. Quei rifugi erano scavati con cura. La terra che si levava dal pozzo si andava a gettarla in qualche vicino stagno. La parete interna e il suolo erano giuncati di felci e di muschio. Quei rifugi venivano chiamati "loges", sgabuzzini. Ci si stava bene, salvo che vi si era al buio, senza fuoco, senza pane e senza aria.

Risalire senza precauzioni fra i viventi e dissotterrarsi fuori di proposito era una faccenda seria. Si poteva trovarsi fra le gambe d'un esercito in marcia. Boschi temibili, trabocchetti a doppia trappola.

Gli azzurri non osavano penetrarvi, i bianchi non osavano uscirne.

 

 

 

4.

LA LORO VITA SOTTOTERRA

 

Gli uomini, in quelle tane da bestie, si annoiavano. La notte, talvolta, quale che fosse il rischio, uscivano e andavano a ballare sulla vicina landa. Oppure pregavano per uccidere il tempo. "Giovanni Chouan", dice Bourdoiseau, "ci faceva recitare il rosario tutto il giorno".

Era quasi impossibile, venuta che fosse la stagione, impedire a quelli del Basso Maine di uscire per recarsi alla Festa del Covone. C'erano di quelli che avevano idee tutte loro. Dionigi detto lo Spaccamonti, si travestiva da donna per recarsi a Laval a teatro; poi rientrava nel suo buco.

D'improvviso, andavano a farsi uccidere, lasciando la segreta per la tomba.

Talvolta sollevavano il coperchio della loro fossa e prestavano orecchio se mai si combattesse lontano. Seguivano il combattimento con l'orecchio. Il fuoco dei repubblicani era regolare, il fuoco dei realisti era sparso, a raffiche, e ciò li guidava: se i fuochi di fila cessavano di botto, era segno che i realisti avevano la peggio; se la sparatoria a raffiche continuava e si sprofondava nell'orizzonte, era segno che avevano il sopravvento. I bianchi inseguivano sempre, gli azzurri mai, in quanto avevano il paese contro di loro.

Quei sotterranei belligeranti erano meravigliosamente informati. Nulla di più rapido delle loro comunicazioni, e nulla di più misterioso.

Avevano rotto tutti i ponti, avevano smontato tutte le carrette, eppure trovavano il modo di dirsi ogni cosa e di avvertirsi di tutto.

Da foresta a foresta, da paese a paese, da fattoria a fattoria. da capanna a capanna, da cespuglio a cespuglio erano stabiliti posti di emissari.

Un contadino dall'aria ebete andava per la strada portando dispacci nel bastone, che era scavato.

Un ex membro della Costituente, Boétidoux, forniva loro, per andare e venire da un capo all'altro della Bretagna, passaporti repubblicani nuovo modello, coi nomi in bianco: quel traditore ne aveva a pacchi.

Era impossibile sorprenderli. "Segreti confidati a più di quattrocentomila individui, sono stati religiosamente custoditi", dice Puysaye (1).

Si sarebbe detto che quel quadrilatero chiuso a nord dalla linea che va dalle Sables a Thouars, a est dalla linea che va da Thouars a Saumour e dal fiumicello di Thoue, a sud dalla Loira e a ovest dall'Oceano, avesse un unico sistema nervoso, e che nessun punto di quel suolo potesse trasalire senza che si scuotesse tutto. In un batter d'occhio si era informati da Noirmoutier a Luçon e il campo della Loué sapeva quello che faceva il campo della Croix-Morineau. Si sarebbe detto che c'entrassero di mezzo gli uccelli. Hoche scriveva, il 7 messidoro dell'anno terzo: "Si sarebbe tentati di credere che abbiano dei telegrafi".

Erano dei clan, come in Scozia. Ogni parrocchia aveva il suo capitano.

Quella guerra, mio padre l'ha fatta, e ne posso dire qualche cosa.

 

 

 

NOTE:

 

  1. Volume secondo, pagina 35 (Nota dell'autore).

 

 

 

 

5.

LA LORO VITA DI GUERRA

 

Molti non erano armati che di picche. Le buone carabine da caccia abbondavano. Non ci sono tiratori più abili dei cacciatori di frodo della "boscaglia" e dei contrabbandieri di Loroux. Erano singolari, spaventosi e intrepidi combattenti. Il decreto di leva di trecentomila uomini aveva fatto suonare a martello le campane di seicento paesi. Il crepitio dell'incendio scoppiò su ogni punto a un tempo. Il Poitou e l'Angiò esplosero nel medesimo giorno. Giovi sapere che un primo brontolio come di tuono si era fatto udire fin dal 1792, l'8 luglio, un mese prima del 10 agosto, sulla landa di Kerbader. Il precursore di La Rochejaquelein e di Giovanni Chouan, fu Alano Redeler, che oggi più nessuno conosce. I realisti costringevano, sotto pena di morte, tutti gli uomini validi a militare. Requisivano i cavalli, i carri, i viveri. Di punto in bianco, Sapinaud dispose di tremila soldati, Cathelineau di diecimila, Stoffet di ventimila, mentre Charette fu padrone di Noirmontier. Il visconte di Scépeaux fece insorgere l'Alto Angiò; il cavaliere di Dieuzi, l'Entre-Vilaine-et-Loire; Tristano l'Eremita, il Basso Maine; il barbiere Gastone, la città di Guéménée, e l'abate Bernier, tutto il resto. Per sollevare queste moltitudini, bastava poco. Si collocava nel tabernacolo d'un prete che avesse prestato giuramento, d'un "prete giurato" come dicevano, un gattone nero, che balzava improvvisamente fuori durante la messa. "Il diavolo!

Il diavolo!", gridavano i contadini, e tutta la contrada insorgeva.

Per assalire gli azzurri e superare i fossati, avevano le loro pertiche di quindici piedi di lunghezza, la "ferte", arma idonea sia al combattimento che alla fuga. Nel più forte della mischia, quando i contadini attaccavano i quadrati repubblicani, se si imbattevano sul campo di battaglia in una croce o in una cappella, tutti cadevano in ginocchio e recitavano la loro preghiera sotto la mitraglia; finito il rosario, i superstiti si rialzavano e si scagliavano contro il nemico.

Che giganti, ahimè! Caricavano il fucile correndo; era una loro specialità. Si faceva credere loro quello che si voleva. I preti mostravano loro altri preti ai quali avevano fatto diventare rosso il collo per mezzo d'una funicella stretta stretta, e dicevano: "Sono dei ghigliottinati risuscitati". Essi avevano anche i loro impulsi cavallereschi: onorarono Fesque, un alfiere repubblicano che si era fatto sciabolare senza mollare la sua bandiera. Piaceva anche scherzare, a quei contadini. Chiamavano i preti repubblicani ammogliati, sancalotte diventati sanculotti. Cominciarono con l'avere paura dei cannoni; poi si gettarono loro contro con le pertiche e se ne impadronirono. Presero dapprima un bel cannone di bronzo, che battezzarono Missionario; poi un altro, che risaliva al tempo delle guerre cattoliche e sul quale erano impresse le armi di Richelieu e una immagine della Vergine, e lo chiamarono Maria Giovanna. Quando perdettero fontenay, perdettero Maria Giovanna, attorno alla quale caddero, senza dare un passo addietro, seicento contadini. Ripresero quindi fontenay allo scopo di riprendere Maria Giovanna, e la ricondussero sotto la bandiera gigliata coprendola di fiori e facendola baciare dalle donne che passavano. Ma due cannoni erano un po' pochini. Maria Giovanna era stata presa da Stoffet. Cathelineau, geloso, si spiccò da Pin-en-Mauge, assalì Jallais, e prese un terzo cannone. Forest attaccò Saint-Florent e ne prese un quarto. Due altri condottieri, Chouppes e Saint-Pol, fecero di meglio: simularono cannoni con tronchi d'albero opportunamente tagliati e cannonieri con fantocci, e con quella artiglieria di cui facevano matte risate, fecero dare addietro agli azzurri a Mareuil. Fu la loro grande epoca, quella. Tempo dopo, quando Chalbos mise in rotta La Marsonnière, i contadini si lasciarono dietro sul campo di battaglia disonorato trentadue cannoni con lo stemma inglese. A quel tempo l'Inghilterra stipendiava i principi francesi, e si inviavano "fondi a monsignore", scriveva Nantiat il 10 maggio 1794, "in quanto è stato detto a Pitt che è cosa lecita". Mélinet, in un rapporto del 31 marzo, dice: "Il grido dei ribelli è: "Viva gli inglesi!"". I contadini si attardavano a saccheggiare. Quei devoti erano dei ladri. Vizio che hanno i selvaggi. Puysaye, tomo secondo, pagina 187 dice: "Ho parecchie volte preservato il borgo di Plélan dal saccheggio". E più in là, a pagina 434, si inibisce di entrare a Montfort: "Feci un giro per evitare il saccheggio delle case dei giacobini". Spogliarono Chollet; misero a sacco Challans. Persa l'occasione di saccheggiare Granville, saccheggiarono Ville-Dieu. Chiamavano "massa giacobina" i campagnoli che si erano schierati con gli azzurri, e li sterminavano con più accanimento degli altri. Amavano la carneficina come soldati e il massacro come briganti. Fucilare i "patauds", che è quanto dire i borghesi, andava loro a genio moltissimo. Lo chiamavano "far carnevale". A fontenay, un prete dei loro, il curato Barbotin, abbatté un vecchio a sciabolate. A Saint-Germain-sur-Ile (1), uno dei loro capi, gentiluomo, ammazzò con una fucilata il procuratore del comune e gli prese l'orologio. A Machecoul falciarono i repubblicani a esecuzioni regolari, trenta al giorno, e la cosa durò cinque settimane; ogni catena di trenta si chiamava "rosario". Mettevano la catena con le spalle a un fossato e fucilavano; i fucilati cadevano nel fossato, ancora vivi, talvolta; si seppellivano ugualmente.

Costumi che abbiamo riveduto. Joubert, presidente del distretto, ebbe segate le mani. Applicavano ai prigionieri azzurri certe manette taglienti, appositamente fatte a quello scopo. Li scannavano sulle pubbliche piazze, suonando fanfare di caccia. Charette, che firmava:

"Fraternità; il Cavaliere Charette", e che portava in testa, come Marat, un fazzoletto annodato sul sopracciglio, arse la città di Pornic, e gli abitanti entro le case. Charrier, in quel tempo, era spaventevole. Il terrore rispondeva al terrore. L'insorto bretone aveva press'a poco l'aspetto dell'insorto greco, breve casacca, fucile a bandoliera, gambiere, ampie brache simili a sottanelle. Il "gars" somigliava al giovane ribelle tessalo. Enrico de La Rochejaquelin, a ventun anni, partiva per quella guerra con un bastone e un paio di pistole. L'esercito vandeano contava centocinquantaquattro divisioni.

Poneva assedi regolari. Tennero bloccata Bressuire per tre giorni. Un venerdì santo, diecimila contadini cannoneggiarono la città di Sables con palle arroventate. Capitò loro di distruggere in un solo giorno quattordici accantonamenti repubblicani, da Montigné a Courbeveilles.

A Thouars, sull'alta muraglia, fu udito scambiarsi tra La Rochejaquelin e un "gars" questo superbo dialogo: "Carlo!". "Eccomi".

"Dammi le spalle che ci monti sopra". "Fate". "Il tuo fucile".

"Prendete". E La Rochejaquelin saltò nella città, prendendo così senza scale le torri che erano state assediate da Duguesclin. Preferivano una cartuccia a un luigi d'oro. Quando perdevano di vista il loro campanile, piangevano. Fuggire sembrava loro una cosa da niente.

Allora i comandanti gridavano: "Buttate via gli zoccoli, tenete il fucile!". Quando mancavano loro le munizioni, dicevano il rosario e andavano a prendere la polvere nei cassoni dell'artiglieria repubblicana; tempo dopo, D'Elbée ne chiedeva agli inglesi. Quando il nemico si avvicinava, se avevano dei feriti li nascondevano in mezzo ai campi di grano o tra le felci vergini; poi, finito lo scontro, li andavano a riprendere. Niente uniformi. I loro vestiti cadevano a brandelli. Contadini e gentiluomini indossavano i primi stracci che capitavano loro sottomano. Ruggero Mouliniers portava un turbante e un "dolman" presi nel guardaroba del teatro della Flèche; il cavaliere di Beauvilliers portava indosso una toga da procuratore e in testa un cappello da donna sopra a un berretto di lana. Tutti portavano la sciarpa e la cintura bianca, i gradi si distinguevano dai nodi.

Stoffet ne aveva uno rosso; La Rochejaquelin ne aveva uno nero; Wimpfen, semigirondino, che del resto non uscì mai di Normandia, portava il bracciale dei rivoluzionari di Caen. C'erano donne, nelle loro file: la signora di Lescure, che fu più tardi signora di La Rochejaquelin; Teresa di Mollien, amante di La Ronarie, che bruciò l'elenco dei capi parrocchia; la signora di La Rochefoucauld, bella, giovane, sciabola in pugno, che raccoglieva i contadini ai piedi del torrione del castello del Puy-Rousseau, e quella Antonietta Adams, detta cavaliere Adams, così prode, che, presa, fu fucilata, ma in piedi, per rispetto. Tempi epici e crudeli, quelli! Tutti erano forsennati. La signora di Lescure faceva camminare di proposito il suo cavallo sui repubblicani che giacevano a terra, fuori combattimento:

"morti", ella diceva; feriti, forse. Si dettero casi in cui gli uomini tradirono, le donne non tradirono mai. La signorina Fleury, del Teatro Francese, passò da La Rouaire a Marat, ma per amore. I condottieri erano spesso ignoranti non meno dei soldati. Il signor di Sapinard non conosceva l'ortografia; scriveva: "nous "orions" de notre "cauté"" (2). I comandanti si odiavano tra loro; quelli del padule gridavano:

"Abbasso quelli del paese alto!". La loro cavalleria era poco numerosa e difficile da mettere assieme. Scrive Puysaye: "C'è chi, mentre mi dà allegramente i suoi due figlioli, subito si raggela se gli chiedo un cavallo". Le loro armi erano "ferte", forche, falci, fucili vecchi e nuovi, coltelli da bracconiere, spiedi, randelli ferrati e chiodati.

Taluni portavano al collo una croce fatta con due ossi da morto. Essi assaltavano con alte grida, scaturivano improvvisamente da dovunque, dai boschi, dalle colline, dalle ceppaie, dai sentieri incassati, si scagliavano avanti sparpagliati in formazione lunata, ammazzavano, sterminavano, fulminavano e scomparivano. Quando attraversavano un borgo repubblicano, tagliavano l'albero della libertà, lo bruciavano e danzavano in tondo attorno al fuoco. Compivano le loro mosse sempre di nottetempo. Regola del vandeano: cogliere sempre di sorpresa.

Percorrevano quindici leghe in silenzio, senza piegare un filo d'erba sul loro passaggio. Venuta la sera, dopo aver fissato tra comandanti riuniti in consiglio di guerra, il luogo ove avrebbero operato la loro sorpresa sui posti repubblicani l'indomani mattina, caricavano i fucili, borbottavano la loro preghiera, si toglievano gli zoccoli, e filavano in lunghe colonne, attraverso i boschi, a piedi nudi sull'erica e sul muschio, senza un rumore, senza una parola, senza un soffio. Marcia da gatti nelle tenebre.

NOTA 1: Puysaye, volume secondo, pagina 35 (Nota dell'autore).

NOTA 2: Al posto di "nous aurons de notre coté": avremo dalla nostra parte.

6.

L'ANIMA DELLA TERRA PASSA NELL'UOMO.

La Vandea insorta non può essere valutata a meno di cinquecentomila uomini, donne e fanciulli. Mezzo milione di combattenti è la cifra data da Tuffin de la Rouarie.

I federalisti aiutavano. La Vandea ebbe per complice la Gironda. La Lozère mandava alla "boscaglia" trentamila uomini. Otto dipartimenti si alleavano, cinque in Bretagna, tre in Normandia. Evreux, che fraternizzava con Caen, si faceva rappresentare nella ribellione dal suo sindaco, Chaumont, e da un notabile, Gardembas. Il Buzot, Gorsas e Barbaroux a Caen, Brissot a Moulins, Chassan a Lione, Rabaut Saint- Etienne a Nîmes, Meillan e Duchatel in Bretagna, erano tutte bocche che soffiavano sulla fornace.

Di Vandee ce ne furono due: la grande, che faceva la guerra delle foreste; la piccola, che faceva la guerra delle macchie. La sfumatura che separa Charette da Giovanni Chouan è appunto questa. La piccola Vandea era ingenua, la grande era corrotta: la piccola era migliore.

Charette fu creato marchese, luogotenente generale degli eserciti del re e gran croce di San Luigi, Giovanni Chouan rimase Giovanni Chouan.

Charette confina col bandito, Giovanni Chouan col paladino.

Quanto a Bonchamps, a Lescure, a La Rochejaquelin, magnanimi condottieri, si ingannarono. Il grande esercito cattolico fu uno sforzo insensato: per forza doveva essere seguito dal disastro. E' mai possibile immaginarsi un uragano contadinesco che assedia Parigi, una coalizione di paesini assedianti il Pantheon, una muta di litanie e di "oremus" abbaiante intorno alla "Marsigliese", la calca degli zoccoli che si scaglia contro la legione dei cervelli? Le Mans e Savenay castigarono tale follia. Varcare la Loira era una cosa impossibile per la Vandea. Essa poteva tutto, ma scavalcare quel fiume non poteva. La guerra civile non conquista. Varcare il Reno completa Cesare e aumenta Napoleone, varcare la Loira uccide La Rochejaquelin.

La vera Vandea è la Vandea in casa sua. Qui, più che invulnerabile, essa è inafferrabile. Il vandeano, in casa sua, è contrabbandiere, contadino, soldato, pastore, bracconiere, franco tiratore, capraio, campanaro, campagnolo, spia, assassino, sagrestano, bestia dei boschi.

La Rochejaquelin non è che Achille, Giovanni Chouan è Proteo.

La Vandea ha abortito. Altre rivolte sono riuscite: quella della Svizzera, per esempio. Ma tra l'insorto della montagna, come lo svizzero, e l'insorto della foresta, come il vandeano, corre questa differenza: che quasi sempre, fatale influenza dell'ambiente, uno si batte per un ideale, l'altro per dei pregiudizi. Uno combatte per l'umanità, l'altro per la solitudine; uno vuole la libertà, l'altro vuole l'isolamento; uno difende il comune, l'altro la parrocchia.

"Comune! comune!", gridavano gli eroi di Morat. Uno ha a che fare con i precipizi, l'altro con i paduli; uno è l'uomo dei torrenti e delle schiume, l'altro è l'uomo delle pozze stagnanti da dove scaturisce la febbre; uno ha sopra la testa l'azzurro, l'altro una boscaglia; uno è su una vetta, l'altro è nell'ombra.

Non sono uguali, l'educazione delle vette e quella dei bassifondi.

La montagna è una cittadella, la foresta è un'imboscata; una ispira l'audacia, l'altra il tranello. L'antichità collocava gli dèi sulle cime e i satiri nelle boscaglie. Il satiro è il selvaggio: mezzo uomo e mezzo bestia. I paesi liberi hanno Appennini, Alpi, Pirenei, l'Olimpo. Il Parnaso è un monte. Il Monte Bianco era il colossale ausiliario di Guglielmo Tell. In fondo e al di sopra delle immense lotte delle menti contro le tenebre, che colmano i poemi dell'India, si scorge l'Himalaia. La Grecia, la Spagna, l'Italia, la Svizzera hanno per volto la montagna. La Cimmeria, Germania o Bretagna, ha il bosco. La foresta è barbara.

Molte azioni sono consigliate all'uomo dalla configurazione del suolo.

Tale configurazione è complice più che non si creda. Di fronte a certi feroci paesaggi, si è tentati di assolvere l'uomo e di incriminare la creazione; si avverte una sorda provocazione della natura; talvolta, è nocivo alla coscienza, il deserto, e in particolar modo alla coscienza poco illuminata. La coscienza può essere gigantesca, ed ecco Socrate e Gesù; può essere nana, ed ecco Atreo e Giuda. La coscienza piccola fa presto a diventare rettile; i cespugli al crepuscolo, i rovi, le spine, i pantani sotto la ramaglia sono un fatale luogo di ritrovo per essa; qui subisce la misteriosa infiltrazione delle cattive persuasioni. Le illusioni ottiche, gli inspiegabili miraggi, gli sgomenti di luogo e di ora gettano l'uomo in quella specie di terrore, mezzo religioso, mezzo belluino, che genera, in tempi ordinari, la superstizione, e nei periodi violenti, la brutalità. Le allucinazioni reggono la torcia che rischiara la strada dell'omicidio. C'è della vertigine nel brigante. La prodigiosa natura ha un doppio senso che sbalordisce i grandi spiriti e accieca le anime selvatiche. Quando l'uomo è ignorante, quando il deserto è pieno di visioni, l'oscurità della solitudine si aggiunge all'oscurità della intelligenza: da ciò lo spalancarsi di abissi entro l'uomo. Certe rupi, certi precipizi, certi cedui, certi sfondi selvaggi della sera attraverso gli alberi spingono l'uomo alle folli e feroci azioni. Quasi si potrebbe dire che vi sono luoghi scellerati.

Quante tragiche cose ha visto la tetra collina che si eleva tra Baignon e Plélan!

I vasti orizzonti persuadono l'anima alle idee generali; gli orizzonti circoscritti generano le idee parziali: il che, talvolta, condanna grandi cuori a essere spiriti piccoli: Giovanni Chouan lo dimostra.

Le idee generali odiate dalle idee parziali: che altro è, in fondo, la stessa lotta del progresso?

Paese! Patria! Questi due vocaboli compendiano tutta la guerra in Vandea; lite dell'idea locale contro l'idea universale. Contadini contro patrioti.

7.

LA VANDEA HA COMPLETATO LA BRETAGNA.

La Bretagna è una vecchia ribelle. Tutte le volte che nel corso di duemila anni, si era ribellata, aveva avuto ragione; l'ultima volta ebbe torto. Eppure, in fondo, contro la rivoluzione come contro la monarchia, contro i rappresentanti in missione come contro i governatori duchi o pari, contro la stampa degli assegnati come contro l'esazione delle gabelle, quali che fossero i personaggi combattenti, Nicola Rapin, Francesco di La Noue, il capitano Pluviant e la signora di La Garnache, o Stofflet, Coquereau e Lechandelier di Pierreville, sotto il signore di Rohan contro il re, e sotto il signore di La Rochejaquelin per il re, quella che la Bretagna combatteva era sempre la stessa guerra: la guerra dello spirito locale contro lo spirito centrale.

Quelle antiche provincie erano uno stagno; a quell'acqua dormiente ripugnava il correre; il vento che soffiava non le vivificava, le irritava. Finisterre: qui finiva la Francia, qui terminava il campo assegnato all'uomo e si fermava la marcia delle generazioni. Alt!

gridava l'oceano alla terra, gridava la barbarie alla civiltà. Ogni qualvolta il centro, Parigi, dà un impulso, venga questo impulso dalla regalità o dalla repubblica, sia esso nel senso del dispotismo o in quello della libertà, è una novità, e la Bretagna s'impunta.

Lasciateci tranquilli. Che si vuole da noi? Il padule afferra la sua forca, la "boscaglia" impugna la sua carabina. Qualunque nostro tentativo, qualunque nostra iniziativa in legislazione e in educazione, le nostre enciclopedie, le nostre filosofie, i nostri geni, le nostre glorie vanno a incagliarsi davanti all'Houroux; la campana a martello di Bazouges minaccia la rivoluzione francese, la landa del Faou insorge contro le nostre tempestose piazze pubbliche, e la campana dell'Haut-des-Prés dichiara guerra alla Torre del Louvre.

Terribile sordità!

L'insurrezione vandeana è un lugubre malinteso.

Colossale parapiglia, cavillo di titani, smisurata ribellione, destinata a non lasciare alla storia che un nome, Vandea, illustre e scuro vocabolo. Incosciente tentativo di parricidio, quella guerra era suicidio per degli assenti, dedizione all'egoismo, continua offerta alla vigliaccheria di un coraggio immenso; niente calcoli, niente strategia, niente tattica, niente piani, niente scopo, niente capo, niente responsabilità; essa mostrava a qual punto la volontà può essere l'impotenza; era cavalleresca e selvaggia, era l'assurdità in fregola, erigente contro la luce uno schermo di tenebre; era l'ignoranza opponente una lunga resistenza stupida e superba alla verità, alla giustizia, al diritto, alla ragione, alla liberazione; fu lo spavento di otto anni, la rovina di quattordici dipartimenti, la devastazione dei campi, il calpestamento delle messi, l'incendio dei paesi, la rovina delle città, il saccheggio delle case, il massacro delle donne e dei bambini, la fiaccola nelle stoppie, la spada nei cuori, lo sgomento della civiltà, la speranza del signor Pitt; ecco che cosa fu questa guerra, incosciente saggio di parricidio.

Dimostrando, insomma, la necessità di praticare fori in tutti i sensi nella vecchia ombra bretone e di trapassare quella boscaglia con tutte insieme le saette della luce, la Vandea ha favorito il progresso. Le catastrofi hanno una loro tetra maniera di accomodare le cose.

 

LIBRO SECONDO.

I TRE FANCIULLI.

1. "PLUS QUAM CIVILIA BELLA". [Più delle guerre civili]

L'estate del 1792 era stata molto piovosa; l'estate del 1793 fu molto calda. Per via della guerra civile, in Bretagna, per così dire, non c'erano più strade. Grazie alla bellezza dell'estate, comunque, la gente andava e veniva dovunque. Nessuna strada migliore d'un terreno asciutto.

Sul finire di un serena giornata di luglio, circa un'ora dopo il tramonto del sole, un uomo a cavallo, che veniva dalla parte di Avranches, si fermò davanti alla piccola locanda detta la "Croix- Branchard", proprio all'entrata di Pontorson, la cui insegna recava questa scritta, che vi si leggeva ancora qualche anno fa: "Buon sidro in vendita". Era stata una giornata caldissima, ma cominciava a spirare il vento.

Quel viaggiatore era avvolto in un ampio mantello che copriva la groppa del cavallo. Aveva in testa un largo cappello con coccarda tricolore, cosa che denotava non poco coraggio in quel paese di siepi e di fucilate, dove una coccarda era un bersaglio. Il mantello, allacciato al collo, era gettato all'indietro onde lasciare libere le braccia, e sotto si poteva scorgere una cintura tricolore e due impugnature di pistola che ne facevano capolino. Di sotto alla falda del mantello spuntava una sciabola appesa al fianco.

Allo scalpiccìo del cavallo che si fermava, la porta della locanda si aprì e il locandiere apparve con una lanterna in mano. Era l'ibrida ora in cui è ancora giorno nella strada ed è già notte in casa.

L'oste guardò la coccarda.

- Cittadino, - domandò; - vi fermate qui?

- No.

- Dove andate, allora?

- A Dol.

- In questo caso, ritornate ad Avranches o rimanete a Pontorson.

- Perché?

- Perché a Dol si battono.

- Ah! - disse il cavaliere.

Poi soggiunse:

- Date l'avena al mio cavallo.

L'oste portò il truogolo, vi vuotò dentro un sacco d'avena, e tolse la briglia al cavallo, che si mise a soffiare e a mangiare.

Il dialogo proseguì.

- E' un cavallo requisito, cittadino?

- No.

- E' vostro?

- Sì, l'ho comprato e pagato.

- Da dove venite?

- Da Parigi.

- Non direttamente, eh?

- No.

- Lo credo bene. Le strade sono interrotte. Ma la posta funziona ancora.

- Fino ad Alençon. Ho seguito la posta fin là.

- Ah! non ce ne sarà più di servizio postale, tra poco, in Francia!

Non ci sono più cavalli. Un cavallo di trecento franchi si paga seicento, e i foraggi non hanno più prezzo. Sono stato mastro di posta, io, ed eccomi taverniere. Di milletrecento mastri di posta che c'erano, duecento si sono dimessi. Avete viaggiato con la nuova tariffa, voi, cittadino?

- Del primo maggio, sì.

- Venti soldi per tratta dentro la vettura, dodici nel barroccio, cinque nel carro coperto. L'avete comprato ad Alençon questo cavallo?

- Sì.

- Avete viaggiato tutto il giorno, oggi?

- Dall'alba.

- E ieri?

- E ier l'altro.

- Capisco. Siete passato da Domfront e Mortain.

- E Avranches.

- Riposatevi, date retta a me, cittadino. Dovete essere stanco. Il vostro cavallo lo è di sicuro.

- I cavalli hanno diritto alla stanchezza, gli uomini no.

Lo sguardo dell'oste si fissò di nuovo sul viaggiatore. Era un volto grave, calmo e severo, incorniciato di capelli grigi.

Il locandiere gettò un'occhiata sulla strada, deserta a perdita di vista, e disse:

- E viaggiate solo in questo modo?

- Ho la mia scorta.

- Dove?

- La mia sciabola e le mie pistole.

Il locandiere andò in cerca d'un secchio d'acqua e fece bere il cavallo. Mentre il cavallo beveva, poi, osservava il viaggiatore, e si diceva in cuor suo: "Mi ha tutta l'aria d'un prete, però".

Il cavaliere riprese:

- Dite che a Dol si battono?

- Sì. Debbono aver cominciato proprio adesso.

- Chi si batte?

- Un ex contro un ex.

- Come dite?

- Dico che un ex, che è per la repubblica, si batte contro un ex, che è per il re.

- Ma non ce n'è più di re.

- C'è il piccolo. Il fatto curioso è che i due ex sono due parenti.

Il cavaliere ascoltava attentissimo. Il locandiere proseguì:

- Uno è giovane, l'altro è vecchio. Pronipote contro prozio. Lo zio è realista, il nipote patriota. Lo zio comanda i bianchi, il nipote gli azzurri. Eh! non si daranno quartiere, credetemi. E' una guerra a morte.

- A morte?

- Sì, cittadino. Ecco, volete vedere le cortesie che si gettano in faccia? Qui c'è un manifesto che il vecchio trova modo di far affiggere dovunque, su tutte le case e su tutti gli alberi, e che ha fatto incollare perfino sulla mia porta.

L'oste avvicinò la lanterna a un quadrato di carta attaccato a un battente, e, siccome il manifesto era scritto a caratteri grandissimi, il cavaliere, dall'alto del cavallo, poté leggere:

"Il marchese di Lantenac ha l'onore d'informare suo pronipote, il signor visconte Gauvain, che, se il signor marchese avrà la ventura di impadronirsi della sua persona, farà fucilare come si deve il signor visconte".

- Ed ecco la risposta, - proseguì il locandiere.

Si voltò, e illuminò con la lanterna un altro manifesto affisso di fronte al primo, sull'altro battente. Il viaggiatore lesse:

"Gauvain avverte Lantenac che se lo prende lo farà fucilare".

- Il primo manifesto, - disse l'oste, - è stato attaccato qui ieri, il secondo stamane. La risposta non si è fatta attendere.

A mezza voce, e come parlando a se stesso, il viaggiatore pronunciò queste poche parole, che il locandiere udì, ma non comprese un gran che.

- Sì, è più che la guerra nella patria, è la guerra nella famiglia.

Occorre, ed è bene che ciò sia. I grandi ringiovanimenti dei popoli si pagano così.

E il viaggiatore, portandosi la mano al cappello, l'occhio fisso sul secondo manifesto, lo salutò.

L'oste proseguì:

- Sapete bene anche voi, cittadino, come va la faccenda. Nelle città e nelle grosse borgate siamo per la rivoluzione, nella campagna sono contro. Lo stesso che dire: nelle città si è francesi, nei paesini sono bretoni. E' una guerra tra borghigiani e contadini. Ci chiamano "patauds", loro; noi li chiamiamo zoticoni. Nobili e preti sono con loro.

- Non tutti, - interruppe il cavaliere.

- Certo, cittadino, dal momento che abbiamo qui un visconte contro un marchese.

E tra sé soggiunse: "E credo davvero di star parlando a un prete".

Il cavaliere continuò:

- E chi dei due ha il sopravvento?

--Fino ad ora, il visconte. Ma stenta. Il vecchio è duro. Sono della famiglia Gauvain, nobili di queste parti. Una famiglia con due rami.

C'è il ramo principale, il cui capo si chiama marchese di Lantenac, e il ramo secondario, il cui capo si chiama visconte Gauvain. Adesso quei due rami si battono. Tra gli alberi queste cose non si verificano, ma tra gli uomini sì. Quel marchese di Lantenac è onnipossente in Bretagna; per i contadini, è un principe. Il giorno del suo sbarco ha avuto immediatamente mille uomini ai suoi comandi; in una settimana si sono sollevate trecento parrocchie. Se avesse potuto occupare un punto della costa, sarebbero sbarcati gli inglesi.

Per fortuna, c'era laggiù questo Gauvain, suo pronipote. Che strano caso! E' il comandante repubblicano, questo giovane, e ha rintuzzato suo zio proprio a dovere. Fortuna ha voluto, poi, che quel Lantenac, arrivando e massacrando un gran numero di prigionieri, abbia fatto fucilare due donne, una delle quali aveva tre bimbi che erano stati adottati da un battaglione di parigini. Questo ha fatto sì che il battaglione diventasse terribile. Si chiama il battaglione del Berretto Rosso. Non che ne restino molti di quei parigini, ma quei pochi sono baionette furibonde. Sono stati incorporati nella colonna del comandante Gauvain. Nulla resiste loro. Vogliono vendicare le donne e riavere i bimbi. Non si sa di preciso che cosa ne abbia fatto, il vecchio, di questi piccini, e appunto questo esaspera maggiormente i granatieri parigini. Se non ci fossero di mezzo quei bimbi, questa guerra, ecco, non sarebbe quello che è. Il visconte è un buono e bravo giovane. Ma il vecchio è un marchese spaventevole. I contadini chiamano questa guerra la guerra di san Michele contro Belzebù. Voi non ignorate, forse, che san Michele è un santo qui del paese. Nella baia, in mezzo all'acqua, c'è una montagna dedicata a lui. Si dice che abbia fatto precipitare il diavolo e l'abbia seppellito sotto un'altra montagna, poco lontana di qui, che chiamano Tombelaine.

- Sì, - mormorò il cavaliere; - "Tumba Beleni", la tomba di Belenus, di Belus, di Bel, di Belial, di Belzebù.

- Vedo che siete informato.

E, tra sé, l'oste si disse: "Sa il latino, è un prete di sicuro".

Poi riprese:

- Ebbene, cittadino, per i contadini si tratta appunto della ripresa di quella guerra, adesso. Inutile dire che per loro san Michele è il generale realista e Belzebù il comandante patriota; ma se un diavolo c'è non può essere che Lantenac: e se c'è un angelo, non può essere che Gauvain. Non prendete nulla, voi, cittadino?

- Ho la mia borraccia e il mio pezzo di pane. Ma non mi dite che cosa succede a Dol, voi.

- Ecco. Gauvain comanda la colonna di spedizione della costa. La mira di Lantenac era di far insorgere tutti, di trovare un appoggio per la Bassa Bretagna nella Bassa Normandia, di aprire la porta a Pitt e di dare manforte al grande esercito vandeano con ventimila inglesi e duecentomila contadini. Gauvain ha stroncato quel piano in quattro e quattr'otto. Tiene la costa e respinge Lantenac nell'interno e gli inglesi in mare. Lantenac era qui, e lui lo ha sloggiato; gli ha ripreso il Pont-au-Beau; l'ha scacciato da Avranches, l'ha scacciato da Villedieu, gli ha impedito di giungere a Granville. Manovra per risospingerlo nella foresta di Fougères e accerchiarvelo. Tutto andava bene. Ieri Gauvain era qui con la sua colonna. A un tratto, allarme.

Il vecchio, che è abile, ha fatto una punta, si viene a sapere che ha marciato su Dol. Se prende Dol e piazza su monte Dol una batteria, poiché non gli mancano cannoni, quello è un punto della costa dove gli inglesi possono abbordare, e tutto è perduto. Appunto per questo, non essendoci un minuto da perdere, Gauvain, che è una testa fine, non ha preso consiglio che da se stesso, non è stato a chiedere ordini e non ha atteso; ha suonato il buttasella, attaccato i cavalli ai suoi pezzi, radunato i suoi uomini, sguainato la sciabola, ed ecco in qual modo, mentre Lantenac si getta su Dol, Gauvain si getta sul Lantenac.

Quelle due fronti bretoni si cozzeranno proprio a Dol. Sarà un urto coi fiocchi. Devono essere sotto, adesso.

- Quanto tempo ci vuole per andare a Dol?

- A un reparto con carriaggi almeno tre ore. Ma ci sono già, adesso.

Il viaggiatore prestò ascolto e disse:

- Mi sembra infatti di udire il cannone.

L'oste ascoltò.

- Sì, cittadino. E anche le fucilate. Stracciano la tela. Dovreste passare la notte qui. Non c'è da buscarsi niente di buono, laggiù.

- Fermarmi non posso. Devo continuare per la mia strada.

- E avete torto. Io non so che cosa andiate a fare laggiù, ma il rischio è grande, e, a meno che non si tratti di ciò che di più caro avete al mondo...

- Si tratta proprio di questo, - rispose il cavaliere.

- ...Di qualche cosa come un figlio...

- Press'a poco, - disse il cavaliere.

Il locandiere alzò la testa e disse tra sé: "Eppure questo cittadino mi ha tutta l'aria d'un prete". E dopo un momento di riflessione:

"Dopo tutto, però, anche un prete può avere dei figli".

- Rimettete la briglia al mio cavallo, - disse il viaggiatore. - Quanto vi debbo?

E pagò.

L'oste ricollocò il truogolo e il secchio accanto al muro, e tornò verso il viaggiatore.

- Visto che siete deciso ad andarvene, ascoltate il mio consiglio. E' evidente che andate a Saint-Malo. Or bene, non passate da Dol. Ce ne sono due, di strade, quella che passa da Dol e quella che va lungo il mare. Sono tutt'e due lunghe lo stesso. La strada lungo il mare passa da Saint-Georges di Brehaigne, Cherrueix e Hirel-leVivier. Lasciate Dol a sud e Cancale a nord. Là in fondo alla via cittadino, troverete il crocicchio delle due strade: quella di Dol è a sinistra, quella di Saint-Georges di Brehaigne è a destra. Ascoltatemi bene, se passate da Dol, cadete nel massacro. Non prendete a sinistra, quindi, prendete a destra.

- Grazie, - disse il viaggiatore.

E stimolò il cavallo.

Si era fatto buio; egli si immerse nella notte.

Il locandiere lo perse di vista.

Quando il viaggiatore fu in fondo alla via, al crocicchio delle due strade, udi la voce del locandiere che gli gridava di lontano:

- Prendete a destra.

Prese a sinistra.

2.

DOL.

Dol, città spagnola della Francia in Bretagna, come la qualificano i cartolari, non è una città, è una via. Una grande via gotica tutta fiancheggiata a destra e a sinistra di case con pilastri, per niente allineate, che formano sporgenze e rientranze nella via, del resto larghissima. Il rimanente della città non è che una rete di viuzze collegate a questa grande via diametrale e sfociantivi come ruscelli dentro un fiume. La città, senza porte né mura, aperta, dominata dal monte Dol, non sarebbe in grado di sostenere un assedio; ma la via sì, potrebbe sostenerlo. I promontori di case, che vi si vedevano ancora cinquant'anni or sono, e le due gallerie o portici che la fiancheggiano ne facevano un solidissimo e resistentissimo caposaldo in caso di combattimenti. Tante case, altrettante fortezze; e bisognava conquistarle una dopo l'altra. Il vecchio mercato era, su per giù, a mezza via.

Il locandiere della "Croix-Branchard" aveva detto la verità; nel momento in cui egli parlava, una mischia forsennata riempiva Dol.

Nella città era improvvisamente scoppiato un duello notturno tra i bianchi arrivati al mattino e gli azzurri sopraggiunti la sera. Le forze erano ineguali: i bianchi erano seimila, gli azzurri millecinquecento; ma in una cosa erano pari: nell'accanimento. Degno di nota è il fatto che erano stati i millecinquecento ad attaccare i seimila.

Da una parte una folla, dall'altra una falange. Da una parte seimila contadini, con "cuori di Gesù" sulle casacche di pelle, nastri bianchi ai cappelli tondi, sentenze cristiane sui bracciali e rosari ai cinturoni, con più forche che sciabole e carabine senza baionette, trascinantisi dietro con le corde i cannoni che avevano, mal equipaggiati, mal disciplinati, male armati, ma frenetici. Dall'altra parte millecinquecento soldati, col tricorno fregiato dalla coccarda tricolore, la giubba a grandi falde e a grandi risvolti con la bandoliera incrociata, la sciabola dall'impugnatura di ottone e il fucile dalla lunga baionetta, addestrati, allineati, docili e feroci, idonei all'obbedienza da quella gente capace di comandare che erano, volontari anch'essi, ma volontari della patria, a brandelli d'altronde, e senza scarpe; per la monarchia, contadini paladini; per la rivoluzione, eroi scalzi. Tanto una schiera che l'altra aveva per anima il proprio comandante: i realisti un vecchio, i repubblicani un giovane. Da una parte Lantenac, dall'altra Gauvain.

La rivoluzione, a fianco delle giovani figure gigantesche, quali Danton, Sait-Just e Robespierre, ha le giovani figure ideali, quali Hoche e Marceau. Gauvain era una di queste figure.

Gauvain aveva trent'anni, con un aspetto d'Ercole, l'occhio serio d'un profeta e il riso d'un bambino. Non fumava, non beveva, non bestemmiava. Portava con sé, in piena guerra. l'occorrente per la toeletta; aveva gran cura delle unghie, dei denti, dei capelli, che aveva scuri e superbi; durante le soste, poi, sbatteva egli stesso al vento la sua marsina da capitano, sforacchiata di pallottole e bianca di polvere. Sebbene si cacciasse sempre a corpo morto nelle mischie, non era mai stato ferito. La sua voce dolcissima aveva, quando occorreva, i bruschi scoppi del comando. Era il primo a dar l'esempio nel dormire per terra, sotto il vento di tramontana, sotto la pioggia, nelle neve, ravvolto nel mantello, la bella testa posata su un sasso.

Era un'anima eroica e innocente. La sciabola in pugno lo trasfigurava.

Aveva quell'aria effeminata che è tanto formidabile nelle battaglie.

Con questo, pensatore e filosofo, un giovane saggio; Alcibiade per chi lo vedeva, Socrate per chi lo udiva.

In quella immensa improvvisazione che è la rivoluzione francese, quel giovane si era di punto in bianco dimostrato un condottiero.

La sua colonna, costituita da lui stesso, era, come la legione romana, una specie di minuscolo esercito completo in ogni sua parte. Si componeva di fanteria e di cavalleria; aveva esploratori, pionieri, zappatori, pontieri; e, come la legione romana disponeva di catapulte, disponeva di cannoni. Tre pezzi ippotrainati rendevano quella colonna forte al tempo stesso che la lasciavano maneggevole.

Anche Lantenac era un condottiero; peggio ancora. Era più riflessivo e più ardimentoso a un tempo. I veri vecchi eroi hanno maggior freddezza dei giovani perché sono lontani dall'aurora, e maggiore audacia perché sono vicini alla morte. Che hanno da perdere? tanto poco! Da ciò le manovre temerarie, al tempo stesso che sapienti, di Lantenac. Ma in sostanza, e quasi sempre, in quell'incaponito corpo a corpo del vecchio e del giovane, Gauvain aveva il sopravvento. Era, più che altro, fortuna. Tutte le buone venture, anche quella terribile, fanno parte della gioventù. La vittoria è un pochino ganza.

Lantenac era esasperato contro Gauvain; innanzi tutto perché Gauvain lo batteva, e in secondo luogo perché era suo parente. Cosa gli era saltato in mente di essere giacobino, a quel Gauvain, a quel gaglioffo, suo erede per giunta giacché il marchese non aveva figlioli, suo pronipote, quasi suo nipote! "Ah!", diceva quel quasi nonno; "se gli metto le mani addosso, lo ammazzo come un cane!".

La repubblica, del resto, aveva ragione di darsi pensiero di quel marchese di Lantenac. Sbarcato appena, già faceva tremare. Il suo nome aveva corso attraverso l'insurrezione vandeana come la fiamma lungo una striscia di polvere, e Lantenac era immediatamente diventato il centro di tutto. In una rivolta di quella specie, nella quale sono tutti gelosi l'uno dell'altro, e in cui ciascuno ha il suo cespuglio o il suo anfratto, se sopravviene qualcuno che sia alto, ricollega i comandanti sparpagliati, eguali fra loro. Quasi tutti i condottieri dei boschi si erano messi al seguito di Lantenac, e, di vicino o di lontano, gli obbedivano.

Uno solo lo aveva lasciato, il primo che gli si era messo assieme:

Gavard. Perché? Perché era un uomo di fiducia. Gavard era venuto a conoscenza di tutti i segreti e aveva adottato tutti i piani del vecchio sistema di guerra civile che Lantenac veniva a soppiantare e a sostituire. Ora, da un uomo di fiducia non si eredita; la scarpa di La Rouarie non aveva potuto calzare Lantenac. Gavard era andato a raggiungere Bonchamp.

Lantenac, come uomo di guerra, era della scuola di Federico Secondo, aveva in mente di combinare la grande con la piccola guerra. Non voleva saperne né d'una "massa confusa", come il grosso esercito cattolico e regio, folla destinata ad essere schiacciata, né d'uno sparpagliamento nelle macchie e nei cedui, ottima per molestare, impotente per atterrare. La guerriglia non conclude, o conclude male.

Si comincia con l'attaccare una repubblica e si finisce per svaligiare una diligenza. Lantenac non capiva quella guerra bretone, né tutta in rasa campagna come La Rochejaquelin, né tutta nella foresta, come Giovanni Chouan, né Vandea né "Chouannerie"; voleva la vera guerra; valersi del contadino, ma dandogli un appoggio nel soldato. Voleva bande per la strategia e reggimenti per la tattica. Trovava quegli eserciti di contado subito adunati, subito dispersi, ottimi per l'attacco, l'imboscata e la sorpresa; ma li sentiva troppo fluidi; erano, in mano sua, come acqua; intendeva creare, in quella guerra ondeggiante e diffusa, un punto solido, intendeva aggiungere al selvaggio esercito delle foreste un contingente regolare che costituisse il perno di manovra dei contadini. Profondo e spaventoso pensiero: se fosse riuscito ad attuarlo, la Vandea sarebbe stata inespugnabile.

Ma un contingente regolare, dove trovarlo? dove trovare soldati? dove trovare reggimenti? dove trovare un esercito bell'e pronto? In Inghilterra. Da ciò l'idea fissa del Lantenac di far sbarcare gli inglesi. Appunto così capitola la coscienza dei partiti; la coccarda bianca gli nascondeva l'abito rosso. Lantenac non aveva che un pensiero: impadronirsi d'un punto del litorale, e cederlo a Pitt.

Appunto per questo, vedendo Dol indifesa, le si era gettato sopra, onde impadronirsi, di là, del monte Dol, e dal monte Dol della costa.

La località era ben scelta. Il cannone del monte Dol avrebbe spazzato da un lato il Fresnois, dall'altro Saint-Brelade, avrebbe tenuto a distanza la squadra di Cancale, e avrebbe resa libera tutta la spiaggia a uno sbarco, dal Raz-sur-Couesnon a Saint-Meloir-des-Ondes.

Perché questo decisivo tentativo riuscisse, Lantenac aveva condotto con sé poco più di seimila uomini, quanto di più robusto si annoverava nelle bande a sua disposizione, e tutta la sua artiglieria: dieci colubrine da sedici, una bastarda da otto e un pezzo reggimentale che lanciava palle da quattro libbre. Intendeva piazzare una forte batteria sul monte Dol, secondo il principio che mille colpi sparati con dieci cannoni fanno più di millecinquecento colpi tirati con cinque cannoni.

La riuscita pareva certa. Erano in seimila uomini. Non avevano da temere, dalla parte di Avranches, se non Gauvain e i suoi millecinquecento uomini e dalla parte di Dinan che Léchelle. Léchelle, è vero, aveva venticinquemila uomini, ma era lontano venti leghe.

Lantenac era dunque rassicurato, nei confronti di Léchelle, dalla grande distanza contro il grande numero, e nei confronti di Gauvain dal piccolo numero contro la piccola distanza. Aggiungiamo che il Léchelle era un inetto, e che, tempo dopo, fece schiacciare i suoi venticinquemila uomini nelle lande della Croix-Bataille, scacco che pagò con il suicidio.

Lantenac era dunque perfettamente sicuro. La sua entrata in Dol fu improvvisa e dura. Il marchese di Lantenac aveva una rude rinomanza; tutti lo sapevano senza misericordia. Resistenze non ne furono nemmeno tentate. Atterriti, gli abitanti si barricarono nelle loro case. I seimila vandeani si allogarono nella città con campagnola confusione, quasi come in un campo da fiera, senza furieri di alloggio, senza assegnazioni di accantonamenti, bivaccando a caso, cucinando in pieno vento, sparpagliandosi nelle chiese, abbandonando i fucili per i rosari. Lantenac si recò subito, con alcuni ufficiali di artiglieria, a riconoscere monte Dol, lasciando il comando a Gouge-le-Bruant, che aveva nominato luogotenente generale.

Questo Gouge-le-Bruant ha lasciato una vaga traccia di sé nella storia. Aveva due soprannomi: Trita-azzurri per via delle sue carneficine di patrioti, e l'"Imânus", in quanto c'era in lui un non so che di inesprimibilmente orribile. "Imânus" derivato da "immanis", è un antico vocabolo basso normanno, che esprime la bruttezza sovrumana, e quasi divina, nello spavento, il demone, il satiro, l'orco. Un antico manoscritto dice: "d'mes daeux j' vis l'imânus": ho visto l'immane coi miei propri occhi. I vecchi della "boscaglia", oggigiorno, non sanno più chi sia stato Gouge-le-Bruant, né che cosa significhi Trita-azzurri; ma l'"Imânus" lo conoscono, sia pure in modo confuso. L'"Imânus" è entrato a far parte delle superstizioni locali.

A Trémorel e a Plumaugat, due località dove Gouge-le-Bruant ha lasciato l'impronta del suo piede funesto, si parla ancora dell'"Imânus". In Vandea, gli altri erano i selvaggi, Gouge-le-Bruant era il barbaro. Era una specie di cacicco, tatuato di lettere dell'alfabeto e di fiordalisi, aveva sulla faccia lo schifoso e quasi soprannaturale bagliore di un'anima alla quale nessun'altra anima umana rassomigliava. Nel combattimento, era infernalmente coraggioso, atroce dopo. Era un cuore pieno di tortuosi recessi, portato a tutte le dedizioni, incline a tutti i furori. Ragionava? Sì, ma come strisciano i serpenti: a spirale. Partiva dall'eroismo per giungere all'assassinio. Impossibile indovinare di dove gli venivano le sue risoluzioni, grandiose, talvolta, a furia d'essere mostruose. Era capace di ogni orribile inatteso. La sua ferocia era epica.

Da ciò quel deforme soprannome: l'"Imânus".

Il marchese di Lantenac aveva fiducia nella sua crudeltà.

Crudeltà, era giusto: l'"Imânus" vi eccelleva. In strategia e in tattica, però, si distingueva meno, e forse il marchese aveva preso un granchio facendone un luogotenente generale. Checché ne sia, Lantenac si lasciò dietro l'"Imânus" con l'incarico di sostituirlo e di vegliare su tutto.

Gouge-le-Bruant, più guerriero che militare, era più idoneo a sgozzare un "clan" che a tenere una città. Nondimeno, dispose posti di granguardia.

Venuta la sera, mentre, dopo aver riconosciuto la postazione della progettata batteria, se ne ritornava verso Dol, il marchese di Lantenac udì a un tratto il cannone. Guardò. Un rosso fumacchio si innalzava dalla via principale. C'era stata sorpresa, irruzione, assalto; si battevano dentro la città.

Benché non facile a stupirsi, fu stupefatto. Non si aspettava nulla di simile. Chi poteva essere? Non Gauvain, evidentemente. Non si attacca in uno contro quattro. Era forse Léchelle? Ma che marcia forzata, allora! Léchelle era improbabile; Gauvain impossibile.

Lantenac spronò il cavallo. Strada facendo, incontrò abitanti che fuggivano. Li interrogò. Erano pazzi di paura. Gridavano: "Gli azzurri! gli azzurri!". Quando giunse, le cose non andavano punto bene.

Ecco quanto era accaduto.

3.

PICCOLI ESERCITI E GRANDI BATTAGLIE.

Arrivando a Dol, i contadini, l'abbiamo appena detto, si erano sparpagliati per la città, ciascuno facendo a suo modo, come capita quando "si obbedisce da amici", che era il modo di dire dei vandeani.

E' un genere d'obbedienza quello, che può fare degli eroi, ma non dei soldati di truppa. Avevano messo al riparo le loro artiglierie, assieme ai bagagli, sotto le tettoie del vecchio mercato, e, stanchi, bevendo, mangiando, borbottando il rosario, si erano coricati alla rinfusa attraverso la via maggiore, ingombra piuttosto che presidiata.

Caduta la notte, la maggior parte si addormentarono, la testa sui loro zaini, qualcuno con la moglie al fianco, poiché spesso le contadine seguivano i contadini; in Vandea, le donne gravide fungevano da spie.

Era una mite notte di luglio; le costellazioni risplendevano nel profondo azzurro nero del cielo. Tutto quel bivacco, che era piuttosto una sosta di carovana che un accampamento di truppe, si mise a sonnecchiare tranquillamente. A un tratto, al bagliore del crepuscolo, quanti non avevano ancora chiuso gli occhi scorsero tre pezzi d'artiglieria piazzati all'imbocco della via maggiore.

Era Gauvain. Aveva sorpreso la gran guardia, ed era nella città; occupava con la sua colonna l'imbocco della via.

Un contadino si rizzò, gridò: "Chi va là?", e sparò una fucilata. Gli rispose un colpo di cannone. Poi crepitò un furioso fuoco di fucileria. Tutta la folla assopita si alzò di soprassalto. Duro risveglio, addormentarsi sotto le stelle e riaprire gli occhi sotto la mitraglia.

Il primo momento fu terribile. Non c'è nulla di più tragico del formicolio d'una folla fulminata. Tutti si buttarono sulle loro armi.

Chi gridava, chi correva, molti cadevano. I "gars", assaliti, non sapevano più quel che si facevano e si tiravano archibugiate a vicenda. Alcuni, storditi, uscivano dalle case, vi rientravano, ne uscivano di nuovo, correvano smarriti qua e là nel tumulto. Familiari che si chiamavano a vicenda. Lugubre combattimento, con di mezzo donne e fanciulli. Le palle fischianti solcavano l'oscurità. Il fuoco di fucileria crepitava da tutti i cantucci bui. Tutto era fumo e tumulto.

Vi si aggiungeva il groviglio dei carri e delle carrette. I cavalli scalciavano. La gente camminava sui feriti. Si udivano urli da terra.

Orrore di questi, stupore di quelli. I soldati e gli ufficiali si cercavano. In mezzo a tanto cupe indifferenze. Una donna allattava il suo neonato seduta contro un muricciolo, al quale era addossato il marito, che aveva la gamba fracassata e che, mentre il sangue gli colava, caricava tranquillamente la carabina e sparava a caso, ammazzando davanti a sé, nel buio. Uomini ventre a terra sparavano attraverso le ruote dei carri. A tratti, si innalzava un clamore folle. La grossa voce del cannone copriva tutto. Era spaventoso. Parve una abbattuta d'alberi. Tutti cadevano gli uni sugli altri. Gauvain, imboscato, mitragliava a colpo sicuro e perdeva pochi uomini.

L'intrepido disordine dei contadini finì comunque col mettersi sulla difensiva. Ripiegarono sul mercato, vasta ridotta buia, foresta di pilastri di sasso. Là, si ripresero; tutto quanto aveva parvenza di bosco ispirava loro fiducia. L'"Imânus" suppliva come sapeva meglio all'assenza di Lantenac. Avevano dell'artiglieria, con loro, ma, con grande sbalordimento di Gauvain, non se ne servivano affatto. Ciò perché gli ufficiali d'artiglieria essendo andati col marchese in ricognizione sul monte Dol, i "gars" non sapevano che fare delle colubrine bastarde; ma crivellavano di fucilate gli azzurri che li cannoneggiavano. I contadini rispondevano col fuoco di moschetteria alla mitraglia. Adesso, erano loro a essere al coperto. Avevano ammucchiato l'uno sull'altro i carri, le carrette, i bagagli, tutto il bottame del vecchio mercato, e improvvisata un'alta barricata con feritoie, attraverso le quali passavano le loro carabine. Da quei fori, il loro fuoco di fucileria diventava micidiale. Né ci volle molto. In un quarto d'ora il mercato presentava un fronte imprendibile.

La faccenda si faceva seria per Gauvain. Quel mercato, trasformato di punto in bianco in cittadella, era l'inatteso. Là erano i contadini solidi e compatti. A Gauvain era riuscita la sorpresa ma la rotta gli veniva a mancare. Era smontato da cavallo. Attento, la spada in pugno sotto le braccia incrociate, ritto nel bagliore di una torcia che illuminava la sua batteria, egli guardava tutta quell'ombra, L'alta sua statura, in quella luce, lo rendeva visibile agli uomini della barricata. Era il bersaglio di tutti, ma non vi faceva caso.

Le raffiche di pallottole sparate dalla barricata si abbattevano intorno a Gauvain, pensoso.

Ma aveva l'artiglieria, lui, contro tutte quelle carabine. La palla di cannone finisce sempre per dire l'ultima parola. Chi possiede l'artiglieria ha in pugno la vittoria. La sua batteria, ottimamente servita, gli assicurava la superiorità.

All'improvviso, un lampo balenò dal mercato pieno di tenebre; si udì come un colpo di fulmine, e una palla di cannone giunse a forare una casa, proprio sopra la testa di Gauvain.

La barricata rispondeva al cannone col cannone.

Che accadeva? Qualche fatto nuovo di sicuro. L'artiglieria, adesso, non era più da una sola parte.

Una seconda palla seguì la prima, e andò a cacciarsi nel muro, vicinissima a Gauvain. Una terza palla gli gettò a terra il cappello.

Erano palle di grosso calibro. Quello che sparava era un pezzo da sedici.

- Vi prendono di mira, comandante, - gridarono gli artiglieri.

E spensero la torcia. Gauvain, sovrappensiero, raccolse il cappello.

Qualcuno, infatti, prendeva di mira Gauvain; era Lantenac.

Il marchese era giunto proprio allora nella barricata dalla parte opposta.

L'"Imânus" gli era corso incontro.

- Monsignore, ci hanno colti alla sprovvista.

- Chi sono?

- Non lo so.

- E' libera la strada di Dinan?

- Credo.

- Bisogna incominciare la ritirata.

- Incomincia. Molti se la sono già svignata.

- Non si deve svignarsela, bisogna ritirarsi. Perché non vi valete dell'artiglieria?

- S'è persa la testa. E poi, gli ufficiali non c'erano.

- Ci vado io.

- Io, monsignore, ho diretto su Fougères quanti più bagagli, donne e cose inutili ho potuto. Che dobbiamo farne dei tre piccoli prigionieri?

- Ah! quei bimbi?

- Sì.

- Sono nostri ostaggi. Falli condurre alla Tourgue.

Detto questo, il marchese si recò alla barricata. Giunto il capo, la faccia delle cose mutò di colpo. La barricata era malfatta per l'artiglieria; non c'era posto che per due cannoni, il marchese mise in batteria due pezzi da sedici, per i quali furono aperte due feritoie. Mentre era curvo su uno dei cannoni a osservare la batteria nemica da una di quelle aperture, scorse Gauvain.

- Lui! - esclamò.

Allora impugnò egli stesso lo scovolo e il calcatoio, caricò il pezzo, regolò l'alzo e puntò.

Tre volte prese di mira Gauvain, e lo mancò. Il terzo colpo non riuscì che a togliergli il cappello.

- Tanghero! - brontolò Lantenac. - Un po' più basso, e avevo la testa.

Di colpo la torcia si spense, e il marchese non ebbe più davanti a sé che le tenebre.

- Sia! - egli disse.

Poi, rivolgendosi ai contadini artiglieri, gridò:

- A mitraglia!

Gauvain, da parte sua, non era meno serio. La situazione si aggravava.

Si andava delineando una nuova fase del combattimento. La barricata era giunta al punto da prenderlo a cannonate. Chi poteva sapere se non sarebbe passata dalla difensiva all'offensiva? Aveva davanti a sé, defalcando i morti e i fuggiaschi, almeno cinquemila combattenti, e a lui non rimanevano che milleduecento uomini usufruibili. Che ne sarebbe stato dei repubblicani se il nemico si accorgeva del loro esiguo numero? Le parti sarebbero state invertite. Da assalitori sarebbero stati assaliti. Se la barricata avesse tentato una sortita tutto sarebbe stato perduto.

Che fare? Non era il caso di pensar ad attaccare la barricata di fronte; un colpo di viva forza era chimerico; milleduecento uomini non ne disboscano cinquemila. Assalire era impossibile, attendere era funesto. Bisognava farla finita. Ma come?

Gauvain era del paese, conosceva la città, sapeva che il vecchio mercato, nel quale si erano fortificati i vandeani, era addossato a un dedalo di viuzze strette e tortuose.

Si volse verso il suo luogotenente che era quel valido capitano Guéchamp diventato, tempo dopo, famoso per aver spazzato la foresta di Concise dove era nato Giovanni Chouan, e per avere, sbarrando ai ribelli il passaggio dello stagno della Chaine, impedito la presa di Bourgneuf.

- Guéchamp, - gli disse. - Vi passo il comando. Fate tutto il fuoco che potete. Sforacchiate la barricata a colpi di cannone. Tenetemi occupati tutti quei "gars".

- Capito, - disse il Guéchamp.

- Ammassate la colonna, con le armi cariche, e tenetela pronta per l'attacco.

E aggiunse qualche parola all'orecchio del Guéchamp.

- Inteso, - disse il Guéchamp.

Gauvain riprese:

- Tutti in piedi i nostri tamburini?

- Sì.

- Ne abbiamo nove. Tenetevene due, e datene sette a me.

I sette tamburini avanzarono in silenzio per schierarsi davanti a Gauvain.

Allora Gauvain gridò:

- A me il battaglione del Berretto Rosso!

Dodici uomini, tra i quali un sergente, uscirono dal grosso.

- Chiedo tutto il battaglione, - disse Gauvain.

- Eccolo! - rispose il sergente.

- Dodici, siete.

- Non siamo rimasti che in dodici.

- Sta bene, - disse Gauvain.

Quel sergente era il buono e rustico veterano Radoub, che aveva adottato in nome del battaglione i tre bimbi incontrati nel bosco della Saudraie.

Come il lettore ricorderà, soltanto mezzo battaglione era stato sterminato a Herbe-en-Pail, e Radoub aveva avuto la buona ventura di non farne parte.

Era lì vicino un carro di foraggio; Gauvain lo additò al sergente.

- Sergente, fate fare dai vostri uomini delle trecce di paglia, da attorcigliare intorno a fucili in modo che non si oda rumore se urtano tra loro.

Passò un minuto, durante il quale l'ordine venne eseguito nel buio, in silenzio.

- Fatto, - disse il sergente.

- Soldati, toglietevi le scarpe, - riprese Gauvain.

- Non ne abbiamo, - disse il sergente.

Erano in tutto, compresi i sette tamburini, diciannove uomini. Gauvain era il ventesimo.

Gridò:

- In fila indiana. Seguitemi. I tamburini subito dietro a me. Il battaglione dopo. Voi comanderete il battaglione, sergente.

Si mise alla testa della colonna, e, mentre il cannoneggiamento continuava da ambo le parti, quei venti uomini, scivolando come ombre, si inoltrarono nelle viuzze deserte.

Camminarono così qualche tempo, svicolando rasente alle case. Tutto, nella città, pareva morto; i borghigiani si erano tappati nelle cantine. Non un uscio che non fosse sprangato, non un'imposta che non fosse chiusa. Non un filo di luce, intorno.

La via maggiore elevava, in quel silenzio, un furibondo putiferio. La battaglia a cannonate continuava. La batteria repubblicana e la batteria realista si sputavano rabbiosamente addosso a vicenda tutta la loro mitraglia.

Dopo venti minuti di quella marcia tortuosa, il Gauvain, che in quella oscurità camminava con sicurezza, giunse allo sbocco d'una viuzza che metteva nella via principale: soltanto, si era dall'altra parte del mercato.

La posizione era aggirata. Nessun trinceramento da quella parte (eterna imprudenza dei costruttori di barricate), il mercato era aperto, e nulla impediva di penetrare sotto i porticati dove si trovavano alcuni carri di bagagli coi cavalli attaccati, pronti ad andarsene. Gauvain e i suoi diciannove uomini avevano davanti a loro i cinquemila vandeani; di schiena, però, non di petto.

Gauvain parlò a voce bassa al sergente; la paglia attorcigliata attorno ai fucili fu tolta; i dodici granatieri si appostarono in linea di battaglia dietro l'angolo della viuzza, e i sette tamburini, bacchettte alzate, stettero in attesa.

Le scariche di artiglieria erano intermittenti. A un tratto, nell'intervallo tra due detonazioni, Gauvain alzò la spada e con voce, che, in quel silenzio, parve uno squillo di tromba, gridò:

- Duecento uomini a destra, duecento uomini a sinistra; tutti gli altri sul centro!

I dodici colpi di fucile detonarono, e i sette tamburini suonarono la carica.

E Gauvain lanciò il terribile grido degli azzurri:

- Alla baionetta! addosso!

L'effetto fu inaudito.

Tutta quella massa contadina si sentì presa alle spalle, e s'immaginò d'essere assalita da quella parte da un nuovo esercito. Nel medesimo tempo, udendo il rullo dei tamburi, la colonna che presidiava l'altro capo della via principale, comandata da Guéchamp, si mosse, battendo anch'essa la carica, e si gettò a passo di corsa sulla barricata. I contadini si videro tra due fuochi. Il panico è un ingrandimento; nel panico, un colpo di pistola fa il rumore di una cannonata, ogni clamore è fantasma, e l'abbaiare d'un cane sembra il ruggito di un leone. Aggiungiamo che il contadino s'impaurisce come la paglia prende fuoco e che una paura di contadino diventa disfatta con la stessa facilità con la quale un fuoco di stoppie diventa incendio. Fu un fuggi fuggi indicibile.

In pochi momenti il mercato fu vuoto. I "gars" atterriti si disgregarono. Gli ufficiali non potevano più farci nulla. L'"Imânus" ammazzò inutilmente due o tre fuggiaschi; non si udiva che questo grido: "Si salvi chi può!", e attraverso le vie della città come attraverso i fori d'uno staccio, quell'esercito si disperse nella campagna, con la rapidità di una nube portata via dall'uragano.

Alcuni fuggivano verso Chateauneuf, altri verso Plerguer, altri ancora verso Antrain.

Il marchese di Lantenac vide quel disastro. Inchiodò di sua propria mano i cannoni, poi si ritirò, ultimo, lentamente e freddamente, e disse: - Decisamente, i contadini non ce la fanno. Ci occorrono gli inglesi.

4.

E' LA SECONDA VOLTA.

La vittoria era completa.

Gauvain si voltò verso gli uomini del battaglione del Berretto Rosso, e disse loro:

- Siete dodici, ma ne valete mille.

Una parola del capo, era la croce d'onore di quel tempo.

Guéchamp, lanciato da Gauvain fuori della città, inseguì i fuggiaschi e ne prese parecchi.

Le torce furono accese e la città fu frugata.

Quanti non poterono fuggire, si arresero. La via principale fu illuminata con fanali. Era letteralmente seminata di morti e di feriti. La fine d'un combattimento ha sempre qualche strascico. Gruppi disperati resistevano ancora qua e là. Furono circondati, ed essi deposero le armi.

Gauvain aveva notato nella sfrenata mischia della disfatta un uomo intrepido, una specie di fauno agile e robusto, che aveva protetto la fuga degli altri e non era affatto fuggito. Quel contadino si era servito della sua carabina in modo magistrale, prendendo a fucilate con la canna, accoppando col calcio, tanto che l'aveva fracassato.

Adesso, impugnava con una mano una pistola, e con l'altra una sciabola. Nessuno osava avvicinarlo. A un tratto Gauvain lo vide traballare e addossarsi a un pilastro della via principale. Era stato ferito di sicuro; ma impugnava sempre la sciabola e la pistola.

Gauvain si ficcò la spada sotto il braccio e gli si avvicinò.

- Arrenditi! - gli disse.

L'uomo lo guardò fissamente. Il sangue gli scorreva sotto le vesti, sgorgando da una ferita che aveva ricevuto, e faceva una pozza ai suoi piedi.

- Sei mio prigioniero, - riprese Gauvain.

L'uomo rimase muto.

- Come ti chiami?

L'uomo disse:

- Mi chiamo Danza-nel-buio.

- Sei un coraggioso, - disse Gauvain.

E gli tese la mano.

L'uomo rispose:

- Viva il re!

E, raccolte quante forze gli rimanevano, alzando ambo le braccia a un tempo, sparò al cuore di Gauvain una pistolettata, calandogli un fendente sulla testa.

Lo fece con una subitaneità da tigre. Ma qualcuno fu più svelto di lui: un uomo a cavallo, giunto allora allora, che era là da qualche secondo senza che nessuno se ne fosse accorto. Vedendo il vandeano alzare la sciabola e la pistola, quell'uomo si gettò tra lui e Gauvain. Senza quell'uomo, Gauvain sarebbe stato spacciato. Il cavallo ricevette la pistolettata, l'uomo il fendente di spada, ed entrambi caddero. Tutto questo nel tempo di emettere un grido.

Da parte sua, anche il vandeano si era accasciato al suolo.

La sciabolata aveva colpito l'uomo in a terra, svenuto. Il cavallo era morto.

Gauvain si avvicinò.

- Chi è quest'uomo? - domandò.

Lo osservò. Il sangue della sciabolata inondava il ferito e gli metteva una rossa maschera. Era impossibile discernerne il viso. Gli si scorgevano i capelli grigi.

- Quest'uomo mi ha salvato la vita, - proseguì Gauvain. - C'è qualcuno, qui, che lo conosca?

- Comandante, - disse un soldato; - quest'uomo è entrato proprio adesso in città. L'ho visto arrivare. Veniva dalla strada di Pontorson.

Il chirurgo maggiore della colonna era accorso con la sua cassetta. Il ferito continuava a rimanere senza conoscenza. Il chirurgo lo esaminò e disse:

- Un semplice sfregio. Non è nulla. Si può ricucire. Tra otto giorni sarà in piedi. Bella sciabolata!

Il ferito aveva indosso un mantello, una sciarpa tricolore, pistole e spada. Fu coricato su una barella. Lo svestirono. Fu recato un secchio d'acqua fresca e il chirurgo lavò la ferita. Cominciò a mostrarsi il viso. Gauvain lo guardava con profonda attenzione.

- Ha carte con sé ? - domandò.

Il chirurgo palpò la tasca laterale e ne trasse un portafogli, che porse a Gauvain.

Intanto il ferito, rianimato dall'acqua fredda, recuperava i sensi. Le sue palpebre si muovevano vagamente.

Gauvain frugava il portafogli. Vi trovò un foglio di carta piegato in quattro. Lo spiegò, lesse:

"Comitato di salute pubblica. Il cittadino Cimourdain...".

Gettò un grido:

- Cimourdain!

Questo grido fece dischiudere gli occhi al ferito.

Gauvain pareva fuori di sé!

- Cimourdain! siete voi! E' la seconda volta che mi salvate la vita.

Cimourdain guardava Gauvain. Un lampo di gioia ineffabile gli illuminava il volto sanguinante.

Gauvain cadde in ginocchio davanti al ferito, dicendo:

- Maestro mio!

- Tuo padre! - disse Cimourdain.

5.

LA GOCCIA D'ACQUA FREDDA.

Erano molti anni che non si vedevano più; ma i loro cuori non si erano mai staccati l'uno dall'altro. Si riconobbero come se si fossero separati il giorno prima.

Un'ambulanza era stata improvvisata nel municipio di Dol. Cimourdain vi fu ricoverato su un letto in una cameretta contigua alla grande corsia comune dei feriti. Il chirurgo, che aveva ricucito lo sfregio, mise termine alle reciproche effusioni dei due, e dichiarò che Cimourdain doveva essere lasciato dormire. Gauvain, d'altra parte, era richiesto dalle mille preoccupazioni che costituiscono i doveri e i grattacapi della vittoria. Cimourdain rimase solo; ma non dormì. Aveva addosso due febbri: quella della ferita e quella della gioia che provava.

Non dormì. Nondimeno, non gli sembrava d'essere sveglio. Era mai possibile? Il suo sogno si era avverato. Cimourdain era di quelli che non credono alla buona sorte, eppure l'aveva. Ritrovava Gauvain.

L'aveva lasciato giovinetto e lo ritrovava uomo; lo ritrovava grande, temibile, intrepido. Lo ritrovava trionfante, e trionfante per il popolo. Gauvain era, in Vandea, il sostegno della rivoluzione; ed era stato lui, Cimourdain, a erigere quella colonna alla repubblica. Quel vittorioso era il suo discepolo. Attraverso quel giovane aspetto, forse riservato al pantheon repubblicano, egli vedeva raggiare il suo proprio pensiero, di lui, Cimourdain. Il suo discepolo, il figlio del suo spirito, era già da allora un eroe, e tra non molto sarebbe stato una gloria. A Cimourdain sembrava di rivedere la sua propria anima fatta Genio. Aveva appena visto coi suoi propri occhi come Gauvain faceva la guerra. Era come Chirone che avesse visto combattere Achille. Misterioso rapporto tra il prete e il centauro: il prete, infatti, non è uomo che fino a mezzo corpo.

Tutti gli episodi di quella avventura, frammisti all'insonnia provocata dalla sua ferita, colmavano Cimourdain di una specie di misteriosa ebbrezza. Spuntava, magnifico, un giovane destino, e, cosa che aumentava ancor più la profonda sua gioia, lui, Cimourdain, aveva pieni poteri su quel giovane destino. Ancora un risultato come quello che aveva appena visto, e Cimourdain non avrebbe avuto che da dire una parola perché la repubblica affidasse a Gauvain un esercito. Nulla abbacina quanto lo stupore di veder riuscire ogni cosa. A quel tempo, ciascuno aveva il suo sogno militare, ciascuno voleva creare un generale: Danton voleva creare tale il Westermann; Marat, il Rossignol; Hébert, il Ronsin; Robespierre voleva destituirli tutti.

"Perché non Gauvain?", si diceva Cimourdain; e sognava. Aveva davanti a sé lo sconfinato; passava da una ipotesi all'altra; gli ostacoli svanivano uno dopo l'altro; messo che si abbia il piede su quella scala, non ci si ferma più; ascesa senza fine: si parte dall'uomo e si arriva alla stella. Un grande generale non è che un comandante di eserciti; un grande condottiero è al tempo stesso un capo di idee.

Cimourdain sognava Gauvain grande condottiero. Gli pareva, poiché la fantasticheria va in fretta, di vedere Gauvain sull'Oceano, inteso a dare la caccia agli inglesi; sul Reno, a castigare i re del Nord; sui Pirenei, che faceva indietreggiare la Spagna; sulle Alpi, che faceva segno a Roma di risorgere. In Cimourdain c'erano due uomini, uno tenero e uno tetro: entrambi erano contenti. L'inesorabile essendo il suo ideale, al tempo stesso che vedeva Gauvain superbo, lo vedeva infatti anche terribile. Cimourdain pensava a tutto ciò che si doveva distruggere prima di costruire, e si diceva certo che non era ora da intenerimenti quella. Gauvain sarebbe stato "all'altezza", come allora si diceva. Cimourdain si immaginava Gauvain che schiacciava col piede le tenebre, corazzato di luce, con un bagliore di meteora in fronte, spalancando le grandi ali ideali della giustizia, della ragione e del progresso, con una spada in pugno. Angelo, ma sterminatore.

Nel pieno di questa fantasticheria, che era quasi un'estasi, udì, dall'uscio dischiuso, parlare nella grande corsia dell'ambulanza, attigua alla sua camera. Riconobbe la voce di Gauvain. Quella voce, malgrado gli anni di distacco, egli l'aveva sempre avuta nell'orecchio e la voce del fanciullo si ritrova nella voce dell'uomo. Ascoltò. Si udì uno stropiccio di passi; poi qualcuno disse:

- Questo, comandante, è l'uomo che vi ha sparato addosso.

Approfittando del momento che nessuno lo guardava, si era trascinato in una cantina. Ve l'abbiamo trovato. Eccolo qui.

Allora Gauvain udì questo dialogo tra Gauvain e l'uomo:

- Sei ferito?

- Sto bene abbastanza, per essere fucilato.

- Mettetelo a letto, quest'uomo. Medicatelo, curatelo, guaritelo.

- Voglio morire, io.

- Tu vivrai. Hai tentato di uccidermi in nome del re; io ti faccio grazia in nome della repubblica.

Un'ombra passò sulla fronte di Cimourdain. Ebbe come una specie di brusco risveglio, e mormorò con un certo qual sinistro accasciamento:

- E' davvero un clemente.

6.

PETTO GUARITO, CUORE SANGUINANTE.

Uno sfregio fa presto a guarire; ma c'era altrove qualcuno più gravemente ferito di Cimourdain. Era la donna fucilata, che Tellmarch, il mendicante, aveva raccolta nella grande pozza di sangue della fattoria d'Herbe-en-Pail.

Michelina Fléchard versava in pericolo più ancora di quanto non l'avesse creduto Tellmarch. Al foro che aveva sopra il seno, corrispondeva un foro nella spalla. Mentre una pallottola le aveva spezzato la clavicola, un'altra le aveva attraversato la spalla.

Siccome, però, non era stato leso il polmone, essa poté guarire.

Tellmarch era un "filosofo", espressione contadinesca che significa un po' medico, un po' chirurgo, un po' stregone. Curò la ferita nella sua tana da bestia, sul suo giaciglio di fuchi, con quelle cose misteriose che si chiamano "semplici", e, grazie a lui, ella visse.

La clavicola si risaldò, i fori della spalla e del petto si chiusero.

Alcune settimane dopo la ferita era convalescente.

Una mattina poté uscire dal nascondiglio appoggiandosi a Tellmarch.

Andò a sedersi sotto gli alberi, al sole. Tellmarch sapeva ben poco di lei: le ferite al petto esigono il silenzio, e, durante la quasi agonia che aveva preceduto la sua guarigione, la donna aveva detto appena poche parole. Quando faceva per parlare, Tellmarch la faceva tacere. Lei, però, aveva un pensiero fisso, ostinato, e Tellmarch notava nei suoi occhi un cupo andirivieni di pensieri pungenti. Quella mattina era forte, poteva quasi camminare da sola. Curare un malato è quasi come esercitare su di lui una specie di paternità, Tellmarch la guardava, felice. Il buon vecchio si mise a sorridere. Le parlò.

- E così? Eccoci in piedi. Non abbiamo più ferite.

- Altro che al cuore, - disse lei.

Poi soggiunse:

- Non lo sapete proprio dove sono, allora?

- Chi?

- I miei figlioli.

Quell'"allora" esprimeva tutto un mondo di pensieri; significava: "Dal momento che non me ne parlate, dal momento che da tanti giorni mi state accanto senza farmene parola, dal momento che mi fate tacere ogni qualvolta tento di rompere il silenzio, dal momento che sembrate temere che ve ne parli, bisogna che non abbiate da dirmene alcunché".

Spesso, nella febbre, nello smarrimento, nel delirio, ella aveva chiamato i suoi figlioli e aveva ben visto, giacché il delirio ne fa di tali rilievi, aveva ben visto che il vecchio non le rispondeva.

Tellmarch, infatti, non avrebbe saputo che dirle. Non è facile parlare a una madre dei suoi figlioli perduti. E poi, che ne sapeva lui?

niente. Sapeva che una madre era stata fucilata, che questa madre era stata trovata a terra da lui, che, quando l'aveva raccolta, era su per giù un cadavere, che quel cadavere aveva tre figlioli, e che il marchese di Lantenac, dopo aver fatto fucilare la madre, aveva portato via i figlioli. Lì si fermavano tutte le sue informazioni. Che ne era stato di quei bimbi? Erano anche soltanto ancora al mondo? Sapeva, per essersene informato, che si trattava di due maschietti e di una bambina appena svezzata. Nient'altro. Si faceva, su quei tre sventurati, un mucchio di domande, alle quali, però, non poteva rispondere. La gente del paese che aveva interrogato, s'era limitata a scuotere la testa. Il signor di Lantenac non era un uomo di cui si parlasse volentieri.

Non si parlava volentieri di Lantenac, né si parlava volentieri a Tellmarch. I contadini hanno un genere di sospetti tutti loro. Non volevano bene a Tellmarch. Tellmarch il Pitocco era un uomo inquietante. Perché guardava sempre il cielo? che cosa faceva, a che pensava nelle lunghe sue ore di immobilità ? Era strano, indubbiamente. In quel paese in piena guerra, in piena conflagrazione, in piena combustione, in cui tutti gli uomini non avevano che una cosa che stesse loro a cuore, la devastazione, e che un lavoro da compiere, la carneficina, in cui era una gara a chi avrebbe bruciato una casa, sgozzato una famiglia, massacrato un posto, saccheggiato un villaggio, dove non si pensava che a tendersi imboscate, ad attirarsi l'un l'altro nelle trappole, e a uccidersi a vicenda, quel solitario, assorto nella natura, come sommerso nella immensa pace delle cose, che coglieva erbe e piante, non d'altro occupato che dei fiori, degli uccelli e delle stelle, era evidentemente pericoloso. Era evidente che avesse perduto la ragione: non s'imboscava dietro nessun cespuglio, non sparava fucilate a nessuno. Ciò faceva nascere intorno a lui un certo qual timore.

- Quell'uomo è pazzo, - dicevano i passanti.

Tellmarch era più che un uomo isolato, era un uomo evitato.

Nessuno gli rivolgeva domande, nessuno gli rispondeva. Egli non aveva dunque potuto informarsi quanto avrebbe voluto. La guerra si era propagata altrove; erano andati a battersi più lontano; il marchese di Lantenac era scomparso dall'orizzonte, e nello stato d'animo in cui si trovava Tellmarch, perché si accorgesse della guerra, sarebbe occorso che questa gli mettesse il piede addosso.

Dopo queste parole: "I miei figli", Tellmarch aveva smesso di sorridere, e la madre si era assorta nei suoi pensieri. Che cosa accadeva in quell'anima? Ella era come in fondo a un abisso. Di colpo guardò Tellmarch, e gridò di nuovo, quasi con accento di collera:

- I miei figli!

Tellmarch abbassò la testa come un colpevole.

Pensava a quel marchese di Lantenac, che non pensava a lui di sicuro, e che, probabilmente, non sapeva neppure più che egli esistesse. Se ne rendeva conto, e diceva tra sé e sé: "Un signore, quando è in pericolo, vi conosce; quando ne è fuori, non vi conosce più".

E si domandava: "Ma perché ho salvato quel signore, io, allora?".

E si rispondeva: "Perché è un uomo".

Su questo, rimase qualche tempo meditabondo, poi riprese in cuor suo:

"Ne sono proprio sicuro?".

E tornò a dirsi quella sua amara frase: "Se lo avessi saputo!".

Tutta quell'avventura lo accasciava, in quanto scorgeva in tutto ciò che aveva fatto una specie di enigma. Meditava dolorosamente. Dunque una buona azione può essere una cattiva azione. Chi salva il lupo uccide l'agnello. Chi riaggiusta l'ala dell'avvoltoio, è responsabile del suo artiglio.

Si sentiva colpevole infatti. L'incosciente collera di quella madre aveva ragione.

Comunque, il fatto di aver salvato quella madre lo consolava dell'aver salvato il marchese.

Ma quei bimbi?

Anche la madre meditava. Quei due pensieri si davano di gomito, e, senza dirselo, s'incontravano, forse, nelle tenebre del fantasticare.

Frattanto, lo sguardo della donna, in fondo al quale era la notte, si fissò di nuovo su Tellmarch.

- Eppure, non può mica andare avanti così, - ella disse.

- Ssst! - fece Tellmarch, mettendosi un dito sulla bocca.

Lei proseguì:

- Avete fatto male a salvarmi, e ce l'ho con voi. Preferirei essere morta, dal momento che sono sicura che li vedrei. Saprei dove sono.

Non mi vedrebbero, ma sarei loro vicino. Deve proteggere, una morta.

L'uomo le prese il braccio e le tastò il polso.

- Calmatevi, - le disse; - vi fate ritornare la febbre.

Essa gli domandò, quasi con durezza:

- Quando potrò andarmene?

- Andarvene?

- Sì. Camminare.

- Mai, se non siete ragionevole. Domani se avete buon senso.

- Che cosa intendete per avere buon senso?

- Aver fiducia in Dio.

- Dio! dove mi ha messo i miei figlioli?

Era come smarrita. La sua voce si fece dolcissima.

- Capirete bene, - ella gli disse, - che io non voglio rimanere così.

Voi di figlioli non ne avete avuti, io sì. E' un altro paio di maniche. Una cosa, non si può giudicarla, quando non si sa che cosa sia. Non ne avete avuti di figlioli, voi, vero?

- No, - rispose Tellmarch.

- Io, invece, non ho avuto che loro. Sono io forse senza i miei figlioli? Vorrei mi si spiegasse perché non ho i miei figlioli, dal momento che non lo capisco da me. Mio marito è stato ammazzato, me, mi hanno fucilata; ma fa lo stesso, non capisco.

- Andiamo, - disse Tellmarch; - ecco che vi riprende la febbre. Non parlate più.

Lei lo guardò, e tacque.

A partire da quel giorno, essa non parlò più.

Tellmarch fu obbedito più di quanto volesse. Lei trascorreva lunghe ore accovacciata ai piedi del vecchio albero, stupefatta. Pensava e taceva. Il silenzio porge un certo qual rifugio alle anime semplici, che hanno subìto la sinistra penetrazione del dolore. Pareva rinunciare a capire. Giunta a un certo grado, la disperazione diventa inintelligibile ai disperati.

Tellmarch la osservava, sconvolto. Di fronte a quella sofferenza, quel vecchio aveva pensieri da donna. "Ah sì!", diceva in cuor suo: "le sue labbra non parlano, ma parlano i suoi occhi; vedo bene che cos'ha, un'idea fissa. Essere stata madre, e non esserlo più! essere stata nutrice, e non esserlo più! Non vi si può rassegnare. Pensa alla più piccina che allattava, lei, ancora poco tempo fa. Ci pensa, ci pensa, ci pensa. Dev'essere così delizioso, infatti, sentire una boccuccia rosa che vi sugge l'anima da dentro il corpo e che si fa, con la vostra vita, la propria!".

E taceva anche lui, ben comprendendo, di fronte a un tale accasciamento, l'impotenza della parola. Il silenzio di un'idea fissa è terribile. E in che modo far intender ragione all'idea fissa di una madre? La maternità non ha scappatoie; non si discute con essa. Ciò che rende sublime una madre, è il fatto che è una specie di bestia.

L'istinto materno è divinamente animale. La madre non è più donna, è femmina.

I bimbi non sono bimbi, ma piccoli.

Ciò fa sì che nella madre ci sia qualche cosa d'inferiore e di superiore al ragionamento. Una madre ha un fiuto. E' in lei, e la guida, l'immensa volontà tenebrosa della creazione. Accecamento pieno di chiaroveggenza.

Adesso Tellmarch avrebbe voluto far parlare quella sventurata. Non ci riusciva. Una volta le disse:

- Disgraziatamente, sono vecchio, io, e non cammino più. Tocco molto più presto l'estremo delle mie forze che la fine della mia strada.

Dopo un quarto d'ora, le gambe mi si rifiutano di proseguire, e mi debbo fermare. Non fosse così, vi potrei accompagnare. Dopo tutto, però è forse un bene che io non possa farlo. Sarei forse più pericoloso che utile per voi. Qui, sono tollerato; ma io sono sospetto agli azzurri come contadino, e ai contadini come stregone.

Aspettò una risposta. Lei non alzò nemmeno gli occhi.

Un'idea fissa sfocia nella follia o nell'eroismo. Ma di che eroismo può essere capace una povera contadina? di nessuno. Può essere madre, e tutto è detto. La Fléchard si sprofondava ogni giorno più nel suo fantasticare. Tellmarch l'osservava.

Cercò di tenerla occupata. Le portò filo, aghi, ditale. Lei infatti, con grande piacere del povero pitocco, si mise ad agucchiare. Pensava, ma lavorava: indizio di salute. Le forze le tornavano a poco a poco.

Si aggiustò la biancheria, i panni, le scarpe; ma la sua pupilla rimaneva vitrea. Così agucchiando, cantava inintelligibili canzoni a mezza voce. Mormorava nomi, nomi di bimbi, probabilmente, non così distintamente che Tellmarch li potesse capire. S'interrompeva, talvolta, e ascoltava gli uccelli, quasi che avessero notizie da riferirle. Guardava che tempo fosse. Le labbra le si agitavano.

Parlava tra sé, sottovoce. Fece un sacco e lo colmò di castagne. Una mattina Tellmarch la vide che se ne andava, l'occhio fisso a caso sulle profondità della foresta.

- Dove andate? - le domandò.

Lei rispose:

- Li vado a cercare.

L'uomo non fece nulla per trattenerla.

7.

LE DUE FACCE DELLA VERITA'.

In capo ad alcune settimane piene di tutto l'andirivieni della guerra civile, non si parlava d'altro, in quel di Fougères, che di due uomini, diametralmente opposti l'uno all'altro, e che nondimeno assolvevano lo stesso compito, vale a dire combattevano uno a fianco dell'altro la grande battaglia repubblicana.

Il selvaggio duello vandeano continuava, ma la Vandea perdeva terreno.

Nell'Ille-et-Vilain specialmente, grazie al giovane comandante che a Dol aveva tanto a proposito rintuzzato l'audacia dei seimila realisti con l'audacia dei millecinquecento patrioti, l'insurrezione era se non spenta almeno ridotta e circoscritta di parecchio. A quel felice colpo di mano ne erano seguiti parecchi altri, e da quei reiterati successi era nata una nuova situazione.

Le cose avevano cambiato faccia; ma era sopravvenuta una singolare complicazione.

Non c'era dubbio che, in tutta quella parte della Vandea, chi aveva il sopravvento era la repubblica, ma quale? Nel trionfo che si abbozzava, due repubbliche erano di fronte l'una all'altra: la repubblica del terrore e la repubblica della clemenza, di cui l'una voleva vincere con il rigore, l'altra con la mitezza. Quale sarebbe prevalsa? Quelle due forme, la forma conciliante e la forma implacabile, erano rappresentate da due uomini, ciascuno dei quali aveva la propria influenza e la propria autorità, l'uno come comandante militare, l'altro come delegato civile. Quale di questi due uomini avrebbe avuto il sopravvento? Uno, il delegato, aveva temibili punti d'appoggio: era giunto recando la minacciosa consegna della Comune di Parigi ai battaglioni del Santerre: "Niente grazia, niente quartiere". Per sottomettere ogni cosa alla sua autorità, egli aveva il decreto della Convenzione che comminava la "pena di morte contro chiunque mettesse in libertà e facesse evadere un caporione ribelle prigioniero", pieni poteri emanati dal comitato di salute pubblica, e una ingiunzione di prestargli obbedienza, firmata: "Robespierre, Danton, Marat". L'altro, il soldato, non aveva dalla sua che questa forza: la pietà.

Non aveva per sé che il proprio braccio, che batteva i nemici, e il proprio cuore, che faceva loro grazia. Vincitore, si riteneva in diritto di risparmiare i vinti.

Da ciò un conflitto, ma profondo, tra i due. Erano entrambi sulle nubi, ma su nubi diverse, entrambi in lotta con la ribellione, e ciascuno con la sua propria folgore: la vittoria l'uno, il terrore l'altro.

In tutta la "boscaglia" non si parlava che di loro, e ciò che aumentava l'ansietà degli sguardi fissati su di essi da ogni parte, era il fatto che quei due uomini, tanto assolutamente opposti, erano al tempo stesso strettamente uniti. Quei due antagonisti erano due amici. Mai nessuna simpatia più alta e più profonda aveva avvicinato due cuori; il feroce aveva salvato la vita al clemente, e ne portava lo sfregio al viso. Quei due uomini incarnavano l'uno la morte, l'altro la vita; uno era il principio terribile, l'altro il principio pacifico: e si volevano bene. Strano problema. Ci si immagini Oreste misericordioso e Pilade inclemente. Ci si immagini Arimane fratello di Ormuzd.

Aggiungiamo che quello dei due che veniva chiamato "il feroce" era al tempo stesso il più fraterno degli uomini; medicava i feriti, curava i malati, trascorreva i giorni e le notti nelle ambulanze e negli ospedali, s'inteneriva sui fanciulli scalzi, non aveva nulla di suo e dava tutto ai poveri. Quando si battevano, ci andava anche lui; procedeva in testa alle colonne e si cacciava nel più forte della mischia, armato, giacché portava alla cintura una sciabola e due pistole, e disarmato, giacché nessuno mai l'aveva visto sfoderare la sciabola o mettere mano alle pistole. Affrontava i colpi e non ne restituiva. Si diceva che fosse stato prete. Uno di quei due uomini era Gauvain, l'altro Cimourdain.

C'era amicizia tra quei due uomini, ma odio tra quei due princìpi.

Erano come un'anima tagliata in due parti avverse. Gauvain, infatti, aveva ricevuto una metà dell'anima di Cimourdain, ma la metà dolce. Si sarebbe detto che Gauvain avesse avuto il raggio bianco, e che Cimourdain si fosse tenuto per sé quello che si potrebbe chiamare il raggio nero. Da ciò, un intimo disaccordo. Né quella sorda ostilità poteva fare a meno di deflagrare. Una mattina il cozzo incominciò.

Cimourdain disse a Gauvain:

- A che punto siamo?

Gauvain rispose:

- Lo sapete quanto me. Ho disperso le bande di Lantenac. Non ha più con sé che pochi uomini, quello. L'ho messo con le spalle alla foresta di Fougères. Tra otto giorni sarà accerchiato.

- E tra quindici?

- Sarà preso.

- E poi?

- Avete letto il mio manifesto?

- Sì. E allora?

- Sarà fucilato.

- Di nuovo clemenza. Ghigliottinato deve essere.

- Io, - disse Gauvain, - sono per la morte militare.

- E io, - gli ribatté Cimourdain, - per la morte rivoluzionaria.

Fissò in faccia Gauvain e gli disse:

- Perché hai fatto mettere in libertà quelle monache del convento di Saint-Marc-le-Blanc?

- Non faccio la guerra alle donne, io, - rispose Gauvain.

- Quelle donne là odiano il popolo, e in fatto di odio una donna vale dieci uomini. Perché ti sei rifiutato di mandare al tribunale rivoluzionario tutto quel mucchio di vecchi preti fanatici presi a Louvigné?

- Non faccio la guerra ai vecchi, io.

- Un prete vecchio è peggio di uno giovane. Quando è predicata dai capelli bianchi, la ribellione è più pericolosa. Si presta fede alle rughe. Niente falsa pietà, Gauvain. I regicidi sono i liberatori. Abbi l'occhio fisso sulla torre del Tempio.

- La torre del Tempio! Ne farei uscire il delfino, io. Non faccio guerra ai fanciulli.

L'occhio di Cimourdain si fece severo.

- Sappi, Gauvain, che bisogna fare la guerra alla donna, quando questa si chiama Maria Antonietta, al vecchio, quando si chiama Pio Settimo, papa, e al fanciullo, quando ha nome Luigi Capeto.

- Non sono un uomo politico, io, maestro.

- Fa di non essere un uomo pericoloso. Perché mai, all'assalto del posto di Cossé, quando il ribelle Giovanni Trenton, messo con le spalle al muro, ormai sopraffatto si è scagliato tutto solo, spada in pugno, contro la tua colonna, tu hai gridato: "Aprite le file, lasciate passare"?

- Perché non ci si mette in millecinquecento per uccidere un uomo.

- Perché mai, alla Cailleterie d'Astillé, quando vedesti che i tuoi soldati stavano per ammazzare il vandeano Giuseppe Bézier, che era stato ferito e si trascinava per terra, hai gridato: "Andate avanti, me la vedo io!", e hai sparato una pistolettata in aria?

- Perché non si uccide un caduto.

- E hai avuto torto. Oggi, tanto l'uno che l'altro sono capibanda.

Giuseppe Bézier si fa chiamare Mostaccio, e Giovanni Trenton Gamba- d'argento. Salvando quei due uomini, hai procurato due nemici alla repubblica.

- La mia intenzione, certo, è di procurarle degli amici, non dei nemici.

- Perché mai, dopo la tua vittoria di Landèan, non hai fatto fucilare i trecento contadini prigionieri?

- Perché, siccome il Bonchamp aveva fatto grazia ai prigionieri repubblicani, volli si dicesse che la repubblica faceva grazia ai prigionieri realisti.

- Ma allora, se prendi Lantenac, gli farai grazia, tu?

- No.

- Perché? Dal momento che hai fatto grazia ai trecento contadini...

- I contadini sono ignoranti; Lantenac sa quel che si fa.

- Ma Lantenac è tuo parente.

- La grande parente è la Francia.

- Lantenac è un vecchio.

- Lantenac è uno straniero. Lantenac non ha età. Lantenac chiama gli inglesi. Lantenac significa invasione. Lantenac è il nemico della patria. Il duello tra lui e me non può finire che con la sua morte o la mia.

- Ricordati, Gauvain, di quanto hai detto.

- Lo ripeto.

Ci fu un silenzio. Si guardarono l'un l'altro.

Poi Gauvain riprese:

- Sarà una data sanguinosa questo '93 in cui siamo!

- Bada! - esclamò Cimourdain. - I doveri terribili esistono davvero.

Non accusare ciò che non è accusabile. Da quando in qua la malattia è colpa del medico? Già, la caratteristica di questo anno enorme è d'essere spietato. Perché? perché è il grande anno rivoluzionario.

Questo '93 in cui siamo incarna la rivoluzione. La rivoluzione ha un nemico, il vecchio mondo, ed è con esso spietata, al modo stesso che il chirurgo ha un nemico, la cancrena, ed è con essa spietato. La rivoluzione estirpa la regalità con il re, l'aristocrazia con il nobile, il dispotismo col soldato, la superstizione col prete, la barbarie col giudice, tutto ciò che è tirannia, con tutto ciò che è tiranno, in una parola. L'operazione è spaventevole; la rivoluzione la pratica con mano sicura. Quanto alla quantità di carne sana che sacrifica, domanda al Boerhaave che cosa ne pensi. C'è forse tumore che si possa asportare senza perdita di sangue? C'è forse incendio da spegnere che non esiga la parte del fuoco? Sono la condizione stessa della buona riuscita, queste temibili necessità. Un chirurgo assomiglia a un macellaio, un guaritore può fare l'effetto d'un carnefice. La rivoluzione si dedica alla fatale sua opera. Mutila, ma salva. E che! le chiedete grazia per il bacillo, voi? esigete che sia clemente per ciò che è velenoso? Essa non ascolta. Ha acciuffato il passato, e lo finirà. Pratica alla civiltà una profonda incisione, dalla quale scaturirà la salvezza del genere umano. Soffrite? non lo metto in dubbio. Quanto durerà? il tempo richiesto dall'operazione.

Dopo, vivrete. La rivoluzione amputa il mondo; da ciò questa emorragia, il '93.

- Il chirurgo è calmo, - disse Gauvain; - gli uomini che io vedo sono violenti, invece.

- La rivoluzione, - rispose Cimourdain, - richiede, perché l'aiutino, operai feroci. Respinge ogni mano che trema. Non ha fede che nell'inesorabile. Danton è il terribile, Robespierre è l'inflessibile, Marat è l'implacabile. Bada, Gauvain. Quei nomi sono necessari.

Valgono eserciti, per noi. Atterriranno l'Europa.

- E anche l'avvenire, forse, - disse Gauvain.

Tacque un attimo, e riprese:

- Voi vi sbagliate, d'altronde, maestro. Non accuso nessuno, io.

Secondo me, il vero punto di vista della rivoluzione è l'irresponsabilità. Nessuno è innocente, nessuno è colpevole. Luigi Sedicesimo è un montone gettato fra i leoni. Vuole fuggire, vuole salvarsi, tenta di difendersi: morderebbe, se potesse. Ma non tutti possono essere leoni. La sua velleità è gabellata per delitto. Quel montone in collera mostra i denti. "Traditore", dicono i leoni. E lo mangiano. Dopo di che, si battono tra di loro.

- Il montone è una bestia.

- E i leoni, che cosa sono?

Questa risposta lasciò pensoso Cimourdain. Alzò la testa e disse:

- Sono coscienze, quei leoni. Quei leoni sono idee. Quei leoni sono princìpi.

- Fanno il terrore.

- La rivoluzione sarà la giustificazione del terrore, un giorno.

E Gauvain riprese:

- Libertà, Uguaglianza, Fraternità sono dogmi di pace e di armonia.

Perché imprimere loro un aspetto spaventoso? Che cosa vogliamo?

Conquistare i popoli alla repubblica universale. Non facciamo loro paura, allora. A che l'intimidazione? I popoli non sono attratti dallo spauracchio meglio di quanto lo siano gli uccelli. Per fare il bene, non si deve fare il male. Non si abbatte il trono per lasciare in piedi il patibolo. Morte ai re, e vita alle nazioni. Abbattiamo le corone, risparmiamo le teste. La rivoluzione è concordia, non spavento. Sono servite male dagli inclementi, le idee dolci. Il più bel vocabolo della lingua umana, per me, è amnistia. Non intendo versare sangue che arrischiando il mio, io. Io non so che combattere, d'altronde, e non sono che un soldato. Ma se non si può perdonare, non vale la pena di vincere. Nemici dei nostri nemici durante la battaglia, siamone, dopo la vittoria, i fratelli.

- Bada! - ripeté per la terza volta Cimourdain. - Gauvain, tu sei per me più che un figlio. Bada!

E, meditabondo, soggiunse:

- In tempi come i nostri, la pietà può essere una delle forme del tradimento.

Udendo parlare quei due uomini, si sarebbe creduto di udire il dialogo della spada e della scure.

8.

DOLOROSA.

Frattanto, la madre cercava i suoi piccini.

Andava davanti a sé. Come viveva? Impossibile dirlo. Non lo sapeva nemmeno lei. Camminò, camminò giorno e notte, notte e giorno. Mendicò, mangiò erba, si coricò per terra, dormì all'aperto, nei cespugli, sotto le stelle, qualche volta sotto la pioggia e sotto la tramontana.

Vagabondava di paese in paese, di fattoria in fattoria, informandosi.

Si fermava sulle soglie. La sua veste era in brandelli. C'era chi l'accoglieva, c'era chi la scacciava. Quando non poteva entrare nelle case, andava nei boschi.

Non conosceva il paese. Tutto ignorava, eccettuato Siscoignard e la parrocchia di Azé; non aveva itinerario di sorta, ritornava sui suoi passi, ricominciava una strada già percorsa, faceva tratti inutili.

Seguiva ora una strada, ora una carreggiata, ora un sentiero nel ceduo. In quella vita errabonda aveva logorato le vesti già miserabili. Aveva dapprima camminato con le scarpe, poi coi piedi nudi, poi coi piedi sanguinanti.

E andava attraverso la guerra, attraverso le fucilate senza nulla udire, senza nulla vedere, senza nulla evitare, cercando i suoi figlioli. Tutto era in rivolta. Gendarmi non ce n'erano più. Non c'erano più sindaci, non c'erano più autorità. Non poteva rivolgersi che ai passanti.

E a questi parlava. Diceva:

- Avete visto tre bimbi in qualche posto?

I passanti alzavano la testa.

- Due maschi e una bambina, - precisava.

Poi proseguiva:

- Gian Renato, Alano, Giorgina... non li avete visti?

E diceva ancora:

- Il maggiore ha quattro anni e mezzo, l'ultima, venti mesi.

Quindi soggiungeva:

- Sapete dove sono? Me li hanno portati via.

La guardavano, ed era tutto.

Accorgendosi che non la capivano, diceva ancora:

- Sono miei, vedete? Ecco perché.

La gente andava per la propria strada. Allora lei si fermava e non diceva più nulla. E si lacerava il petto con le unghie.

Un giorno, comunque, un contadino le diede retta. Il buon uomo si mise a riflettere.

- Aspettate un po', - disse. - Tre bambini?

- Sì.

- Due maschietti?...

- E una bambina.

- Sono quelli che cercate?

- Sì.

- Ho udito parlare di un signore che aveva preso tre bimbi e che li aveva con sé.

- Dov'è quell'uomo? - gridò lei - Dove sono?

Il contadino rispose:

- Andate alla Tourgue.

- Li troverò là i miei figlioli?

- Può anche darsi che sì.

- Avete detto, allora?

- Alla Tourgue.

- Che cos'è la Tourgue?

- Una località.

- Un paese? un castello? una fattoria?

- Non ci sono mai stato, io.

- Ed è lontano?

- Non è vicino di sicuro.

- Da che parte?

- Dalla parte di Fougères.

- Per dove si va?

- Siete a Vantortes, qui, - disse il contadino; - lascerete Ernée a sinistra e Coxelles a destra; passerete da Lorchamp e attraverserete Leroux.

E il contadino alzò la mano verso l'occidente.

- Sempre davanti a voi, andando dalla parte dove tramonta il sole.

Prima ancora che il contadino avesse abbassato il braccio, lei si era avviata.

Il contadino le gridò:

- Ma state attenta. Si battono, da quelle parti.

La donna non si voltò per rispondergli; tirò innanzi.

9.

UNA BASTIGLIA DI PROVINCIA.

(1) La Tourgue.

Il viaggiatore che, quarant'anni or sono, entrato nella foresta di Fougères dalla parte di Laignelet, ne usciva dalla parte di Parigné, faceva, sul limitare di quella profonda boscaglia, un sinistro incontro. Sboccando dal macchione, gli si parava improvvisamente innanzi la Tourgue.

Non la Tourgue viva, ma la Tourgue morta. La Tourgue screpolata, sbrecciata, sfregiata e smantellata. Il rudere sta all'edificio come il fantasma all'uomo. Nessuna più lugubre visione di quella della Tourgue. Si aveva sotto gli occhi un'alta torre rotonda, tutta sola nell'angolo del bosco come un malfattore. Quella torre, ritta sopra un masso scosceso, era di aspetto quasi romano, tanto era solida e corretta, e tanto l'idea della potenza era, in quel robusto insieme, commista all'idea della decadenza. E romana un pochino lo era, giacché era romanica. Iniziata nel nono secolo, era stata portata a termine nel dodicesimo, dopo la terza crociata. Le imposte a cartoccio delle sue aperture ne denunciavano l'età. Le si andava vicino, si scalava la scarpata, si scorgeva una breccia, ci si arrischiava a entrarvi, si era dentro, era il vuoto. Qualche cosa come l'interno d'un clarinetto di sasso posato ritto sul suolo. Dall'alto in basso, nessun diaframma; né tetto, né soffitto, né impiantiti; peducci di volte e di camini soltanto, feritoie per falconetti a varie altezze, ordini di mensole di granito e qualche trave trasversale, che indicava i vari piani.

Sulle travi, lo sterco degli uccelli notturni. La muraglia era colossale: quindici piedi di spessore alla base e dodici alla sommità.

Crepacci, qua e là, e buchi, che erano stati usci, attraverso i quali si scorgevano le scale nel tenebroso recesso del muro. Il passante che entrava là dentro alla sera, udiva strepitare gli allocchi, i gufi, i succiacapre, gli aironi notturni, e si vedeva sotto ai piedi rovi, sassi, rettili, e, sopra la testa, attraverso una nera apertura circolare, che era la sommità della torre e pareva l'imboccatura di un pozzo enorme, le stelle.

Voleva la tradizione locale che ai piani superiori di quella torre ci fossero delle porte segrete, fatte, come le tombe dei re di Giuda, d'una grossa pietra che girava su un perno, che si apriva, si richiudeva e scompariva nella muraglia: moda architettonica riportata dalle crociate assieme con l'ogiva. Chiuse che fossero, quelle porte, era impossibile trovarle, tanto bene si confondevano Con le altre pietre del muro. Di tali porte, se ne vede ancor oggi qualcuna nelle misteriose città dell'Antilibano, sfuggite al terremoto delle dodici città, sotto Tiberio.

(2) La breccia.

La breccia dalla quale si entrava nel rudere era un foro da mina. Per un conoscitore, familiare dell'Errard, del Sardi e del Pagan, quella mina era stata saggiamente praticata. Il fornello, a mo' di cappello da prete, era proporzionato alla potenza del mastio che doveva squarciare. Aveva dovuto contenere almeno due quintali di polvere. Vi si perveniva per un camminamento serpeggiante, che risponde meglio allo scopo di uno diritto. Il crollo prodotto dalla mina aveva messo a nudo, nella spaccatura della pietra, il foro della miccia, a mo' di salsicciotto, che aveva il previsto diametro d'un uovo di gallina.

L'esplosione aveva fatto alla muraglia una ferita profonda, per la quale gli assedianti erano potuti entrare. Quella torre aveva evidentemente sostenuto in epoche diverse, veri assedi in piena regola; era crivellata di mitraglia, ma non era tutta mitraglia di una medesima epoca. Ogni proiettile ha il suo modo particolare di contrassegnare un baluardo, e tutti avevano lasciato a quel torrione il loro sfregio, dalle palle di sasso del quattordicesimo secolo fino a quelle di ferro del secolo diciottesimo.

La breccia immetteva in quello che doveva essere stato il pianterreno.

Di fronte alla breccia, nel muro della torre, si apriva il pertugio di una cripta scavata nella roccia e si prolungava nelle fondamenta della torre sotto la sala del pianterreno.

Quella cripta, riempita per tre quarti dal terriccio, fu sgomberata nel 1835 per cura del signor Augusto Prévost, antiquario di Bernay.

(3) La segreta.

Quella cripta era la segreta. Ogni mastio aveva la propria. Come molti sotterranei penali delle stesse epoche, era costituita di due piani.

Il primo, nel quale si entrava dal pertugio, era una camera a volta, alquanto vasta allo stesso livello della sala a terreno. Sulle pareti di quella camera si scorgevano due solchi paralleli e verticali, che andavano da un muro all'altro passando per la volta, in cui erano profondamente impressi, e che davano l'idea di due carreggiate. Erano due carreggiate infatti. Quei due solchi erano stati scavati da due ruote. Una volta, ai tempi feudali, proprio in quella camera si procedeva agli squartamenti, e ciò con un procedimento meno chiassoso di quello dei quattro cavalli. C'erano, là dentro, due ruote, così forti e così grandi, che toccavano i muri e la volta. Si attaccava a ciascuna di quelle ruote un braccio e una gamba del paziente, poi si facevano girare le due ruote in senso opposto, il che lacerava l'uomo.

Si doveva operare un certo sforzo, naturalmente, da ciò le carreggiate scavate nella pietra dalle ruote che la sfioravano. Oggi ancora si può vedere una camera di quel genere a Vianden.

Sotto a quella camera ce n'era un'altra. Era la vera e propria segreta. Né vi si entrava per un uscio, ma vi si penetrava da un buco.

Il paziente, nudo, veniva calato, a mezzo di una fune, passata sotto le ascelle, nella camera di sotto da una botola praticata in mezzo al pavimento della camera superiore. Se si ostinava a vivere, gli si buttava il cibo da quel buco. Oggi ancora si vede un buco di quel genere a Bouillon.

Soffiava aria, da quel buco. La camera inferiore, scavata sotto la sala a terreno, era piuttosto un pozzo che una camera. Andava a finire dov'era l'acqua, ed era in preda a un gelido soffio. Quel soffio, che faceva morire il prigioniero di sotto, faceva vivere quello di sopra.

Rendeva possibile respirare nella prigione. Il prigioniero di sopra, gattoni sotto la volta, non riceveva aria che da quel buco. Chi vi entrava, o vi cadeva, non ne usciva più, del resto. Toccava al prigioniero guardarsene nell'oscurità. Bastava un passo falso per fare del paziente di sopra un paziente di sotto. Era affar suo. Se ci teneva alla vita, quel buco era il suo pericolo; se si tediava, quel buco era la sua suprema risorsa. Il piano superiore era il carcere, quello inferiore era la tomba: sovrapposizione somigliante alla società di allora. I nostri antenati chiamavano ciò "fondo di cantina". Scomparsa la cosa, il nome, per noi, non ha più senso.

Grazie alla rivoluzione, udiamo pronunciare quella parola con indifferenza.

Dall'esterno della torre, sopra la breccia, che, quaranta anni or sono, ne era l'unica entrata, si scorgeva un'apertura più larga delle altre feritoie, dalla quale pendeva una inferriata divelta e sfondata.

(4) Il ponte-castelletto.

A quella torre, dal lato opposto alla breccia, si collegava un ponte di sasso a tre arcate, non molto danneggiato. Quel ponte aveva sorretto un corpo di fabbricato di cui restavano alcuni avanzi. Quel corpo di fabbricato, nel quale erano visibili le tracce di un incendio, non serbava più che la travatura annerita, specie di ossatura, attraverso la quale passava la luce, e che si ergeva accanto alla torre come uno scheletro accanto a un fantasma.

Oggigiorno quel rudere è totalmente demolito e non ne resta più alcuna traccia. Un giorno e un contadino bastano per disfare ciò che fu fatto in molti secoli da molti re.

"La Tourgue", abbreviazione contadinesca, significa "Tour-Gauvain", la Torre dei Gauvain, come la "Jupelle" significa "Jupellière", e come "Pinson-le-Tort", nome d'un capobanda gobbo, significa "Pinson-le- Tortu", Pinson lo Storto.

La Tourgue, che quarant'anni or sono era un rudere, e che adesso è un'ombra, nel 1793 era una fortezza. Era la vecchia bastiglia dei Gauvain, posta a guardia dell'entrata occidentale della foresta di Fougères, foresta che, anch'essa, è oggigiorno un bosco appena appena.

Quella cittadella era stata costruita sopra uno di quei grossi massi schistosi disseminati tra Mayenne e Dinan, sparsi in tutte le macchie e in tutte le brughiere, come se qui i titani si fossero scagliati pietre in testa.

La torre era tutta la fortezza; sotto la torre c'era la roccia, ai piedi della roccia correva uno di quei rivi che gennaio trasforma in torrenti, e che giugno prosciuga.

Semplificata a quel punto, quella fortezza era, nel medio evo, su per giù imprendibile, salvo che il ponte la indeboliva. I Gauvain gotici l'avevano costruita senza ponte; vi si accedeva per una di quelle passerelle oscillanti, che un colpo di scure bastava ad abbattere.

Fino a che i Gauvain furono visconti, la fortezza piacque loro così e se ne accontentarono; ma quando furono marchesi, e quando lasciarono la caverna per la corte, gettarono tre arcate sul torrente, e si resero accessibili dalla parte della pianura, come si erano resi accessibili dalla parte del re. I marchesi nel diciassettesimo secolo, e le marchese nel diciottesimo, non ci tenevano più a essere imprendibili. Invece di continuare nella tradizione degli avi, copiarono Versailles.

Di fronte alla torre, dalla parte occidentale, si stendeva un pianoro piuttosto elevato, che si andava a perdere nella pianura. Quel pianoro giungeva fin quasi ai piedi della torre, e non ne era separato che da un profondissimo burrone, dove era il letto del corso d'acqua, che è un affluente del Cuesnion. Il ponte, collegamento tra la fortezza e il pianoro, fu costruito su pile piuttosto alte, e su quelle pile si costruì, come a Chenonceaux, un edificio stile Mansard, più abitabile che non il torrione. Ma i costumi erano ancora molto rozzi; i signori conservarono l'abitudine di abitare le camere del mastio, simili a celle. Quanto alla costruzione sul ponte, che era una specie di piccolo castelletto, vi si praticò un lungo corridoio, che fungeva da entrata e che venne chiamato sala delle guardie; sopra a questa sala delle guardie, che era una specie di mezzanino, fu collocata una biblioteca, e al di sopra della biblioteca una soffitta. Vi erano lunghe finestre a piccoli vetri di Boemia, pilastri tra le finestre, medaglioni scolpiti nel muro. Tre piani in tutto, con partigiane e moschetti a quello inferiore, libri a quello in mezzo, e sacchi d'avena a quello superiore. Il tutto era un po' selvaggio e molto nobile.

La torre accanto era arcigna.

Dominava quel civettuolo edificio di tutta la sua lugubre altezza.

Dalla sua piattaforma si poteva folgorare il ponte.

I due edifici, uno rustico e l'altro rifinito a dovere, contrastavano tra loro più che non armonizzassero. I due stili non andavano per nulla d'accordo. Per quanto possa parere che due semicerchi debbano essere identici, non c'è nulla di più dissimile da un arco a tutto sesto romano di un archivolto classico. Quella torre degna delle foreste era una strana vicina per quel ponte degno di Versailles. Ci si immagini Alano Barbaispida a braccetto con Luigi Quattordicesimo.

L'insieme atterriva. Dalle due maestà commiste, scaturiva un non so che di feroce.

Militarmente parlando, il ponte, torniamo a dire, dava quasi la torre in mano ai nemici. L'abbelliva e la disarmava; guadagnando in ornamento, essa aveva perduto in forza. Il ponte la metteva allo stesso livello del pianoro. Sempre inespugnabile dalla parte della foresta, era adesso vulnerabile dalla parte della pianura. In altri tempi essa comandava il pianoro, adesso era il pianoro a comandarla.

Un nemico che si fosse installato colà, non avrebbe tardato a farsi padrone del ponte. La biblioteca e la soffitta favorivano l'assediante e avversavano la fortezza. Una biblioteca e una soffitta si assomigliano in questo, che tanto i libri che la paglia sono combustibili. Per un assediante che si vale dell'incendio, ardere Omero o ardere una balla di fieno, purché ardano, è la stessissima cosa. I francesi lo hanno dimostrato ai tedeschi bruciando la biblioteca di Heidelberg, e i tedeschi lo hanno dimostrato ai francesi bruciando la biblioteca di Strasburgo. Quel ponte aggiunto alla Tourgue era dunque, strategicamente parlando, un errore; ma nel diciassettesimo secolo, sotto Colbert e Louvois, i principi Gauvain, al pari dei principi di Rohan o dei principi di La Trémouille, non pensavano ormai più di poter essere assediati. I costruttori del ponte, comunque, avevano preso qualche precauzione. Avevano, innanzitutto, previsto l'incendio: sotto le tre finestre che guardavano a valle, avevano appeso, nel senso della lunghezza, a uncini che, mezzo secolo fa, si vedevano ancora, una robusta scala di salvataggio, lunga quanto erano alti i primi due piani del ponte, altezza che superava quella di tre piani ordinari. In secondo luogo avevano previsto l'assalto, e avevano isolato il ponte dalla torre per mezzo di una massiccia e bassa porta di ferro, superiormente arrotondata. Quella porta veniva chiusa con una grossa chiave collocata in un nascondiglio conosciuto soltanto dal padrone e, chiusa che fosse, poteva sfidare l'ariete, nonché sfidare, quasi, le palle di cannone.

Bisognava passare sul ponte per arrivare a quella porta, e varcare quella porta per entrare nella torre. Altra entrata non c'era.

(5) La porta di ferro.

Il secondo piano del castelletto del ponte, sopraelevato per via delle pile, corrispondeva al secondo piano della torre; la porta di ferro, per maggior sicurezza, era stata collocata a quella altezza.

La porta di ferro si apriva, dal lato del ponte, sulla biblioteca, e dal lato della torre su una gran sala a volta con pilastro nel mezzo.

Questa sala, già l'abbiamo detto, era il secondo piano del mastio. Era rotonda come la torre; lunghe feritoie, che davano sulla campagna, la rischiaravano. La muraglia, quanto mai rozza, era nuda e nulla ne nascondeva le pietre, del resto molto simmetricamente disposte. Si saliva a quella sala per una scala a chiocciola praticata nel muro, cosa semplicissima, quando i muri hanno quindici piedi di spessore.

Nel medio evo si prendeva una città strada per strada, una strada casa per casa, una casa stanza per stanza. Si assediava una fortezza piano dopo piano. Sotto questo rapporto, la Tourgue era molto saggiamente disposta, e aspra e difficile quanto mai. Si saliva da un piano all'altro per una scala a spirale tutt'altro che facilmente abbordabile; le porte erano di sbieco e non raggiungevano l'altezza di un uomo: per passarci, bisognava curvare la testa; ora, testa abbassata è testa accoppata, e l'assediato aspettava l'assediante a ogni porta.

Sotto la sala rotonda dal pilastro centrale c'erano due altri locali simili, che costituivano il primo piano e il pianterreno, e sopra, tre; su quelle sei stanze sovrapposte, la torre si chiudeva con un coperchio di sasso, che era la piattaforma, alla quale si accedeva da un'angusta garitta.

I quindici piedi di spessore di muraglia che si erano dovuti forare per collocarvi la porta di ferro, che vi era infissa proprio in mezzo, la incastonavano in un lungo archivolto, di modo che la porta, quand'era chiusa, si trovava, tanto dalla parte della torre che dalla parte del ponte, sotto un portico di sei o sette piedi di profondità; quando poi era aperta, i due portici si fondevano in uno, che formava il voltone dell'entrata.

Sotto il portico dalla parte del ponte, si apriva, nello spessore del muro, la bassa porticina d'una scala a spirale, che conduceva al corridoio del primo piano, sotto la biblioteca: altra difficoltà per l'assediante. Il castelletto sul ponte non offriva altro, alla sua estremità prospiciente il pianoro, che un muro a picco, e là il ponte s'interrompeva. Un ponte levatoio, applicato contro una bassa pusterla, lo metteva in comunicazione col pianoro, e quel ponte levatoio, che, data l'altezza del pianoro, si abbassava soltanto a piano inclinato, metteva nel lungo corridoio detto sala delle guardie.

Padrone che fosse di quel corridoio, l'assediante, per giungere alla porta di ferro, era costretto a impadronirsi a viva forza della scala a spirale che saliva al secondo piano.

(6) La biblioteca.

Quanto alla biblioteca, era una sala oblunga, avente la lunghezza e la larghezza del ponte e una sola porta: quella di ferro. Una controporta, rivestita di panno verde, che bastava spingere, mascherava all'interno il voltone d'entrata della torre. Le pareti della biblioteca erano, dall'alto in basso e dal pavimento al soffitto, ricoperte da armadi a vetri, ligi al buon gusto ebanistico del diciassettesimo secolo. Sei grandi finestre, tre per ogni lato, una al di sopra di ciascuna arcata, davano luce a quella biblioteca.

Da quelle finestre si poteva scorgere dall'alto del pianoro esterno, quanto avveniva dentro. Tra finestra e finestra si rizzavano sopra mensole di quercia scolpita sei busti di marmo: Ermolao di Bisanzio, Ateneo, grammatico naucratico, Casaubon, Suida, Clodoveo re di Francia e il suo cancelliere Anàcalo, che, del resto, non era cancelliere meglio di quanto Clodoveo fosse re.

In quella biblioteca c'erano libri comunissimi. Uno è rimasto celebre.

Era un vecchio "in-quarto" con incisioni che portava per titolo a grosse lettere "San Bartolomeo", e per sottotitolo "Evangelo secondo san Bartolomeo, preceduto da una dissertazione di Panteno, filosofo cristiano, sulla questione di sapere se questo evangelo debba essere reputato apocrifo, e se san Bartolomeo sia o meno lo stesso che Nataniele". Questo libro, considerato come unico esemplare, era collocato sopra un leggio nel bel mezzo della biblioteca. La gente, il secolo scorso, l'anda va a vedere per curiosità.

(7) La soffitta.

La soffitta, poi, la quale, come la biblioteca, aveva la forma oblunga del ponte, non era altro che il sottotetto. Un localone ingombro di paglia e di fieno, rischiarato da sei abbaini. Nessun ornamento, all'infuori di una immagine di san Barnaba, scolpita sopra la porta, con sotto questo verso:

"Barnabas sanctus, falcem jubet ire per herbam" (1).

Una torre, dunque, alta e larga, a sei piani, forata qua e là da poche feritoie, e avente, per unica entrata ed uscita, una porta di ferro, che dava su un ponte a castelletto, limitato da un ponte levatoio.

Dietro la torre, la foresta; davanti alla torre, un pianoro di eriche, più alto del ponte, più basso della torre. Sotto il ponte, tra la torre e il pianoro, un profondo burrone, stretto, pieno di sterpi, torrente d'inverno, ruscello di primavera, sassoso fossato d'estate:

ecco che cosa era la torre dei Gauvain, detta la Tourgue.

NOTA 1: "San Barnaba ordina alla falce di fendere l'erba".

10.

GLI OSTAGGI.

Trascorse luglio, venne agosto. Un soffio eroico e feroce passava sulla Francia. Due spettri avevano allora allora solcato l'orizzonte:

Marat con un coltello nel fianco, Carlotta Corday decapitata. Tutto diventa formidabile. Quanto alla Vandea, battuta nella grande strategia, si rifugiava nella piccola, più temibile, come già abbiamo detto. Quella guerra era ormai una immensa battaglia sbrindellata nei boschi. Cominciavano i rovesci del grosso esercito detto cattolico e regio; un decreto trasferiva in Vandea l'esercito di Magonza; ad Ancenis erano morti ottomila vandeani; gli altri erano respinti da Nantes, snidati da Montaigu, espulsi da Thouars, scacciati da Noirmoutier, buttati fuori da Chollet, da Mortagne e da Saumur; evacuavano Parthenay, abbandonavano Clisson; cedevano terreno a Chatillon; perdevano una bandiera a Saint-Hilaire; venivano battuti a Pornic, alle Sables, a fontenay, a Doué, al Château-d'Eau, ai Ponti di Cé; erano tenuti in iscacco a Luçon, erano in ritirata alla Chataigneraye, in rotta alla Roche-sur-Yon; ma, da una parte, minacciavano la Rochelle, e dall'altra, nelle acque di Guernesey, una flotta inglese, agli ordini del generale Craig, che recava, mescolati ai migliori ufficiali della marina francese parecchi reggimenti inglesi, non aspettava che un segnale del marchese di Lantenac per sbarcare. Tale sbarco poteva ridare la vittoria alla rivolta realista.

Del resto, Pitt era un malfattore di Stato; il tradimento entra a far parte della politica come il pugnale entra a far parte di una panoplia. Pitt pugnalava la Francia e tradiva il proprio paese: chi disonora il proprio paese, infatti, lo tradisce. L'Inghilterra faceva, sotto di lui e per lui, la guerra punica. Spiava, frodava, mentiva.

Contrabbandiera e falsaria, nulla le ripugnava: si abbassava fino alle minuzie dell'odio. Faceva accaparrare il sego, che costava cinque franchi alla libbra; a Lilla, veniva sequestrata, addosso a un inglese, una lettera di Prigent, agente di Pitt in Vandea, nella quale si leggevano queste righe: "Vi prego di non risparmiare il denaro.

Speriamo che gli assassinii saranno perpetrati con prudenza. Preti travestiti e donne sono le persone più idonee a questa operazione.

Mandate sessantamila lire a Rouen e cinquantamila lire a Caen". Questa lettera fu letta da Barère alla Convenzione il primo agosto. A quelle perfidie rispondevano le crudeltà di Parrein e poi le atrocità di Carrier. I repubblicani di Metz e quelli del Mezzogiorno chiedevano di poter marciare contro i ribelli. Un decreto ordinava la costituzione di ventiquattro compagnie di pionieri per incendiare le siepi e i recinti della "boscaglia". Crisi inaudita. La guerra non cessava su un punto che per ricominciare sull'altro. Niente grazia! niente prigionieri! era il grido di entrambe le parti. La storia era piena di un'ombra terribile.

In quel mese d'agosto la Tourgue era assediata.

Una sera, mentre spuntavano le stelle, nella calma di un crepuscolo canicolare, che non una foglia si agitava nella foresta, non un filo d'erba fremeva nella spianata, si fece udire, in mezzo al silenzio della notte calante, un suono di cornetta. Quel suono di cornetta veniva dall'alto della torre. A quel suono di cornetta, rispose un suono di tromba che veniva dal basso.

In cima alla torre c'era un uomo armato; in basso, nell'ombra, c'era un accampamento.

Nell'oscurità si distingueva confusamente attorno alla torre dei Gauvain un formicolio di forme nere. Quel formicolio era un bivacco.

Qualche fuoco cominciava ad accendersi qua e là sotto gli alberi della foresta e fra le eriche del pianoro, e forava qua e là le tenebre di puntiluminosi,comesela terra volesse costellarsi contemporaneamente al cielo. Ma quanto sono cupe le stelle della guerra! Dalla parte del pianoro, il bivacco si estendeva fino alla pianura, e dalla parte della foresta si sprofondava nei macchioni. La Tourgue era bloccata.

L'estensione del bivacco degli assedianti dava a vedere un numeroso contingente di truppe.

L'accampamento stringeva la fortezza da presso, e giungeva, dalla parte della torre, fino al masso roccioso, dalla parte del ponte, fino al burrone.

Si udì un secondo squillo di cornetta; gli rispose un secondo squillo di tromba.

La cornetta interrogava; la tromba rispondeva.

Quella cornetta, era la torre che domandava all'accampamento: "Vi si può parlare?", e quella tromba era il campo che rispondeva: "Sì".

A quel tempo, i vandeani non essendo considerati dalla Convenzione come belligeranti, ed essendo, per decreto, vietato di scambiare parlamentari coi "briganti", si suppliva come si poteva alle comunicazioni che il diritto delle genti autorizza nella guerra ordinaria e interdice nella guerra civile. Da ciò, in quel caso, una certa quale intesa fra la cornetta contadina e la tromba militare. Il primo richiamo non era che un esordio, il secondo faceva la domanda:

"Volete ascoltarci?". Se a quel secondo richiamo la tromba se ne stava zitta, rifiuto; se la tromba rispondeva, consenso. Ciò significava:

"Tregua di qualche istante".

Poiché la tromba aveva risposto al secondo appello, l'uomo che era sulla cima della torre parlò, e si udì dir questo:

- Uomini che mi ascoltate, io sono Gouge-le-Bruant, soprannominato Trita-azzurri perché ho sterminato molti dei vostri, e soprannominato pure l'"Imânus" perché ne ucciderò ancora più di quanti non ne abbia già uccisi; io ho avuto il dito mozzato da una sciabolata sulla canna del mio fucile all'attacco di Granville, e voi avete fatto ghigliottinare, a Laval, mio padre e mia madre, e mia sorella Giacomina, di diciott'anni. Ecco chi sono.

"Vi parlo in nome di monsignore il marchese Gauvain di Lantenac, visconte di fontenay, principe bretone, signore delle Sette Foreste, mio padrone.

"Sappiate innanzi tutto che monsignore il marchese, prima di chiudersi in questa torre, dove lo tenete bloccato, ha distribuito la guerra tra sei capi suoi luogotenenti; ha dato a Delière il paese che si stende dalla strada di Brest alla strada d'Ernée; a Tréton, il paese tra la Roe e Laval; a Jacquet, detto Tagliaferro, il confine dell'Alto Maine; a Gaulier, detto Pierone, Château-Gontier; a Lecomte, Craon; Fougères al signor Dubois-Guy; e tutta la Mayenne al signor Rochambeau; di modo che nulla è finito per voi con la presa di questa fortezza, e che, quand'anche monsignore il marchese morisse, la Vandea di Dio e del re non morrà.

"Sappiate che dico questo per avvertirvi. Monsignore è qui, al mio fianco. Io sono la bocca per dove passano le sue parole. Fate silenzio, uomini che ci assediate. Ecco quanto importa che udiate:

"Non dimenticate che la guerra che ci fate non è affatto giusta. Siamo gente che abitiamo i nostri paesi, noi, e combattiamo onestamente e siamo semplici e puri sotto la volontà di Dio come l'erba sotto la rugiada. E' stata la repubblica ad attaccarci; è venuta a turbarci nelle nostre campagne, ha bruciato le nostre case e i nostri raccolti e mitragliato le nostre fattorie; le nostre donne e i nostri figlioli sono stati costretti a fuggire scalzi nei boschi mentre ancora cantava la capinera d'inverno.

"Voi che siete qui e mi udite, ci avete dato la caccia nella foresta, e ci stringete d'assedio in questa torre. Avete ucciso a disperso quelli che si erano uniti a noi; disponete di artiglieria; avete aggiunto alla vostra colonna le guarnigioni e i posti di Mortain, di Barenton, di Teilleul, di Laudivy, d'Evran, di Tinténiac e di Vitré, cosicché siete in quattromilacinquecento soldati ad attaccarci, mentre noi noi non siamo che in diciannove uomini a difenderci.

"I viveri e le munizioni non ci mancano.

"Siete riusciti a praticare una mina e a far saltare un pezzo della nostra roccia e una parte del nostro muro.

"Con questo, avete aperto un foro ai piedi della torre, e questo foro è una breccia per la quale potete entrare, benché non sia a cielo scoperto e sebbene la torre, sempre forte e in piedi, faccia volta su di essa.

"Adesso, state preparando l'assalto.

"E noi, innanzi a tutti monsignore il marchese, che è principe di Bretagna e priore secolare dell'abazia di Santa Maria di Lantenac, dove è stata fondata una messa quotidiana dalla regina Giovanna, e poi gli altri difensori della torre, fra i quali si contano il signor abate Turmeau, che in guerra si chiama Gran Cuorsaldo, il mio camerata Guinoiseau, che è capitano del Campo Verde, il mio camerata Canta- d'inverno, che è capitano del campo dell'Avoine, il mio camerata Cornamusa, che è capitano del campo delle Formiche, e io, contadino, che sono nato nel borgo di Daon, dove scorre il ruscello Moriandre, abbiamo tutti una cosa da dirvi.

"Uomini che siete ai piedi di questa torre, ascoltateci.

"Abbiamo in mano nostra tre prigionieri, che sono tre bimbi. Questi bimbi sono stati adottati da uno dei vostri battaglioni, e sono vostri. Ci offriamo di restituirvi quei tre bimbi.

"A una condizione.

"Che ci lascerete liberamente uscire di qui dentro.

"Se rifiutate, ascoltate bene; voi non potete attaccare che in due modi: o dalla breccia, dalla parte della foresta; o dal ponte, dalla parte del pianoro. Il fabbricato sul ponte ha tre piani; nel piano di sotto, io, l'"Imânus", io che vi parlo, ho fatto collocare sei barili di catrame e cento fascine di rovi secchi; nel piano superiore c'è della paglia; nel piano di mezzo ci sono libri e carte; la porta di ferro che mette in comunicazione il ponte con la torre è chiusa, e la chiave la tiene indosso lo stesso monsignore; quanto a me, ho fatto sotto quella porta un buco, e per quel buco passa una miccia solforata, una estremità della quale è dentro uno dei barili di catrame, e l'altra a mia portata di mano, nell'interno della torre: le darò fuoco quando mi parrà. Se rifiutate di lasciarci uscire, i tre bimbi saranno collocati nel secondo piano del ponte, tra il piano al quale fa capo la miccia solforata, dove si trova il catrame, e il piano dove si trova la paglia; e la porta di ferro sarà richiusa su di essi. Se attaccate dal ponte, sarete voi stessi ad appiccare il fuoco al fabbricato; se attaccate dalla breccia, saremo noi a farlo. Se attaccate contemporaneamente dalla breccia e dal ponte, il fuoco vi sarà appiccato da voi e da noi a un tempo: in ogni caso, quei tre bimbi periranno.

"Accettate o rifiutate, adesso.

"Se accettate, usciamo.

"Se rifiutate, i bimbi muoiono.

"Ho detto".

L'uomo che parlava dall'alto della torre tacque.

Una voce dal basso gridò:

- Rifiutiamo.

Questa voce era breve e severa. Un'altra voce, meno dura, ma nondimeno ferma, soggiunse:

- Vi diamo ventiquattro ore per arrendervi a discrezione.

Ci fu un silenzio; poi la stessa voce continuò:

- Domani a quest'ora, se non vi sarete arresi, vi assaliremo.

E la prima voce riprese:

- Niente quartiere, allora.

A quella voce selvaggia, rispose dall'alto della torre un'altra voce.

Si vide sporgersi tra due merli un'alta sagoma di uomo, nella quale, al lucore delle stelle, fu possibile riconoscere la temibile figura del marchese di Lantenac. Poi quella figura, di cui uno sguardo cadeva nell'ombra, e che pareva cercare qualcuno, gridò:

- Toh! sei tu, prete!

- Sì, sono io, traditore! - rispose la rude voce di sotto.

11.

SPAVENTOSO COME L'ANTICO.

La voce implacabile era infatti quella di Cimourdain; la voce più giovane e meno decisa era quella di Gauvain.

Il marchese di Lantenac non si era sbagliato, riconoscendo l'abate Cimourdain.

In poche settimane, Cimourdain, come già sappiamo, si era reso famoso in quel paese insanguinato dalla guerra civile. Nessuna notorietà più lugubre della sua; si diceva: Marat a Parigi, Chalier a Lione, Cimourdain in Vandea. Si oltraggiava l'abate Cimourdain come un tempo tutti lo circondavano di rispetto: tale è l'effetto della sottana da prete rivoltata. Cimourdain faceva orrore. I severi sono degli sventurati. Chi vede i loro atti li condanna, chi scorgesse la loro coscienza li assolverebbe. Un Licurgo non chiarito a dovere sembra un Tiberio. Comunque fosse, due uomini si pareggiavano sulla bilancia dell'odio: il marchese di Lantenac e l'abate Cimourdain. La maledizione dei realisti su Cimourdain faceva da contrappeso all'esecrazione dei repubblicani per Lantenac. Per il campo avverso, ciascuno di quei due uomini era un mostro; e ciò, al punto che si produsse questo fatto singolare: mentre Prieur della Marna, a Granville, metteva a prezzo la testa di Lantenac, Charette, a Noirmoutier, metteva a prezzo quella di Cimourdain.

Diciamolo pure: quei due uomini, il marchese e il prete, erano fino a un certo punto uno stesso uomo. La maschera di bronzo della guerra civile ha due profili, uno rivolto al passato, l'altro rivolto all'avvenire; ma tragiche tanto l'una quanto l'altra. Lantenac era il primo di quei profili; Cimourdain era il secondo. Solo, l'amaro sogghigno di Lantenac era coperto d'ombra e di tenebre, mentre sulla fronte fatale del Cimourdain c'era un bagliore d'aurora.

La Tourgue, assediata, godeva intanto d'una tregua.

Abbiamo visto or ora che, grazie all'intervento di Gauvain, era stata convenuta una specie di tregua di ventiquattro ore.

L'"Imânus", del resto, era bene informato: grazie alle requisizioni operate da Cimourdain, Gauvain aveva adesso ai suoi ordini quattromilacinquecento uomini, tra guardie nazionali e soldati di linea, e con essi chiudeva Lantenac nella Tourgue. Aveva potuto piazzare contro la fortezza dodici pezzi di artiglieria, sei in batteria trincerata, dalla parte della torre, sul margine della foresta, e sei in batteria sopraelevata, dalla parte del ponte, sul pianoro. Aveva potuto far brillare la mina, e ai piedi della torre la breccia era aperta.

Trascorse che fossero, pertanto, le ventiquattro ore di tregua, la lottasarebbestataripresanelle seguenti condizioni:

quattromilacinquecento uomini sparsi sul pianoro e nella foresta; diciannove nella torre.

I nomi di questi diciannove assediati possono essere ritrovati dalla storia nei manifesti che li mettevano fuori legge. Forse li incontreremo noi pure.

Per comandare a quei quattromilacinquecento uomini, che erano quasi un esercito, Cimourdain avrebbe voluto che Gauvain si lasciasse nominare luogotenente generale. Gauvain vi si era rifiutato, e aveva detto:

"Preso che sia Lantenac, vedremo. Non ho meri tato ancora nulla, io".

Tali grandi comandi con umili gradi entravano d'altra parte nelle abitudini repubblicane. Anni dopo, Bonaparte fu, al tempo stesso, maggiore di artiglieria e generale in capo dell'esercito d'Italia.

Strano destino, quello della torre dei Gauvain: un Gauvain l'attaccava, un Gauvain la difendeva. Da ciò, un certo qual ritegno nell'attacco, ma non nella difesa, giacché il signor di Lantenac era di quelli che non risparmiano nulla. Egli aveva, d'altronde, quasi sempre abitato Versailles e non aveva superstizione di sorta per la Tourgue, che conosceva appena. Vi si era andato a rifugiare perché non disponeva di alcun altro asilo, ecco tutto; ma l'avrebbe demolita senza scrupolo di sorta. Gauvain era più rispettoso.

Il punto debole della fortezza era il ponte; ma nella biblioteca, che era sul ponte, c'erano gli archivi di famiglia. Se l'assalto veniva dato da quella parte, l'incendio del ponte era inevitabile: e a Gauvain pareva che bruciare gli archivi fosse come attaccare i suoi antenati. La Tourgue era il maniero di famiglia dei Gauvain. Da quella torre dipendevano tutti i loro feudi di Bretagna, così come tutti i feudi di Francia dipendevano dalla torre del Louvre. Qui erano i ricordi domestici di Gauvain; era nato, anzi, lui, in quella torre; le tortuose fatalità della vita lo spingevano ora ad attaccare, da uomo, quella venerabile muraglia che l'aveva protetto da bimbo. Sarebbe stato empio contro quella dimora fino al punto di metterla in cenere?

Forse la sua propria culla, di lui, Gauvain, si trovava in qualche cantuccio della soffitta della biblioteca. Ci sono riflessioni che sono emozioni. Gauvain, in presenza dell'antica dimora di famiglia, si sentiva commosso. Per questo aveva risparmiato il ponte. Si era limitato a rendere impossibile, da quella parte, ogni sortita, ogni evasione, e a tenere il ponte in rispetto con una batteria, scegliendo, per l'attacco, il lato opposto. Da ciò la mina e lo scavo ai piedi della torre.

Cimourdain l'aveva lasciato fare, ma se ne rimproverava, giacché la sua rudezza aggrottava le sopracciglia davanti a quelle gotiche anticaglie, né egli intendeva essere indulgente verso gli edifici più di quanto lo fosse verso gli uomini. Risparmiare un castello era un principio di clemenza. Ora, la clemenza era il lato debole di Gauvain.

Cimourdain, lo sappiamo, lo sorvegliava e lo fermava su quel pendio, che era, ai suoi occhi, funesto. Eppure, anche lui, né poteva riconoscerlo se non con una specie di collera, anche lui non aveva riveduto la Tourgue senza un intimo sussulto; si sentiva intenerito davanti a quella sala così idonea allo studio, dov'erano i primi libri che aveva fatto leggere a Gauvain; era stato curato del paesetto vicino, Parigné; aveva abitato, proprio lui, Cimourdain, le soffitte del castelletto del ponte; proprio in quella biblioteca usava tenersi fra le ginocchia il piccolo Gauvain che compitava l'alfabeto; proprio tra quelle vecchie mura aveva visto il diletto suo allievo, il figlio della sua anima crescere, sia come uomo che come spirito. E stava per folgorarli, per arderli, adesso, quella biblioteca, quel castelletto, quei muri pieni delle sue benedizioni per il fanciullo? Faceva loro grazia, ma non senza rimorsi.

Aveva consentito che Gauvain cominciasse a rompere l'assedio dalla parte opposta. La Tourgue aveva il suo lato selvaggio, la torre, e il suo lato civile, la biblioteca. Cimourdain aveva permesso a Gauvain di non battere in breccia che il lato selvaggio.

D'altra parte, assalita da un Gauvain, difesa da un Gauvain, quella vecchia dimora ritornava, in piena rivoluzione francese, alle sue abitudini feudali. Tutta la storia del medio evo è intessuta di guerre fra parenti. Gli Eteocle e i Polinice sono gotici quanto greci, e Amleto fa in Elsinore quello che Oreste ha fatto in Argo.

12.

SI DELINEA IL SALVATAGGIO.

L'intera notte trascorse, sia da una parte che dall'altra, in preparativi.

Non appena finito il cupo colloquio che abbiamo udito poco fa, la prima cura di Gauvain fu quella di chiamare il suo luogotenente.

Questo Guéchamp, bisogna che ne facciamo un po' la conoscenza. Era un uomo di secondo piano, onesto, intrepido, mediocre, migliore come soldato che come comandante, rigorosamente intelligente fino al punto in cui diventa un dovere non capire più, non mai intenerito, inaccessibile alla corruzione, quale che fosse, sia la venalità che corrompe la coscienza, sia la compassione che corrompe la giustizia.

Aveva sull'anima e sul cuore quei due paralumi che sono la disciplina e la consegna come i cavalli hanno i paraocchi, e procedeva innanzi a sé nello spazio che gli lasciavano libero. Il suo passo era diritto, ma la sua strada angusta.

Uomo fidato, d'altra parte;rigido nel comando,esatto nell'obbedienza.

Gauvain rivolse vivamente la parola a Guéchamp:

- Una scala, Guéchamp.

- Non ne abbiamo, comandante.

- Bisogna procurarsene una.

- Per dare la scalata?

- No. Per tentare un salvataggio.

Guéchamp rifletté un momento, poi rispose:

- Capisco. Ma occorrerà molto alta per quello che volete fare.

- Almeno tre piani.

- Sì, comandante. L'altezza è questa, su per giù.

- Si deve anzi superarla, questa altezza, perché bisogna essere sicuri di riuscire.

- Indubbiamente.

- Come mai non avete una scala?

- E' che voi, comandante, non avete ritenuto opportuno assediare la Tourgue dalla parte del pianoro; da quel lato, vi siete accontentato di bloccarla, poi avete disposto per l'assalto non dal ponte, ma dalla torre. Non ci si è curati più che della mina e si è rinunciato alla scalata. Per questo non abbiamo scale.

- Fatene fare una immediatamente.

- Non si può improvvisarla, una scala alta tre piani.

- Fate legare una sull'altra, per le estremità, più scale corte.

- Bisognerebbe averne.

- Trovatene.

- Non se ne troveranno. I contadini distruggono le scale dovunque, così come smontano i carri e tagliano i ponti.

- E' vero, vogliono paralizzare la repubblica.

- Vogliono che noi non possiamo né trainare un carro, né varcare un fiume, né scalare un muro.

- Eppure mi occorre una scala.

- Ci penso, comandante. A Javené, presso Fougères, c'è una grande carpenteria. Se ne può avere una là.

- Non c'è un minuto da perdere.

- Quando la volete avere, la scala?

- Domani a quest'ora al più tardi.

--Manderò a Javené una staffetta, che porterà l'ordine di requisizione. Là, c'è un posto di cavalleria. Fornirà la scorta. La scala potrà essere qui domani prima del tramonto del sole.

- Sta bene. Ciò basterà, - disse Gauvain. - Fate in fretta. Andate.

Dieci minuti dopo, Guéchamp ritornò e disse a Gauvain:

- La staffetta è partita per Javené.

Gauvain salì sul pianoro e rimase a lungo sul ponte-castelletto, posto attraverso il burrone. Il frontale del castelletto, senza altra apertura che la bassa porta d'entrata chiusa dal ponte levatoio alzato, fronteggiava lo scoscendimento del burrone. Per arrivare dal pianoro ai piedi delle pile del ponte, bisognava discendere lungo quella scoscesa, il che non era impossibile, da cespuglio a cespuglio.

Una volta nel fossato, però, l'assalitore sarebbe stato esposto a tutti i proiettili che potevano piovere dai tre piani. Gauvain si convinse del tutto che, al punto in cui si trovava l'assedio, il vero assalto doveva essere sferrato dalla parte della torre.

Prese tutte le sue misure perché nessuna fuga fosse possibile:

perfezionò il rigido blocco della Tourgue; strinse le maglie dei suoi battaglioni in modo che nessuno potesse passarvi attraverso.

Gauvain e Cimourdain, quindi, si suddivisero l'investimento della fortezza. Gauvain si riservò il lato della foresta e diede a Cimourdain quello del pianoro. Fu convenuto che, mentre Gauvain, secondato da Guéchamp, avrebbe condotto l'assalto dalla trincea, Cimourdain, con tutte le micce della batteria sopraelevata accese, avrebbe tenuto d'occhio il ponte e il burrone.

13.

CHE COSA FA IL MARCHESE.

Mentre all'esterno veniva presa ogni misura per l'assalto, nell'interno veniva presa ogni misura per la resistenza.

Non per nulla una torre viene detta una botte; c'è tra loro una vera analogia: si dà il caso che si batta una torre con una mina come si batte la botte con un pinzone. La muraglia si fora come si fora una doga. Così appunto era accaduto alla Tourgue.

Il possente colpo di pinzone inferto da due o tre quintali di polvere aveva trapassato da una parte all'altra il muro enorme. Quel buco partiva dai piedi della torre, attraversava la muraglia nel suo massimo spessore e andava a far capo, a mo' di una informe arcata, nel pianterreno della fortezza. Dall'esterno, allo scopo di rendere quel foro praticabile per l'assalto, gli assedianti lo avevano allargato e squadrato a cannonate.

Il pianterreno, al quale dava adito quella breccia, era un gran locale circolare, completamente nudo, con pilastro centrale, reggente la chiave di volta. Quel locale, che era il più vasto di tutto il torrione, non misurava meno di quaranta piedi di diametro. Ogni piano della torre era costituito di una camera simile, ma meno ampia, con loggette nei vani delle feritoie. La sala a terreno non aveva feritoie, non aveva spiragli né finestrine: disponeva di quel tanto d'aria e di luce di cui può disporre una tomba.

La porta delle segrete, di ferro assai più che di legno, si apriva appunto in quella sala a terreno. Un'altra porta di questa sala dava sopra una scala che conduceva alle camere superiori. Tutte le camere erano praticate nello spessore del muro.

Appunto in quella sala gli assedianti avevano possibilità di arrivare attraverso la breccia che avevano aperta. Una volta presa la sala, rimaneva loro da prendere la torre.

Non si era mai respirato bene in quella sala bassa. Nessuno ci passava ventiquattro ore senza rimanerne asfissiato. Grazie alla breccia, adesso ci si poteva vivere.

Appunto per questo gli assediati non avevano richiuso la breccia.

A che pro, del resto? Il cannone l'avrebbe riaperta.

Infissero nel muro un reggitore di ferro, vi piantarono una torcia, ed ecco rischiarato il pianterreno.

Come difendervisi, adesso?

Murare il foro era facile, ma inutile. Era preferibile una ridotta.

Una ridotta è un trinceramento ad angolo rientrante, una specie di barricata fatta di travi, che permette di far convergere il fuoco sugli assalitori, e che, lasciando esternamente la breccia aperta, la tura all'interno. I materiali non difettavano; costruirono una ridotta, con esili feritoie per le canne dei fucili. L'angolo della ridotta si appoggiava al pilastro centrale; le due ali toccavano il muro a destra e a sinistra. Fatto questo, disposero, nei luoghi più idonei delle fogate.

Chi dirigeva tutto era il marchese: ispiratore, ordinatore, guida e padrone, anima terribile.

Lantenac apparteneva a quella razza d'uomini di guerra, del diciottesimo secolo che, a ottantaquattro anni, salvavano le città.

Somigliava a quel conte d'Alberg che, quasi centenario, scacciò da Riga il re di Polonia.

- Coraggio, amici! - diceva il marchese; - nei primi anni di questo secolo, nel 1713, a Bender, Carlo Dodicesimo, chiuso in una casa, tenne testa, con trecento svedesi, a ventimila turchi.

I due piani inferiori vennero barricati, le camere furono fortificate, le alcove furono messe in stato di difesa, le porte furono puntellate con travi forzatevi contro a colpi di mazzuola, che facevano da contrafforte. La scala a spirale, che metteva in comunicazione i vari piani della torre, fu però dovuta lasciar libera, giacché bisognava pure potervi circolare, e sbarrarla per gli assedianti sarebbe stato lo stesso che sbarrarla per l'assediato. La difesa delle piazzeforti ha sempre un lato debole, come nel nostro caso.

Il marchese, instancabile, robusto come un giovane, dava l'esempio, sollevando travi e portando pietre; dava mano alla bisogna, comandava, aiutava, fraternizzava, rideva con quel feroce gruppo di persone, mantenendosi tuttavia sempre il signore, altero, familiare, elegante, spietato.

Non si doveva ribattergli parola. Egli diceva: "Se una metà di voi si rivoltasse, la farei fucilare dall'altra, e difenderei il posto con il rimanente". Sono cose, queste, che fanno adorare un comandante.

14.

CHE COSA FA L'"IMANUS".

Intanto che il marchese si occupava della breccia e della torre, l'"Imânus" si occupava del ponte. Fin dal principio dell'assedio la scala di salvataggio sospesa trasversalmente all'esterno, sotto le finestre del secondo piano, era stata, per ordine del marchese, ritirata, e collocata dall'"Imânus" nella sala della biblioteca.

Appunto quella scala, forse, Gauvain intendeva sostituire. Le finestre del mezzanino, detto sala delle guardie, erano difese da una triplice armatura di sbarre di ferro infisse nella pietra, e di là non si poteva né entrare né uscire.

Alle finestre della biblioteca non c'erano inferriate ma quelle finestre erano altissime.

L'"Imânus" si fece accompagnare da tre uomini al pari di lui capaci di tutto e a tutto risoluti. Quegli uomini erano Hoisnard, detto Ramo- d'oro, e i due fratelli Picca-di-legno. Hoisnard Ramo-d'oro era implacabile quanto l'"Imânus", avendo avuto un fratello ucciso dai repubblicani. L'"Imânus" prese una lanterna cieca, aprì la porta di ferro e visitò minuziosamente i tre piani del castelletto del ponte.

Esaminò il piano superiore, che traboccava di fieno e di paglia, e il piano inferiore, nel quale fece portare alcuni vasi di ferro pieni di materie infiammabili quali servono appunto durante gli assedi, e li aggiunse ai barili di catrame. Fece collocare il mucchio di fascine di eriche a contatto con i barili di catrame, e si assicurò del buono stato della miccia solforata, una estremità della quale era nel ponte, l'altra nella torre. Sparse sul pavimento, sotto i barili e sotto le fascine una pozza di catrame, nella quale immerse l'estremità della miccia solforata. Poi fece collocare nella sala della biblioteca, tra il pianterreno dov'era il catrame e il granaio dov'era la paglia, le tre culle dove giacevano Gian Renato, Alano e Giorgina immersi in un profondo sonno. Le culle furono trasportate con molta cautela per non svegliare i piccini.

Quelle culle non erano che semplici piccole greppie di campagna, specie di canestri bassissimi di vimini, che vengono posti a terra, cosicché il bambino può uscire dalla culla da solo e senza aiuto.

Vicino a ogni culla l'"Imânus" fece collocare sul pavimento una scodella di minestra con un cucchiaio di legno. La scala spiccata dai suoi ganci era stata deposta sul pavimento, contro il muro; l'"Imânus" fece disporre le tre culle una dopo l'altra lungo l'altra parete di fronte alla scala. Pensando poi che le correnti d'aria potevano tornare utili, spalancò quanto erano grandi le sei finestre della biblioteca. Era una notte d'estate, serena e tiepida.

Mandò i fratelli Picca-di-legno ad aprire le finestre del piano inferiore e quelle del piano superiore. Aveva notato, sulla facciata orientale dell'edificio, una vecchia pianta d'edera rinsecchita, color bruno, che copriva tutto un lato del ponte dall'alto in basso e incorniciava le finestre dei tre piani. Pensò che quell'edera sarebbe potuta tornare utile. Gettò dappertutto un'ultima occhiata; dopo di che i quattro uomini uscirono dal castelletto e rientrarono nella torre. L'"Imânus" richiuse la pesante porta di ferro a doppia mandata, osservò attentamente la serratura enorme e terribile, ed esaminò, con un soddisfatto cenno di testa, la miccia solforata che passava dal buco da lui praticato, che era ormai l'unica comunicazione in atto tra la torre e il ponte. Quella miccia partiva dalla camera rotonda, passava sotto la porta di ferro, entrava sotto il voltone, discendeva la scala del pianterreno del ponte, serpeggiava sui gradini a spirale, correva lungo l'impiantito del corridoio del mezzanino e andava a mettere capo nella pozza di catrame sotto al mucchio di fascine secche. L'"Imânus" aveva calcolato che occorreva circa un'ora perché quella miccia, accesa nell'interno della torre, appiccasse il fuoco alla pozza di catrame sotto la biblioteca. Prese che ebbe tutte queste disposizioni, e fatte che ebbe tutte queste ispezioni, egli riportò la chiave della porta di ferro al marchese di Lantenac, che se la mise in tasca.

Importava in modo particolare tener d'occhio tutti i movimenti degli assedianti. L'"Imânus" si andò ad appostare di vedetta, con la sua cornetta da bovaro alla cintola, nella garitta della piattaforma, in cima alla torre. Mentre osservava, un occhio sulla foresta e un altro sul pianoro, aveva presso di sé, nell'apertura della finestrella della garitta, un corno da polvere, un sacchetto di tela pieno di palle calibrate, e alcuni vecchi giornali che lacerava via via, facendo cartucce.

Quando il sole spuntò, illuminò nella foresta otto battaglioni, sciabola al fianco, giberna sulla schiena, baionetta in canna, pronti all'assalto; sul pianoro una batteria con cassoni, cartocci e scatole di mitraglia; nella fortezza diciannove uomini che caricavano tromboni, moschetti, pistole e moschettoni; e nelle tre culle tre bimbi addormentati.

 

LIBRO TERZO.

LA STRAGE DI SAN BARTOLOMEO.

1.

I bimbi si svegliarono.

La prima fu Giorgina.

Un risveglio di bimbi è come uno sbocciare di fiori; si direbbe che da quelle fresche animucce esca un profumo.

Giorgina, la bimba di venti mesi, la più piccola dei tre, che in maggio poppava ancora, sollevò la testolina, si rizzò a sedere, si guardò i piedini e si mise a ciaramellare.

Un raggio del sole nascente le cadeva sulla culla; sarebbe stato difficile dire chi fosse più roseo, se il piede di Giorgina o quello dell'aurora.

Gli altri due dormivano ancora. Hanno il sonno più pesante, gli uomini. Giorgina, allegra e calma, ciaramellava.

Gian Renato era bruno, Alano era castano, Giorgina era bionda. Tali sfumature del colore dei capelli, che nell'infanzia armonizzano con l'età, con gli anni possono cambiare. Gian Renato aveva tutto l'aspetto d'un piccolo Ercole; dormiva sul ventre, con i due pugni negli occhi. Alano aveva ambo le gambe fuori del lettuccio.

Tutti e tre avevano indosso veri cenci. I panni che aveva regalato loro il battaglione del Berretto Rosso se ne erano andati a brindelli; quel che ne restava loro addosso non era nemmeno una camicia. I due maschietti erano quasi nudi, Giorgina era infagottata in uno straccio che era stato una gonna e che non era più altro che un giubbettino.

Chi aveva cura di quei bimbi? Nessuno potrebbe dirlo. Non avevano madre, e quei selvaggi combattenti, che li trascinavano di foresta in foresta, davano loro la loro razione di zuppa. Ed era tutto. I piccini se la cavavano come potevano. Avevano tutti per padrone e nessuno per padre. Ma i cenci dei bimbi sono un non so che di luminoso. I tre bimbi erano incantevoli.

La Giorgina ciaramellava.

Quel che l'uccello canta, un bimbo lo ciaramella. E' un medesimo inno.

Inno indistinto, farfugliato, profondo. Il bimbo ha in più dell'uccello il cupo destino umano davanti a sé. Da ciò la tristezza degli uomini che ascoltano, commista alla gioia del piccino che canta.

Il più sublime cantico che si possa udire sulla terra è il balbettio dell'anima umana sulle labbra dell'infanzia. Quel confuso bisbiglio di un pensiero che ancora non è che un istinto, contiene non si sa quale incosciente appello alla giustizia eterna; forse è una protesta fatta sulla soglia prima di inoltrare; umile e pungente protesta. Quella ignoranza sorridente all'infinito compromette tutta la creazione nel destino che sarà riservato all'essere debole e disarmato. La sventura, se sopravverrà, sarà un abuso di fiducia.

Il parlottìo del bimbo è più e meno della parola. Non son note ed è un canto; non sono sillabe ed è un linguaggio; quel parlottìo ha avuto il suo inizio in cielo e non avrà la sua fine sulla terra; è da prima della nascita, e continua; è un proseguimento. Quel balbettio si compone di quel che il bimbo diceva quando era angelo e di ciò che dirà quando sarà uomo; la culla ha un Ieri, così come la tomba ha un Domani; questo domani e quell'ieri amalgamano in quello scuro cinguettio il loro duplice ignoto. E nulla prova Dio, l'eternità, la responsabilità, il dualismo del destino come questa ombra formidabile in quella rosea anima.

Quel che Giorgina balbettava non l'attristava per nulla giacché tutto il suo dolce visino era un sorriso. La bocca le sorrideva, gli occhi le sorridevano, le fossette delle guance le sorridevano. E da tutto quel sorriso si sprigionava una misteriosa accettazione del mattino.

L'anima ha fede nel raggio. Il cielo era azzurro, faceva caldo, era bello. La fragile creaturina, senza nulla sapere, senza nulla conoscere, senza nulla comprendere, mollemente sprofondata nel fantasticare che non pensa, si sentiva al sicuro in quella natura, in mezzo a quegli onesti alberi, in mezzo a quella sincera verzura, in mezzo a quella campagna pura e tranquilla, fra quei sussurrii di nidi, di sorgenti, di mosche, di foglie, sopra ai quali risplendeva l'immensa innocenza del sole.

Dopo Giorgina, Gian Renato, il maggiore, il grande, che aveva quattro anni passati, si risvegliò. Si alzò in piedi, scavalcò virilmente la sua culla, scorse la propria scodella, e, parendogli che in tutto ciò non ci fosse proprio nulla di straordinario, si sedette per terra e cominciò a mangiare la zuppa.

Il ciaramellìo di Giorgina non aveva risvegliato Alano; ma al battere del cucchiaio contro la scodella egli si voltò di soprassalto, e spalancò gli occhi. Alano era quello di tre anni. Vide la sua scodella. Non aveva che da stendere il braccio. La prese, e, senza uscire dal letto, scodella sulle ginocchia, cucchiaio in pugno, fece come Gian Renato: si mise a mangiare.

Giorgina non li udiva e le modulazioni della sua voce pareva accompagnassero le oscillazioni di un sogno. I suoi occhi spalancati guardavano in alto, ed erano divini. Quale che sia il soffitto o la volta che un bambino ha sopra la testa, quel che si riflette nei suoi occhi è sempre il cielo.

Quando Gian Renato ebbe finito, raspò col cucchiaio il fondo della scodella, sospirò, e disse con dignità:

- Ho mangiato la mia zuppa.

Quelle parole distolsero Giorgina dal suo fantasticare.

- "Uppa! ... uppa!" - disse.

E vedendo che Gian Renato aveva mangiato e che Alano mangiava, prese la scodella di zuppa che le era accanto, e mangiò, non senza portarsi il cucchiaio molto più spesso alle orecchie che alla bocca.

Di tanto in tanto, rinunciava alla civiltà e mangiava con le dita.

Alano, dopo avere, come il fratello, raspato il fondo della scodella, era andato a raggiungerlo e lo rincorreva.

2.

A un tratto si udì dal di fuori, in basso, dal lato della foresta, un suono di tromba, specie di fanfara sdegnosa e severa. A quello squillo di tromba rispose dall'alto della torre un suono di cornetta.

Questa volta, era la tromba che chiamava e la cornetta che dava la risposta.

Ci fu un secondo squillo di tromba, seguito da un secondo squillo di cornetta.

Poi, dal margine della foresta, si alzò una voce lontana, ma precisa, che gridò distintamente così:

- Briganti! arrendetevi! Se al tramonto del sole non vi sarete arresi a discrezione, vi attaccheremo.

Una voce, simile a un tuono, rispose dalla piattaforma della torre:

- Attaccate!

La voce di sotto riprese:

- Mezz'ora prima dell'assalto, sarà tirato un colpo di cannone, a titolo di ultimo avvertimento.

E la voce d'in alto ripeté:

- Attaccate.

Quelle voci non giungevano fino ai bambini, ma la tromba e la cornetta si facevano udire più alto e più lontano. Giorgina, al primo squillo di tromba, drizzò il capo e cessò di mangiare; allo squillo di cornetta, ripose il cucchiaio nella scodella; al secondo squillo di tromba alzò il minuscolo indice della destra e, abbassandolo e rialzandolo via via, marcò il tempo della fanfara, che fu prolungata dal secondo squillo di cornetta. Quando cornetta e tromba si tacquero, ella rimase pensosa, col dito all'aria, e mormorò a mezza voce: - "Muchica".

Riteniamo che volesse dire "musica".

I due maggiori, Gian Renato e Alano, non avevano fatto attenzione né alla cornetta né alla tromba. Erano tutti presi da altro. Un millepiedi stava attraversando la biblioteca.

Alano lo scorse e gridò:

- Una bestia!

Gian Renato accorse.

Alano riprese:

- Punge.

- Non fargli male, - disse Gian Renato.

Ed entrambi si misero a guardare quel passante.

Intanto Giorgina si era pappata tutta la zuppa. Cercò con gli occhi i fratelli. Gian Renato e Alano erano nello sgancio d'una finestra, rannicchiati e seri sopra il millepiedi: le loro fronti si toccavano, mescolando i capelli; trattenevano il fiato, meravigliati, e osservavano la bestia, che si era fermata e non si muoveva più, pochissimo contenta di tanta ammirazione.

Vedendo i suoi fratelli in contemplazione, Giorgina volle sapere di che si trattasse. Non era facile giungere fino a quei due, ma vi si accinse ugualmente. Il tragitto era irto di difficoltà. C'erano per terra parecchie cose, sgabelli rovesciati, mucchi di cartacce, casse d'imballaggio schiodate e vuote, forzieri, monticelli d'ogni specie, cui bisognava girare intorno, tutto un arcipelago di scogli: Giorgina vi si arrischiò. Cominciò con l'uscire dalla culla, primo lavoro; poi si impegnò tra i frangenti, serpeggiò negli stretti, spinse uno sgabello, strisciò tra due cassoni, passò sopra a un fascio di carte, arrampicandosi da una parte e ruzzolando dall'altra, mostrando con dolcezza la sua povera piccola nudità, e giunse così a ciò che un marinaio chiamerebbe il mare libero, vale a dire una zona abbastanza ampia d'impiantito non ostruita da nulla, dove non c'erano più pericoli. Allora si slanciò, attraversò quella zona, che era tutta la larghezza della sala, a quattro zampe, con una velocità da gatto, e giunse presso la finestra. Qui c'era, però, un temibile ostacolo: la grande scala appoggiata a terra contro la parete andava a finire proprio all'altezza di quella finestra, e l'estremità di essa superava un poco lo spigolo dello sguancio. Tra Giorgina e i suoi fratelli quell'estremità di scala era come un capo da doppiare. La bimba si fermò e meditò. Terminato l'intimo suo monologo, si decise: impugnò risolutamente con i rosei ditini uno degli scalini, che erano in senso verticale e non orizzontale, la scala essendo coricata su uno dei suoi sostegni; tentò di rizzarsi in piedi, ma ricadde; due volte ritentò invano; alla terza volta vi riuscì. Diritta, allora, in piedi, appoggiandosi via via a ciascun gradino, si mise a camminare lungo la scala. Giuntane all'estremità, e venendole così a mancare il punto d'appoggio, cadde; ma riafferrata con le manine l'estremità del sostegno, che era enorme, si raddrizzò, doppiò il promontorio, guardò Gian Renato e Alano, e rise.

3.

Proprio in quel momento Gian Renato, contento del risultato delle sue osservazioni sul millepiedi, risollevava la testa e sentenziava:

- E' una femmina.

Il riso di Giorgina fece ridere Gian Renato, e il ridere di Gian Renato fece ridere Alano.

Giorgina operò il suo congiungimento coi fratelli, e tutti e tre, seduti per terra, costituirono come un cenacoletto.

Ma il millepiedi era scomparso.

Aveva approfittato del ridere di Giorgina per cacciarsi in un buco dell'impiantito.

Altri avvenimenti seguirono il millepiedi.

Innanzi tutto passarono delle rondini.

Probabilmente avevano i nidi sotto lo sporto del tetto. Vennero a volare vicinissimo alla finestra, un po' inquietate dalla presenza di quei bimbi, descrivendo grandi cerchi nell'aria e mettendo fuori i loro dolci stridi di primavera. Ciò fece alzare gli occhi ai tre bambini, e il millepiedi fu dimenticato.

La Giorgina puntò il ditino sulle rondinelle, e gridò:

- "Lini"!

Gian Renato la rimproverò:

- Non si dice "lini", si dice uccellini.

- "Cillini", - disse Giorgina.

E tutti e tre guardarono le rondini.

Poi entrò un'ape.

Non c'è nulla che assomigli a un'anima come un'ape. Essa va di fiore in fiore come un'anima di stella in stella, e riporta il miele come l'anima riporta la luce.

Quell'ape, entrando, fece un gran rumore; ronzava forte e pareva dicesse: "Sono qua. Sono stata a trovare le rose; adesso vengo a trovare i bambini. Che accade, qui?".

Un'ape è una massaia: brontola cantando.

Fino a che l'ape fu là, i tre piccini non le tolsero mai gli occhi di dosso.

L'ape esplorò tutta la biblioteca, frugò gli angoli, svolazzò proprio come se fosse in casa sua e in un alveare, e vagò, alata e melodiosa, d'armadio in armadio, guardando attraverso i vetri i titoli dei libri, come se fosse stata uno spirito.

- Va a casa sua, - disse Gian Renato.

- E' una bestia, - disse Alano.

- No, - ribatté Gian Renato, - è una mosca.

- Mosca, - disse Giorgina.

A questo punto, Alano, il quale aveva intanto trovato per terra una funicella che aveva un nodo a una estremità, prese tra l'indice e il pollice l'estremità opposta al nodo, fece della funicella una specie di mulinello e la guardò girare con profonda attenzione.

Giorgina, da parte sua, ridiventata quadrupede, e avendo ripreso il suo capriccioso andirivieni sull'impiantito, aveva scoperto una venerabile poltrona dalla stoffa crivellata dai vermi, il cui crine usciva da molti buchi. Vi si era fermata, allargando i buchi e tirandone fuori il crine con raccoglimento.

D'un tratto alzò un dito; il che voleva dire: "Ascoltate!". I due fratelli voltarono la testa.

Si sentiva dal di fuori un lontano rumore indistinto Probabilmente il campo attaccante eseguiva qualche mossa strategica nella foresta.

S'udivano cavalli nitrire, rullare tamburi, cassoni sobbalzare correndo, catene urtarsi tra loro, squilli militari chiamarsi e rispondersi, confusione di rumori selvaggi che, frammischiandosi, davano origine a una specie di armonia; i bimbi ascoltavano deliziati.

- E' il buon Dio, che fa così, - annunciò Gian Renato.

4.

Il rumore cessò.

Gian Renato era rimasto sovrappensiero.

Come si scompongono e si compongono di nuovo, le idee, in quei minuscoli cervelli? Qual è il misterioso rimescolio di quelle memorie ancora così torbide e così brevi? In quella dolce testolina pensierosa si produsse un non so qual miscuglio di buon Dio, di preghiera, di mani giunte, di chissà quale tenero sorriso avuto una volta su di sé, e che non aveva più e Gian Renato bisbigliò a mezza voce: "Mamma".

- Mamma, - disse Alano.

- "Mam", - fece Giorgina.

Poi Gian Renato si mise a saltare.

Vedendolo, Alano saltò anche lui.

Alano riproduceva tutti i movimenti e tutti i gesti di Gian Renato; Giorgina meno. I tre anni scimmiottano i quattro; ma i venti mesi serbano tutta la loro indipendenza.

Giorgina rimase seduta, pronunciando di tanto in tanto una parola. Non ne faceva di frasi, lei. Era una pensatrice. Parlava per apoftegmi.

Era monosillabica.

Di lì a qualche istante, comunque, fu vinta dall'esempio, e finì per cercar di fare come i suoi fratelli. Quelle tre piccole paia di piedini nudi cominciarono a ballare, a correre e a traballare, nella polvere del vecchio impiantito di quercia lucidata, sotto il grave sguardo dei busti di marmo, ai quali Giorgina gettava di tanto in tanto un'occhiata inquieta, mormorando: "I "momini"!".

Nel linguaggio di Giorgina, "momo" era tutto ciò che assomigliava a un uomo, pur non essendone alcuno. Gli esseri non appariscono al bambino che confusi ai fantasmi.

Giorgina, tentennando più che camminando, seguiva i suoi fratelli, ma più volentieri a quattro zampe.

A un tratto, Gian Renato essendosi avvicinato a una finestra, alzò la testa, poi l'abbassò, e andò a rifugiarsi dietro lo spigolo dello sguancio della finestra. Aveva scorto qualcuno che lo guardava. Era un soldato azzurro dell'accampamento del pianoro, che, approfittando della tregua e forse anche un poco infrangendola, si era arrischiato a spingersi fin sul ciglio dello scoscendimento del burrone, di dove si scorgeva l'interno della biblioteca. Vedendo Gian Renato nascondersi, Alano fece altrettanto, e andò ad appiattarsi a fianco di Gian Renato; Giorgina, a sua volta, andò a nascondersi dietro a entrambi. Rimasero là in silenzio, immobili, e Giorgina si pose il dito sulle labbra. Di lì a qualche minuto, Gian Renato si arrischiò a sporgere la testa. Il soldato c'era ancora. Gian Renato ritirò la testa vivamente, e i tre piccini non osarono più respirare. La cosa durò piuttosto a lungo.

Finalmente quella paura tediò Giorgina, ed essa fu tanto audace da guardare a sua volta. Il soldato se ne era andato via. I bambini si rimisero a correre e a giocare.

Benché Alano fosse imitatore e ammiratore di Gian Renato, aveva una specialità tutta sua: quella delle scoperte interessanti. Suo fratello e sua sorella lo videro a un tratto caracollare perdutamente, tirandosi dietro una carrettina a quattro ruote, che aveva scovata chissà dove.

Quella carrozzina da bambola era colà da anni e anni nella polvere, dimenticata, in termini di buon vicinato con i libri dei geni e i busti dei saggi. Era forse uno dei balocchi coi quali si era trastullato da bimbo, Gauvain.

Alano aveva fatto della sua funicella un frustino, che faceva schioccare. Ne andava fierissimo. Così sono gli inventori. Quando non si scopre l'America, si scopre una carrettina; ma è sempre la stessa cosa.

Ma fu giocoforza fare un po' per uno. Gian Renato volle attaccarsi alla carrettina, e Giorgina volle montarci sopra.

Tentò di sedervisi. Gian Renato fu il cavallo, Alano fu il cocchiere.

Il cocchiere, però, non conosceva il suo mestiere; il cavallo glielo insegnò.

Gian Renato gridò ad Alano:

- Dici: "uhi!" - "Uhi!" - ripeté Alano.

La carrettina ribaltò. Giorgina andò ruzzoloni. Strillano, gli angeli.

Giorgina strillò.

Poi ebbe una vaga voglia di piangere.

- Signorina, - le disse Gian Renato; - siete troppo grande, voi.

- "Glande!" - ripeté Giorgina.

E la grandezza la consolò della caduta.

Lo sporto del fregio al di sotto delle finestre era molto largo; la polvere dei campi portata via dal pianoro di eriche, aveva finito per accumularvisi; le piogge, con quella polvere, avevano rifatto della terra, il vento vi aveva portato dei semi, così che un rovo aveva approfittato di quel poco di terra per germogliarvi. Quel rovo era della specie detta "mora della volpe", biennale. Si era in agosto, il rovo era coperto di more e un ramo entrava da una finestra. Quel ramo pendeva fin quasi a terra.

Dopo aver scoperto la cordicella, dopo aver scoperto la carrettina, Alano scoprì quel rovo. Gli si avvicinò.

Colse una mora e la mangiò.

- Ho fame, - disse Gian Renato.

Giorgina, galoppando su mani e ginocchia, non tardò a sopraggiungere.

Fra tutti e tre, saccheggiarono il ramo e fecero fuori tutte le more.

Se ne ubriacarono e impiastricciarono, e, tutti vermigli di quella porpora del rovo, quei tre piccoli serafini finirono per essere tre faunetti: cosa che avrebbe urtato Dante e deliziato Virgilio. Davano in grandi scoppi di risa.

Di tanto in tanto, il rovo pungeva loro le dita. Nulla per nulla.

Giorgina tese a Gian Renato il ditino imperlato da una gocciolina di sangue, e disse, mostrando il rovo:

- Punge.

Alano, punto anche lui, guardò il rovo con diffidenza, e disse:

- E' una bestia.

- No, - interloquì Gian Renato; - è un bastone.

- Un bastone, cattiva cosa, - riprese Alano.

Giorgina ebbe anche questa volta l'uzzolo di piangere; invece si mise a ridere.

5.

Gian Renato intanto, forse geloso delle scoperte del fratello minore, aveva concepito un grande disegno. Da qualche momento, pur cogliendo more e pungendosi le dita, i suoi occhi si voltavano di frequente dalla parte del leggio sostenuto da un piede unico e isolato come un monumento in mezzo alla biblioteca. Appunto su quel leggio faceva bella mostra di sé il celebre volume "San Bartolomeo".

Era davvero un magnifico e memorabile "in-quarto". Quel "San Bartolomeo" era stato pubblicato a Colonia dal famoso editore della "Bibbia" del 1682, Bloeuw, in latino Coesius. Era stato fatto con torchi a scatole e a nervi di bue. Era stampato non su carta d'Olanda, ma su quella bella carta araba, così ammirata da Edrisi, che è fatta di seta e di cotone, e sempre bianca; la rilegatura era di cuoio dorato e i fermagli erano d'argento; le guardie erano di quella pergamena che i commercianti di Parigi giuravano di acquistare alla sala Saint-Mathurin "e non altrove". Quel volume era fitto di incisioni su legno e su rame, nonché di carte geografiche di molti paesi. Era preceduto da una protesta degli stampatori, cartai e librai contro l'editto del 1635, che gravava d'imposta "i cuoi, le bare, il bestiame a pié forcuto, il pesce di mare e la carta"; e sul "verso" del frontespizio si leggeva una dedica indirizzata ai Gryphes, che sono a Lione ciò che gli Elzeviri sono ad Amsterdam. Tutto ciò contribuiva a farne un esemplare illustre, quasi altrettanto raro dell'"Apostolo" di Mosca.

Era un bel libro. Appunto per questo Gian Renato lo guardava; forse troppo. Il volume era spalancato precisamente a una grande stampa rappresentante san Bartolomeo che porta la sua propria pelle sul braccio. Questa stampa, dal basso, si vedeva benissimo. Mangiate che furono tutte le more, Gian Renato la osservò con uno sguardo di terribile amore; e Giorgina, il cui occhio seguiva la direzione degli occhi del fratello, scorse la stampa e disse: "Magine".

Questa parola parve decidere Gian Renato. Allora, con grande stupore di Alano, egli fece una cosa straordinaria.

In un angolo della biblioteca c'era una grossa sedia di quercia; Gian Renato filò su quella sedia, l'afferrò e tutto da solo, la trascinò fino al leggio. Poi, quando la sedia toccò il leggio, vi montò e posò ambo i suoi pugni sul libro.

Raggiunta quella sommità, egli senti il bisogno d'essere magnifico; prese la "magine" per l'angolo superiore e la lacerò con cura; tale lacerazione di san Bartolomeo si operò per traverso, ma non fu colpa di Gian Renato. Egli lasciò nel libro tutto il lato sinistro, con un occhio e un po' dell'aureola del vecchio evangelista apocrifo, e offrì a Giorgina l'altra metà del santo, nonché tutta la sua pelle. Giorgina ricevette il santo, e disse: "Momo".

- E io? - gridò Alano.

Succede della prima pagina lacerata come del primo sangue versato. La carneficina fu decisa.

Gian Renato voltò il foglio; dietro il santo c'era il commentatore, Pantémio. Gian Renato assegnò Pantémio ad Alano.

Giorgina, intanto, aveva fatto il suo grande pezzo in due pezzi più piccoli, poi i due piccoli in quattro, cosicché la storia potrebbe benissimo narrare che san Bartolomeo, dopo essere stato scorticato in Armenia, fu squartato in Bretagna.

6.

Operato lo squartamento, Giorgina tese la mano a Gian Renato e disse:

- Ancora!

Dopo il santo e il commentatore, venivano, ritratti arcigni, i glossatori. Il primo in ordine di tempo era Gavanto; Gian Renato lo lacerò e mise Gavanto in mano a Giorgina.

Uno dopo l'altro, i glossatori di san Bartolomeo passarono tutti per quelle mani.

Regalare è un segno di superiorità. Gian Renato, per sé, non serbò nulla. Alano e Giorgina lo contemplavano; ciò gli bastava. Si accontentò dell'ammirazione del suo pubblico.

Inesauribile e magnifico, Gian Renato offrì ad Alano Fabrizio Pignatelli e a Giorgina il padre Stilting; ad Alano Alfonso Tostat e a Giorgina "Cornelius a Lapide"; Alano ebbe Enrico Hammond, e Giorgina ebbe il padre Roberti, con l'aggiunta d'una veduta della città di Douai dove nacque nel 1619. Alano ricevette la protesta dei cartai e Giorgina ottenne la dedica ai Ghryphes. C'erano pure delle carte geografiche. Gian Renato distribuì anche quelle. Diede l'Etiopia ad Alano e la Licaonia a Giorgina. Fatto questo, gettò il libro a terra.

Fu un momento spaventoso. Alano e Giorgina videro, con un'estasi non priva di spavento, Gian Renato aggrottare le sopracciglia, irrigidire i garretti, contrarre i pugni, e spingere fuori del leggio il massiccio "in-quarto". Tragica, una maestosa rarità bibliografica che perde contegno! Il pesante volume disarcionato, pendé un momento, esitò, oscillò, poi precipitò, e, rotto, spiegazzato, lacerato, sgangherato nella rilegatura, slogato nei fermagli, si appiattì malinconicamente sull'impiantito. Per fortuna, non cadde su di loro.

I bimbi ne furono entusiasmati, ma non schiacciati. Non tutte le avventure dei conquistatori finiscono altrettanto bene.

Al pari di tutte le glorie, anche quella finì in un grande strepito e in una nuvola di polvere.

Abbattuto il libro, Gian Renato smontò dalla sedia.

Ci fu un istante di silenzio e di terrore; la vittoria ha i suoi sgomenti. I tre bimbi si presero per mano e si tennero indietro, considerando il largo volume smantellato.

Dopo un attimo di meditazione, però, Alano, energicamente avvicinandoglisi, gli sferrò un calcio.

Fu finita. L'appetito della distruzione esiste. Gian Renato diede la sua pedata, Giorgina diede la sua pedata: ciò la fece cadere a terra, ma seduta. Ne approfittò per gettarsi sopra san Bartolomeo. Ogni prestigio disparve. Gian Renato si precipitò, Alano si scagliò, ed esultanti, smarriti, trionfanti, spietati, lacerando le stampe, stracciando i fogli, strappando i segnalibro, graffiando la rilegatura, staccando il cuoio dorato, smuovendo i chiodi degli angoli d'argento, rompendo la pergamena, facendo a pezzi il testo augusto, lavorando di piedi, di mani, di denti, rosei, ridenti, feroci, i tre angeli predaci si abbatterono sull'evangelista senza difesa.

Annientarono l'Armenia, la Giudea, il Beneventano, dove sono le reliquie del santo, Nataniele, che è forse lo stesso che Bartolomeo, papa Gelasio, che dichiarò apocrifo il vangelo di san Bartolomeo- Nathaniele, tutte le immagini, tutte le carte; e la inesorabile esecuzione del vecchio libro li occupò talmente, che un sorcio transitò da quelle parti senza che essi vi facessero caso.

Fu uno sterminio.

Fare a pezzi la storia, la leggenda, la scienza, i miracoli veri o falsi, il latino ecclesiastico, le superstizioni, i fanatismi, i misteri, lacerare tutta una religione dall'alto in basso, è un'impresa per tre giganti, ma anche per tre bambini; le ore, in quella bisogna, trascorsero, ma i tre bimbi ne vennero a capo. Del "San Bartolomeo" non rimase più nulla.

Quando tutto fu finito, quando l'ultima pagina fu staccata, quando l'ultima stampa fu a terra, quando del libro non rimasero più che dei tronconi di testo e lembi di immagini dentro uno scheletro di rilegatura, Gian Renato si rizzò in piedi, guardò l'impiantito giuncato da tutti quei fogli sparsi, e batté le mani.

Alano fece altrettanto.

Giorgina, preso da terra uno di quei fogli, si alzò, si appoggiò contro la finestra, che le arrivava al mento, e si mise a fare a pezzetti, fuori della finestra, la grande pagina.

Vedendola, Gian Renato e Alano si affrettarono a fare altrettanto.

Raccolsero e fecero a pezzi, raccolsero ancora e fecero ancora a pezzi, fuori della finestra, come Giorgina. E a pagina a pagina, sbriciolato da quegli accaniti ditini, quasi tutto il vecchio libro fu portato via dal vento. Pensosa, Giorgina guardò quello sciame di foglietti bianchi disperdersi a ogni soffio d'aria e disse:

- Farfalle!

E il massacro si concluse con uno sparpagliamento nell'azzurro.

7.

Tale fu la seconda esecuzione di san Bartolomeo, che già una prima volta era stato martirizzato nell'anno 49 di Gesù Cristo.

Sopravveniva, frattanto, la sera: il calore aumentava; nell'aria si sentiva la siesta. Gli occhi di Giorgina si facevano incerti, Gian Renato si avvicinò alla sua culla, ne tirò fuori il pagliericcio che gli faceva da materasso, lo trascinò fino alla finestra, gli si stese sopra, e disse:

- Corichiamoci.

Alano posò la testa su Gian Renato, Giorgina posò la testa su Alano, e i tre malfattori si addormentarono.

Dalle finestre spalancate entravano tepidi aliti; profumi di fiori selvatici, rapiti ai borri e alle colline, vagolavano commisti agli aliti della sera; lo spazio era calmo e misericordioso; tutto raggiava, tutto si rasserenava, tutto amava ogni cosa. Il sole dava alla creazione quella carezza che è la luce. Si avvertiva con tutti i pori l'armonia che si sprigiona dalla colossale dolcezza delle cose.

C'era, nell'infinito, un non so che di materno. La creazione è un prodigio in pieno sboccio, che completa la sua enormità con la sua bontà; pareva di sentire qualcuno, invisibile, prendere quelle misteriose precauzioni che nel temibile conflitto degli esseri, proteggono i deboli contro i forti. Al tempo stesso, era bello; lo splendore pareggiava la mansuetudine. Il paesaggio, ineffabilmente assopito, aveva quello stupendo riflesso che fanno sulle praterie e sui fiumi gli spostamenti dell'ombra e della luce. I fumacchi salivano verso le nubi come fantasticherie verso visioni, voli d'uccelli turbinavano sopra la Tourgue; le rondini guardavano dalle finestre, e parevano accostarsi per vedere se i bimbi dormissero bene. Essi erano graziosamente ammucchiati l'uno sull'altro, immobili, seminudi, in pose da amorini. Erano adorabili e puri. Fra tutti e tre, non avevano nove anni; facevano sogni di paradiso, che si riflettevano sulle loro bocche in vaghi sorrisi. Dio parlava forse loro all'orecchio. Essi erano coloro che tutte le lingue umane chiamano i deboli e i benedetti; erano i venerabili innocenti. Tutto, intorno, taceva, come se l'alito dei loro dolci petti riguardasse tutto l'universo, e fosse ascoltato dall'intera creazione: le foglie non stormivano, le erbe non vibravano; pareva che il vasto mondo stellato trattenesse il respiro per non turbare quei tre umili angelici dormienti, e nulla era sublime come l'immenso rispetto della natura attorno a quella piccolezza.

Il sole stava per tramontare, e quasi già toccava l'orizzonte. A un tratto, in quella pace profonda, balenò un lampo che uscì dalla foresta. Gli tenne dietro un rombo selvaggio. Avevano sparato un colpo di cannone. Gli echi si impadronirono di quel rombo e ne fecero un fragore. Il rimbombo, propagato di collina in collina, fu mostruoso.

Giorgina ne fu risvegliata.

Sollevò un poco la testa, alzò il ditino, e disse:

- Pum!

Il fragore cessò e tutto rientra nel silenzio. Giorgina tornò a posare la testa su Alano, e si riaddormentò.

 

LIBRO QUARTO.

LA MADRE.

1.

PASSA LA MORTE.

Quella sera, la madre che già abbiamo visto andare quasi a caso, aveva camminato tutta la giornata. Del resto, era la sua storia d'ogni giorno, quella: andare sempre avanti e non fermarsi mai. I brevi sonni di accasciamento nel primo cantuccio che le capitasse non si potevano infatti dire riposo, più che non si potesse chiamare nutrimento ciò che mangiava qua e là, come becchettano gli uccelli. Mangiava e dormiva proprio quel tanto che le bisognava per non cadere morta.

La notte precedente l'aveva trascorsa in una capanna abbandonata. Ne fanno di quegli abituri, le guerre civili. Aveva trovato in un campo deserto quattro muri, una porta aperta, un po' di paglia sotto un rimasuglio di tetto, e si era coricata sulla paglia, sotto quel tetto, avvertendo attraverso la paglia correre i topi e scorgendo attraverso il tetto lo spuntare delle stelle. Aveva dormito alcune ore, poi si era risvegliata nel pieno della notte e si era incamminata di nuovo, onde fare più strada possibile prima del grande calore diurno. Per chi viaggia a piedi d'estate, la mezzanotte è più clemente del mezzogiorno.

Seguiva come meglio poteva il sommario itinerario che le aveva indicato il contadino di Vantortes; si spingeva quanto più le era possibile a ponente. Chi le fosse stato accanto, l'avrebbe udita ripetere continuamente a mezza voce "La Tourgue". Oltre ai nomi dei suoi tre bambini ella non sapeva più altra parola che questa.

Camminando, pensava. Riandava le avventure che aveva attraversato; ricordava tutto ciò che aveva sofferto, tutto ciò che aveva accettato:

gli incontri, le indegnità, le condizioni fatte, i mercati proposti e subìti, quando per un asilo, quando per un pezzo di pane, quando semplicemente per ottenere che le insegnassero la strada. Una donna in miseria è più sventurata d'un uomo in miseria, in quanto è strumento di piacere. Spaventoso vagabondaggio! Del resto, a lei non importava nulla di nulla, purché ritrovasse i suoi figlioli.

Il suo primo incontro, quel giorno, era stato un paesino sulla strada.

L'alba era appena spuntata; tutto, ancora, era immerso nelle tenebre della notte; pure, nella via maggiore del paesino, qualche uscio era già dischiuso, e dalle finestre sporgevano teste incuriosite. Gli abitanti erano agitati come le api di un alveare disturbato. S'era fatto udire un frastuono di ruote e di ferraglie, ecco perché.

Sulla piazza, davanti alla chiesa, un gruppo sbigottito, con lo sguardo all'insù, guardava qualche cosa che scendeva lungo la strada verso il paesino dall'alto d'una collina. Era un carro a quattro ruote trascinato da cinque cavalli attaccati per mezzo di catene. Sul carro si distingueva un ammucchiamento che pareva un gruppo di lunghe travi in mezzo alle quali si scorgeva un non so che di informe; il tutto era nascosto da un gran copertone, che pareva un sudario. Dieci uomini a cavallo precedevano, e dieci seguivano il carro. Quegli uomini avevano in testa cappelli a tricorno, e si vedeva emergere al di sopra delle loro spalle punte che parevano sciabole sguainate. Tutto quel corteo inoltrava lentamente profilandosi nero nero sull'orizzonte. Il carro pareva nero, i cavalli parevano neri, i cavalieri parevano neri.

Dietro di essi illividiva il mattino.

Quell'apparecchio entrò nel paesino e si diresse verso la piazza.

Durante la discesa del carro s'era fatto un po' giorno, e fu quindi possibile vedere distintamente quel corteo che pareva una marcia di spettri, visto che nessuno fiatava.

I cavalieri erano gendarmi. Avevano le sciabole sguainate, infatti. Il copertone era nero.

La miseranda madre errabonda entrò da parte sua nel paesino e si avvicinò al capannello dei contadini proprio nel momento in cui quel carro e quei gendarmi giungevano sulla piazza. Nel capannello la gente si bisbigliava domande e risposte.

- Che diamine è?

- La ghigliottina che passa.

- Di dove viene?

- Da Fougères.

- Dove va?

- Non so. Si dice che vada a un castello dalla parte di Parigné.

- A Parigné!

- Vada dove vuole, purché non si fermi qui.

Quel grande carro, col suo carico velato da una specie di sudario, quei cavalli, quei gendarmi, lo strepito delle catene, il silenzio di quegli uomini, l'ora crepuscolare, era un insieme davvero spettrale.

Quel gruppo attraversò la piazza e uscì dal paesino; il paesino era in una bassura, tra una salita e una discesa. Di lì a un quarto d'ora, i contadini, rimasti là come impietriti, videro ricomparire la lugubre processione in cima alla collina a occidente. Le carreggiate facevano sobbalzare le grosse ruote, le catene con le quali erano attaccati i cavalli strepitavano al vento mattutino, le sciabole brillavano.

Sorgeva il sole. La strada faceva una svolta, tutto scomparve.

In quello stesso momento, Giorgina, nella sala della biblioteca, si risvegliava accanto ai suoi fratelli ancora addormentati, e diceva buongiorno ai suoi piedini.

2.

PARLA LA MORTE.

La madre aveva guardato passare quella cosa scura, ma non aveva né capito né cercato di capire. Aveva un'altra visione, lei, davanti agli occhi: i suoi figlioli perduti nelle tenebre.

Uscì pure lei dal paesino, poco dopo che vi fu sfilato il corteo, e ne seguì la medesima strada, a qualche distanza dalla squadra di retroguardia dei gendarmi. D'un tratto, le tornò alla mente la parola "ghigliottina"; "ghigliottina", pensò. Quella selvaggia d'una Michelina Fléchard non sapeva che cosa fosse; ma l'istinto avverte, ed ella ebbe, senza poter dire perché, un fremito. Le parve orribile camminare dietro a quella cosa, e prese a sinistra, lasciò la strada e si inoltrò sotto certi alberi, che erano la foresta di Fougères.

Vagabondato che ebbe qualche tempo, scorse un campanile e alcuni tetti. Era un paesino sul margine del bosco. Vi andò. Aveva fame.

Quel paesino era uno di quelli in cui i repubblicani avevano stabilito dei posti militari.

Inoltrò fino alla piazza del municipio.

Anche in quel paesino c'erano subbuglio ed ansietà. La gente si pigiava davanti a un terrazzino di pochi gradini, che era l'entrata del municipio. Su quel terrazzino, si scorgeva un uomo, scortato da soldati, che teneva in mano un grande manifesto spiegato. Quell'uomo aveva alla sua destra un tamburino, e alla sua sinistra un affissatore, che portava un secchiello di colla e un pennello.

Sul balcone soprastante alla porta, stava ritto il sindaco con la sciarpa tricolore sull'abito di contadino.

L'uomo dal manifesto era un pubblico banditore.

Aveva la bandoliera da viaggio alla quale era appesa una borsa: ciò stava a indicare che andava da paese a paese, e che aveva qualche cosa da bandire in tutta la contrada.

Nel momento in cui Michelina Fléchard si avvicinò, l'uomo, che aveva spiegato proprio allora il manifesto, cominciò la lettura. Disse con voce altisonante:

- "Repubblica francese, una e indivisibile".

Il tamburo rullò. La ressa ebbe una specie di oscillazione. Alcuni si tolsero i berretti; altri si calcarono in testa i cappelli. In quel tempo e in quella contrada, si poteva quasi riconoscere di che opinione fosse la gente dal copricapo che portava. I cappelli erano realisti, i berretti erano repubblicani. Il confuso brusìo di voci cessò, si prestò orecchio. Il banditore lesse:

- "...In virtù degli ordini impartiti e dei poteri a noi delegati dal comitato di salute pubblica...".

Ci fu un altro rullo di tamburo. Il banditore proseguì:

- "... e in esecuzione del decreto della Convenzione nazionale, che mette fuori legge i ribelli presi con le armi alle mani, e che commina la pena capitale a chiunque darà loro asilo o li farà evadere...".

Un contadino domandò a bassa voce al suo vicino:

- E che cosa è mai la pena capitale?

Il vicino gli rispose: - Non lo so.

Il banditore agitò il manifesto:

- "...Visto l'articolo 17 della legge del 30 aprile che dà pieni poteri ai delegati e ai subdelegati contro i ribelli:

"Sono messi fuori legge...".

Fece una pausa e riprese:

-- "...gli individui designati coi nomi e i soprannomi che seguono...".

Tutta la gente prestò orecchio.

La voce del banditore divenne tonante. Disse:

- "...Lantenac, brigante".

- E' monsignore, - mormorò un contadino.

E si udì bisbigliare tra la folla: - "E' monsignore!".

Il banditore riprese:

- "...Lantenac, ex marchese, brigante. L'"Imânus", brigante...".

Due contadini si guardarono con la coda dell'occhio:

- E' Gouge-le-Bruant.

- Sì, è Trita-azzurri.

Il banditore continuava a leggere l'elenco:

- "Gran Cuorsaldo, brigante...".

La folla mormorò:

- E' un prete.

- Sì, il signor abate Turmeau.

- Sì, è curato in qualche posto, dalla parte del bosco della Cappella.

- E' brigante, - disse uno con in testa il berretto.

Il banditore lesse:

- "... Boisnouveau, brigante... I due fratelli Picca-di-legno, briganti... Houzard, brigante...".

- E' il signor di Quelen, - disse un contadino.

- "Panier, brigante...".

- E' il signor Sepher.

- "...Piazza-pulita, brigante...".

- E' il signor Jamois.

Il banditore proseguiva la sua lettura senza occuparsi di quei commenti.

-- "...Guinoiseau, brigante... Chatenay, detto Robi, brigante...".

Un contadino sussurrò:

- Guinoiseau è lo stesso che il biondo; lo Chatenay è di Saint-Ouen.

- "...Hoisnard, brigante", - riprese il banditore.

E si udì dire tra la folla:

- E' di Ruillé.

- Sì, è Ramo-d'oro.

- Ha avuto il fratello ammazzato all'attacco di Pontorson.

- Sì, Hoisnard-Malomière.

- Un bel giovanotto di diciannove anni.

- Attenzione, - disse il banditore. - Ecco la fine della lista: - "...Bellavigna, brigante... Cornamusa, brigante... Sciabolatore, brigante... Amoruccio, brigante...".

Un giovanotto diede di gomito a una ragazza. La ragazza sorrise.

Il banditore continuò:

- "Canta-d'inverno, brigante... il Gatto, brigante...".

Un contadino disse:

- E' Moulard.

- "... Tabouze, brigante...".

Un contadino disse:

- E' Gauffre.

- Sono due i Gauffre. - disse una donna.

- Tutt'e due buoni, brontolò un "gars".

Il banditore scosse il manifesto e il tamburo diede il segnale del bando.

Poi il banditore riprese la sua lettura:

- "... I soprannominati, dovunque vengano presi, e constatata che se ne sia l'identità, saranno immediatamente messi a morte".

Ci fu un po' di agitazione.

Il banditore proseguì:

- "... Chiunque darà loro asilo o presterà mano alla loro evasione, sarà tradotto davanti alla corte marziale, e messo a morte.

Firmato...".

Il silenzio divenne profondo.

- "...Firmato: il delegato del comitato di salute pubblica, Cimourdain".

- Un prete, - disse un contadino.

- L'ex-curato di Parigné, - disse un altro.

Un borghese soggiunse:

- Turmeau e Cimourdain. Un prete bianco e un prete azzurro.

- Neri entrambi, - disse un altro borghese.

Il sindaco, che era sul balcone, sollevò il cappello e gridò:

- Viva la repubblica!

Un rullo di tamburo annunciò che il banditore non aveva finito. Egli, infatti, fece un cenno con la mano.

- Attenzione, - disse. - Ecco le quattro ultime righe del manifesto del governo. Sono firmate dal comandante della colonna di spedizione delle Coste del Nord, che è il comandante Gauvain.

- Ascoltate! - dissero le voci della folla.

E il banditore lesse:

- "Sotto pena di morte...".

Tutti zittirono.

- "... E' fatto divieto in esecuzione dell'ordine qui sopra, di recare aiuto e soccorso ai diciannove ribelli summentovati, che sono in questo momento investiti e accerchiati nella Tourgue".

- Come? - disse una voce.

Era una voce di donna. La voce della madre.

3.

PARLOTTIO DEI CONTADINI.

Michelina Fléchard era in mezzo alla folla. Non aveva ascoltato nulla; ma ciò che non si ascolta, si ode. E lei aveva udito quella parola, "Tourgue". Sollevò la testa.

- Come? - ripeté. - La Tourgue?

La guardarono. Aveva l'aria smarrita. Era cenciosa. Alcune voci mormorarono: - Si direbbe una brigantessa.

Una contadina, che portava focacce di grano saraceno in un paniere, le si avvicinò e le disse a bassa voce:

- Tacete!

Michelina Fléchard osservò quella donna con stupore. Ricominciava a non capire più. Quel nome, la Tourgue, era trascorso come un lampo e ora le tenebre si riaddensavano. O che non aveva il diritto di informarsi, lei? Che avevano da guardarla a quel modo?

Frattanto il tamburo aveva rullato un'ultima volta; l'affissatore aveva incollato il manifesto; il sindaco era rientrato in municipio; il banditore s'era avviato verso qualche altra località, e la ressa si disperdeva.

Un capannello di gente era rimasto davanti al manifesto. Michelina Fléchard si avvicinò a quel gruppo.

Si commentavano i nomi delle persone messe fuori legge.

C'erano contadini e c'erano borghesi, che è quanto dire che c'erano dei bianchi e c'erano degli azzurri.

Un contadino diceva:

- Non importa. Non li hanno mica in mano tutti. Diciannove non sono che diciannove. Non hanno in mano il Priou, non hanno in mano Beniamino Moulins, non hanno in mano il Goupil, della parrocchia di Andouillé.

- Né Lorieul, di Monjean, - disse un altro.

E altri ancora aggiunsero:

- Né il Brice-Denys.

- Né Francesco Dudouet.

- Già, quello di Laval.

- Né Huet, di Launey-Villiers.

- Né Grégis.

- Né Pilon.

- Né il Filleul.

- Né Méniceut.

--Né Guéharrée.

--Né i tre fratelli Logerais.

--Né il signor Lechandelier di Pierreville.

- Imbecilli! - disse un austero vecchio dai capelli bianchi. - Se hanno Lantenac, hanno tutti quanti.

- Ancora non ce l'hanno, - mormorò un giovane.

Il vecchio precisò:

- Preso Lantenac, è presa l'anima. Morto Lantenac, la Vandea è uccisa.

- Che cos'è, dunque, questo Lantenac? - domandò un borghese.

Un altro borghese rispose:

- E' un ex.

E un altro riprese:

- E' uno di quelli che fucilano le donne.

Michelina Fléchard udì, e disse:

- E' vero.

Si voltarono verso di lei.

Ed ella soggiunse:

- Dal momento che sono stata fucilata anch'io.

La frase era piuttosto singolare. La donna fece l'effetto d'una vivente che affermi di essere morta. Tutti si misero a esaminarla, un po' di sbieco.

Era inquietante a vedersi, infatti. Trasaliva per ogni nonnulla; era sgomenta; rabbrividiva di frequente; dava a vedere una selvaggia ansietà, ed era cosi atterrita, che atterriva. Nella disperazione della donna c'è un non so che di debole, che è terribile. Si ha l'impressione di vedere un essere sospeso all'estremità del destino. I contadini, però, non prendono le cose tanto per il sottile. Uno di essi brontolò: - Potrebbe anche essere una spia, questa qui.

- Ma tacete, una buona volta, e andatevene, - le disse a bassa voce la buona donna che già le aveva parlato prima.

Michelina Fléchard rispose:

- Non faccio nulla di male, io. Cerco i miei figlioli.

La buona donna guardò quelli che guardavano Michelina Fléchard, si toccò la fronte col dito, ammiccando dell'occhio, e disse:

- E' una innocente.

Poi la prese in disparte, e le diede una focaccia di saraceno.

Michelina Fléchard, senza ringraziare, addentò avidamente la focaccia.

- Sì, - convennero i contadini; - mangia come una bestia, è una innocente.

E quanto rimaneva dell'assembramento si disperse. Uno dopo l'altro, tutti se ne andarono.

Quando Michelina Fléchard ebbe mangiato, disse alla contadina.

- Ecco fatto! Ma adesso che ho mangiato, dov'è la Tourgue ?

- Ah! ci siamo di nuovo, - esclamò la contadina.

- Bisogna che ci vada, io, alla Tourgue. Insegnatemi la strada per andarci.

- Mai! - disse la contadina - Per farvi ammazzare, eh? Del resto, non lo so nemmeno. Ma voi, siete dunque proprio pazza ? Ascoltate, povera donna; sembrate molto stanca. Volete venire a riposarvi in casa mia?

- Non mi riposo, io, - disse la madre.

- Ha i piedi tutti scorticati ! - mormorò la contadina.

Michelina Fléchard riprese:

- Ma se vi dico che mi hanno rubato i miei figlioli! Una bimbetta e due maschietti. Vengo dalla tana che è nella foresta. Potete domandare chi sono a Tellmarch il Pitocco. E poi all'uomo che incontrai laggiù, tra i campi. E' stato il Pitocco a farmi guarire. Pareva che avessi qualche cosa di rotto. Sono cose che mi sono successe davvero quelle che vi dico. Il sergente Radoub c'è ancora. Si può parlargli. Dirà lui come stanno le cose, giacché è stato lui che ci ha incontrati nel bosco. Tre vi dico. Tre figliuoli. Il primo, anzi, si chiama Gian Renato. Posso darvi le prove di tutto. L'altro si chiama Alano, e l'altra ancora Giorgina. Mio marito è morto. L'hanno ammazzato. Era fattore a Siscoignard. Mi sembrate una buona donna, voi. Insegnatemi la strada. Non sono una pazza, io; sono una mamma. Ho perduto i miei figlioli. Li cerco. Ecco tutto. Non so da dove vengo di preciso.

Questa notte ho dormito sulla paglia in una capanna. La Tourgue, è lì che vado. Non sono una ladra. Vedete bene che dico la verità. I miei figlioli, la gente dovrebbe aiutarmi a ritrovarli. Non sono di qui, io. Sono stata fucilata, ma non so dove.

La contadina scosse la testa, e disse:

- Sentite, quella donna. In tempo di rivoluzione, non si debbono dire cose che non sia facile capire. Sono cose che vi possono far arrestare.

- Ma la Tourgue! - gridò la madre. - Signora, per amore di Gesù bambino e della santa buona Vergine del paradiso! ve ne prego, signora, ve ne supplico, ve ne scongiuro: ditemi da che parte si va per andare alla Tourgue.

La contadina si stizzì per davvero:

- Non lo so! e se anche lo sapessi, non lo direi. Sono brutti paraggi, quelli, e non ci si va.

- Eppure io ci vado.

E riprese ad andare.

La contadina la guardò allontanarsi, e brontolò:

- Ma bisognerà pure che mangi.

Rincorse Michelina Fléchard e le mise una focaccia di grano nero fra le mani.

- Prendete, per cenare.

Michelina Fléchard prese il pane di grano saraceno, non disse parola, non voltò la testa, e continuò ad andare.

Uscì dal paesino. Raggiungeva le ultime case, quando incontrò tre bimbi a sbrendoli e a piedi nudi, che passavano. Si avvicinò loro, e disse:

- Sono due bimbe e un maschietto, questi.

Poi, accorgendosi che quei tre guardavano la sua focaccia, la diede loro.

I bimbi presero il pane ed ebbero paura.

Lei si cacciò nella foresta.

4.

UNO SBAGLIO.

Nel frattempo, quello stesso giorno, prima che spuntasse l'alba, nella indistinta oscurità della foresta, lungo il tronco di strada che va da Javené a Lécousse, ecco che cosa era accaduto.

Tutte le strade della "boscaglia" sono incassate. Quella da Javené a Parigné, che passa per Lécousse, è più incassata d'ogni altra. E tortuosa, per giunta. E' più un fossato che una strada. Questa strada viene da Vitré e ha avuto l'onore di sballottare la carrozza della signora di Sévigné. E' come murata, a destra e a sinistra, dalle siepi. Per una imboscata, non c'è un posto più adatto.

Quella mattina, un'ora prima che Michelina Fléchard, su un altro punto della foresta, arrivasse in quel primo paesetto dove aveva avuto la sepolcrale apparizione del carro scortato da gendarmi, c'era, nei macchioni che la strada di Javené attraversa all'uscita del ponte sul Couesnon, una confusione di uomini invisibili. La ramaglia nascondeva ogni cosa. Quegli uomini erano contadini, tutti vestiti col "grigo", casacca di pelo che i re di Bretagna portavano nel sesto e i contadini nel diciottesimo secolo. Erano tutti armati, chi di fucili, chi di scuri. Quelli che avevano le scuri, avevano allora allora terminato di preparare in una radura una specie di rogo, fatto di fascine secche e di piccoli ceppi, al quale non mancava se non d'avere appiccato il fuoco. Quelli armati di fucili erano ammassati a destra e a sinistra della strada, in atteggiamento di attesa. Chi avesse potuto vedere attraverso il fogliame avrebbe scorto dovunque indici appoggiati ai grilletti e canne di carabina puntate nei pertugi fatti dalle biforcazioni dei rami. Tutti stavano all'erta. I fucili convergevano sulla strada che le prime luci del giorno imbiancavano.

In quel crepuscolo, s'udivano dialoghi a bassa voce.

- Ne sei proprio sicuro?

- Diamine! si dice.

- Sta per passare?

- Dicono che sia nel paese.

- Non ne deve uscire.

- Bisogna bruciarla.

- Siamo qui in tre villaggi, venuti per questo.

- Sì, ma la scorta?

- La scorta, la ammazzeremo.

- Ma passerà proprio da questa strada?

- Così si dice.

- Viene da Vitré, allora?

- E perché no?

- Ma se dicevano che veniva da Fougères.

- Venga da Vitré o da Fougères, è sempre dal diavolo che viene.

- Già.

- E ci deve tornare.

- Certo.

- Sarebbe dunque avviata a Parigné?

- Sembra.

- Non ci andrà.

- No.

- No, no, no!

- Attenzione!

Diventava infatti utile stare zitti perché incominciava a schiarire.

D'un tratto, gli uomini imboscati trattennero il respiro. Si udiva uno strepito di ruote e di cavalli. Guardarono attraverso i rami e distinsero confusamente, nella strada incassata, un lungo carro, una scorta a cavallo, qualche cosa sopra il carro. Venivano verso di loro.

- Eccola! - disse quello che pareva essere il capo.

- Si, - convenne uno degli uomini appostati; - con la scorta.

- Quanti uomini di scorta?

- Dodici.

- Si diceva che fossero venti.

- Dodici o venti, ammazziamoli tutti.

- Aspettiamo che siano davvero a portata.

Poco dopo il carro e la scorta, sbucando da una svolta della strada, apparvero bene in vista.

- Viva il re! - gridò il capo dei contadini.

Cento fucilate detonarono nel medesimo istante.

Quando il fumo di dissipò, neanche la scorta non c'era più. Sette cavalieri erano caduti, cinque erano fuggiti. I contadini corsero al carro.

- Toh! - esclamò il capo. - Non è la ghigliottina. E' una scala.

Il carro, infatti, non aveva altro carico che una lunga scala.

I due cavalli erano stramazzati a terra, feriti. Il carrettiere era stato ucciso; ma non di proposito - Non importa, - disse il capo. - Una scala con tanto di scorta, è sospetta. Andavano verso Parigné. Doveva servire alla scalata della Tourgue di sicuro.

- Bruciamola, la scala! - gridarono i contadini.

E la bruciarono.

Quanto al funereo carro che essi aspettavano, seguiva un'altra strada, ed era già due leghe più oltre, nel paesino dove Michelina Fléchard la vide passare allo spuntare del sole.

5.

"VOX IN DESERTO".

Lasciando i tre bimbi ai quali aveva dato il proprio pane, Michelina Fléchard si era avviata a caso attraverso il bosco.

Giacché non volevano insegnarle la strada, bisognava pure che la trovasse da sola. Di tanto in tanto, si sedeva; poi tornava a rizzarsi in piedi; poi si sedeva di nuovo. Aveva addosso quella lugubre stanchezza che si sente dapprima nei muscoli e che passa poi nelle ossa, stanchezza da schiavi. Era schiava infatti, lei. Doveva ritrovarli. Ogni minuto trascorso poteva essere la fine, per loro. Chi ha un dovere simile, non ha più alcun diritto, riprendere fiato gli è inibito. Ma era molto stanca. A un tale grado di sfinimento, un passo di più è un problema. Si potrà farlo? Ella camminava dal mattino, non aveva più incontrato nessun abitato, nemmeno case isolate. Imboccò prima il sentiero che ci voleva, poi ne imboccò un altro che non andava bene, e finì per smarrirsi in mezzo ai rami, tutti simili tra loro. Si avvicinava alla meta? Stava, o no, per giungere al termine della sua passione? Era nella via dolorosa e sentiva tutta la gravezza dell'ultima stazione. Sarebbe forse cascata sulla strada, e lì spirata? A un certo punto, le parve impossibile procedere ancora; il sole declinava, la foresta era tenebrosa, i sentieri erano cancellati dall'erba, e non seppe più che ne sarebbe stato di lei. Non aveva più che Dio. Si mise a chiamare; nessuno rispose.

Si guardò attorno. Scorse tra la ramaglia un passaggio. Si diresse da quella parte, e bruscamente si trovò fuori del bosco.

Aveva davanti a sé una valleggia stretta come una trincea, in fondo alla quale scorreva tra i sassi un chiaro filo d'acqua. Allora si accorse d'avere una sete ardente.Raggiunsequell'acqua, s'inginocchiò, e bevve.

Approfittò di quel trovarsi così in ginocchio per fare la sua preghiera.

Poi si risollevò, e cercò di orientarsi.

Scavalcò il ruscello.

Di là dalla valleggia, si stendeva a perdita di vista un vasto pianoro rivestito da macchie nane, che, a partire dal ruscello, salivano a piano inclinato e colmavano l'orizzonte. La foresta era una solitudine; quella spianata era un deserto. Nella foresta, dietro ogni macchione si poteva incontrare qualcuno; sulla spianata per quanto si guardasse lontano, non si vedeva nulla. Pochi uccelli, che parevano fuggire, volavano fra le eriche.

Allora, di fronte a quell'immenso abbandono, sentendo flettersi le ginocchia, e divenuta come insensata, la madre sperduta gettò alla solitudine questo strano grido: - C'è qualcuno, qui?

E attese la risposta.

Fu risposto.

Deflagrò una voce sorda e profonda; veniva dal fondo dell'orizzonte; si ripercosse di eco in eco. Parve un rombo di tuono, a meno che non fosse una cannonata. Pareva che quella voce rispondesse alla domanda della madre e dicesse: "Si".

Poi fu di nuovo silenzio.

La madre si raddrizzò, rianimata. Qualcuno c'era. Le pareva, adesso, di avere a chi parlare. Aveva bevuto e pregato; le forze le tornavano.

Si mise a scalare la spianata verso la parte di dove aveva udito l'enorme voce lontana.

A un tratto, vide scaturire dall'estremo orizzonte un'alta torre.

Quella torre era tutta sola in quel selvaggio paesaggio. L'imporporava un raggio di sole calante. Ne era a più di una lega di distanza.

Dietro a quella torre si perdeva nella nebbia una grande verzura diffusa, che era la foresta di Fougères.

Quella torre le pareva che fosse sullo stesso punto dell'orizzonte da cui era venuto quel brontolio che le era parso una chiamata. Era stata quella torre a fare quel rumore?

Michelina Fléchard era giunta in cima al pendio; non aveva più davanti a sé che la pianura.

Camminò verso la torre.

6.

SITUAZIONE.

Era giunto il momento stabilito.

L'inesorabile teneva lo spietato.

Cimourdain aveva in mano Lantenac.

Il vecchio realista ribelle era preso nella sua tana; evidentemente non poteva più sfuggire, e Cimourdain intendeva che il marchese fosse decapitato sul posto, sulle sue terre, nella sua casa, in certo qual modo, affinché la dimora feudale vedesse cadere la testa dell'uomo feudale e l'esempio fosse memorabile.

Appunto per questo aveva mandato a chiedere la ghigliottina a Fougères. L'abbiamo vista per strada.

Uccidere Lantenac significava uccidere la Vandea; uccidere la Vandea significava salvare la Francia. Cimourdain non aveva esitazioni di sorta. Nella ferocia del dovere, quell'uomo si trovava a suo agio.

Il marchese pareva perduto; da quel lato Cimourdain era tranquillo; ma, per un altro verso, era inquieto. La lotta sarebbe stata spaventosa di certo. Ne avrebbe avuta la direzione Gauvain, che forse avrebbe anche voluto parteciparvi. La stoffa del soldato non mancava in quel giovane comandante, che era benissimo uomo da gettarsi in quel pugilato. E se vi rimanesse ucciso? Lui! Gauvain! suo figlio! l'unico affetto che egli avesse sulla terra! Fino a quel momento, Gauvain era sempre stato fortunato; ma la fortuna si stanca. Cimourdain tremava.

C'era questo di strano, nel suo destino, che egli si trovava tra due Gauvain, uno di cui voleva la morte, l'altro di cui voleva la vita.

La cannonata che aveva svegliato Giorgina nella sua culla e chiamato la madre dal fondo delle solitudini, non aveva fatto solo quello.

Fosse caso, fosse intenzione del puntatore, la palla, che pure non era che una palla d'avvertimento, aveva colpito, spezzato, asportato a mezzo l'armatura di sbarre di ferro che mascherava e chiudeva la grande feritoia del primo piano della torre. Gli assediati non avevano avuto il tempo di rimediare a quell'avaria.

Gli assediati si erano vantati. Di munizioni ne avevano pochissime.

Torniamo a dire che la loro situazione era ancora più critica di quanto supponessero gli assedianti. Se avessero avuto polvere abbastanza, avrebbero fatto saltare la Tourgue, se stessi e il nemico insieme, dentro che fosse. Tale era il loro sogno. Ma tutte le loro riserve erano esaurite. Era tanto se avevano da sparare trenta colpi ciascuno. Avevano molti fucili, molti tromboni, molte pistole e poche cartucce. Per poter fare un fuoco continuo, avevano caricato tutte le armi di cui disponevano; ma quanto tempo sarebbe durato quel fuoco?

Bisognava alimentarlo e farne economia a un tempo. Qui stava la difficoltà. Fortunatamente (sinistra fortuna!) la lotta sarebbe stata soprattutto da uomo a uomo, e all'arma bianca: sciabola e pugnale. Si sarebbero presi per il collo più che a fucilate. Si sarebbero battuti a colpi di scure: la loro speranza era quella.

L'interno della torre pareva inespugnabile. Nella sala a terreno, in cui metteva la breccia, c'era la ridotta, la barricata costruita da Lantenac con tanta perizia, che ostruiva l'entrata. Dietro la ridotta, c'era una lunga tavola coperta d'armi cariche, tromboni, carabine, e di moschettoni e di sciabole, e di scuri, e di pugnali. Non avendo potuto utilizzare, per far saltare la torre, la cripta che serviva da segreta, il marchese aveva fatto chiudere la porta di quel sotterraneo. Sopra la sala a terreno c'era la camera rotonda del primo piano alla quale si arrivava soltanto per mezzo d'una strettissima scala a chiocciola; quella camera, arredata, come la sala a terreno, da una tavola coperta d'armi bell'e pronte, sulle quali non c'era che da mettere le mani, era rischiarata dalla grande feritoia di cui una palla aveva allora allora sfondato l'inferriata; al di sopra di questa camera, la scala a chiocciola saliva alla camera rotonda del secondo piano, dov'era la porta di ferro che dava sul ponte-castelletto.

Quella camera del secondo piano si chiamava indistintamente camera della porta di ferro o camera degli specchi, per via di numerosi specchietti appesi senz'altro sulla pietra nuda a vecchi chiodi arrugginiti: bizzarra raffinatezza non priva di qualcosa di selvaggio.

Siccome le camere superiori non potevano essere utilmente difese, quella camera degli specchi era ciò che Manesson-Mallet, il legislatore delle piazzeforti, chiama "l'ultimo posto, dove capitolano gli assediati". Già abbiamo detto che per costoro si trattava quindi di non lasciar giungere gli assedianti fin lassù.

Quella camera rotonda del secondo piano era illuminata da due feritoie; comunque, vi ardeva una torcia. Questa torcia, infissa in un torciere di ferro simile a quello della sala a terreno, era stata accesa dall'"Imânus", che le aveva collocato proprio accanto l'estremità della miccia solforata. Orribili sollecitudini.

In fondo alla sala a terreno, su un lungo palchetto, c'era di che cibarsi, come in una caverna omerica. Grandi piatti di riso, una specie di polenta di grano saraceno, spezzatini di vitello, ciambelle di farina e di frutta cotta, vasi di sidro. Beveva e mangiava chi voleva.

La cannonata li mise tutti in allarmi. Non avevano più che mezz'ora a loro disposizione.

L'"Imânus", dall'alto della torre, sorvegliava l'avvicinarsi degli assedianti. Lantenac aveva ordinato di non sparare e di lasciar che si facessero sotto. Aveva detto:

- Sono quattromilacinquecento. Uccidere all'esterno è inutile. Non uccidete che dentro. Dentro, si ristabilisce l'uguaglianza.

E, ridendo, aveva soggiunto: - Uguaglianza, Fraternità.

Era stato convenuto che, quando il nemico avesse cominciato il suo movimento, l'"Imânus" ne avrebbe dato l'avvertimento con la cornetta.

In silenzio, appostati dietro la ridotta o sui gradini delle scale, tutti aspettavano, con una mano sul moschetto e l'altra sul rosario.

La situazione si precisava; era qual era.

Per gli assalitori, una breccia da scalare, una barricata da sfondare, tre sale sovrapposte da prendere a viva forza una dopo l'altra, due scale a spirale da conquistare gradino per gradino, sotto un nugolo di mitraglia; per gli assediati, morire.

7.

PRELIMINARI.

Da parte sua, Gauvain predisponeva l'attacco. Impartiva le sue ultime istruzioni a Cimourdain, che, come già sappiamo, doveva, senza prendere parte all'azione, sorvegliare il pianoro, e a Guéchamp, che doveva restare in osservazione col grosso dell'esercito nel campo della foresta. Era inteso, che, né le batterie in trincea della foresta, né la batteria sopraelevata del pianoro avrebbero sparato, salvo il caso di una sortita o di un tentativo di fuga. Gauvain si riservava il comando della colonna d'assalto. Appunto questo turbava Cimourdain.

Il sole era appena tramontato.

Una torre in aperta campagna sembra una nave in pieno mare. Deve essere assalita allo stesso modo. Un abbordaggio più che un assalto, deve essere. Niente artiglieria. Nulla d'inutile. A che serve cannoneggiare muri di quindici piedi di spessore? Un foro nei fianchi, un certo numero di uomini che lo forzino, un certo numero di uomini che lo sbarrino, e scuri, coltelli, pistole, pugni, denti. L'avventura è tutta qui.

Gauvain sentiva che non c'era altro modo per impadronirsi della Tourgue. Nulla di più micidiale d'un assalto in cui gli avversari si guardano nel bianco degli occhi. Egli conosceva il temibile interno della torre. C'era stato da bimbo.

Meditava profondamente.

Frattanto, a pochi passi da lui, Guéchamp, il suo luogotenente, cannocchiale alla mano, esaminava l'orizzonte dalla parte di Parigné.

A un tratto esclamò:

- Oh, finalmente!

Questa esclamazione distolse Gauvain dai suoi pensieri.

- Che c'è, Guéchamp?

- Arriva la scala, comandante.

- La scala di salvataggio?

- Sì.

- Come! non l'avevamo ancora?

- No, comandante. Ed ero in agitazione. La staffetta che avevo mandato a Javené era tornata.

- Lo so.

- Aveva detto di aver trovato nella carpenteria di Javené la scala dalle dimensioni volute, di averla requisita, di aver fatto mettere la scala su una carretta, di aver richiesto una scorta di dodici cavalieri e di avere visto mettersi in via per Parigné la carretta, la scorta e la scala. Dopo di che era ritornato a spron battuto.

- E ci aveva fatto quel rapporto, aggiungendo che la carretta trainata com'era da buoni cavalli ed essendo partita verso le due del mattino sarebbe stata qui prima del tramonto del sole. Tutto questo lo so. E allora?

- E allora, comandante, il sole si è coricato or ora, e la carretta che porta la scala non è ancora arrivata.

- Possibile? Eppure dobbiamo attaccare. E' già l'ora. Se tardassimo, gli assediati crederebbero che ci tiriamo indietro.

- Possiamo attaccare, comandante.

- Ma è indispensabile la scala di salvataggio.

- Indubbiamente.

- Ma non l'abbiamo.

- L'abbiamo.

- Come?

- Appunto per questo ho detto: "Oh, finalmente!". La carretta non arrivava; ho preso il cannocchiale e ho osservato la strada da Parigné alla Tourgue, e sono contento di dirvi, comandante, che la carretta è qui, con la sua scorta, discende una costa. Potete vederla voi stesso.

Gauvain prese il cannocchiale e guardò.

- Già! Eccola! Non è più chiaro abbastanza per distinguere tutto quanto; ma si vede la scorta; è proprio la scala. La scorta, però, mi sembra più numerosa di quanto dicevate, Guéchamp.

- Anche a me.

- Sono a circa un quarto di lega.

- La scala di salvataggio sarà qui fra un quarto d'ora, comandante.

- Si può attaccare.

Era una carretta infatti, quella che stava per arrivare, ma non era quella che essi credevano.

Gauvain, volgendosi, si vide innanzi il sergente Radoub, diritto, con gli occhi bassi, nell'atteggiamento del saluto militare.

- Che c'è, sergente Radoub?

- Cittadino comandante, noialtri, gli uomini del battaglione del Berretto Rosso, abbiamo da chiedervi una grazia.

- Quale?

- Di farci uccidere.

- Ah! - disse Gauvain.

- Volete avere questa bontà?

- Ma... secondo, - disse Gauvain.

- Ecco di che si tratta, comandante. Dopo la faccenda di Dol, voi ci risparmiate. Siamo ancora in dodici.

- E con questo?

- La cosa ci umilia.

- Siete la riserva, voi.

- Preferiamo essere l'avanguardia.

- Ma io ho bisogno di voi per decidere l'esito alla fine di un'azione.

Vi riserbo.

- Troppo.

- Fa lo stesso. Siete della colonna. Marciate.

- Dietro. Parigi ha il diritto di marciare avanti.

- Ci penserò, sergente Radoub.

- Pensateci oggi stesso, comandante. L'occasione è pronta. Si sta per dare o per ricevere un brutto sgambetto. Sarà una faccenda seria. La Tourgue scotterà le dita di quelli che la toccheranno. Chiediamo il favore di farne parte.

Il sergente s'interruppe, si attorcigliò i baffi, e riprese con aria alterata:

- E poi, vedete, comandante, in quella torre ci sono i nostri marmocchi. Ci sono i nostri figlioli, là dentro, i figlioli del battaglione, i nostri tre bambini. Quella lurida faccia di scimunito a cavallo, il soprannominato Trita-azzurri, il soprannominato "Imânus", quel Gouge-le-Bruant, Bouge-le-Brouant, quel Fouge-le-Truand, quella maledizione d'un uomo del diavolo minaccia i nostri figlioli. I nostri figlioli, i nostri frugoli, comandante! Quand'anche si mettessero di mezzo tutti i terremoti, non intendiamo che capiti loro disgrazia.

Capite, comandante? Non lo vogliamo. Poco fa, ho approfittato del fatto che non ci si batteva e sono salito sul pianoro e li ho guardati da una finestra. Sì, sono davvero là dentro; si possono vedere dal ciglio del burrone, e io li ho visti, e ho fatto loro paura, poveri amori. Comandante, se cade anche un solo capello dalle loro testoline di cherubini, io, sergente Radoub, vi giuro per quanto c'è di più sacro, che me la prendo con la carcassa del Padre Eterno. Ed ecco quello che dice il battaglione: vogliamo che i marmocchi siano salvati, o rimanere ammazzati tutti quanti. Siamo nel nostro diritto, ventre d'un cannone! Sì, ammazzati tutti quanti. E adesso, salute e rispetto.

Gauvain porse la mano al Radoub e disse:

- Siete dei prodi, voialtri. Farete parte della colonna d'assalto. Vi divido in due. Metto sei di voi all'avanguardia, perché si vada avanti, e ne metto sei alla retroguardia, perché non si dia addietro.

- E li comando sempre io i dodici?

- Certo.

- Grazie, allora, comandante. Sono dell'avanguardia io.

Radoub tornò a fare il saluto militare e rientrò nelle file.

Gauvain trasse l'orologio, disse qualche parola all'orecchio di Guéchamp, e la colonna d'assalto si cominciò a formare.

8.

IL VERBO E IL RUGGITO.

Intanto Cimourdain, che non aveva ancora raggiunto il suo posto sul pianoro, e che era a fianco di Gauvain, si avvicinò a un trombettiere.

- Chiama la cornetta, - gli disse.

La tromba squillò, la cornetta rispose.

Furono scambiati un altro squillo di tromba e un altro squillo di cornetta.

- Che c'è? - domandò Gauvain a Guéchamp.

- Che cosa vuole Cimourdain ?

Cimourdain era inoltrato verso la torre, sventolando in una mano un fazzoletto bianco.

Alzò la voce.

- Uomini che siete nella torre, - disse. - Mi conoscete?

Una voce, la voce dell'"Imânus", ribatté dall'alto della torre.

- Sì.

Le due voci, allora, si parlarono e si risposero; si udì questo:

- Io sono l'inviato della repubblica.

- Sei l'ex curato di Parigné.

- Sono il delegato del comitato di salute pubblica.

- Sei un prete.

- Sono il rappresentante della legge.

- Sei un rinnegato.

- Sono il commissario della rivoluzione.

- Sei un apostata.

- Sono Cimourdain.

- Sei un demonio.

- Mi conoscete?

- Ti esecriamo.

- Sareste contenti di avermi in vostro potere?

- Siamo in diciotto, qui, che daremmo volentieri la nostra testa per avere la tua.

- Ebbene, vengo a mettermi nelle vostre mani.

Si udì dall'alto della torre un selvaggio scoppio di risa, e questo grido:

- Vieni!

Nel campo, c'era un profondo silenzio di attesa. Cimourdain riprese:

- A una condizione.

- Quale?

- Ascoltate.

- Parla.

- Mi odiate?

- Sì.

- Io, invece, vi voglio bene. Sono vostro fratello.

La voce dall'alto della torre rispose:

- Sì, Caino.

Con una singolare inflessione di voce, che era a un tempo forte e dolce, Cimourdain riprese:

- Insultate, ma ascoltate. Vengo qui da parlamentare. Sì, siete miei fratelli. Siete poveri uomini fuorviati. Sono vostro amico, io. Sono la luce e parlo all'ignoranza. La luce contiene sempre un po' di fraternità. Non abbiamo tutti la stessa patria, del resto? Orbene, ascoltatemi. Saprete più in là, o lo sapranno i vostri figli, o i figli dei vostri figli, che tutto ciò che si fa in questo momento si fa in adempimento delle leggi di lassù, e che nella rivoluzione c'è Dio. Aspettando il momento in cui tutte le coscienze, anche le vostre, capiranno, e in cui tutti i fanatismi, anche i nostri, dilegueranno, aspettando che questa grande luce sia fatta, non ci sarà nessuno che avrà pietà delle vostre tenebre? Io vengo a voi, vi offro la mia testa. Faccio ancora di più: vi porgo la mano. Vi chiedo la grazia di perdermi per salvarvi. Detengo pieni poteri, e posso ciò che dico. E' un istante supremo, questo. Io faccio un ultimo sforzo. Sì, colui che vi parla è un cittadino, e sì, in questo cittadino c'è un prete. Il cittadino vi combatte, ma il prete vi supplica. Ascoltatemi. Molti tra voi hanno moglie e figlioli. Assumo la difesa dei vostri figlioli e delle vostre mogli. Ne assumo la difesa contro di voi. O miei fratelli...

- Su, predica! - ridacchiò l'"Imânus".

Cimourdain continuò:

- Non lasciate che scocchi l'ora esecrabile, fratelli miei. Ci stiamo per sgozzare a vicenda, qui. Molti tra noi che siamo qui davanti a voi non vedremo il sole di domani; sì, molti tra noi periranno, e voi, tutti voi, state per morire. Fate grazia a voi stessi. Perché versare tutto questo sangue, quando è inutile? Perché uccidere tanti uomini quando due bastano?

- Due? - disse l'"Imânus".

- Sì. Due.

- Chi?

- Lantenac e io.

E Cimourdain alzò la voce:

- Ci sono due uomini di troppo. Lantenac per noi, io per voi. Ecco quanto vi propongo, e tutti avrete salva la vita: dateci Lantenac e prendete me. Lantenac sarà ghigliottinato; di me farete quello che vi piacerà.

- Prete, - urlò l'"Imânus"; - se ti avessimo in nostre mani, ti bruceremmo a fuoco lento.

- Acconsento, - disse Cimourdain.

E riprese:

- Voi, condannati che siete in questa torre, potete tutti, tra un'ora, essere vivi e liberi. Vi reco la salvezza. Accettate?

L'"Imânus" esplose:

- Non solo sei scellerato, sei anche pazzo. Oh, ma insomma, perché ci vieni a disturbare ? Chi è che ti prega di venirci a parlare? Cedervi monsignore, noi! Che cosa vuoi?

- La sua testa. E vi offro...

- La tua pelle, ché ti scorticheremmo come un cane, curato Cimourdain.

Ebbene, no! la tua pelle non vale la sua testa. Vattene!

- Sarà una faccenda terribile, badate. Per l'ultima volta, riflettete.

Mentre venivano pronunciate queste cupe parole, che si sentivano tanto dentro la torre che fuori, calava la notte. Il marchese di Lantenac taceva e lasciava fare. Ne hanno di questi sinistri egoismi i condottieri. E' uno dei diritti della responsabilità.

L'"Imânus" gettò la sua voce al di là di Cimourdain, e gridò:

- Uomini che ci attaccate. Le nostre proposte noi ve le abbiamo dette; così sono e non abbiamo da modificarle in nulla. Accettatele, altrimenti, disgrazia! Acconsentite? Vi restituiremo i tre bambini che sono là dentro, e voi darete libertà di uscire e salva la vita a noi tutti.

- A tutti, sì, - rispose Cimourdain; - salvo ad uno.

- A chi?

- A Lantenac.

- Monsignore! Consegnare monsignore! Mai!

- Ci occorre Lantenac.

- Mai.

- Non possiamo trattare che a questa condizione.

- Allora incominciate.

Si rifece il silenzio.

L'"Imânus", dopo aver dato con la sua cornetta il segnale convenuto, ridiscese. Il marchese sfoderò la spada. I diciannove assediati si raggrupparono in silenzio nella sala a terreno, dietro la ridotta, e si misero in ginocchio. Udivano il passo cadenzato della colonna d'assalto che inoltrava verso la torre nell'oscurità. Il rumore si avvicinava. A un tratto lo sentirono vicinissimo, proprio all'apertura della breccia. Tutti allora, inginocchiati, puntarono attraverso le tacche della ridotta i loro fucili e i loro tromboni, e uno di essi, Grande Cuorsaldo, che era il prete Turmeau, si alzò, e, una spada denudata nella mano destra, un crocifisso nella mano sinistra, disse con voce grave:

- In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo!

Tutti fecero fuoco come un sol uomo, e la zuffa s'impegnò.

9.

TITANI CONTRO GIGANTI.

Fu una cosa veramente spaventevole.

Quel corpo a corpo superò tutto quanto si era potuto immaginare che sarebbe stato.

Per trovare qualche cosa di simile, bisognerebbe risalire ai grandi duelli di Eschilo o alle antiche carneficine feudali, a quegli "attacchi all'arma corta" che sono durati fino al diciassettesimo secolo. quando si entrava nelle piazzeforti dalle falsebrache; assalti tragici, nei quali, dice il vecchio sergente della provincia di Alentejo, "avendo le mine fatto il loro effetto, gli assedianti avanzeranno portando tavole rivestite di lastre di latta, armati di scudetti rotondi e di ripari mobili, forniti come si deve di granate, facendo abbandonare le trincee o le ridotte ai difensori, e se ne impadroniranno, incalzando vigorosamente gli assediati".

Il punto d'attacco era orribile. Era una di quelle brecce che si chiamano in gergo del mestiere "brecce sotto volta", che è quanto dire, e il lettore se ne ricorderà, perché già ne abbiamo parlato, un crepaccio che attraversava il muro da una parte all'altra, e non una frattura svasata e scoperta. L'effetto della mina era stato così violento, che la torre era stata spaccata dall'esplosione fino a più di quaranta piedi al di sopra del fornello; ma non era che una spaccatura, e l'apertura praticabile che serviva da breccia e dava adito alla sala a terreno somigliava a un colpo di lancia, che fora, piuttosto che a un colpo di scure, che intacca.

Era una puntura nel fianco della torre; una lunga frattura penetrante; qualche cosa come un pozzo coricato a terra, un corridoio sbisciolante e saliente come un budello attraverso a una muraglia di quindici piedi di spessore; non si saprebbe dire che informe cilindro ingombro di ostacoli, di tranelli, di esplosioni, nel quale la fronte urtava nei blocchi di granito, i piedi nei rottami e gli occhi nelle tenebre.

Gli assalitori avevano innanzi quell'andito nero, imboccatura di voragine, che aveva per mascelle, di sopra e di sotto, tutte le pietre della muraglia fracassata; le fauci di un pescecane non hanno più denti di quanti ne avesse quella formidabile lacerazione. Era giocoforza entrare in quel foro, e uscirne.

Dentro, tempestava la mitraglia; fuori, si rizzava la ridotta. Fuori, che è quanto dire nella bassa sala a pian terreno.

Solo gli scontri degli zappatori nelle gallerie coperte quando la contromina viene a distruggere la mina; solo i massacri a colpi di scure nei frapponti dei vascelli all'abbordaggio durante le battaglie navali, hanno una tale ferocia. Battersi in fondo a una fossa è l'estremo grado dell'orrore. E' spaventoso uccidersi l'un l'altro con un soffitto sopra la testa. Nel momento in cui la prima ondata degli assedianti entrò, tutta la ridotta si coprì di lampi, e fu qualche cosa come un fulmine che scoppiasse sotto terra. Il tuono che assaliva ribatté al tuono in agguato. Le detonazioni si incrociarono. Si levò il grido di Gauvain: "Addosso!". Poi il grido del Lantenac: "Fermi contro il nemico!". Poi il grido dell'"Imânus": "A me quelli del Maine!". Si udirono quindi dei tintinnii, sciabole contro sciabole, e, una dietro l'altra, spaventose scariche, un vero macello. La torcia infissa nel muro rischiarava in modo vago tutto quello spavento.

Impossibile distinguere alcunché, i combattenti erano immersi in un tenebrore rossastro; chi entrava là dentro, diventava subito sordo e cieco, sordo per lo strepito, cieco per il fumo. Gli uomini posti fuori combattimento giacevano tra i rottami; gli altri camminavano su cadaveri, calpestavano piaghe, frantumavano membra infrante, di dove uscivano urli; i morenti mordevano loro i piedi. Di tanto in tanto, si stabilivano silenzi più orrendi del frastuono. Erano una colluttazione generale; si udivano gli spaventosi aliti delle bocche, poi digrignar di denti, rantoli, imprecazioni, e il tuono ricominciava. Un rivo di sangue usciva dalla torre per la breccia e si spandeva nell'ombra.

Quella tetra pozza fumava, là fuori, tra l'erba.

Si sarebbe detto che fosse la stessa torre a perdere sangue, che la gigantessa fosse ferita.

Cosa sorprendente, tutto quel parapiglia non faceva quasi nessun rumore all'esterno. La notte era quanto mai buia, e, sia nella pianura che nella foresta, c'era attorno alla fortezza investita una non so qual funebre pace. Dentro, era l'inferno; fuori, era il sepolcro. Quel cozzo d'uomini sterminantisi nelle tenebre, quei crepitii di moschetti, quei clamori, quegli urli di rabbia, tutto quel tumulto spirava sotto la massa dei muri e delle volte; al fragore mancava l'aria, e alla carneficina si aggiungeva il soffocamento. Fuori della torre tutto quel fracasso si avvertiva appena. In quel frattempo i bimbi dormivano.

L'accanimento aumentava. La ridotta teneva duro. Non c'è nulla di più malagevole da forzare che quel genere di barricate ad angolo rientrante. Se gli assediati avevano contro il numero, avevano dalla loro la posizione. La colonna d'assalto perdeva molti uomini.

Allineata e allungata fuori, ai piedi della torre, essa si cacciava pian piano nell'apertura della breccia, e si raccorciava, come un serpente che entri nella sua tana.

Gauvain, che aveva imprudenze da giovane condottiero, era nella sala bassa, là dove più ferveva la mischia, con tutta la mitraglia attorno a sé. Aggiungiamo che aveva la fiducia dell'uomo che non è mai stato ferito.

Mentre si voltava per impartire un ordine, un barbaglio di moschetteria illuminò, vicinissima a lui, una faccia.

- Cimourdain! - esclamò il giovane. - Che cosa venite a fare qua dentro?

Era Cimourdain infatti; e rispose:

- Vengo per starti vicino.

- Ma vi farete uccidere!

- E tu, allora, che altro fai?

- Ma qui, io sono necessario; voi no.

- Dal momento che ci sei tu, ci debbo essere anch'io.

- No, maestro.

- Sì, figlio mio!

E Cimourdain rimase presso Gauvain.

I morti si ammucchiavano sul lastrico della sala bassa.

Sebbene la ridotta non fosse ancora forzata, il numero doveva evidentemente finire per vincere. Gli assalitori erano allo scoperto e gli assaliti al riparo; per ogni assediato che cadeva cadevano dieci assalitori; ma gli assedianti si rinnovavano. Gli assedianti aumentavano e gli assediati diminuivano.

I diciannove assediati erano tutti dietro la ridotta, in quanto là era l'attacco. Avevano morti e feriti. A dire molto, erano in quindici a combattere ancora. Uno dei più selvaggi, Canta-d'inverno, era stato spaventosamente mutilato. Era un bretone tozzo e ricciuto, della specie piccola e vivace. Aveva un occhio sfondato e la mascella fracassata. Poteva ancora camminare. Si trascinò, su per la scala a spirale, nella camera del primo piano, sperando di potere colà pregare e morire.

Si era addossato al muro, presso la feritoia, per cercare di respirare un poco.

Di sotto, il massacro davanti alla ridotta si faceva sempre più orribile. Nell'intervallo tra due scariche, Cimourdain alzò la voce:

- Assediati! - gridò. - Perché far scorrere sangue ancora più a lungo?

Siete presi. Arrendetevi. Pensate che siamo quattromilacinquecento contro diciannove, cioè in più di duecento contro uno. Arrendetevi.

- Finiamola con queste melensaggini, - rispose il marchese di Lantenac.

E venti pallottole risposero a Cimourdain.

La ridotta non saliva fino alla volta; ciò permetteva agli assediati di sparare dal di sopra di essa; ma permetteva anche agli assedianti di scalarla.

- All'assalto della ridotta! - gridò Gauvain. - C'è qualcuno di buona volontà per dare la scalata alla ridotta ?

- Io! - disse il sergente Radoub.

10.

RADOUB.

A questo punto gli assalitori ebbero di che stupirsi. Radoub era entrato nell'apertura della breccia alla testa della colonna d'assalto, sesto dei suoi; e di quei sei uomini del battaglione parigino già quattro erano caduti. Lanciato che ebbe quel grido:

"Io!", fu visto non avanzare, ma indietreggiare, e abbassato, curvo, quasi strisciando tra le gambe dei combattenti, raggiungere di nuovo l'apertura della breccia e uscire. Era una fuga? Fuggire un uomo simile? Che voleva dire ciò?

Giunto fuori della breccia, Radoub, ancora acciecato dal fumo, si stropicciò gli occhi come per toglierne l'orrore e il buio, e, al lume delle stelle, guardò la muraglia della torre. Poi fece quel segno di testa soddisfatto che vuol dire: "Non mi ero sbagliato".

Radoub aveva notato che la profonda crepa dell'esplosione della mina si spingeva, al di sopra della breccia fino a quella feritoia del primo piano della quale una palla di cannone aveva sfondato e contorto l'inferriata. L'intreccio delle sbarre spezzate pendeva mezzo strappato, e un uomo poteva passare.

Un uomo poteva passare; ma poteva salire, un uomo? Lungo la crepa, sì, a condizione d'essere un gatto.

Radoub era tale. Era della specie che Pindaro chiama "agili atleti".

Si può essere vecchio soldato e uomo giovane; Radoub, che era stato delle Guardie francesi, non aveva quarant'anni. Era un Ercole svelto.

Posò a terra il moschetto, si levò le buffetterie, si tolse cappotto e sottoveste, serbando solo le due pistole, che infilò nella cintura dei pantaloni, e la sciabola, che si mise fra i denti. L'impugnatura delle due pistole gli spuntava fuori della cintura.

Alleggerito in tal modo d'ogni superfluità, e seguito con gli occhi, nell'oscurità, da quanti, della colonna di assalto, non erano ancora entrati nella breccia, si mise a scalare le pietre della crepa del muro, come i gradini di una scala. Essere senza scarpe, gli tornò utile; nulla di meglio, per arrampicarsi, del piede nudo. Inartigliava i pollici dei piedi nei buchi delle pietre. Si sollevava coi pugni e si aggrappava con le ginocchia. La salita era aspra. Era un po' come ascendere lungo i denti di una sega. "Per fortuna", egli pensava, "non c'è nessuno nella camera del primo piano, altrimenti non mi lascerebbero scalare il muro così, di sicuro".

Non aveva meno di quaranta piedi da scalare a quel modo. Via via che saliva, un po' disturbato dal calcio sporgente delle pistole, la crepa del muro si restringeva, e l'ascensione si faceva sempre più difficile. Il rischio di cadere aumentava nella stessa misura della profondità del precipizio.

Finalmente giunse all'orlo della feritoia. Scostò l'inferriata contorta e divelta. Poteva passare benissimo. Con uno sforzo potente, si sollevò, appoggiò il ginocchio sullo sporto della feritoia, afferrò con una mano un troncone di sbarra a destra, con l'altra un troncone a sinistra, e si issò fino a metà corpo davanti all'apertura, la sciabola tra i denti, sospeso per i due pugni sull'abisso.

Non aveva che da fare un lungo passo per saltare nella sala del primo piano.

Ma nel vano della feritoia apparve un viso.

Radoub, di punto in bianco, scorse davanti a sé, nell'ombra, qualche cosa di spaventevole: un occhio sfondato, una mascella fracassata, una maschera sanguinolenta.

Quella maschera, la quale non aveva che una pupilla, lo guardava.

Quella maschera aveva due mani. Quelle due mani sbucarono dall'ombra e si protesero verso Radoub. Una, con un solo gesto, gli prese le pistole dalla cintola, l'altra gli tolse la sciabola di tra i denti.

Radoub era disarmato. Il ginocchio gli scivolava sul piano inclinato dello sporto e i pugni spasmodicamente annodati sui tronconi dell'inferriata bastavano a stento a sostenerlo. Aveva dietro a sé quaranta piedi di precipizio.

Quella maschera e quelle mani erano Canta-d'inverno.

Canta-d'inverno, soffocato dal fumo che saliva dal basso, era riuscito a entrare nel vano della feritoia. L'aria esterna lo aveva colà rianimato; il fresco notturno gli aveva coagulato il sangue, ed egli aveva ripreso un po' di forza. A un tratto aveva visto sorgere all'esterno, davanti all'apertura, il busto di Radoub. Allora, siccome Radoub, le mani contratte sulle sbarre, non aveva da scegliere che tra il lasciarsi cadere e il lasciarsi disarmare, Canta-d'inverno, spaventevole e tranquillo, gli aveva levato le pistole dalla cintura e la sciabola di tra i denti.

Fra il disarmato e il ferito si impegnò allora un inaudito duello.

Evidentemente, la meglio l'avrebbe avuta il moribondo, giacché una pallottola sarebbe bastata a precipitare Radoub nella voragine spalancata sotto i suoi piedi.

Fortunatamente per Radoub, Canta-d'inverno, avendo ambo le pistole in una sola mano, non poté servirsene, e fu costretto a valersi della sciabola. Tirò una puntata alla spalla del Radoub; quella sciabolata ferì Radoub, ma lo salvò.

Senza armi, ma in possesso di tutta la sua forza, Radoub non fece nessun caso della ferita, la quale, del resto, non aveva intaccato l'osso; fece un balzo in avanti, abbandonò le sbarre, e saltò dentro l'apertura.

Là, si trovò faccia a faccia con Canta-d'inverno, che aveva gettato dietro di sé la sciabola e teneva alte le pistole, una per pugno.

Canta-d'inverno, ritto sulle ginocchia, prese di mira Radoub quasi a bruciapelo; ma il braccio indebolito gli tremava e non sparò immediatamente.

Radoub approfittò di quell'istante di respiro per dare in una risata.

- Di' un po', - gridò, - bruttone! Credi forse di farmi paura con questa tua bocca da bue squartato? Caspita, come ti hanno sconciato il grugno!

Canta-d'inverno continuava a prenderlo di mira. Radoub proseguì:

- Non faccio per dire, ma hai avuto il mostaccio spettinato a dovere dalla mitraglia! Povero ragazzo, Bellona ti ha fracassato i connotati.

Andiamo, su, sputa la tua povera pistolettata, mio caro.

Il colpo partì, e passò così vicino alla testa del Radoub, che gli portò via mezzo orecchio. Canta-d'inverno alzò l'altro braccio armato della seconda pistola, ma Radoub non gli lasciò il tempo di prenderlo di mira.

- Un orecchio di meno mi basta! - gridò. - Tu mi hai ferito due volte. A me la bella.

E si lanciò su Canta-d'inverno, gli fece alzare il braccio per aria, fece partire il colpo, che andò a finire chi sa dove, poi gli afferrò e contorse la mascella fratturata.

Canta-d'inverno mandò un ruggito, e svenne.

Radoub lo scavalcò, lasciandolo nel vano della feritoia.

- Adesso che ti ho fatto conoscere il mio ultimatum, - disse, - non ti muovere più. Resta lì, brutto verme. Capirai che non voglio, proprio adesso, prendermi il gusto di massacrarti. Striscia a tuo piacere sul pavimento, concittadino delle mie ciabatte. Muori, sarà sempre tanto di fatto per un'altra volta. Fra poco saprai che il tuo curato non ti diceva che scempiaggini. Vattene nel grande mistero, paesano.

E saltò nella sala del primo piano.

- Non ci si vede per nulla, - brontolò.

Canta-d'inverno si agitava convulsamente e urlava nell'agonia. Radoub si volse...

- Silenzio! fammi il piacere di tacere, cittadino senza saperlo. Non mi occupo più di te. Disdegno di finirti. Lasciami in pace.

E, inquieto, si cacciò i pugni nei capelli, sempre osservando Canta- d'inverno.

- E adesso, che cosa farò? Sta bene tutto, ma eccomi disarmato. Avevo due colpi da sparare, e tu me li hai sciupati, animale! E tutto questo fumo per giunta, che mi fa un male da cane agli occhi.

Poi, incontrando con la mano l'orecchio spezzato:

- Ahi! - disse.

E riprese:

- Bel guadagno hai avuto a confiscarmi un orecchio. Alla fine, preferisco avere di meno un orecchio che qualcos'altro; non è che un ornamento. Mi hai anche graffiato una spalla, ma non è niente. Spira, paesano, io ti perdono.

Ascoltò. Il fragore nella sala bassa era tremendo. Il combattimento era più forsennato che mai.

- Va bene, laggiù. Fa lo stesso. Gridano "Viva il re" e crepano nobilmente.

I suoi piedi urtarono la sciabola a terra. La raccattò e disse a Canta-d'inverno, che non si agitava più, e che forse era morto:

- Vedi, uomo dei boschi? Per quello che volevo fare la sciabola o niente è la stessa cosa. La riprendo per amicizia. Quelle che mi ci volevano erano le pistole. Che il diavolo ti porti, selvaggio! E che cosa farò, adesso? Non servo a nulla, qui.

Inoltrò nella sala cercando di vedere e di orientarsi. A un tratto nella penombra, dietro il pilastro centrale scorse una lunga tavola, e su quella tavola qualche cosa che vagamente brillava. Tastò. Erano tromboni, pistole, carabine, una fila d'armi da fuoco disposte in ordine, che altro non aspettavano se non delle mani che le impugnassero. Era la riserva di combattimento preparata dagli assediati per la seconda fase dell'assalto. Tutto un arsenale.

- Una tavola imbandita! - esclamò Radoub.

E le si gettò sopra, abbagliato.

Allora divenne formidabile.

La porta della scala che comunicava con i piani superiori e inferiori era visibile, spalancata, a fianco della tavola carica d'armi. Radoub lasciò cadere la sciabola, impugnò, una per mano, due pistole a due colpi, e le scaricò tutte in una volta, a caso, sotto la porta, nella spirale della scala; poi afferrò un moschetto e lo scaricò, poi impugnò un trombone rigurgitante di pallini e lo scaricò anch'esso. Il trombone, vomitando quindici pallottole, parve una scarica di mitraglia. Allora Radoub, riprendendo fiato, gridò con voce tonante giù nella scala:

- Viva Parigi!

E impadronendosi d'un secondo trombone più grosso del primo, lo puntò sotto la volta tortuosa della scala a chiocciola, e attese.

Lo scompiglio nella sala a terreno fu indescrivibile. Simili sbalordimenti improvvisi disgregano la resistenza.

Due delle pallottole della triplice scarica di Radoub avevano colpito:

una aveva ucciso il maggiore dei fratelli Picca-di-legno, l'altra aveva ucciso Houzard, che era il signor Quélen.

- Sono di sopra! - gridò il marchese.

Quel grido provocò l'abbandono della ridotta. Fu come uno stormo d'uccelli che si disperdesse. Fu una gara a precipitarsi su per la scala. Il marchese incoraggiava quella fuga.

- Fate presto, - diceva. - Il coraggio sta nel fuggire. Saliamo tutti al secondo piano! Di lassù, ricominceremo.

Fu l'ultimo ad abbandonare la ridotta.

Quella prodezza lo salvò.

Radoub, imboscato al primo piano della scala, il dito sul grilletto del trombone, spiava quella ritirata precipitosa. I primi che apparvero alla svolta della spirale ricevettero la scarica in piena faccia, e caddero fulminati. Se il marchese fosse stato tra loro, era morto. Prima che Radoub avesse il tempo di brandire un'altra arma, gli altri passarono; il marchese in coda a tutti, e più lentamente degli altri. Credevano che la camera del primo piano fosse piena di assedianti, si guardarono bene dal fermarsi e raggiunsero la sala del secondo piano, quella degli specchi. Qui c'era la porta di ferro, qui la miccia solforata: là si doveva capitolare o morire.

Gauvain, non meno sorpreso degli assediati stessi dalle detonazioni della scala, né in grado di spiegarsi l'aiuto che gli sopraggiungeva, ne aveva approfittato senza cercar di capire; era saltato, lui e i suoi, per disopra la ridotta, e aveva incalzato gli assediati, spada alle reni, fino al primo piano.

Là si imbatté in Radoub.

Questi cominciò col fargli il saluto regolamentare, e disse:

- Un momento, comandante. Sono stato io a far questo. Mi sono ricordato di Dol. Ho fatto come voi. Ho preso il nemico tra due fuochi.

- Buon allievo, - disse Gauvain sorridendo.

Quando si sta per un certo tempo al buio, gli occhi finiscono per abituarsi all'ombra come quelli degli uccelli notturni. Gauvain si accorse che Radoub era tutto sanguinante.

- Ma tu sei ferito, camerata! - gli disse.

- Non fateci caso, comandante. Che è mai, un orecchio di più o di meno? Ho ricevuto anche una spuntonata di sciabola, ma me ne infischio. Quando si rompe un vetro, ci si taglia sempre un po'. Non è solo mio, il sangue, del resto.

Si fece una specie di sosta nella sala del primo piano, conquistata da Radoub. Fu portata una lanterna. Cimourdain raggiunse Gauvain.

Discussero il da farsi. C'era da meditarci, infatti. Gli assedianti non conoscevano il segreto degli assediati; ne ignoravano la penuria di munizioni, non sapevano che i difensori della piazza erano a corto di polvere; il secondo piano era l'ultimo posto di resistenza; gli assedianti potevano credere che la scala fosse minata.

Una cosa sola era certa: il nemico non poteva scappare. Chi non era morto, era là dentro come sotto chiave. Lantenac era in trappola.

Con tale certezza, potevano concedersi un po' di tempo nella ricerca del migliore scioglimento possibile. Di morti se ne avevano già abbastanza. Bisognava cercar di non perdere troppi uomini in quell'ultimo assalto.

Il rischio di questo supremo assalto sarebbe stato grande.

Probabilmente ci sarebbe stata da subire una prima scarica molto aspra.

Il combattimento era interrotto. Gli assedianti, padroni del pianterreno e del primo piano, aspettavano, per continuare, l'ordine del comandante. Gauvain e Cimourdain tenevano consiglio. Radoub assisteva in silenzio alle loro deliberazioni.

Arrischiò ancora un timido saluto militare.

- Comandante?

- Che c'è, Radoub?

- Ho diritto a una piccola ricompensa, io?

- Certo! Chiedi quello che vuoi.

- Chiedo di salire per primo.

Non era possibile rifiutarglielo, e del resto l'avrebbe fatto anche senza permesso.

11.

I DISPERATI.

Mentre al primo piano si deliberava, al secondo si barricavano. Il successo è un furore; la disfatta è una rabbia. I due piani stavano per urtarsi in modo inaudito. Raggiungere la vittoria è un'ebbrezza.

Di sotto, c'era la speranza, che sarebbe la più grande delle forze umane se non esistesse la disperazione.

La disperazione era al piano di sopra.

Una disperazione calma fredda, sinistra.

Giungendo in quella sala, ultimo loro rifugio, al di là del quale non c'era più nulla per loro, prima cura degli assediati fu di barricarne l'entrata. Chiudere la porta era inutile, importava assai più ingombrare la scala. In casi simili, un ostacolo attraverso il quale si può vedere e combattere vale meglio di una porta chiusa.

La torcia infissa nella torciera del muro dall'"Imânus" vicino alla miccia solforata li illuminava.

C'era in quella camera del secondo piano, una di quelle grosse e pesanti cassapanche di quercia nelle quali si custodivano le vesti e la biancheria prima dell'invenzione dei mobili coi cassetti.

Trascinarono quella cassapanca e la rizzarono in piedi sotto la porta della scala. Vi si incastrava solidamente e ostruiva l'entrata. Non lasciava libero, in alto, presso la volta, se non uno spazio ristretto, ottimo per ammazzare gli assalitori a uno a uno: sempre che vi si arrischiassero, s'intende, e questo era dubbio.

Quell'ostruzione dell'entrata consentiva loro un momento di respiro.

Si contarono.

I diciannove non erano più che sette, compreso l'"Imânus". Eccettuati l'"Imânus" e il marchese, tutti erano feriti.

I cinque, che erano feriti, ma vitalissimi, giacché nel calore del combattimento ogni ferita che non sia mortale vi lascia andare e venire, erano Chatenay, detto Robi Guinoiseau, Hoisnard Ramo-d'oro, Amoruccio e Gran Cuorsaldo. Tutti gli altri erano morti.

Non c'erano più munizioni. Le giberne erano vuote. Contarono le cartucce. Quanti colpi restavano loro da tirare, fra tutti e sette?

Quattro.

Erano giunti a quel momento in cui non resta da far altro che cadere.

Erano sul ciglio del precipizio spalancato e terribile. Essere su quel ciglio più di così era difficile.

L'assalto, intanto, era ripreso. Tanto più sicuro quanto più era lento. Si udivano gli assedianti esplorare la scala gradino per gradino, battendo coi calci dei fucili.

Nessuna possibilità di fuggire. Dalla biblioteca? C'erano sul pianoro sei cannoni puntati, micce accese. Dalle camere superiori? A che pro?

Mettevano sulla piattaforma, da dove non si poteva far altro che gettarsi giù.

I sette sopravviventi di quella banda epica si vedevano inesorabilmente rinchiusi e intrappolati dalla spessa muraglia che li proteggeva e che li consegnava al nemico. Ancora non erano presi, ma erano già prigionieri.

Il marchese alzò la voce:

- Tutto è finito, amici.

E dopo un silenzio aggiunse:

- Gran Cuorsaldo ridiventi l'abate Turmeau.

Tutti si inginocchiarono, rosario alla mano. I colpi di calcio di fucile degli assalitori si avvicinavano.

Gran Cuorsaldo, tutto sanguinante per una pallottola che gli aveva sfiorato il cranio e lacerato il cuoio capelluto, alzò con la mano destra il crocefisso. Il marchese, che in fondo era uno scettico, mise un ginocchio a terra.

- Ciascuno, - disse Cuorsaldo, - confessi le sue colpe ad alta voce.

Parlate, monsignore.

Il marchese rispose:

- Ho ucciso.

- Ho ucciso, - disse Hoisnard.

- Ho ucciso, - disse Guinoiseau.

- Ho ucciso, - disse Amoruccio.

- Ho ucciso, - disse Chatenay.

- Ho ucciso, - disse l'"Imânus".

E Gran Cuorsaldo riprese:

- In nome della santissima Trinità, vi assolvo. Che le vostre anime vadano in pace.

- Così sia, - risposero tutte le voci.

Il marchese si rialzò.

- E adesso moriamo, - disse.

- E uccidiamo, - disse l'"Imânus".

I calci dei fucili cominciavano a scuotere la cassapanca che sbarrava la porta.

- Pensate a Dio, - disse il prete. - La terra, per voi, non esiste più.

- Sì, - convenne il marchese; - siamo nella tomba.

Tutti curvarono la fronte e si batterono il petto. Soltanto il marchese e il prete stavano in piedi. Tutti gli occhi erano fissi a terra: il prete pregava, i contadini pregavano, il marchese meditava.

La cassapanca, battuta come da tanti martelli, risuonava lugubremente.

In quella, una voce viva e forte, facendosi bruscamente sentire dietro di loro, gridò:

- Ve lo avevo pur detto, monsignore!

Tutte le teste si voltarono, stupefatte.

Nella parete si era aperto un buco.

Una pietra, perfettamente combaciante con le altre, ma non cementata, con un perno sopra e un perno sotto, era girata su se stessa come un piccolo argano, e girando aveva aperto la muraglia. La pietra essendo girata intorno al suo asse, l'apertura era doppia e offriva due passaggi, uno a destra, l'altro a sinistra, angusti, ma sufficienti per consentire il passaggio a un uomo. Al di là di quella porta inattesa, si scorgevano i primi gradini di una scala a chiocciola. Una faccia d'uomo appariva all'apertura.

Il marchese riconobbe Halmalo.

12.

SALVATORE.

- Sei tu, Halmalo?

- Io, monsignore. Vedete bene che le pietre girevoli esistono davvero, e che da qui dentro si può uscire. Arrivo in tempo, ma fate in fretta.

Fra dieci minuti sarete in piena foresta.

- Dio è grande! - disse il prete.

- Andatevene, monsignore! - gridarono tutte le voci.

- Andatevene prima voi tutti, - disse il marchese.

- Voi per primo, monsignore, - disse l'abate Turmeau.

- Io per ultimo.

E il marchese riprese con voce severa:

- Nessuna gara di generosità. Non abbiamo tempo di essere magnanimi.

Voi siete feriti. Vi ordino di vivere e di fuggire. Presto! e approfittate di questa uscita. Grazie, Halmalo.

- Dovremo dunque separarci, signor marchese? - disse l'abate Turmeau.

- Da basso sì, senza dubbio. Non si scappa mai che a uno a uno.

- Ci dà un punto di convegno, monsignore?

- Sì. Una radura nella foresta. La Pierre Gauvain. Conoscete il posto?

- Lo conosciamo tutti.

- Ci sarò domani. A mezzogiorno. Tutti quelli che possono camminare si trovino laggiù.

- Ci saremo.

- E ricominceremo la guerra, - disse il marchese.

Intanto Halmalo, premendo sulla pietra girevole, si era allora accorto che non si muoveva più. L'apertura non si poteva più richiudere.

La pietra, infatti, dopo una lunga dissuetudine, era come anchilosata nella sua cerniera. Impossibile, ormai, imprimerle un movimento qualsiasi.

- Monsignore, - riprese Halmalo; -- io speravo di richiudere il passaggio, e che gli azzurri, entrando qua dentro, non trovassero più nessuno, e non ci capissero nulla e vi credessero andati in fumo. Ma la pietra non lo vuole. Il nemico vedrà l'uscita aperta e ci potrà inseguire. Non perdiamo un minuto, almeno. Presto, tutti giù per la scala.

L'"Imânus" posò la mano sulla spalla di Halmalo.

- Camerata, quanto tempo ci vuole per uscire da questo passaggio e per essere al sicuro nella foresta?

- Non c'è nessuno ferito gravemente? - domandò Halmalo.

Tutti risposero: - Nessuno.

- In tal caso, basta un quarto d'ora.

- Così, - riprese l'"Imânus", - se il nemico non entrasse qui che tra un quarto d'ora?...

- Potrebbe inseguirci, ma non ci raggiungerebbe.

- Ma quelli saranno qua dentro fra cinque minuti, - interruppe il marchese. - Quella vecchia cassapanca non li ostacolerà a lungo.

Basteranno pochi colpi col calcio dei fucili per venirne a capo. Un quarto d'ora! chi li fermerà per un quarto d'ora?

- Io! - disse l'"Imânus".

- Tu, Gouge-le-Bruant?

- Io, monsignore. Ascoltate. Siete in cinque feriti su sei. Io, invece, non ho neppure una scalfittura.

- Nemmeno io, - disse il marchese.

- Voi siete il capo, monsignore. Io sono il soldato. Un conto è il capo e un altro conto è il soldato.

- Lo so. Ciascuno di noi ha un suo proprio dovere.

- No, monsignore, voi e io abbiamo entrambi lo stesso dovere; quello di salvare voi.

L'"Imânus" si voltò ai suoi compagni.

- Camerati, tutto sta nel tenere in iscacco il nemico e nel ritardarne il più possibile l'inseguimento. Ascoltate. Io sono in possesso di tutta la mia forza, non ho perso una goccia di sangue. Siccome non sono ferito, resisterò più a lungo di ogni altro. Andatevene, voi.

Lasciatemi le vostre armi. Ne farò buon uso. Mi assumo di fermare il nemico per una buona mezz'ora. Quante pistole cariche ci sono?

- Quattro.

- Mettetele lì, per terra.

Fu fatto ciò che egli voleva.

- Sta bene. Rimango. Troveranno con chi scambiare quattro chiacchiere.

Presto, adesso, andatevene.

Le situazioni precipitose escludono ogni convenevole. Fu tanto se si scambiarono una stretta di mano.

- A fra poco, - gli disse il marchese.

- No, monsignore. Spero di no. Non a fra poco giacché morirò.

Tutti si cacciarono, uno dopo l'altro, giù per l'angusta scala, per primi i feriti. Mentre quelli scendevano, il marchese prese la matita del suo taccuino e scrisse alcune parole sulla pietra che non poteva più girare e lasciava aperto il passaggio.

- Venite, monsignore, - disse Halmalo. - Non mancate che voi.

E Halmalo cominciò a discendere.

Il marchese lo seguì.

L'"Imânus" rimase solo.

13.

CARNEFICE.

Le quattro pistole cariche erano state posate sulle pietre del pavimento, giacché quella sala non aveva impiantito di legno.

L'"Imânus" ne prese due, una per mano.

Avanzò di sbieco verso l'entrata della scala, ostruita e mascherata dalla cassapanca.

Evidentemente, gli assalitori temevano qualche sorpresa, una di quelle esplosioni finali che costituiscono la catastrofe del vincitore in una con quella del vinto. L'ultimo assalto si svolgeva lento e prudente quanto il primo era stato impetuoso. Non avevano potuto, forse non avevano voluto, sfondare violentemente la cassapanca. Ne avevano demolito il fondo a furia di percuoterlo col calcio dei fucili, e forato il coperchio a colpi di baionetta. Ora cercavano, attraverso a quei buchi, di guardare nella sala, prima di arrischiarsi a mettervi piede.

Il bagliore delle lanterne con le quali rischiaravano la scala passava attraverso quei buchi.

L'"Imânus" scorse a uno di quei buchi una di quelle pupille che guardavano. Applicò di scatto a quel buco la canna di una pistola e premette il grilletto. Il colpo parti e l'"Imânus", esultante, udì un grido orribile. La pallottola aveva spaccato l'occhio e attraversato la testa. Il soldato che guardava era caduto all'indietro giù per la scala.

Gli assalitori avevano praticato nella parte inferiore del coperchio due aperture alquanto larghe, qualche cosa come due feritoie.

L'"Imânus" approfittò di una di esse, vi passò il braccio e sparò così a caso nel mucchio degli assalitori il suo secondo colpo di pistola.

La pallottola, probabilmente, rimbalzò, giacché si udirono varie grida, come se ne fossero rimasti uccisi o feriti almeno tre o quattro; si udì nella scala un gran tumulto, come di uomini che abbandonano il posto e retrocedono.

L'"Imânus" gettò via le due pistole scaricate e prese le altre due.

Poi, con quelle in pugno, guardò dai buchi della cassapanca.

Constatò il primo effetto prodotto.

"Tutto tempo guadagnato", pensò.

In quella, scorse un uomo che saliva i gradini della scala strisciando col ventre a terra. Contemporaneamente, più in giù, dietro il pilastro centrale della spirale, apparve una testa. L'"Imânus" prese di mira quella testa, e sparò. Ci fu un grido, il soldato cadde, e l'"Imânus" fece passare dalla sinistra nella destra l'ultima pistola carica che gli rimaneva.

In quello stesso momento avvertì un atroce dolore, e fu lui a gettare, a sua volta, un urlo. Una sciabola gli frugava le viscere. Un pugno, il pugno dell'uomo che strisciava su per la scala, era passato attraverso la seconda feritoia della parte inferiore della cassapanca, e quel pugno aveva immerso una sciabola nel ventre dell'"Imânus".

La ferita era spaventosa. Il ventre era squarciato in due.

Non cadde, l'"Imânus". Digrignò i denti, e disse:

- Sta bene!

Poi, traballando e strisciando, indietreggiò fino alla torcia che ardeva accanto alla porta di ferro; posò la pistola a terra e impugnò la torcia. Sostenendo, infine, con la mano sinistra i suoi propri intestini che gli cadevano fuori, abbassò con la destra la torcia e appiccò il fuoco alla miccia solforata.

Il fuoco prese, la miccia fiammeggiò. L'"Imânus" mollò la torcia, che continuò ad ardere sul pavimento, riafferrò la pistola, e, caduto a terra, ma sollevandosi ancora, attizzò la miccia col poco fiato che ancora gli restava.

La fiamma corse, passò sotto la porta di ferro e raggiunse il ponte- castelletto.

Allora, vedendo il buon esito del suo esecrando proposito, forse più soddisfatto del suo delitto che della sua prodezza, quell'uomo che era stato un eroe, che non era ormai più che un assassino, e che stava per morire, sorrise.

- Si ricorderanno di me, - mormorò. - Vendico sui loro piccini il piccino di noi tutti, il re, che è al Tempio.

14.

EVADE ANCHE L'"IMANUS".

In quel medesimo istante si produsse un grande fracasso. La cassapanca, violentemente investita, si sfondò, e diede passo libero a un uomo, che si slanciò nella sala sciabola in mano.

- Sono io, Radoub. Chi ce l'ha con me? Aspettare, mi annoia. Mi arrischio. Tanto, ne ho sventrato uno proprio adesso. Ora vi attacco tutti. Mi seguano o non mi seguano, eccomi qua. In quanti siete?

Era Radoub infatti, ed era solo. Dopo il massacro fatto dall'"Imânus" nella scala, Gauvain, temendo qualche fogata nascosta, aveva fatto ripiegare i suoi uomini e si consigliava con Cimourdain.

Sciabola alla mano, ritto sulla soglia, Radoub ripeté in quel buio, dove la torcia quasi spenta gettava appena un bagliore, la sua domanda:

- Sono uno solo. Quanti siete voi?

Non udendo nulla, avanzò. Uno di quegli sprazzi di luce che mandano di tanto in tanto i fuochi agonizzanti, e che si potrebbero chiamare singhiozzi di luce, scaturì dalla torcia e illuminò tutta la sala.

Radoub scorse così uno degli specchietti appesi alle pareti, gli si avvicinò, si guardò la faccia insanguinata e l'orecchio penzolante, e disse:

- Che sconcia demolizione!

Poi si voltò, stupefatto di vedere la sala vuota.

- Non c'è nessuno! - esclamò. - Zero effettivo.

Scorse la pietra che aveva girato, l'apertura e la scala.

- Ah, capisco! Se la sono svignata! Su, su tutti, camerati, venite! se ne sono andati. Sono filati via, hanno tagliato la corda, se la sono squagliata. Questa brocca di una vecchia torre era fessa. Come si fa a venire a capo di qualche cosa con Pitt e col Coburgo, se si mettono di mezzo scherzi di questo genere? E' venuto in loro aiuto il buon Dio del diavolo! Non c'è più nessuno!

Detonò una pistolettata. Una pallottola gli sfiorò il gomito, e andò ad appiattirsi contro la parete.

- Ma sì! qualcuno c'è! Chi ha avuto la bontà di usarmi questa cortesia?

- Io, - disse una voce.

Radoub protese la testa e distinse nel chiaroscuro qualche cosa, che era l'"Imânus".

- Ah! - gridò. - Uno lo tengo. Gli altri sono scappati, ma tu non te la svignerai, no.

- Credi? - rispose l'"Imânus".

Radoub fece un passo e si fermò.

- Oh! uomo che sei per terra, chi sei?

- Sono colui che è per terra e che se la ride di quelli che stanno in piedi.

- Che hai nella destra?

- Una pistola.

- E nella sinistra?

- Le mie budella.

- Ti faccio prigioniero.

- Provaci!

E l'"Imânus", curvandosi sulla miccia ardente, e soffiandovi sopra l'ultimo suo alito, spirò.

Pochi momenti dopo, Gauvain, Cimourdain e tutti erano nella sala.

Tutti videro l'apertura. Si frugò in ogni angolo, fu esplorata la scala, che andava a finire a una apertura sul burrone. L'evasione fu constatata. Scossero l'"Imânus", era morto. Gauvain, con una lanterna alla mano, esaminò la pietra che aveva dato via libera agli assediati.

Ne aveva udito parlare, di quella pietra girevole, ma anche lui aveva sempre ritenuto una favola quella leggenda. Così osservando la pietra, scorse qualche cosa scritta a matita; accostò la lanterna e lesse:

"Arrivederci, signor visconte. Lantenac".

Guéchamp aveva raggiunto Gauvain. L'inseguimento era evidentemente inutile, poiché la fuga era consumata in pieno; gli evasi avevano dalla loro il paese, la macchia, il fossato, la "boscaglia", l'abitante; indubbiamente erano già lontani; nessuna possibilità di ritrovarli, e l'intera foresta di Fougères era un immenso nascondiglio. Che fare? Non c'era che da ricominciare da capo. Gauvain e Guéchamp si scambiavano il loro disappunto e le loro congetture.

Cimourdain ascoltava, serio, senza dire una parola.

- A proposito, Guéchamp, - disse Gauvain. - E la scala?

- Non è arrivata, comandante.

- Eppure abbiamo visto giungere una carretta scortata da gendarmi.

Guéchamp rispose.

- Non portava la scala.

- E che cosa portava, allora?

- La ghigliottina, - disse Cimourdain.

15.

NON METTERE MAI NELLA MEDESIMA TASCA UN OROLOGIO E UNA CHIAVE.

Il marchese di Lantenac non era lontano quanto gli altri credevano.

Non per questo, però, era meno perfettamente al sicuro e fuori portata.

Aveva seguito Halmalo.

La scala per dove Halmalo e lui erano discesi, dietro agli altri fuggiaschi, andava a sboccare vicinissimo al burrone e agli archi del ponte con un angusto corridoio a volta. Quel corridoio si apriva su una profonda spaccatura naturale del suolo, che dava adito, da una parte al burrone, e dall'altra alla foresta. Tale spaccatura, assolutamente defilata agli sguardi,serpeggiava sotto un impenetrabile groviglio di vegetazione. Riprendere là un uomo era impossibile. Giunto che fosse in quella spaccatura, un evaso non aveva più che da operare una fuga da rettile, ed era introvabile. L'entrata del corridoio segreto della scala era talmente ostruita dai rovi, che i costruttori del passaggio sotterraneo avevano ritenuto superfluo chiuderlo in altro modo.

Il marchese, adesso, non aveva più che da andarsene. Nessun bisogno di provvedersi un travestimento. Da quando era giunto in Bretagna, non aveva mai lasciato il suo costume da contadino, persuaso d'essere, con quello, tanto maggiormente gran signore.

Si era limitato a togliersi la spada, di cui aveva sfibbiato e buttato via il cinturone.

Quando Halmalo e il marchese sboccarono dal corridoio nella spaccatura, gli altri cinque, Guinoiseau, Hoisnard Ramo-d'oro, Amoruccio, Chatenay e l'abate Turmeau non c'erano già più.

- Non hanno atteso molto a prendere il volo, - disse Halmalo.

- Fai come loro, - disse il marchese.

- Vuole che io la lasci, monsignore?

- Certo. Te l'ho già detto. Non si evade bene che da soli. Dove uno passa, due non passano. Insieme, richiameranno l'attenzione. Tu faresti prendere me, ed io farei prendere te.

- Conosce il paese, monsignore?

- Sì.

- Mantiene il luogo di convegno alla Pierre Gauvain, monsignore?

- Domani. A mezzogiorno.

- Ci sarò. Ci saremo tutti.

Halmalo si interruppe.

- Ah, monsignore! quando penso che siamo stati in alto mare, che eravamo soli, che io volevo ammazzarvi, che voi eravate il mio padrone, che potevate dirmelo e non me lo diceste! Che uomo siete voi!

Il marchese disse ancora:

- L'Inghilterra. Non ci sono altre risorse. Bisogna che fra quindici giorni gli inglesi siano in Francia.

- Avrei un bel po' di conti da rendere a monsignore. Ho eseguito le sue commissioni.

- Di tutto questo parleremo domani.

- A domani, monsignore.

- A proposito, hai fame?

- Forse, monsignore. Avevo tanta fretta di arrivare, che non so neppure se abbia mangiato, oggi.

Il marchese si trasse di tasca una tavoletta di cioccolata, la spezzò in due, ne diede una metà ad Halmalo, e si mise a mangiare l'altra.

- Monsignore, - disse Halmalo, - alla vostra destra c'è il burrone; alla vostra sinistra la foresta.

- Sta bene. Lasciami. Vai dalla tua parte.

Halmalo obbedì. Si sprofondò nel buio. Si udì uno strepito di cespugli smossi, poi più nulla. Trascorsi alcuni secondi sarebbe stato impossibile ritrovarne la traccia. Quella terra della "boscaglia", irta e inestricabile, era l'ausiliaria del fuggiasco. Non si scompariva, si svaniva. Appunto questa facilità di rapide dispersioni faceva esitare i nostri eserciti davanti a quella Vandea sempre indietreggiante, e davanti ai suoi combattenti tanto formidabili nelle loro fughe.

Il marchese rimase immobile. Era uno di quegli uomini che si sforzano di non provar nulla; ma non poté sottrarsi all'emozione di respirare l'aria libera, dopo aver respirato tanto sangue e tanta carneficina.

Anche per un uomo come Lantenac, sentirsi completamente salvo dopo essere stato completamente perduto; prendere possesso dell'assoluta sicurezza dopo aver visto così da vicino la tomba; uscire dalla morte e rientrare nella vita, era una scossa; e sebbene ne avesse già provato di simili, non poté impedire che la sua imperturbabile anima si sentisse per un momento come vacillare. Confessò a se stesso d'essere contento. Comunque, quel moto che assomigliava quasi alla gioia, egli lo dominò immediatamente.

Si trasse di tasca l'orologio e fece scattare la suoneria. Che ora era?

Con suo grande stupore, seppe che erano soltanto le dieci. Appena subito una di quelle peripezie della vita umana, in cui tutto è stato a repentaglio, si è sempre stupefatti che minuti così pregni non siano più lunghi degli altri. La cannonata di avvertimento era stata sparata un po' prima del tramonto del sole, e la Tourgue era stata investita dalla colonna di assalto una mezz'ora dopo, tra le sette e le otto, sull'annottare. Quel colossale combattimento, pertanto, incominciato alle otto, era finito alle dieci. Tutta quella epopea era durata centoventi minuti. Si dà il caso che alle catastrofi si mescoli la fulmineità del lampo. Gli avvenimenti hanno scorci che sorprendono.

A ripensarci, sarebbe piuttosto dovuto essere il contrario a sbalordire. Una resistenza di due ore da parte di un numero così esiguo contro un numero così grande era straordinaria, e certo non era stata breve, né era finita troppo presto, quella battaglia di diciannove contro quattromila.

Ma era tempo di andarsene. Halmalo doveva essere lontano e il marchese non ritenne necessario dilungarsi oltre colà. Si rimise l'orologio nella sottoveste, ma non nella medesima tasca di prima; si era accorto, togliendolo, che vi stava a contatto con la chiave della porta di ferro restituitagli dall'"Imânus", e aveva pensato che il vetro si sarebbe potuto spezzare, contro quella chiave. Poi si dispose a raggiungere anch'egli la foresta.

Già stava per avviarsi a destra, quando gli parve di avvertire un vago chiarore che penetrava fino a lui.

Si voltò, e, attraverso gli sterpi nettamente stagliati su uno sfondo rosso e diventati subito visibili nei loro minimi particolari, scorse, giù nel burrone, un grande bagliore. Già s'era avviato da quella parte, ma subito si ravvide, trovando inutile esporsi a quel chiarore, da dovunque provenisse. Non era affar suo, dopo tutto. Riprese la direzione che gli aveva mostrato Halmalo e mosse qualche passo verso la foresta.

A un tratto, mentre era profondamente immerso e nascosto sotto i rovi, udì sopra la testa un grido orribile. Quel grido pareva provenisse proprio dal ciglio del pianoro sopra il burrone. Il marchese alzò gli occhi e si fermò.

 

LIBRO QUINTO.

"IN DAEMONE DEUS" [Dio è nel diavolo]

1.

TROVATI, MA PERDUTI.

Nel momento in cui Michelina Fléchard aveva scorto la torre imporporata dal sole calante, ne era lontana più di una lega. Lei, che poteva a stento muovere un passo, non aveva minimamente esitato davanti a quella lega da percorrere. Le donne sono deboli, ma le madri sono forti. Aveva proceduto.

Il sole era tramontato, erano sopravvenuti il crepuscolo e poi il buio profondo. Sempre camminando, ella aveva udito scoccare da lontano, da un campanile che non si scorgeva, le otto, e poi le nove. Era probabilmente quello di Parigné, quel campanile. Di tanto in tanto, si fermava per prestare orecchio a certi colpi sordi, che forse erano vaghi rumori notturni.

Procedeva sempre diritto davanti a sé, schiantando giunchi e canne aguzze coi piedi sanguinanti. La guidava un debole lucore che emanava dal lontano torrione e che, mentre lo faceva risaltare, gli metteva attorno nell'ombra, come una vaga aureola. Quando i colpi si facevano più distinti, quella luce diventava più viva; poi si spegneva.

Il vasto pianoro dove camminava Michelina Fléchard non era rivestito che da erba e da erica; né una casa né un albero attorno; ascendeva insensibilmente, e, a perdita di vista, appoggiava la lunga sua linea diritta e dura sul cupo orizzonte stellato. Ciò che sorresse quella madre in quell'ascesa, fu il fatto che aveva sempre la torre sotto gli occhi.

La vedeva ingrandire a poco a poco.

Le detonazioni soffocate e i pallidi bagliori che uscivano dalla torre avevano, come abbiamo già detto, delle intermittenze. Si interrompevano, poi riprendevano, proponendo un pungente enigma alla misera madre angustiata.

D'un tratto cessarono. Tutto si spense, rumore e luce. Ci fu un momento di perfetto silenzio; fu come l'estendersi di una lugubre pace.

Proprio in quell'istante Michelina Fléchard raggiungeva l'orlo del pianoro.

Scorse ai suoi piedi un burrone, il cui fondo si perdeva in un livido tenebrore notturno; a poca distanza, sulla sommità del pianoro, una confusione di ruote, di scarpate e di feritoie, che era una batteria di cannoni; e davanti a sé, confusamente illuminato dalle micce accese della batteria, un edificio enorme, che pareva costruito con tenebre più nere di tutte le altre tenebre che lo circondavano.

Quell'edificio si componeva di un ponte, le cui arcate si sprofondavano nel burrone, e di una specie di castello, che sorgeva sul ponte. Castello e ponte si appoggiavano a un che di rotondo e di buio, che era la torre verso la quale quella madre era venuta a piedi così di lontano.

Agli abbaini della torre si scorgeva un andare e venire di lumi, e, dal rumore che ne usciva, si indovinava che era gremita d'una folla d'uomini, dei quali si scorgevano alcuni profili fin sulla piattaforma.

Presso la batteria, c'era un accampamento, di cui Michelina Fléchard distingueva le sentinelle; nel buio, però, e in mezzo ai cespugli com'era, essa non ne era stata scorta.

Era giunta sul ciglio del pianoro, così vicino al ponte, che quasi le pareva di poterlo toccare con mano. Ne era separata dalla profondità del burrone. Nel buio, distingueva i tre piani del castello del ponte.

Rimase per un tempo imprecisato (ché le misure del tempo si cancellavano nel suo spirito), assorta e unita davanti a quell'abisso spalancato e a quella costruzione tenebrosa. Che cos'era? Che cosa accadeva là dentro? Era forse la Tourgue? Aveva la vertigine di chissà quale attesa, simile all'arrivo e alla partenza. Si chiedeva perché fosse colà.

Guardava e ascoltava.

A un tratto, non vide più nulla.

Un velo di fumo si era interposto tra lei e ciò che guardava. Un acre bruciore le fece chiudere gli occhi. Aveva appena chiuso le palpebre, che le si imporporarono e divennero luminose. Le riaprì.

Non più la notte aveva davanti a sé, ma il giorno. Una funesta specie di giorno, però; il giorno che scaturisce dal fuoco. Aveva sotto gli occhi un principio d'incendio.

Da nero che era, il fumo si era fatto scarlatto; gli rugghiava dentro una gran fiamma, che compariva e scompariva con quelle selvagge convulsioni che sono proprie dei lampi e dei serpenti.

Quella fiamma usciva come una lingua da qualche cosa che pareva una bocca spalancata ed era una finestra piena di fuoco. Quella finestra, ingraticciata di sbarre di ferro già arroventate, era una di quelle del piano inferiore del castello costruito sul ponte. Di tutto l'edificio non si scorgeva che quella finestra. Il fumo copriva tutto, anche il pianoro, e non si scorgeva che il ciglio del burrone, nero sulla fiamma vermiglia.

Michelina Fléchard guardava sbalordita. Il fumo è nuvola, la nuvola è sogno; non sapeva più che cosa vedesse. Doveva fuggire ? Doveva rimanere? Si sentiva quasi fuori della realtà.

Passò un soffio di vento e squarciò la cortina di fumo. Nello squarcio, la tragica bastiglia, improvvisamente smascherata, si rese tutta quanta visibile, mastio, ponte, castelletto, splendente, orribile, con la magnifica indoratura dell'incendio, che si rifletteva su di essa dall'alto in basso. Nella sinistra nitidezza del fuoco, Michelina Fléchard poté così vedere tutto quanto.

Il piano inferiore del castello costruito sul ponte ardeva.

Sopra di esso, si distinguevano gli altri due piani ancora intatti, ma come portati da un paniere di fiamme. Dall'orlo del pianoro, dove stava Michelina Fléchard, si scorgeva vagamente l'interno attraverso il fuoco e il fumo interposti. Tutte le finestre erano spalancate.

Dalle finestre del secondo piano, che erano grandissime, Michelina Fléchard scorgeva, lungo le pareti, armadi che le parevano zeppi di libri, e, davanti a una finestra, a terra, nella penombra, un gruppetto confuso, qualche cosa che aveva l'aspetto indistinto e ammucchiato di un nido o di una covata, e che le faceva, di tanto in tanto, l'effetto che si muovesse.

La madre guardava.

Che cos'era quel mucchietto d'ombra?

In certi momenti le pareva che fossero forme viventi. Ella aveva la febbre; non aveva più mangiato nulla dal mattino; aveva camminato senza soste; era estenuata; sentiva di essere in una specie di allucinazione, della quale, istintivamente, diffidava. Eppure, i suoi occhi, sempre più fissi, non potevano staccarsi da quello scuro mucchio di oggetti qualsiasi, inanimati, probabilmente, apparentemente inerti, che giacevano là sul pavimento di legno di quella stanza soprastante all'incendio.

A un tratto il fuoco, quasi avesse una volontà, allungò dal basso una delle sue lingue verso la grande pianta d'edera morta, che copriva appunto la facciata che Michelina Fléchard guardava. Si sarebbe detto che la fiamma avesse scoperto proprio allora quel groviglio di rami secchi; una scintilla se ne impadronì avidamente e si mise a salire lungo i rami con la spaventosa agilità delle tracce di polvere. In un batter d'occhio la fiamma raggiunse il secondo piano. Allora, da in alto, essa illuminò l'interno del primo. Una viva luce mise subito in rilievo tre piccoli esseri addormentati.

Era un gruppo incantevole; braccia e gambe mescolate, palpebre chiuse, testoline bionde sorridenti.

La madre riconobbe i suoi figlioli. Gettò un grido spaventoso.

Un tale grido d'inesprimibile angoscia non è dato che alle madri. Non c'è nulla di più selvaggio né di più commovente. Quando lo getta una donna, si crede di udire una lupa; quando lo emette una lupa, si crede di udire una donna.

Quel grido di Michelina Fléchard fu un urlo. Dice Omero che Ecuba abbaia.

Ed era stato quello il grido udito dal marchese di Lantenac.

Abbiamo visto che, udendolo, si era fermato.

Il marchese si trovava tra lo sbocco del passaggio per dove lo aveva fatto fuggire Halmalo e il burrone. Attraverso gli sterpi che si intersecavano sopra la sua testa, egli vide il ponte in fiamme, la Tourgue rossa per il riverbero, e scostando due rami sopra di lui, scorse dall'altra parte, sul ciglio del pianoro, proprio dirimpetto al castello in fiamme e nella piena luce dell'incendio, una figura smarrita e compassionevole, una donna china sul burrone.

Era la donna da cui era venuto quel grido.

Quella figura non era più Michelina Fléchard, era la Gòrgone. Gli sventurati sono formidabili. Quella contadina si era trasfigurata in eumenide.Quella campagnola qualunque,volgare, ignorante, incosciente, aveva di punto in bianco assunto le epiche proporzioni della disperazione. I grandi dolori sono una gigantesca dilatazione dell'anima; quella madre era la maternità. Tutto quanto riassume l'umanità è sovrumano. Quella donna si ergeva là, sul ciglio di quel burrone, davanti a quel braciere, davanti a quel delitto, come una potenza sepolcrale. Aveva l'urlo della bestia e il gesto d'una dea. La sua faccia, da dove uscivano imprecazioni, sembrava una maschera di fiamma. Nulla è sovrano come il lampo degli occhi inondati di lacrime.

Il suo sguardo fulminava l'incendio.

Il marchese ascoltava. Ciò che quella donna diceva cadeva sulla sua testa. Egli udiva un non so che di inarticolato e di straziante; singhiozzi più che parole.

- Ah, mio Dio! i miei figlioli! sono i miei figlioli! Aiuto! al fuoco!

al fuoco! al fuoco! al fuoco! Ma siete dei banditi, dunque! Ma non c'è proprio nessuno là dentro? Ma bruceranno, i miei figlioli! Ma è orribile! Giorgina! i miei figlioli! Alano! Gian Renato! Ma che significa questo? Sì, chi ha messo là dentro i miei figlioli? Dormono!

Sono pazza, io! E' una cosa impossibile! Aiuto!

Frattanto, nella Tourgue e sul pianoro c'era una grande agitazione.

Tutto il campo accorreva attorno al fuoco scoppiato proprio allora.

Gli assedianti dopo aver avuto a che fare con la mitraglia, avevano ora a che fare con l'incendio. Gauvain, Cimourdain, Guéchamp impartivano ordini. Che fare? Non avevano che qualche secchio d'acqua da attingere nel magro ruscello del burrone. L'angoscia andava crescendo. Tutto l'orlo del pianoro era coperto di visi sgomenti, che guardavano.

Quel che si vedeva era spaventoso.

Si guardava, e non si poteva farci nulla.

La fiamma, su per l'edera che aveva preso fuoco, aveva raggiunto il piano superiore. Lassù aveva trovato la soffitta colma di paglia, e vi si era precipitata. Adesso, tutta la soffitta ardeva. La fiamma ballava. Che cosa lugubre, la gioia della fiamma! Si sarebbe detto che un soffio scellerato attirasse quel rogo. Si sarebbe detto che lo spaventevole "Imânus" tutto intero fosse là, mutato in faville, vivente della vita omicida del fuoco, e che quell'anima mostruosa si fosse fatta incendio. Il piano della biblioteca non era ancora stato raggiunto; l'altezza del suo soffitto e lo spessore dei suoi muri ritardavano il momento in cui avrebbe preso fuoco; ma quel fatale minuto si avvicinava. Era lambito dall'incendio del primo piano e accarezzato da quello del terzo. Lo spaventoso bacio della morte lo sfiorava. Di sotto, una cantina di lava; di sopra, una volta di brace.

Si fosse aperto un foro nel pavimento, sarebbe stato il crollo nella cenere rossa; si fosse aperto un foro nel soffitto, sarebbe stato il seppellimento nei carboni ardenti. Gian Renato, Alano e Giorgina non si erano ancora risvegliati. Dormivano del sonno semplice e profondo dell'infanzia. Attraverso le ondate di fiamma e di fumo che a volta a volta coprivano e scoprivano le finestre, potevano essere scorti in quella grotta di fuoco, in fondo a un bagliore di meteora, tranquilli, graziosi, immobili, come tre bambini Gesù fiduciosi addormentati in un inferno. Un tigre avrebbe pianto scorgendo quelle rose in quella fornace, quelle culle in quella tomba.

La madre, intanto, si torceva le braccia.

- Al fuoco! grido al fuoco, io! Ma sono dunque tutti sordi, che non viene nessuno? mi bruciano i miei figlioli. Venite, dunque, uomini che siete laggiù! Sono giorni e giorni che cammino, ed ecco come li ritrovo! Al fuoco! aiuto! Angeli! e dire che sono angeli! Che cosa hanno fatto quegli innocenti? me, mi hanno fucilata, loro li bruciano!

Chi è che fa queste cose? Aiuto! salvate i miei bambini! non mi udite, forse? una cagna, si avrebbe pietà di una cagna! I miei figlioli! i miei figlioli! dormono! Ah! Giorgina! vedo da qui la sua pancettina, di quell'amore! Gian Renato! Alano! si chiamano così. Lo vedete pure che sono la loro mamma. E' una cosa abominevole quello che accade di questi tempi. Ho camminato notte e giorno, io. Stamane, anzi, ho parlato con una donna. Aiuto! aiuto! al fuoco! Sono tutti mostri, dunque! è un orrore! Il maggiore non ha cinque anni, la piccina non ne ha due. Vedo le loro gambette nude. Dormono, Vergine santissima! la mano del cielo me li restituisce e la mano dell'inferno me li riprende. E dire che ho camminato tanto! I miei figlioli, che ho nutrito col mio latte! e dire che mi credevo disgraziata perché non li trovavo! Abbiate pietà di me. Voglio i miei figlioli; mi occorrono i miei figlioli! Eppure sono proprio là dentro, in mezzo al fuoco!

Guardate questi miei poveri piedi come sono insanguinati! Aiuto! Non è possibile che ci siano sulla terra degli uomini e che si lascino morire così quei piccini! Aiuto! All'assassino! Cose simili non se ne vedono. Ah, briganti! che cos'è quella casa spaventosa? Me li hanno rubati per uccidermeli! Per la miseria di Cristo! voglio i miei figlioli, io! Oh! non so quel che farei, se no. Non voglio che muoiano! Aiuto! aiuto! aiuto! Oh, se dovessero morire così, ucciderei Dio!

Mentre si elevava quella terribile supplica materna, sul pianoro e nel burrone si udivano delle voci:

- Una scala!

- Non ce ne sono di scale!

- Acqua!

- Non ce n'è di acqua!

- Lassù, nella torre, al secondo piano, c'è una porta.

- E' di ferro.

- Sfondatela.

- Non si può.

E la madre raddoppiava i suoi appelli disperati:

- Al fuoco! Aiuto! Ma spicciatevi, dunque! Se no, uccidetemi! I miei figlioli! i miei figlioli! Ah, che fuoco orribile! Toglieteli di là dentro, o buttateci me.

Negli intervalli di quei clamori si sentiva lo scoppiettio tranquillo dell'incendio.

Il marchese si palpeggiò la tasca, vi toccò la chiave della porta di ferro. Allora, curvandosi sotto la volta per la quale era evaso, rientrò nel passaggio dal quale era appena uscito.

2.

DALLA PORTA DI PIETRA ALLA PORTA DI FERRO.

Tutto un esercito smarrito attorno a un salvataggio impossibile; quattromila uomini che non potevano recare aiuto a tre bambini. Così stavano le cose.

Scale non ce n'erano infatti. La scala mandata da Javené non era arrivata. Il braciere si allargava come un cratere che si apra.

Tentare di spegnerlo col filo d'acqua del burrone quasi secco era derisorio. Sarebbe stato come gettare un bicchiere d'acqua su un vulcano.

Cimourdain, Guéchamp e Radoub erano calati nel burrone; Gauvain era risalito nella sala del secondo piano della Tourgue, dove si trovava la pietra girevole, l'uscita segreta e la porta di ferro della biblioteca. Là era stata posta la miccia solforata accesa dall'"Imânus", di là era partito l'incendio.

Gauvain aveva condotto con sé venti zappatori. Non c'era altro tentativo da compiere che quello di sfondare la porta di ferro. Era spaventosamente ben chiusa.

Si cominciò a colpi di scure. Le scuri andarono a pezzi. Uno zappatore disse:

- L'acciaio è vetro contro un ferro simile.

La porta, infatti, era di ferro battuto e costituita di doppie lastre bullonate, avente ciascuna tre pollici di spessore.

Si ricorse a sbarre di ferro e si tentò di far leva sotto la porta. Le sbarre si spezzarono.

- Come fiammiferi, - disse uno zappatore.

Tetro, Gauvain mormorò:

- Soltanto una cannonata riuscirebbe a sfondare questa porta.

Bisognerebbe poter portare quassù un pezzo.

- E ancora... - disse lo zappatore.

Ci fu un attimo di scoraggiamento. Tutte quelle braccia impotenti si fermarono. Muti, vinti, costernati, quegli uomini tenevano gli occhi fissi sull'orribile porta incrollabile. Di sotto a essa passava un rosso riflesso. Dietro, l'incendio ingigantiva.

Lo spaventoso cadavere dell'"Imânus" era là, sinistro, vittorioso.

Ancora pochi minuti, forse, e tutto sarebbe crollato.

Che fare? Non c'era più alcuna speranza.

Gauvain, esasperato, l'occhio fisso sulla pietra girevole del muro e sull'uscita aperta, che aveva dato adito all'evasione, esclamò:

- Eppure il marchese di Lantenac se ne è andato proprio di qua.

- E di qua ritorna! - disse una voce.

E una testa canuta si profilò nel riquadro di sasso dell'uscita segreta.

Era il marchese.

Erano anni e anni che Gauvain non lo vedeva più da così vicino.

Indietreggiò.

Tutti gli altri, presenti a quella scena, rimasero nell'attitudine in cui si trovavano, pietrificati.

Il marchese teneva in mano una grossa chiave. Fece scostare, con un'altera occhiata, certi zappatori che gli stavano davanti, mosse diritto alla porta di ferro, si curvò sotto la volta e mise la chiave nella serratura. La serratura stridette, la porta si aprì. Si vide un gorgo di fiamme. Il marchese vi entrò.

Con piede fermo, vi entrò; a testa alta.

Tutti gli tenevano gli occhi dietro, rabbrividendo.

Il marchese non aveva fatto che pochi passi nella sala incendiata, che il pavimento di legno, minato dall'incendio e scosso dai suoi piedi, sprofondò dietro di lui e spalancò tra lui e la porta un precipizio.

Il marchese non volse neppure il capo. Proseguì. Scomparve nel fumo.

Non si vide più nulla.

Aveva potuto spingersi più avanti? O si era aperta sotto di lui una nuova voragine di fuoco? Che non fosse riuscito ad altro che a perdere se stesso? Non era possibile affermare alcunché. Chi guardava, non aveva davanti a sé che una muraglia di fumo e di fiamma. Morto o vivo, il marchese era al di là di quella muraglia.

3.

DOVE SI VEDONO RISVEGLIARSI I BIMBI CHE SI SONO VISTI RIADDORMENTARSI.

I tre piccini, frattanto, avevano finito per riaprire gli occhi.

L'incendio, che nella sala della biblioteca non era entrato ancora, proiettava sul soffitto un roseo riflesso. Era una specie di aurora, quella, che i bimbi ancora non conoscevano. La guardarono. Giorgina la contemplò.

L'incendio spiegava tutti i suoi splendori. L'idra nera e il dragone scarlatto apparivano nella deformità del fumo superbamente cupo e vermiglio. Lunghe faville saettavano lontano, solcando l'ombra. Si sarebbero dette le comete in lotta, rincorrentisi a vicenda. Il fuoco è una prodigalità. I bracieri sono colmi di scrigni, che spargono al vento. Non per nulla il carbone è identico al diamante. Nel muro del terzo piano s'erano prodotte delle crepe, attraverso le quali la brace versava nel burrone cascate di pietre preziose. I mucchi di paglia e di avena che ardevano nella soffitta cominciavano a scorrere giù per le finestre in cascate di polvere d'oro: i chicchi d'avena diventavano ametiste, i fuscelli di paglia diventavano carbonchi.

- Bello! - esclamò Giorgina.

Si erano, tutt'e tre, messi a sedere.

- Ah! - gridò la madre. - Si svegliano!

Gian Renato si alzò. Allora si alzò Alano. E allora si alzò Giorgina.

Gian Renato si stirò le braccia, andò verso la finestra, e disse: - Ho caldo.

- "Callo", - ripeté Giorgina.

La madre li chiamò:

- Figli miei! Renato! Alano! Giorgina!

I bimbi si guardavano attorno. Cercavano di capire. Là dove gli uomini sono atterriti, i bimbi sono curiosi. Chi è facile a stupirsi, difficilmente si spaventa. L'ignoranza ha in sé una certa qual dose d'intrepidezza. Hanno così poco diritto all'inferno, i bambini, che, se lo vedessero, lo ammirerebbero.

La madre ripeté:

- Renato! Alano! Giorgina!

Gian Renato volse la testa. Quella voce lo tolse dalla sua distrazione. Hanno la memoria corta, i bimbi, ma il ricordo rapido.

Per loro, tutto il passato è ieri. Gian Renato vide sua madre. Trovò la cosa semplicissima, e, circondato com'era di cose strane, avvertendo un vago bisogno di sostegno, gridò:

- Mamma!

- Mamma! - disse Alano.

- "Mam", - disse Giorgina.

E sporse le minuscole braccia.

E la madre urlò: - Figli miei!

Tutti e tre si accostarono alla finestra. Per fortuna, il braciere non era da quella parte.

- Ho troppo caldo, - disse Gian Renato.

E soggiunse:

- Scotta.

Poi cercò con gli occhi sua madre.

- Ma vieni, dunque, mamma!

- "Dunte, mam!" - ripeté Giorgina.

La madre, scapigliata, lacera, sanguinante, si era lasciata rotolare di cespuglio in cespuglio nel burrone. Qui erano Cimourdain e Guéchamp, non meno impotenti, là sotto, che Gauvain in alto. I soldati, esasperati d'essere inutili, formicolavano loro attorno. Il calore era insopportabile; nessuno lo avvertiva. Tutti osservavano lo strapiombo del ponte, l'altezza degli archi, l'elevazione dei piani, l'inaccessibilità delle finestre e la necessità di agire senza indugio. Tre piani da superare, e nessun mezzo per arrivarci. Radoub, ferito, una sciabolata alla spalla, un orecchio strappato, grondante di sudore e di sangue, era accorso. Vide Michelina Fléchard. - Toh! - disse. - La fucilata! Siete dunque resuscitati? - I miei figlioli! - disse la madre. - E' giusto, - rispose Radoub. - Non abbiamo il tempo di occuparci dei resuscitati. - E si mise a scalare il ponte. Inutile tentativo. Cacciò le unghie nel sasso, si arrampicò qualche momento; ma le pietre erano lisce, non c'era una rottura, non un'emergenza; la muraglia era perfettamente levigata come un muro nuovo. Radoub ricadde. L'incendio continuava, spaventoso. Nel riquadro della finestra, ormai tutto arroventato, si scorgevano le tre bionde testoline. Allora Radoub squadrò il pugno al cielo, quasi vi cercasse qualcuno con lo sguardo: - Che bel modo d'agire, questo, buon Dio! - La madre, ginocchioni, abbracciava e baciava le pile del ponte, gridando: - Grazia!

Sordi schianti si aggiungevano al crepitìo del braciere. I vetri degli armadi della biblioteca si spaccavano e cadevano fragorosamente. Era evidente che l'ossatura dell'edificio cedeva; ma non c'era forza umana che potesse farci alcunché. Ancora un momento, e tutto si sarebbe inabissato. Non si attendeva più altro che la catastrofe. Si udivano le vocine ripetere: - Mamma! Mamma! - Tutti erano al parossismo dello spavento.

D'un tratto, alla finestra vicina a quella dove stavano i tre piccini, sullo sfondo purpureo del fiammeggiamento, apparve un'alta figura di uomo.

Tutte le teste si alzarono. Tutti gli occhi si fecero fissi. C'era un uomo, lassù, c'era un uomo nella sala della biblioteca; c'era un uomo nella fornace. Quella sagoma spiccava in nero sulla vampa; ma aveva i capelli canuti. Tutti riconobbero il marchese di Lantenac.

Questi scomparve; poi ricomparve.

Lo spaventevole vecchio si mostrò davanti alla finestra, maneggiando una scala enorme. Era la scala di salvataggio, deposta nella biblioteca, che era andato a cercare lungo l'altra parete, e che aveva trascinata fino alla finestra. L'afferrò per una estremità, e, con la magistrale agilità di un atleta, la fece scivolare fuori della finestra sull'orlo del davanzale, fino a toccare il fondo del burrone.

Radoub, là sotto, smarrito, tese le mani, ricevette la scala, la strinse fra le braccia, e gridò: - Viva la repubblica!

Il marchese rispose: - Viva il re!

E Radoub brontolò: - Puoi ben gridare quello che ti garba, e dire anche sciocchezze, se vuoi: tu sei il buon Dio!

La scala era collocata. Tra la sala incendiata e la terra era stabilita la comunicazione. Venti uomini accorsero, Radoub prima di tutti, e in un batter d'occhio si scagliarono dall'alto in basso, con la schiena agli scalini, come i manovali quando hanno da trasferire in alto o in basso delle pietre. Sulla scala di legno si stabilì in tal modo una scala di uomini. Radoub, in cima alla scala, toccava la finestra, ed era, egli solo, con la faccia rivolta all'incendio.

Il piccolo esercito, sparso nelle brughiere e sui pendii, si accalcava, sconvolto da tutte quelle emozioni, sul pianoro, nel burrone, sulla piattaforma della torre.

Il marchese scomparve, per riapparire subito dopo portando uno dei bimbi.

Ci fu un immenso battere di mani.

Era il primo che il marchese aveva acciuffato a caso: Alano.

Alano gridò: - Ho paura.

Il marchese passò Alano a Radoub, che lo passò, dietro e di sotto a sé a un soldato, che a sua volta lo passò a un altro; e mentre Alano, spaventatissimo e urlante arrivava così di braccia in braccia fino in fondo alla scala, il marchese, scomparso di nuovo un istante, ritornò alla finestra con Gian Renato, che ributtava e piangeva, e che batté Radoub nel momento in cui il marchese lo passava al sergente.

Il marchese rientrò nella sala piena di fiamme. Giorgina era rimasta sola. Andò da lei. Lei sorrise. Quell'uomo di granito avvertì qualche cosa di umido che gli saliva agli occhi. Domandò: - Come ti chiami, tu?

- "Orgina!" - disse lei.

La prese in braccio; ella sorrideva sempre, e, nel momento in cui la consegnava a Radoub, quella coscienza così alta e così oscura provò l'abbagliamento dell'innocenza. Il vegliardo diede alla bimba un bacio.

- E' la frugolina! - dissero i soldati, e anche Giorgina discese, di braccia in braccia, fino a terra, fra grida di adorazione. Tutti applaudivano, battevano i piedi. I vecchi granatieri singhiozzavano, e lei sorrideva loro.

La madre era ai piedi della scala, anelante, fuori di sé, ebbra di tutto quell'inatteso, gettata senza transizione dall'inferno in paradiso. L'eccesso di gioia fa male al cuore a suo modo. Protese le braccia. Ricevette da prima Alano, poi Gian Renato, poi Giorgina, e li coprì alla rinfusa di baci; poi scoppiò a ridere, e cadde svenuta.

Si alzò un grande grido:

- Tutti sono salvi!

Tutti erano salvi infatti, eccezion fatta del vecchio.

Nessuno, però, ci pensava; forse nemmeno lui.

Rimase qualche secondo, sovrappensiero, al davanzale della finestra, quasi volesse lasciare al vortice di fuoco il tempo di prendere una decisione. Poi, senza affrettarsi, lentamente, fieramente, scavalcò il davanzale della finestra, e, senza voltarsi, diritto in piedi, voltando il dorso agli scalini, con l'incendio alle spalle e davanti a sé il precipizio, si mise a discendere la scala in silenzio, con fantomatica maestà. Coloro che erano sulla scala si precipitarono giù, tutti i presenti trasalirono, attorno a quell'uomo che arrivava dall'alto, tutti diedero indietro, come respinti da un sacro orrore, quasi fosse una visione. Egli, intanto, si sprofondava gravemente nell'ombra che aveva innanzi. Mentre gli altri indietreggiavano, egli si accostava loro. Il suo marmoreo pallore non aveva una grinza, il suo sguardo da spettro non aveva un barbaglio; a ogni passo che faceva verso quegli uomini le cui pupille sbigottite si fissavano su di lui nelle tenebre, egli sembrava più grande. La scala vibrava e risuonava sotto il lugubre suo passo: si sarebbe detto la statua del Commendatore che ridiscendesse nel sepolcro.

Quando il marchese fu giù, quando ebbe toccato l'ultimo gradino e posto il piede a terra, una mano gli si abbatté sul bavero. Egli si voltò.

- Ti arresto! - disse Cimourdain.

- Ti approvo! - disse Lantenac.

 

LIBRO SESTO.

IL COMBATTIMENTO HA LUOGO DOPO LA VITTORIA.

1.

LANTENAC PRESO.

Il marchese era infatti ridisceso nel sepolcro.

Fu condotto via.

La cripta segreta del pianterreno della Tourgue fu immediatamente riaperta sotto il severo occhio di Cimourdain. Vi fu messa una lampada, una brocca d'acqua e una pagnotta da soldato; vi fu gettata una balla di paglia, e, meno di un quarto d'ora dopo il minuto in cui la mano del prete aveva afferrato il marchese, la porta della segreta si richiudeva su Lantenac.

Fatto questo, Cimourdain andò a trovare Gauvain; in quel momento alla lontana chiesa di Parigné scoccarono le undici di sera. Cimourdain disse a Gauvain:

- Ora convocherò la corte marziale. Tu non ne farai parte. Tu sei un Gauvain, e un Gauvain è Lantenac. Gli sei troppo prossimo parente per essergli giudice, e io biasimo Egalité di aver giudicato il Capeto. La corte marziale sarà composta da tre giudici, un ufficiale, il capitano Guéchamp, un sottufficiale, il sergente Radoub, e io, che presiederò.

Non c'è più nulla che ti riguardi, in tutto questo. Ci conformeremo al decreto della Convenzione; ci limiteremo a constatare l'identità dell'ex marchese di Lantenac. Domani la corte marziale, dopo domani la ghigliottina. La Vandea è morta.

Gauvain non ribatté parola, e Cimourdain, preoccupato di ciò che aveva da fare di più importante, lo lasciò. Doveva fissare un orario e scegliere la località. Aveva, come Lequinio a Granville, come Tallien a Bordeaux, Challier a Lione, e Saint-Just a Strasburgo, l'abitudine, ritenuta di buon esempio, d'assistere di persona alle esecuzioni. Il giudice andava a veder lavorare il boia; usanza che il Terrore del '93 prese a prestito dai parlamenti di Francia e dalla inquisizione di Spagna.

Anche Gauvain era preoccupato.

Soffiava sulla foresta un vento freddo. Gauvain, lasciando che Guéchamp desse gli ordini necessari, si recò nella sua tenda, rizzata nel prato al margine del bosco, ai piedi della Tourgue, e vi prese il mantello a cappuccio, che indossò, avvolgendosene. Quel mantello era orlato dal semplice nastrino, che, secondo la moda repubblicana, sobria di fregi, indicava il comandante in capo. Si mise a passeggiare avanti e indietro in quel prato insanguinato, dove aveva avuto inizio l'assalto. Era solo. L'incendio, cui più nessuno, ormai, faceva caso, continuava. Radoub era accanto ai bimbi e alla madre, quasi materno quanto lei. Il castelletto del ponte terminava di ardere; gli zappatori sorvegliavano il fuoco; si scavavano fosse, si seppellivano i morti, si medicavano i feriti. La ridotta era stata demolita. Camere e scale venivano sgombrate dai cadaveri. Si pulivano i luoghi della carneficina. Si spazzava via l'orribile mucchio d'immondezze della vittoria. I soldati sbrigavano con militare rapidità, quelle che si potrebbero chiamare le faccende di dopo la battaglia. Di tutto questo, Gauvain non vedeva nulla.

Era tanto se, tratto tratto, nel mezzo della sua meditazione, gettava uno sguardo al posto di guardia della breccia, raddoppiato per ordine del Cimourdain.

La scorgeva, quella breccia, dal cantuccio di prato dove si era come rifugiato, a circa duecento passi. Vedeva quella nera apertura.

L'attacco era cominciato di là, e non erano trascorse tre ore. Di là era entrato, lui, Gauvain, nella torre. Era quello il pianterreno dove sorgeva la ridotta; ed era in quel pianterreno che si apriva la porta della segreta dove era il marchese. Quel posto di guardia della breccia sorvegliava quella segreta.

Al tempo stesso che il suo sguardo scorgeva vagamente quella breccia, il suo orecchio udiva confusamente risuonare, come un bicchiere che tintinna, queste parole: "Domani la corte marziale, dopo domani la ghigliottina".

L'incendio, che era stato isolato, e sul quale gli zappatori lanciavano tutta l'acqua che avevano potuto procurarsi, non si spegneva senza riluttanza e gettava fiamme intermittenti. Tratto tratto si udivano scrosciare i soffitti e precipitarsi l'uno sull'altro i piani crollanti. Turbini di faville se ne volavano allora via come da una torcia agitata; una fulminea vampata rendeva visibile l'estremo orizzonte, e l'ombra della Tourgue, subito ingigantita, si allungava fino alla foresta.

Gauvain andava e veniva a lenti passi in quell'ombra e davanti alla breccia dell'assalto. A tratti, incrociava le mani dietro la testa coperta dal cappuccio di guerra. Meditava.

2.

GAUVAIN PENSOSO.

Imperscrutabile, quella sua meditazione.

Si era operato un inaudito cambiamento a vista.

Il marchese di Lantenac si era trasfigurato.

Gauvain era stato testimone di tale trasfigurazione.

Non aveva mai creduto che cose simili potessero risultare da una complicazione d'incidenti, quali che fossero. Non avrebbe mai, neppure in sogno, immaginato che potesse accadere alcunché di simile.

L'imprevisto, quel non so che di sdegnoso che si trastulla con l'uomo, aveva afferrato Gauvain e lo teneva stretto. Gauvain aveva davanti a sé l'impossibile divenuto reale, visibile, palpabile, inevitabile, inesorabile.

Che ne pensava Gauvain?

Non era il caso di tergiversare; bisognava concludere.

Gli era stato posto un problema; non poteva sottrarsi con la fuga.

Proposto da chi quel problema?

Dagli avvenimenti.

E non dagli avvenimenti soltanto.

Giacché, quando gli avvenimenti, che sono variabili, ci pongono un problema, la giustizia, che è immutevole, ci ingiunge di risolverlo.

Dietro la nube che ci proietta la sua ombra, c'è la stella, che ci manda la sua luce.

Noi non possiamo sottrarci alla luce meglio che all'ombra.

Gauvain subiva un interrogatorio.

Compariva davanti a qualcuno.

Davanti a qualcuno di temibile.

La sua coscienza.

Egli sentiva vacillare in sé ogni cosa. Le risoluzioni più salde, le promesse più fermamente fatte, le decisioni più irrevocabili, tutto traballava nel profondo della sua volontà.

Ce ne sono di terremoti d'anima.

Più meditava su quanto aveva appena veduto, più si sentiva sconvolto.

Gauvain, repubblicano, credeva d'essere, ed era, nell'assoluto. Si era proprio allora rivelato un assoluto superiore.

Ai di sopra dell'assoluto rivoluzionario, c'è l'assoluto umano.

Ciò che accadeva non poteva essere eluso. Il fatto era grave; Gauvain faceva parte di questo fatto, ne era parte integrante; non se ne poteva sottrarre; e sebbene Cimourdain gli avesse detto: "Ciò non ti riguarda più", egli sentiva in sé qualche cosa di simile a ciò che prova un albero nel momento in cui viene strappato dalla sua radice.

Ogni uomo ha una base. Una scossa a questa base causa un turbamento profondo. Gauvain avvertiva questo turbamento.

Si stringeva la testa fra le mani, come per farne zampillare la verità. Precisare una situazione simile non era facile. Nulla di più malagevole del semplificare il complesso. Egli aveva davanti a sé terribili cifre, di cui bisognava fare il totale. Che vertigine, addizionare il destino! Egli tentava di farlo; cercava di rendersi conto; si sforzava di raccozzare le sue idee, di disciplinare le resistenze che avvertiva in sé, e di ricapitolare i fatti.

Li esponeva a se stesso.

A chi non è mai capitato di farsi un rapporto e d'interrogarsi in una circostanza suprema, sull'itinerario da seguire, sia per procedere che per indietreggiare?

Gauvain aveva assistito a un prodigio.

Contemporaneamente al combattimento terrestre, aveva avuto luogo un combattimento celeste.

Il combattimento del bene contro il male.

Un cuore spaventoso era stato vinto.

Dato l'uomo con tutto ciò che è in lui di cattivo, la violenza, l'errore, l'accecamento, la malsana caparbietà, l'orgoglio, l'egoismo, Gauvain aveva veduto un miracolo.

La vittoria dell'umanità sull'uomo.

L'umanità aveva vinto l'inumano.

E con quale mezzo? in che modo? Come aveva atterrato un colosso materiato di collera e di odio? di quali armi si era valsa? di quali macchine da guerra? La culla.

Su Gauvain era passato un barbaglio. In piena guerra sociale, in piena conflagrazione di tutte le inimicizie e di tutte le vendette, nel momento più oscuro e più furibondo del tumulto, nell'ora in cui il delitto dava tutta la sua fiamma e l'odio tutte le sue tenebre, in quel punto della lotta in cui ogni cosa diventa proiettile, in cui la mischia è tanto funesta, che non si sa più dove sia il giusto, dove sia l'onesto, dove sia il vero, bruscamente, l'Ignoto, il misterioso avvisatore delle anime aveva fatto risplendere, al di sopra delle luci e delle ombre umane, la grande luce eterna.

Al di sopra del cupo duello tra il falso e il relativo, giù negli abissi, era apparsa di colpo la faccia della verità.

Era prontamente intervenuta la forza dei deboli.

Si erano visti trionfare tre poveri esserini appena nati, incoscienti, orfani, abbandonati, soli, balbettanti, sorridenti, aventi contro di sé la guerra civile, il taglione, la spaventosa logica delle rappresaglie, l'assassinio, la carneficina, il fratridicio, la rabbia, il rancore, tutte le gòrgoni, insomma. Si era veduto l'aborto e la sconfitta d'un infame incendio, incaricato di commettere un delitto.

Si erano viste sconcertate e mandate a vuoto le feroci premeditazioni.

Si erano visti l'antica ferocia feudale, il vecchio disdegno inesorabile, la pretesa esperienza delle necessità della guerra, la ragion di Stato, tutti gli arroganti partiti presi della feroce vecchiezza svanire davanti all'azzurro sguardo di coloro che non hanno ancora vissuto. Nulla di più semplice, giacché chi non ha ancora vissuto non ha compiuto il male, è la giustizia, è la verità, è il candore; e gli immensi angeli del cielo son bimbi.

Utile spettacolo; consiglio; lezione. I frenetici combattenti della guerra senza pietà avevano improvvisamente visto ergersi, di fronte a tutti i misfatti, a tutti gli attentati, a tutti i fanatismi, all'assassinio, alla vendetta che accende i roghi, alla morte che sopraggiunge con una torcia in mano, al di sopra della enorme lezione dei delitti, l'onnipotente innocenza.

E l'innocenza aveva vinto.

E si poteva dire: "No, la guerra civile non esiste, la barbarie non esiste, l'odio non esiste, il delitto non esiste, le tenebre non esistono; per disperdere tali spettri, basta questa aurora:

l'infanzia".

Mai, in nessun combattimento, Satana era stato più visibile; e Dio neppure.

Quel combattimento aveva avuto per arena una coscienza.

La coscienza di Lantenac.

E adesso ricominciava, forse ancora più accanito e più decisivo, in un'altra coscienza.

La coscienza di Gauvain.

Che campo di battaglia è mai l'uomo!

Tutti noi siamo alla mercé di quegli dèi, di quei mostri, di quei giganti che sono i nostri pensieri.

Spesso, questi terribili belligeranti calpestano la nostra anima.

Gauvain meditava.

Il marchese di Lantenac, accerchiato, bloccato, condannato, posto fuori legge, stretto da presso come la belva nel circo come il chiodo nella tenaglia, chiuso nella sua tana diventata la sua prigione, stretto da ogni parte da una muraglia di ferro e di fuoco, era riuscito a evadere. Aveva compiuto il miracolo di scappare. Era riuscito in quel capolavoro, il più difficile di tutti in una guerra simile: la fuga. Aveva ripreso possesso della foresta per tornarvisi a trincerare, del paese per combattervi, dell'ombra per scomparirvi. Era ridivenuto il terribile randagio, il sinistro errabondo, il capitano degli invisibili, il capo degli uomini sotterranei, il padrone dei boschi. Gauvain aveva la vittoria, ma Lantenac aveva la libertà. Aveva ormai la sicurezza Lantenac, l'illimitata corsa davanti a sé, l'inesauribile scelta dei rifugi. Era inafferrabile, introvabile, inaccessibile. Il leone era stato preso in trappola, e ne era uscito.

Orbene; quell'uomo vi era rientrato.

Il marchese di Lantenac aveva volontariamente, spontaneamente, di sua piena elezione, lasciato la foresta, l'ombra, la sicurezza, la libertà per rientrare nel più spaventoso pericolo, intrepidamente; una prima volta, Gauvain l'aveva veduto precipitarsi nell'incendio a rischio di inabissarvisi, una seconda volta discendere quella scala che lo restituiva ai suoi nemici, e che, scala di salvataggio per gli altri, era per lui scala di perdizione.

E perché l'aveva fatto?

Per salvare tre bimbi.

E che ne avrebbe fatto, adesso, di quell'uomo?

L'avrebbero ghigliottinato.

Così quell'uomo; per tre bimbi, suoi? no; della sua famiglia? no; della sua casta? no; per tre piccoli poveri, i primi venuti, trovatelli, ignoti, straccioni, a piedi nudi, quel gentiluomo, quel principe, quel vecchio, fuggito, libero, vincitore, giacché l'evasione è un trionfo, aveva tutto arrischiato, tutto compromesso, tutto rimesso in discussione, e alteramente, al tempo stesso che restituiva i bambini, aveva recato la propria testa e questa testa, fino a quel momento terribile, adesso augusta, egli l'aveva offerta.

E che si stava per fare?

Accettarla.

Il marchese di Lantenac aveva avuto la scelta tra la vita altrui e la propria; in quella superba opzione, aveva scelto la propria morte.

E si stava per concedergliela.

Si stava per ucciderlo.

Che guiderdone all'eroismo!

Che rimpicciolimento per la repubblica!

Mentre l'uomo dei pregiudizi e delle servitù, prontamente trasformato, rientrava nell'umanità, loro, gli uomini della liberazione e dell'affrancamento, sarebbero rimasti nella guerra civile, nella pratica del sangue, nel fratridicio.

E' l'alta legge divina di perdono, di abnegazione, di redenzione, di sacrificio sarebbe esistita per i combattenti dell'errore e non per i soldati della verità!

Come! non fare a gara di magnanimità! rassegnarsi a quella sconfitta d'essere il più debole essendo il più forte, d'essere l'omicida essendo il vincitore, e di far dire che ci sono dalla parte della monarchia quelli che salvano i bambini, e dalla parte della repubblica quelli che ammazzano i vecchi!

Si sarebbe visto quel grande soldato, quel potente ottuagenario, quel combattente disarmato, rubato più che preso, acciuffato in piena buona azione, ammanettato col suo permesso, con la fronte ancora imperlata del sudore d'una grandiosa dedizione, salire i gradini del patibolo come si salgono i gradini di una apoteosi! E si sarebbe messo sotto la mannaia quella testa, attorno alla quale avrebbero alitato, supplici, le tre animucce degli angioletti salvati! e, davanti a quel sacrificio infamante per i carnefici, si sarebbe visto il sorriso sulla faccia di quell'uomo, e sulla faccia della repubblica il rossore!

E tutto questo si sarebbe compiuto in presenza di lui, Gauvain, comandante!

E, in condizioni di poterlo impedire, egli se ne sarebbe astenuto! Si sarebbe accontentato di quell'altero allontanamento: "Ciò non ti riguarda più", né si sarebbe detto, che, in un caso simile, abdicazione è complicità? E non si sarebbe accorto che in un'azione enorme come quella, tra colui che fa e colui che lascia fare, il peggiore è colui che lascia fare, in quanto è il più vile!

Ma non l'aveva promessa, quella morte? Lui, Gauvain, l'uomo clemente, non aveva forse dichiarato che Lantenac faceva eccezione alla clemenza, e che avrebbe consegnato Lantenac a Cimourdain?

Era in debito, lui, di quella testa. Orbene la pagava, e tutto era fatto.

Ma si trattava proprio della stessa testa?

Fino a quel momento Gauvain non aveva veduto in Lantenac che il barbarico combattente, il fanatico della regalità e del feudalesimo, il massacratore di prigionieri, l'assassino scatenato dalla guerra, l'uomo sanguinario. Quell'uomo, egli non lo temeva. Quel proscrittore egli lo avrebbe proscritto. Quell'implacabile lo avrebbe trovato implacabile. Nulla di più semplice; la strada era tracciata e lugubremente facile da seguire; tutto era previsto: si ucciderà chi uccide; si era nella linea retta dell'orrore. Inopinatamente quella linea retta si era spezzata; una svolta imprevista rivelava un orizzonte nuovo; si verificava una metamorfosi. Entrava in scena un Lantenac inatteso. Dal mostro si sprigionava l'eroe, più ancora che un eroe, un uomo. Più ancora che un'anima, un cuore. Gauvain non aveva più davanti a sé un uccisore, ma un salvatore. Gauvain era stato atterrato da un torrente di luce celeste. Lantenac lo aveva colpito con un fulmine di bontà.

E Lantenac trasfigurato non avrebbe trasfigurato Gauvain! Come! quello sprazzo di luce non avrebbe avuto il suo equivalente! L'uomo del passato sarebbe andato avanti, e l'uomo dell'avvenire indietro! L'uomo delle barbarie e delle superstizioni avrebbe improvvisamente messo le ali, e avrebbe volato, e avrebbe guardato strisciare sotto di sé, nel fango e nelle tenebre, l'uomo dell'ideale! Gauvain sarebbe rimasto a ventre in giù nella vecchia carreggiata feroce, mentre Lantenac sarebbe asceso nel sublime a correre le avventure!

Ancora una cosa.

E la famiglia?

Il sangue che stava per versare, (poiché lasciarlo versare è lo stesso che versarlo), non era forse il suo proprio sangue, di lui, Gauvain?

Suo nonno era morto, ma il suo prozio viveva; e quel prozio era il marchese di Lantenac. Forse che il fratello che era nella tomba non si sarebbe rizzato per impedire all'altro di entrarvi? E non ordinava egli forse al nipote di rispettare ormai quella corona di capelli bianchi, sorella della sua propria aureola? Non c'era forse lì, tra Gauvain e Lantenac, lo sguardo sdegnato di uno spettro?

Aveva forse per scopo di snaturare l'uomo, la rivoluzione? Era forse stata fatta per spezzare la famiglia, per soffocare l'umanità?

Tutt'altro! L'89 era sorto per affermare quelle supreme realtà, e non per negarle. Rovesciare le bastiglie significa liberare l'umanità; abolire il feudalesimo significa fondare la famiglia. E dal momento che l'autore è il punto di partenza dell'autorità, e che l'autorità è insita nell'autore, non c'è altra autorità che la paternità. Da ciò la legittimità dell'ape regina, che crea il suo popolo, e che, essendo madre, è regina; da ciò l'assurdità del re-uomo, che, non essendo il padre, non può essere il padrone; da ciò la soppressione del re, la repubblica. Che cos'è tutto questo? La famiglia, l'umanità, la rivoluzione. La rivoluzione è l'avvento del popolo; e, in fondo, il Popolo è l'Uomo.

Si trattava adesso di sapere se, dal momento che Lantenac era rientrato nell'umanità, lui, Gauvain, doveva rientrare nella famiglia.

Si trattava di sapere se lo zio e il nipote si sarebbero raggiunti nella luce suprema, o se, a un progresso dello zio, avrebbe corrisposto un indietreggiamento del nipote.

La questione, in quel patetico dibattito di Gauvain con la sua coscienza, pareva porsi in tali termini, e la soluzione pareva scaturire da se stessa: salvare Lantenac.

Sì. Ma la Francia?

A questo punto, il vertiginoso problema mutava faccia di punto in bianco.

Come! La Francia era agli estremi! La Francia era tradita, aperta, smantellata! non aveva più fossato, poiché la Germania varcava il Reno; non aveva più mura, poiché l'Italia scavalcava le Alpi e la Spagna i Pirenei. Le rimaneva il grande abisso, l'Oceano. Aveva dalla sua la voragine. Poteva addossarvisi, e, gigantesca, appoggiata a tutto il mare, combattere tutta la terra. Situazione, dopo tutto, inespugnabile. Ebbene, no, tale situazione stava per farle difetto, giacché quell'Oceano non era più suo. C'era l'Inghilterra in quell'Oceano. L'Inghilterra, è vero, non sapeva come passare. Orbene, un uomo stava per gettarle il ponte, un uomo stava per tenderle la mano, un uomo stava per dire a Pitt, a Craig, a Cornwallis, a Dundas, ai pirati: "Venite!". Un uomo stava per gridare: "Inghilterra, prendi la Francia!". E quest'uomo era il marchese di Lantenac.

Quest'uomo lo avevano preso. Dopo tre mesi di caccia, di inseguimento, di accanimento, finalmente se ne erano impadroniti. La mano della rivoluzione si era proprio allora abbattuta sul maledetto; il pugno annodato del '93 aveva afferrato per il bavero l'assassino realista; grazie a uno di quegli effetti della misteriosa premeditazione che si occupa dal cielo delle cose umane, quel parricida attendeva adesso il suo castigo nella sua propria segreta di famiglia. L'uomo feudale era nella muda feudale; le pietre del suo castello si ergevano contro di lui e si chiudevano sopra di lui, e colui che voleva consegnare il suo paese al nemico era consegnato dalla sua stessa casa ai suoi avversari. Che fosse stato lo stesso Dio a far tutto questo, era evidente. L'ora della giustizia era scoccata; la rivoluzione aveva fatto prigioniero quel nemico pubblico; egli non poteva più combattere, non poteva più lottare, non poteva più nuocere. In quella Vandea, dove c'erano tante braccia, l'unico cervello era lui; finito lui, la guerra civile era finita. Era preso: tragico e felice scioglimento. Dopo tanti massacri e tante carneficine, eccolo immobilizzato, l'uomo che aveva ucciso; toccava a lui morire, adesso.

E si sarebbe trovato qualcuno per salvarlo?

Cimourdain, che è quanto dire il '93, teneva in pugno Lantenac, che è quanto dire la monarchia, e si sarebbe trovato qualcuno per strappare quella preda da quel pugno di bronzo? Lantenac, l'uomo in cui si concentrava tutto quel fascio di flagelli, che si dicono il passato, il marchese di Lantenac era nella tomba, la pesante porta eterna si era richiusa su di lui, e sarebbe venuto qualcuno, dal di fuori, a tirarne indietro il chiavistello? Quel malfattore sociale era morto, con lui erano morte la rivolta, la lotta fratricida, la guerra bestiale, e qualcuno lo avrebbe resuscitato?

Oh! come avrebbe riso quella testa di morto!

Come quello spettro avrebbe detto: "Sta bene, eccomi vivo, imbecilli!".

Come si sarebbe rimesso alla sua opera orrenda! come si sarebbe rituffato, implacabile e gaudioso, nella voragine dell'odio e della guerra, Lantenac! come si sarebbe tornato a vedere, fin dal giorno dopo, case arse, prigionieri massacrati, feriti soppressi, donne fucilate!

E non se la esagerava forse un pochino, dopo tutto, Gauvain, quell'azione che lo affascinava?

Tre bambini erano perduti; Lantenac li aveva salvati.

Ma chi li aveva perduti?

Non era forse stato Lantenac?

Chi aveva collocato quelle culle in quell'incendio?

Non era forse stato l'"Imânus"?

Ma chi era l'"Imânus"?

Il luogotenente del marchese.

Il responsabile è sempre chi comanda.

L'incendiario e l'assassino era dunque Lantenac.

Che cosa aveva compiuto di tanto ammirevole, dunque?

Non aveva persistito. Null'altro.

Dopo aver architettato il delitto ne era indietreggiato. Aveva fatto orrore a se stesso. Il grido della madre aveva risvegliato in lui quel fondo di vecchia pietà umana, specie di sedimento della vita universale, che si ritrova in tutte le anime, anche nelle più fatali.

A quel grido, egli era ritornato sui suoi passi. Dalla notte in cui stava sprofondando, era retrocesso verso la luce. Dopo aver perpetrato il delitto, lo aveva disfatto. Tutto il suo merito stava in questo:

non essere stato un mostro fino in fondo.

E per così poco, restituirgli tutto! rendergli lo spazio, i campi, le pianure, l'aria, la luce! rendergli le foreste, di cui si sarebbe servito per il banditismo; rendergli la libertà, di cui si sarebbe valso in favore della servitù; rendergli la vita, che avrebbe impiegato per la morte.

Quanto a cercare d'intendersi con lui, quanto a voler venire a trattative con quell'anima altera, quanto a proporgli la libertà a certe condizioni, quanto a chiedergli se avrebbe consentito, per aver salva la vita, ad astenersi per l'avvenire da ogni ostilità e da ogni rivolta, che errore sarebbe stato! Gli si sarebbe innanzi tutto dato un vantaggio enorme; poi si sarebbe andati a dar di cozzo contro un disdegno da non dirsi; e infine Lantenac avrebbe schiaffeggiato la domanda con la risposta, dicendo: "Tenete le vergogne per voi.

Uccidetemi!".

Nulla da fare, infatti, con un tal uomo, se non ucciderlo o metterlo in libertà. Era un uomo fatto a picco, sempre pronto a involarsi o a sacrificarsi, aquila e precipizio di se stesso. Anima strana.

Ucciderlo? che ansietà! Liberarlo? che responsabilità!

Salvo che fosse Lantenac, tutto sarebbe stato da ricominciare, con la Vandea, come con l'idra fin tanto che non le viene mozzata la testa.

In un batter d'occhio, e con una corsa da meteora, tutta la fiamma, spenta dalla scomparsa di quell'uomo, si sarebbe riaccesa. Lantenac non si sarebbe riposato finché non avesse messo in atto il piano esecrando di porre, come il coperchio di una tomba, la monarchia sulla repubblica e l'Inghilterra sulla Francia. Salvare Lantenac era lo stesso che sacrificare la Francia; la vita di Lantenac era la morte d'una folla d'esseri innocenti, uomini, donne, bambini, riafferrati dalla guerra civile; era lo sbarco degli inglesi, l'indietreggiare della rivoluzione, le città saccheggiate, il popolo straziato, la Bretagna insanguinata, la preda restituita all'artiglio. E Gauvain, in mezzo a tutti quegli incerti bagliori, a tutti quei barbagli di luce contraddittori, vedeva vagamente abbozzarsi nella sua fantasticheria e porglisi innanzi questo problema: la messa in libertà della tigre.

Poi la faccenda riappariva sotto il suo primitivo aspetto. La pietra di Sisifo, che altro non è che il contrasto dell'uomo con se stesso, ricadeva: era proprio una tigre Lantenac?

Tigre era stato, forse; ma lo era tuttavia? Gauvain subiva quelle vertiginose spirali della mente sempre ritornante su se stessa, che rendono il pensiero simile a un còlubro. Decisamente, era mai possibile, anche dopo esame, negare il sacrificio di Lantenac, la sua stoica abnegazione, il superbo suo disinteresse? Come! attestare l'umanità in presenza di tutte le fauci spalancate della guerra civile! come! apportare la verità superiore in mezzo al conflitto delle verità inferiori! come! provare che al di sopra della regalità, al di sopra delle rivoluzioni, al di sopra delle questioni terrene, c'è l'immenso intenerimento dell'anima umana, la protezione dovuta ai deboli dai forti, la salvezza dovuta a quelli che sono perduti da quelli che sono al sicuro, la paternità dovuta a tutti i bambini da tutti i vecchi! Provare queste cose magnifiche, e provarle facendo dono della propria testa! Come! essere un generale e rinunciare alla strategia, alla battaglia, alla rivincita! come! essere un realista, prendere una bilancia, mettere su un piatto il re di Francia, una monarchia di quindici secoli, le vecchie leggi da ripristinare, l'antica società da restaurare, e mettere sull'altro tre piccoli contadinelli qualunque, e trovare il re, il trono, lo scettro e i quindici secoli di monarchia leggeri, in confronto al peso dei tre innocenti! come! tutto questo non sarebbe nulla! come! colui che ha fatto ciò dovrebbe rimanere tigre ed essere trattato da bestia feroce!

No! no! no! non era un mostro l'uomo che aveva illuminato del fulgore di un'azione divina il precipizio delle guerre civili! Il portatore di spada si era trasformato in portatore di luce. L'infernale Satana era ridiventato il celeste Lucifero. Lantenac si era riscattato da tutte le sue barbarie con un atto di sacrificio; perdendosi materialmente si era salvato moralmente; si era rifatto innocente; aveva firmato la sua propria grazia. O non esiste, forse, il diritto di perdonare a se stesso? Era venerabile, ormai.

Lantenac era stato straordinario. Adesso toccava a Gauvain.

Gauvain era incaricato di ribattergli.

La lotta delle buone passioni e delle passioni cattive produceva in quel momento sul mondo il caos. Lantenac, dominando quel caos, ne aveva sprigionato l'umanità. Toccava a Gauvain, adesso, sprigionarne la famiglia.

Che stava per fare?

Avrebbe forse ingannato la fiducia di Dio?

No. E balbettava a se stesso: "Salviamo Lantenac".

"Sta bene, dunque. Va, fai il gioco degli inglesi. Diserta, passa al nemico. Salva Lantenac e tradisci la Francia".

E rabbrividiva.

"La tua soluzione non è una soluzione, o sognatore!". Gauvain scorgeva nell'ombra il sinistro sorriso della sfinge.

Quella situazione era una specie di temibile crocicchio, dove andavano a sfociare e a confrontarsi le verità contrastanti, e dove fissamente si squadravano le tre supreme idee dell'uomo: l'umanità, la famiglia, la patria.

Ognuna di quelle voci prendeva a suo turno la parola, e ciascuna a sua volta diceva il vero. Come scegliere? Ciascuna a sua volta pareva trovasse il punto di congiunzione della saggezza e della giustizia, e diceva: "Fai così". Era quello che bisognava fare? Sì. No. Il ragionamento diceva una cosa; il sentimento ne diceva un'altra. I due consigli erano contrari. Il ragionamento non è che la ragione; il sentimento è spesso la coscienza. Il primo viene dall'uomo, il secondo da più in alto.

Appunto per questo il sentimento ha minore luminosità e maggior potenza.

Eppure, quanta forza nella severa ragione!

Gauvain esitava.

Perplessità feroce.

Davanti a Gauvain si spalancavano due abissi. Perdere il marchese, o salvarlo? Bisognava precipitarsi nell'uno o nell'altro.

Quale di quelle due voragini era il dovere?

3.

IL CAPPUCCIO DEL CAPO.

Si aveva a che fare, infatti, col dovere.

Quel dovere si ergeva sinistro davanti a Cimourdain, formidabile davanti a Gauvain.

Semplice davanti all'uno; molteplice, diverso, tortuoso davanti all'altro.

Mezzanotte suonò, poi il tocco.

Senza accorgersene, Gauvain si era insensibilmente avvicinato all'entrata della breccia.

L'incendio non gettava più che un diffuso riverbero, e si spegneva.

Il pianoro, dall'altro lato della torre, ne riceveva il riflesso e diventava di tanto in tanto visibile, per poi eclissarsi quando il fumo copriva il fuoco. Quel bagliore, ravvisato a sbalzi e intrammezzato da subitanee oscurità, rendeva sproporzionati gli oggetti e dava alle sentinelle del campo l'aspetto di larve. Gauvain, attraverso la sua meditazione, osservava vagamente il dissiparsi del fumo per opera delle vampe e il dissiparsi delle vampe per opera del fumo. Quel reiterato comparire e scomparire della luce davanti ai suoi occhi aveva una non so quale analogia con il reiterato apparire e scomparire della verità nella sua mente.

A un tratto, fra due turbini di fumo, una favilla saettata fuori dal braciere morente illuminò vivamente la sommità del pianoro e fece spiccare la vermiglia sagoma di una carretta. Gauvain guardò quella carretta. Era circondata da gente a cavallo con cappelli da gendarmi.

Gli parve fosse la carretta che il cannocchiale di Guéchamp gli aveva fatto vedere all'orizzonte qualche ora prima, nel momento in cui il sole tramontava. Sulla carretta c'erano uomini, che parevano intenti a scaricarla. Ciò che stavano tirando giù dalla carretta pareva di molto peso, e dava di tanto in tanto un rumore di ferraglia. Sarebbe stato difficile dire di che si trattasse; si sarebbe detto legname. Due uomini smontarono e deposero a terra una cassa che, a giudicarne dalla forma, doveva contenere un oggetto triangolare. La favilla si spense, tutto rientrò nelle tenebre; Gauvain, l'occhio immobile, rimase pensoso davanti a ciò che vi era là, in quel buio.

Si erano accese delle lanterne; c'era gente che andava e veniva sul pianoro, ma le forme che si muovevano erano confuse, e d'altronde Gauvain, dal basso e all'altro ciglio del burrone, non poteva scorgere se non ciò che era proprio sull'orlo del pianoro.

Si udivano delle voci, ma non si riusciva a percepirne le parole.

Risuonavano qua e là colpi dati sul legno. Si udiva pure non so quale stridore metallico, simile a quello di una falce che si stia affilando.

Scoccarono le due.

Lento lento, e come uno che farebbe volentieri due passi avanti e tre indietro, Gauvain si diresse verso la breccia. Al suo avvicinarsi, la sentinella, riconoscendo nella penombra il mantello e il cappuccio gallonato del comandante, presentò le armi. Gauvain entrò nella sala del pianterreno, trasformata in corpo di guardia. Una lanterna era appesa alla volta. Illuminava appena appena quanto era necessario perché si potesse attraversare la sala senza camminare sugli uomini di guardia, stesi a terra sulla paglia, e in gran parte addormentati.

Erano coricati là dove qualche ora prima si erano battuti. La mitraglia, sparsa sotto di essi in grani di ferro e di piombo, e mal spazzata via, dava loro un po' di incomodo, ma erano stanchi, e si riposavano. Quella sala era stata il luogo terribile; là avevano attaccato, là avevano ruggito, urlato, digrignato i denti, colpito, ucciso, esalato l'ultimo respiro; molti dei loro erano caduti morti su quel pavimento in cui essi, ora, si coricavano assopiti. La paglia che serviva al loro sonno, beveva il sangue dei loro camerati. Adesso, era finita, il sangue era stagnato, le sciabole erano forbite, i morti erano morti; essi dormivano tranquilli. Così è la guerra. E poi, domani, tutti dormiranno allo stesso modo.

Scorgendo entrare Gauvain, alcuni di quegli uomini assopiti si alzarono; tra gli altri, l'ufficiale che comandava il posto di guardia. Gauvain gli indicò la porta della segreta.

- Apritemi, - gli disse.

I catenacci furono tirati, la porta si aprì.

Gauvain entrò nella segreta.

La porta si richiuse alle sue spalle.

 

LIBRO SETTIMO.

FEUDALESIMO E RIVOLUZIONE.

1.

L'ANTENATO.

Una lampada era posata sul pavimento di pietra della cripta, accanto allo spiraglio quadrato della segreta.

Sullo stesso pavimento si scorgevano pure la brocca piena d'acqua, la pagnotta e la balla di paglia. La cripta era scavata nel sasso e il prigioniero che avesse avuto il ghiribizzo di appiccare il fuoco alla paglia avrebbe sprecato la sua fatica. Nessun rischio d'incendio per la prigione, certezza di asfissia per il prigioniero.

Nel momento in cui la porta girò sui cardini il marchese camminava avanti e indietro nella sua cella: andirivieni macchinale, proprio di tutte le belve messe in gabbia.

Al rumore che fece la porta, prima aprendosi e poi richiudendosi, egli alzò la testa, e la lampada che era a terra tra Gauvain e il marchese illuminò quei due uomini in pieno viso.

Si guardarono e tale era quello sguardo, che li immobilizzò entrambi.

Il marchese scoppiò a ridere, ed esclamò:

- Buongiorno, signore! Ne sono passati di anni senza che abbia avuto la fortuna di incontrarvi. Mi usate la cortesia di venirmi a trovare.

Ve ne ringrazio. Non chiedo di meglio che di chiacchierare un po'.

Cominciavo ad annoiarmi. Pèrdono il tempo, i vostri amici.

Constatazioni d'identità, corti marziali! che lungaggini! Io me la sbrigherei più in fretta. Qui, sono in casa mia. Vogliate entrare. E così, che ne dite di quanto accade? Cose originali, non vi sembra?

C'era una volta un re e una regina, il re era il re; la regina era la Francia. Si è tagliata la testa al re e maritata la regina a Robespierre; questo signore e questa signora hanno avuto una figlia, che si chiama la ghigliottina, e con la quale sembra che farò conoscenza domani all'alba. Ne sarò felicissimo. Come di vedere voi.

E' per questo che venite ? Siete cresciuto di grado, forse? Sareste voi il boia? Se si tratta di una semplice visita d'amicizia, ne sono commosso. Voi, signor visconte, non sapete forse più che cosa sia un gentiluomo. Orbene, eccone uno: sono io. Guardate, guardate. E' una cosa curiosa: crede in Dio, crede alla tradizione, crede alla famiglia, crede all'esempio di suo padre, alla lealtà, al dovere verso il suo principe, al rispetto delle vecchie leggi, alla virtù, alla giustizia; e vi farebbe fucilare con piacere. Abbiate la bontà di sedervi, prego. Sul pavimento, è vero, poiché non ci sono poltrone in questo salotto; ma chi vive nel fango può sedersi per terra. Non lo dico per offendervi, giacché ciò che noi chiamiamo fango, voi lo chiamate la nazione. Non esigete certo che io gridi Libertà, Uguaglianza, Fraternità, eh? E' una vecchia stanza della mia casa, questa: un tempo i signori ci mettevano i villani; ora i villani ci mettono i signori. Queste inezie si chiamano una rivoluzione. Sembra che entro trentasei ore mi taglieranno il collo. Non ci vedo alcun inconveniente. Oh! ma se fossero stati cortesi, mi avrebbero mandato la mia tabacchiera, che è lassù nella camera degli specchi, dove voi avete giocato da bambino e dove vi ho fatto ballonzolare sulle mie ginocchia. Vi insegnerò una cosa, signore: voi vi chiamate Gauvain, e, cosa strana, avete del sangue nobile nelle vene; perbacco, lo stesso mio sangue, e questo sangue, che fa di me un uomo d'onore, fa di voi un gran pitocco. Così stanno le cose. Mi direte che non è colpa vostra. Nemmeno mia. Perbacco, si è malfattori senza saperlo. Dipende dall'aria che si respira: in tempi come i nostri, non si è responsabili di ciò che si fa; la rivoluzione è birbante con tutti, e tutti i vostri grandi delinquenti sono dei grandi innocenti. Che asini, a cominciare da voi. Permettete che vi ammiri. Sì, io ammiro un giovanotto come voi, che, uomo di alta estrazione, con un'ottima sistemazione nello Stato, con un gran sangue da spandere per le grandi cause, visconte di questa torre Gauvain, principe di Bretagna, tale da poter essere duca per diritto e pari di Francia per eredità, che è press'a poco tutto quanto può desiderare quaggiù un uomo di buon senso, si diverte, essendo quello che è, a essere ciò che siete voi, cosicché fa ai suoi nemici l'effetto di uno scellerato e ai suoi amici l'effetto di un imbecille. A proposito, fate i miei complimenti al signor abate Cimourdain.

Il marchese parlava con piena disinvoltura, tranquillamente, senza nulla sottolineare, con voce amichevole, con occhio chiaro e tranquillo, le mani nei taschini. Si interruppe, respirò a lungo, e riprese:

- Non vi nascondo che ho fatto tutto ciò che ho potuto per uccidervi.

Così come mi vedete, ho per tre volte, io stesso, in persona, puntato un cannone su di voi. Maniere piuttosto scortesi, lo riconosco; ma sarebbe un basarsi su una pessima massima immaginarsi che in guerra il nemico cerchi di esserci cortese. Giacché noi siamo in guerra, signor nipote mio. Tutto è a fuoco e a sangue. Non è vero, forse, che hanno ucciso il re? Che bel secolo!

Fece ancora una pausa, e poi riprese:

- Quando si pensa che nulla di tutto questo sarebbe accaduto se si fosse impiccato Voltaire e messo in galera Rousseau! Ah! che flagello, gli intellettuali! Ma insomma, che cosa rimproverate a questa monarchia? L'abate Pucelle, è vero, veniva rimandato alla sua abazia di Corbigny, lasciandogli la scelta della vettura e tutto il tempo che desiderava per fare la strada; quanto al vostro signor Titon, che era stato, se non vi dispiace, un gran bordelliere, e che andava dalle sgualdrine prima di recarsi ai miracoli del diacono Paris, veniva trasferito dal castello di Vincennes a quello di Ham in Piccardia, che è, ne convengo, un posto assai brutto. Tali sono le accuse; me ne ricordo; ho urlato anch'io, ai miei tempi. Ero bestia quanto voi.

Il marchese si tastò in saccoccia, come se vi cercasse la tabacchiera, e continuò:

- Ma non altrettanto cattivo. Si diceva così per dire. C'era anche la rivolta delle investigazioni e dei ricorsi; e poi sono venuti quei messeri, i filosofi, si sono bruciati gli scritti invece di bruciare gli autori, ci si sono messe di mezzo le cabale della corte, e sono venuti tutti questi sciocchi, il Turgot, Quesnay, Malesherbes, i fisiocratici eccetera, ed è cominciato il pasticcio. Tutto è venuto dagli scribacchini e dai versaioli. L'enciclopedia! il Diderot!

d'Alembert! Ah! che brutti mascalzoni. Un uomo ben nato come quel re di Prussia, darci così di capo! Io! oh, io avrei soppresso tutti gli imbrattacarte. Oh noi sì che eravamo giustizieri. Si può ancora vedere, qui, il solco delle ruote di squartamento. Non scherzavamo noi. No, no, niente scribacchini. Fino a che ci saranno degli Arouet, ci saranno dei Marat. Fino a quando ci saranno dei pedanti scribacchiatori, ci saranno dei furfanti che assassinano; fino a quando ci sarà inchiostro, ci saranno macchie, fino a quando la zampa dell'uomo terrà la penna d'oca le sciocchezze frivole genereranno le sciocchezze atroci. I libri originano i delitti. Il vocabolo "chimera" ha due sensi: significa sogno e significa mostro. Come ci si appaga di fanfaluche! Che ci andate cantando coi vostri diritti? Diritti dell'uomo! diritti del popolo! E' cosa abbastanza vuota, abbastanza stupida, abbastanza cervellotica, abbastanza priva di senso. Quando io dico: Havoise, sorella di Conan Secondo, portò in dote la contea di Bretagna a Hoël, conte di Nantes e di Cornovaglia, che lasciò il trono ad Alano Fergant, zio di Berta, che sposò Alano il Nero, signore della Roccia sull'Yon, e ne ebbe Conan il Piccolo, aio di Guy o Gauvain di Thouars nostro antenato, dico una cosa chiara, ed ecco un diritto. Ma i vostri gaglioffi, i vostri furfanti, i vostri pezzenti che cos'è che chiamano diritto? Il deicidio e il regicidio. Che orrore! Cialtroni!

Me ne spiace per voi, signore; ma siete proprio di quel fiero sangue bretone: voi e io, abbiamo per avo Gauvain di Thouars; abbiamo per avo anche quel grande duca di Montbazon che fu pari di Francia e onorato col collare degli ordini, che attaccò il sobborgo di Tours e fu ferito nel fatto di Arques, e che morì grande cacciatore di Francia nella sua casa di Couzières in Turenna, a ottantasei anni di età. Potrei anche parlarvi del duca di Laudunois, figlio di madama della Garnache, di Claudio di Lorena, duca di Chevreuse, e di Enrico di Lenoncourt, e di Francesco di Laval-Boisdauphin. Ma a che pro? Il signore ha l'onore d'essere un idiota e ci tiene a essere simile al mio palafreniere.

Sappiate questo, ero già un vecchio, io, che voi eravate ancora un marmocchio. Vi ho pulito il naso, o moccioso, e ve lo pulirò ancora.

Crescendo, avete trovato il modo di impicciolirvi. Da quando ci siamo veduti per l'ultima volta, ognuno di noi è andato dalla sua parte: io da quella dell'onestà, voi dal lato opposto. Oh! io non so come finirà questa faccenda, ma i vostri signori amici sono dei miserabili della più bell'acqua. Ah, sì, tutto è bello, son d'accordo, i progressi sono straordinari; è stata soppressa, nell'esercito, la pena della mezza pinta d'acqua che si infliggeva per tre giorni consecutivi al soldato ubriaco; si ha il calmiere, la Convenzione, il vescovo Gobel, il signor Chaumette e il signor Hébert, e si stermina in blocco tutto il passato, dalla Bastiglia fino all'almanacco. Si sostituiscono i santi con i legumi. Sia pure, signori cittadini, siate i padroni, regnate, fate i vostri comodi, procuratevene di nuovi senza soggezione di sorta. Tutto ciò non impedirà minimamente che la religione sia la religione, né che la regalità colmi di sé millecinquecento anni della nostra storia, né che la vecchia signoria francese, anche se decapitata, sia più alta di voi. Quanto ai vostri cavilli sul diritto storico delle stirpi regali, noi ce ne facciamo una spallucciata.

Chilperico, in fondo, non era che un frate chiamato Daniele; e fu Rainfroy a inventare Chilperico per infastidire Carlo Martello. Sono cose che sappiamo altrettanto bene di voi. Non di ciò si tratta. La faccenda è questa: essere un grande reame; essere la vecchia Francia; essere quel paese tanto magnificamente ordinato, dove si stima innanzi tutto la sacra persona dei monarchi, signori assoluti dello Stato, poi i principi, poi gli ufficiali della corona, per l'esercito e per la marina, per l'artiglieria, per la direzione e la sovrintendenza delle finanze. C'è poi la giustizia sovrana e quella subalterna, seguita dall'amministrazione delle gabelle e delle imposte generali, e infine la polizia del reame, nei suoi tre ordini. Quella sì era una bella cosa, e nobilmente ordinata; voi l'avete distrutta. Avete distrutto le province, da quei compassionevoli ignoranti che siete, senza nemmeno sospettare che cosa fossero quelle province. L'indole della Francia è composta dell'indole stessa del continente, e ciascuna delle provincie di Francia rappresentava una virtù dell'Europa: in Piccardia c'era la franchezza della Germania, in Champagne la generosità della Svezia, in Borgogna l'industriosità dell'Olanda, in Linguadoca l'attività della Polonia, in Guascogna la gravità della Spagna, in Provenza la saggezza dell'Italia, in Normandia la sottigliezza della Grecia, nel Delfinato la fedeltà della Svizzera. Non sapevate nulla di tutto questo, voi.

Avete spezzato, infranto, fracassato, demolito, siete tranquillamente stati delle bestie brute. Ah! non volete più avere nobili, voi!

Orbene, non ne avrete più. Prendetene il lutto. Non avrete più paladini, non avrete più eroi. Addio alle antiche grandezze! Trovatemi un d'Ayas, nei nostri giorni. Avete tutti quanti paura della vostra pelle, voi. Non ne avrete più di cavalieri di fontenoy, che salutavano prima di uccidere; non ne avrete più di combattenti in calze di seta dell'assedio di Lerida; non ne avrete più di quelle aspre giornate militari, in cui i pennacchi passavano come meteore; siete un popolo finito; subirete la violazione dell'invasione; se Alarico Secondo ritornasse, non si troverebbe più di fronte Clodoveo; se ritornasse Abdérame, non si troverebbe più di fronte Carlo Martello; se i sassoni ritornano, non troveranno più di fronte a loro Pipino; non avrete più Agnadello, Rocroy, Leus, Staffarde, Nerwinde, Steinkerque, la Marsaille, Rancoux, Lawfeld, Mahon; non avrete più Marignan con Francesco Primo; non avrete più Bouvines con Filippo Augusto, in atto di far prigioniero, con una mano Renaud, conte di Boulogne, e con l'altra Ferrando, conte di Fiandra. Avrete Azicourt, ma non avrete più, per farvisi uccidere, avvolto nella sua bandiera, il sire di Bacqueville, il grande portaorifiamma! Su! su! fate! Siate gli uomini nuovi. Diventate piccoli!

Il marchese ebbe un attimo di silenzio, e riprese:

- Ma lasciateci grandi! Uccidete i re, uccidete i nobili, uccidete i preti, abbattete, rovinate, massacrate, calpestate ogni cosa, mettete sotto il tallone dei vostri stivali le antiche massime, conculcate il trono, opprimete l'altare, schiacciate Dio e ballategli sopra. E' affar vostro. Siete dei traditori e dei vili, incapaci di dedizione e di sacrificio. Ho detto. Fatemi ghigliottinare, adesso, signor visconte. Ho l'onore di essere il vostro umilissimo servo.

E soggiunse:

- Ah! vi ho detto le verità che avevo da dirvi! Che importa a me?

Tanto, sono morto.

E Gauvain si avvicinò al marchese, si sciolse il mantello da comandante, glielo gettò sulle spalle, gliene abbassò il cappuccio sugli occhi. Erano entrambi della medesima statura.

- Ebbene, che diamine fai? - disse il marchese.

Gauvain alzò la voce e gridò:

- Apritemi, luogotenente.

La porta si aprì.

Gauvain gridò:

- Badate a richiudere la porta alle mie spalle.

E spinse fuori il marchese stupefatto.

La sala bassa, trasformata in corpo di guardia, aveva, come si ricorderà, per unico lume una lanterna di corno che lasciava scorgere le cose appena appena, e diffondeva più ombra che luce. In quel confuso bagliore, quelli fra i soldati di guardia che non dormivano videro camminare in mezzo a essi, dirigendosi verso l'uscita, un uomo di alta statura, col mantello e il cappuccio gallonato del comandante in capo. Fecero il saluto militare, e l'uomo passò.

Il marchese, lentamente, attraversò il corpo di guardia, attraversò la breccia, non senza urtarvi più d'una volta la testa, e uscì.

La sentinella, credendo di vedere Gauvain, gli presentò le armi.

Quando fu fuori, posato che ebbe i piedi sull'erba dei campi, a duecento passi dalla foresta, e con davanti a sé lo spazio, la notte, la libertà, la vita, si fermò e rimase un momento immobile come un uomo che ha lasciato fare, che ha ceduto alla sorpresa, e che, avendo approfittato di una porta aperta, cerchi di capacitarsi se abbia agito male o bene, esiti prima di spingersi più lontano, e dia ascolto a un ultimo pensiero. Dopo alcuni momenti di profonda meditazione, alzò la destra, fece schioccare il medio contro il pollice, e disse: - In fede mia!

E se ne andò.

La porta della segreta s'era richiusa. Dentro c'era Gauvain.

2.

LA CORTE MARZIALE.

Nelle corti marziali di allora, tutto era press'a poco discrezionale.

Dumas, all'Assemblea legislativa, aveva schizzato un abbozzo di legislazione militare, rimaneggiato più tardi da Tabot al consiglio dei Cinquecento; ma il codice definitivo dei consigli di guerra non fu redatto che sotto l'impero. Appunto dall'impero data, per esempio, l'obbligo imposto ai tribunali militari di non raccogliere i voti se non cominciando dal meno elevato in grado. Questa legge, durante la rivoluzione, non esisteva.

Nel 1793, il presidente d'un tribunale militare costituiva da solo quasi tutto il tribunale; sceglieva i membri, classificava l'ordine dei gradi, regolava le modalità del voto; era giudice e padrone a un tempo.

Cimourdain aveva fissato, per pretorio della corte marziale, quella stessa sala del pianterreno dove era stata la ridotta e dove era adesso il corpo di guardia. Ci teneva ad abbreviare ogni cosa, il percorso dalla prigione al tribunale e il tragitto dal tribunale al patibolo.

A mezzogiorno, in conformità degli ordini da lui impartiti, la corte era insediata, col seguente apparato: tre sedie di paglia, una tavola di abete, due candele accese, uno sgabello davanti alla tavola.

Le sedie erano per i giudici e lo sgabello per l'accusato. Ai due capi della tavola c'erano altri due sgabelli, uno per il commissario auditore, che era un furiere, l'altro per il cancelliere, che era un caporale.

Sulla tavola c'era una stecca di cera rossa, il sigillo di rame della repubblica, due cartelle, quinterni di carta bianca, e due manifesti a stampa, spiegati quanto erano grandi, che contenevano uno la messa fuori legge, l'altro il decreto della Convenzione.

La sedia di mezzo era addossata a un fascio di bandiere tricolori; in quei tempi di rude semplicità, si faceva presto a compiere una decorazione, e bastava poco tempo per mutare un corpo di guardia in corte di giustizia.

La sedia di mezzo, destinata al presidente, era di fronte alla porta della segreta.

Per pubblico, i soldati.

Due gendarmi fiancheggiavano lo sgabello dell'accusato.

Cimourdain era seduto sulla sedia di mezzo, con alla destra il capitano Guéchamp, primo giudice, e alla sinistra il sergente Radoub, secondo giudice.

Aveva in testa il cappello col pennacchio tricolore, al fianco la spada, alla cintura le due pistole. La cicatrice, color rosso vivo, aumentava la ferocia del suo aspetto.

Radoub aveva finito per farsi medicare. Aveva avvolto attorno alla testa un fazzoletto sul quale, pian piano, si andava allargando una chiazza di sangue.

A mezzogiorno l'udienza non era ancora aperta; una staffetta, di cui si udiva, all'esterno, scalpitare il cavallo, era ritta presso la tavola del tribunale. Cimourdain scriveva. E scriveva questo:

"Cittadini membri del comitato di salute pubblica.

"Lantenac è preso. Domani sarà giustiziato".

Datò e firmò, piegò e sigillò il dispaccio, che consegnò alla staffetta, la quale partì.

Ciò fatto, Cimourdain disse ad alta voce:

- Aprite la cella.

I due gendarmi tirarono indietro i catenacci, aprirono la segreta e vi entrarono.

Cimourdain alzò la testa, incrociò le braccia, guardò la porta, e disse:

- Conducete il prigioniero!

Un uomo apparve tra i due gendarmi, sotto il voltone della porta spalancata.

Era Gauvain.

Cimourdain ebbe un sussulto.

- Gauvain! - esclamò.

E riprese:

- Chiedo il prigioniero.

- Sono io, - disse Gauvain.

- Tu?

- Io!

- E Lantenac?

- E' libero.

- Libero!

- Sì.

- Evaso?

- Evaso.

Cimourdain balbettò con un tremito:

- Questo castello, infatti, è suo, ne conosce tutte le uscite, la segreta comunica forse con qualche passaggio, avrei dovuto pensarci, avrà trovato il modo di svignarsela, non avrà avuto bisogno dell'aiuto di nessuno.

- E' stato aiutato, - disse Gauvain.

- A evadere?

- A evadere.

- Chi l'ha aiutato?

- Io.

- Tu?

- Io.

- Tu sogni.

- Sono entrato nella cella; vi ero solo con il prigioniero; mi tolsi il mantello e lo misi indosso a lui, gli ho calato il cappuccio sulla faccia; è uscito al mio posto, e io sono rimasto al suo. Eccomi.

- Tu non hai fatto quello che dici.

- L'ho fatto sì.

- Impossibile.

- Così è.

- Conducetemi Lantenac!

- Non è più qui. I soldati, vedendogli indosso il mantello del comandante, l'hanno preso per me e l'hannolasciato passare. Era ancora notte.

-Tu sei pazzo.

- Dico la verità.

Ci fu un silenzio. Cimourdain balbettò:

- In tal caso, tu meriti...

- La morte! - disse Gauvain.

Cimourdain era pallido come una testa mozza. Se ne stava immobile come un uomo sul quale fosse caduta la folgore. Pareva non respirasse più.

Una grossa goccia di sudore gli imperlò la fronte. Fece di tutto per rendere ferma la voce, e disse:

- Gendarmi, fate sedere l'accusato.

Gauvain si accomodò sullo sgabello.

Cimourdain riprese:

- Gendarmi, sguainate le sciabole!

Tale era la formula d'uso, quando l'accusato era sotto la minaccia d'una sentenza capitale.

I gendarmi sguainarono le sciabole.

La voce di Cimourdain aveva ripreso il suo solito accento.

- Accusato, - disse; - alzatevi.

Non dava più del tu a Gauvain.

3.

I VOTI.

Gauvain si alzò.

- Come vi chiamate? - domandò Cimourdain.

Gauvain rispose:

- Gauvain.

Cimourdain continuò l'interrogatorio.

- Chi siete?

- Sono il comandante in capo della colonna di spedizione delle Coste del Nord.

- Siete parente o affine dell'uomo evaso?

- Ne sono pronipote.

- Conoscete il decreto della Convenzione?

- Ne vedo il manifesto sulla vostra tavola.

- Che avete da dire su questo decreto?

- Che l'ho controfirmato, che ne ho ordinato l'esecuzione, e che sono stato io a far stampare questo manifesto, in calce al quale c'è il mio nome.

- Sceglietevi un difensore.

- Mi difenderò da me.

- Avete la parola.

Cimourdain era ritornato impassibile. Soltanto, la sua impassibilità somigliava meno alla calma di un uomo che alla tranquillità di una rupe.

Gauvain rimase un momento silenzioso e come raccolto.

Cimourdain riprese:

- Che avete da dire in vostra difesa?

Gauvain alzò lentamente la testa, non guardò nessuno, e rispose:

- Questo: una cosa mi ha impedito di vederne un'altra. Una buona azione, vista da troppo vicino, mi ha nascosto cento azioni delittuose; da una parte un vecchio, dall'altra dei bimbi, si sono interposti tra me e il dovere. Ho dimenticato i villaggi incendiati, i campi devastati, i prigionieri massacrati, i feriti soppressi, le donne fucilate; ho dimenticato la Francia data in mano all'Inghilterra: ho messo in libertà l'assassino della patria. Sono colpevole. Così parlando, sembra che io parli contro di me. E' un errore. Parlo in mio favore. Quando il colpevole riconosce la propria colpa, salva l'unica cosa che valga la pena di essere salvata, l'onore.

- Tutto qui quello che avete da dire in vostra difesa? - riprese Cimourdain.

- Aggiungo, che, essendo il comandante in capo, ero tenuto a dare l'esempio; e che voi, essendo giudici, dovete darlo.

- Che esempio chiedete?

- La mia morte.

- La trovate giusta?

- E' necessaria.

- Sedetevi.

Il furiere, commissario auditore, si alzò e diede lettura, innanzi tutto, del decreto che metteva fuori legge l'ex marchese di Lantenac; in secondo luogo, del decreto della Convenzione comminante la pena capitale contro chiunque favorisse l'evasione d'un ribelle prigioniero. Termina con le poche righe stampate in fondo al manifesto del decreto, intimanti il divieto "di recare aiuto e soccorso" al suddetto ribelle, "sotto pena di morte".

e firmato: "Il comandante in capo della colonna di spedizione.

Gauvain".

Fatte queste letture, il commissario auditore tornò a sedersi.

Cimourdain incrociò le braccia, e disse:

- Accusato, state attento. Pubblico, ascoltate, guardate e tacete.

Avete davanti a voi la legge. Si procederà alla votazione. La sentenza sarà resa a semplice maggioranza. Ogni giudice esporrà, a turno, il suo parere ad alta voce, in presenza dell'accusato, poiché la giustizia non ha nulla da nascondere.

Cimourdain continuò:

- La parola al primo giudice. Parlate, capitano Guéchamp.

Il capitano Guéchamp pareva non vedesse né Cimourdain né Gauvain. Le palpebre abbassate gli nascondevano gli occhi immobili, fissi sul manifesto del decreto, che contemplavano quel decreto come si contemplerebbe un abisso. Disse:

- La legge è formale. Un giudice è più e meno di un uomo. E' meno di un uomo, giacché non ha cuore; è più di un uomo, giacché ha il gladio.

Nell'anno 414 di Roma Manlio fece morire suo figlio per il delitto di aver vinto senza suo ordine. La disciplina violata esigeva espiazione.

Qui è stata la legge ad essere violata, e la legge è ancora più alta della disciplina. In conseguenza d'un impulso di pietà, la patria è rimessa in pericolo. La pietà può avere le proporzioni di un delitto.

Il comandante Gauvain ha fatto evadere il ribelle Lantenac. Gauvain è colpevole. Voto la morte. - Cancelliere, scrivete! - ordinò Cimourdain.

Il cancelliere scrisse: "Capitano Guéchamp: la morte".

Gauvain alzò la voce:

- Guéchamp, - disse, - avete votato bene, e ve ne ringrazio.

Cimourdain riprese:

- La parola al secondo giudice. Parlate, sergente Radoub.

Radoub si alzò, si voltò verso Gauvain, e fece all'accusato il saluto militare. Poi esclamò:

- Se è così che stanno le cose, allora ghigliottinate me. Perché io, nome d'un nome, vi dò qui la mia parola d'onore più sacrosanta, che vorrei aver prima fatto quello che ha fatto il vecchio, e poi quello che ha fatto il mio comandante. Quando ho veduto quell'individuo di ottant'anni gettarsi nel fuoco per strapparne i tre mocciosi, ho detto: "Galantuomo, tu sei un brav'uomo!", e quando poi vengo a sapere che è stato il mio comandante a salvare quel vecchio dalla vostra bestia d'una ghigliottina, corpo di mille bombe, io dico: "Comandante, voi dovreste essere il mio generale, e siete un vero uomo e io, fulmini! vi darei la croce di San Luigi, se ci fossero ancora delle croci, se ci fossero ancora dei santi e se ci fossero ancora dei Luigi! .. O che si sta per diventare degli imbecilli, adesso? Se è per cose di questo genere che si sono vinte la battaglia di Jemmapes, la battaglia di Valmy, la battaglia di Fleurus e la battaglia di Wattignies, allora bisogna dirlo. Come! Ecco qui il comandante Gauvain che da quattro mesi porta in giro questi asini di realisti a rullo di tamburo, e salva la repubblica a sciabolate, e che ha fatto la faccenda di Dol dove ce ne voleva d'intelligenza, corpo di Bacco; e quando avete un uomo simile, fate in modo di non averlo più; e invece di farlo generale volete tagliargli il collo! dico che c'è da buttarsi a testa in giù da sopra il parapetto del Ponte Nuovo; e che anche voi, cittadino Gauvain, mio comandante, vi direi che poco fa avete detto delle grandi stupidaggini. Il vecchio ha fatto bene a salvare i bambini, voi avete fatto bene a salvare il vecchio, e se si ghigliottina la gente perché hanno compiuto delle buone azioni, allora, vattene a tutti i diavoli, io non so proprio più di che si tratti. Non c'è più nessuna ragione di fermarsi. Ma non c'è niente di vero - no? - in tutto questo? Mi dò dei pizzicotti per assicurarmi d'essere sveglio. Non capisco. Allora il vecchio doveva lasciar bruciare vivi i marmocchi, allora il mio comandante doveva lasciar tagliare la testa al vecchio. Guardate, ghigliottinate me. Lo preferisco. Ammettiamo una cosa, che i tre marmocchi fossero morti; il battaglione del Berretto Rosso sarebbe stato disonorato. Questo si voleva? Mangiamoci gli uni con gli altri, allora. Me ne intendo di politica quanto voialtri, ero del circolo della sezione delle Picche, io. Caspita! ci stiamo abbrutendo, alla fine. Riassumo il mio modo di vedere. A me, le cose che hanno l'inconveniente di far sì che non si sappia più a che punto si sia, non mi vanno proprio a fagiolo. Per che diavolo ci facciamo ammazzare, noi? Perché uccidano il nostro comandante? Niente affatto, Lisetta! Ne ho bisogno, io, del mio comandante; oggi gli voglio ancora più bene che ieri. Mandarlo alla ghigliottina! ma voi mi fate ridere! Proprio così, proprio così, non ne vogliamo sapere. Ho ascoltato. Si dirà tutto quello che si vorrà.

Innanzi tutto, non è possibile.

E Radoub tornò a sedersi. La ferita gli si era riaperta. Un filo di sangue, che gli usciva dalla benda, gli colava lungo il collo, dal punto dove era stato il suo orecchio.

Cimourdain si rivolse a Radoub.

- Votate perché l'accusato sia assolto, allora?

- Voto, - disse Radoub, - perché sia fatto generale.

- Vi domando se votate perché sia prosciolto.

- Voto perché sia fatto primo cittadino della repubblica.

- Sergente Radoub, votate perché il comandante Gauvain sia prosciolto, o no?

- Voto perché si tagli a me la testa al suo posto.

- Assoluzione, - disse Cimourdain. - Cancelliere, scrivete.

Il cancelliere scrisse: "Sergente Radoub: assoluzione".

Poi il cancelliere disse:

- Un voto per la morte. Un voto per l'assoluzione. Parità.

Toccava a Cimourdain di votare.

Si alzò. Si tolse il cappello e lo depose sulla tavola. Non era più né livido né pallido. La sua faccia era color terra.

Se tutti i presenti fossero stati distesi in un sepolcro il silenzio non sarebbe stato più profondo.

Con voce grave, lenta e ferma, Cimourdain disse:

- Accusato Gauvain, il dibattimento è chiuso. In nome della repubblica, la corte marziale, con la maggioranza di due voti contro uno...

Si interruppe. Ci fu come un attimo di arresto. Esitava davanti alla morte, Cimourdain? o esitava davanti alla vita? Tutti i petti erano ansanti. Cimourdain continuò:

- ...siete condannato alla pena di morte.

Il suo viso esprimeva la tortura del sinistro trionfo. Quando Giacobbe, nelle tenebre, si fece benedire dall'angelo, che aveva atterrato, doveva avere quello spaventevole sorriso.

Non fu che un lampo, e passò. Cimourdain ridivenne di marmo, si tornò a sedere, si rimise il cappello in testa, e aggiunse:

- Gauvain, sarete giustiziato domani allo spuntare del sole.

Gauvain si alzò, salutò e disse:

- Ringrazio la corte.

- Conducete via il condannato, - disse Cimourdain.

Cimourdain fece un cenno. La porta della segreta si riaprì, Gauvain vi rientrò, la segreta si richiuse. I due gendarmi rimasero di fazione ai due lati della porta, sciabole sguainate.

Radoub fu portato via. Era caduto privo di sensi .

4.

DOPO IL CIMOURDAIN GIUDICE, IL CIMOURDAIN ARBITRO.

Un accampamento è un vespaio, specialmente in tempo di rivoluzione. Il civico pungiglione, che è in ogni soldato, esce volentieri e presto, e non esita affatto a pungere il comandante, dopo aver scacciato il nemico. La valorosa gente che aveva preso la Tourgue ebbe ronzii di svariata natura. Innanzitutto contro il comandante Gauvain, saputo che si ebbe dell'evasione del Lantenac. Quando fu visto Gauvain uscire dalla segreta dove si credeva di aver sotto chiave Lantenac, fu come una commozione elettrica; in meno di un minuto tutta la colonna ne fu informata. Nel piccolo esercito fu tutto un mormorare. E il primo mormoramento fu: - Sono in procinto di giudicare Gauvain. Ma è solo per la forma. Andate a fidarvi degli ex nobili e degli ex preti! Per adesso abbiamo visto un visconte salvare un marchese; fra poco vedremo un prete assolvere un nobile! - Quando si seppe della condanna di Gauvain, ci fu un secondo mormoramento: - Questa è grossa! Il nostro comandante, il nostro valoroso comandante, un eroe! E' un visconte, e con questo? tanto maggiore il suo merito d'essere repubblicano! Lui, il liberatore di Pontorson, di Villadieu, di Pont-au-Beau! il vincitore di Dol e della Tourgue! quello grazie al quale noi siamo invincibili! quello che è la spada della repubblica in Vandea! I'uomo che da cinque mesi tiene testa agli sciuani e rimedia a tutte le sciocchezze di Léchelle e degli altri! quel Cimourdain osa condannarlo a morte! perché? perché ha salvato un vecchio che aveva salvato tre bambini! un prete uccidere un soldato!

Cosi brontolava il campo vittorioso e malcontento. Una sorda collera circondava Cimourdain. Quattromila uomini contro uno solo: si direbbe una forza, e non lo è. Quei quattromila uomini erano una folla, Cimourdain era una volontà. Si sapeva che Cimourdain era facile ad aggrottare le sopracciglia; non occorreva di più per tenere a freno l'esercito. Erano tempi severi: bastava che dietro a un uomo si ergesse l'ombra del comitato di salute pubblica per rendere temibile quell'uomo e per trasformare ogni imprecazione in bisbiglio, ogni bisbiglio in silenzio. Tanto prima che dopo quelle mormorazioni Cimourdain rimaneva l'arbitro del destino di Gauvain, come del destino di tutti quanti. Si sapeva che non c'era nulla da chiedergli e che egli non avrebbe obbedito che alla sua coscienza, voce sovrumana udita da lui solo. Tutto dipendeva da lui. Soltanto lui poteva disfare, come delegato civile, ciò che egli stesso aveva fatto come giudice marziale. Egli solo poteva far grazia. Aveva pieni poteri. Poteva, con un cenno, mettere Gauvain in libertà; era il padrone della vita e della morte; comandava alla ghigliottina. Era, in quel tragico istante, l'uomo supremo.

Non c'era che da attendere.

Scese la notte.

5.

LA CELLA.

L'aula di giustizia era ridiventata corpo di guardia. Il posto era raddoppiato come la notte precedente, due sentinelle custodivano la porta della cella chiusa.

Verso mezzanotte, un uomo, che reggeva una lanterna, attraversò il corpo di guardia, si fece riconoscere, e si fece aprire la cella.

Era Cimourdain.

Entrò. Dietro di lui la porta rimase semiaperta.

La cella era tenebrosa e silente. Cimourdain mosse un passo in quella oscurità, posò la lanterna a terra, e si fermò. Si udiva nel buio il respiro uguale d'un uomo addormentato. Cimourdain ascoltò, pensoso, quel tranquillo rumore.

Gauvain era in fondo alla cella, sulla balla di paglia. Il respiro che si udiva era il suo. Dormiva profondamente.

Cimourdain avanzò facendo il minor rumore possibile. Si avvicinò a Gauvain e prese a osservarlo. Una madre che guardasse il suo lattante addormentato non avrebbe uno sguardo più tenero e più ineffabile. Era forse più forte dello stesso Cimourdain, quello sguardo; egli si premette, come fanno talvolta i bambini, ambo i pugni sugli occhi, e rimase un momento immobile. Poi si inginocchiò, sollevò pian piano la mano di Gauvain, e vi premette sopra le labbra.

Gauvain ebbe un movimento. Aprì gli occhi con l'incerto stupore di chi è svegliato di soprassalto. La lanterna rischiarava debolmente la cantina. Egli riconobbe Cimourdain.

- Ah! - disse; - siete voi, maestro!

E soggiunse:

- Sognavo che la morte mi baciava la mano.

Cimourdain ebbe quella scossa che ci dà, talvolta, la brusca invasione di un'ondata di pensieri; tale ondata, a volte è così alta e tempestosa, che sembra stia per spegnere l'anima. Nulla uscì dal profondo cuore di Cimourdain. Non poté dire che:

- Gauvain!

Si guardarono l'un l'altro. Cimourdain con occhi pieni di quelle vampe che bruciano le lacrime; Gauvain con il suo più dolce sorriso.

Gauvain si sollevò sul gomito, e disse:

- Questo sfregio che vi scorgo in faccia, è la sciabolata che avete buscato al mio posto. Ancora ieri eravate al mio fianco in quella mischia, per causa mia. Se la provvidenza non vi avesse posto accanto alla mia culla, dove sarei, io, oggi? Nelle tenebre. Se ho la nozione del dovere, mi viene da voi. Io ero nato fasciato, poiché i pregiudizi sono fasciature. Quelle fasce, voi me le avete tolte, avete rimesso in libertà la mia crescita, e avete rifatto, di colui che già non era più che una mummia, un fanciullo. Avete messo una coscienza nel probabile aborto. Senza di voi, io sarei cresciuto meschino. Io esisto in grazia vostra. Non ero che un signore; avete fatto di me un cittadino. Non ero che un cittadino, avete fatto di me un cervello. Mi avete fatto idoneo, come uomo, alla vita terrestre, e, come anima, alla vita celeste. Mi avete dato, per entrare nella realtà umana, la chiave della verità, e per andarne al di là, la chiave della luce. Ve ne ringrazio, maestro. Siete stato voi a crearmi.

Cimourdain si sedette sulla paglia, a fianco di Gauvain, e disse:

- Vengo a cenare con te.

Gauvain spezzò il pane nero e glielo presentò. Cimourdain ne prese un pezzo; poi Gauvain gli porse la brocca d'acqua.

- Bevi per il primo, - disse Cimourdain.

Gauvain bevve e passò la brocca a Cimourdain, che bevve dopo. Gauvain non aveva bevuto che una sorsata, Cimourdain bevve a garganella.

In quella cena, Gauvain mangiava, Cimourdain beveva. Indizio di calma nell'uno e di febbre nell'altro.

C'era in quella cella un non so che terribile serenità. Quei due uomini conversavano. Gauvain diceva:

- Grandi cose si delineano. Quello che fa la rivoluzione in questo momento è misterioso. Dietro l'opera visibile c'è l'opera invisibile.

L'una nasconde l'altra. L'opera visibile è selvaggia, l'opera invisibile è sublime. In questo momento distinguo tutto con grande chiarezza. E' strano e bello. Fu giocoforza valersi dei materiali del passato. Da ciò questo straordinario '93. Sotto una impalcatura di barbarie, si va costruendo un tempio di civiltà.

- Sì, - rispose Cimourdain. - Da questo provvisorio scaturirà il definitivo. Il definitivo, che è quanto dire il diritto e il dovere paralleli, l'imposta proporzionale e progressiva, il servizio militare obbligatorio, il livellamento, nessuna deviazione, e, al di sopra di tutti e di tutto, quella linea retta che è la legge. La repubblica dell'assoluto.

- Io preferisco, - disse Gauvain, - la repubblica dell'ideale.

S'interruppe, poi continuò:

- E dove, maestro, collocate, in tutto quello che avete detto or ora, la dedizione, il sacrificio, l'abnegazione, il magnanimo intreccio delle benevolenze, l'amore? Mettere tutto in equilibrio è una gran bella cosa; mettere tutto in armonia è ancora meglio. La cetra sta sopra alla bilancia. La vostra repubblica dosa, misura e regola l'uomo; la mia lo innalza in pieno azzurro. E' la stessa differenza che esiste tra un teorema e un'aquila.

- Ti perdi nelle nuvole, tu.

- E voi nei calcoli.

- C'è del sogno nell'armonia.

- Ce n'è anche nell'algebra.

- Vorrei l'uomo fatto da Euclide.

- E io, - disse Gauvain, - lo preferirei fatto da Omero.

Il severo sorriso di Cimourdain si fermò su Gauvain, come per tenere a freno quell'anima.

- Poesia. Diffida dei poeti.

- Sì, lo conosco questo detto. Diffida degli zefiri, diffida dei raggi, diffida dei profumi, diffida dei fiori, diffida delle costellazioni.

- Nulla di tutto questo dà da mangiare.

- Che ne sapete voi? Anche l'idea è un nutrimento. Pensare è mangiare.

- Niente astrazioni. La repubblica è due e due fanno quattro. Dato che io abbia a ciascuno quanto gli spetta...

- Vi rimane da dare a ciascuno ciò che non gli spetta.

- Che intendi con questo?

- Intendo l'immensa concessione reciproca che ciascuno deve a tutti e che tutti debbono a ciascuno, e che è tutta la vita sociale.

- Non c'è nulla, all'infuori dello stretto diritto.

- C'è tutto, invece.

- Io non vedo che la giustizia.

- Guardo più in alto, io.

- E che c'è, dunque, al di sopra della giustizia?

- L'equità.

Tratto tratto, facevano delle pause, come se passassero dei lampi.

Cimourdain riprese:

- Ti sfido a precisare.

- Sia. Voi volete il servizio militare obbligatorio. Contro chi?

contro altri uomini. Io, invece, di servizio militare non ne voglio.

Voglio la pace, io. Voi volete che i poveri siano aiutati, io voglio che sia soppressa la miseria. Voi volete l'imposta proporzionale. Io di imposte non ne voglio affatto. Voglio la spesa comune ridotta alla sua più semplice espressione e pagata dal plus-valore sociale.

- Che intendi con questo?

- Questo. Sopprimete innanzitutto il parassitismo; il parassitismo del prete, il parassitismo del giudice, il parassitismo del soldato.

Cavate poi un profitto dalle vostre ricchezze; voi gettate il concime nelle fogne, gettatelo nel solco. I tre quarti del suolo nazionale sono incolti; bonificate la Francia, sopprimete i pascoli inutili; dividete le terre comunali. Che ogni uomo abbia un pezzo di terra, e che ogni pezzo di terra abbia un uomo. Centuplicate la produzione sociale. La Francia, in questo momento, non dà ai suoi contadini che quattro giorni di carne all'anno; coltivata a dovere, nutrirebbe trecento milioni d'uomini, tutta l'Europa. Utilizzate la natura, immensa ausiliaria disprezzata. Fate lavorare per voi ogni soffio di vento, ogni cascata d'acqua, ogni effluvio magnetico. Il globo ha una rete di vene sotterranee, dentro questa rete c'è una circolazione prodigiosa di acqua, di olio, di fuoco; bucate le vene del globo, e fatene zampillare quell'acqua per le vostre fontane, quell'olio per le vostre lampade, quel fuoco per i vostri focolari. Riflettete al movimento delle onde, al flusso e riflusso, all'andirivieni delle maree. Che cos'è l'oceano? una enorme forza perduta. Come è stupida la terra, a non valersi dell'oceano!

- Eccoti in pieno sogno.

- Che è quanto dire in piena realtà.

Gauvain riprese:

- E della donna, che cosa ne fate?

Cimourdain rispose:

- Quello che è. La serva dell'uomo.

- Sì, a una condizione.

- Quale?

- Che l'uomo sia il servitore della donna.

- Ci credi tu? - esclamò Cimourdain. - L'uomo servitore! Mai. L'uomo è padrone. Non ammetto che una regalità, quella del focolare. L'uomo, in casa sua, è re.

- Sì, a una condizione.

- Quale?

- Che la donna vi sarà regina.

- Sarebbe come dire che tu vuoi per l'uomo e per la donna...

- L'uguaglianza.

- L'uguaglianza! ci pensi? sono due esseri diversi.

- Ho detto l'uguaglianza, non l'identità.

Ci fu un'altra pausa; una specie di tregua tra quei due cervelli che si scambiavano lampi. La ruppe Cimourdain.

- E il figlio, a chi lo dai, tu?

- Dapprima al padre che lo genera, poi alla madre che lo mette al mondo, poi al maestro che lo educa, poi alla città che lo virilizza, poi alla patria, che è la madre suprema, poi all'umanità, che è la grande avola.

- Non parli di Dio, tu.

- Ciascuno di questi gradi, padre, madre, maestro, città, patria, umanità non è che uno scalino della scala che sale a Dio.

Cimourdain se ne stava zitto; Gauvain proseguì:

- Giunti che si sia in cima alla scala, si è arrivati a Dio. Dio si spalanca. Non c'è che da entrare.

Cimourdain ebbe il gesto d'un uomo che ne richiama un altro.

- Torna sulla terra, Gauvain. Intendiamo attuare il possibile, noi.

- Cominciate col non renderlo impossibile.

- Il possibile si attua sempre.

- Non sempre. Se si maltratta l'utopia, la si uccide. Non c'è nulla di meno difeso dell'uovo.

- Eppure, l'utopia, è indispensabile acciuffarla, imporle il giogo della realtà, e inquadrarla nel fatto. L'idea astratta si deve trasformare in idea concreta. Ciò che perde in bellezza, lo riguadagna in utilità. E' più piccola, ma migliore. Bisogna che il diritto entri nella legge; e quando il diritto si è fatto legge, è assoluto. Appunto questo io chiamo il possibile.

- Il possibile è più di questo.

- Ah! Rieccoti nel sogno.

- Il possibile è un misterioso uccello sempre alitante al di sopra degli uomini.

- Bisogna afferrarlo.

- Vivo.

Gauvain continuò:

- Ecco il mio pensiero: sempre avanti. Se Dio avesse voluto che l'uomo indietreggiasse, gli avrebbe messo un occhio dietro la testa.

Guardiamo sempre dalla parte dell'aurora, dello sboccio, della nascita. Quello che cade incoraggia quello che sale. Lo schianto del vecchio albero è un richiamo per l'albero nuovo. Ogni secolo compirà la propria opera, civica oggigiorno, umana domani. Oggi la faccenda del diritto, domani quella del salario. Salario e diritto sono, in fondo, un vocabolo solo. L'uomo non vive per non essere pagato. Dio, dando la vita, contrae un debito; il diritto è il salario innato; il salario, è il diritto di acquisto.

Gauvain parlava con il raccoglimento d'un profeta. Cimourdain ascoltava. Le parti erano invertite; pareva che fosse il discepolo a essere il maestro, adesso.

Cimourdain mormorò:

- Vai lesto, tu.

- E' che ho un po' di fretta, forse, - disse Gauvain sorridendo.

E riprese:

- Ecco qual è la differenza fra le nostre utopie, maestro. Voi volete la caserma obbligatoria, io voglio la scuola. Voi sognate l'uomo soldato, io sogno l'uomo cittadino. Voi lo volete terribile, io lo voglio pensoso. Voi fondate una repubblica di spade, io fondo...

Si interruppe:

- Io fonderei una repubblica di cervelli.

Cimourdain guardò il pavimento della cella, e disse:

- Che cosa vuoi, frattanto?

- Quello che c'è.

- Assolvi dunque il momento presente, tu?

- Sì.

- Perché?

- Perché è una tempesta. Una tempesta sa sempre quello che fa. Per una quercia fulminata, quante foreste risanate! La civiltà era affetta di peste, questo grande vento ne l'ha liberata. Forse non sceglie abbastanza; ma può fare diversamente? E' incaricato di una così dura scopata! Davanti all'orrore del miasmo, comprendo il furore del soffio.

E Gauvain continuò:

- E che importa, del resto, a me, la tempesta, se ho la bussola? che importano, a me, gli avvenimenti se ho la mia coscienza?

Poi soggiunse con voce bassa, che è anche la voce solenne:

- C'è qualcuno cui bisogna sempre lasciar fare.

- Chi? - domandò Cimourdain.

Gauvain alzò il dito al di sopra del proprio capo. Cimourdain seguì con lo sguardo la direzione di quel dito, e, attraverso la volta della cella, gli parve di scorgere il cielo stellato.

Tacquero di nuovo.

Cimourdain riprese:

- Società più grande della natura. Non è più il possibile, ti ripeto; è il sogno.

- E' la meta. A che pro la società, altrimenti? Rimanete nella natura.

Siate selvaggi. Tahiti è un paradiso. Solo, in quel paradiso non si pensa. Sarebbe ancora preferibile un inferno intelligente a un paradiso stupido. Ma no, niente inferno. Siamo la società umana. Più grande della natura. Sì. Se non aggiungete nulla alla natura, perché uscire dalla natura? Accontentatevi del lavoro, allora, come la formica, e del miele, come l'ape. Rimanete la bestia operosa invece d'essere l'intelligenza regina. Se aggiungete qualche cosa alla natura, sarete necessariamente più grande di essa; aggiungere è aumentare; aumentare è ingrandire. La società è la natura sublimata.

Voglio tutto quello che manca agli alveari, tutto ciò che manca ai formicai, i monumenti, le arti, la poesia gli eroi, i geni. Non è legge dell'uomo portare eterni fardelli. No, no, no, non più paria, non più schiavi, non più forzati, non più dannati! Voglio che ciascuno degli attributi dell'uomo sia un simbolo di civiltà e un modello di progresso; voglio la libertà per la mente, l'uguaglianza per il cuore, la fraternità per l'anima. No, niente più gioghi! L'uomo è fatto per spalancare ali, non per trascinare catene. Non più uomo rettile.

Voglio la trasfigurazione della larva in lepidottero. Voglio che il verme si trasformi in un vivo fiore, e prenda il volo. Voglio...

Si fermò. L'occhio gli sfolgorava.

Le labbra gli si agitavano. Smise di parlare.

La porta era rimasta aperta. Qualcosa dei rumori esterni entrava nella cella. Si udivano vaghi accenti di tromba; era la sveglia, molto probabilmente. Poi si udirono calci di fucile battuti a terra: il cambio delle sentinelle. Poi, molto vicino alla torre, da quanto si poteva opinare nell'oscurità, un non so che simile a un rimuovere di assi e di travi, con rumori sordi e intermittenti, che parevano colpi di martello.

Cimourdain, pallido, ascoltava. Gauvain non udiva nulla.

La sua fantasticheria si faceva sempre più profonda. Si sarebbe detto che non respirasse più, tanto era attento a ciò che scorgeva sotto la visionaria volta del suo cervello. Dolci sussulti lo scuotevano, di tanto in tanto. Il bagliore d'aurora che aveva nella pupilla ingrandiva.

Passò così un certo tempo. Cimourdain gli domandò:

- A che pensi?

- All'avvenire, - disse Gauvain.

E ricadde nella sua meditazione. Cimourdain si alzò dal letto di paglia sul quale erano seduti entrambi. Gauvain non se ne accorse.

Cimourdain, covando con gli occhi il giovane meditabondo, indietreggiò pian piano fino alla porta e uscì. La cella si richiuse.

6.

E INTANTO SORGE IL SOLE.

Il giorno non tardò a spuntare all'orizzonte.

Contemporaneamente al giorno, comparve sul pianoro della Tourgue, al di sopra della foresta di Fougères, una cosa strana, immobile, sorprendente, che gli uccelli del cielo non conoscevano.

Era stata messa là durante la notte. Era sorta, più che non fosse stata costruita. Vista di lontano, spiccava sull'orizzonte come una sagoma costituita di linee rette e dure, con l'aspetto d'una lettera ebraica o di uno di quei geroglifici d'Egitto che facevano parte dell'alfabeto dell'antico enigma.

A tutta prima, l'idea che quella cosa svegliava era l'idea dell'inutile. Era là tra le eriche fiorite. Ci si domandava a che mai potesse servire. Poi ci si sentiva presi da un brivido. Era una specie di palco, avente per piedi quattro pilastri. A una estremità di quel palco, due alte travi, in piedi e diritte, collegate in cima da una traversa, sollevavano e tenevano sospeso un triangolo che spiccava nero sull'orizzonte del mattino. All'altra estremità del palco c'era una scala. Tra le due travi, in basso, sotto il triangolo, si distingueva una specie di telaio di legno, costituito di due sezioni mobili, che, combaciando l'una con l'altra, presentavano all'occhio un foro circolare, su per giù delle dimensioni del collo d'un uomo. La sezione superiore del telaio scorreva in una scanalatura, così che si poteva alzare e abbassare. Per il momento, i due semicerchi che congiungendosi formavano il collare, erano scostati. Ai piedi delle due travi reggenti il triangolo si scorgeva una tavola, girevole intorno a una cerniera, che aveva l'aspetto d'una basculla. A fianco di quella tavola, c'era un lungo paniere, e tra le due travi antistanti, all'estremità del palco, un paniere quadrato. Era dipinto in rosso. Tutto era di legno, salvo il triangolo, che era di ferro. Si capiva che tutto quell'arnese era stato costruito da uomini, tanto era brutto, meschino e piccolo; e avrebbe meritato d'essere stato portato là da geni, tanto era formidabile.

Quella informe costruzione era la ghigliottina.

Di fronte, a pochi passi, nel burrone, c'era un altro mostro, la Tourgue. Un mostro di pietra che faceva riscontro a un mostro di legno. Diciamolo, suvvia, quando l'uomo ha posto mano al legno e alla pietra, il legno e la pietra non sono più né legno né pietra, e prendono qualcosa dell'uomo. Un edificio è un dogma; una macchina è un'idea.

La Tourgue era la fatale risultante del passato che si chiamava la Bastiglia a Parigi, la Torre di Londra in Inghilterra, lo Spielberg in Germania, l'Escuriale in Spagna, il Cremlino a Mosca, Castel Sant'Angelo a Roma.

Nella Tourgue erano condensati millecinquecento anni, il medio evo, il vassallaggio, la gleba, il feudalismo; nella ghigliottina, un anno, il '93: e quei dodici mesi facevano da contrappeso a quei quindici secoli.

La Tourgue era la monarchia; la ghigliottina era la rivoluzione.

Tragico confronto.

Da una parte il debito; dall'altra la scadenza. Da un lato l'inestricabile complicazione gotica, il servo, il signore, lo schiavo, il padrone, la plebe, la nobiltà il codice multiplo ramificato in usanze, il giudice e il prete coalizzati, gli innumerevoli legami, il fisco, le gabelle, la manomorta, le capitolazioni, le eccezioni, le prerogative, i pregiudizi, i fanatismi, il regio privilegio di bancarotta, lo scettro, il trono, il beneplacito, il diritto divino; dall'altra quella semplice cosa che è la mannaia.

Da un lato il nodo; dall'altro l'ascia.

La Tourgue era stata per gran tempo sola in quel deserto. Era là coi suoi piombatoi da dove erano colati a rivi l'olio bollente, la pece ardente e il piombo fuso, con le sue segrete pavimentate di ossa, con la sua camera di squartamento, con la enorme tragedia di cui era piena. Aveva dominato con la sua funesta sagoma quella foresta: aveva avuto in quell'ombra quindici secoli di selvaggia tranquillità; era stata in quella contrada l'unica potenza, l'unico freno e l'unico spauracchio; aveva regnato; era stata, senza concorrenti, la barbarie e a un tratto si vedeva rizzare innanzi, e contro di essa, qualche cosa, più che qualche cosa, qualcuno altrettanto orribile di lei: la ghigliottina.

La pietra sembra avere talvolta strani occhi. Una statua osserva, una torre guata, una facciata d'edificio contempla. La Tourgue pareva esaminare la ghigliottina.

Pareva che si interrogasse.

Che era ciò?

Si sarebbe detto che quella cosa fosse sbucata dalla terra.

E ne era sbucata infatti.

Il sinistro albero era germinato nella terra fatale. Da quella terra irrorata da tanti sudori, da tante lacrime, da tanto sangue, da quella terra dove erano state scavate tante fosse, tante tombe, tante caverne, tanti trabocchetti, da quella terra dove erano imputridite tutte le specie di morti provocate da tutte le specie di tirannie, da quella terra sovrapposta a tanti abissi, dove erano stati sepolti tanti delitti, spaventosa semente, da quella terra profonda era uscita, nel giorno stabilito, quella sconosciuta, quella vendicatrice, quella feroce macchina portagladio e il '93 aveva detto al vecchio mondo: - Eccomi!

E la ghigliottina aveva il diritto di dire al mastio: - Sono tua figlia.

E il mastio si sentiva al tempo stesso ucciso da essa, poiché tali cose fatali vivono d'una oscura esistenza.

La Tourgue, davanti alla temibile apparizione, aveva un che di spaventato. Si sarebbe detto che avesse paura. La mostruosa massa di granito era maestosa e infame; quella tavola col suo triangolo era peggiore. L'onnipotente decaduta aveva orrore della nuova onnipotente.

La storia criminale osservava la storia giustiziera. La violenza d'una volta si paragonava alla violenza attuale; l'antica fortezza, l'antica prigione, l'antica signoria, dove avevano urlato i pazienti smembrati, la costruzione di guerra e d'omicidio, fuori servizio e fuori combattimento, violata, smantellata, scoronata, mucchio di pietre che valeva quanto un mucchio di cenere, orrenda, magnifica e morta, tutta piena della vertigine dei secoli spaventosi, guardava passare la terribile ora vivente. L'Ieri fremeva davanti all'Oggi, la vecchia ferocia constatava e subiva il nuovo spavento; ciò che non era più che il nulla, spalancava occhi d'ombra davanti a ciò che era il terrore, e il fantasma guardava lo spettro.

La natura è spietata; essa non acconsente a ritirare i suoi fiori, le sue musiche, i suoi profumi e i suoi raggi davanti all'umano abominio.

Opprime l'uomo con il contrasto tra la bellezza divina e la bruttezza sociale. Non gli fa grazia né di un'ala di farfalla, né di un canto d'uccello. Bisogna che in pieno omicidio, in piena vendetta, in piena barbarie, subisca lo sguardo delle cose sacre. Non si può sottrarre all'immenso rimprovero della dolcezza universale e all'implacabile serenità dell'azzurro. Bisogna che la deformità delle leggi umane si mostri tutta nuda in mezzo allo splendore eterno. L'uomo schianta e stritola, l'uomo sterilizza, l'uomo uccide; l'estate rimane l'estate, il giglio rimane il giglio, l'astro rimane l'astro.

Il fresco cielo del giorno nascente non era mai stato più incantevole di quel mattino. Un tiepido vento agitava le eriche. Una leggera caligine strisciava mollemente tra i rami. La foresta di Fougères, tutta compenetrata dell'alito che si sprigiona dalle sorgenti, fumava nell'alba come un grande portaprofumi pieno d'incenso. L'azzurro del firmamento, la bianchezza delle nubi, la chiara trasparenza delle acque, la verzura, quella misteriosa gamma che va dal berillio allo smeraldo, i gruppi d'alberi fraterni, le distese erbose, i piani profondi, tutto aveva quella purità che è l'eterno consiglio della natura all'uomo. Nel bel mezzo di tutto ciò si spiegava la spaventosa impudicizia umana. Nel bel mezzo di tutto ciò facevano la loro comparsa la fortezza e il patibolo, la guerra e il supplizio, le due figure dell'età sanguinaria e del minuto sanguinoso: la civetta della notte del passato e il pipistrello del crepuscolo dell'avvenire. Al cospetto della creazione fiorita, profumata, innamorata e incantevole, lo splendido cielo inondava d'aurora la Tourgue e la ghigliottina, e pareva dire agli uomini: "Guardate quello che faccio io e quello che fate voi".

Tali sono i formidabili usi che il sole fa della propria luce.

Quello spettacolo aveva degli spettatori.

I quattromila uomini del piccolo esercito di spedizione erano schierati in ordine di battaglia sul pianoro.

Essi circondavano da tre lati la ghigliottina, in modo da tracciare intorno a essa, in piano geometrico, la figura di una "E"; la batteria collocata al centro della linea maggiore, costituiva il filetto interno della "E". La macchina rossa era come racchiusa in quei tre fronti di battaglia, specie di muraglione di soldati, piegato dai due lati fino agli orli dello scoscendimento del pianoro. Il quarto lato, quello aperto, era costituito dal burrone stesso, e guardava la Tourgue.

Quella disposizione delle truppe formava uno spiazzo rettangolare, in mezzo al quale sorgeva il patibolo. Via via che il giorno inoltrava, l'ombra portata della ghigliottina, sull'erba, si scorciava.

Gli artiglieri erano ai loro pezzi, micce accese.

Un tenue fumo azzurro saliva dal burrone; era l'incendio del ponte, che finiva di spegnersi.

Quel fumo soffondeva, senza volerlo, la Tourgue, l'alta piattaforma della quale dominava tutto l'orizzonte. Tra quella piattaforma e la ghigliottina non c'era che l'intervallo del burrone. Dall'una all'altra, si poteva parlare.

Su quella piattaforma erano state trasportate la tavola del tribunale e la sedia ombreggiata dal fascio di bandiere tricolori. Il giorno si alzava dietro la Tourgue, e faceva spiccare in nero la massa della fortezza, e, in cima ad essa, sulla sedia del tribunale e sotto il fascio di bandiere, la figura d'un uomo seduto, immobile, con le braccia incrociate.

Quell'uomo era Cimourdain. Indossava, come il giorno prima, il suo costume di delegato civile, cappello dal pennacchio tricolore in testa, sciabola al fianco e pistole alla cintola.

Taceva. Tutti tacevano. I soldati erano a pied'arm, e tenevano gli occhi bassi. Si davano di gomito, ma non si parlavano. Pensavano confusamente a quella guerra, ai tanti combattimenti, alle scariche di fucileria da dietro le siepi tanto coraggiosamente affrontate, ai nugoli di contadini furibondi cacciati via dal loro soffio, alle cittadelle prese, alle battaglie guadagnate, alle vittorie, e adesso pareva loro che tutta quella gloria tornasse a loro vergogna. Una tetra attesa stringeva tutti i petti. Sulla piattaforma della ghigliottina si vedeva il boia che andava e veniva. Il chiarore ognora crescente del mattino colmava maestosamente il cielo.

A un tratto si udì quel velato rumore che fanno i tamburi coperti di crespo. Quel funebre rullo si avvicinò; le file si aprirono, e un corteo entrò nel quadrilatero, dirigendosi verso il patibolo.

Davanti a tutti i tamburi abbrunati, poi una compagnia di granatieri, con le armi rivolte a terra, poi un plotone di gendarmi a spade sguainate, poi il condannato: Gauvain.

Gauvain camminava libero. Non aveva corde né ai piedi né alle mani.

Indossava la piccola uniforme. Aveva la spada al fianco.

Lo seguiva un altro plotone di gendarmi.

Gauvain aveva ancora sul viso quella gioia pensosa che l'aveva illuminato nel momento in cui aveva detto a Cimourdain: "Penso all'avvenire!". Nulla di ineffabile e di sublime come quel perdurante sorriso.

Giungendo sul triste spiazzo, il suo primo sguardo fu per la sommità della torre. La ghigliottina la disdegnava.

Sapeva che Cimourdain si sarebbe fatto un dovere di assistere alla esecuzione. Lo cercò con gli occhi sulla piattaforma. Ve lo trovò.

Cimourdain era livido e gelido. Chi gli era vicino, non ne avvertiva il respiro.

Quando scorse Gauvain, non ebbe un sussulto.

Gauvain, frattanto, avanzava verso il patibolo.

Camminando, guardava Cimourdain, che guardava lui. Si sarebbe detto che Cimourdain si appoggiasse su quello sguardo.

Gauvain giunse ai piedi del patibolo. Vi salì. L'ufficiale che comandava i granatieri ve lo seguì. Gauvain si sciolse la spada e la consegnò all'ufficiale; si tolse la cravatta e la consegnò al boia.

Pareva una visione. Non era mai sembrato così bello. La sua bruna capigliatura ondeggiava al vento. Non si tagliavano i capelli, allora.

Il candore del suo collo faceva pensare a una donna, e il suo occhio eroico e sovrano faceva pensare a un arcangelo. Era sul patibolo, pensoso. Anche quella è una vetta. Gauvain vi stava ritto, superbo e tranquillo. Il sole, avvolgendolo, lo circonfondeva come di un'aureola.

Era nondimeno indispensabile legare il paziente. Il boia gli si avvicinò, con una corda in mano.

In quel momento, quando videro il loro giovane condottiero così decisamente spinto sotto il coltello, i soldati non resistettero più.

Il cuore di quegli uomini di guerra esplose. Si udì una cosa enorme:

il singhiozzo di un esercito. Si alzò un clamore: "Grazia! grazia!".

Alcuni caddero in ginocchio; altri gettavano i fucili, alzavano le braccia verso la piattaforma, dov'era Cimourdain. Un granatiere, mostrando la ghigliottina, gridò: "Si accettano sostituzioni per quella roba li? Eccomi!". Tutti ripetevano freneticamente: "Grazia!

grazia!". Avessero udito dei leoni, ne sarebbero stati commossi o spaventati, giacché le lacrime dei soldati sono terribili.

Il boia si fermò, non sapendo più che fare.

Allora una voce, breve e cavernosa, e che pure tutti udirono, tanto era sinistra, gridò dall'alto della torre:

- Forza alla legge!

Fu riconosciuto l'accento inesorabile. Aveva parlato Cimourdain.

L'esercito ebbe un fremito.

Il boia non esitò più. Si avvicinò, tendendo la corda.

- Aspettate, - disse Gauvain.

Si voltò verso Cimourdain, gli fece, con la mano destra ancora libera, un gesto d'addio, poi si lasciò legare.

Legato che fu, disse al boia:

- Scusate. Ancora un momento.

E gridò:

- Viva la repubblica!

Fu coricato sulla tavola a bilico. La bella e fiera testa fu attenagliata nell'infame collare. Il boia gli alzò piano piano i capelli, poi premette la molla. Il triangolo si staccò e scivolò, lento dapprima, poi rapidamente. Si udì un colpo orrendo...

Nel medesimo istante se ne udì un altro. Al colpo di mannaia rispose un colpo di pistola. Cimourdain aveva afferrato una delle pistole che teneva alla cintola, e nel momento in cui la testa di Gauvain rotolava nel paniere, si trapassò il cuore con una palla: uno sgorgo di sangue gli uscì dalla bocca. Cadde morto.

E quelle due anime, tragiche sorelle, spiccarono assieme il volo, l'ombra dell'una confusa alla luce dell'altra.


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