Victor Hugo



I MISERABILI

 

 

 

 

(volume terzo)



PARTE QUINTA - GIOVANNI VALJEAN



Libro 1


LA GUERRA FRA QUATTRO MURI



1. CARIDDI NEL SOBBORGO SANT'ANTONIO E SCILLA NEL SOBBORGO DEL TEMPIO


Le due barricate più memorabili, che l'osservatore delle malattie sociali possa ricordare, non appartengono al periodo in cui è collocata l'azione di questo libro. Quelle due barricate, simboli tutt'e due, sotto due aspetti diversi, d'una terribile situazione, sbucarono da sotto terra nella fatale insurrezione del giugno 1848, la più grande guerra per le vie che abbia mai visto la storia.

Accade talvolta che anche contro i princìpi, anche contro la libertà, l'uguaglianza e la fratellanza, anche contro il suffragio universale, anche contro il governo popolare, dal fondo delle sue angosce, dei suoi scoraggiamenti, delle sue privazioni, delle sue febbri, delle sue miserie, dei suoi miasmi, delle sue ignoranze, delle sue tenebre, quella grande disperata, che è la canaglia, protesti, e la plebaglia dia battaglia al popolo.

I pezzenti assaltano il diritto comune; l'oclocrazia insorge contro la democrazia.

Sono giornate lugubri, perché c'è sempre un pizzico di diritto anche in quella demenza, un pizzico di suicidio in quel duello; e le parole accattoni, canaglia, oclocrazia, plebe, che vorrebbero essere altrettante ingiurie, dimostrano, ahimé! la colpa di chi regna piuttosto che quella dei diseredati.

Dal canto nostro, non pronunciamo mai queste parole senza dolore e senza rispetto, poiché, quando la filosofia investiga i fatti a cui esse corrispondono, vi trova spesso molte grandezze accanto alle miserie. Atene era un'oclocrazia; i pezzenti hanno fatto l'Olanda; la plebaglia salvò più d'una volta Roma, e la poveraglia seguiva Gesù Cristo.

Non c'è pensatore che non abbia talvolta contemplato le magnificenze delle infime classi. A quella poveraglia, a tutta quella povera gente, a tutti quei vagabondi, e a tutti quei miserabili da cui sorsero gli apostoli e i martiri, pensava san Girolamo quando diceva quella parola misteriosa: "Fex urbis, lex orbis". Le esasperazioni della folla che soffre e sanguina, le sue insensate violenze contro i princìpi che informano la sua vita, il ricorso alla forza contro il diritto, sono colpi di stato popolari e devono essere repressi. L'uomo probo si sacrifica e combatte la folla proprio per amore di essa. Ma come la trova scusabile pur tenendole testa! Come la venera pur resistendole! E' uno di quei rari momenti in cui, pur facendo ciò che è doveroso, si sente qualcosa che sconcerta e quasi sconsiglia di andare oltre; si persiste, se è necessario; però la coscienza soddisfatta è triste, e il compimento del dovere si unisce alla stretta del cuore.

Il giugno 1848, affrettiamoci a dichiararlo, fu un avvenimento a sé, quasi impossibile a essere classificato nella filosofia della storia. Tutte le parole vanno messe da parte quando si parla di quella straordinaria sommossa, nella quale si sentì la santa istanza del lavoro che reclamava i suoi diritti. La si dovette combattere, ed era un dovere, perché attaccava la Repubblica; ma, in fondo, che cosa fu il giugno 1848? Una rivolta del popolo contro se stesso.

Quando non si perde di vista l'argomento, non ci sono digressioni; sia dunque concesso di richiamare l'attenzione del lettore sulle due barricate assolutamente uniche, di cui abbiamo parlato e che caratterizzano l'insurrezione.

Una sbarrava l'ingresso del sobborgo di Sant'Antonio, l'altra difendeva le vicinanze del sobborgo del Tempio. Quelli che sotto il luminoso cielo azzurro di giugno videro sorgersi davanti quei due terribili capolavori della guerra civile, non li dimenticheranno mai.

La barricata Sant'Antonio era mostruosa; era alta tre piani e larga settecento piedi. Sbarrava da un angolo all'altro la vasta imboccatura del sobborgo, vale a dire tre vie. Franosa, frastagliata, dentellata, seghettata, scanalata da una immensa fenditura, rafforzata da contrafforti che erano altrettanti bastioni, con delle punte qua e là, potentemente addossata ai due grandi promontori di case del sobborgo, essa sorgeva come una costruzione ciclopica in fondo alla formidabile piazza che ha visto il 14 luglio. Altre diciannove barricate erano disposte nelle vie dietro quella barricata madre, la cui sola vista faceva capire che nel sobborgo l'immensa sofferenza era arrivata al punto estremo in cui un'angoscia sta per diventare una catastrofe. Di che era fatta quella barricata? Delle macerie di tre case a sei piani demolite apposta, dicevano alcuni. Del prodigio di tutte le collere, dicevano gli altri. Aveva il deplorevole aspetto di tutte le costruzioni dell'odio: la rovina. Si poteva chiedere: - Chi ha costruito questo? - e si poteva chiedere pure: - Chi ha distrutto questo? - Era l'improvvisazione della rivolta. Guarda:

quell'imposta, quel cancello, quel tavolato quello stipite, quel caldano rotto, quella marmitta fessa. Date tutto, buttate tutto!

spingete, rotolate, abbattete,smantellate,sconvolgete, rovesciate tutto. Era la collaborazione della pietra, della lastra, della trave, della sbarra di ferro, del cencio, del vetro infranto, della sedia spagliata, del torso di cavolo, dello strofinaccio, dello straccio e della maledizione. Era il grandioso e il meschino. Era l'abisso parodiato dalla confusione. Era la massa accanto all'atomo, il pezzo di muro divelto e la scodella infranta; una minacciosa fratellanza di tutti i rottami; Sisifo vi aveva gettato la sua roccia, Giobbe il suo coccio. Terribile, insomma. Era l'acropoli degli scalzacani. Alcuni carretti rovesciati frastagliavano la scarpata; un carrettone immenso era messo di traverso, con l'asse rivolta al cielo, e sembrava una ferita su quella facciata tumultuosa; un omnibus issato allegramente a forza di braccia in cima al cumulo, come se gli architetti di quella costruzione selvaggia avessero voluto aggiungere il monellesco al terribile, porgeva il timone a non si sapeva quali cavalli dell'aria. Quel gigantesco ammasso, quell'alluvione della sommossa faceva pensare a un gigantesco sovrapporsi di tutte le rivoluzioni; il '93 sull'89, il 9 termidoro sul 10 agosto, il 18 brumaio sul 21 gennaio, il vendemmiale sul pratile, il 1848 sul 1830. Il luogo ne valeva la pena, e quella barricata era degna di apparire nello stesso posto da cui era scomparsa la Bastiglia. Se l'oceano formasse delle dighe, le costruirebbe così. Su quel deforme affastellamento era impressa la furia dei flutti. Quali flutti? La folla. Pareva di vedere un tumulto pietrificato; pareva di sentir ronzare, al di sopra di quella barricata, come se avessero là il loro alveare, le enormi api tenebrose del progresso violento. Era una sterpaglia?

un baccanale? una fortezza? Sembrava costruita a colpi d'ala dalla vertigine. C'era qualcosa della cloaca in quella ridotta, e qualcosa di olimpico in quello scompiglio. Si vedevano in quel disordine pieno di disperazione travi di tetti, pezzi di mansarde con la loro tappezzeria di carta a colori, invetriate di finestre con tutti i vetri, piantate tra le macerie in attesa del cannone, fumaioli smantellati, armadi, tavole, banchi, una confusione urlante, e quelle mille miserabili cose, rifiuti dello stesso mendicante, che contengono insieme qualcosa di furibondo e di insignificante. Si sarebbe detto che fosse il cenciume d'un popolo, cenciume di legno, di ferro, di bronzo, di pietra e che il sobborgo Sant'Antonio lo avesse buttato là, alla sua porta, con una colossale scopa, formando con la sua miseria la sua barricata.

Massi simili a ceppi patibolari, catene spezzate, cavalletti di legno che parevano forche, ruote orizzontali sporgenti dalle macerie, aggiungevano a quell'edificio dell'anarchia la tetra immagine dei vecchi supplizi sofferti dal popolo. La barricata Sant'Antonio si faceva arma di tutto; tutto quello che la guerra civile può scagliare sul capo della società usciva da essa; non era un combattimento, ma un parossismo; le carabine che difendevano quella ridotta, e fra esse anche alcuni tromboni, lanciavano cocci di terraglia, ossicini e persino rotelline di comodini da notte: proiettili pericolosi per via del rame. Quella barricata era forsennata; lanciava nel cielo un clamore inesprimibile; in certi momenti, provocando l'esercito, si copriva di folla e di tempesta; una moltitudine di teste infiammate la coronava; un brulichio la riempiva; aveva una cresta spinosa di fucili, di sciabole, di bastoni, di scuri, di picche, di baionette; una grande bandiera rossa sbatteva al vento; vi si udivano grida di comando, canzoni di battaglia, rulli di tamburi, singhiozzi di donne, e le tenebrose risate dei morti di fame. Era smisurata e vivente; e da essa, come dal dorso d'un animale elettrico, usciva uno scoppiettio di fulmini. Il genio della rivoluzione copriva con la sua nube quella cima su cui brontolava quella voce di popolo che somigliava alla voce di Dio; una maestà strana emanava da quella titanica gerla di macerie. Era un mucchio di lordure ed era il Sinai.

Come abbiamo detto più su, essa assaliva in nome della Rivoluzione. Chi? la Rivoluzione. Quella barricata, ossia il caso, lo smarrimento, il malinteso, l'ignoto, aveva di fronte l'assemblea costituente, la sovranità del popolo, il suffragio universale, la nazione, la Repubblica; era la "Carmagnola" che sfidava la "Marsigliese".

Sfida insensata, ma eroica, poiché quel vecchio sobborgo è un eroe.

Il sobborgo e la sua ridotta si prestavano man forte: il sobborgo s'appoggiava alla ridotta, la ridotta si addossava al sobborgo. La vasta barricata si stendeva come una scogliera, contro la quale andava a infrangersi la strategia dei generali d'Africa. Le sue caverne, le sue escrescenze, le sue verruche, le sue gibbosità facevano le boccacce, per così dire, e ghignavano sotto il fumo.

La mitraglia svaniva nell'informe; le palle vi si affondavano, inghiottite, inabissate; le palle riuscivano solo a fare dei buchi; a che serve cannoneggiare il caos? E i reggimenti, abituati alle più selvagge visioni di guerra, guardavano con occhio inquieto quella ridotta che era come una bestia feroce, irsuta come un cinghiale, enorme come una montagna.

A un quarto di lega, dall'angolo della via del Tempio che sbocca sul boulevard presso lo Chateau d'Eau, se si sporgeva avidamente la testa fuori della punta formata dalla vetrina del magazzino Dallemagne, si scorgeva lontano, al di là del canale, nella via che sale le rampe di Belleville, al punto culminante della salita, una muraglia strana che giungeva al secondo piano della facciata, specie di tratto d'unione delle case di destra con quelle di sinistra, come se la via avesse ripiegato da sé il suo muro più alto per chiudersi bruscamente. Quel muro era fatto di selci, e si ergeva diritto, freddo, perpendicolare, livellato con la squadra, tirato con l'archipenzolo. Mancava il cemento, è vero, ma, come in certe costruzioni romane, la rigidità architettonica non era turbata. Dall'altezza se ne indovinava lo spessore. La sommità era matematicamente parallela alla base. A tratti sulla sua superficie grigia, si distinguevano delle feritoie quasi invisibili, che somigliavano a fili neri; erano separate le une dalle altre da spazi regolari. La via era deserta a perdita d'occhio; tutte le finestre e tutte le porte erano chiuse. In fondo si ergeva quello sbarramento che faceva della via un angiporto; muro immobile e tranquillo; non vi si vedeva nessuno, non vi si udiva nulla; non un grido, non un rumore, non un soffio. Un sepolcro.

L'accecante sole di giugno inondava di luce quella scena terribile.

Era la barricata del sobborgo del Tempio.

Appena giunti sul terreno e vedutala, era impossibile, anche ai più audaci, non diventare pensosi davanti a quell'apparizione misteriosa. Era aggiustata, incastrata, levigata, rettilinea, simmetrica e funebre. C'era la scienza e c'erano le tenebre. Si sentiva che il capo di quella barricata era un geometra o uno spettro. Guardandola si parlava sottovoce.

Se qualcuno, soldato, ufficiale o rappresentante del popolo, si arrischiava ad attraversare la via deserta, si udiva un sibilo acuto e leggero, e il passante cadeva ferito o morto, o se sfuggiva, si vedeva penetrare in una imposta chiusa, in una connessura di selci, nell'intonaco d'un muro una pallottola e qualche volta un biscaglino, poiché i difensori della barricata s'erano fatti due cannoncini con due tubi di ferro del gas, chiusi a un'estremità con argilla e stoppa. Non facevano spreco inutile di polvere. Quasi tutti i colpi andavano a segno. C'erano qua e là dei cadaveri, e pozze di sangue sul lastricato. Mi ricordo d'una farfalla che svolazzava su e giù per la via. L'estate non abdica mai.

Nei dintorni, gli androni, erano ingombri di feriti.

Si era sorvegliati da qualcuno che restava invisibile e si capiva che tutta la strada era presa di mira.

I soldati della colonna d'assalto, ammassati dietro quella specie di schiena d'asino formata dal ponte del canale all'ingresso del sobborgo del Tempio, osservavano gravi e pensosi quella lugubre ridotta, quella immobilità, quella impassibilità, da cui veniva la morte. Alcuni strisciavano col ventre a terra fino alla curva del ponte, attenti a non mostrare il loro chepì.

Il valoroso colonnello Monteynard ammirava fremendo quella barricata. - "Com'è costruita bene!" - diceva a un deputato. "Non un ciottolo che sporga; sembra di porcellana". - In quel momento una palla gli spezzò la croce sul petto e cadde.

- Vili! - dicevano. - Ma si mostrino dunque! si lascino vedere!

non osano, si nascondono! - La barricata del sobborgo del Tempio, difesa da ottanta uomini, assalita da diecimila, resistette tre giorni. Al quarto si fece come a Zaatcha e a Costantina, si fecero delle brecce nelle case, si calarono dai tetti, e la barricata fu presa. Neppure uno degli ottanta vili pensò di fuggire; furono uccisi tutti, eccetto il capo, Barthélemy, di cui parleremo tra breve.

La barricata Sant'Antonio era il rombo dei tuoni, quella del Tempio il silenzio: c'era tra queste due ridotte la differenza che esiste tra il formidabile e il sinistro; l'una sembrava una gola, l'altra una maschera.

Ammesso che la gigantesca e tenebrosa insurrezione del giugno fosse composta d'una collera e d'un enigma, nella prima barricata si sentiva il drago e dietro la seconda la sfinge.

Queste due fortezze erano state costruite da due uomini chiamati l'uno Cournet, l'altro Barthélémy: Cournet aveva fatto la barricata Sant'Antonio, Barthélémy quella del Tempio, e ognuna era l'immagine del suo artefice.

Cournet era di alta statura, con le spalle larghe, la faccia rubiconda, il pugno robusto, il cuore ardimentoso, l'anima leale, l'occhio sincero e terribile. Intrepido, energico, irascibile, tempestoso; l'uomo più cordiale, il più formidabile combattente.

La guerra, la lotta, la mischia erano la sua aria respirabile e lo mettevano di buon umore. Era stato ufficiale di marina, e dal gesto e dalla voce s'indovinava che usciva dall'oceano e veniva dalla tempesta; continuava la burrasca nella battaglia. Tranne il genio, c'era in Cournet qualcosa di Danton, come, tranne la divinità, c'era in Danton qualcosa di Ercole.

Barthélémy, magro, sparuto, pallido, taciturno era una specie di monello tragico che, schiaffeggiato da una guardia di polizia, l'attese, l'uccise, e a diciassette anni fu mandato in galera.

Quando ne uscì, costruì quella barricata.

Più tardi, cosa fatale, a Londra, proscritti tutti e due, Barthélémy uccise Cournet. Fu un duello funebre. Qualche tempo dopo, preso nell'ingranaggio d'una di quelle misteriose avventure in cui vi si immischia la passione, catastrofi nelle quali la giustizia francese vede delle circostanze attenuanti e l'inglese vede solo la morte, Barthélémy fu impiccato. Il tetro edificio sociale è così fatto che, grazie alle privazioni materiali e all'oscurità morale, quell'essere sventurato che conteneva un'intelligenza certamente solida, forse grande, cominciò col bagno in Francia e finì con la forca in Inghilterra. Barthélémy, in tutte le occasioni, innalzava una sola bandiera: quella nera.




2. CHE FARE NELL'ABISSO SE NON CHIACCHIERARE?


Sedici anni valgono qualcosa nella silenziosa educazione della sommossa, e il giugno 1848 la sapeva più lunga del giugno 1832.

Per questo a paragone delle due barricate colossali che abbiamo or ora descritte, quella della via Chanvrerie non era che un abbozzo, un embrione; però, per quell'epoca, era formidabile.

Gli insorti, sotto l'occhio di Enjolras, poiché Mario non guardava più nulla, avevano approfittato della notte. La barricata era stata non solo riparata, ma accresciuta, rialzata di due piedi.

Alcune spranghe di ferro infisse tra le pietre somigliavano a lance in resta; ogni sorta di rottami portati da tutte le parti aumentavano il groviglio esteriore. La ridotta era stata magistralmente rifatta come un muro di dentro e come un roveto di fuori.

Avevano riattato la scala di selci che permetteva di montarvi su come ad un muro di cittadella.

Avevano riordinato anche l'interno della barricata, sgombrato la sala al pianterreno, trasportato l'ambulatorio in cucina, compiuto la bendatura ai feriti, raccolto la polvere sparsa per terra e sulle tavole, avevano fuso altre palle, fabbricato altre cartucce, ripulito tutto, spazzato i rottami, rimosso i cadaveri.

Questi ultimi vennero ammucchiati nel vicolo Mondétour, che era libero, e il cui selciato restò per molto tempo insanguinato. Fra i morti c'erano quattro guardie nazionali. Enjolras fece porre in disparte le loro divise.

Enjolras aveva consigliato due ore di sonno, e un suo consiglio era un ordine; tuttavia solo tre o quattro ne approfittarono.

Feuilly impiegò quelle due ore a incidere sul muro dirimpetto alla bettola questa iscrizione:

"VIVA I POPOLI!" Queste tre parole, incise nella pietra con un chiodo, si leggevano ancora nel 1848.

Le tre donne avevano profittato della tregua notturna per scomparire definitivamente; il che permise agli insorti di respirare con maggior libertà. Erano riuscite a rifugiarsi in una casa vicina.

La maggior parte dei feriti potevano e volevano ancora combattere.

Nella cucina trasformata in ambulatorio, sopra materassi e mucchi di paglia, c'erano cinque uomini feriti gravemente, tra cui due guardie municipali, che vennero medicate per prime.

Nella sala al pianterreno rimasero solo Mabeuf sotto il suo drappo nero e Javert legato al palo.

- Questa è la sala mortuaria, - disse Enjolras.

In fondo a questa sala rischiarata appena da una candela, c'era la tavola col morto che, stando dietro al palo come una sbarra orizzontale, formava una grande croce che andava da Javert in piedi a Mabeuf disteso.

Il timone dell'omnibus, benché spezzato dalla fucileria, sporgeva ancora abbastanza per potervi attaccare una bandiera.

Enjolras, che possedeva la qualità del capo di far sempre quello che diceva, appese a quell'asta l'abito bucherellato e insanguinato del vegliardo ucciso.

Non era possibile nessun pasto. Non c'era né pane né carne. Da sedici ore che erano là, i cinquanta uomini della barricata avevano esaurito le scarse provvigioni della bettola. A un dato momento, ogni barricata che resiste diventa inevitabilmente la zattera della Medusa. Bisognò rassegnarsi alla fame. Si era alle prime ore di quella giornata spartana del 6 giugno, quando nella barricata Saint-Merry, Jeanne circondata da insorti che chiedevano pane, rispondeva, a tutti i combattenti: - A che serve? Sono le tre; alle quattro saremo morti.

Non essendo più possibile mangiare, Enjolras proibì di bere:

interdì il vino e razionò l'acquavite.

In cantina avevano trovato una quindicina di bottiglie piene, suggellate ermeticamente. Enjolras e Combeferre le esaminarono e quest'ultimo risalendo disse: - Sono vecchi rimasugli di papà Hucheloup, che faceva il droghiere. - Deve essere vino schietto, - osservò Bossuet. - Fortuna che Grantaire dorme: se fosse sveglio dureremmo fatica a salvare queste bottiglie. - Malgrado i mormorii, Enjolras mise il suo veto sulle quindici bottiglie, e perché nessuno le toccasse e venissero considerate come una cosa sacra, le fece collocare sotto la tavola su cui giaceva Mabeuf.

Verso le due del mattino si contarono: erano ancora in trentasette.

Cominciava a spuntare l'alba. Avevano spento la torcia già ricollocata nel suo alveo di pietre. L'interno della barricata, quella specie di cortiletto sulla via, era immerso nelle tenebre e somigliava, attraverso il vago orrore crepuscolare, al ponte di una nave disalberata. I combattenti che vi si muovevano sembravano fantasmi neri. Al di sopra di quel terribile nido di ombre si abbozzavano lividamente i piani delle case mute; in alto, pallidi, i fumaioli. Il cielo aveva quella graziosa sfumatura indecisa, che è forse il bianco ed è forse l'azzurro; gli uccelli vi volavano con grida festose; l'alta casa che formava il fondo della barricata, essendo volta a levante, aveva sul tetto un lieve riflesso roseo. Il vento mattinale agitava al finestrino del terzo piano i capelli grigi sulla testa dell'ucciso.

- Sono contento che abbiano spento la torcia - disse Courfeyrac a Feuilly; - quella fiamma che tremolava al vento mi dava noia; pareva che avesse paura. La luce delle torce somiglia alla saggezza dei vili; rischiara male perché trema.

L'alba risveglia le menti come gli uccelli; tutti discorrevano.

Joly, vedendo un gatto passeggiare sopra una gronda, ne cavò uno sfogo filosofico:

- Cos'è il gatto? - diss'egli. - Un correttivo. Il buon Dio, avendo creato il sorcio disse tra sé: - Ecco che ho commesso una sciocchezza. - E creò il gatto, che è l'errata-corrige del sorcio.

Il sorcio, più il gatto, è la prova riveduta e corretta della creazione.

Combeferre, circondato da studenti e da operai, parlava dei morti, di Prouvaire, di Bahorel, di Mabeuf e anche di Le Cabuc, e della severa tristezza di Enjolras:

- Armodio e Aristogitone, Bruto, Cherea, Stephanus, Cromwell, Carlotta Corday, Sand, tutti dopo il colpo ebbero il loro momento d'angoscia. Il nostro cuore è così fremente e la vita umana è un tal mistero, che anche dopo un omicidio civico, anche dopo un omicidio liberatore, se esiste, il rimorso di aver ucciso un uomo supera la gioia d'aver servito il genere umano.

E un minuto dopo - sono così i meandri dello scambio di parole - per una transizione venuta dai versi di Prouvaire, Combeferre comparava tra loro i traduttori delle Georgiche, Raux con Cournand, Cournand con Delille, e specialmente i prodigi della morte di Cesare; e per questa parola, Cesare, il discorso tornò a Bruto.

- Cesare - diceva Combeferre - cadde giustamente. Cicerone fu severo con Cesare, ed ebbe ragione; la sua severità non è la diatriba. Quando Zoilo insulta Omero, quando Mevio insulta Virgilio, quando Visé insulta Molière, quando Pope insulta Shakespeare, quando Fréron insulta Voltaire, si compie una vecchia legge d'invidia e di odio, i geni attirano l'ingiuria, i grandi uomini eccitano sempre i latrati. Ma tra Zoilo e Cicerone bisogna distinguere. Cicerone è un giustiziere col pensiero, come Bruto con la spada. Dal canto mio, biasimo la giustizia della spada; ma l'antichità l'ammetteva. Cesare, violatore del Rubicone, conferendo, come provenienti da lui, le dignità che provenivano dal popolo, non alzandosi quando entrava il Senato, faceva, come dice Eutropio, cose da re e quasi da tiranno, "regia ac poene tyrannica". Era un grand'uomo; tanto peggio, o tanto meglio: la lezione è più alta. Le sue ventitré ferite mi commuovono meno dello sputo in fronte a Gesù Cristo. Cesare è pugnalato dai senatori, Cristo è schiaffeggiato dai servi. Dal maggiore oltraggio si sente il Dio.

Bossuet, dominando dall'alto di un mucchio di selci quelli che discorrevano, esclamava:

- O Cidateneo, o Mirrino, o Probalinto, a grazie dell'Eantide! Oh!

chi m'insegnerà a pronunciare i versi d'Omero come un greco di Laurio o di Edapteon!




3. RAGGI E OMBRE


Enjolras era andato a fare una ricognizione, uscendo per il vicolo Mondétour e strisciando rasente le case.

Dobbiamo dire che gli insorti erano pieni di speranza. Il modo con cui avevano respinto l'assalto notturno, faceva loro quasi disprezzare anticipatamente l'assalto dell'alba: lo aspettavano e ne sorridevano, sicuri del successo come della giustizia della loro causa. D'altronde stava per arrivar loro evidentemente un aiuto: ci contavano. Con quella facilità di profezia trionfante che è uno degli elementi di forza del combattente francese, essi dividevano in tre fasi certe la giornata che stava per cominciare:

alle sei del mattino la rivolta d'un reggimento "che era stato lavorato"; a mezzogiorno, l'insurrezione di tutta Parigi; al tramonto, la rivoluzione.

Si udiva la campana a stormo di Saint-Merry, che dal giorno prima non aveva mai sostato un minuto; prova che l'altra barricata, la grande, quella di Jeanne, resisteva ancora.

Tutte queste speranze si comunicavano da un gruppo all'altro con una specie di bisbiglio allegro e formidabile, che somigliava al ronzio bellicoso d'un alveare di api.

Ricomparve Enjolras di ritorno dalla sua fosca passeggiata d'aquila nell'oscurità esterna; ascoltò un momento tutta quella gioia con le braccia incrociate e una mano sulla bocca; poi, fresco e roseo nel biancore crescente del mattino, disse:

- Tutta la guarnigione di Parigi vi è contro, e un terzo di essa preme sulla vostra barricata; di più, la guardia nazionale. Ho riconosciuto gli sciaccò del quinto di linea e i gagliardetti della sesta legione. Sarete assaliti tra un'ora. Quanto al popolo, ieri ha tumultuato, ma questa mattina non si muove. Nulla da attendere, nulla da sperare, né un sobborgo né un reggimento.

Siete abbandonati.

Queste parole caddero sul ronzio dei gruppi, con l'effetto che fa su uno sciame la prima goccia del temporale. Tutti rimasero muti.

Ci fu un momento d'inesprimibile silenzio nel quale si sarebbe potuto sentir volare la morte. Fu un breve momento.

Una voce dal fondo più oscuro dei gruppi, gridò ad Enjolras:

- E sia. Solleviamo la barricata a venti piedi d'altezza e restiamoci tutti. Cittadini! facciamo la protesta dei cadaveri.

Dimostriamo che, se il popolo abbandona i repubblicani, i repubblicani non abbandonano il popolo.

Simili parole che liberavano dalla penosa nube delle ansietà individuali il pensiero di tutti, furono accolte con una acclamazione entusiastica.

Non si è mai saputo il nome dell'uomo che parlò in tal modo. Era qualche operaio ignoto, uno sconosciuto, un dimenticato, un passante eroe, il grande anonimo che si trova sempre a lato alle crisi umane e alle genesi sociali, che al momento opportuno dice in modo solenne la parola decisiva e svanisce nelle tenebre, dopo aver per un minuto rappresentato il popolo e Dio nella luce di un lampo.

Quella risoluzione inesorabile era talmente nell'aria del 6 giugno 1832, che quasi alla stessa ora gli insorti della barricata Saint- Merry cacciavano quel clamore rimasto storico e raccolto nel processo: - Facciamoci uccidere qui fino all'ultimo.

Come si vede, le due barricate, benché isolate, comunicavano tra di loro.




4. CINQUE Dl MENO, UNO DI PIU'


Quando l'uomo qualunque che decretava "la protesta dei cadaveri" ebbe parlato ed espresso la formula dell'anima comune, da tutte le bocche uscì un grido di strana e terribile soddisfazione, funebre per il significato, trionfale per l'accento:

- Viva la morte! Restiamo qui tutti.

- Perché tutti? - chiese Enjolras.

- Tutti! tutti!

Enjolras riprese:

- La posizione è buona, la barricata è bella: trenta uomini bastano. Perché sacrificarne quaranta?

Essi risposero:

- Perché nessuno vorrà andarsene.

- Cittadini - gridò Enjolras, e nella sua voce c'era una vibrazione quasi irritata - la Repubblica non è abbastanza ricca di uomini per fare inutili spese. La gloria è uno sciupo. Se per alcuni il dovere consiste nell'andarsene, questo dovere dev'essere compiuto come un altro.

Enjolras, l'uomo-principio, aveva sui suoi corregionari quella specie di onnipotenza che si sviluppa dall'assoluto; tuttavia, per quanto grande fosse quell'onnipotenza, ci furono dei mormorii.

Capo fino alla punta delle unghie, Enjolras, vedendo che si mormorava, insisté, riprendendo alteramente:

- Quelli che hanno paura di trovarsi in trenta soltanto, lo dicano.

I mormorii raddoppiarono.

- Del resto - osservò una voce in un gruppo - andarsene è facile a dire. La barricata è circondata.

- Non dalla parte dei Mercati - disse Enjolras. - La via Mondétour è libera, e per la via dei Predicatori si può raggiungere il mercato degli Innocenti.

- E là - riprese un'altra voce del gruppo - si è presi: si casca in qualche pattuglione di fanteria o di guardia nazionale. Vedono passare un uomo in camiciotto e in berretto: - Da dove vieni tu?

Saresti mai della barricata? - Gli guardano le mani: Tu odori di polvere. Fucilato.

Enjolras senza rispondere toccò Combeferre alla spalla e tutti e due entrarono nella sala al pianterreno.

Uscirono dopo un momento, Enjolras portando sulle braccia distese le quattro divise che aveva fatto mettere in disparte, Combeferre dietro con le buffetterie e gli sciaccò.

- Con questa divisa - disse Enjolras - ci si può mescolare nelle file e sfuggire. Ecco provveduto ad ogni modo per quattro.

E gettò le uniformi sul suolo disselciato.

Lo stoico uditorio non si scosse. Allora Combeferre prese la parola:

- Su via, bisogna avere un po' di pietà. Sapete di che si tratta qui? Si tratta delle donne. Vediamo, ci sono sì o no le mogli? ci sono sì o no i figlioli? ci sono sì o no delle madri che ninnano col piede le culle e che hanno un mucchio di bambini intorno? Chi di voi non ha mai visto il seno di una nutrice alzi la mano. Ah!

voi volete farvi ammazzare. Anch'io che vi parlo lo voglio, ma non voglio sentirmi intorno dei fantasmi di donne che si torcono le braccia. Morite, sia pure, ma non fate morire. I suicidi come quelli che si compiono qui sono sublimi; ma il suicidio è ristretto, non ammette estensione, e appena tocca i parenti, il suicidio si chiama assassinio. Pensate alle testoline bionde e ai capelli bianchi. Ascoltate. Poc'anzi Enjolras, me l'ha detto lui, ha visto sull'angolo di via del Cigno una povera finestra al quinto piano rischiarata da una candela, e sul vetro l'ombra vacillante d'una testa di vecchietta, che pareva avesse passato la notte ad aspettare. Forse è la madre di uno di voi. Ebbene se ne vada colui, si affretti di andare a dire a sua madre: - Eccomi, mamma! - E sia tranquillo, quello che s'ha da fare qui si farà lo stesso. Quando col lavoro si sostengono i propri cari; non si ha più il diritto di sacrificarsi; sarebbe un disertare la famiglia.

E quelli che hanno le figliole! e quelli che hanno le sorelle! Ci pensate? Voi vi fate uccidere, eccovi morti, sta bene; e domani?

Delle ragazze che non hanno pane, è una cosa terribile. L'uomo mendica, la donna si vende. Oh! quelle vezzose creature così graziose e così tenere, con le cuffiette infiorate, che cantano, cinguettano, riempiono la casa di castità, che sono un profumo vivente, che dimostrano l'esistenza degli angeli nel cielo con la purezza delle vergini sulla terra, quella Giannina, quella Lisetta, quella Mimì, quelle adorabili e oneste creature che formano la vostra benedizione e il vostro orgoglio, mio Dio, avranno fame! Che volete che vi dica? C'è un mercato di carne umana; e non certo con le vostre mani di ombre, frementi intorno a esse, impedirete loro di entrarci! Pensate alla via, pensate al lastrico coperto di passanti, pensate alle botteghe dinanzi alle quali le donne scollacciate vanno su e giù nel fango. Quelle donne furono pure anch'esse. Pensi alle sue sorelle, chi ne ha. La miseria, la prostituzione, le guardie di polizia, San Lazzaro, ecco dove vanno a cadere quelle belle fanciulle così delicate, quelle fragili meraviglie di pudore, di gentilezza e di bellezza, più fresche dei lilla nel mese di maggio. Ah! voi vi siete fatti uccidere! ah! non siete più là! Sta bene: avete voluto sottrarre il popolo alla monarchia e abbandonate le vostre figlie alla polizia! Amici, badate, abbiate compassione! Non avete l'abitudine di pensare troppo alle donne, alle sventurate donne. Vi fidate perché non hanno ricevuto l'educazione dell'uomo, perché si impedisce loro di leggere, di pensare, di occuparsi di politica; ma impedirete loro di recarsi questa sera alla morgue a riconoscere i vostri cadaveri? Vediamo, è necessario che quelli che hanno famiglia siano buoni figlioli, e ci diano una stretta di mano, e se ne vadano, ci lascino qui soli a fare quello che c'è da fare. Lo so che ci vuole coraggio per andarsene, che è una cosa difficile, ma è tanto più meritoria. Voi dite: - Ho un fucile, sono alla barricata; tanto peggio, ci resto. Si fa presto a dire tanto peggio. Amici miei c'è un domani; voi non ci sarete a quel domani, ma le vostre famiglie ci saranno. E quanti patimenti! Ecco qua un piccino grazioso e sano, che ha le guance, come due mele, che ciancia, cinguetta, garrisce e ride, che sentiamo fresco sotto il braccio: sapete che cosa diventa quando è abbandonato? Ne ho visto uno proprio piccino, alto così. Suo padre era morto. Una povera famiglia lo raccolse per carità, ma non aveva pane per sé, e il piccino aveva sempre fame. Era d'inverno. Il bimbo non piangeva. S'avvicinava alla stufa, in cui non c'era mai fuoco, il cui tubo era saldato con la creta; staccava con i suoi ditini un po' di quella creta e la mangiava. Aveva il respiro rauco, il volto livido, le gambe flosce, il ventre grosso; non diceva mai nulla; se gli parlavano, non rispondeva. Morì. Lo portarono a morire all'ospizio Necker, ove io ero interno, e dove lo vidi.

Ora, se ci sono dei padri tra voi, dei padri per cui è una felicità passeggiare la domenica tenendo nella loro buona mano robusta la manina del loro figliolo, ciascuno di quei padri si raffiguri in quel piccino il suo. Quel povero piccino, me lo ricordo, mi sembra di vederlo, nudo sulla tavola anatomica, con le costole che formavano dei rialzi nella pelle, come le fosse nell'erba di un cimitero. Trovarono nel suo stomaco una specie di fanghiglia e della cenere tra i denti. Su via, mettiamoci una mano sulla coscienza e prendiamo consiglio dal nostro cuore. Le statistiche constatano che la mortalità dei fanciulli abbandonati è del cinquanta per cento. Si tratta delle mogli, ripeto, delle madri, delle giovinette, dei bimbi. Vi si parla di voi, forse?

Sappiamo bene chi siete, sappiamo bene che siete tutti coraggiosi, per Dio!; sappiamo bene che avete tutti nell'anima la gioia e la gloria di dare la vita per la grande causa; sappiamo bene che vi sentite chiamati a morire utilmente e magnificamente, che ciascuno di voi ci tiene alla sua parte di trionfo. Benissimo. Ma voi non siete soli a questo mondo. Ci sono altre creature a cui dovete pensare; non dovete essere egoisti.

Tutti chinarono la testa con aria cupa.

Strane contraddizioni del cuore umano nelle sue ore più sublimi!

Combeferre, che parlava così, non era orfano; si ricordava delle madri degli altri e dimenticava la propria. Andava a farsi uccidere, era "egoista".

Mario, digiuno, febbricitante, successivamente abbandonato da tutte le speranze, naufragato nel dolore, e più cupo dei naufragi, saturo di emozioni violente, sentendo venir la fine, s'era sempre più sprofondato in quello stupore visionario che precede sempre l'ora fatale volontariamente accettata.

Un fisiologo avrebbe potuto studiare in lui i sintomi crescenti di quell'assopimento febbrile conosciuto e classificato dalla scienza, che sta al dolore come la voluttà al piacere. Anche la disperazione ha le sue estasi. Mario era a quel punto. Assisteva a tutto come dal di fuori: come abbiamo già detto, le cose che accadevano sotto i suoi occhi gli sembravano lontane; scorgeva l'insieme, ma i particolari gli sfuggivano; vedeva gli altri andare e venire attraverso un fiammeggiamento; udiva le voci come dal fondo d'un abisso.

Tuttavia quella scena lo commosse; c'era in essa una punta che penetrò sino a lui e lo risvegliò. Non aveva che un'idea, morire, e non voleva distrarsene; ma nel suo funebre sonnambulismo pensò che, pur perdendosi, non gli era vietato di salvare qualcuno.

Prese la parola:

- Enjolras e Combeferre hanno ragione; niente sacrifici inutili; mi unisco a essi, e bisogna far presto. Combeferre vi ha detto delle cose decisive: tra voi ci sono di quelli che hanno famiglia, che hanno madre, sorelle, moglie, figli; questi, escano dalle file.

Nessuno si mosse.

- Gli ammogliati e i sostegni di famiglia fuori dalle file! ripeté Mario.

Godeva grande autorità: se Enjolras era il capo della barricata egli ne era il salvatore.

- Ve l'ordino - gridò Enjolras.

- Ve ne prego - disse Mario.

Allora, agitati dalla parola di Combeferre, scossi dall'ordine di Enjolras, commossi dalla preghiera di Mario, quegli uomini eroici cominciarono a denunciarsi l'un l'altro. - E' vero, disse un giovanotto a un uomo maturo, tu sei padre di famiglia, vattene. - Tu piuttosto, rispose l'uomo, che mantieni due sorelle. - E scoppiò una lotta inaudita; nessuno voleva farsi mettere alla porta dalla morte.

- Affrettiamoci! - disse Courfeyrac - tra un quarto d'ora non saremo più in tempo.

- Cittadini - riprese Enjolras - qui siamo in repubblica e regna il suffragio universale. Designate voi stessi quelli che devono allontanarsi.

Obbedirono, e dopo pochi minuti cinque erano unanimemente destinati e uscivano dalle file.

- Sono cinque! - esclamò Mario.

Le divise erano soltanto quattro.

- Ebbene - risposero i cinque - è necessario che uno resti.

E fu allora che la generosa contesa ricominciò.

- Tu hai una moglie che ti ama. - Tu hai la tua vecchia mamma. Tu non hai più né padre né madre, che sarà dei tuoi tre fratellini? - Tu sei padre di cinque bambini. - Tu hai diritto di vivere; hai diciassette anni, è troppo presto.

Quelle grandi barricate rivoluzionarie erano appuntamenti di eroismi; l'inverosimile vi diventava naturale, e quegli uomini non si meravigliavano gli uni degli altri.

- Fate presto - ripeté Courfeyrac.

Dai gruppi si gridò a Mario:

- Designate voi quello che deve rimanere.

- Sì - dissero i cinque - scegliete: noi vi obbediremo.

Mario non credeva gli fosse più possibile un'emozione; pure, all'idea di dover scegliere un uomo per la morte, tutto il sangue gli rifluì al cuore. Avrebbe impallidito, se avesse potuto impallidire ancora.

Si avanzò verso i cinque che gli sorridevano; ciascuno, con nell'occhio quella gran fiamma che si vede in fondo alla storia sulle Termopili, gli gridava:

- Io! io! io!

Mario, stupidamente, li contò; erano sempre cinque; poi chinò gli occhi sulle quattro divise.

In quell'istante una quinta divisa cadde, come dal cielo, sulle altre quattro.

Il quinto uomo era salvo.

Mario alzò gli occhi e riconobbe il signor Fauchelevent.

Valjean era entrato allora nella barricata.

Fosse per informazioni prese, fosse istinto, fosse caso, egli giungeva per il vicolo Mondétour: grazie alla sua divisa di guardia nazionale, era passato facilmente.

La vedetta posta dagli insorti nel vicolo Mondétour non credette di dover dare l'allarme per una sola guardia nazionale; l'aveva lasciato entrare nella via pensando: - Probabilmente è un rinforzo, o alla peggio un prigioniero. - Il momento era troppo grave, perché la sentinella potesse distrarsi dal suo dovere e dal suo posto d'osservazione.

Nel momento in cui Valjean era entrato nella ridotta nessuno l'aveva notato, poiché tutti gli sguardi erano fissi sui cinque prescelti e sulle quattro divise. Egli invece aveva visto e compreso, e spogliatosi silenziosamente dell'abito, l'aveva gettato sugli altri.

L'emozione fu indescrivibile.

- Chi è quell'uomo? - chiese Bossuet.

- E' un uomo che salva gli altri - rispose Combeferre.

Mario aggiunse con voce grave:

- Io lo conosco.

Quella garanzia bastava a tutti.

Enjolras si volse a Valjean:

- Cittadino, siate il benvenuto.

E aggiunse:

- Saprete che stiamo per morire.

Valjean, senza rispondere, aiutò l'insorto, a cui salvava la vita, a indossare la sua divisa.




5. QUALE ORIZZONTE SI VEDA DALL'ALTO DELLA BARRICATA.


In quell'ora fatale e in quel luogo inesorabile, la situazione di tutti aveva come risultante e come culmine la malinconia suprema di Enjolras.

Egli aveva in sé la pienezza della rivoluzione; pure era incompleto, per quanto può esserlo l'assoluto; somigliava troppo a Saint-Just e non abbastanza ad Anacarsi Clotzx. Tuttavia nella società degli amici dell'A B C la sua mente aveva finito col subire una certa influenza delle idee di Combeferre; da qualche tempo, usciva a poco a poco dalla stretta forma del dogma, si lasciava andare alle espansioni del progresso, ed era giunto ad accettare, come evoluzione definitiva e magnifica,la trasformazione della grande repubblica francese in un'immensa repubblica umana. Quanto ai mezzi immediati, data una situazione violenta, egli li voleva violenti; in questo non mutava; era rimasto di quella scuola epica e formidabile che si riassume nella parola: Novantatré.

Stava ritto sulla gradinata di ciottoli, con un gomito sulla bocca della carabina, pensoso; e trasaliva, come se su di lui passassero dei soffi: i luoghi in cui c'è la morte danno di queste impressioni di tripodi. Dalle sue pupille, piene dello sguardo interno, uscivano come delle fiamme soffocate. A un tratto, alzò la testa, e i suoi capelli biondi rovesciati all'indietro come quelli dell'angelo sulla fosca quadriga fatta di stelle, furono come una criniera di leone rizzata in un fiammeggiamento d'aureola. Disse:

- Cittadini, v'immaginate voi l'avvenire? Le vie delle città inondate di luce, dei rami verdi sulle soglie, le nazioni sorelle, gli uomini giusti, i vecchi che benedicono i fanciulli, il passato che ama il presente, i pensatori in piena libertà, i credenti in piena uguaglianza, per religione il cielo, Dio prete diretto, la coscienza umana divenuta altare, non più odi, la fraternità dell'opificio e della scuola, per pena e ricompensa la notorietà, a tutti il lavoro, per tutti il diritto, su tutti la pace, non più sangue versato, non più guerre, e le madri felici! Domare la materia, è il primo passo; realizzare l'ideale, il secondo.

Riflettete a quel che ha già fatto il progresso. Anticamente, le prime schiatte umane vedevano con terrore passare dinanzi ai loro occhi l'idra che soffiava sulle acque, il drago che eruttava fuoco, il grifone che era il mostro dell'aria e volava con ali di aquila e artigli di tigre; bestie spaventose che stavano al di sopra dell'uomo. Noi abbiamo domato l'idra, ed essa si chiama battello a vapore; abbiamo domato il drago e si chiama locomotiva; siamo sul punto di domare il grifone, è già in nostro potere, e si chiama l'areostato. Il giorno in cui quest'opera prometeica sarà compiuta, e l'uomo avrà definitivamente aggiogato alla sua volontà la triplice Chimera antica, l'idra, il drago e il grifone, egli sarà padrone dell'acqua, del fuoco e dell'aria, e sarà per il resto della creazione animata quello che gli antichi dèi erano una volta per lui. Coraggio e avanti! Dove andiamo noi, cittadini?

Andiamo verso la scienza fatta governo, verso la forza delle cose divenuta la sola forza pubblica, verso la legge naturale che ha in se stessa la sua sanzione e la sua penalità e che si prolunga con l'evidenza, verso un sorgere di verità che somiglia al sorgere del giorno. Noi andiamo verso l'unione dei popoli, verso l'unità dell'uomo. Non più finzioni, non più parassiti. La realtà governata dalla verità, ecco lo scopo. La civiltà terrà le sue assise al culmine dell'Europa, e più tardi nel centro dei continenti, in un gran parlamento d'intelligenza. Già qualcosa di simile si è visto. Gli anfizioni tenevano due sedute all'anno, una a Delfo, luogo degli dèi, l'altra alle Termopili, luogo degli eroi.

L'Europa avrà i suoi anfizioni, li avrà l'intero globo; la Francia porta nei suoi fianchi questo avvenire sublime: sarà questa la gestazione del secolo diciannovesimo. Ciò che fu abbozzato dalla Grecia è degno d'essere compiuto dalla Francia.

Ascoltami tu, Feuilly, valente operaio, uomo del popolo, uomo dei popoli, io ti venero. Sì, tu vedi chiaramente il futuro; sì, tu hai ragione. Tu non avevi né padre né madre, Feuilly, e hai adottato per madre l'umanità, per padre il diritto. Tu stai per morire qui, vale a dire per trionfare. Cittadini, checché avvenga oggi, tanto con la sconfitta, quanto con la vittoria, noi stiamo per compiere una rivoluzione. Come gli incendi illuminano un'intera città, le rivoluzioni illuminano tutto il genere umano.

E quale rivoluzione faremo? L'ho detto, la rivoluzione del Vero.

Dal punto di vista politico c'è un solo principio, la sovranità dell'io si chiama Libertà. Quando due o parecchie di queste sovranità si associano, comincia lo Stato. Ma in questa associazione non c'è nessuna abdicazione; ciascuna sovranità concede una certa quantità di se stessa per formare il diritto comune; questa quantità è la stessa per tutti; e questa identità di cessione fatta da ciascuno a tutti si chiama Eguaglianza. Il diritto comune non è altro che la protezione di tutti che s'irradia sul diritto di ciascuno; e questa protezione di tutti su ciascuno si chiama Fraternità. Il punto d'intersezione di tutte queste sovranità che si aggregano si chiama Società. Questa intersezione essendo un'unione, quel punto è un nodo, donde ciò che si chiama vincolo sociale. Alcuni dicono contratto sociale; ma è la stessa cosa, essendo la parola contratto etimologicamente formata con l'idea di legame. Intendiamoci sull'eguaglianza, poiché se la libertà è la cima, l'eguaglianza è la base.

L'eguaglianza, o cittadini, non è tutta la vegetazione allo stesso livello, una società di giganteschi fili d'erba e di querce nane, un vicinato di gelosie che si castrano tra loro; ma significa, civilmente che tutte le attitudini abbiano lo stesso sfogo, politicamente che tutti i voti abbiano lo stesso peso, religiosamente che tutte le coscienze abbiano lo stesso diritto.

L'eguaglianza ha un organo; l'istruzione gratuita e obbligatoria.

Il diritto all'alfabeto: ecco da dove bisogna cominciare. La scuola primaria imposta a tutti, la secondaria offerta a tutti, ecco la legge. Dalla scuola identica esce la società eguale. Sì, insegnamento! Luce! Luce! tutto viene dalla luce e tutto vi ritorna.

Cittadini, il secolo diciannovesimo è grande, ma il secolo ventesimo sarà felice. Allora più niente di simile alla vecchia storia; non si dovrà più temere, come oggi, una conquista, un'invasione, un'usurpazione, una rivalità di nazioni a mano armata, un'interruzione di civiltà dipendente dal matrimonio d'un re, una nascita nelle tirannie ereditarie, una ripartizione di nazionalità decisa da un congresso, uno smembramento per il crollare d'una dinastia, una lotta fra due religioni che cozzano come due capri delle tenebre sul ponte dell'infinito; non si dovrà più temere la fame, lo sfruttamento, la prostituzione per miseria, la miseria per disoccupazione, e il patibolo, e la spada, e le battaglie e tutti i brigantaggi del caso nella foresta degli avvenimenti. Si potrebbe quasi dire: non ci saranno più avvenimenti. Il genere umano sarà felice: compirà la sua legge come il globo terrestre compie la sua; si ristabilirà l'armonia tra l'anima e l'astro; quella graviterà intorno alla verità come questa intorno alla luce. Amici, l'ora in cui siamo e in cui vi parlo, è fosca; ma sono questi gli acquisti terribili dell'avvenire. Una rivoluzione è un pedaggio. Oh! il genere umano sarà liberato, rialzato, e confortato! Noi glielo promettiamo su questa barricata. E donde emetteremmo il grido d'amore se non dall'alto del sacrificio? Fratelli miei, è questo il luogo di congiunzione di quelli che pensano e di quelli che soffrono; questa barricata non è fatta né di selci né di travi né di ferramenta; ma di due mucchi, uno d'idee, l'altro di dolori. La miseria qui s'incontra con l'ideale, qui il giorno abbraccia la notte e le dice: - Io muoio con te e tu rinascerai con me.

Dalla stretta di tutte le desolazioni scaturisce la fede. I patimenti portano qui la loro agonia, e le idee la loro immortalità; e questa agonia e questa immortalità stanno per mescolarsi e comporre la nostra morte. Fratelli, chi muore qui, muore nelle irradiazioni dell'avvenire; e noi penetriamo in una tomba tutta penetrata d'aurora.

Enjolras s'interruppe più che non tacesse; le sue labbra continuarono ad agitarsi silenziosamente, come se parlasse a se stesso, sicché tutti lo guardarono attenti, cercando di udirlo ancora. Non ci furono applausi ma un lungo mormorio. La parola è un soffio e i fremiti delle intelligenze somigliano ai fremiti delle foglie.




6. MARIO FOSCO. JAVERT LACONICO


Vediamo che cosa avveniva nella mente di Mario.

Ricordiamo il suo stato d'animo. Come abbiamo già detto, tutto quanto accadeva non era per lui che visione. Il suo apprezzamento era torbido: Mario, ripetiamo, era sotto le grandi ali tenebrose aperte sugli agonizzanti; si sentiva nella tomba, si sentiva già dall'altra parte del muro, e non vedeva più le facce dei vivi se non con gli occhi di un morto.

Come mai il signor Fauchelevent era là? E perché vi era? Che ci veniva a fare? Mario non si rivolse tutte queste domande.

D'altronde, essendo proprio della nostra disperazione avvolgere gli altri come noi stessi, gli pareva logico che tutti venissero là a morire.

Solo, pensò a Cosetta con uno stringimento di cuore.

Fauchelevent non gli parlò, non lo guardò, e non parve neppure che lo udisse quando Mario alzò la voce per dire: - Io lo conosco.

Quanto a Mario, quel contegno del signor Fauchelevent lo sollevava, e se si potesse usare una tal parola per simili espressioni, diremmo che gli piaceva. Egli si era sempre sentito nell'assoluta impossibilità di rivolgere la parola a quell'uomo enigmatico, che era per lui al tempo stesso equivoco e imponente.

Inoltre da molto tempo non lo aveva visto, ciò che, per il carattere timido e riservato di Mario, accresceva ancora quella impossibilità.

I cinque uomini designati, che ora somigliavano perfettamente a guardie nazionali, uscirono dalla barricata per il vicolo Mondétour. Uno di essi se ne andò piangendo. Prima di allontanarsi baciarono quelli che restavano. Quando i cinque uomini rimandati alla vita furono partiti, Enjolras pensò al condannato a morte:

entrò nella sala terrena; Javert, legato al palo, meditava.

- Hai bisogno di qualche cosa? - gli chiese Enjolras.

Javert rispose:

- Quando mi ucciderete?

- Aspetta. Abbiamo bisogno di tutte le nostre cartucce in questo momento.

- Allora datemi da bere.

Enjolras gli porse egli stesso un bicchier d'acqua e, siccome Javert era legato, lo aiutò a bere.

- Non vuoi altro? - riprese il giovane.

- Sto male a questo palo - rispose Javert. - Non siete stati troppo teneri lasciandomi qui tutta la notte. Legatemi come volete, ma potete benissimo distendermi sopra una tavola, come l'altro.

E con un moto del capo accennò il cadavere di Mabeuf.

Il lettore si ricorderà che in fondo alla sala c'era una tavola larga e lunga sulla quale avevano fuso le palle e fabbricato le cartucce. Ora che tutte le cartucce erano fatte e tutta la polvere adoperata, quella tavola era libera.

Per ordine d'Enjolras, quattro insorti sciolsero Javert dal palo, mentre un quinto gli teneva una baionetta appuntata sul petto. Gli lasciarono le mani legate dietro il dorso, gli misero ai piedi una corda di frusta, sottile e forte, che gli permetteva di muovere dei passi di quindici pollici, come ai condannati che salgono il patibolo, e lo fecero camminare fino alla tavola in fondo, sulla quale lo stesero, strettamente legato a mezzo il corpo.

Per maggiore sicurezza con una corda passata intorno al collo, aggiunsero, al sistema di legature, che gli rendevano impossibile la fuga, quel legame detto nelle prigioni martingala, che parte dalla nuca, si biforca sullo stomaco, e va a raggiungere le mani dopo essere passato tra le gambe.

Mentre legavano Javert, un uomo, sul limitare della porta, lo esaminava con attenzione straordinaria. L'ombra da lui proiettata fece volgere la testa al prigioniero, che alzò gli occhi e riconobbe Valjean. Non trasalì neppure: abbassò fieramente le palpebre e si limitò a dire: - E' naturale.




7. LA SITUAZIONE SI AGGRAVA


Il giorno cresceva rapidamente; ma non una finestra si apriva, non una porta si socchiudeva; era l'aurora, ma non il risveglio.

L'estremità della via Chanvrerie opposta alla barricata, sgombrata dalle truppe, come abbiamo già detto, pareva libera, e si offriva ai passanti con una tranquillità sinistra. La via San Luigi era muta come il viale delle sfingi a Tebe; non un essere vivente nei crocicchi imbiancati da un riflesso di luce. Non c'è cosa più lugubre di quel chiarore nelle vie deserte.

Non si vedeva nulla, ma si udiva: un movimento misterioso avveniva a qualche distanza. Evidentemente il momento critico si avvicinava. Come la sera precedente, le sentinelle ripiegarono, ma questa volta tutte.

La barricata era più forte che al momento del primo assalto: dopo la partenza dei cinque era stata ancora rialzata.

Per consiglio della sentinella che aveva vegliato dalla parte dei Mercati, Enjolras, temendo una sorpresa alle spalle, prese una risoluzione grave: fece barricare il piccolo budello del vicolo Mondétour fino allora libero: al quale scopo disselciarono un altro pezzo di strada. In quel momento la ridotta, chiusa da tre lati, dinanzi nella via della Chanvrerie, a sinistra la via del Cigno e della Petite-Truanderie, a destra verso il vicolo Mondétour, era veramente quasi inespugnabile; è vero che vi si era anche fatalmente rinchiusi. Aveva tre fronti, ma non più alcuna uscita. - Fortezza, ma trappola - disse Courfeyrac ridendo.

Enjolras fece ammucchiare vicino alla porta della bettola una trentina di selci "strappate in più" diceva Bossuet.

Ora il silenzio dalla parte donde doveva venire l'assalto era così profondo, che Enjolras fece riprendere a ciascuno il posto di combattimento.

Fu distribuita a tutti una razione di acquavite.

Nulla di più curioso di una barricata che si prepara a sostenere un assalto. Ognuno sceglie il suo posto come a teatro; chi si appoggia col fianco, chi col gomito, chi con la spalla; alcuni si formano un sedile coi ciottoli, uno si allontana da uno spigolo di muro che gli dà fastidio, un altro si ripara dietro una sporgenza che lo può proteggere. I mancini sono preziosi: prendono i posti incomodi per gli altri. Molti si dispongono in modo da poter combattere seduti: vogliono stare a proprio agio per uccidere e comodamente per morire. Nella funesta guerra del giugno 1848 un insorto, terribile per la precisione del tiro, che si batteva dall'alto di una terrazza, vi si era fatto portare una poltrona alla Voltaire, ma un colpo di mitraglia andò a cercarvelo.

Non appena il capo ha comandato di stare pronti alla battaglia, cessano tutti i movimenti disordinati, non più va e vieni dall'uno all'altro, né crocchi né individui a parte; tutto quello che è nelle mani converge e si muta in aspettazione di assalto. Una barricata prima del pericolo è un caos, nel pericolo è disciplina:

il pericolo produce l'ordine.

Appena Enjolras ebbe preso la sua carabina a due colpi e si fu collocato a una specie di merlo che s'era riservato, tutti tacquero. Lungo la muraglia di selci si udì uno scoppiettio confuso di piccoli rumori: caricavano i fucili.

Del resto gli atteggiamenti erano più fieri e più fiduciosi che mai; l'eccesso del sacrificio rinvigorisce: non avevano più speranza, ma rimaneva loro la disperazione: la disperazione, ultima arma che dà talvolta la vittoria, come disse Virgilio. Le risorse supreme escono dalle estreme risoluzioni. Imbarcarsi nella morte è talora il mezzo per sfuggire al naufragio, e il coperchio della bara diventa allora una tavola di salvezza.

Come la sera precedente, l'attenzione di tutti era rivolta, e quasi diremmo appoggiata, all'estremità della via, ora illuminata e visibile.

L'attesa non fu lunga. Il movimento ricominciò dalla parte di San Leo, ma non somigliava a quello del primo assalto. Uno sbattere di catene, i trabalzi inquietanti di qualche cosa di pesante, un tinnire di bronzo saltellante sul selciato, una specie di fracasso solenne, annunciarono l'avvicinarsi di una sinistra massa ferrigna. Trasalirono le viscere di quelle vecchie vie tranquille, aperte e costruite per la feconda circolazione degli interessi e delle idee, e non fatte per il rotolare mostruoso delle ruote di guerra. Le pupille di tutti i combattenti fisse sull'estremità della via divennero selvagge.

Apparve un cannone.

Gli artiglieri spingevano il pezzo calettato nella parte posteriore della carretta, mentre l'avantreno era stato staccato.

Due artiglieri sostenevano l'affusto, quattro stavano alle ruote, altri seguivano col cassone. Si vedeva fumare la miccia accesa.

- Fuoco! - gridò Enjolras.

Tutta la barricata fece fuoco, con uno scoppio spaventoso, e una valanga di fumo nascose cannone e cannonieri. Dopo qualche secondo, dissipatasi la nube, cannone e cannonieri ricomparvero; i serventi del pezzo finivano di spingerlo di fronte alla barricata lentamente, correttamente, senza affrettarsi. Nessuno era stato colpito. Poi il capo pezzo, pesando sulla culatta per elevare il tiro, si mise a puntare il cannone con la gravità di un astronomo che punta un cannocchiale.

- Bravi cannonieri! - esclamò Bossuet.

E tutta la barricata batté le mani.

Un momento dopo, gagliardamente portato nel mezzo della via, a cavalcioni del rigagnolo, il pezzo era in batteria, aprendo la sua gola formidabile contro la barricata.

- Su via, allegri! - disse Courfeyrac. - Ecco i mezzi brutali.

Dopo il buffetto, il pugno. L'esercito stende verso di noi la sua zampa grossa. La barricata sta per essere scossa seriamente: la moschetteria tasta, il cannone prende.

- E' un pezzo da otto, nuovo modello - aggiunse Combeferre. - Per poco che si oltrepassi la proporzione di dieci parti di stagno su cento di rame, questi cannoni sono soggetti a scoppiare: l'eccesso di stagno li rende troppo teneri; e allora capita che abbiano delle bolle e delle caverne nella lumiera. Per ovviare a questo pericolo e poter forzare la carica converrebbe forse tornare al procedimento del secolo quattordicesimo, la cerchiatura, rivestire esteriormente il cannone dalla culatta fino agli orecchioni con una serie di anelli d'acciaio senza saldatura. Intanto si rimedia al difetto come si può: si arriva a riconoscere dove sono i vani e le caverne nella lumiera a mezzo del gatto; ma c'è un mezzo migliore, la stella mobile di Gribeauval.

- Nel secolo decimosesto, - osservò Bossuet, - i cannoni si rigavano.

- Sì, - riprese Combeferre, - questo aumenta la forza balistica, ma diminuisce la precisione del tiro. Inoltre nel tiro a breve distanza la traiettoria non ha tutta la rigidità desiderabile, la parabola si esagera, e il cammino che percorre il proiettile non è più abbastanza rettilineo perché possa colpire gli oggetti intermedi; eppure quest'ultima è una necessità del combattimento, che cresce d'importanza con la prossimità del nemico e la precipitazione del tiro. Questo difetto di tensione nella curva del proiettile, nei cannoni rigati del sedicesimo secolo derivava dalla debolezza della carica, la quale in quella specie di ordigni è imposta da alcune necessità balistiche, come per esempio la conservazione degli affusti. Insomma quel despota che è il cannone non può tutto quello che vuole; la forza è una grossa debolezza.

Una palla da cannone non percorre che seicento leghe all'ora; la luce ne percorre settantamila al secondo. Tale è la superiorità di Cristo su Napoleone.

- Ricaricate le armi, - disse Enjolras.

In che modo il rivestimento della barricata si sarebbe comportato al colpo di cannone? Ci sarebbe stata una breccia? Era questo il problema. Mentre gli insorti ricaricavano i fucili, gli artiglieri caricavano il pezzo.

L'ansietà era profonda nella ridotta.

Partì il colpo e scoppiò la detonazione.

- Presente! - gridò una voce allegra.

E mentre la palla di cannone si abbatteva sulla barricata, Gavroche si slanciava dentro.

Egli giungeva dalla parte di via del Cigno, e aveva scavalcato agilmente lo sbarramento accessorio di fronte al dedalo della Petite-Truanderie.

Gavroche fece più effetto nella barricata che non il colpo di cannone.

La palla si era perduta fra l'ammasso dei rottami: aveva tutt'al più spezzato una ruota dell'omnibus, e finito di rompere il vecchio carretto Anceau.

Vedendo ciò là barricata si mise a ridere.

Continuate, - gridò Bossuet agli artiglieri.




8. GLI ARTIGLIERI SI FANNO PRENDERE SUL SERIO


Circondarono Gavroche.

Ma non ebbe tempo di raccontare nulla. Mario, fremente, lo trasse in disparte.

- Che vieni a fare, qui?

- Oh bella! - rispose il fanciullo. - E voi?

E guardò fisso Mario con la sua sfrontatezza epica; e i suoi occhi erano ingranditi dall'intrepida luce che contenevano.

Mario proseguì con accento severo:

- Chi ti ha detto di ritornare? Hai almeno consegnato la lettera al suo indirizzo?

Gavroche non era senza qualche rimorso riguardo a quella lettera, di cui, per la fretta di ritornare alla barricata, si era disfatto, più che non l'avesse consegnata. Era obbligato a confessare a se stesso di averla affidata un po' leggermente a quello sconosciuto, di cui non aveva nemmeno potuto distinguere il volto. E' vero che quell'uomo era a testa scoperta, ma questo non bastava. Insomma egli si faceva su quel punto delle piccole rimostranze interiori, e temeva i rimproveri di Mario; quindi per cavarsi d'impaccio, adottò il procedimento più semplice: mentì con audacia.

- Cittadino, ho consegnato la lettera al portinaio. La signora dormiva. La riceverà allo svegliarsi.

Inviando quel biglietto, Mario aveva due scopi, dire addio a Cosetta e salvare Gavroche; ma dovette contentarsi della metà di quanto desiderava.

Intanto, l'invio della lettera e la presenza del signor Fauchelevent nella barricata, questo ravvicinamento gli si presentò alla mente. Mostrò a Gavroche il signor Fauchelevent.

- Conosci quell'uomo?

- No, - rispose Gavroche.

Come abbiamo già ricordato, aveva visto infatti Valjean solo di notte.

Le congetture torbide e traballanti sbozzate dalla mente di Mario svanirono. Che cosa ne sapeva egli delle opinioni del signor Fauchelevent? Forse era un repubblicano; quindi la sua presenza era del tutto naturale in quella mischia.

Intanto Gavroche era già all'altro estremo della barricata gridando: - Il mio fucile!

Courfeyrac glielo fece restituire.

Il birichino avvertì "i compagni", com'egli li chiamava, che la barricata era bloccata, e che egli aveva durato non poca fatica per ritornare. Un battaglione di linea, i cui fucili a fasci erano nella Petite-Truanderie, guardava il lato della via del Cigno; dal lato opposto, la guardia municipale occupava la via del Predicatori: di fronte, avevano il grosso dell'esercito.

Dopo le quali informazioni, Gavroche aggiunse:

- Vi autorizzo a conciarli come meritano.

Intanto Enjolras, dietro alla sua feritoia, con l'orecchio teso spiava.

Gli assalitori, senza dubbio poco soddisfatti del colpo di cannone, non l'avevano ripetuto.

Una compagnia di fanteria di linea era andata a occupare l'estremità della via, dietro il cannone: i soldati disselciavano il mezzo della via e vi costruivano con le pietre un muricciolo basso, una specie di scarpa, che non aveva più di diciotto pollici di altezza, e che faceva fronte alla barricata. Nell'angolo a sinistra di quella scarpa si vedeva la testa di colonna di un battaglione di guardia nazionale del circondario, ammassato nella via San Dionigi.

Enjolras, sempre di vedetta, credette di distinguere il rumore particolare che si fa quando si ritirano dai cassoni le cartucce a mitraglia, e vide il capo-pezzo cambiare il puntamento e piegare leggermente a sinistra la bocca del cannone. Quindi i cannonieri si misero a caricarlo, e il capo-pezzo, presa egli stesso la miccia, l'avvicinò al focone.

- Abbassate la testa, accostatevi al muro e giù tutti, in ginocchio lungo la barricata! - gridò Enjolras.

Gli insorti, che avevano lasciato i loro posti di battaglia all'arrivo di Gavroche, ed erano sparsi dinanzi all'osteria, si precipitarono alla rinfusa verso la barricata; prima che l'ordine di Enjolras fosse eseguito, avvenne lo sparo col rantolo spaventoso di una scarica di mitraglia. E tale era infatti.

Il colpo, diretto verso il vano tra la barricata e la casa vicina, aveva rimbalzato sul muro, e quel terribile rimbalzo fece due morti e tre feriti.

Se si continuava così, la barricata non poteva resistere. La mitraglia penetrava.

Ci fu un mormorio costernato.

- Impediamo ad ogni modo il secondo colpo - disse Enjolras.

E, spianata la carabina, prese di mira il capo-pezzo, che in quel momento, chino sulla culatta del cannone, rettificava e fissava definitivamente il tiro.

Quel capo-pezzo era un bel sergente cannoniere, giovanissimo, biondo, col viso dolcissimo, con la fisionomia intelligente, propria di quell'arma predestinata e formidabile che, a forza di perfezionarsi nell'orrore, deve finire per uccidere la guerra.

Combeferre, in piedi vicino a Enjolras, contemplava quel giovane.

- Che peccato! - disse. - Che orribile cosa sono queste carneficine! Su via, quando non ci saranno più re, non ci saranno più guerre. Tu, Enjolras, prendi di mira quel sergente, ma non lo guardi. Figurati che è un grazioso giovane, e intrepido, si vede che riflette; sono molto istruiti, quei giovani artiglieri; ha un padre, una madre, una famiglia, probabilmente ama, ha tutt'al più venticinque anni, potrebbe essere tuo fratello.

- Lo è, - rispose Enjolras.

- Sì, - riprese Combeferre, - ed è anche mio. Ebbene non uccidiamolo.

- Lasciami stare. Quel che è necessario, è necessario.

E una lacrima scorse lentamente sulla gota di marmo di Enjolras.

Nello stesso tempo tirò il grilletto della carabina. Brillò un lampo: l'artigliere girò due volte su se stesso con le braccia tese in avanti e la testa alta come per aspirare l'aria, quindi si rovesciò di fianco sul pezzo e vi rimase immoto. Si vedeva dal centro del dorso uscire diritto uno zampillo di sangue. La palla gli aveva attraversato il petto da parte a parte. Era morto.

Si dovette trasportarlo e sostituirlo con un altro; erano alcuni minuti guadagnati.




9. USO DI QUELLA VECCHIA DESTREZZA DI BRACCONIERE E DI QUEL TIRO INFALLIBILE CHE INFLUIRONO SULLA CONDANNA DEL 1796.


Nella barricata si incrociavano le opinioni. Il tiro del cannone stava per ricominciare, e con quella mitraglia era questione di un quarto d'ora. Era assolutamente necessario ammortire i colpi.

Enjolras lanciò quest'ordine:

- Bisogna mettere là un materasso.

- Non ne abbiamo - rispose Combeferre; - ci sono sopra i feriti.

Valjean, seduto in disparte sopra un pilastrino, all'angolo della bettola, col fucile tra le gambe, fino a quel momento non aveva preso parte a niente di quanto avveniva, e pareva non udire i combattenti dire intorno a lui: - Ecco un fucile che non fa nulla.

All'ordine di Enjolras, si alzò.

Il lettore ricorderà che, all'arrivo dell'assembramento in via della Chanvrerie, una vecchia, prevedendo la moschetteria, aveva messo un materasso dinanzi alla propria finestra. Era una finestra di granaio, sul tetto d'una casa a sei piani situata un po' in fuori alla barricata. Il materasso, posto di traverso e sostenuto di sotto da due pertiche per far asciugare la biancheria, era retto in alto da due corde, che da lontano sembravano spaghi ed erano annodate a due chiodi infissi negli stipiti della finestra.

Sullo sfondo del cielo, le due corde si vedevano distintamente come capelli.

- Qualcuno può prestarmi una carabina a due colpi? - chiese Valjean.

Enjolras, che aveva ricaricato la sua, gliela porse.

Valjean prese di mira la finestra e tirò.

Il colpo spezzo una delle due corde che reggevano il materasso, che restò così appeso a un solo filo.

Valjean tirò il secondo colpo; l'altra corda andò a sferzare i vetri della soffitta, e il materasso, sdrucciolando tra le due pertiche, cadde nella via.

La barricata applaudì.

Tutte le voci gridarono:

- Ecco un materasso.

- Si - osservò Combeferre, - ma chi andrà a prenderlo?

Infatti il materasso era caduto fuori della barricata, tra gli assedianti e gli assediati. Ora la morte del sergente artigliere aveva inasprito la truppa; da qualche minuto i soldati si erano distesi ventre a terra dietro il riparo di ciottoli da loro costruito, e per supplire al forzato silenzio del pezzo, che taceva aspettando che fosse riorganizzato il servizio, avevano aperto il fuoco contro la barricata. Gli insorti non rispondevano a quella moschetteria per economizzare le munizioni, e le fucilate andavano a rompersi contro la trincea, ma la via, attraversata da tante pallottole, era terribile.

Valjean uscì dall'apertura, entrò nella via, attraversò la tempesta di fucilate, andò verso il materasso, lo raccolse, se lo caricò sul dorso e rientrò nella barricata.

Egli stesso lo assestò nel vano, fissandolo contro il muro in modo che gli artiglieri non potessero vederlo.

Ciò fatto, stettero ad aspettare il colpo di mitraglia.

Il quale non tardò.

Il cannone vomitò con un ruggito il suo pacco di mitraglia, ma non ci fu nessun rimbalzo: la mitraglia andò a spegnersi sul materasso. L'effetto previsto era raggiunto: i combattenti rimanevano illesi.

- Cittadino, - disse Enjolras a Valjean, - la repubblica vi ringrazia.

Bossuet, che ammirava e rideva, gridò:

- E' una cosa immorale che un materasso abbia tanta potenza; è il trionfo di quel che si piega su quello che fulmina. Ma non importa: gloria al materasso che annulla un cannone.




10. AURORA


In quello stesso momento, Cosetta si svegliava.

La sua camera era piccola, pulita, discreta, con un'alta finestra a levante sulla corte interna della casa.

Cosetta non sapeva nulla di quanto accadeva a Parigi: il giorno prima si era ritirata presto in camera; e non era presente quando la Toussaint aveva detto: - C'è del movimento.

Essa aveva dormito poche ore, ma bene, e aveva fatto dei dolci sogni, forse anche un po' perché il suo lettuccio era molto bianco; qualcuno, che poi era Mario, le era apparso avvolto in una luce. E si svegliò con il sole negli occhi, ciò che nel primo momento le fece l'impressione che il sogno continuasse.

Il suo primo pensiero, uscendo da quel sogno, fu ridente: Cosetta si sentì tutta rassicurata. Come Valjean poche ore innanzi, attraversava quella reazione dell'anima che assolutamente non vuol saperne della sventura. Si mise a sperare con tutte le sue forze, senza sapere perché. Poi fu presa da uno stringimento di cuore:

erano già tre giorni che non vedeva Mario. Ma rifletté che egli doveva aver ricevuto la sua lettera, che sapeva dove ritrovarla, e che egli aveva tanto spirito, e che avrebbe trovato il mezzo di arrivare fino a lei. - E questo certamente oggi, e forse questa mattina stessa. - Era giorno chiaro, ma, dal raggio molto orizzontale, pensò che doveva essere molto presto e che tuttavia bisognava alzarsi, per ricevere Mario.

Sentiva di non poter vivere senza Mario, che per conseguenza questo bastava, e che Mario sarebbe venuto. Nessuna obiezione ammissibile: era una cosa certa. Già era abbastanza mostruoso aver sofferto tre giorni, era una cosa orribile da parte del buon Dio.

Ora quella crudele contrarietà che veniva dall'alto era una prova attraversata; Mario stava per arrivare, e con una buona notizia.

La giovinezza è fatta così: si asciuga presto gli occhi, trova inutile il dolore e non lo accetta.

Del resto la fanciulla non riusciva a ricordare quello che Mario le aveva detto intorno a quell'assenza che doveva durare un giorno solo, e quale spiegazione le aveva dato. Tutti hanno osservato con quanta destrezza la moneta che lasciamo cadere per terra corre a nascondersi, e con che arte sa rendersi irreperibile. Ci sono dei pensieri che ci giocano lo stesso tiro: si rannicchiano in un angolo del cervello, ed è finita; sono perduti; impossibile tornare a porvi su la memoria. Cosetta si indispettiva un po' del piccolo sforzo inutile che faceva per ricordarsi, e diceva a se stessa che non le stava bene e che era assai colpevole aver dimenticato delle parole dette da Mario.

Uscì dal letto e fece le sue abluzioni dell'anima e del corpo, la preghiera e la toletta.

A tutto rigore, si può introdurre il lettore in una camera nuziale, non in quella di una vergine. Il verso l'oserebbe appena; la prosa non deve.

E' l'interno d'un fiore non ancora sbocciato, è un candore nell'ombra, l'intima cella d'un giglio chiuso, che non deve essere guardato dall'uomo finché non sia stato guardato dal sole. La donna ancora in boccio è sacra. Quel letto innocente che si scopre, quell'adorabile semi-nudità che ha paura di se stessa, quel piede che si rifugia in una pantofola, quel seno che si vela dinanzi allo specchio come se lo specchio fosse una pupilla, quella camicia che si affretta a risalire e a nascondere la spalla per un mobile che scricchiola o una vettura che passa, quei cordoncini allacciati, quelle fibbie agganciate, quei laccetti tirati, quei trasalimenti, quei piccoli brividi di freddo e di pudore, quei movimenti squisitamente spauriti, quell'inquietudine quasi alata mentre non c'è nulla da temere, le fasi successive dell'abbigliarsi, graziose come le nuvole dell'aurora, sono tutte cose che non sta bene descrivere, e che è già troppo indicare.

L'occhio dell'uomo dev'essere ancora più religioso dinanzi al levarsi d'una fanciulla, che dinanzi al levarsi d'una stella; la possibilità di raggiungerla deve volgersi in un aumento di rispetto. La peluria della pesca, la pruina della prugna, il cristallo radiante della neve, la calugine sull'ala della farfalla, sono cose rozze in confronto di quella castità che non sa neppure d'essere casta. La fanciulla è appena una luce di sogno e non è ancora una statua. La sua alcova è nascosta nella parte oscura dell'ideale, e il contatto indiscreto dello sguardo offende quella vaga penombra. Contemplare è profanare.

Noi dunque non descriveremo per nulla quel soave tramestìo del risveglio di Cosetta.

Un racconto orientale dice che la rosa era stata creata da Dio bianca, ma che avendola Adamo guardata un momento mentre si schiudeva, essa ebbe vergogna e divenne rossa. Noi siamo di quelli che si sentono turbati dinanzi ai fiori e alle fanciulle, perché li troviamo degni di venerazione.

Cosetta si vestì prontamente, si pettinò, si acconciò, cosa molto semplice a quell'epoca, quando le donne non si gonfiavano le ciocche e le bende con cuscinetti e barilotti, e non si mettevano le crinoline nei capelli. Quindi aprì la finestra e girò gli occhi tutt'intorno, sperando di scoprire un po' della via, un angolo di casa, qualche pezzo di lastrico, da cui spiare l'arrivo di Mario.

Ma non si vedeva nulla del di fuori. La corte interna era circondata da muri abbastanza alti, e si intravedevano soltanto alcuni giardini, che a Cosetta sembrarono orribili. Per la prima volta in vita sua trovò dei fiori brutti. Prese il partito di guardare il cielo, quasi credendo che Mario potesse giungere di là.

A un tratto scoppiò in pianto: non per mobilità d'animo, ma perché il suo stato era fatto di speranze alternate di scoraggiamenti.

Sentì confusamente un non so che di orribile; poiché infatti le cose passano nell'aria. Pensò che non era sicura di nulla, che perdersi di vista era come andar perduti l'uno per l'altro; e l'idea che Mario potesse tornare a lei dal cielo le si affacciò non più sorridente, ma lugubre.

Poi ritornò la calma, e la speranza, e una specie di sorriso, inconscio ma fiducioso, in Dio.

Tutti ancora dormivano nelle case: un silenzio da cittadina di provincia; non un'imposta aperta, chiuso anche il casotto del portinaio. La Toussaint non era alzata e Cosetta ritenne naturalmente che suo padre dormisse. Doveva aver sofferto e soffrire ancora, poiché diceva tra sé che suo padre era stato cattivo. Ma faceva assegnamento su Mario: era impossibile che quella luce si eclissasse. Si pose a pregare. Ogni tanto sentiva a una certa distanza delle sorde scosse, e pensava: - E' strano che aprano e chiudano i portoni così di buon mattino. - Erano i colpi di cannone che battevano la barricata.

Pochi piedi sotto la finestra di Cosetta, nella vecchia cornice del muro tutta nera c'era un nido di rondini, il quale con la sua curva sporgeva un po' dalla cornice, sicché dall'alto si poteva vedere l'interno del piccolo paradiso. La madre era dentro, con le ali aperte a ventaglio sulla sua covata, mentre il padre svolazzava, partiva e ritornava, portando nel suo becco cibo e baci. ll giorno nascente dorava quella scena di felicità, la gran legge del "Moltiplicatevi" era là sorridente e augusta, e quel dolce mistero si schiudeva nella gloria del mattino. Cosetta, coi capelli al sole e l'anima nelle chimere, illuminata dall'amore di dentro e dall'aurora di fuori, si chinò quasi macchinalmente, e senza forse osare di confessare a se stessa che pensava nello stesso tempo a Mario, si mise a guardare quegli uccelli, quella famiglia, quel maschio e quella femmina, quella madre e quei piccoli, col profondo turbamento che un nido suscita in una vergine.




11. IL COLPO DI FUCILE CHE NON FALLA MAI E NON UCCIDE NESSUNO


Il fuoco degli assalitori perdurava; la moschetteria e la mitraglia si alternavano, senza grave danno in verità. Solo la parte superiore della facciata di Corinto ne soffriva: la finestra del primo piano e gli abbaini del tetto, crivellati dalla mitraglia e dai biscaglini, si deformavano lentamente, e i combattenti che vi si erano appostati avevano dovuto allontanarsene. Del resto, continuare a lungo il fuoco è la tattica dell'assalto alla barricata, allo scopo di esaurire le munizioni degli insorti se commettono l'errore di rispondere.

Quando si vede, dal loro fuoco rallentato, che non hanno più né polvere né palle, si dà l'assalto. Enjolras non era caduto nell'insidia: la barricata non rispondeva.

A ogni fuoco del plotone, Gavroche si gonfiava la gota con la lingua, segno di alto disprezzo.

- Va bene, - diceva, - lacerate pure la tela; ci occorrono le filacce.

Courfeyrac interpellava la mitraglia intorno ai suoi scarsi effetti e diceva al cannone:

- Diventi prolisso, mio caro.

Nelle battaglie avviene di essere presi dalla curiosità come al ballo. E' probabile che quel silenzio della ridotta cominciasse a inquietare gli assedianti e a far loro temere qualche incidente inaspettato, e che sentissero il bisogno di vedere chiaro attraverso quel mucchio di selci, di sapere cosa avveniva dietro quel muro impassibile che riceveva i colpi senza ribatterli. Il fatto è che a un tratto gli insorti videro un elmo brillare al sole sopra un tetto vicino; era un pompiere appoggiato a un alto fumaiolo, che pareva messo là di sentinella. Il suo sguardo piombava a picco nella barricata.

- Ecco un sorvegliante incomodo, - esclamò Enjolras.

Valjean aveva reso la carabina a Enjolras, ma teneva il suo fucile.

Senza dire una parola, prese di mira il pompiere, e un attimo dopo l'elmo, colpito da una palla, cadeva rumorosamente nella via. Il soldato, spaventato, si affrettò a sparire.

Il suo posto fu preso da un secondo osservatore, questa volta un ufficiale. Valjean, che aveva ricaricato il fucile, mirò il nuovo venuto, e mandò l'elmo dell'ufficiale a raggiungere quello del soldato. L'ufficiale non insistette e si ritirò prontamente; e questa volta l'avviso fu compreso: nessuno più apparve sul tetto, si rinunciò a spiare la barricata.

- Perché non avete ucciso l'uomo? - chiese Bossuet a Valjean.

Valjean non rispose.




12. IL DISORDINE PARTIGIANO DELL'ORDINE


Bossuet mormorò all'orecchio di Combeferre:

- Non ha risposto alla mia domanda.

- E' un uomo che pratica la bontà a colpi di fucile, - rispose Combeferre.

Chi ha serbato qualche ricordo di quell'epoca lontana, sa che la guardia nazionale del circondario era valorosa contro le insurrezioni, e che nelle giornate del giugno 1832 essa fu accanita e intrepida in modo particolare. Il pacifico bettoliere di Pantin, a cui la sommossa rendeva vuoto "il negozio", diventava un leone a vedere deserta la sua sala da ballo, e si faceva ammazzare per salvare l'ordine rappresentato dall'osteria. In quell'epoca, borghese ed eroica insieme, di fronte alle idee che avevano i loro cavalieri, gli interessi avevano i loro paladini.

Il prosaicismo della persona non toglieva nulla alla bravura del gesto. La diminuzione dell'incasso induceva certuni a cantare la Marsigliese. Si versava liricamente il proprio sangue per il proprio banco, si difendeva con spartano entusiasmo la bottega:

questo immenso diminutivo della patria.

In fondo, diciamolo, in tutto questo non c'era nulla che non fosse molto serio. Erano gli elementi sociali che entravano in lotta, nella speranza che un giorno si mettessero in equilibrio.

Un altro segno di quel tempo era l'anarchia mista al paternalismo di governo (parola barbara del partito dell'ordine). Si stava per l'ordine, ma senza disciplina. Il tamburo batteva a casaccio, per ordine del tal colonnello della Guardia nazionale, diane capricciose; la tale guardia si batteva per conto suo e di testa sua. Nei momenti di crisi, nelle "giornate" si prendeva consiglio più dagli istinti che dai capi. Nell'esercito dell'ordine c'erano dei veri guerriglieri, gli uni della spada come Fannicot, gli altri della penna come E. Fonfrède.

La civiltà, rappresentata disgraziatamente allora da un mucchio di interessi più che da un gruppo di princìpi, era o si credeva in pericolo e mandava il grido d'allarme; e ciascuno, facendosi centro, la difendeva, la soccorreva e la proteggeva di testa sua.

Il primo venuto si attribuiva l'incarico di salvare la società.

Lo zelo si spingeva talvolta fino alla strage. Un qualunque drappello della guardia nazionale si costituiva di propria autorità in consiglio di guerra, e in cinque secondi giudicava e fucilava un insorto fatto prigioniero. Giovanni Prouvaire fu ucciso per una improvvisazione di questo genere. Legge feroce di Lynch, che nessun partito ha il diritto di rimproverare agli altri, perché è applicata dalla repubblica in America come dalla monarchia in Europa. Questa legge di Lynch veniva aggravata dagli errori. Un giovane poeta, di nome Paolo Amato Garnier, in un giorno di sommossa, fu inseguito sulla piazza Reale, con le baionette alle spalle, e riuscì a mettersi in salvo rifugiandosi in un portone. Gridavano: - "Ecco un altro sansimoniano!" - e volevano ucciderlo. Egli portava sottobraccio un volume delle memorie di Saint-Simon, e una guardia leggendo sul libro la parola Saint-Simon aveva gridato: - A morte!

Il 6 giugno 1832, una compagnia di guardie nazionali, comandata dal capitano Fannicot, si fece scioccamente e volentieri decimare in via Chanvrerie. Questo fatto, per quanto strano, fu constatato dall'inchiesta giudiziaria che seguì alla insurrezione. Il capitano Fannicot, borghese impaziente e ardito, una specie di soldato di ventura dell'ordine, di quelli che abbiamo or ora caratterizzati, governativo fanatico e indisciplinato, non seppe resistere alla tentazione di far fuoco prima del tempo e all'ambizione di espugnare la barricata da solo, vale a dire con la sua compagnia. Esasperato dalla successiva apparizione della bandiera rossa e del vecchio abito che scambiò per una bandiera nera, biasimava i generali e í capi radunati in consiglio, i quali ritenevano che non fosse ancora giunto il momento dell'assalto decisivo, e lasciavano, secondo la celebre frase di uno di loro "che l'insurrezione si cuocesse nel suo brodo". Dal canto suo, egli trovava la barricata matura, e siccome ciò che è maturo deve cadere, tentò la prova.

Egli comandava uomini decisi come lui, degli "arrabbiati", come disse un teste. La sua compagnia, quella stessa che aveva fucilato il poeta Prouvaire, era la prima del battaglione attestato all'angolo della strada. Quando meno c'era da aspettarselo, il capitano lanciò i suoi uomini contro la barricata; ma quell'attacco, eseguito più con buona volontà che con strategia, costò caro alla compagnia Fannicot. Prima che fosse arrivata a due terzi della strada, fu accolta da una scarica generale della barricata. Quattro, tra i più audaci, che correvano avanti, vennero fulminati a bruciapelo al piede della ridotta; e così quel manipolo coraggioso di guardie nazionali, uomini assai valorosi ma senza tenacia militare, dopo qualche esitazione, dovette ripiegare lasciando quindici cadaveri sul lastrico. Quel momento di esitazione diede tempo agli insorti di ricaricare le armi, e una seconda scarica, molto micidiale, colse gli assalitori prima di raggiungere la cantonata che serviva loro da riparo. Per un momento furono presi tra due fuochi e ricevettero la scarica del pezzo d'artiglieria, il quale, non avendo ricevuto alcun ordine, non aveva sospeso il fuoco. L'intrepido e imprudente Fannicot fu colpito dalla mitraglia; fu ucciso dal cannone, vale a dire dall'ordine.

Quell'attacco, più furioso che serio, irritò Enjolras.

- Imbecilli! - disse. - Fanno uccidere i loro uomini e ci fanno consumare le munizioni.

Enjolras parlava da quel vero generale di sommossa che era.

L'insurrezione e la repressione non lottano ad armi pari.

L'insurrezione è più facilmente esauribile, ha solo pochi colpi da tirare e pochi combattenti da opporre: una giberna vuota, un uomo ucciso non si sostituiscono. La repressione invece, avendo l'esercito, non conta gli uomini, e, avendo Vincennes, non conta i colpi. A ogni uomo della barricata può opporre un reggimento, a ogni cartuccia un arsenale. Sono lotte di uno contro cento, che finiscono sempre con la distruzione delle barricate. A meno che la rivoluzione, scoppiando bruscamente, non venga a gettare nella bilancia la sua fiammeggiante spada d'arcangelo: il che accade qualche volta. Allora tutti si sollevano, il selciato ribolle, le ridotte popolari pullulano. Parigi è presa da un sovrano fremito, si sviluppa il "quid divinum", c'è nell'aria un 10 agosto, un 29 luglio, appare una prodigiosa luce, le fauci spalancate della forza indietreggiano, e l'esercito, il leone, si vede davanti ritto e tranquillo il profeta: la Francia.




13. BAGLIORI CHE PASSANO


Nel caos dei sentimenti e delle passioni che difendono una barricata c'è un po' di tutto; c'è la bravura, la giovinezza, il punto d'onore, l'entusiasmo, l'ideale, la convinzione, l'accanimento del giocatore, e soprattutto la speranza intermittente.

Uno di questi momenti, uno di questi vaghi fremiti di speranza attraversò rapidamente la barricata della Chanvrerie, quando meno se l'aspettavano.

- Sentite! - esclamò d'improvviso Enjolras sempre in vedetta. - Pare che Parigi si risvegli.

E' certo che nella mattinata del 6 giugno l'insurrezione ebbe per un'ora o due una certa recrudescenza. L'ostinazione della campana a stormo di Saint-Merry rianimò qualche velleità. Via del Pero e via Gravilliers fecero un tentativo di barricata. Davanti a Porta San Martino un giovane armato di carabina attaccò da solo uno squadrone di cavalleria. In pieno boulevard, allo scoperto, mise un ginocchio a terra, alzò il fucile, fece fuoco, uccise il capo- squadrone e si volse indietro dicendo: "Eccone un altro che non ci farà più male". - Fu sciabolato. In via San Dionigi, una donna tirava sulle guardie municipali, da dietro una persiana abbassata, di cui ogni tanto si vedevano tremare le stecche. Un ragazzo di quattordici anni fu arrestato in via Cassonnerie con le tasche piene di cartucce. Furono assaliti vari corpi di guardia. Un reggimento di corazzieri, alla cui testa marciava il generale Cavaignac de Baragne, all'imbocco di via Bertin Poirée, fu accolto da una nutrita e inattesa fucileria. In via Planche-Mibray, da sopra i tetti, scagliarono sulla truppa cocci di stoviglie e utensili domestici: cattivo segno. Quando al maresciallo Soult, il vecchio luogotenente di Napoleone, riferirono questo fatto, questi si fece pensoso, ricordando la frase di Suchet a Saragozza: - "Quando le vecchie ci rovesciano sulla testa i loro vasi da notte, siamo perduti!".

Quei sintomi generali che si manifestavano al momento in cui si credeva localizzata la sommossa, quell'accesso di collera che riprendeva il sopravvento, quelle faville che volavano qua e là al di sopra delle profonde masse di combustibile che sono i quartieri di Parigi, tutto questo insieme rese inquieti i capi militari.

Questi si affrettarono a spegnere quei principi di incendio, e fino a che non furono soffocate queste faville, ritardarono l'assalto alle barricate della Maubuée, della Chanvrerie e di Saint-Merry, per aver da fare solo con esse e poter concludere tutto d'un colpo. Alcune colonne furono lanciate nelle vie in agitazione, spazzando le grandi, inondando le piccole, a destra, a sinistra, ora lentamente e con precauzione, ora a passo di carica.

I soldati sfondavano le porte delle case da cui s'era tirato, e nello stesso tempo la cavalleria manovrava per disperdere i gruppi sui boulevard. Quella repressione non avvenne senza quel rumore e senza quel fracasso tumultuoso che è proprio dell'urto tra l'esercito e il popolo. Ed era proprio questo che Enjolras udiva negli intervalli tra la fucileria e le cannonate. Inoltre, aveva visto passare in fondo alla via dei feriti sulle barelle, e diceva a Courfeyrac: - Quei feriti non sono opera nostra.

La speranza durò breve tempo; presto il barlume si eclissò. In meno di mezz'ora tutto svanì. Fu come un lampo senza fulmine, e gli insorti sentirono ricadere sopra di loro quella immensa cappa di piombo che l'indifferenza del popolo getta sugli ostinati che abbandona.

La sommossa generale che pareva vagamente abbozzata era già abortita, e l'attenzione del ministro della guerra come Ia strategia dei generali potevano adesso concentrarsi su tre o quattro barricate rimaste in piedi.

Il sole saliva all'orizzonte.

Un insorto chiese a Enjolras:

- Abbiamo fame qui. Dovremmo morire senza mangiare?

Enjolras, sempre appoggiato col gomito alla sua feritoia, senza perdere di vista l'estremità della strada, fece un cenno di testa affermativo.




14. ENJOLRAS INNAMORATO


Courfeyrac, seduto su un sasso accanto a Enjolras, continuava a farsi beffe del cannone, e ogni qual volta passava col suo mostruoso rumore quel cupo nugolo di proiettili che si chiama mitraglia, lui lo salutava con parole ironiche.

- Ti spolmoni, povero vecchio bestione, mi fai pena; il tuo è uno strepito inutile; non sono tuoni ma colpi di tosse.

E intorno ridevano.

Courfeyrac e Bossuet, il cui coraggioso buon umore cresceva col pericolo, sostituivano, come madame Scarron, lo scherzo al cibo, e poiché mancava il vino, mescevano a tutti la giocondità.

- Io ammiro Enjolras, - diceva Bossuet. - La sua impassibile temerità mi sorprende. Egli vive solo, e questo lo rende un po' triste; si lamenta della sua grandezza che lo costringe alla vedovanza. Noi altri abbiamo più o meno delle ragazze che ci fanno impazzire, vale a dire ci fanno coraggiosi. Chi è innamorato come una tigre il meno che possa fare è di battersi come un leone. E' un bel modo di vendicarsi dei tiri birboni che ci fanno le nostre ragazze. Orlando si fa uccidere per far arrabbiare Angelica. I nostri eroismi derivano tutti dalle nostre donne. Un uomo senza donna è una pistola senza cane. E' la donna che fa scattare l'uomo. E intanto, Enjolras non ha donne, non è innamorato, e tuttavia trova il modo di essere intrepido. E' inaudito che si possa essere freddi come il ghiaccio e arditi come il fuoco.

Enjolras fingeva di non ascoltare; ma se qualcuno gli fosse stato vicino l'avrebbe udito mormorare sottovoce: "Patria".

Bossuet rideva ancora quando Courfeyrac esclamò:

- Qualcosa di nuovo!

E facendo la voce d'un usciere, aggiunse:

- Io mi chiamo Pezzo-da-otto.

Infatti era entrato in scena un nuovo personaggio, un secondo cannone. Gli artiglieri fecero rapidamente la manovra e misero subito quel secondo pezzo in batteria accanto al primo. Cominciava a delinearsi la fine.

Pochi momenti dopo, i due pezzi manovrati rapidamente, tiravano contro la ridotta, mentre i fuochi di fila della linea e delle guardie nazionali sostenevano l'artiglieria.

A qualche distanza si udiva un altro cannoneggiamento. Mentre i due pezzi si accanivano contro la ridotta di via Chanvrerie, altri due, uno puntato su via san Dionigi e l'altro su via Aubry-le- Boucher, crivellavano la barricata Saint-Merry. I quattro cannoni si facevano eco lugubremente.

I latrati di quei tetri mastini da guerra si rispondevano.

I due cannoni che battevano ora la barricata di via Chanvrerie tiravano uno a mitraglia, l'altro a palla.

Quello che tirava a palla era puntato un po' alto e il tiro era calcolato in modo che il proiettile colpiva l'orlo estremo della parte superiore della barricata, la sgretolava, ne sbriciolava i ciottoli sugli insorti come scoppi di mitraglia.

Lo scopo di questo tiro era quello di allontanare i difensori dalla cima della barricata e di costringerli a rintanarsi nell'interno; vale a dire annunciava l'assalto.

Una volta cacciati i combattenti dalla cresta della barricata con le palle di cannone, e dalle finestre della bettola con la mitraglia, le colonne destinate all'attacco potevano avventurarsi nella via senza essere prese di mira, e forse anche senza essere viste, scalare improvvisamente la barricata, come la sera precedente e, chissà, prenderla di sorpresa.

- Dobbiamo assolutamente far diminuire il fastidio di quei cannoni, - disse Enjolras; e gridò: - Fuoco sugli artiglieri!

Erano tutti pronti. La barricata che taceva da tanto tempo fece un fuoco disperato e sette o otto scariche si succedettero con una specie di rabbia e di gioia. La via si riempì di fumo accecante.

Qualche minuto dopo, attraverso quella nebbia striata di fiamme, si poterono discernere confusamente i due terzi degli artiglieri distesi sotto le ruote dei cannoni. Quelli rimasti in piedi continuavano a servire i loro pezzi con severa tranquillità. Ma il fuoco era rallentato.

- Così va bene, - disse Bossuet a Enjolras. - Buon successo.

- Un altro quarto d'ora di questo buon successo e non ci saranno più di dieci cartucce nella barricata.

A quanto pare, Gavroche udì questa frase.




15. GAVROCHE DI FUORI


D'un tratto Courfeyrac vide qualcuno ai piedi della barricata, di fuori, nella via, sotto le pallottole.

Gavroche aveva preso nell'osteria un paniere per le bottiglie, era uscito passando per il vano aperto, ed era tranquillamente occupato a vuotare nel paniere le giberne piene di cartucce delle guardie nazionali uccise sotto la scarpata della ridotta.

- Che fai? - chiese Courfeyrac.

Gavroche alzò il capo:

- Cittadino, riempio il mio paniere.

- Ma non vedi la mitraglia?

- Già! Piove! E poi? - rispose Gavroche.

- Rientra, - gridò Courfeyrac.

- Un momento, - disse il monello.

E con un balzo, avanzò nella via.

Il lettore ricorderà che la compagnia Fannicot, ritirandosi, aveva lasciato dietro di sé una striscia di cadaveri.

Una ventina di morti giacevano qua e là sul selciato per tutta la lunghezza della strada; una ventina di giberne per Gavroche, una provvista di cartucce per la barricata.

Il fumo nella strada faceva come una nebbia. Chi ha visto una nuvola impigliata in una gola di montagna fra due dirupi a picco, può immaginarsi quel fumo rinchiuso e come addensato tra due fosche ali di case alte. Esso saliva lentamente e si rinnovava continuamente. C'era quindi una caligine graduale che rendeva pallida la stessa luce del giorno. Era molto se i combattenti si vedevano da una parte e dall'altra della via che era molto breve.

Quell'oscuramento, probabilmente voluto e predisposto dai capi dell'assalto alla barricata, fu utile a Gavroche.

Sotto la protezione di quel velo di fumo e grazie alla sua piccolezza, Gavroche poté spingersi molto avanti nella via senza essere scorto, e saccheggiò le prime sette o otto giberne senza gran pericolo.

Strisciava ventre a terra, galoppava a quattro zampe, stringeva il paniere tra i denti, si contorceva, scivolava, ondeggiava, serpeggiava da un morto all'altro, e vuotava le giberne come una scimmia sguscia una noce.

Dalla barricata, a cui era molto vicino, non ardivano gridargli di tornare, temendo di attirare su di lui l'attenzione degli altri.

Sul cadavere di un caporale trovò una sacca di polvere.

- Per la sete! - disse mettendosela in tasca.

A furia di andare avanti, giunse al punto in cui la nebbia della fucileria diveniva trasparente. Cosicché i fucilieri appostati dietro il rialzo dei ciottoli, e quelli della guardia nazionale ammassati dietro la cantonata della via, a un tratto si mostrarono a dito qualcosa che si muoveva nel fumo.

Mentre Gavroche era intento a sbarazzare delle sue cartucce un sergente disteso presso un pilastro, una palla colpì il cadavere.

- Diamine! - fece Gavroche. - Mi ammazzano i miei morti!

Una seconda pallottola fece sprizzare faville dalle selci accanto a lui; una terza gli rovesciò il paniere.

Allora si rizzò in piedi, diritto, con i capelli al vento, le mani sui fianchi, l'occhio fisso alle guardie nazionali che tiravano, e si mise a cantare:

"E colpa di Voltaire, se son brutti a Nanterre; è colpa di Rousseau, se son sciocchi a Palaisseau".

Poi, raccolto il paniere, ci mise dentro, senza perderne una, tutte le cartucce che ne erano cadute, e avanzando verso la fucileria, andò a spogliare un'altra vittima. Là una quarta pallottola fece cilecca. E Gavroche cantò:

"Se non sono notaro è colpa di Voltaire; sono un uccellino per colpa di Rousseau".

Una quinta pallottola riuscì soltanto a strappargli la terza strofa:

"Ho un carattere allegro per colpa di Voltaire; ho per corredo la miseria per colpa di Rousseau".

E così continuò per qualche tempo.

Era uno spettacolo spaventoso e incantevole. Gavroche, preso a bersaglio, prendeva in burla la fucileria. Pareva divertirsi un mondo. Era il passerotto che becca il cacciatore. A ogni scarica una strofetta. Gli tiravano continuamente ma senza mai colpirlo.

Soldati e guardie mirandolo ridevano. Egli si stendeva a terra, si raddrizzava, si nascondeva nel vano d'una porta, poi balzava, spariva, ricompariva, scappava, ritornava, rispondeva alla mitraglia con un marameo, e frattanto raccoglieva le cartucce, vuotava le giberne e riempiva il paniere. Gli insorti, senza respiro per l'ansietà, lo seguivano con gli occhi; la barricata trepidava, e lui cantava. Non era un fanciullo, non era un uomo, ma uno strano monello folletto. Pareva il nano invulnerabile della battaglia. Le pallottole lo inseguivano, ma lui era più lesto di loro. Giocava a un terribile rimpiattino con la morte; e ogni volta che la faccia camusa dello spettro si avvicinava, il monello le dava m buffetto.

Però una palla meglio tirata e più traditrice delle altre, finì col colpire il fanciullo folletto; e si vide Gavroche barcollare, poi abbattersi. Tutta la barricata mandò un urlo. In quel pigmeo c'era qualcosa di Anteo. Toccare il lastrico per il monello è come toccar la terra per il gigante. Gavroche era caduto ma per rialzarsi. Restò seduto per terra, mentre una striscia di sangue gli rigava il volto. Alzò le due braccia e, guardando dalla parte donde era venuta la palla, si mise a cantare:

"Sono caduto per terra per colpa di Voltaire; col naso nel rigagnolo per colpa di..." Non finì. Una seconda palla dello stesso tiratore lo inchiodò.

Questa volta si abbatté col volto sul selciato e non si mosse più.

La piccola grande anima aveva preso il volo.




16. COME DA FRATELLO SI DIVENTA PADRE


In quello stesso momento c'erano nel giardino del Lussemburgo perché l'occhio del dramma deve essere presente dovunque - due fanciulli che si tenevano per mano: uno aveva circa sette anni, l'altro cinque. Inzuppati dalla pioggia, camminavano al sole dei viali. Il maggiore guidava il minore. Erano cenciosi e pallidi.

Avevano l'aspetto di uccelli selvatici. Il più piccolo diceva: Ho fame!

Il più grande, già un po' protettore, conduceva il fratellino con la mano sinistra e teneva nella destra una bacchetta.

Erano soli nel giardino, che era deserto e con i cancelli chiusi per misura di polizia, a causa dell'insurrezione. Le truppe che vi avevano bivaccato ne erano uscite a causa del combattimento.

Come si trovavano là quei due ragazzi? Erano forse fuggiti da qualche corpo di guardia lasciato aperto? erano forse scappati da qualche baraccone di saltimbanchi fermo nei dintorni, alla barriera dell'Inferno, o sulla spianata dell'Osservatorio, o nel vicino crocevia dominato dal frontone su cui stava scritto:

"Invenerunt parvulum pannis involutum"? forse la sera precedente avevano eluso la sorveglianza dei guardiani e avevano passato la notte in quei casotti dove si leggono i giornali? Fatto sta che andavano a zonzo e sembravano liberi. Andare a zonzo ed essere liberi significa essere sperduti. Infatti quei due poveri piccini erano sperduti.

Erano proprio quei due bambini per i quali Gavroche era stato tanto in pensiero, come il lettore ricorda.

Figli di Thénardier, dati a nolo alla Magnon, attribuiti a Gillenormand, e ora foglie cadute da tutti quei rami senza radici, e portate dal vento.

I loro vestiti, decenti ai tempi della Magnon, perché le servivano di réclame di fronte a Gillenormand, erano diventati cenci.

Quelle creature appartenevano ormai ai "fanciulli abbandonati", che la polizia raccoglie, smarrisce e ritrova sul lastrico di Parigi.

Ci voleva il trambusto di una giornata come quella perché quei piccoli miserabili si trovassero in quel giardino, dal quale i sorveglianti li avrebbero scacciati se li avessero visti. I bimbi poveri non sono ammessi nei giardini pubblici. Eppure, si dovrebbe riflettere che tutti i fanciulli hanno diritto ai fiori.

Quei due vi si trovavano grazie ai cancelli chiusi. Erano in contravvenzione. Introdottisi di soppiatto nel giardino, c'erano restati. La chiusura dei cancelli non elimina la vigilanza, che continua; questa però si rallenta e si riposa; e gli ispettori, commossi anch'essi dalla pubblica preoccupazione e interessati più all'esterno che all'interno, non badavano al giardino e non avevano visto i due contravventori.

Il giorno prima aveva piovuto; e anche un po' la mattina. Ma di giugno le piogge non contano. Dopo un temporale, ci si accorge appena che quella bella giornata bionda ha pianto. D'estate la terra si asciuga presto come la gota di un fanciullo. Nei giorni del solstizio, la luce meridiana è, per così dire, penetrante; invade tutto; s'attacca e si sovrappone alla terra come una specie di sanguisuga. Pare che il sole abbia sete; un acquazzone scola via, e una pioggia è subito bevuta. Al mattino tutto sgocciola; a mezzogiorno tutto è impolverato.

Non c'è nulla di più bello di un prato lavato dalla pioggia e asciugato dal sole; è una frescura tiepida. I giardini e i prati quando hanno l'acqua alle radici e il sole nei rami, diventano come incensieri che fumano con tutti i loro profumi. Tutto ride, canta, si offre. Si prova una certa ebbrezza. La primavera è un paradiso provvisorio. Il sole aiuta l'uomo a pazientare.

Ci sono delle creature che non chiedono nulla di più; viventi che, possedendo l'azzurro del cielo, dicono: ci basta! pensatori assorti nel prodigio, i quali attingono dall'idolatria per la natura l'indifferenza del bene e del male; contemplatori del cosmo meravigliosamente distolti dall'uomo, che non comprendono come mai ci si occupi della fame di questi e della sete di quelli, della nudità del povero nell'inverno, della incurvatura di una piccola spina dorsale, del giaciglio, della soffitta, della prigione, dei cenci delle ragazze che tremano dal freddo, quando invece si può sognare sotto gli alberi; menti pacifiche e terribili, implacabilmente soddisfatte. Cosa strana, a essi basta l'infinito.

Essi ignorano quel gran bisogno dell'uomo, il finito, che implica l'abbraccio. Non pensano al finito, che implica quel sublime lavoro che è il progresso. Sfugge loro l'indefinito che nasce dalla combinazione umana e divina dell'infinito e del finito.

Purché si trovino di fronte all'immensità, sorridono. Mai la gioia, sempre l'estasi. Inabissarsi: ecco la loro vita. La storia dell'umanità per loro non è altro che un piano frammentario. Il Tutto non c'è; il vero Tutto è estromesso. A che giova occuparsi di quell'accessorio che è l'uomo? Può darsi che questi soffra; ma osservate Aldebaran che sorge! Non voglio sapere se la madre non ha più latte e se il neonato muore; guardate invece che meraviglioso rosone forma un disco di abete visto al microscopio; confrontatelo col più bel merletto! Quei pensatori si dimenticano di amare. Lo zodiaco influisce su di loro al punto da impedire di vedere il fanciullo che piange. Dio eclissa in essi la loro anima.

E' una famiglia di spiriti che sono nello stesso tempo grandi e piccini. Orazio ne faceva parte; anche Goethe; forse anche La fontaine: tutti magnifici egoisti dell'infinito, tranquilli spettatori del dolore, i quali, se il tempo è bello, non vedono Nerone, ai quali il sole nasconde il rogo, che starebbero a guardare ghigliottinare per cercarvi un effetto di luce, che non sentono né un grido, né un singhiozzo, né un rantolo, né una campana a stormo; gente, che crede che tutto va bene solo perché è il mese di maggio, che si dichiara sempre contenta finché ha sul capo nuvole di porpora e d'oro, ed è decisa a essere felice fino a che non si sia esaurito lo scintillio degli astri e il canto degli uccelli.

Costoro sono degli splendidi tenebrosi. Non pensano che sono da compiangere; ma lo sono. Chi non piange non vede. Bisogna ammirarli e compiangerli, come si compiangerebbe chi ammirerebbe un essere che fosse notte e giorno insieme, che non avesse occhi ma soltanto un astro in mezzo alla fronte.

L'indifferenza di questi pensatori è, secondo alcuni, una filosofia superiore. Sia pure! ma in questa superiorità c'è qualcosa di malato. Si può essere immortale e zoppo, come Vulcano; si può essere più o meno che uomo. L'incompleto immenso si trova nella natura. Chi sa se il sole non sia cieco?

Ma allora di chi fidarsi? "Solem dicere quis falsum audeat"?

Sicché anche certi geni, certi uomini superiori, certi uomini- astri potrebbero ingannarsi? Dunque, anche quello che è lassù, al culmine, allo zenit, quello che manda tanta luce sulla terra vedrebbe poco, male, o niente affatto? Non è disperante il caso?

No. Dunque che cosa c'è al di sopra del sole? Dio.

Il 6 giugno 1832, verso le undici del mattino, il Lussemburgo, solitario e spopolato, era bello. Gli alberi e i prati mandavano profumi e riflessi. Le rame, folli di luce meridiana, parevano cercassero di abbracciarsi. C'era nei sicomori un chiasso di capinere, i passerotti trionfavano, i picchi si arrampicavano su per gli ippocastani dando beccate nei buchi della corteccia. Le aiuole accettavano la legittima regalità dei gigli. Il più bel profumo è quello che emana dal candore. Si respirava l'acuto profumo dei garofani. Le vecchie cornacchie di Maria dei Medici amoreggiavano tra i grandi alberi. Il sole dorava, imporporava e accendeva i tulipani, che non sono altro che tutte le variazioni della fiamma diventate fiori, e attorno ai calici dei tulipani turbinavano le api, scintille di quei fiori-fiamme. Tutto era grazia e gaiezza, anche la pioggia vicina, la quale, recidiva, non aveva nulla di inquietante per i mughetti e per i caprifogli, che ne dovevano approfittare. Le rondini minacciavano graziosamente di volar troppo basso. Chi stava là dentro respirava la felicità. La vita aveva un buon odore. Tutta quella natura esalava candore, aiuto, assistenza, paternità, carezza, aurora. I pensieri che venivano dal cielo erano teneri, come una manina di bimbo offerta al bacio.

Sotto gli alberi, le statue nude e bianche avevano vesti di ombra a strappi di luce; quelle dee erano tutte in cenci di sole; erano avvolte di raggi da tutte le parti. Attorno alla grande vasca, la terra era già asciutta sì che pareva quasi bruciata. Spirava un venticello capace di sollevare piccole nuvole di polvere. Alcune foglie gialle rimaste dall'ultimo autunno s'inseguivano allegramente come tanti monelli.

Quell'abbondanza di luce dava una certa sicurezza. Vita, linfa, calore, effluvi traboccavano. Si sentiva la creazione, la sorgente enorme; in tutti quei venticelli impregnati di amore, in quello scambio di riverberi e di riflessi, in quel prodigioso dispendio di raggi, in quella mescita infinita di oro fluido si sentiva la prodigalità dell'inesauribile; e dietro a quello splendore, come dietro a un sipario di fiamme, si intravedeva Dio, il milionario di stelle.

Grazie alla sabbia, non c'era una pozzanghera; grazie alla pioggia non c'era un granello di polvere. I fiori si erano appena lavati, e tutti i velluti, tutti i rasi, tutte le vernici, tutti gli ori che escono dalla terra in forma di fiori erano irreprensibili.

Tutta quella magnificenza era linda. Il gran silenzio della natura felice inondava il giardino: silenzio celeste che s'accorda con mille musiche, col tubare dei colombi, col ronzio delle api, col palpito del vento. L'intera armonia della stagione si accordava in un grazioso insieme; le entrate e le uscite della primavera avvenivano nell'ordine voluto; finivano i lillà e cominciavano i gelsomini; alcuni fiori erano in ritardo, alcuni insetti in anticipo; l'avanguardia delle farfalle rosse di giugno fraternizzava con la retroguardia delle farfalle bianche di maggio; i platani mettevano la corteccia nuova; la brezza scavava delle ondulazioni nella magnifica enormità degli ippocastani. Era una cosa splendida. Un veterano della vicina caserma, guardando attraverso il cancello diceva: Ecco la primavera sotto le armi e in gran tenuta!

Tutta la natura si nutriva; la creazione stava a tavola; la gran tovaglia azzurra era distesa in cielo e la gran tovaglia verde sulla terra; il sole illuminava tutto. Dio aveva imbandito il pasto universale. Ogni essere aveva il suo cibo o il suo pastore.

I colombi trovavano la cappuccina, i fringuelli il miglio, i cardellini la paperina, il pettirosso i vermi, l'ape i fiori, la mosca i moscerini, e il verdone le mosche. Talvolta si mangiavano gli uni con gli altri, il che costituisce il mistero del male misto al bene; però nessuna bestia aveva lo stomaco vuoto.

I due piccoli derelitti erano giunti presso la grande vasca. Un po' turbati da tutta quella luce cercavano di nascondersi - istinto del povero e del debole davanti alla magnificenza, anche impersonale - e si mantenevano dietro la baracca dei cigni.

Di tanto in tanto, se spirava un alito di vento, si udivano grida confuse, rumori, una specie di rantoli tumultuosi che erano fucilate, e colpi sordi che erano cannonate. Sopra i tetti dalla parte dei Mercati c'era del fumo. Una campana che suonava in lontananza pareva che chiamasse.

I due bimbi sembravano indifferenti a quei rumori. Ogni tanto il più piccolo ripeteva: - Ho fame!

Quasi contemporaneamente ai due bimbi, un'altra coppia si avvicinava allo stagno. Era un ometto di cinquant'anni che guidava per mano un ometto di sei; certamente padre e figlio. Il ragazzetto portava una grossa focaccia.

A quell'epoca, alcune case limitrofe, in via Madame e in via Inferno, possedevano una chiave del Lussemburgo, di cui facevano uso gli inquilini quando i cancelli erano chiusi. Questa tolleranza fu in seguito soppressa. Quel padre e quel figlio uscivano certamente da una di quelle case.

I due piccoli mendicanti, vedendo venire quel "signore", si nascosero di più.

L'uomo era un borghese, probabilmente lo stesso che Mario un giorno, attraverso la sua febbre amorosa, aveva sentito suggerire al figlio di "evitare gli eccessi", presso quella stessa grande vasca. Aveva un aspetto affabile e altero, e una bocca che sorrideva sempre e non si chiudeva mai. Quel sorriso meccanico, prodotto da una mascella troppo grande, da troppo poca pelle, mostrava i denti anziché l'anima.

Il fanciullo, con la sua focaccia già addentata, pareva sazio. Era vestito da guardia nazionale a causa della sommossa, mentre il padre era in borghese per prudenza.

Padre e figlio si erano fermati presso la vasca, in cui stavano a sollazzarsi due cigni. Quel borghese sembrava avere per i cigni una particolare ammirazione; e aveva questo di somigliante con loro, che camminava alla loro maniera.

Per il momento i due cigni nuotavano ed erano superbi. Se i due piccoli mendicanti avessero ascoltato e fossero stati in età da comprendere, avrebbero potuto raccogliere le parole di un uomo grave. Il padre diceva al figlio:

- Il saggio s'accontenta di poco. Guarda me, figlio mio. Io non amo il fasto, non vesto mai abiti fregiati d'oro e di pietre preziose, lascio questo falso splendore alle anime malfatte.

In quel momento le grida che provenivano dalla parte dei Mercati raddoppiarono, insieme al suono della campana e ai rumori.

- Che cos'è questo chiasso? - chiese il fanciullo.

- Sono saturnali, - rispose il padre.

A un tratto scorse i due piccoli cenciosi, immobili dietro il casotto verde dei cigni.

- Ecco il principio, - disse.

E dopo una pausa aggiunse:

- L'anarchia penetra in questo giardino.

Frattanto il figlio morse la focaccia, ma sputò il morso e improvvisamente scoppiò a piangere; - Perché piangi?

- Non ho più fame, - disse il bambino.

Il sorriso del padre si accentuò.

- Non è necessario aver fame per mangiare una focaccia.

- Non mi piace; è dura.

- Non ne vuoi più?

- No.

Allora il padre, indicandogli i cigni:

- Gettala a quei palmipedi.

Il ragazzo esitò. Non volerne non è una bella ragione per dare la focaccia ad altri.

Il padre proseguì:

- Sii umano; abbi pietà degli animali.

La focaccia cadde molto vicino all'orlo.

I cigni erano lontani, nel mezzo della vasca, e non avevano visto né il borghese né la focaccia. Vedendo allora che la focaccia poteva andare a fondo e commosso da quell'inutile naufragio, il borghese si dette a fare movimenti telegrafici per attirare i cigni. Questi scorsero qualcosa che galleggiava e si diressero, virando di bordo, verso la focaccia con la stupida maestà che si addice a bestie bianche.

- I cigni capiscono i segnali, - disse il borghese, felice di avere dello spirito.

In quel momento il lontano tumulto della città si accrebbe improvvisamente, e questa volta parve sinistro. Certe folate di vento parlavano con maggiore chiarezza di altre. Il vento che soffiava in quel momento portò chiaramente dei clamori, degli spari di fila e le lugubri risposte della campana a stormo e del cannone. Tutto questo coincise con una nuvola nera che nascose inaspettatamente il sole.

I cigni non erano ancora arrivati alla focaccia.

Torniamo a casa, - disse il padre. - Assaltano le Tuileries.

Riprese la mano del figlio e continuò:

- Dalle Tuileries al Lussemburgo corre solo la distanza che separa la monarchia dall'istituzione dei Pari; non è molta. Fra poco pioveranno le fucilate.

E guardando la nuvola:

- E forse verrà anche la pioggia; anche il cielo si mette in mezzo; il ramo cadetto a casa.

- Vorrei vedere i cigni mangiare la focaccia, - disse il fanciullo.

- Sarebbe un'imprudenza, - rispose il padre. - E condusse via il suo piccolo borghese, che, rimpiangendo i cigni, continuò a volgere la testa verso la vasca, finché un gomito del viale non gliela ebbe nascosta.

Frattanto, contemporaneamente ai cigni, i due piccoli vagabondi si erano avvicinati alla focaccia galleggiante. Il più piccolo guardava la focaccia, il più grande il borghese che se ne andava.

Padre e figlio entrarono nel labirinto dei viali che conduce alla grande scalinata del boschetto dalla parte di via Madame.

Non appena questi furono scomparsi, il più grande si stese sull'orlo della vasca e aggrappandosi con la sinistra, chino sull'acqua, fino al punto di poterci cadere dentro, allungò la destra con la bacchetta verso la focaccia. I cigni, vedendo il nemico, si affrettarono, e affrettandosi produssero un'onda utile al piccolo pescatore. Mentre i cigni arrivavano la bacchetta toccò la focaccia. ll fanciullo dette un colpo lesto, accostò la focaccia, spaventò i cigni, la prese e si raddrizzò. La focaccia era bagnata, ma essi avevano fame e sete. Il maggiore ne fece due parti, una grossa e l'altra piccola, tenne la piccola per sé e dando la grossa al fratellino, disse:

Cacciati questo nel gozzo.




17. MORTUUS PATER FILIUM MORITURUM EXPECTAT


Mario si era precipitato alla barricata e Combeferre lo aveva seguito. Ma era troppo tardi. Gavroche era morto. Combeferre raccolse il paniere della cartucce, Mario raccolse Gavroche.

Ahimé! - pensava, - quel che il padre aveva fatto per suo padre, egli lo faceva per il figlio, con questa differenza che Thénardier aveva riportato il colonnello vivo, mentre lui riportava il figlio morto.

Quando rientrò nella ridotta con Gavroche tra le braccia, aveva il volto inondato di sangue come il ragazzo. Chinandosi per raccogliere Gavroche, una palla gli aveva sfiorato la testa, senza che lui se ne accorgesse.

Courfeyrac si tolse la cravatta e gli bendò la fronte.

Gavroche fu deposto sulla stessa tavola di Mabeuf, e sui due corpi fu disteso lo scialle nero.

Combeferre distribuì le cartucce del paniere, e ne toccarono quindici ciascuno.

Valjean stava sempre allo stesso posto, immobile presso il pilastrino. Quando Combeferre gli consegnò le sue quindici cartucce, lui scrollò il capo.

- Questo è proprio un eccentrico, - disse Combeferre a Enjolras sottovoce. - Trova la scusa di non combattere su questa barricata.

- Ma questo non gli impedisce di difenderla, - aggiunse Enjolras.

- L'eroismo ha i suoi eccentrici, - riprese Combeferre.

Courfeyrac che aveva udito aggiunse:

- Però è diverso da papà Mabeuf.

Bisogna notare che il fuoco che batteva la barricata ne disturbava appena l'interno. Chi non ha mai attraversato il turbine di questa specie di guerra, non può formarsi un'idea degli strani momenti di tranquillità che si uniscono a quelle convulsioni. Si va, si viene, chiacchierando, scherzando, dondolandosi. Un tale di nostra conoscenza ha udito un combattente che gli diceva in mezzo alla mitraglia: - "Qui ci troviamo come a colazione tra giovanotti". - La ridotta di via Chanvrerie sembrava dunque assai calma. Tutte le peripezie e tutte le fasi stavano per esaurirsi. La posizione, da critica era diventata minacciosa, e da minacciosa probabilmente stava per diventare disperata. A mano a mano che la situazione diventava sempre più confusa, la luce dell'eroismo imporporava sempre più la barricata. Enjolras, grave, la dominava con l'atteggiamento di un giovane spartano che consacra la sua spada nuda al cupo genio di Epidota.

Combeferre, con un grembiule davanti, medicava i feriti; Bossuet e Feuilly fabbricavano cartucce con la polvere della fiaschetta che Gavroche aveva tolto al caporale ucciso, e il primo diceva al secondo: - "Tra un poco prenderemo la diligenza per un altro pianeta". - Courfeyrac, sulle poche selci che s'erano riservate vicino a Enjolras, disponeva e allineava tutto un arsenale, lo stocco, il fucile, due pistole grandi e una corta, con la cura di una fanciulla che mette in ordine gli arnesi della toletta.

Valjean silenzioso guardava il muro di fronte. Un operaio con una cordicella si fissava in testa un gran cappello di paglia di mamma Hucheloup, "per paura dei colpi di sole", diceva. I giovani affiliati alla Cougourde di Aix chiacchieravano allegramente come se avessero premura di parlare il loro vernacolo per l'ultima volta. Joly, che aveva preso lo specchio della vecchia bettoliera, si guardava la lingua. Alcuni combattenti, avendo trovato in un cassetto delle croste di pane ammuffito, le mangiavano avidamente.

Mario era inquieto per quello che tra poco gli avrebbe detto suo padre.




18. L'AVVOLTOIO DIVENTATO PREDA


Insistiamo su un fenomeno psicologico che è proprio delle barricate. Non dobbiamo omettere nulla che riguarda il carattere di questa guerra sorprendente.

Checché si possa dire della strana tranquillità interna di cui abbiamo parlato, la barricata, per coloro che ci stanno dentro, resta pur sempre una visione.

Nella guerra civile c'è qualcosa dell'apocalisse; tutte le nebbie dell'ignoto si mescolano a quei fiammeggiamenti selvaggi; le rivoluzioni sono sfingi, e chiunque ha attraversato una barricata crede di essere passato attraverso un sogno.

Che cosa si provi in un luogo come quello, lo abbiamo già indicato a proposito di Mario e ne vedremo le conseguenze: è qualcosa di più e di meno della vita. Chi esce da una barricata non sa più le persone che vi ha conosciuto; fu terribile, ma lui lo ignora; si trovò circondato da idee che combattevano con volto umano, ebbe la testa nella luce dell'avvenire. C'erano dei cadaveri distesi e dei fantasmi in piedi. Le ore erano interminabili e sembravano eternità. Vide passare delle ombre; che cosa erano? Vide delle mani sporche di sangue. Era un fracasso spaventevole, ma era pure un orribile silenzio; c'erano delle bocche aperte che gridavano e altre bocche aperte che tacevano; si stava nel fumo, forse nelle tenebre.

Crede di essere stato in un sinistro trasudamento delle profondità ignote; scorge qualcosa di rosso nelle sue unghie; ma non se ne ricorda più.

Torniamo in via Chanvrerie.

A un tratto, tra le due scariche, si udirono lontano suonare le ore.

- E' mezzogiorno, - disse Combeferre.

I dodici colpi non erano ancora scoccati, che Enjolras si rizzò e dall'alto della barricata lanciò questi ordini con voce tonante:

- Portate le selci in casa e mettetele sulle finestre. Metà degli uomini ai fucili, l'altra metà ai sassi. Non c'è tempo da perdere.

Un plotone di guastatori, con la scure in spalla, era apparso in fondo alla via in ordine di battaglia.

Non poteva essere che la testa di una colonna! Di quale?

Evidentemente di quella d'assalto. I guastatori incaricati di demolire la barricata devono sempre precedere i soldati incaricati di dare la scalata.

Si era giunti al momento che Clermont-Tonnerre nel 1822 chiamava "il colpo di grazia".

L'ordine di Enjolras fu eseguito con la fretta precisa che è propria delle navi e delle barricate, gli unici luoghi di combattimento da cui è impossibile scappare. In meno di un minuto, due terzi delle selci che Enjolras aveva fatto ammucchiare davanti alla porta di Corinto vennero trasportate al primo piano e alle soffitte, e prima che fosse trascorso un altro minuto, quelle selci disposte magistralmente l'una sull'altra chiudevano a metà la finestra del piano principale e degli abbaini. Da alcuni interstizi accuratamente lasciati da Feuilly, che era il principale costruttore, si potevano far passare le canne dei fucili. L'armamento delle finestre fu eseguito più facilmente perché la mitraglia era cessata. I due cannoni adesso tiravano a palla al centro della barricata per aprirvi una breccia per l'assalto.

Quando le selci destinate all'estrema difesa furono messe a posto, Enjolras fece trasportare al piano superiore le bottiglie deposte sotto la tavola su cui giaceva Mabeuf.

- Chi le berrà? - chiese Bossuet.

- Loro, - rispose Enjolras.

Quindi barricarono la finestra del piano terreno e tennero pronte le traverse di ferro che servivano a sprangare di notte internamente la porta della bettola.

La fortezza era completata; la barricata era il bastione, la bettola il torrione.

Con le selci che restavano chiusero il vano.

Poiché gli assedianti di una barricata sanno che i difensori sono sempre obbligati a economizzare le munizioni, attendono ai loro preparativi con una calma irritante, si espongono al fuoco prima del tempo più per trarre in inganno che per il desiderio di affrettare l'assalto.

I preparativi di un assalto si fanno sempre con una metodica lentezza. Dopo viene la folgore.

Quella lentezza permise a Enjolras di rivedere e di perfezionare ogni cosa. Dal momento che quegli uomini dovevano morire, voleva che la loro morte fosse un capolavoro.

Disse a Mario:

- Noi siamo due capi. Io vado a dare gli ultimi ordini per l'interno; tu resta fuori a osservare.

Mario si mise in vedetta sulla cresta della barricata. Enjolras fece inchiodare la porta della cucina che come ricorderemo era l'infermeria. - Non deve schizzare nulla sui feriti, - disse.

Dette le ultime istruzioni nella sala al pianterreno con voce scattante ma perfettamente tranquilla. Feuilly ascoltava e rispondeva a nome di tutti.

- Al primo piano tenete pronte le scuri per tagliare la scala. Ne avete?

- Sì, - rispose Feuilly.

- Quante?

- Due accette e una grossa scure.

- Va bene. Noi siamo ventisei combattenti. Quanti fucili abbiamo?

- Trentaquattro.

- Otto di più. Teneteli caricati e sottomano. Sciabole e pistole alle cinture. Venti uomini alla barricata. Sei agli abbaini e alla finestra per far fuoco sugli assalitori attraverso le feritoie.

Nessuno deve essere inutile qui. Tra poco, quando il tamburo batterà la carica, i venti di giù si precipitino sulla barricata; i primi arrivati prenderanno i posti migliori.

Date queste disposizioni, si volse a Javert e disse:

- Non mi dimentico di te.

E posando una pistola sulla tavola, aggiunse:

- L'ultimo che uscirà di qui fracasserà il cranio a questa spia.

- Qui dentro? - chiese una voce.

- No; non mischiamo questo cadavere ai nostri. Si può scavalcare la piccola barricata nel vicolo Mondétour, alta solo quattro piedi. Questi è ben legato; che venga trascinato là e giustiziato.

C'era in quel momento qualcuno più impaziente di Enjolras ed era Javert.

In quel punto apparve Valjean. Era confuso nel numero degli insorti. Ne uscì e chiese a Enjolras:

- Siete voi il comandante?

- Sì.

- Poco fa mi avete ringraziato.

- In nome della Repubblica. La barricata fu salvata due volte: da Mario Pontmercy e da voi.

- Credete che meriti una ricompensa?

- Certo.

- Ebbene, ne chiedo una.

- Quale?

- Bruciare le cervella a quell'uomo.

Javert alzò la testa, vide Valjean e fece un movimento impercettibile, dicendo:

- E' giusto.

Enjolras, mentre ricaricava la pistola, volse gli occhi e disse:

- Nessuno si oppone?

Poi, rivolto a Valjean:

- Prendetevi lo spione.

Valjean si impossessò di Javert, sedendosi all'estremità della tavola; afferrò la pistola, e un lieve scricchiolìo annunciò che l'aveva caricata.

Quasi in pari tempo si sentì un suono di tromba.

- All'armi! - gridò Mario dall'alto della barricata.

Javert si mise a ridere, con quel suo riso muto, e guardando fisso gli insorti, disse loro:

- Voi non siete per niente migliori di me.

- Fuori tutti! - comandò Enjolras.

Gli insorti si lanciarono fuori tumultuosamente, ma nell'uscire furono colpiti nella schiena, se così possiamo esprimerci, da queste parole di Javert:

Arrivederci tra poco!




19. LA VENDETTA DI VALJEAN


Quando Valjean si trovò solo con Javert, sciolse la corda che teneva legato il prigioniero alla tavola. Quindi gli fece cenno di alzarsi. Javert obbedì con quell'indefinibile sorriso che riassume la supremazia dell'autorità incatenata.

Valjean prese Javert per la martingala come si prenderebbe una bestia da soma per la cavezza, e tirandoselo dietro, uscì dalla bettola lentamente, perché l'altro avendo ancora legate le gambe poteva muovere soltanto dei passi molto brevi.

Valjean teneva impugnata la pistola. Attraversarono così il trapezio interno della barricata. Gli insorti, attenti all'assalto imminente, volgevano loro le spalle. Soltanto Mario, collocato all'estremità sinistra dello sbarramento, li vide passare, e quel gruppo della vittima e del carnefice si illuminò della luce spettrale che aveva nell'anima.

A fatica, ma senza mai lasciarlo un istante, Valjean fece scalare al prigioniero la barricata di via Mondétour.

Quando l'ebbero scavalcata, si trovarono soli nel vicolo. Nessuno li vedeva. Il gomito delle case li nascondeva alla vista degli insorti.

I cadaveri ritirati dalla barricata formavano a qualche passo di distanza un orribile mucchio.

Tra i morti si distingueva una faccia livida, una capigliatura disciolta, una mano forata e un seno di donna seminuda. Era Eponina.

Javert guardò di sbieco quella morta e, profondamente calmo, disse:

- Mi pare di conoscere quella ragazza.

Poi si volse a Valjean.

Questi si mise la pistola sotto il braccio e fissò Javert con uno sguardo che non aveva bisogno di parole per dire: - Javert, sono io!

Javert rispose:

- Prenditi la rivincita.

Valjean trasse di tasca un coltello e lo sfoderò.

- Un coltello, - disse Javert; - hai ragione, è più adatto per te!

Valjean tagliò la martingala che legava il collo al prigioniero, poi tagliò le corde che aveva ai polsi, poi, abbassandosi, tagliò quelle dei piedi. Rialzandosi, disse:

- Siete libero.

Javert non si stupiva facilmente; tuttavia, per quanto fosse sempre padrone di sé, non poté trattenere una commozione. Restò stupito e immobile.

Valjean continuo:

- Non credo che potrò uscire di qui. Tuttavia, se per caso ne uscissi, sappiate che abito in via Homme-Armé, numero sette, sotto il nome di Fauchelevent.

Javert ebbe una contrazione di tigre che gli dischiuse un angolo della bocca, e mormorò tra i denti:

- Bada!

- Andate, - disse Valjean.

Javert riprese:

- Hai detto Fauchelevent, via Homme-Armé, numero sette?

- Numero sette.

Si abbottonò l'abito, riprese la sua rigidità militare, fece un mezzo giro, incrociò le braccia puntellandosi il mento con una mano e s'incamminò verso i Mercati. Valjean lo seguiva con lo sguardo. Dopo alcuni passi Javert si voltò e gridò a Valjean:

- Voi mi annoiate. Uccidetemi piuttosto.

Javert non si accorgeva di non parlare col tu a Valjean.

- Andate, - gli rispose Valjean.

Javert si allontanò a passi lenti e un momento dopo svoltò l'angolo di via dei Predicatori.

Quando il poliziotto scomparve, Valjean scaricò la pistola in aria.

Poi rientrò nella barricata e disse:

- E' fatto.

Intanto ecco che cos'era accaduto.

Più occupato dall'esterno che dall'interno della barricata, Mario fino allora non aveva guardato attentamente lo spione legato nel fondo oscuro della sala. Quando lo vide alla luce del giorno mentre scavalcava la barricata per andare a morte, lo riconobbe.

Un ricordo improvviso gli attraversò la mente. Si ricordò dell'ispettore di via Pontoise, delle due pistole che gli aveva dato e di cui egli, Mario, si era servito in quella stessa barricata. Non solo ricordò la fisionomia ma anche il nome.

Quel ricordo però era nebbioso e torbido come tutte le sue idee.

Non fu un'affermazione ma una domanda che si rivolse, chiedendosi:

- Non è forse quello l'ispettore di polizia che mi disse di chiamarsi Javert?

Era forse ancora in tempo per fare qualcosa a favore di quell'uomo? ma bisognava innanzitutto sapere se era proprio Javert. Interpellò Enjolras che proprio allora aveva preso posto all'altra estremità della barricata.

- Enjolras?

- Eh!

- Come si chiama quell'uomo?

- Quale?

- L'agente di polizia. Sai il nome?

- Certo, ce l'ha detto.

- E come si chiama?

- Javert.

Mario si rizzò.

In quel momento si sentì il colpo di pistola.

E Valjean ricomparve dicendo:

- E' fatto.

Una fredda ombra attraversò il cuore di Mario.




20. I MORTI HANNO RAGIONE E I VIVI NON HANNO TORTO


Stava per iniziare l'agonia della barricata.

Tutto concorreva alla tragica maestà di quel supremo momento.

Mille misteriosi rumori nell'aria, il respiro delle masse armate in movimento nelle strade ma che non si vedevano, il galoppo intermittente della cavalleria, il pesante trabalzare dell'artiglieria in marcia, i fuochi di fila e le cannonate che s'incrociavano nel dedalo di Parigi, i fumi della battaglia che salivano dorati dal sole al di sopra dei tetti, le grida lontane, incerte e confusamente terribili, lampi di minaccia dappertutto, la campana a stormo di Saint-Merry che ora aveva l'accento del singhiozzo, la mitezza della stagione, lo splendore del cielo pieno di sole e di nuvole, la bellezza della giornata e lo spaventoso silenzio delle case.

Fin dal giorno precedente le file di case di via Chanvrerie erano diventate due muraglie sinistre. Porte chiuse, finestre chiuse, imposte chiuse.

In quell'epoca così diversa dall'attuale, quando arrivava l'ora in cui il popolo voleva farla finita con uno stato di cose durato troppo a lungo, quando la collera universale era sparsa nell'atmosfera, quando la città acconsentiva a sollevare i suoi ciottoli, quando l'insurrezione faceva sorridere la borghesia sussurrandole all'orecchio la sua parola d'ordine, allora gli abitanti, compenetrati per così dire della sommossa, diventavano gli ausiliari dei combattenti, e la casa fraternizzava con la fortezza improvvisata che a essa si appoggiava. Quando invece i tempi non erano maturi, quando l'insurrezione non era completamente approvata, quando la massa sconfessava il movimento, allora i combattenti erano perduti, la città tutt'intorno alla rivolta si mutava in deserto, le anime s'agghiacciavano, si chiudeva ogni luogo di rifugio, e la via diventava un passaggio per aiutare l'esercito a prendere la barricata.

Non si può far marciare un popolo più presto di quello che vuole.

Guai a chi tenta di forzargli la mano! Il popolo non si lascia costringere. Allora, abbandona l'insurrezione a se stessa; gli insorti diventano tanti appestati; Ogni casa è una rupe, ogni porta rifiuta di aprirsi, ogni facciata è un muro: muro che vede, sente e non vuole. Potrebbe socchiudersi e salvare; no, quel muro è un giudice, vi osserva e vi condanna. Che cosa triste quelle case sbarrate! Sembrano morte e sono vive. La vita è come sospesa, ma continua; da ventiquattro ore nessuno è uscito e nessuno manca.

Nell'interno di quella rocca vanno, dormono, si alzano, vivono in famiglia, bevono, mangiano, hanno paura: che cosa terribile! La paura scusa quella formidabile inospitalità, e c'è la circostanza attenuante dello sbigottimento. Talvolta la paura è diventata anche passione. Il terrore può cambiarsi in furia, come la prudenza in rabbia; donde quella espressione così profonda: "gli arrabbiati moderati". Ci sono eccessi di supremo spavento da cui esce come da un lugubre fumo, la collera. - Che cosa vogliono costoro? Non sono mai contenti. Compromettono gli uomini pacifici.

Come se non ne avessimo abbastanza delle rivoluzioni! Che cosa sono venuti a fare? Se la sbrighino ora! Peggio per loro. Hanno quello che si meritano. E' una cosa che non ci riguarda. Intanto la nostra via è tutta crivellata dalle pallottole. Un mucchio di mascalzoni. Soprattutto, non aprite la porta! - E la casa assume l'aspetto di una tomba. L'insorto davanti a quella porta agonizza; vede arrivare la mitraglia e le sciabole sguainate, grida, sa che lo sentono ma non gli apriranno; ci sono dei muri che potrebbero proteggerlo, degli uomini che potrebbero salvarlo; quei muri hanno orecchie di carne, e quegli uomini cuori di pietra.

Chi accusare?

Nessuno e tutti.

I tempi immaturi in cui viviamo.

Sempre a suo rischio e pericolo, l'utopia si trasforma in insurrezione, la protesta filosofica si trasforma in protesta armata, Minerva si trasforma in Pallade. L'utopia che diventa impaziente e si trasforma in sommossa sa quello che l'attende. Il più delle volte arriva troppo presto; allora si rassegna, e invece del trionfo accetta stoicamente la catastrofe. Senza lamentarsi, anzi discolpandoli, essa serve coloro che la rinnegano, e la sua magnanimità consiste nell'accettare l'abbandono. E' indomita contro l'ostacolo, mite verso l'ingratitudine.

D'altronde, è ingratitudine?

Sì, dal punto di vista del genere umano.

No, dal punto di vista dell'individuo.

Il progresso è il modo d'essere dell'uomo. La vita generale del genere umano si chiama progresso. Il progresso cammina e percorre il grande viaggio umano e terrestre verso la meta celeste e divina; ha le sue soste durante le quali raduna il gregge in ritardo; ha le sue fermate in cui medita davanti a qualche splendida terra di Canaan che si svela all'improvviso al suo orizzonte; ha le sue notti in cui dorme; e una delle più angosciose ansietà del pensatore è di vedere l'ombra sull'anima umana, di toccare nelle tenebre il progresso addormentato senza poterlo svegliare.

- "Dio è forse morto!" - diceva un giorno all'autore di questo libro Gérard de Nerval, confondendo il progresso con Dio e l'interruzione del movimento con la morte dell'Ente supremo.

Ha torto chi dispera. Il progresso si sveglia infallibilmente e, tutto sommato, si potrebbe dire che ha camminato, anche addormentato, perché è cresciuto. Quando lo rivediamo in piedi, lo troviamo cresciuto. Essere sempre tranquillo non dipende dal progresso, come non appartiene al fiume. Non mettete dighe, non lanciatevi dei macigni; l'ostacolo fa spumeggiare l'acqua e ribollire l'umanità. Di là provengono i torbidi; ma dopo quei torbidi, si riconosce che ha fatto del cammino. Finché non viene ristabilito l'ordine, il quale non è altro che la pace universale, finché non regnano l'armonia e l'unità, il progresso avrà per tappe le rivoluzioni.

Che cosa è dunque il progresso? L'abbiamo detto: la vita permanente dei popoli.

Orbene, accade talvolta che la vita momentanea degli individui opponga resistenza alla vita esterna dell'umanità.

Diciamolo senza amarezza, l'individuo ha il suo interesse distinto, e può senza inganno guardare questo suo interesse e difenderlo; il presente ha la sua quantità scusabile di egoismo; la vita temporanea ha il suo diritto e non è sempre tenuta a sacrificarsi all'avvenire. La generazione che attualmente è di passaggio sulla terra non è obbligata ad abbreviarlo per le generazioni future e che sono in fondo uguali a lei. - Io esisto - mormora quel qualcuno che si chiama Tutti - Io sono giovane e innamorato, io sono vecchio e voglio risparmiarmi, io sono padre di famiglia, lavoro, faccio buoni affari, ho delle case da affittare, ho una rendita in titoli, sono contento, ho moglie e figli, e tutto questo mi piace, voglio vivere, lasciatemi in pace.

- Ed è da questo che in certe ore s'abbatte un freddo profondo sulle magnanime avanguardie del genere umano.

D'altronde, bisogna convenire che l'utopia, facendo la guerra, esce dalla sua sfera radiosa. Essa, la verità di domani, prende a prestito dalla menzogna il suo procedimento, la battaglia. Essa, l'avvenire, agisce come il passato; essa, l'idea pura, diventa via di fatto; associa al suo eroismo una violenza, di cui è giusto che sia responsabile: violenza di occasione e di ripiego, contraria ai princìpi e per la quale è fatalmente punita. L'utopia-insurrezione combatte col vecchio codice militare alla mano; fucila le spie, condanna a morte i traditori, sopprime gli esseri viventi e li getta nelle tenebre ignote; si serve della morte: cosa grave. Pare che l'utopia non abbia più fede nella sua luce che è la sua forza irresistibile c incorruttibile. Colpisce con la spada; ma nessuna spada è semplice; tutte le spade hanno il doppio taglio, e chi ferisce con uno, si ferisce con l'altro.

Fatta questa riserva, con tutta severità, ci è impossibile non ammirare, riescano o no, i gloriosi combattenti dell'avvenire, i confessori dell'utopia. Anche quando non riescono sono venerabili, e forse proprio nell'insuccesso acquistano una maggiore maestà. La vittoria, quando arriva secondo il progresso, merita l'applauso dei popoli; ma una disfatta eroica merita la loro commozione; l'una è magnifica, l'altra è sublime. Per noi che preferiamo il martirio al successo, John Brown è più grande di Washington, e Pisacane è più grande di Garibaldi.

E' pur necessario che qualcuno stia per i vinti.

La società è ingiusta verso quei grandi pionieri dell'avvenire che falliscono.

Si accusano i rivoluzionari di seminare lo spavento. Ogni barricata sembra un attentato. Si incriminano le loro idee, credono sospetto il loro scopo, temono le loro intenzioni nascoste, denunciano la loro coscienza. Rimproverano loro di innalzare, di costruire e ammassare contro il fatto sociale dominante un cumulo di miserie, di dolori, di iniquità, di lamenti, di disperazioni, e di strappare dai bassifondi blocchi di tenebre per aprirvi dei spiragli e combattere. Gridano loro: - Voi disselciate l'inferno! - Ma essi potrebbero rispondere: Proprio per questo la nostra barricata è fatta di buone intenzioni.

Certo, è preferibile la soluzione pacifica. Conveniamo che quando si vedono le pietre si pensa all'orso, ed è una buona volontà di cui la società si allarma. Ma dipende dalla società salvare se stessa, e noi facciamo appello proprio alla sua buona volontà. Non è necessario nessun rimedio violento. Studiare il male amichevolmente, constatarlo, poi guarirlo: ecco a che cosa la invitiamo.

Comunque, anche caduti, soprattutto caduti, questi uomini che su tutto il mondo, con l'occhio fisso alla Francia lottano per la grande opera con la inflessibile logica dell'ideale, sono augusti.

Essi danno la loro vita in puro dono per il progresso, adempiono alla volontà della Provvidenza, compiono un gesto religioso.

Obbedendo a una disposizione divina, discendono nella tomba all'ora fissata, col medesimo disinteresse di un attore che ha recitato la sua parte, e accettano quei combattimenti senza speranza, quella stoica scomparsa, per guidare verso le sue splendide e supreme conseguenze universali il magnifico movimento umano iniziato in modo irresistibile il 14 luglio 1789. Simili soldati sono dei sacerdoti. La Rivoluzione francese è un'opera di Dio.

Del resto, e bisogna aggiungere questa distinzione alle altre già fatte in un precedente capitolo, ci sono le rivoluzioni rifiutate che si chiamano sommosse. Quando scoppia una insurrezione, è un'idea che subisce l'esame davanti al popolo. Se il popolo lascia cadere la pallina nera, l'idea è bocciata e l'insurrezione è un'impresa sballata.

Entrare in guerra a ogni invito, a ogni desiderio dell'utopia, non è una dote dei popoli. Le nazioni non hanno sempre e a ogni momento il temperamento dei martiri e degli eroi.

Sono positive. A priori, ripugnano l'insurrezione; prima di tutto, perché essa ha quasi sempre come risultato una catastrofe, e poi perché ha sempre per punto di partenza una astrazione.

Infatti, e qui sta il bello, coloro che si sacrificano lo fanno sempre e solo per l'ideale. Una insurrezione è un entusiasmo.

L'entusiasmo può andare in collera, e quindi ricorrere alle armi.

Ma ogni insurrezione che prende di mira un governo o un regime, ha una meta più alta. Così per esempio, e insistiamo su questo, i capi dell'insurrezione del 1832, e in particolare i giovani entusiasti di via Chanvrerie, non combattevano precisamente contro Luigi Filippo; anzi, la maggior parte, parlando francamente, rendevano giustizia alle qualità di quel re che stava tra la monarchia e la repubblica, e nessuno lo odiava. Essi assalivano il ramo cadetto del diritto divino in Luigi Filippo, come avevano assalito il ramo primogenito in Carlo Decimo; e quello che volevano rovesciare, rovesciando la monarchia in Francia, come abbiamo già spiegato, era l'usurpazione dell'uomo sull'uomo e del privilegio sul diritto in tutto il mondo. Parigi senza re ha per contraccolpo il mondo senza despoti. Essi ragionavano così. Senza dubbio, il loro scopo era lontano, forse vago e timoroso davanti allo sforzo, però era grande.

E' così. E si sacrificano per queste visioni, che per i sacrificati sono sempre illusioni, ma illusioni alle quali, alla fine, è commista tutta la certezza umana. L'insorto poetizza e abbellisce l'insurrezione, e si lancia in quelle tragiche scene inebriandosi di quello che sta per fare. Forse può riuscire.

Sono in pochi. Hanno di fronte un esercito intero. Ma difendono il diritto, la legge naturale, la sovranità di ciascuno su se stesso che non ha abdicazione possibile, la giustizia, la verità, e all'occorrenza moriranno come i trecento spartani. Non pensano a don Chisciotte ma a Leonida. Vanno avanti, e una volta avviati, non indietreggiano, si precipitano a testa bassa, sperando una vittoria inaudita, la rivoluzione completata, il progresso rimesso in libertà, l'ingrandimento del genere umano, la liberazione universale, e, nel caso di sconfitta, le Termopili.

Questi combattimenti per il progresso non riescono, e ne abbiamo detto il perché. La folla è restìa allo slancio dei paladini.

Quelle pesanti masse che sono le moltitudini, fragili a causa della loro stessa pesantezza, temono le avventure. E nell'ideale c'è dell'avventura.

Inoltre, non bisogna dimenticare che ci sono gli interessi, poco amici dell'ideale e del sentimento. Talvolta lo stomaco paralizza il cuore.

La bellezza e la grandezza della Francia consiste nel mettere meno pancia degli altri popoli, e di stringere più facilmente la correggia. E' la prima a svegliarsi, l'ultima ad addormentarsi. Va avanti e indaga.

Questo perché è artista.

L'ideale non è altro che il punto culminante della logica come il bello è la cima del vero. I popoli artisti sono anche i popoli logici. Amare la bellezza significa amare la luce. Per questo, la fiaccola dell'Europa, vale a dire della civiltà, fu portata prima dalla Grecia, che la consegnò all'Italia, la quale la consegnò alla Francia. Divini popoli illuminatori! "Vitae lampada tradunt!".

Cosa meravigliosa! La poesia di un popolo è l'elemento del suo progresso. La quantità di incivilimento si misura dalla quantità di immaginazione. Però un popolo civilizzatore deve restare un popolo virile. Corinto, sì; ma Sibari no. Chi diventa effeminato si imbastardisce. Non bisogna essere né dilettante né virtuoso, ma artista. In materia di civiltà non bisogna essere raffinati ma sublimi. A questa condizione, il modello dell'ideale viene offerto al genere umano.

L'ideale moderno ha il suo tipo nell'arte e il suo mezzo nella scienza. Per mezzo della scienza si realizzerà quella augusta visione dei poeti che è il bello sociale. Si rifarà l'Eden con A + B. Al punto in cui è giunta la civiltà, la esattezza è un elemento necessario dello splendore, e il sentimento artistico non è soltanto servito ma completato dall'organo scientifico. La fantasia deve calcolare. L'arte che conquista deve avere come punto di appoggio la scienza che cammina. La solidità della cavalcatura è una cosa importante. Lo spirito moderno è il genio della Grecia che ha per vincolo il genio dell'India: Alessandro sull'elefante.

Le razze pietrificate nel dogmatismo o demoralizzate dal guadagno sono inadatte a guidare la civiltà. La genuflessione davanti all'idolo o davanti allo scudo atrofizza il muscolo che cammina e la volontà che va innanzi. L'estasi ieratica o mercantile diminuisce lo splendore di un popolo, abbassa il suo orizzonte abbassando il suo livello, e gli toglie quella intelligenza umana e divina insieme dello scopo universale che forma le nazioni missionarie. Babilonia e Cartagine non hanno un ideale. Atene e Roma hanno e conservano, anche attraverso lo spessore tenebroso dei secoli, un'aureola di civiltà.

La Francia è della stessa razza della Grecia e dell'Italia. E' ateniese per il bello e romana per il grande. Inoltre, essa è buona; si dona; più degli altri popoli è disposta all'abnegazione e al sacrificio. Però, questa disposizione ora la prende e ora la lascia; ed è questo il grande pericolo per quelli che corrono quando lei vuole soltanto camminare, oppure camminano quando essa vuole fermarsi. La Francia ha le sue ricadute di materialismo, e in certi momenti le sue idee, che ostruiscono quel cervello sublime, non hanno più niente che ricordi la grandezza francese, e hanno le dimensioni del Missouri o della Carolina del Sud. Che farci? La gigantessa fa parte della nana, l'immensa Francia ha i suoi capricci di piccolezza. Ecco tutto. Non c'è niente da dire. I popoli, come gli astri, hanno il diritto d'eclisse. E tutto va bene, purché ritorni la luce e l'eclissi non degeneri in notte.

Alba e resurrezione sono sinonimi. La riapparizione della luce è identica alla persistenza dell'io.

Constatiamo questi fatti con tranquillità. La morte sulla barricata o la tomba nell'esilio, per l'abnegazione è una eventualità accettabile. Il vero nome dell'abnegazione è disinteresse. Gli abbandonati si lascino abbandonare, gli esiliati si lascino esiliare, e noi limitiamoci a supplicare i grandi popoli a non indietreggiare quando indietreggiano. Col pretesto di tornare alla ragione, non bisogna andar troppo oltre nella discesa.

La materia, il minuto, gli interessi, il ventre esistono; però bisogna fare in modo che il ventre non diventi la sola saggezza.

La vita momentanea ha il suo diritto, l'ammettiamo, ma anche la vita permanente ha il suo diritto. L'essere saliti, ahimé! non impedisce di cadere. Questo si costata nella storia più spesso che non si creda. Una nazione illustre gusta l'ideale, poi morde il fango e lo trova buono; e se le chiedono perché abbandona Socrate per Falstaff, risponde: - Perché mi piacciono gli uomini di Stato.

Ancora una parola prima di continuare il nostro racconto.

Una battaglia come quella che stiamo descrivendo non è altro che una convulsione per l'ideale. Il progresso impastoiato è malaticcio e ha queste tragiche epilessie. Questa malattia del progresso, la guerra civile, noi l'abbiamo dovuta incontrare sulla nostra strada. E' una delle fasi fatali, un atto e insieme un intermezzo del nostro dramma, il cui perno è un dannato sociale, e il cui vero titolo è: "il progresso".

Il progresso.

Questo grido che lanciamo spesso è tutto il nostro pensiero. Al punto in cui siamo col nostro dramma, l'idea in esso contenuta deve subire ancora una prova, ed è per questo che ci sarà concesso se non di sollevarne il velo almeno di farne trasparire la luce.

Il libro che il lettore ha sotto gli occhi in questo momento è, nell'insieme e nei particolari, qualunque possano essere le sue interruzioni, le sue eccezioni e le sue debolezze, la marcia dal male al bene, il cammino dall'ingiustizia alla giustizia, dal falso al vero, dalla notte al giorno, dall'appetito alla coscienza, dalla putrefazione alla vita, dalla bestialità al dovere, dall'inferno al cielo, dal nulla a Dio. Il suo punto di partenza è la materia, quello d'arrivo l'anima. L'idra al principio, l'angelo alla fine.




21. GLI EROI


Improvvisamente il tamburo suonò la carica.

L'attacco fu un uragano. La vigilia, nell'oscurità, gli attaccanti si erano avvicinati alla barricata come una boa, silenziosamente Ora, in piena luce, in una via a imbuto, la sorpresa era del tutto impossibile; d'altronde, la forza s'era già smascherata, il cannone aveva cominciato il suo ruggito e l'esercito si precipitava sulla barricata. Ora l'abilità consisteva nella furia.

Una numerosa colonna di fanteria, intervallata da guardie nazionali e guardie municipali a piedi e appoggiata da masse compatte che si sentivano senza vederle, sboccò nella via a passo di carica, coi tamburi battenti, con le trombe squillanti, con gli zappatori in testa, e imperturbabile sotto i proiettili, piombò sulla barricata col peso di una trave di bronzo contro un muro.

Il muro tenne fermo.

Gli insorti fecero un fuoco impetuoso. La barricata assalita ebbe una criniera di lampi. L'assalto fu tanto forsennato che la barricata fu per un momento inondata dagli assalitori, ma si scrollò di dosso i soldati come il leone scuote i cani e si coprì di assediati come la scogliera si copre di schiuma, per ricomparire un momento dopo dirupata, nera e formidabile.

La colonna, costretta a ripiegare, restò compatta nella via, allo scoperto, ma terribile, e rispose alla ridotta con una fucileria spaventosa. Chiunque abbia visto un fuoco d'artificio ricorda quel fascio formato da un incrociarsi di fulmini che si chiama "rosa".

Pensate questa rosa non già verticale ma orizzontale, con una pallottola, con un pallino, con un biscaglino all'estremità di ciascuno dei suoi getti di fuoco, e mentre sgrana la morte col suo grappolo di folgori. La barricata era là sotto.

Dalle due parti c'era un'uguale decisione. Il coraggio era quasi barbaro e si univa a un'eroica ferocia che cominciava col sacrificio di se stesso. Era l'epoca in cui una guardia nazionale si batteva come uno zuavo. La truppa voleva farla finita, l'insurrezione voleva lottare. Quando si accetta l'agonia nel vigore della gioventù, l'intrepidezza diventa frenesia. Ognuno in quella mischia era ingigantito dall'ora suprema. La via fu tappezzata di cadaveri.

La barricata aveva a un'estremità Enjolras, all'altra Mario. Il primo che era il comandante di tutta la barricata, si teneva riparato; tre soldati caddero l'uno dietro l'altro davanti alla sua feritoia senza essere stato scorto. Mario invece combatteva allo scoperto, si offriva come bersaglio sporgendo con più di mezzo busto dalla cima della ridotta. Non c'è un prodigo più violento dell'avaro che prende il morso per i denti; non c'è un uomo più terribile nell'azione quanto un sognatore. Mario era tremendo e pensoso; stava nella mischia come in un sogno; si sarebbe detto che un fantasma facesse a schioppettate.

Le cartucce degli assediati si esaurivano, ma non i sarcasmi. In quel turbine di tomba che li avvolgeva essi ridevano.

Courfeyrac stava a testa nuda.

- Che cosa ne hai fatto del cappello? - chiese Bossuet.

E Courfeyrac rispose:

- Sono riusciti a portarmelo via a cannonate.

Oppure dicevano delle frasi sdegnose.

- Capite! - esclamava Feuilly con amarezza. - Quegli uomini (e citava i nomi, nomi noti e anche celebri, alcuni dell'antico esercito) che avevano promesso di raggiungerci e avevano giurato di aiutarci, che si erano impegnati sull'onore, che sono i nostri generali, ecco che ci abbandonano.

E Combeferre si limitava a rispondere con un grave sorriso:

- Ci sono persone che osservano le regole dell'onore come le stelle, molto da lontano.

L'interno della barricata era talmente cosparso di cartucce che pareva avesse nevicato.

Gli assalitori avevano il numero, gli insorti la posizione. Essi stavano in cima a un muro e fulminavano a bruciapelo i soldati, che inciampavano tra i morti e i feriti ed erano impastoiati nella scarpata della barricata. Quella barricata, costruita com'era e meravigliosamente rafforzata, era veramente una di quelle posizioni in cui un pugno di uomini tiene in scacco una legione.

Tuttavia la colonna di attacco, sempre accresciuta e ingrossata sotto la pioggia delle palle, si avvicinava inesorabilmente, e ora, a poco a poco, a passo a passo, ma con sicurezza, stringeva la barricata, come la vite stringe lo strettoio.

Gli assalti si susseguivano e l'orrore cresceva.

Allora, su quel cumulo di selci, in quella via Chanvrerie scoppiò una lotta degna d'un muro di Troia. Quegli uomini sparuti, cenciosi, spossati, digiuni da ventiquattro ore, senza aver dormito, che possedevano pochi colpi da sparare e si tastavano le tasche vuote di cartucce, quasi tutti feriti, con la testa o il braccio bendato da una fascia sporca e insanguinata, che avevano negli abiti dei buchi da cui colava sangue, armati soltanto di cattivi fucili e di vecchie sciabole inattaccate, diventarono dei titani. La barricata fu dieci volte raggiunta, assalita, scalata, ma mai presa.

Per farsi un'idea di quella lotta bisognerebbe immaginare di appiccare il fuoco a un cumulo di coraggi terribili e di stare a guardare l'incendio. Non era una mischia ma l'interno di una fornace. Le bocche respiravano fiamme, i volti erano straordinari; la forma umana vi pareva impossibile;i combattenti fiammeggiavano, ed era una cosa formidabile vedere andare e venire quel fumo rosso, quelle salamandre della mischia. Rinunciamo a descrivere le scene successive e simultanee di quella grandiosa carneficina. Soltanto l'epopea ha diritto di dedicare dodicimila versi a una battaglia.

Si sarebbe detto che stava lì l'inferno del bramanesimo, il più terribile dei diciassette abissi, che il Veda chiama la Foresta delle spade.

Si battevano a corpo a corpo, piede contro piede, a colpi di pistola, a sciabolate, a pugni, da lontano, da vicino, dall'alto, dal basso, da tutte le parti, dai tetti, dalle finestre della bettola, dagli spiragli delle cantine, in cui alcuni erano sgusciati. Uno contro sessanta. La facciata di Corinto mezzo smantellata era orribile. La finestra, tatuata dalla mitraglia, aveva perduto vetri e telai ed era ridotta a un buco informe tumultuosamente turato con le pietre. Bossuet fu ucciso, Feuilly fu ucciso, Courfeyrac fu ucciso, Joly fu ucciso; Combeferre trapassato da due baionettate nel petto mentre rialzava un soldato ferito ebbe appena il tempo di guardare il cielo e spirò.

Mario, sempre combattendo, era così crivellato di ferite principalmente alla testa, che il suo volto spariva sotto il sangue e pareva che avesse la faccia coperta da una grossa pezzuola rossa.

Soltanto Enjolras era incolume. Quando non aveva più armi, allungava una mano e un insorto gli dava una lama qualunque. Non aveva più che un mozzicone della quarta spada: una più di Francesco Primo a Melegnano.

Nei nostri vecchi poemi eroici, Esplandiano armato con una bipenne di fuoco assale il gigantesco marchese Swantibore, il quale si difende lapidando il cavaliere con le torri che sradica. I nostri antichi affreschi ci mostrano i duchi di Bretagna e di Borbone, a cavallo, armati di tutto punto, con stemmi e divise di guerra, che si affrontano con le mazze alla mano, con celate, con gambali e guanti di ferro, l'uno con la gualdrappa di ermellino e l'altro con una gualdrappa azzurra; Bretagna col suo leone tra le due estremità della corona, Borbone col casco fatto d'un mostruoso giglio a visiera. Ma per essere magnifico non è necessario portare, come Yvon, il morione ducale, né avere in pugno come Esplandiano una fiamma viva, né come Filete padre di Polidamante aver portato da Efiro una buona armatura dono del re Eufete; basta sacrificare la vita con convinzione e con fedeltà. Quel piccolo soldato ingenuo, ieri contadino della Beauce o del Limosino, che nel giardino del Lussemburgo, con la sua durlindana al fianco circuisce le bambine; quel giovane pallido studente, chino sopra un pezzo anatomico o sopra un libro, biondo adolescente che si taglia la barba con le forbici; pigliateli tutti e due, infondete a essi il senso del dovere, metteteli l'uno contro l'altro nel crocicchio Boucherat oppure nell'angiporto Planche-Mibray, fate che l'uno combatta per la sua bandiera e l'altro per il suo ideale, e tutti e due credano di combattere per la patria, e allora la lotta sarà colossale; e l'ombra prodotta da quel fantaccino e da quello studente alle prese nel gran campo epico in cui si dibatte l'umanità, sarà uguale all'ombra proiettata da Megarione re della Licia piena di tigri, che stringe tra le sue braccia l'immenso Aiace uguale agli dei.




23. CORPO A CORPO


Quando rimasero come capi soltanto Enjolras e Mario alle due estremità della barricata, il centro sostenuto per tanto tempo da Courfeyrac, Joly, Bossuet, Feuilly e Combeferre, cedette. Il cannone, senza aprire una breccia praticabile, aveva sbrecciato abbastanza largamente a mezzaluna il centro della barricata; in quel punto, la cresta del muro, sotto le palle, era crollata e i rottami, ora dentro ora fuori,avevano finito con l'ammonticchiarsi dai due lati della trincea e formare due scarpate: una di dentro e l'altra di fuori. Il pendìo esterno offriva all'assalto un piano inclinato.

Fu tentato l'ultimo assalto, che riuscì. La massa irta di baionette e lanciata a passo di carica giunse irresistibile, e il denso schieramento frontale della colonna d'assalto apparve tra il fumo sopra la scarpata. Questa volta era finita. Il gruppo degli insorti che difendeva il centro indietreggiò disordinatamente.

Allora in alcuni si ridestò il fosco amore della vita. Presi di mira da quella foresta di fucili non vollero più morire. E' un momento quello in cui l'istinto della conservazione urla e la bestia riappare nell'uomo. Erano addossati all'alta casa a sei piani che formava il fondo della barricata. Quella casa poteva essere la salvezza. Quella casa era sprangata e come murata dal basso in alto. Ma prima che la truppa fosse nell'interno della ridotta, una porta aveva il tempo di aprirsi e di chiudersi, bastava la durata di un lampo, e la porta di quella casa, socchiusa a un tratto e richiusa subito rappresentava la vita per quei disperati. Dietro quella casa c'erano le strade, la possibile fuga, lo spazio libero. Si misero a battere contro quella porta con i calci dei fucili e con i piedi, chiamando, gridando, supplicando, giungendo le mani. Nessuno aprì. Dal finestrino del terzo piano, la testa del morto li guardava.

Ma Enjolras, Mario e sette o otto altri raggruppatisi con loro s'erano lanciati e li proteggevano. Enjolras aveva gridato ai soldati: - Non avanzate! - e un ufficiale che non aveva ubbidito era stato ucciso da Enjolras. Egli stava adesso nel breve spazio interno alla barricata, addossato alla casa di Corinto, con la spada in una mano, la carabina nell'altra, tenendo aperta la porta della bettola, di cui sbarrava il passaggio agli assalitori. Gridò ai disperati: - C'è una sola porta aperta, ed è questa! - E coprendoli col suo corpo, affrontando da solo un battaglione, se li fece passare di dietro. Tutti si precipitarono. Egli, maneggiando la carabina come se fosse un bastone, e descrivendo quello che gli schermitori chiamano un mulinello, deviò le baionette intorno e davanti a sé, ed entrò per ultimo nella bettola. Fu un momento terribile; i soldati volevano entrare e gli insorti volevano chiudere; e la porta fu finalmente chiusa con tanta violenza che staccò, lasciandole attaccate allo stipite, le cinque dita di un soldato che vi si era aggrappato.

Mario restò fuori. Una fucilata gli aveva spezzato una clavicola; si sentì svenire e stava per cadere quando, con gli occhi già chiusi, ebbe la sensazione di una mano vigorosa che lo afferrava.

Nel momento dello svenimento ebbe appena il tempo di formulare questo pensiero unito al supremo ricordo di Cosetta: Sono prigioniero; mi fucileranno.

Enjolras, non vedendo Mario tra i rifugiati nella bettola ebbe la stessa idea. Ma quello era il momento in cui ognuno ha appena il tempo di pensare alla propria morte. Pose la sbarra alla porta, tirò i chiavistelli e chiuse a doppia mandata la serratura, mentre di fuori i soldati con i fucili e gli zappatori con le scuri la battevano furiosamente. Gli assalitori stavano riuniti contro quella porta. Cominciava l'assedio alla bettola.

I soldati erano pieni di collera. La morte del sergente di artiglieria li aveva irritati, e inoltre, cosa più funesta. nelle ore precedenti all'attacco era corsa voce che gli insorti mutilavano i prigionieri e che nella bettola c'era il cadavere di un soldato decapitato. Questo genere di dicerie fatali s'accompagna ordinariamente alle guerre civili; e fu appunto una falsa voce che più tardi causò la catastrofe di via Transnonain.

Appena barricata la porta, Enjolras disse ai compagni:

- Vendiamo cara la pelle!

Poi si avvicinò alla tavola su cui giacevano Mabeuf e Gavroche.

Sotto il drappo nero si vedevano le due forme ritte e rigide: una grande, l'altra piccola, e i due volti si delineavano confusamente sotto le fredde pieghe del sudario. Una mano, la mano del vecchio, usciva di sotto il panno e penzolava.

Enjolras si chinò e baciò quella mano venerabile, come il giorno avanti aveva baciato la fronte. Erano gli unici baci dati in vita sua.

Abbreviamo. La barricata aveva lottato come una porta di Tebe; la bettola lottò come una casa di Saragozza. Simili resistenze sono feroci. Si vuol morire purché si uccida. Quando Suchet dice:

- Arrendetevi!

Palafox risponde:

- Dopo la guerra a cannonate, la guerra a coltello.

Nulla mancò all'assalto della bettola Hucheloup, né le selci che piovevano dalle finestre e dal tetto sugli assedianti e che esasperavano i soldati con le loro orribili ammaccature, né le fucilate dalle cantine e dalle soffitte, né il furore dell'attacco, né la rabbia della difesa, né infine, quando la porta fu abbattuta, la frenetica follia della strage.

Precipitandosi nella bettola, inciampando con i piedi nei battenti della porta sfondata, gli assalitori non trovarono neppure un combattente. La scala a chiocciola, tagliata a colpi di scure, giaceva in mezzo alla sala, dove alcuni feriti finivano di spirare, e tutti i viventi erano saliti al primo piano, dove per il buco del pavimento, che era stato l'ingresso della scala, scoppiò un fuoco terrorizzante. Erano le ultime cartucce. Quando queste furono consumate, quando quei formidabili agonizzanti non ebbero più né polvere né palle, ognuno prese due delle bottiglie di cui abbiamo parlato, messe in disparte da Enjolras, e tennero fronte alla scalata con quelle mazze spaventosamente fragili.

Erano bottiglie di acido solforico. Noi raccontiamo come sono le cupe circostanze della carneficina. L'assedio, ahimé! si fa scudo di tutto. Il fuoco greco non disonorò Archimede, la pece bollente non disonorò Baiardo. Tutta la guerra è orrore, e non c'è da scegliere. La fucileria degli assedianti, benché impacciata e dal basso in alto, era micidiale. L'orlo del buco nel pavimento fu ben presto circondato di teste morte, da cui colavano lunghi fili rossi e fumanti. Il fracasso era inesprimibile. Il fumo rinchiuso e bruciante faceva quasi notte in quella battaglia. Ci mancano le parole per esprimere l'orrore giunto a quel grado. In quella lotta diventata ormai infernale non c'erano più uomini; non c'erano più dei giganti contro colossi. Quel luogo somigliava più alle descrizioni di Milton e di Dante che a quelle di Omero, demoni che assalivano, spettri che resistevano. Era l'eroismo mostruoso.




23. ORESTE DIGIUNO E PILADE UBRIACO


Alla fine, montando l'uno sull'altro, aiutandosi con lo scheletro della scala, arrampicandosi ai muri, aggrappandosi al soffitto, abbattendo la resistenza degli ultimi difensori sull'orlo della botola, una ventina di uomini tra soldati, guardie nazionali e guardie municipali, alla rinfusa, la maggior parte sfigurati dalle ferite al volto ricevute in quella terribile ascensione, accecati dal sangue, furiosi, inferociti, irruppero nella sala del primo piano. In piedi, restava soltanto Enjolras. Senza cartucce, senza spada, aveva in mano soltanto la canna della carabina, di cui aveva spezzato il calcio sulla testa di quelli che entravano.

Aveva messo il bigliardo tra lui e gli assalitori, indietreggiando verso un angolo della stanza, e là, con lo sguardo fiero, con la testa alta, con quel mozzicone d'arma in pugno, era ancora abbastanza minaccioso per fare del vuoto attorno a lui. Una voce gridò:

- E' il capo! è quello che ha ucciso l'artigliere. Dal momento che s'è messo là, ci sta bene; ci resti pure. Fuciliamolo sul posto.

- Fucilatemi, - disse Enjolras.

E gettando via il mozzicone di carabina, incrociò le braccia e offrì il petto.

L'audacia di ben morire commuove sempre. Non appena Enjolras incrociò le braccia accettando la morte, cessò nella sala lo strepito della lotta e quel caos si mutò subito in una calma sepolcrale. Sembrava che la minacciosa maestà di Enjolras, disarmato e immobile, pesasse su quel tumulto, e che soltanto con l'autorità del suo sguardo tranquillo, quel giovane, l'unico che non avesse una ferita, altero, insanguinato, bellissimo, indifferente come un uomo invulnerabile, costringesse quella sinistra turba a ucciderlo con rispetto. La sua bellezza, accresciuta in quel momento dalla fierezza, era uno splendore; e siccome non pareva più stanco di quel che non fosse ferito, dopo quelle tremende ventiquattr'ore trascorse, era vermiglio e roseo.

Forse parlava di lui quel testimonio che più tardi davanti al consiglio di guerra diceva: - C'era un insorto che udii chiamare Apollo. - Una guardia nazionale che aveva preso di mira Enjolras abbassò l'arma dicendo:

- Mi pare di fucilare un fiore!

Dodici uomini si schierarono nell'angolo opposto a Enjolras.

Prepararono silenziosamente i loro fucili.

Un sergente gridò:

- Pronti!

Intervenne un ufficiale.

- Aspettate!

E rivolgendosi a Enjolras:

- Volete che vi bendino gli occhi?

- No.

- Siete voi quello che ha ucciso il sergente d'artiglieria?

- Sì.

Da qualche minuto Grantaire s'era svegliato.

Ricordiamo che Grantaire dormiva dal giorno precedente nella sala superiore della bettola, seduto sopra una sedia e appoggiato a un tavolino. Aveva realizzato in tutta la sua forza la vecchia metafora: ubriaco morto. L'abominevole intruglio di acquavite, birra, assenzio l'aveva immerso nel letargo. Poiché il tavolino a cui stava appoggiato era piccolo e non poteva servire da barricata, glielo lasciarono, ed egli era rimasto sempre nella stessa posizione, riverso sul tavolino con la testa tra bottiglie, bicchieri e boccali, dormendo di quel sonno profondo dell'orso intorpidito e della mignatta sazia. Nulla era valso a destarlo, né la fucileria, né le cannonate, né la mitraglia che penetrava nella stanza attraverso la finestra, né il prodigioso strepito dell'assalto. Rispondeva di tanto in tanto al cannone con un ronfo. Pareva che stesse in attesa di una palla che gli risparmiasse la fatica di svegliarsi. Parecchi cadaveri gli giacevano attorno, e alla prima occhiata nulla lo distingueva da quei profondi dormienti della morte.

Il rumore non sveglia un ubriaco, ma il silenzio sì. E' una stranezza che abbiamo notato spesso. Il crollare di ogni cosa attorno a lui accresceva il sonno di Grantaire; la rovina lo cullava; invece quella specie di sosta del tumulto davanti a Enjolras fu una scossa per il suo sonno pesante. Fu per lui come quando una vettura al galoppo si ferma di botto e i viaggiatori assopiti si svegliano. Grantaire si rizzò di soprassalto, stese le braccia, si fregò gli occhi, guardò, sbadigliò e capì.

L'ubriachezza quando finisce somiglia a una tenda che si lacera.

Si scorge tutt'insieme in una sola occhiata quello che nascondeva.

Tutto si affaccia d'un tratto alla memoria; e l'ubriacone che non sa nulla di quanto è accaduto da ventiquattro ore, non ha neppure finito di schiudere le palpebre che già è al corrente di tutto. Le idee gli ritornano con una improvvisa lucidità. L'oblio prodotto dall'ebbrezza, specie di nebbia che accieca il cervello, si dissipa e cede ii campo alla chiara e netta ossessione delle cose reali.

I soldati, con l'occhio fisso su Enjolras, non s'erano neanche accorti di Grantaire, relegato com'era in un angolo e quasi nascosto dietro il bigliardo. Il sergente si accingeva a ripetere l'ordine: -Pronti! - quando udirono a un tratto una voce che gridò forte accanto a essi:

- Viva la repubblica! Ci sono anch'io!

Grantaire s'era alzato.

L'immenso bagliore di tutto il combattimento al quale Grantaire non aveva partecipato,apparve nello sguardo lucente dell'ubriacone trasfigurato.

Ripeté: - Viva la repubblica! - Attraversò la sala con passo fermo e andò a prendere posto davanti ai fucili, ritto accanto a Enjolras, dicendo:

- Fatene due con un colpo solo!

E rivoltosi a Enjolras, gli chiese gentilmente:

- Permetti?

Enjolras gli strinse la mano sorridendo. Il suo sorriso non era finito che i fucili spararono. Enjolras, colpito da otto fucilate, restò addossato al muro come se le palle ve lo avessero inchiodato. Soltanto la testa si chinò. Grantaire, fulminato gli si abbatté ai piedi.

Poco dopo, i soldati sloggiarono gli insorti rifugiati alla sommità della casa. Questi tiravano attraverso una grata di legno nel granaio. Si combatteva fin sopra i tetti. Si gettavano i corpi dalle finestre, alcuni vivi. Due soldati, che tentavano di rialzare l'omnibus fracassato, furono uccisi da due colpi di carabina tirati dagli abbaini. Un uomo in blusa era precipitato di lassù, con una baionetta nel ventre, e rantolava a terra. Un soldato e un insorto scivolavano sul pendio del tetto: non vollero lasciarsi e caddero tenendosi stretti in un abbraccio feroce.

Uguale lotta avveniva in cantina; grida, fucilate, calpestio feroce; poi silenzio. La barricata era presa.

I soldati cominciarono a perquisire le case attorno, inseguendo i fuggitivi.




24. PRIGIONIERO


Mario era prigioniero. Prigioniero di Giovanni Valjean.

La mano che l'aveva afferrato alle spalle, mentre cadeva perdendo la conoscenza, era quella di Valjean.

Valjean non aveva partecipato al combattimento, ma vi si era esposto soltanto. Senza di lui, in quella suprema fase di agonia nessuno avrebbe pensato ai feriti; grazie a lui, presente dappertutto nella carneficina come una Provvidenza, quelli che cadevano erano rialzati, trasportati nella sala al pianterreno e medicati. Negli intervalli, riparava la barricata. Ma le sue mani non fecero nulla che somigliasse a un colpo, a un attacco o anche a una difesa personale. Taceva e soccorreva. Del resto, aveva appena qualche graffio. Le pallottole lo avevano sempre schivato.

Se entrando in quel sepolcro, il suicidio faceva parte dei suoi scopi segreti, era fallito sotto questo aspetto. Ma dubitiamo che avesse pensato al suicidio, che è un gesto condannato dalla religione.

Nella densa caligine del combattimento, pareva che Valjean non vedesse Mario, e invece non l'aveva mai perduto di vista; e quando lo vide abbattuto da una fucilata, con l'agilità di una tigre, gli piombò sopra come a una preda e se lo portò via.

In quel momento l'assalto era così violentemente concentrato su Enjolras e sulla porta della bettola che nessuno scorse Valjean attraversare il campo disselciato della barricata, sostenendo sulle braccia Mario svenuto e sparire dietro l'angolo della casa di Corinto.

Il lettore ricorderà che quell'angolo formava una specie di promontorio sulla strada, riparando dalle pallottole e dalla mitraglia, e anche dagli sguardi, pochi metri quadrati di terreno.

Così talvolta negli incendi una stanza non brucia, così nei mari più tempestosi, al di là di un promontorio o al di là di una scogliera, c'è un cantuccio tranquillo. In quella specie di ripiegamento del trapezio interno della barricata aveva agonizzato Eponina.

Lì Valjean si fermò, depose Mario a terra, si addossò al muro e guardò attorno. La situazione era spaventevole.

Per il momento, forse per due o tre minuti, quell'angolo di muro era un ricovero. Ma come uscire da quel massacro? Ricordava l'angoscia in cui si era trovato otto anni prima in via Polonceau e del modo in cui era riuscito a sfuggire; ma ciò che allora era difficile adesso pareva impossibile. Davanti a lui stava quella implacabile e sorda casa a sei piani, che pareva abitata soltanto dal cadavere prono alla finestra; a destra aveva la barricata abbastanza bassa che chiudeva via Petite-Truanderie; sembrava facile scavalcare quell'ostacolo, ma al di là della cresta della barricata si scorgeva una fila di baionette. Era la fanteria, appostata al di là della barricata. Varcare la barricata significava andare a cercare un fuoco di fila, e ogni testa che fosse apparsa sulla cima del muro di pietra sarebbe servita di bersaglio a sessanta fucili. A sinistra, dietro la cantonata, c'era il campo di battaglia, cioè la morte.

Che fare?

Soltanto un uccello avrebbe potuto cavarsi di là.

Bisognava decidersi subito, trovare un espediente, appigliarsi a un partito. A pochi passi da lui si combatteva. Per fortuna, tutti si accanivano contro un punto solo: la porta della bettola. Ma se a un soldato fosse venuta l'idea di aggirare la casa o di assalirla di fianco, tutto sarebbe finito per Valjean.

Questi guardò la casa di fronte a lui, guardò la barricata vicina, poi guardò a terra con la violenza del momento supremo, come se volesse scavarsi un buco con gli occhi.

A furia di guardare, in quella sua agonia si disegnò qualcosa di confusamente percettibile e prese forma ai suoi piedi, come se lo sguardo avesse avuto la capacità di far sorgere la cosa richiesta.

A qualche passo da lui, ai piedi della piccola barricata così spietatamente custodita e spiata di fuori, sotto delle selci che la nascondevano in parte, vide una grata di ferro posta a livello del suolo. Quella grata, formata da grosse sbarre trasversali, era larga circa due piedi quadrati, la cornice di lastre che la manteneva era stata divelta, e anche la grata era quasi divelta.

Attraverso le sbarre, s'intravedeva un vano buio, qualcosa di simile alla gola di un camino o d'una cisterna. Valjean ebbe un fremito. La sua vecchia scienza delle evasioni gli si presentò alla mente come un bagliore. Scostare le selci, sollevare la grata, caricarsi sulle spalle Mario inerte come un corpo morto, calarsi con quel fardello sulle spalle, aiutandosi con i gomiti e con i ginocchi, in quella specie di pozzo fortunatamente poco profondo, lasciarsi ricadere sopra la testa la pesante botola di ferro, sulla quale i sassi smossi si rovesciarono di nuovo, prendere piede su una superficie lastricata a tre metri al di sotto del suolo, fu cosa di qualche minuto appena, eseguita come nel delirio, con una forza da gigante e una rapidità di aquila.

Si trovò con Mario sempre svenuto in una specie di lungo corridoio sotterraneo, dove c'era pace profonda, silenzio assoluto, notte.

Provò di nuovo la stessa sensazione che aveva provato quando dalla via era finito nel convento; però questa volta non portava più Cosetta ma Mario.

Adesso udiva appena, al di sopra di sé, come un vago mormorio, il formidabile tumulto della bettola presa d'assalto.




Libro 2


L'INTESTINO DEL LEVIATAN



1. LA TERRA IMPOVERITA DAL MARE


Parigi ogni anno butta nell'acqua venticinque milioni. E non è una metafora. Come, e in che modo? Di giorno e di notte. Con che scopo? Nessuno. Con quale pensiero? senza pensarci. Perché? per niente. Per mezzo di quale organo? per mezzo del suo intestino. E qual è questo intestino? la fogna.

Venticinque milioni è la più modesta delle somme approssimative date dalle valutazioni speciali.

La scienza, dopo aver proceduto lungamente a tentoni, oggi sa che il concime più fecondo ed efficace è il concime umano. A nostra vergogna dobbiamo notare che i cinesi lo sapevano prima di noi.

Non c'è contadino cinese, dice Eckeberg, che, recandosi in città, non ne riporti, alle due estremità del suo bambù, due secchi pieni di ciò che noi chiamiamo pozzo nero. Per mezzo del concime umano, la campagna in Cina è ancora giovane come ai tempi di Abramo, e il frumento cinese rende fino a centoventi volte. Nessun guano è paragonabile per fertilità ai rifiuti della capitale. Una grande città è il più potente stercorario. Usare della città per concimare la campagna significa essere certi del risultato. Se il nostro oro è fimo in compenso il nostro fimo è oro.

Che cosa ne fanno di questo oro-concime? Lo buttano via.

Si spediscono con grandi spese convogli di navi per raccogliere al polo australe gli escrementi delle procellarie e dei pinguini, e si butta a mare l'incalcolabile elemento di ricchezza che si ha sottomano: tutto il concime umano e animale che il mondo perde, se fosse restituito alla terra invece di gettarlo nell'acqua, basterebbe a nutrirlo.

I mucchi di immondizie raccolti agli angoli delle vie, le bigonce trabalzate per via durante la notte, le fetide botti della nettezza urbana, i luridi scoli di melma sotterranea che il selciato vi nasconde, sapete che cosa sono? Sono i prati fioriti, l'erba verde, il timo, la salvia; sono la selvaggina, il bestiame, il muggito dei buoi alla sera, il fieno odoroso, il frumento dorato, il pane sulla nostra tavola, il sangue caldo nelle nostre vene, la salute, la gioia, la vita. Così vuole quella misteriosa creazione che è trasformazione sulla terra e trasfigurazione in cielo.

Raccogliete quegli avanzi nel gran crogiuolo, e ne uscirà la vostra abbondanza. Nutrire la terra è nutrire gli uomini.

Voi siete padroni di perdere tale ricchezza e di ritenermi ridicolo; ma questo è il capolavoro della vostra ignoranza.

Le statistiche hanno calcolato che la sola Francia, per la bocca dei suoi fiumi, versa ogni anno all'Atlantico mezzo miliardo.

Notate che con quei cinquecento milioni si pagherebbe un quarto delle spese del bilancio. Ma l'abilità dell'uomo è tale che preferisce sbarazzarsene gettandoli nell'acqua. E' la sostanza del popolo che viene portata via, qui a goccia a goccia, là a ondate, dal miserabile vomito delle nostre fogne nei fiumi, e dal gigantesco vomito dei fiumi nell'oceano. Ogni fiotto di spurgo delle nostre cloache ci costa mille franchi. Per questo la terra diventa povera e l'acqua inquinata; la fame esce dal solco e la malattia dal fiume.

E' notorio, per esempio, che il Tamigi avvelena Londra.

Quanto a Parigi, in questi ultimi anni, si è dovuta trasferire più a valle, al di sotto dell'ultimo ponte, la maggior parte degli sbocchi delle fognature.

Un duplice apparecchio tubolare provvisto di valvole e di chiuse di sfogo, aspirante e premente, un sistema elementare di fognatura, semplice come il polmone dell'uomo, è già in funzione in molti comuni d'Inghilterra; basterebbe a condurre nella nostra città l'acqua pura dei campi e a respingere nella campagna l'acqua grassa della città; e questo va e vieni, che è il più semplice di tutti, tratterrebbe in casa nostra i cinquecento milioni che gettiamo fuori. Ma si pensa a ben altro.

Il sistema attuale fa il male con l'intenzione di fare il bene; l'intenzione è buona, il risultato è triste. Credono di purgare la città e fanno intristire la popolazione. Una fogna è un malinteso.

Quando il drenaggio, con la sua duplice funzione di restituire quello che prende, avrà sostituito la fogna, semplice lavaggio che impoverisce, allora, combinando tutto questo con i dati di una nuova economia sociale, sarà decuplicato il prodotto della terra e il problema della miseria sarà particolarmente attenuato. Se poi vi aggiungete anche la soppressione dei parassitismi, l'avrete risolto completamente.

Intanto, la ricchezza pubblica se ne va a mare e la dispersione continua. L'Europa si rovina così per esaurimento.

Quanto alla Francia, abbiamo indicato la cifra. Ora, poiché Parigi contiene una venticinquesima parte della popolazione francese, e poiché i rifiuti parigini sono i più ricchi, ci teniamo al di sotto della verità calcolando a venticinque milioni la perdita di Parigi nel mezzo miliardo che la Francia butta via ogni anno.

Questi venticinque milioni impiegati in pubblica assistenza raddoppierebbero lo splendore della capitale. Essa invece li spende in cloache, cosicché si può dire che la grande prodigalità, la festa meravigliosa, la pazzia, l'orgia, la dispersione dell'oro, il fasto, il lusso, la magnificenza di Parigi è la sua fogna.

Così, nella cecità d'una cattiva economia politica si fa annegare e si lascia andare alla deriva, a perdersi nei gorghi, il benessere di tutti. Ci dovrebbero essere delle reti di Saint-Cloud per la pubblica ricchezza.

Economicamente il fatto può riassumersi così: Parigi è un secchio senza fondo.

Questa città modello, questo figurino delle capitali ben fatte, di cui ogni popolo vuole avere una copia, questa metropoli dell'ideale, questa patria augusta dell'iniziativa, dell'impulso e dell'esperimento, questo centro e ritrovo degli ingegni, questa città nazione, questo alveare dell'avvenire, questo meraviglioso insieme di Babilonia e di Corinto, dal punto di vista ora accennato farebbe meravigliare un contadino cinese.

Imitate Parigi e vi rovinerete.

Del resto, specialmente in questo sciupio insensato, Parigi non fa altro che imitare.

Queste sorprendenti assurdità non sono nuove. Non si tratta di sciocchezze recenti. Gli antichi agivano come i moderni. "Le cloache di Roma, dice Liebig, assorbirono tutto il benessere del contadino romano". Quando ebbe rovinato con la sua fognatura la campagna romana, Roma esaurì l'Italia, e quand'ebbe messo l'Italia nella sua cloaca, vi versò dentro la Sicilia, poi la Sardegna, poi l'Africa. La cloaca di Roma ha inghiottito il mondo. Offriva il suo gorgo alla città e all'universo, "urbi et orbi". Città eterna, cloaca insondabile.

In queste come in altre cose, Roma dà l'esempio. E Parigi segue questo esempio con tutta la stoltezza propria della città di spirito.

Per i bisogni dell'operazione sulla quale già ci siamo spiegati, Parigi ha sotto di sé un'altra Parigi, una Parigi di fogne, con le sue vie, i suoi crocicchi, le sue piazze, i suoi angiporti, le sue arterie e la sua circolazione. E' di fango, con in meno la forma umana.

Non bisogna adulare nessuno, neppure un grande popolo; dove c'è tutto, c'è anche l'ignominioso accanto al sublime; e se Parigi contiene Atene, la città della intelligenza, Tiro, la città della forza, Sparta, la città della virtù, Ninive, la città del prodigio, contiene pure Lutezia, la città del fango.

D'altronde, il segno della potenza sta anche in questo, e la titanica sentina di Parigi realizza tra i monumenti lo strano ideale rappresentato nell'umanità da alcuni uomini, come Machiavelli, Bacone, Mirabeau: il grandioso obiettivo.

Il sottosuolo di Parigi, se l'occhio potesse attraversarne la superficie, presenterebbe l'aspetto di una colossale madrepora.

Una spugna non ha maggior numero di buchi e di corridoi della zolla di terra di sei leghe di circonferenza, su cui posa l'antica città. Senza tener conto delle catacombe, che formano il sotterraneo a parte, senza tener conto della inestricabile rete della conduttura del gas, del vasto sistema tubolare per la distribuzione dell'acqua potabile, le sole fogne formano un prodigioso e tenebroso intreccio, un labirinto che ha per filo conduttore il proprio declivio.

Là in quella umida caligine appare il sorcio, che sembra il frutto della gestazione di Parigi.




2. STORIA ANTICA DELLA CLOACA


Se si potesse scoperchiare Parigi, la rete sotterranea delle cloache vista a volo d'uccello, presenterebbe sulle due rive una specie di grossa ramaglia innestata al fiume. Sulla riva destra, la cloaca di cinta sarà il tronco di quella ramaglia, i condotti secondari saranno i rami, e gli angiporti i ramoscelli.

Questa immagine è soltanto sommaria ed è esatta soltanto in parte, giacché l'angolo retto, abituale in quella specie di ramificazioni sotterranee, è rarissimo nelle ramificazioni vegetali.

Per farsi un'idea più esatta di quella strana pianta geometrica, bisogna supporre di vedere un bizzarro alfabeto orientale, disegnato su uno sfondo nero, intricato come un cespuglio, le cui lettere difformi siano saldate le une alle altre, in una confusione apparente e come a caso, ora agli angoli ora alle estremità.

Le sentine e le cloache hanno una parte importante nel Medioevo, nel Basso Impero e nell'antico Oriente. Vi nasceva la peste e vi morivano i despoti; le moltitudini guardavano con un timore quasi religioso quei letti di putrefazione, quelle mostruose culle della morte. La fossa dei vermi di Benares non è meno mostruosa della fossa dei leoni di Babilonia. Stando ai libri rabbinici, Teglatphalasar giurava in nome della sentina di Ninive. Dalla fogna di Munster, Giovanni di Leyda faceva spuntare la sua falsa luna; dal pozzo nero di Kekhscheb, il menecmo orientale Mokanna, il profeta velato del Khorassan, faceva spuntare il suo falso sole.

La storia degli uomini si riflette in quella delle cloache. Le gemonie raccontano di Roma. La fogna di Parigi è stata una cosa formidabile; è stata sepolcro e asilo; il delitto, l'intelligenza, la protesta sociale, la libertà di coscienza, il pensiero, il furto, tutto quello che le leggi umane perseguitano e hanno perseguitato si è nascosto in quel buco: i "maillotins" nel secolo decimoquarto, i "tirelaines" nel decimoquinto, gli ugonotti nel decimosesto, gli illuminati di Marin nel decimosettimo, i briganti nel decimottavo. Cento anni or sono ne usciva una pugnalata notturna, e vi scivolava dentro il ladro in pericolo. Il bosco aveva la caverna, Parigi la fogna. La pezzenteria parigina aveva la cloaca come una succursale della Corte dei Miracoli, e venuta la sera, rientrava, astuta e feroce, nella fogna Maubuée come in un'alcova.

Chi lavorava quotidianamente nell'angiporto Vide-Gousset o in via Coupe-Gorge era naturale che avesse per domicilio notturno la vicina cloaca. Quanti ricordi! Fantasmi d'ogni specie affollano quei lunghi corridoi solitari; putridume e miasmi dappertutto; qua e là uno spiraglio da cui Villon di dentro chiacchiera con Rabelais di fuori.

La fogna dell'antica Parigi è il ritrovo di tutti i rifiuti e di tutti i tentativi; l'economia politica ci vede un detrito, la filosofia sociale un residuo.

La cloaca è la coscienza della città. Tutto vi converge e tutto vi si confronta. In quel livido luogo, ci sono le tenebre ma non ci sono segreti. Ogni cosa ha la sua forma vera o per lo meno la sua forma definitiva. Il mucchio di immondizie ha questo di buono: che non è bugiardo. In esso si è rifugiata l'ingenuità. Ci si trova la maschera di Basilio, ma se ne vede il cartone e i lacci, il di dietro come il di fuori, ed è macchiettata da un onesto fango. Le sta accanto il finto naso di Scapino. Tutte le sudicerie della civiltà, appena fuori servizio, cadono in quella fossa di verità, a cui mette capo l'immensa decadenza sociale. Sono inghiottite, ma messe in mostra. Quella mescolanza è una confessione. Qui non ci sono false apparenze, non c'è nessun intonaco; la sozzura si denuda, e la sua è una denudazione assoluta, sbaraglio delle illusioni e dei miraggi, non è altro se non quello che è, con la sinistra figura di quel che finisce. Realtà e sparizione. Là, un coccio di bottiglia rivela l'ubriachezza, il manico d'un paniere racconta la familiarità, il torso di mela che ebbe opinioni letterarie ritorna torso di mela, l'effigie del soldo si macchia francamente di verderame, lo sputo di Caifa incontra il vomito di Falstaff, il luigi d'oro uscito dalla bisca si urta col chiodo da cui pende la corda del suicida, un feto livido rotola avviluppato in un indumento a pagliuzze d'oro che ha ballato il martedì grasso all'Opera, un tocco che ha giudicato gli uomini si avvoltola con un putridume che fu la gonnella di Ghita; è più che fratellanza, familiarità. Tutto ciò che prima si imbellettava, adesso si inzacchera. L'ultimo velo è strappato. La cloaca è cinica. Dice tutto.

Ma, al tempo stesso, la cloaca ci dà un insegnamento. L'abbiamo detto poco fa, la storia passa per la fogna. Le "notti di san Bartolomeo" vi filtrano a goccia a goccia tra le selci. I grandi assassini pubblici, le stragi politiche e religiose attraversano quel sotterraneo della civiltà e vi spingono i loro cadaveri.

All'occhio del pensatore, tutti gli omicidi storici sono là nella schifosa penombra, inginocchiati, con un lembo del loro sudario per grembiale, che lavano lugubremente l'opera loro. C'è Luigi Undicesimo con Tristano, Francesco Primo con Duprat, Carlo Nono con la madre, Richelieu con Luigi Tredicesimo, c'è Louvois, c'è Letellier, ci sono Hébert e Maillard; grattano le pietre e cercano di far scomparire le tracce dei loro misfatti. Sotto quelle volte si sente la scopa di quegli spettri, vi si respira l'enorme fetore delle catastrofi sociali, si scorgono negli angoli dei riflessi rossastri e vi scorre un'acqua terribile in cui si sono lavate delle mani insanguinate.

L'osservatore sociale deve penetrare tra quelle ombre che fanno parte del suo laboratorio. La filosofia è il microscopio del pensiero, ogni cosa tenta di sottrarvisi ma nessuna le sfugge. E' inutile tergiversare. Quale parte di sé si mostra tergiversando?

La vergognosa. La filosofia col suo sguardo probo persegue il male e non gli permette di sfuggire nel nulla. Essa riconosce chiunque nello sbiadire delle cose che svaniscono, nel rimpicciolirsi delle cose che spariscono. Essa ricostruisce la porpora dai cenci e la donna dagli stracci. Con la cloaca rifà la città, con la melma rifà i costumi. Dal coccio rifà l'anfora oppure l'orcio; da un'impronta d'unghia su una pergamena nota la differenza che passa tra un ebreo della Judengasse e un ebreo del Ghetto. Ritrova in quello che resta quello che è stato, il bene, il male, il falso, il vero, la macchia di sangue della reggia e lo sgorbio inchiostrato della caverna, la goccia di sego del lupanare, le prove subite, le tentazioni accettate con piacere, le orge vomitate, le pieghe che hanno fatto i caratteri nell'abbassarsi, la traccia della prostituzione nelle anime che ne erano capaci per la loro ignoranza, e sulla veste dei facchini di Roma trova la traccia della gomitata di Messalina.




3. BRUNESEAU


La fogna di Parigi nel medioevo era leggendaria. Nel cinquecento Enrico Secondo tentò un sondaggio che abortì. Cento anni fa, la cloaca, come attesta Mercier, fu abbandonata.

Tale era questa antica Parigi in preda alle discussioni, alle indecisioni, al tentennamento. Per molto tempo fu piuttosto stolta. Più tardi, l'89 mostrò come si sviluppa l'ingegno di una città. Ma nel buon tempo antico la capitale aveva poco cervello; non sapeva fare le cose sue né moralmente né materialmente, non sapeva spazzare via le sue immondizie come i suoi abusi. Tutto era di ostacolo, tutto sollevava una discussione. La folla, per esempio, era ribelle a qualsiasi itinerario.

Come nella città non si arrivava a intendersi, così nella fogna non si arrivava a orientarsi. In alto l'inintelligibile, in basso l'inestricabile; sotto la confusione delle lingue c'era quella dei sotterranei; Dedalo foderava Babele.

Talvolta, la fogna parigina era presa dal capriccio di traboccare, come se quel Nilo sconosciuto fosse stato a un tratto vinto dalla collera, e avvenivano allora delle inondazioni di immondizie. In certi momenti quello stomaco della città digeriva male, la cloaca rifluiva verso la gola, e Parigi gustava nuovamente il sapore della melma. Queste rassomiglianze della fogna col rimorso avevano del buono; erano tanti avvertimenti, quantunque male accolti. La città si indignava che il suo fango avesse tanta audacia; non ammetteva che la lordura rigurgitasse. Bisognava scacciarla meglio.

L'inondazione del 1807 è uno dei ricordi vivi dei parigini ottantenni. Il fango si sparse a mo' di croce in piazza delle Vittorie, dove è la statua di Luigi Quattordicesimo; entrò in via Sant'Onorato dalle due bocche dei Campi Elisi, in via San Fiorentino dalla fogna della stessa via, in via Pierre-à-Poisson da via Sonnerie, in via Popincourt dalla fogna di via Chemin-Vert, in via Roquette da quella di via Lappe; coprì la cunetta dei Campi Elisi fino all'altezza di trentacinque centimetri; e nella parte meridionale, dalla cloaca della Senna, che adempiva le sue funzioni in senso inverso, penetrò nelle vie Mazarino, Echaudé e Marais, dove si fermò dopo averne percorso centonove metri, a pochi passi dalla casa già abitata da Racine, rispettando del secolo decimosesto più il poeta che il re. Raggiunse la massima densità in via San Pietro, dove arrivò a tre piedi al di sopra del canaletto di scolo, e la massima estensione in via San Sabino ove si distese per la lunghezza di duecentotrentotto metri.

Al principio di questo secolo, la fogna di Parigi era ancora un luogo misterioso. Il fango non può mai avere un buon nome; ma qui la cattiva fama arrivò fino al terrore. Parigi sapeva confusamente di avere sotto di sé un terribile labirinto. Se ne parlava come di quella mostruosa pozzanghera di Tebe, popolata da scolopendre lunghe quindici piedi e che avrebbe potuto servire da bagno a Behemot. I grossi stivali dei fognaioli non s'avventuravano mai al di là di certi punti conosciuti. Non erano molto lontani i tempi in cui le bigonce della nettezza urbana, dall'alto delle quali Sainte-Foix fraternizzava col marchese Créqui, si scaricavano direttamente nella fogna. Quanto alla pulitura delle fogne, questa funzione veniva rimessa agli acquazzoni, i quali ingombravano più che spazzare. Roma lasciava ancora qualche poesia alla sua cloaca chiamandola Gemonie; Parigi insultava la propria cloaca chiamandola Buco fetido. La scienza e la superstizione erano d'accordo nell'averla in orrore. Il Buco fetido non ripugnava meno all'igiene che alla leggenda. Il lupo mannaro era nato sotto la fetida volta della fogna Mouffetard; i cadaveri dei bambini mostruosi erano stati gettati in quella della Barillerie; Fagon aveva attribuito la terribile febbre maligna del 1685 alla botola aperta della chiavica del Marais, che restò aperta fino al 1833 in via San Luigi quasi dirimpetto all'insegna del Messaggero Galante.

La bocca di fogna in via Mortellerie era celebre per le pestilenze che ne uscivano; col suo cancello di ferro a punte, che pareva una fila di denti, sembrava, in quella via fatale, come la gola di un drago che soffiasse l'inferno sugli uomini. La fantasia popolare condiva la tetra sentina parigina di non so quale nauseante miscuglio d'infinito; la cloaca era senza fondo, era il baratro.

Nemmeno alla polizia veniva voglia d'esplorare quelle regioni lebbrose. Chi avrebbe osato avventurarsi in quell'ignoto, scandagliare quell'ombra, andare alla scoperta di quell'abisso?

Era una cosa spaventosa. Eppure qualcuno ci si accinse, e la cloaca trovò il suo Cristoforo Colombo.

Un giorno, nel 1805, in una delle rare apparizioni che faceva l'imperatore a Parigi, il ministro dell'interno andò ad assistere alla levata del suo padrone. Si sentiva nel Carousel lo strascichìo delle sciabole di tutti quei soldati straordinari della grande repubblica e del grande impero; alla porta di Napoleone c'era un ingombro di uomini: uomini del Reno, dell'Escaut, dell'Adige e del Nilo; compagni d'arme di Joubert, di Dasaix, di Marceau, di Hoche, di Kléber; granatieri di Magonza, genieri di Genova, ussari che erano stati visti dalle Piramidi, artiglieri inzaccherati dalla palla di cannone di Junot, corazzieri che avevano preso d'assalto la flotta ancorata nel Zuyderzee; alcuni avevano seguito Bonaparte sul ponte di Lodi, altri erano stati compagni di Murat nella trincea di Mantova, altri avevano preceduto Lannes nella strada incassata di Montebello. Tutto l'esercito d'allora si trovava nel cortile delle Tuileries rappresentato da una squadra o da un plotone e montava la guardia al riposo di Napoleone. Era quella l'epoca splendida in cui la Grande Armata aveva dietro di sé Marengo e davanti Austerlitz.

- Sire, - disse il ministro dell'interno a Napoleone, - ieri ho visto l'uomo più intrepido del vostro impero.

- Chi è costui? - chiese Napoleone. - Che cosa ha fatto?

- Vuol fare una cosa, sire.

- Quale?

- Visitare le fogne di Parigi.

Quest'uomo esisteva e si chiamava Bruneseau.

IV PARTICOLARI IGNORATI La visita ebbe luogo. Fu una campagna terribile, una tenebrosa battaglia contro la peste e l'asfissia. Fu pure un viaggio di scoperte. Un operaio intelligente e allora giovanissimo, che partecipò a quella spedizione, alcuni anni fa narrava ancora dei particolari curiosi, che Bruneseau credette opportuno omettere nel suo rapporto al prefetto di polizia, come indegni dello stile amministrativo. I processi di disinfezione erano molto rudimentali a quell'epoca. Bruneseau aveva appena oltrepassato le prime arterie della rete sotterranea, quando otto operai su venti si rifiutarono di proseguire. L'operazione era complicata, giacché all'ispezione si accompagnava la pulitura; bisognava espurgare e insieme misurare; notare le grate e le bocche, descrivere le diramazioni, indicare le correnti nei punti di separazione, riconoscere le rispettive circoscrizioni dei diversi bacini, esaminare le piccole fogne innestate alla principale, misurare l'altezza di ciascun condotto e la larghezza, determinare infine le coordinate di ogni bocca d'entrata sia dal suolo della cloaca che dal lastrico della via. Si avanzava a fatica; spesso le scale affondavano in tre piedi di melma, le lanterne agonizzavano nei miasmi, e di tanto in tanto bisognava portar via un fognaiolo svenuto. In certi punti c'era il precipizio: il suolo era sfondato, il lastrico crollato e la fogna si era mutata in un pozzo senza fondo. Non c'era più piede; un uomo scomparve improvvisamente e si durò fatica a tirarlo in salvo. Su consiglio di Fourcroy, si accendevano a intervalli, nei luoghi sufficientemente ripuliti, grandi gabbie piene di stoppa imbevuta di resina. Qua e là le pareti erano coperte di funghi deformi che parevano tanti tumori. Anche la pietra pareva malata in quell'ambiente che toglieva il respiro.

Nella sua esplorazione, Bruneseau procedette da monte a valle. Nel punto di biforcazione dei due condotti del Grand-Hurleur, decifrò la data del 1550 su una pietra sporgente che indicava il limite dove si era fermato Filiberto Delorme, incaricato da Enrico Secondo di ispezionare la cloaca parigina: era il marchio impresso alla fogna dal secolo decimosesto. Bruneseau riconobbe la mano d'opera del Seicento nel condotto Ponceau e in quello di via Vecchia del Tempio, forniti di volta tra il 1600 e il 1650, e la mano d'opera del Settecento nella sezione occidentale del canale collettore, incassata e fornita di volta nel 1740. Quelle due volte, e soprattutto la meno antica, quella del 1740, erano più lesionate e più decrepite della muratura della fogna di cinta la quale risale al 1412: epoca in cui il ruscello d'acqua sorgiva di Ménilmontant fu elevato alla dignità di grande cloaca di Parigi, promozione analoga a quella di un contadino che diventasse primo cameriere del re, qualche cosa come Gros-Jean trasformato in Lebel.

Qua e là, e principalmente sotto il Palazzo di giustizia, si credette di riconoscere delle antiche segrete praticate nella fogna stessa; schifosi "in pace", in uno dei quali pendeva dalla volta un anello di ferro. Furono fatte anche altre scoperte strane, tra cui lo scheletro di un orangutango scomparso nel 1800 dal Giardino zoologico: scomparsa probabilmente connessa con la famosa e incontestabile apparizione del diavolo in via dei Bernardini, nell'ultimo anno del secolo decimottavo. Il povero diavolo aveva finito con l'annegare nella fogna.

Sotto il lungo condotto a volta, che mette capo a l'Arche-Marion, una gerla da cenciaiolo, perfettamente conservata, formò l'ammirazione degli intenditori. Dappertutto la mota, che i fognaioli erano arrivati a maneggiare intrepidamente, abbondava di oggetti preziosi, gioielli d'oro e d'argento, pietre e monete. Se un gigante avesse potuto passare al vaglio quella cloaca, avrebbe raccolto la ricchezza dei secoli. Nel punto di separazione delle due fogne di via del Tempio e via Saint-Avoye fu raccolta una strana medaglia ugonotta di rame, che recava da una parte un porco con un cappello cardinalizio e dall'altra un lupo con la tiara.

La scoperta più sorprendente avvenne all'imboccatura della grande cloaca, che una volta era stata chiusa da un cancello, di cui restavano soltanto i cardini. Da uno di questi cardini pendeva una specie di cencio informe e sudicio che ondeggiava nell'ombra e s'andava sfilacciando definitivamente.

Bruneseau, avvicinata la lanterna, lo esaminò. Era di finissima tela batista, e in uno degli angoli meno rosi si distingueva una corona araldica ricamata al di sopra di queste sette lettere:

LAVBESP. La corona era marchesale e le sette lettere significavano "Laubespine". Era quello un pezzo del lenzuolo funebre di Marat.

In gioventù, quando faceva parte della casa del conte d'Artois in qualità di medico delle scuderie, Marat aveva avuto una relazione con una gran dama, di cui gli era rimasto quel lenzuolo dimenticato o piuttosto lasciatogli come ricordo. Poiché quello era l'unico lenzuolo fine ritrovato nella sua casa al momento della sua morte, ce lo avevano avvolto; furono alcune vecchie ad avvolgere in quel lino che aveva conosciuto ore di piacere, il tragico Amico del popolo.

Bruneseau passò oltre lasciando il cencio dove stava, senza distruggerlo. Per disprezzo o per rispetto? Marat meritava l'uno e l'altro. E poi, il destino vi era impresso abbastanza chiaramente per esitare a toccarlo. Del resto, bisogna sempre lasciare alle cose del sepolcro il posto che scelgono. Tutto sommato, era una strana reliquia; una marchesa vi aveva dormito su; Marat vi si era imputridito; aveva attraversato il Pantheon per andare a finire tra i sorci della cloaca. Quel cencio, di cui un tempo Watteau avrebbe disegnato allegramente tutte le pieghe, aveva finito con l'essere degno dello sguardo fisso di Dante.

La visita completa della cloaca parigina durò sette anni, dal 1805 al 1817. Pur andando avanti, Bruneseau indicava, dirigeva e portava a termine alcuni considerevoli lavori; nel 1808 abbassò lo scolo del Ponceau, creando nuove vie dappertutto; nel 1809, spinse la fogna sotto la via San Dionigi fino alla fontana degli Innocenti; nel 1810, la spinse sotto la via Froidmanteau e la Salpêtrière, nel 1811 sotto la via nuova dei Petits-Pères, sotto le vie Mail e Echarpe, sotto la piazza reale, e nel 1812 sotto la via della Place e sotto la Chaussée d'Antin. Nello stesso tempo faceva disinfettare e risanare tutta la rete. Fin dal secondo anno, Bruneseau aveva associato al lavoro il proprio genero Nargaud.

Fu così che all'inizio di questo secolo la vecchia società ripulì il suo sottosuolo. Ripulirono almeno questo. Volgendo uno sguardo retrospettivo all'antica fogna parigina, si vede che essa era tortuosa, disselciata, rotta da lesioni e crepacci, tagliata da scoscendimenti, frastagliata da gomiti bizzarri, da salite e discese senza senso, puzzolente, selvaggia, feroce, buia, spaventosa. Ramificazioni in ogni senso, incroci di condutture, bracci secondari, zampe d'oca, stelle come trincee, intestini ciechi. angiporti, volte salnitrate, pozzi infetti, gocciolìo dall'alto delle pareti, tenebre; nulla uguagliava in orrore quella vecchia cripta puzzolente, apparato digerente di Babilonia, antro, fossa, abisso attraversato da vie, titanica topaia in cui la mente crede di veder vagare nell'ombra quell'immensa talpa cieca che è il passato.

Questa, ripetiamo, era la cloaca d'un tempo.




5. PROGRESSO ATTUALE


Oggi la cloaca è pulita, fredda, diritta, corretta. Realizza quasi l'ideale di ciò che in Inghilterra si intende con la parola "respectable". E' decente e grigiastra; è perfetta e potrebbe quasi dirsi attillata; somiglia a un fornitore divenuto consigliere di Stato. Vi si vede quasi chiaro, e la melma vi si comporta decentemente. A prima vista si prenderebbe volentieri per uno di quei corridoi sotterranei, così comuni una volta e così utili alle fughe dei monarchi e dei principi in quel buon tempo antico "quando il popolo amava i suoi re".

La cloaca attuale è una bella cloaca. Vi regna lo stile puro; il classico alessandrino rettilineo che, scacciato dalla poesia, pare si sia rifugiato nell'architettura, sembra mescolato a tutte le pietre di quella lunga volta tenebrosa e biancastra. Ogni scaricatoio è un'arcata; la via Rivoli fa scuola fin nella cloaca.

Del resto, se c'è un luogo in cui la linea geometrica possa dirsi a posto, è senza dubbio la fossa stercoraria di una grande città, dove tutto deve essere subordinato alla via più corta. La cloaca ha preso oggi un certo aspetto ufficiale. Gli stessi rapporti di polizia, di cui qualche volta è oggetto, non le mancano più di rispetto. Le parole che la caratterizzano nella lingua amministrativa sono elevate e dignitose. Quello che si chiamava budello si chiama galleria, quello che si diceva buco, si dice occhio. Villon non riconoscerebbe più la sua antica dimora di ripiego. Quella rete di sotterranei ha pur sempre la sua immemorabile popolazione di roditori, più pullulante che mai, e di tanto in tanto qualche sorcio veterano si arrischia a mettere la testa fuori della fogna ed esamina i parigini; ma anche quel bestiame si addomestica, contento com'è del suo palazzo sotterraneo.

La cloaca non ha più nulla della ferocia primitiva, e la pioggia che una volta l'insudiciava, ora la lava. Però, non fidatevene troppo. I miasmi l'abitano ancora. E' piuttosto ipocrita che irreprensibile. La prefettura di polizia e la commissione sanitaria hanno un bel da fare. Malgrado tutti i sistemi di disinfezione, esala un certo odore sospetto, come Tartufo dopo la confessione.

Tuttavia, conveniamone, siccome lo spazzamento, tutto sommato, è un omaggio che la fogna rende alla civiltà, e siccome, sotto questo punto di vista, la coscienza di Tartufo rappresenta un progresso sulle stalle di Augia, è certo che la cloaca di Parigi è migliorata.

E' più che un progresso, una trasmutazione. Fra l'antica cloaca e l'attuale c'è una rivoluzione. Chi ha fatto questa rivoluzione?

L'uomo che tutti dimenticano e che noi abbiamo nominato, Bruneseau.




6. PROGRESSO FUTURO


Scavare la cloaca di Parigi non è stata una cosa da niente. Gli ultimi dieci secoli vi hanno lavorato senza poterla terminare, come non hanno potuto completare la città. La cloaca, infatti, subisce tutti i contraccolpi dell'accrescimento di Parigi. E' una specie di polpo tenebroso dai mille tentacoli che cresce di sotto simultaneamente alla città di sopra. Ogni volta che la città apre una via, la cloaca allunga un braccio. L'antica monarchia aveva costruito soltanto ventitremila e trecento metri di fognatura; a questo punto era pervenuta Parigi il primo gennaio 1806. Da quell'epoca, di cui riparleremo tra breve, l'opera fu ripresa e continuata utilmente e alacremente; Napoleone ne ha costruito - queste cifre sono curiose - quattromilaottocento metri; Luigi Diciottesimo cinquemilasettecentonove; Carlo Decimo diecimilaottocentotrentasei; Luigi Filippo ottantanovemila e venti; la Repubblica del 1848 ventitremilatrecentottantuno; il regime attuale settantamilacinquecento; in tutto, a quest'ora, duecentoventiseimilaseicentodieci metri, cioè sessanta leghe di fogna; enorme intestino di Parigi, oscura ramificazione sempre in crescenza, costruzione ignorata e immensa.

Come si vede, il dedalo sotterraneo di Parigi è oggi più che il decuplo di quello che era al principio del secolo. E' difficile immaginare quanta perseveranza e quanti sforzi ci siano voluti per portare la cloaca al grado di perfezione relativa in cui è attualmente. Era già molto che la vecchia amministrazione monarchica e, nell'ultimo decennio del Settecento, il municipio rivoluzionario fossero riusciti a costruire le cinque leghe di fognatura esistenti prima del 1806. L'opera loro era intralciata da ostacoli di ogni genere: gli uni inerenti alla natura del suolo, gli altri derivanti dai pregiudizi stessi della popolazione lavoratrice di Parigi. Parigi è costruita sopra un terreno straordinariamente ribelle alla zappa, al piccone, allo scandaglio, all'opera dell'uomo. Non c'è cosa più difficile che forare e penetrare in quella formazione geologica sulla quale si innalza la meravigliosa formazione storica che è Parigi. Non appena il lavoro, sotto una forma qualsiasi, penetra e si avventura in quello strato di alluvioni, le resistenze sotterranee abbondano. Sono argille pastose, sorgenti d'acqua, rocce dure, fanghiglie molli e profonde che la scienza speciale chiama "mostarde". Il piccone avanza faticosamente tra sedimenti calcarei alternati da sottili strati di argilla e da strati schistosi incrostati di gusci d'ostriche contemporanei agli oceani preadamitici. Talora un ruscello sfonda improvvisamente una volta in costruzione e inonda gli operai; oppure un'ondata di marna irrompe e si precipita con la furia di una cateratta spezzando come vetro le più grosse travi di sostegno. Anche di recente, alla Villette, quando si è dovuto far passare la fogna collettrice sotto il canale San Martino senza interromperne la navigazione e senza asciugarlo, si è aperta una crepa nel letto del canale, e l'acqua ha invaso d'un tratto il cantiere sotterraneo, nonostante l'impiego delle pompe di prosciugamento: si è dovuto far cercare da un palombaro la fessura nel fondo della gran vasca, e non ci è voluto poco per chiuderla. Altrove, nelle vicinanze della Senna, e anche in luoghi abbastanza lontani dal fiume, come per esempio a Belleville, nella Grande Rue e al passaggio Lunière, si trovano delle sabbie mobili, nelle quali si affonda e dove un uomo può sparire improvvisamente. Aggiungete le asfissie per i miasmi, il seppellimento sotto le frane, gli scoscendimenti repentini; aggiungete il tifo che lentamente attacca gli operai. Ai nostri giorni, dopo aver scavato la galleria di Clichy con una spalletta laterale per ricevere un condotto tubolare delle acque dell'Ourcq, lavoro eseguito con un taglio di dieci metri di profondità; dopo aver coperto a volta la Bièvre, dal boulevard dell'Ospedale fino alla Senna, superando frane, aiutandosi con i puntelli orizzontali e con gli scavi di materie spesso putride; dopo aver costruito la fognatura dalla barriera Blanche alla strada d'Aubervilliers, allo scopo di liberare Parigi dalle acque torrenziali di Montmartre e aprire uno scolo alla padule fluviale di nove ettari che imputridiva vicino alla barriera dei Martiri, e ciò mediante un lavoro di quattro mesi, continuato giorno e notte, a undici metri di profondità; dopo aver costruito sotterraneamente e senza aprire fosse, cosa affatto nuova, una fogna nella via Barre-du-Bec a sei metri di profondità dal suolo, il direttore Monnot è morto. Dopo aver coperto di volte tremila metri di fogne su tutti i punti della città, dalla via Traversa Sant'Antonio a quella di Lourcine; dopo avere col ramo dell'Arbalète liberato dalle inondazioni pluviali il crocicchio Censier-Mouffetard; dopo aver costruito la fogna San Giorgio con sassi e bitume in mezzo alle sabbie mobili; dopo aver diretto il pericoloso abbassamento del condotto di Nostra Signora di Nazaret, l'ingegner Duleau è morto. Non c'è bollettino per questi atti di valore, che pure sono più utili delle carneficine bestiali dei campi di battaglia.

Le fogne di Parigi nel 1832 erano ben lontane dallo stato attuale.

Bruneseau aveva dato la spinta, ma ci volle il colera per determinare la vasta ricostruzione che si è avuta in seguito. E' sorprendente dire, per esempio, che una parte della cloaca di cinta, detta Canal Grande, come a Venezia, nel 1821 imputridiva ancora a cielo aperto in via Gourdes. Solo nel 1823 la città di Parigi ha trovato nel suo taschino i duecentosessantaseimilaottanta franchi e sei centesimi necessari per coprire quella turpitudine. I tre pozzi assorbenti del Combat, della Cunette e di Saint-Mandé coi loro scaricatoi, le loro macchine, gli smaltitoi e le diramazioni di spurgo datano soltanto dal 1836. Il ventre di Parigi è stato rinnovato e, come abbiamo già detto, più che decuplicato da un quarto di secolo.

Trent'anni or sono, all'epoca dell'insurrezione del 5 e 6 giugno, in molti luoghi c'era ancora quasi l'antica fogna. Moltissime vie, oggi leggermente convesse, allora erano concave; si vedevano spesso, nel punto in declivio, a cui mettevano capo i versanti di una via o di un crocicchio, larghe inferriate quadrate, a grosse sbarre, il cui ferro luccicava, forbito com'era dal calpestìo della folla, sdrucciolevoli e pericolose per le carrozze tanto che spesso i cavalli vi cadevano. La lingua ufficiale del genio civile chiamava quei punti e quelle grate col nome espressivo di "cassis". Nel 1832 in molti luoghi, come in via della Stella, di San Luigi, del Tempio, Vecchia del Tempio, Nostra Signora di Nazaret, Folie-Méricourt, riva dei Fiori, via del Piccolo Muschio, di Normandia, del Pont-aux-Biches, del Marais, sobborgo San Martino, via Nostra Signora delle Vittorie; sobborgo Montmartre, via Grange-Batelière, Campi Elisi, via Jacob e via Tour, l'antica cloaca gotica mostrava ancora cinicamente le sue fauci. Erano enormi bocche di sasso, talvolta circondate da pilastrini, con una sfrontatezza monumentale.

Nel 1806, Parigi aveva ancora quasi la stessa lunghezza di fogne constatata nel maggio 1663: cinquemilatrecentoventotto tese. Dopo Bruneseau, il primo gennaio 1832 ne esistevano quarantamilatrecento metri. Dal 1806 al 1831 ne erano stati costruiti in media ogni anno settecentocinquanta metri; poi hanno costruito ogni anno otto o anche diecimila metri di galleria, con muratura di piccoli materiali a calce idraulica e su fondo di bitume. A duecento franchi al metro, le sessanta leghe dell'attuale cloaca di Parigi rappresentano quarantotto milioni.

Oltre al progresso economico accennato in principio, gravi problemi di igiene pubblica si connettono a questo immenso problema: la fognatura di Parigi.

Parigi si trova fra due strati, uno d'acqua, l'altro d'aria.

Quello dell'acqua, giacente a una profondità sotterranea abbastanza grande ma già raggiunto con due pozzi, è formato da un sedimento di argilla verde situato tra la creta e il calcare giurassico, e può essere rappresentato da un disco di venticinque leghe di raggio. Una quantità di fiumi e di ruscelli ne trapelano:

in un bicchiere d'acqua del pozzo di Grenelle si bevono insieme le acque della Senna, della Marna, dell'Yonne, dell'Oise, del Cher, della Vienna e della Loira. Lo strato d'acqua è salubre, poiché procede prima dal cielo, poi dalla terra; lo strato d'aria è malsano perché viene dalla fogna. Tutti i miasmi della cloaca si mescolano all'aria della città, donde il suo odore cattivo. E' stato scientificamente constatato che l'aria presa di sopra a un letamaio e più pura di quella presa al di sopra di Parigi.

Nell'avvenire, con l'aiuto del progresso, col perfezionamento delle macchine e col diffondersi della luce, s'impiegherà lo strato d'acqua per purificare quello d'aria; vale a dire per lavare la fogna. Ben inteso che per pulitura della fogna noi intendiamo la restituzione del fango alla terra, rinvio del letame al suolo e del concime ai campi. Per questo semplice fatto ci sarà, per la comunità sociale, diminuzione di miseria e accrescimento di salute. Attualmente, le malattie parigine irradiano a cinquanta leghe di distanza dal Louvre, preso come mozzo di questa ruota pestilenziale.

Si potrebbe dire che da dieci secoli la cloaca è la malattia di Parigi, è il vizio che la città porta nel sangue. L'istinto popolare non si è mai ingannato. Il mestiere di fognaiolo era una volta quasi altrettanto pericoloso e quasi altrettanto ripugnante quanto quello di scorticatore di bestie, per tanto tempo connesso al carnefice. Ci voleva un'alta paga per indurre un muratore a sparire in quella fetida fossa; la scala dei nettapozzi esitava a discendervi; si diceva proverbialmente: "chi scende nella fogna, entra nella fossa"; e ogni sorta di orribili leggende, come abbiamo detto, coprivano di spavento quel gigantesco acquaio; formidabile sentina che conserva le tracce delle rivoluzioni del globo come di quelle degli uomini, e dove si trovano le vestigia di tutti i cataclismi, dalla conchiglia del diluvio sino al lenzuolo di Marat.




Libro 3


LA MELMA, MA L'ANIMA



1. LA CLOACA E LE SUE SORPRESE


Valjean si trovava nella fogna di Parigi.

Somiglianza di Parigi col mare: come nell'oceano, chi s'immerge può sparire.

Il passaggio era inaudito. Nel bel centro della città, Valjean era uscito dalla città; in un batter d'occhio, quanto basta per aprire e chiudere una botola, era passato dalla viva luce all'oscurità completa, dal mezzogiorno alla mezzanotte, dal fracasso al silenzio, dal turbinìo dei rumori alla tranquillità della tomba e, per una peripezia ancor più prodigiosa di quella di via Polonceau, dall'estremo pericolo alla sicurezza più assoluta.

Repentina caduta in un sotterraneo; scomparsa nel trabocchetto di Parigi; lasciare quella via nella quale dappertutto era la morte, per quella specie di sepolcro in cui c'era la vita: fu uno strano momento. Rimase alcuni secondi come sbalordito, in ascolto, stupefatto. La botola della salvezza gli si era aperta a un tratto sotto i piedi. La bontà celeste l'aveva colto, per così dire, a tradimento. Adorabili imboscate della Provvidenza!

Solo che il ferito non si muoveva per nulla, e Valjean ignorava se portava in quella fossa un vivo o un morto. La sua prima sensazione fu l'accecamento; di colpo, non vide più nulla. Gli sembrò pure d'essere diventato improvvisamente sordo: non udiva più niente. La frenetica bufera della carneficina che si scatenava a pochi passi da lui, ripetiamo, grazie allo spessore della terra che lo separava, gli giungeva affievolita e indistinta come un rumore in una profondità. Sentiva di posare i piedi sul solido; non altro; ma questo bastava. Stese un braccio, poi l'altro, toccò il muro dai due lati e s'accorse che il corridoio era stretto; sdrucciolò, e si avvide che la pietra era bagnata. Mosse un piede con precauzione temendo un buco, un pozzo, un qualche precipizio, e constatò che il lastricato si prolungava. Un odore fetido lo avvertì del luogo in cui si trovava.

Dopo alcuni minuti non era più cieco. Lo spiraglio attraverso il quale era scivolato lasciava trapelare un po' di luce, e il suo sguardo si era abituato a quella cantina. Cominciò a distinguere qualcosa. Il corridoio in cui si era sepolto - è la parola che meglio esprime la situazione - era murato dietro di lui. Si trovava in una di quelle vie cieche che il linguaggio tecnico chiama diramazioni. Aveva davanti un'altra specie di muro, un muro di tenebre. La luce dello spiraglio moriva dieci o dodici passi in là dal punto dove egli stava, e copriva di una tinta biancastra pochi metri appena delle umide pareti della fogna. Al di là c'era un'opacità massiccia; introdurvisi pareva una cosa orribile, entrarvi significava essere ingoiato. Tuttavia era possibile e necessario; bisognava anzi affrettarsi. Valjean pensò che quella grata da lui scorta sotto le selci poteva essere vista anche dai soldati, che tutto dipendeva da tale eventualità. Anch'essi potevano calarsi in quel pozzo e frugarlo. Non c'era un minuto da perdere. Riprese Mario, che aveva posato al suolo, se lo caricò sulle spalle e si mise in cammino, immergendosi risolutamente nell'oscurità.

In realtà essi erano meno salvi di quello che credesse Valjean.

Pericoli d'un altro genere e non meno gravi forse li aspettavano.

Dopo il turbine folgorante della battaglia, la caverna dei miasmi e delle insidie; dopo il caos, la cloaca. Valjean era caduto da un cerchio dell'inferno in un altro.

Fatti cinquanta passi, dovette fermarsi. Si presentò un problema.

Il condotto terminava in un altro budello che incontrava trasversalmente. Due vie si offrivano: a quale appigliarsi? Doveva piegare a destra o a sinistra? Come orientarsi in quel nero labirinto? Abbiamo già fatto osservare che esso ha un filo conduttore: il pendìo. Seguendolo, va verso il fiume. Valjean lo capì subito.

Pensò che probabilmente si trovava nella fogna dei Mercati; che se piegava a sinistra e seguiva il declivio, in meno di un quarto d'ora giungeva a qualche sbocco sulla Senna fra il Pont-au-Change e il Ponte Nuovo, cioè usciva alla luce nel punto più popolato di Parigi. Fors'anche andava a terminare in qualche chiavica di crocevia. In questo caso, gran stupore dei viandanti nel vedere due uomini insanguinati sbucare di sotterra, ai loro piedi; accorrere di poliziotti; allarme del vicino corpo di guardia.

Sarebbero stati arrestati prima di venir fuori. Conveniva meglio immergersi nel dedalo, affidarsi alle tenebre e, quanto all'uscita, affidarsi alla Provvidenza. Risalì la china e andò a destra.

Quand'ebbe svoltato l'angolo della galleria, il lontano barlume dello spiraglio disparve; gli ricadde addosso la tenda dell'oscurità e ridivenne cieco. Ma non desistette dall'avanzare quanto più rapidamente poté. Le braccia di Mario gli passavano intorno al collo, e i piedi gli pendevano dietro. Egli teneva le due braccia con una mano, mentre con l'altra tastava il muro. La gota di Mario toccava la sua e, insanguinata com'era, vi si attaccava: sentiva scorrere su di lui e penetrare sotto le vesti un filo tiepido che proveniva dal giovane; tuttavia un calore umido all'orecchio che toccava la bocca del ferito indicava la respirazione e per conseguenza la vita. Il corridoio nel quale ora camminava era più largo del precedente, ma vi si avanzava con difficoltà. Le piogge del giorno prima, non ancora defluite interamente, formavano in mezzo al suolo concavo un piccolo torrente, che lo poneva nella necessità di rasentare il muro per non avere i piedi nell'acqua. Procedeva così in mezzo alle tenebre, a somiglianza degli esseri della notte che vanno a tentoni nell'invisibile, perduti sotterraneamente nelle vene dell'ombra.

Tuttavia, o che qualche lontano spiraglio mandasse un po' di luce fluttuante in quella bruma opaca, o che i suoi occhi si abituassero all'oscurità, a poco a poco riacquistò una vista alquanto incerta, ricominciò confusamente a rendersi conto, ora della parete che toccava, ora della volta sotto cui passava. La pupilla nelle tenebre si dilata e finisce per trovarvi una qualche luce, come l'anima si dilata nella sventura e finisce per trovarvi Dio.

Dirigersi era difficile. Il tracciato delle fogne riproduce, per così dire, il tracciato delle vie sovrapposte. Nella Parigi d'allora c'erano duemiladuecento vie. Figuratevi là sotto quella foresta di diramazioni tenebrose che si chiama la cloaca. Le fognature esistenti a quell'epoca, messe di seguito l'una all'altra, avrebbero formato una linea di undici leghe. Più su abbiamo detto che grazie all'operosità speciale degli ultimi trent'anni, la rete attuale ha una lunghezza non minore di sessanta leghe. Valjean cominciò con l'ingannarsi. Credette di trovarsi sotto la via San Dionigi, ed era un peccato che non vi fosse davvero, perché sotto la via San Dionigi c'è un antico condotto di pietra che data da Luigi Tredicesimo e va diritto al collettore detto Fogna Grande con un solo gomito, a destra, all'altezza dell'antica Corte dei Miracoli, e con una sola intersezione, il condotto San Martino, i cui quattro bracci si tagliano a croce. Ma il condotto della Petite-Truanderie, la cui entrata era presso l'osteria di Corinto, non ha mai comunicato col condotto della via San Dionigi; mette capo alla fogna Montmartre, lungo la quale si era avviato Valjean.

La fogna Montmartre era una delle più labirintiche della vecchia rete. Fortunatamente, Valjean s'era lasciato dietro il condotto dei Mercati, la cui pianta geometrica somiglia a una moltitudine di alberi di trinchetto intrecciati; ma aveva dinanzi più d'un incontro imbarazzante e più di un angolo di via - poiché sono vere vie - che si presentava nell'oscurità come un punto interrogativo:

prima, a sinistra, la vasta fogna Platrière, una specie di rompicapo cinese, che spinge e sviluppa il suo caos di T e di Z sotto il palazzo della Posta e sotto la rotonda del Mercato dei Grani fino alla Senna, dove termina a Y; secondo, a destra, il condotto curvo della via del quadrante con i suoi tre denti, che sono altrettanti vicoli chiusi; terza, a sinistra, la diramazione del Mail, complicata quasi all'ingresso da una specie di forca, e che con un seguito di zig zag va a finire alla gran fogna del Louvre, spezzettata e ramificata in tutti i sensi; finalmente, a destra, il condotto cieco della via dei Digiunatori, senza calcolare qua e là le piccole deviazioni prima di giungere alla cloaca perimetrale, la sola che potesse guidarlo verso un'uscita abbastanza lontana per essere sicura.

Se Valjean avesse avuto qualche nozione di quanto stiamo dicendo, soltanto tastando la parete si sarebbe accorto di non essere nella galleria sotterranea della via San Dionigi. Invece della vecchia pietra da taglio, invece dell'antica architettura altera e regale fin nelle fogne, col suolo e le pareti di granito e cemento, che costava ottocento franchi la tesa, avrebbe sentito sotto la mano la costruzione a buon mercato di oggi, l'espediente economico, la selce con letto di cemento idraulico sopra un fondamento di bitume, che costa duecento franchi il metro: la muratura borghese detta "a piccoli materiali". Ma egli non sapeva niente di tutto questo.

Andava con ansietà ma con calma, senza vedere né sapere nulla, immerso nel caso, vale a dire inghiottito nella Provvidenza.

E' anche vero che l'orrore a mano a mano lo vinceva, e l'ombra da cui era circondato gli penetrava nell'anima. Camminava in un enigma. Il corso della cloaca è formidabile: s'intreccia in un modo vertiginoso, ed è una cosa lugubre trovarsi in quella Parigi di tenebre. Valjean era obbligato a trovare e quasi a inventare la strada, senza vederla.

In quell'ignoto, ogni passo che arrischiava poteva essere l'ultimo. Come uscirne? Troverebbe un'uscita, e in tempo? Quella colossale spugna sotterranea dagli alveoli di pietra si lascerebbe indovinare e attraversare? Oppure troverebbe qualche inaspettato groviglio di tenebre, e arriverebbe all'inestricabile e all'insormontabile? Sarebbero morti, Mario di emorragia, e lui di fame? Finirebbero col perdersi laggiù tutti e due e col formare due scheletri in un angolo di quelle tenebre? Non sapeva. Si faceva tutte queste domande e non poteva rispondere. ll budello di Parigi è un precipizio. Come il profeta, egli si trovava nel ventre del mostro.

A un tratto ebbe una sorpresa. Quando meno se l'aspettava e senza aver mai cessato di andare in linea retta, si accorse che non saliva più e che l'acqua gli batteva le calcagna invece di venirgli sulla punta dei piedi. La fogna ora scendeva. Perché?

Stava dunque per giungere improvvisamente alla Senna? Era un pericolo grave, ma quello di retrocedere era maggiore. Continuò ad avanzare.

Ma non andava verso la Senna. La schiena d'asino, che fa il suolo di Parigi sulla riva destra, vuota uno dei versanti nella Senna e l'altro nella Fogna Grande, e la cresta della schiena d'asino, che determina la divisione delle acque, traccia una linea molto capricciosa. Il punto culminante, dove ha luogo la separazione degli scoli, si trova nel condotto di Saint-Avoye al di là della Via Michele Le Compte, in quello del Louvre presso i boulevard e in quello di Montmartre presso i Mercati. Valjean era pervenuto a quel punto culminante e si dirigeva verso la cloaca di cinta; era sulla buona via ma non lo sapeva.

Ogni qual volta s'imbatteva in un crocicchio, ne tastava gli spigoli, e se trovava l'apertura che gli si offriva meno larga del condotto da lui seguito, non vi entrava e proseguiva la sua strada, giudicando a ragione che qualunque passaggio più stretto dovesse mettere capo a un condotto cieco e quindi allontanarlo dalla meta, cioè dall'uscita. Così evitò la quadruplice insidia tesagli nelle tenebre dai quattro dedali che abbiamo enumerato. A un certo punto s'accorse d'essere fuori dalla Parigi immobilizzata dalla sommossa, dove le barricate avevano soppresso la circolazione, e di essere penetrato sotto la Parigi vivente e normale. Sentì subito sopra la testa un rumoreggiare di tuono, lontano ma continuo: era il rotolìo delle vetture.

Camminava da circa mezz'ora, almeno dal calcolo che faceva, e non aveva ancora pensato di riposarsi; aveva soltanto cambiato la mano che sosteneva Mario. L'oscurità era più profonda che mai, ma quella profondità lo rassicurava.

D'improvviso, si vide davanti la sua ombra, che appariva sopra un debole riflesso rosso quasi indistinto che imporporava vagamente il suolo e la volta, e che scivolava a destra e a sinistra sulle viscide pareti del corridoio. Si volse stupefatto.

Dietro di lui, nella parte del condotto che aveva allora oltrepassato, a una distanza che gli parve immensa, fiammeggiava, striando la densa tenebra, una specie d'astro orribile, che pareva lo guardasse.

Era la fosca stella della polizia che spuntava nella fogna.

Dietro quella stella si agitavano confusamente otto o dieci forme nere, ritte, indistinte, terribili.




2. SPIEGAZIONE


Nella giornata del 6 giugno, era stata ordinata una battuta nelle fogne. Si temeva che i vinti vi si fossero rifugiati, e il prefetto di polizia, Gisquet, dovette frugare la Parigi occulta mentre il generale Bugeaud perlustrava la Parigi pubblica: duplice operazione connessa, che richiese una doppia strategia della forza pubblica, rappresentata in alto dall'esercito e in basso dalla polizia. Tre pattuglioni di agenti e di fognaioli esplorarono l'immondezzaio sotterraneo della città, il primo sulla riva destra, il secondo sulla sinistra, e il terzo nel centro.

Gli agenti erano armati di carabine, di mazze, di spade e di pugnali.

La lanterna diretta in quel momento su Valjean era quella della ronda della riva destra.

La ronda aveva allora perlustrato la galleria curva e i tre condotti ciechi che sono sotto la via del Quadrante. Mentre essa puntava la sua lanterna sui tre condotti ciechi, Valjean aveva incontrato sul suo cammino l'ingresso di quella galleria, l'aveva riconosciuta più stretta della principale ed era passato oltre.

Uscendo dalla galleria di via del Quadrante era parso ai poliziotti di udire un rumore di passi in direzione della cloaca di cinta. Erano infatti i passi di Valjean. Il sergente, che comandava la ronda, aveva alzato la lanterna, e la squadra s'era messa a guardare nella nebbia dal lato donde veniva il rumore.

Fu per Valjean un minuto inesprimibile.

Fortunatamente, se egli vedeva bene la lanterna, la lanterna lo vedeva male; essa era la luce, egli l'ombra, ed era molto lontano, e confuso all'oscurità del luogo. Si strinse al muro e si fermò.

Del resto, non si rendeva conto di quello che succedeva dietro di lui: l'insonnia, la mancanza di nutrimento e le emozioni avevano fatto passare anche lui allo stato di visionario. Vedeva un fiammeggiamento e intorno delle larve. Cos'era? Non capiva.

Fermatosi Valjean, il rumore cessò.

Gli uomini della ronda ascoltavano e non sentivano nulla, guardavano e non vedevano nulla. Si consultarono.

C'era a quel tempo, in quel punto della fogna Montmartre, una specie di crocicchio detto di servizio, più tardi soppresso a causa del piccolo stagno interno che vi formava, ingorgandosi durante i forti temporali, il torrente dell'acqua piovana. Gli uomini della ronda potevano far capannello in quel crocicchio.

Valjean vide quelle larve formare una specie di circolo. Quelle teste di alani si avvicinarono susurrando.

Il risultato di quel consiglio, tenuto dai cani di guardia, fu che s'erano ingannati, che non c'era stato rumore, che non c'era nessuno di là, che era inutile entrare nella fogna di cinta, che sarebbe stato tempo perso, che bisognava invece affrettarsi ad andare verso Saint-Merry, che se c'era qualche cosa da fare e qualche rivoltoso da snidare, era proprio in quel quartiere.

Ogni tanto i partiti fanno risuonare le loro vecchie ingiurie. Nel 1832, il vocabolo "bousingot" teneva l'interim fra quello di giacobino ormai sciupato, e quello di demagogo allora pochissimo in uso e che poi ha prestato un così eccellente servizio.

Il sergente ordinò di piegare a sinistra verso il versante della Senna. Se avessero avuto l'idea di dividersi in due squadre e di andare nei due sensi, Valjean sarebbe stato preso. La cosa era appesa a un filo. E' probabile che le istruzioni della polizia, prevedendo il caso di uno scontro con numerosi insorti, vietassero alla pattuglia di suddividersi. La ronda si rimise in cammino, lasciandosi dietro Valjean, il quale di tutto quel movimento non scorse niente,tranne la eclisse della lanterna che improvvisamente si volse dal lato opposto.

Per sgravio di coscienza della polizia, il sergente, prima d'allontanarsi, scaricò la sua carabina dal lato che lasciavano, nella direzione di Valjean. La detonazione rotolò d'eco in eco nella cripta, come borborigmo di quel titanico intestino. Un pezzo di calcinaccio caduto nel rigagnolo, che fece schioccare l'acqua a qualche passo da Valjean, lo avvertì che la palla aveva colpito la volta sopra il suo capo.

I passi risuonarono per qualche tempo, misurati e lenti, sul lastrico, sempre più attutiti con l'aumentare della lontananza; il gruppo delle forme nere si disperse; un barlume oscillò e ondeggiò, formando nella volta un arco rossastro che s'indebolì e poi scomparve; il silenzio ridivenne profondo, l'oscurità completa; la cecità e la sordità ripresero possesso delle tenebre, e Valjean, non osando ancora muoversi, rimase a lungo con le spalle al muro, l'orecchio teso, la pupilla dilatata, contemplando lo svanire di quella pattuglia di fantasmi.




3. L'UOMO PEDINATO


Bisogna rendere onore alla polizia di quell'epoca; anche nelle più gravi situazioni pubbliche, essa compiva imperturbabilmente il suo dovere. Una sommossa non era ai suoi occhi un pretesto per lasciare ai malfattori la briglia sul collo, e trascurare la società, perché il governo era in pericolo. Il servizio ordinario veniva adempiuto con esattezza insieme con quello straordinario, e non ne era turbato. Agli inizi di un incalcolabile fatto politico, sotto la pressione di una rivoluzione possibile, un agente di polizia si metteva a pedinare un ladro senza lasciarsi distrarre dalla insurrezione e dalle barricate.

Nel pomeriggio del 6 giugno, accadeva appunto qualche cosa di simile in riva alla Senna, sull'argine della sponda destra, poco più in là del ponte degli Invalidi.

In quel punto non c'è più argine ora; l'aspetto dei luoghi è mutato.

Due uomini, a qualche distanza l'uno dall'altro, pareva che si osservassero e che uno evitasse l'altro. Quello che andava avanti cercava di allontanarsi, quello che gli teneva dietro cercava di avvicinarsi.

Era come una partita a scacchi giocata da lontano e in silenzio.

Né l'uno né l'altro mostrava di affrettarsi, anzi tutti e due camminavano lentamente, come se ciascuno di essi temesse, per la troppa fretta, di far raddoppiare il passo al proprio avversario.

Uno di essi sembrava un cacciatore che segua una preda, senza aver l'aria di farlo apposta; e la preda era astuta e stava in guardia.

Correvano fra loro le proporzioni richieste tra la faina inseguita e l'alano cacciatore. Quello che cercava di fuggire era piccolo e d'aspetto meschino; quello che cercava di afferrarlo, alto e robusto, era di aspetto rude e doveva anche essere rude in uno scontro.

Il primo, sentendo di essere il più debole, evitava l'altro, ma evitandolo diventava profondamente curioso. Chi avesse potuto osservarlo, gli avrebbe letto negli occhi la cupa ostilità della fuga e tutta la minaccia che c'era nel suo timore.

L'argine era deserto: non un passante; neppure un battelliere o uno scaricatore nelle chiatte amarrate qua e là.

Non si potevano scorgere agevolmente quei due uomini, se non dalla riva opposta; e chi li avesse esaminati a quella distanza, nell'uomo che camminava più innanzi avrebbe ravvisato un individuo irsuto, cencioso e bieco, inquieto e trepidante sotto un camiciotto a brandelli, e nell'altro un tipo classico e ufficiale, rivestito dell'abito dell'autorità abbottonato fin sotto il mento.

Vedendoli più da vicino, il lettore forse riconoscerebbe quei due uomini.

Qual era lo scopo dell'ultimo?

Probabilmente quello di far indossare al primo degli abiti più caldi.

Quando un uomo vestito dallo Stato ne insegue un altro cencioso, lo fa allo scopo di farne un uomo vestito dallo Stato. La questione si riduce tutta al colore: essere vestito di turchino è meritorio, di rosso è spiacevole.

Era probabilmente un dispiacere e una porpora di questa specie che il primo desiderava schivare.

Se l'altro lo lasciava proseguire e non lo afferrava ancora, secondo ogni apparenza lo faceva nella speranza di vederlo andare a finire in qualche appuntamento significativo e in qualche gruppo di facile sorpresa. Questa operazione delicata costituisce ciò che si chiama "pedinamento".

Questa congettura è resa possibilissima dal fatto che l'uomo abbottonato, scorgendo dall'argine una vettura che passava vuota sulla riva, fece un cenno al cocchiere. Questi capì e, riconoscendo evidentemente con chi aveva a che fare, si mise a seguire i due uomini dall'alto della ripa. Di ciò non s'accorse l'individuo losco e stracciato che andava avanti.

La vettura si muoveva lungo gli alberi dei Campi Elisi; si vedeva passare al di sopra del parapetto il busto del cocchiere con la frusta in mano.

Nelle istruzioni segrete della polizia ai suoi agenti c'è un articolo che prescrive: "Aver sempre sottomano una vettura cittadina per ogni evento".

Pur manovrando ciascuno dal canto suo con una strategia irreprensibile, quei due uomini si avvicinarono a una rampa che dalla riva scendeva all'argine, e che allora permetteva ai vetturini che arrivavano da Passy di andare al fiume ad abbeverare i cavalli. Più tardi quella rampa fu soppressa per simmetria. I cavalli soffrono la sete, ma l'occhio è contento.

E' probabile che l'uomo in camiciotto volesse salire la rampa per tentare di sfuggire i Campi Elisi, luogo ricco d'alberi ma anche molto vigilato dagli agenti di polizia, e dove quindi l'altro avrebbe trovato facilmente dei rinforzi.

Quel punto della riva è molto vicino alla casa detta di Francesco Primo, che il colonnello Brack nel 1824 fece trasportare da Moret a Parigi. Là vicino c'è un corpo di guardia.

Con grande sorpresa del poliziotto, l'uomo braccato non prese la rampa dell'abbeveratoio, ma continuò ad andare avanti sull'argine lungo la riva.

La sua posizione diventava visibilmente rischiosa.

Che poteva fare, tranne che gettarsi nella Senna?

Ormai non rimaneva più nessun mezzo per risalire sulla riva; né rampe né scale; e si era proprio vicino al punto contrassegnato col gomito che fa la Senna verso il ponte di Iena, dove l'argine, sempre più ristretto, finisce in una striscia sottile che va a perdersi sotto l'acqua. Là si sarebbe trovato inevitabilmente bloccato tra il muro a picco a destra, il fiume a sinistra e davanti e l'autorità alle calcagna.

E' vero che la fine dell'argine era nascosta allo sguardo da un mucchio di sterro alto sei o sette piedi, derivante da non so quale demolizione; ma poteva quell'individuo sperare di nascondersi utilmente dietro quel cumulo di calcinacci che bastava aggirare? L'espediente sarebbe stato puerile, e certamente quello non ci pensava; l'ingenuità dei ladri non arriva fino a quel punto.

Il mucchio di sterro formava sull'argine dell'acqua una specie di prominenza, che si prolungava a forma di promontorio fino alla muraglia della riva.

L'uomo pedinato arrivò a quella collinetta, l'oltrepassò e divenne così invisibile al poliziotto.

Costui, non vedendolo, non era neppure visto. Ne approfittò per abbandonare ogni dissimulazione e per camminare più lestamente, sicché in pochi momenti arrivò al mucchio e lo sorpassò. Là si fermò stupefatto. L'uomo a cui dava la caccia era scomparso.

Eclisse totale dell'individuo in camiciotto.

Al di là del cumulo, la proda non si protendeva più di una trentina di passi, poi s'immergeva nell'acqua, che veniva a battere contro il muro della ripa. Il fuggitivo non avrebbe potuto gettarsi nella Senna, né scalare la ripa senza essere scorto da chi l'inseguiva. Che n'era successo?

L'uomo dall'abito abbottonato continuò ad avanzare sino al limite dell'argine, dove restò un momento pensoso, con i pugni frementi, indagando con l'occhio. A un tratto si batté la fronte. S'era accorto che nel punto dove finiva la terra e cominciava l'acqua, c'era un gran cancello largo, basso, arcuato, munito d'una robusta toppa e sostenuto da tre cardini massicci; era una specie di porta praticata in basso alla ripa, che s'apriva tanto sul fiume che sull'argine. Un rigagnolo nerastro passava là sotto e si versava nella Senna.

Al di là delle sue grosse sbarre arrugginite si distingueva una specie di galleria a volta, oscura.

Il poliziotto incrociò le braccia e guardò il cancello con aria di rimprovero.

Poi, non bastando lo sguardo, tentò di spingerlo; lo scosse, ma quello oppose una resistenza solida. Era probabile che fosse stato aperto allora allora, benché non si fosse udito nessun rumore - cosa strana trattandosi di un cancello così arrugginito - ma certamente era stato richiuso; la qual cosa indicava che l'uomo dinanzi al quale quella porta aveva girato, non era munito di un semplice grimaldello, ma di una chiave.

Tale evidenza, affacciatasi d'improvviso alla mente dell'uomo che tentava di scuotere il cancello, gli strappò questo epifonema indignato:

- Questa è grossa! Una chiave dell'autorità!

Poi, calmatosi immediatamente, espresse tutto un mondo d'idee interiori con questo sbuffo di monosillabi accentuati quasi ironicamente:

- Toh! toh! toh! toh!

Ciò detto, sperando forse di veder uscire di nuovo quell'uomo o almeno di vederne entrare altri, si pose in agguato dietro il cumulo di macerie con la rabbia paziente del cane da guardia.

Dal canto suo, il vetturino, che si regolava dai suoi movimenti, si era soffermato al di sopra di lui vicino al parapetto. Il vetturino, prevedendo una lunga fermata, fece passare il muso dei cavalli nel sacco d'avena umido in basso, così noto ai parigini ai quali, sia detto tra parentesi, lo applicano talvolta anche i governi. I rari passanti del ponte di Iena, prima di allontanarsi, volgevano la testa per guardare un attimo quei due particolari del paesaggio immobile: l'uomo sull'argine e la vettura sulla riva.




4. ANCH'EGLI PORTA LA SUA CROCE


Valjean aveva ripreso il cammino e non si era più fermato. Quel cammino diventava sempre più faticoso. Il livello di quelle volte è vario; l'altezza media è di circa cinque piedi e sei pollici, essendo calcolata per la statura di un uomo. Valjean era costretto quindi a curvarsi per non far urtare Mario contro la volta:

bisognava ogni momento abbassarsi poi raddrizzarsi, e tastar sempre il muro. L'umidità delle pietre e la viscosità del suolo ne facevano pessimi punti di appoggio tanto per la mano che per il piede, ed è per questo che lui barcollava di continuo nella schifosa gora della città. I riflessi intermittenti degli spiragli apparivano soltanto a lunghi intervalli e così pallidi che il sole sembrava un chiaro di luna; tutto il resto era nebbia, miasma, opacità, tenebra fitta. Valjean aveva fame e sete; sete soprattutto; e quello, come il mare, è un luogo pieno d'acqua che non si può bere. La sua forza, che, come sappiamo, era straordinaria e nient'affatto scemata dall'età, grazie alla sua vita casta e sobria, cominciava tuttavia a cedere; era stanco, e con l'indebolimento delle forze sentiva sempre più il peso del fardello. Mario, forse morto, pesava come pesano i corpi inerti.

Valjean lo sosteneva in modo che il petto fosse libero e la respirazione potesse effettuarsi il meglio possibile. Sentiva tra i piedi la rapida fuga dei sorci, uno dei quali fu tanto spaventato da morderlo. Ogni tanto, dai chiusini gli arrivava un soffio d'aria fresca che lo rianimava.

Potevano essere circa le tre del pomeriggio quando giunse alla cloaca di cinta. Dapprima si meravigliò di quel subitaneo allargamento. Si trovò a un tratto in una galleria, in cui le sue mani distese non giungevano a toccare le pareti, sotto una volta che la testa non toccava. La Fogna Grande infatti ha otto piedi di larghezza e sette d'altezza.

Nel punto dove il condotto Montmartre raggiunge la Fogna Grande, altre due gallerie sotterranee, quella della via di Provenza e quella dell'Abattoir, vanno a formare un crocicchio. Un uomo meno sagace, fra quelle quattro vie, sarebbe rimasto indeciso; Valjean prese la più larga, vale a dire la fogna di cinta. Ma qui ritornava il problema: scendere o salire? Pensò che la situazione era urgente e che bisognava a ogni costo raggiungere la Senna: in altri termini, scendere. Volse a sinistra.

E fu un ottimo consiglio. Infatti sarebbe un errore credere che la fogna di cinta abbia due sbocchi, uno verso Bercy, l'altro verso Passy, e che sia davvero, come indica il suo nome, la cintura sotterranea di Parigi della riva destra. La Fogna Grande, la quale, come ci è noto, non è altro che l'antico ruscello Ménilmontant, termina dopo un ampio giro al suo punto di partenza.

Essa non ha comunicazione diretta col ramo che raccoglie le acque di Parigi a cominciare dal rione Popincourt, e che si getta nella Senna per mezzo del condotto Amelot al di sopra dell'antica isola Louviers. Questo ramo, che completa il condotto collettore, ne è separato, sotto la stessa via Ménilmontant, da un terrapieno che segna il punto di separazione delle acque a monte e a valle. Se Valjean avesse risalito la galleria, dopo mille sforzi, oppresso dalla stanchezza e senza fiato, sarebbe arrivato, nelle tenebre, a un muro. In tal caso, sarebbe stato perduto.

A rigore, tornando un po' sui suoi passi, imboccando il condotto delle Figlie del Calvario, a condizione di non esitare nella zampa d'oca sotterranea del crocicchio Boucherat, prendendo il corridoio San Luigi, poi, a sinistra, il budello San Gilles, poi volgendo a destra ed evitando la galleria San Sebastiano, avrebbe potuto raggiungere la fogna Arnelot; e di là, purché non si fosse smarrito nella specie di F che sta sotto la Bastiglia, avrebbe potuto raggiungere lo sbocco sulla Senna vicino all'Arsenale. Ma per questo sarebbe stato necessario conoscere a fondo, in tutte le ramificazioni e in tutti i suoi sbocchi, l'enorme madrepora della cloaca. Ora, ripetiamo, Valjean non sapeva proprio nulla di quel dedalo spaventoso in cui camminava, e se gli avessero chiesto dove si trovava, avrebbe risposto: nelle tenebre.

Il suo istinto lo aiutò. Nel discendere infatti era possibile la salvezza.

Lasciò a destra i due condotti che si ramificano a forma di zampa sotto le vie Laffette e San Giorgio, e il lungo corridoio biforcato della Chaussée d'Antin Oltrepassato di poco un affluente che era probabilmente il ramo della Maddalena, si fermò. Era molto stanco. Uno spiraglio abbastanza largo, forse quello della via d'Angiò, lasciava penetrare una luce quasi chiara. Depose Mario sulla panchetta della fogna con la dolcezza di modi che avrebbe avuto verso il fratello ferito. Il volto insanguinato del giovane apparve alla luce bianca dello spiraglio come in fondo a una tomba. Aveva gli occhi chiusi, i capelli aderenti alle tempie come pennelli disseccati nel rosso, le mani pendenti e inerti, le membra fredde e un filo di sangue coagulato all'angolo delle labbra. Un grumo di sangue si era formato nel nodo della cravatta; la camicia entrava nelle piaghe, il bavero dell'abito sfregava le ferite sulla carne viva. Valjean, scostando le vesti con la punta delle dita, gli posò la mano sul petto: il cuore batteva ancora. Lacerò la propria camicia, bendò le piaghe alla meglio e arrestò la perdita di sangue; poi, chinandosi in quel chiaroscuro su Mario, sempre svenuto e quasi senza respiro, lo guardò con un odio inesprimibile.

Rimuovendo gli abiti del giovane, trovò nelle tasche due cose: il pane dimenticato il giorno prima e il portafoglio. Sulla prima pagina trovò le quattro righe che già sappiamo scritte da Mario:

"Mi chiamo Mario Pontmercy. Il mio cadavere va portato a casa di mio nonno, signor Gillenormand, via delle Figlie del Calvario 6, al Marais".

Valjean lesse alla luce dello spiraglio queste quattro righe, e restò un momento assorto, ripetendo sotto voce: "Via delle Figlie del Calvario, numero sei, signor Gillenormand"; quindi ripose il portafoglio nella tasca del ferito. Aveva mangiato; gli erano tornate le forze. Si ricaricò Mario sulle spalle, appoggiandone accuratamente la testa sulla propria spalla destra, e si rimise a discendere la cloaca.

La Grande Fogna, che segue il pendìo della valle di Ménilmontant, ha circa due leghe di lunghezza, ed è lastricata per una buona parte del suo percorso.

Questa guida dei nomi delle vie parigine, con cui noi illuminiamo per il lettore il cammino sotterraneo di Valjean, Giovanni Valjean non l'aveva. Nulla gli indicava quale zona della città attraversasse, né quale tragitto avesse fatto. Solo il pallore crescente delle strisce di luce che ogni tanto incontrava lo avvertiva che il sole si ritirava dal lastrico delle vie e che il giorno era vicino al tramonto; e dal rumore delle vetture sopra il suo capo, che da continuo era diventato intermittente e poi era quasi cessato del tutto, concluse che non era più sotto la parte centrale di Parigi ma si avvicinava a qualche regione solitaria presso i boulevard esterni e le rive più lontane. Dove ci sono meno case e meno vie la fogna ha meno spiragli. L'oscurità diventava sempre più fitta, ma Valjean non desisteva dall'avanzare a tentoni nell'ombra.

D'un tratto quell'ombra divenne terribile.




5. LA SABBIA COME LA DONNA. UNA FINEZZA CHE E' PERFIDIA


Sentì che entrava nell'acqua, e non aveva più sotto ai piedi il lastrico, ma la melma.

Su certe coste della Bretagna e della Scozia avviene talvolta che qualcuno, un viaggiatore o un pescatore, camminando con la bassa marea sul lido a qualche distanza dalla riva, si accorga a un tratto che da parecchi minuti cammina con difficoltà. Sotto i suoi piedi la sabbia diventa pece, la suola vi si attacca; non è più sabbia, ma glutine. Il lido è perfettamente asciutto, ma ad ogni passo l'orma lasciata dal piede sul terreno si riempie d'acqua.

L'occhio però non si è accorto di nessun cambiamento; l'immensa spiaggia è piana e tranquilla; la sabbia ha dappertutto il medesimo aspetto; nulla distingue il suolo solido da quello che non lo è; e la piccola nuvola festosa degli afidi marini continua a saltellare tumultuosamente sul piede del passeggero. Egli prosegue la sua strada, va innanzi, piega verso terra per ravvicinarsi alla costa. Non è inquieto. Inquieto perché? Però prova una sensazione, come se a ogni passo i suoi piedi diventassero più pesanti. D'un tratto affonda; affonda di due o tre pollici. Evidentemente non è sulla buona strada. Si ferma per orientarsi. Non volendo, si guarda i piedi. Sono scomparsi, la sabbia li copre. Li ritira, vuol retrocedere, si volge indietro; affonda ancor più: la sabbia gli giunge al malleolo. Si strappa fuori e si getta a sinistra. La sabbia gli arriva a mezza gamba; si getta a destra, gli arriva ai ginocchi. Allora riconosce, con indicibile terrore, che s'è cacciato in una sabbia mobile, che ha sotto di sé quello spaventoso elemento dove né l'uomo può camminare né il pesce nuotare. Butta via il carico se lo ha, si alleggerisce come una nave in pericolo; ma non è più in tempo; la sabbia gli oltrepassa i ginocchi.

Chiama, agita il cappello o il fazzoletto, ma la sabbia lo inghiotte sempre più. Se il lido è deserto, se la terra è troppo lontana, se il banco di sabbia è troppo malfamato, se non c'è un eroe nei dintorni, è finito, è condannato alla sepoltura. E' condannato a quell'orribile sepoltura, lunga, infallibile, implacabile, che non è possibile ritardare né affrettare, che dura per ore, che non termina mai, che lo coglie in piedi e in piena salute, che lo tira per i piedi, che a ogni sforzo che tenta, a ogni grido che manda lo trascina un po' più giù, che sembra voglia punirlo della sua resistenza raddoppiando le strette, che fa immergere l'uomo lentamente nella terra, lasciandogli tutto il tempo di contemplare l'orizzonte, gli alberi, le campagne verdi, il fumo dei villaggi nella pianura, le vele delle navi sul mare, gli uccelli che volano e cantano, il sole, il cielo.

L'affondamento è il sepolcro che diventa marea, e sale dal fondo della terra verso un vivente. Ogni minuto è uno spietato becchino.

Lo sventurato tenta di sedersi, di sdraiarsi, di strisciare, ma ogni movimento che fa, lo seppellisce; si rialza e affonda; si sente ingoiare; urla, implora, grida alle nuvole, torce le braccia, si dispera. Eccolo con la sabbia fino al ventre; poi sino al petto; non è più che un busto. Alza le mani, manda dei gemiti furiosi, si aggrappa al greto, vuol afferrarsi a quella cenere, si puntella sui gomiti per strapparsi fuori da quella molle guaina, piange freneticamente; e la sabbia sale. La sabbia giunge alle spalle, giunge al collo; ora, la faccia sola è visibile. La bocca grida, la sabbia la riempie: silenzio. Gli occhi guardano ancora, la sabbia li chiude; notte. Poi la fronte va scemando, pochi capelli ondeggiano ancora sull'arena, una mano esce, bucando la superficie del greto, si muove, si agita e scompare. Orribile scomparsa di un uomo.

Talvolta affonda il cavaliere col cavallo, talvolta il carrettiere col carro; tutto sprofonda nel greto. E' il naufragio che si compie fuori acqua, è la terra che annega l'uomo. La terra, imbevuta d'acqua, diventa un'insidia; si presenta come una pianura e s'apre come l'onda. L'abisso ha di questi tradimenti.

Tale funebre avventura, sempre possibile su questa o quella spiaggia di mare, trent'anni or sono era possibile anche nella fogna di Parigi.

Prima degli importanti lavori del 1833, lo sterquilinio sotterraneo di Parigi era soggetto a frane improvvise.

L'acqua s'infiltrava in certi terreni soggiacenti, particolarmente friabili; e il suolo concavo, anche se formato di pietre come nelle gallerie antiche, o di calce idraulica sopra il bitume come nelle moderne, mancando il punto d'appoggio, cedeva. In un impiantito di quel genere una piega è una crepa, e una crepa è lo scoscendimento. Il suolo crollava per una certa lunghezza. Quel crepaccio, bocca d'una voragine di fango, nella lingua speciale si chiamava "fontis". Che cos'è un fontis? E' la sabbia mobile delle rive del mare incontrata improvvisamente sotto terra; è il greto del Monte San Michele in una fogna. Il terreno, inzuppato, è come in fusione, e tutte le sue molecole rimangono sospese in un elemento molle, che non è né terra né acqua, fino a una profondità talora assai grande. Nulla di più pericoloso di un simile incontro; se predomina l'acqua, la morte è pronta, per annegamento; se predomina la terra, la morte è lenta, per affondamento.

Vi figurate una morte simile? Se lo sprofondamento è terribile sulla spiaggia del mare, che dev'essere in una cloaca? Invece dell'aria aperta, della viva luce, del pieno giorno, del chiaro orizzonte, di quei larghi rumori, di quelle libere nubi da cui piove la vita, di quelle barche lontane, di quella speranza sotto tutte le forme, dei passanti probabili, del soccorso possibile fino all'ultimo minuto, invece di tutto ciò la sordità, la cecità, una negra volta, un interno di tomba già pronto, la morte nella fanghiglia sotto un coperchio! la soffocazione lenta in un lurido immondezzaio, una cassa di pietra in cui l'asfissia apre l'artiglio nella melma e ti afferra alla gola, il fetore mescolato al rantolo, la melma invece della sabbia, l'idrogeno solforato invece della tempesta, la lordura invece dell'oceano! e chiamare, e digrignare i denti, e contorcersi, e dibattersi, e agonizzare, con quella città enorme che non sa nulla e che pure si ha sopra la testa!

Inesprimibile orrore di una morte simile! Talvolta la morte riscatta la sua atrocità con una certa dignità terribile. Sul rogo, in un naufragio, si può esser grandi; nella fiamma come nella schiuma un atteggiamento superbo è possibile, chi vi s'inabissa può trasfigurarsi. Qui no. La morte è sudicia; è umiliante spirare; le estreme ondeggianti visioni sono abiette.

Fango è sinonimo di vergogna. E' una fine meschina, laida, infame.

Morire in una botte di malvasia come Clarence, è tollerabile; ma nella fossa dell'immondezzaio come d'Escoubleau è orribile.

Dibattersi là dentro è schifoso; mentre si agonizza, si guazza nel fango. Ci sono abbastanza tenebre perché quello sia un inferno, c'è fango abbastanza perché sia solo un pantano, e il moribondo non sa se sta diventando uno spettro o un rospo.

Il sepolcro, tetro dovunque, qui diventa deforme.

I fontis variavano di profondità, di larghezza, di densità secondo la qualità più o meno cattiva del sottosuolo. Talvolta la loro altezza era di tre o quattro piedi, talvolta di otto o dieci; qualche volta non se ne trovava il fondo. Qui la melma era quasi solida, là quasi liquida. Nel fontis Lunière un uomo ci avrebbe messo una giornata a sparire, mentre sarebbe stato ingoiato in cinque minuti dal pantano Phélippeaux. La mota sostiene più o meno secondo la maggiore o minore densità; un fanciullo può salvarsi dove si perde un uomo. La prima legge di salvezza è quella di sbarazzarsi d'ogni specie di carico. Quando un fognaiolo sentiva il suolo cedere sotto di lui, cominciava col gettar via la borsa degli utensili, o la gerla, o il martello che portava.

I fontis derivavano da diverse cause; la friabilità del suolo; qualche franamento a una profondità fuori della portata dell'uomo; i violenti acquazzoni d'estate, i nembi incessanti dell'inverno, le lunghe pioggerelle minute. Talvolta il peso delle case circostanti, sopra un terreno marnoso o sabbioso, comprimeva le volte delle gallerie e le faceva piegare; oppure avveniva che sotto quella spinta soverchiante si spezzasse e si fendesse il pavimento dei condotti. Fu così che la massa del Panthéon rovinò, un secolo fa, una parte dei sotterranei della montagna Santa Genoveffa. Quando una fogna sprofondava sotto la pressione delle case, il disordine, in alcune circostanze, si manifestava in alto nella via con una specie di spaccatura dentata fra le selci, che si prolungava con una linea serpentina lungo tutta la volta spaccata, e allora, essendo visibile il male, il rimedio poteva essere immediato. Invece spesso accadeva che il guasto interno non si palesasse con nessuno sfregio di fuori; e in tal caso, guai ai fognaioli! Entrando senza precauzione nel condotto sfondato, potevano soccombere. Gli antichi registri fanno menzione di parecchi uomini ingoiati in tal modo nei fontis, e ricordano vari nomi, tra cui quello del fognaiolo che affondò in un franamento sotto la bocca di via Carême-Prenant, un certo Biagio Poutrain, fratello di Nicola Poutrain, che fu l'ultimo affossatore del cimitero detto Carnaio degli Innocenti nel 1785, epoca in cui quel cimitero venne soppresso.

Ci fu anche il giovane e grazioso visconte d'Escoubleau, che abbiamo già nominato, uno degli eroi dell'assedio di Lerida, a cui si dette l'assalto con calze di seta e coi violini in testa.

Sorpreso una notte in casa di sua cugina, la duchessa di Sourdis, annegò in una fenditura della fogna Beautreilles, nella quale s'era rifugiato per sfuggire al duca. Quando le narrarono quella morte, la signora di Sourdis si fece dare la sua boccetta e a forza di aspirare essenze odorose dimenticò di piangere. In simili casi non c'è amore che tenga; la cloaca lo spegne. Ero ricusa di lavare il cadavere di Leandro, Tisbe si tura il naso innanzi a Pirano esclamando: - oibò!




6. IL fontIS


Valjean era incappato in un fontis.

Quella specie di franamento era allora frequente nel sottosuolo dei Campi Elisi, difficilmente trattabile con i lavori idraulici e refrattario a un trattamento in muratura a causa della sua eccessiva fluidità. Questa fluidità è maggiore dell'inconsistenza delle sabbie del quartiere San Giorgio, che si è potuta domare solo per mezzo di una sassaia sopraintrisa di bitume, e di quelle degli strati argillosi pregni di gas del quartiere dei Martiri, talmente liquide, che il passaggio sotto la galleria poté effettuarsi solo con un tubo di ghisa. Quando nel 1836, sotto il quartiere Sant'Onorato venne demolito l'antico condotto di pietra, nel quale in questo momento vediamo impegnato Valjean, la sabbia mobile, che forma il sottosuolo dai Campi Elisi fino alla Senna, oppose tanta resistenza, che il lavoro di ricostruzione durò circa sei mesi, con grandi proteste dei frontisti, soprattutto di quelli con palazzi e carrozze. I lavori, non che difficili, riuscirono pericolosi; è vero che ci furono quattro mesi e mezzo di pioggia e tre piene della Senna.

Il fontis, in cui s'era imbattuto Valjean,derivava dall'acquazzone del giorno prima. Un cedimento del suolo mal sostenuto dalla sabbia sottostante, aveva prodotto un ingorgo d'acqua piovana; era avvenuta l'infiltrazione e quindi lo sprofondamento. Il suolo, smosso, era affondato nella melma. Su quale estensione? Impossibile dirlo. Le tenebre erano più fitte che in qualunque altro punto: era un buco di fango in una caverna di tenebre.

Valjean sentì che il lastrico gli sfuggiva sotto, ma entrò risolutamente nel fango; era acqua alla superficie, limo nel fondo. Bisognava passare a ogni costo; tornare indietro era impossibile: Mario era sul punto di spirare, e lui estenuato; e poi, dove andare? Avanzò. Ai primi passi la fenditura parve poco profonda; ma quanto più si inoltrava, tanto più i piedi s'immergevano. Ben presto, la mota gli giunse a mezza gamba, l'acqua ai ginocchi. Camminava alzando Mario quanto più poteva al di sopra dell'acqua. Ora la melma gli arrivava ai ginocchi e l'acqua alla cintura. Non poteva più rinculare, e affondava sempre più. Quella mota, abbastanza densa per sostenere il peso d'un uomo, evidentemente non poteva portarne due. Se fossero stati separati, Mario e Valjean avrebbero avuto probabilità di salvezza.

Tuttavia Valjean continuò ad avanzare, sostenendo quel moribondo, che era forse un cadavere.

L'acqua gli arrivava alle ascelle; si sentiva sprofondare; a mala pena poteva muoversi nel fango profondo in cui stava. La densità gli era di sostegno, ma anche di ostacolo. Teneva sempre sollevato Mario, e con uno spreco di forze inaudito avanzava, ma affondava; non aveva più che la testa fuori dell'acqua, e con le braccia teneva alto il ferito. Nelle antiche pitture del diluvio si vede una madre che sorregge così suo figlio.

Affondò ancora e rovesciò il capo all'indietro per sfuggire all'acqua e respirare; chi l'avesse visto in quell'oscurità avrebbe creduto di vedere una maschera galleggiante nell'ombra.

Scorgeva confusamente sopra di sé la testa penzolante e il viso livido di Mario. Fece uno sforzo disperato e cacciò innanzi il piede, che andò a urtare contro qualcosa di solido: un punto d'appoggio. Finalmente.

Si raddrizzò, si contorse, si abbarbicò quasi con furia su quel punto d'appoggio: gli fece l'effetto del primo gradino d'una scala risalente verso la vita.

Quel punto d'appoggio incontrato nella melma nel momento estremo, era l'inizio dell'altro versante del lastricato, che aveva ceduto senza rompersi, e si era curvato sotto il peso dell'acqua come un'asse, tutto d'un pezzo. I lastricati ben costruiti s'inarcano e hanno quella specie di fermezza. Quel frammento del suolo, sommerso in parte, ma solido, era una vera rampa, e una volta su quella rampa, si era salvi. Valjean risalì quel piano inclinato e si trovò dall'altro lato della fenditura.

Uscendo dall'acqua inciampò in un sasso e cadde in ginocchio.

Pensò che era giusto, e vi rimase qualche tempo, con l'anima inabissata in chi sa quali parole rivolte a Dio.

Si raddrizzò tremante, intirizzito, insudiciato, curvo sotto il peso del moribondo che trasportava, tutto gocciolante di melma, ma con l'anima piena d'una strana luce.




7. QUALCHE VOLTA SI NAUFRAGA DOVE SI CREDE DI SBARCARE


Si rimise di nuovo in cammino.

Del resto, se non aveva lasciato la vita nel fontis sembrava ci avesse lasciato la forza. Quel supremo sforzo l'aveva esaurito. La sua stanchezza era tale che, ogni tre o quattro passi, era costretto a riprendere fiato e ad appoggiarsi al muro. Una volta dovette sedersi sulla panchetta per cambiare la posizione di Mario, e credette di doverci restare per sempre.

Ma se il suo vigore era spento, non così la sua energia. Si rialzò.

Camminò disperatamente, quasi in fretta; fece un centinaio di passi senza alzar la testa e quasi senza respirare, e improvvisamente urtò contro il muro. Era giunto a un gomito della fogna, e arrivando alla svolta a capo chino, aveva incontrato la parete. Levò gli occhi, e all'estremità del sotterraneo, laggiù, davanti a lui, lontano, assai lontano, vide una luce. Questa volta non era la luce terribile, ma la luce buona e bianca, quella del giorno.

Vedeva lo sbocco.

Un'anima dannata che, di mezzo alla fornace, scorgesse improvvisamente l'uscita della geenna, proverebbe quello che provò Valjean. Essa volerebbe disperatamente, coi mozziconi delle ali bruciate, verso la porta radiosa. Valjean non sentì più la stanchezza, non sentì più il peso di Mario, ritrovò i suoi garretti d'acciaio e corse più che camminare. A mano a mano che si avvicinava, l'uscita si delineava più distintamente. Era un arco centinato, meno alto della volta che si abbassava gradatamente, e meno largo della galleria che andava restringendosi con l'abbassarsi della volta. Il condotto finiva come l'interno di un imbuto; restringimento vizioso, imitato dagli sportelli delle carceri, logico in una prigione, illogico in una fogna, e che fu più tardi corretto.

Valjean giunse allo sbocco. E lì si fermò. Era proprio l'uscita, ma non si poteva uscire.

L'arco era chiuso da un robusto cancello, che secondo ogni apparenza girava di rado sui cardini arrugginiti, ed era saldato allo stipite di pietra da una grossa serratura, tanto rossastra per la ruggine che sembrava un enorme mattone. Si vedeva il buco della chiave e la robusta stanghetta immersa profondamente nella bocchetta di ferro: la serratura, evidentemente chiusa a doppio giro, era una di quelle da bastia che l'antica Parigi prodigava volentieri.

Al di là del cancello l'aria libera, il fiume, la luce, l'argine molto stretto ma sufficiente per camminare, le rive deserte, Parigi, questa voragine in cui è così facile nascondersi, il vasto orizzonte, la libertà. Si distingueva a destra, a valle, il ponte di Iena, e alla sinistra, a monte, quello degli Invalidi. Il luogo sarebbe stato propizio per attendere la notte e poi fuggire. Era uno dei punti più solitari di Parigi: la proda che sta di fronte al Gros-Caillou. Le mosche entravano e uscivano attraverso le sbarre del cancello.

Erano circa le otto e mezzo di sera: il giorno declinava.

Valjean depose Mario lungo il muro sulla parte asciutta del suolo; poi si avvicinò al cancello e strinse i pugni sulle sbarre: la scossa fu frenetica, ma l'effetto fu nullo; il cancello non si mosse. Afferrò le sbarre l'una dopo l'altra, sperando di poter strappare la meno solida e farsene una leva per sollevare il cancello o rompere la serratura; ma nessuna sbarra cedette: i denti d'una tigre non stanno più saldi nei loro alveoli. Senza leva, era inutile qualsiasi sforzo: l'ostacolo era invincibile.

Nessun mezzo per aprire.

Doveva dunque finire là? Che fare? A che partito appigliarsi?

Retrocedere, ricominciare lo spaventoso tragitto già compiuto? non ne sentiva la forza. Del resto, come attraversare di nuovo quella fenditura, dalla quale s'era tratto fuori per miracolo? E al di là della fenditura non c'era quella ronda di polizia, a cui non sfuggirebbe certamente la seconda volta? E poi, dove andare? Che direzione prendere? Seguire la china non significava raggiungere lo scopo. Pur arrivando a un altro sbocco, lo troverebbe chiuso da una lastra o da un cancello, poiché tutte le uscite erano chiuse in quel modo. Il caso aveva aperto l'inferriata per la quale era entrato, però tutte le altre bocche della fogna erano chiuse.

Aveva ottenuto soltanto di fuggire in una prigione. Era finita.

Quanto aveva fatto sino allora diventava inutile. Dio non voleva.

Erano incappati l'uno e l'altro nella cupa e immensa tela della morte, e Valjean sentiva il ragno spaventoso correre su quei fili neri che fremevano nelle tenebre.

Volse le spalle al cancello, si buttò sul lastrico, più atterrato che seduto, accanto a Mario sempre immobile, e piegò la testa sulle ginocchia. Nessuna uscita. Era l'ultima goccia dell'angoscia.

A chi pensava, in quel profondo abbattimento? Non a se stesso. Non a Mario. Pensava a Cosetta.




8. LA FALDA DELL'ABITO LACERATA


Mentre stava così prostrato, una mano gli si posò sulla spalla e una voce gli disse, parlando sommesso:

- Dividiamo.

Qualcuno in quell'ombra? Non c'è nulla che somigli al sogno come la disperazione: Valjean credette di sognare. Non aveva udito nessun passo. Era mai possibile? Alzò gli occhi.

Un uomo gli stava dinanzi.

Era vestito d'un camiciotto, aveva i piedi nudi e portava nella mano sinistra le scarpe, che evidentemente si era tolte per giungere sino a Valjean senza far sentire i suoi passi.

Valjean non esitò un momento: per quanto fosse imprevisto l'incontro, quell'individuo gli era noto. Era Thénardier.

Benché risvegliato, per così dire, di soprassalto, uso com'era agli allarmi e agguerrito ai colpi inattesi che bisogna parar presto, Valjean riprese presto la sua presenza di spirito. Del resto la situazione non poteva peggiorare; un certo grado di angustia non è più suscettibile d'aumento, e lo stesso Thénardier non poteva aggiungere maggiori tenebre a quella notte. Ci fu una battuta d'aspetto.

Alzando la mano destra all'altezza della fronte, Thénardier se ne fece paralume, quindi aggrottò le sopracciglia strizzando gli occhi, con una leggera contrazione delle labbra, gesto che caratterizza la sagace attenzione di un uomo che cerca di riconoscere un altro. Non ci riuscì. Valjean, come abbiamo detto, volgeva le spalle alla luce, e d'altronde era così sfigurato, infangato e insanguinato, che in pieno giorno sarebbe stato irriconoscibile. Invece, illuminato di fronte dalla luce del cancello, luce di cantina, livida ma precisa nella sua lividezza, Thénardier, come dice l'energica metafora volgare, saltò subito agli occhi di Valjean. Quella disparità di situazione bastava ad assicurare a quest'ultimo qualche vantaggio nel misterioso duello che stava per impegnarsi tra le due situazioni e i due uomini.

Valjean si accorse subito che l'altro non lo riconosceva. Si esaminarono un momento in quella penombra come se volessero misurarsi. Thénardier fu il primo a rompere il silenzio:

- Come farai per uscire?

Valjean non rispose.

L'altro continuò:

- E' impossibile scassinare la serratura; eppure è necessario che tu te ne vada da qui.

- E' vero, - disse Valjean.

- Ebbene, dividiamo.

- Che intendi dire?

- Tu hai ammazzato l'uomo, sta bene. Io ho la chiave.

E mostrava col dito Mario; quindi proseguì:

- Non ti conosco ma voglio aiutarti. Devi essere un amico.

Valjean cominciò a capire: Thénardier lo prendeva per un assassino.

Costui riprese:

- Ascolta, amico: tu non hai ucciso quest'uomo senza guardare in tasca; dammi la metà e io apro la porta.

E tirando una grossa chiave di sotto al camiciotto tutto stracciato, soggiunse:

- Vuoi vedere come è fatta la chiave della libertà? Eccola.

Valjean "rimase stupito", la frase è del vecchio Corneille, al punto di dubitare della realtà di quello che vedeva. Era la Provvidenza che gli appariva con un orribile ceffo, il buon angelo che sbucava dalla terra sotto le forme di Thénardier.

Costui, cacciatosi la mano in una larga tasca sotto il camiciotto, ne tirò fuori una corda e la porse a Valjean.

- Prendi, - disse; - in aggiunta ti do anche la corda.

- Che devo farne della corda?

- Hai bisogno anche d'una pietra, ma la troverai fuori. C'è un mucchio di rottami.

- Che devo farne della pietra?

- Imbecille, se vuoi gettare il cadavere nel fiume, hai bisogno di una pietra e di una corda, se no galleggerà sull'acqua.

Valjean prese la corda. Abbiamo tutti di queste accettazioni macchinali.

Thénardier fece scricchiolare le dita come all'arrivo di un'idea improvvisa.

- Appunto, amico, come hai fatto a tirarti fuori laggiù dalla fenditura? Io non ho osato arrischiarmi. Oibò! che puzza!

E dopo una pausa, aggiunse:

- Ti faccio delle domande, ma hai ragione di non rispondermi. E' un tirocinio per il maledetto quarto d'ora del giudice d'istruzione; e poi col non parlare affatto non corri il rischio di parlare troppo forte. Ma è lo stesso; se non vedo il tuo volto e non conosco il tuo nome, avresti torto di credere che io non sappia chi sei e cosa vuoi. E' cosa nota. Hai portato un pochino questo signore, e ora vorresti ficcarlo in qualche luogo; ti occorre il fiume, il gran nascondiglio delle castronerie. Io voglio cavarti d'impaccio. Mi piace venire in aiuto a un buon ragazzo imbarazzato.

Benché approvasse il silenzio di Valjean, si vedeva chiaramente che cercava di farlo parlare. Lo spinse per una spalla tentando di esaminarlo di profilo, ed esclamò, senza però mai alterare il suo tono di voce:

- A proposito della fenditura, sei una magnifica bestia: perché non ci hai gettato l'individuo?

Valjean continuò a tacere.

Thénardier tirò su sino al pomo d'Adamo il cencio che gli faceva da cravatta, gesto che completa l'aria importante di un uomo serio; quindi riprese:

- In effetti, hai forse agito saggiamente. Gli operai domani, venendo a tappare il buco, avrebbero senza dubbio trovato il cittadino dimenticato laggiù, e si sarebbe potuto, a poco a poco, filo per filo, rinvenire la traccia, giungere fino a te. Qualcuno è passato nella fogna. Chi? di dove è uscito? è stato visto uscire? La polizia è molto ingegnosa, e la fogna è traditrice e vi denuncia. Simile scoperta è una rarità, e attira l'attenzione; poche persone si servono della fogna per le loro faccende, mentre il fiume è di tutti. Il fiume è la vera fossa. Dopo un mese ti ripescano l'uomo nelle reti di Saint-Cloud; ebbene, che importa questo? è una carogna! Chi ha ucciso quell'uomo? Parigi. E la giustizia non investiga! Hai fatto bene.

Più Thénardier era loquace, più Valjean era muto, Thénardier lo scosse di nuovo per la spalla:

- Concludiamo dunque l'affare. Dividiamo. Hai visto la mia chiave, mostrami il tuo denaro.

Thénardier era torvo, selvaggio, losco, un po' minaccioso e tuttavia amichevole.

C'era questo di strano, che i suoi modi non erano naturali, pareva non stare a suo agio, e benché non affettasse nessun'aria misteriosa, parlava sottovoce; ogni tanto si metteva il dito sulla bocca e mormorava: zitto! Era difficile indovinare perché: non c'era nessuno, tranne che loro. Valjean pensò che altri banditi erano forse nascosti in qualche cantuccio, e che Thénardier non ci teneva a dividere con loro.

Thénardier riprese:

- Finiamola. Quanto aveva il cadavere nelle sue tasche?

Valjean si frugò in tasca.

Ricorderemo che era sua abitudine portar sempre del denaro addosso: l'oscura vita di espedienti a cui era condannato gliene faceva una legge. Tuttavia questa volta veniva colto alla sprovvista. Indossando, la sera precedente, la divisa di guardia nazionale, così lugubremente assorto come era, aveva dimenticato di prendere il portafoglio. Non aveva che poche monete nel taschino del panciotto. Lo rovesciò, tutto inzuppato di fango, e schierò sulla panchetta rasente al suolo un luigi d'oro, due monete da cinque franchi e cinque o sei soldoni.

Thénardier sporse il labbro interiore e torse il collo in un modo espressivo, dicendo:

- L'hai ammazzato a buon mercato.

E si mise a palpare, con perfetta familiarità, le tasche di Mario e quelle di Valjean, il quale, soprattutto preoccupato di volgere le spalle alla luce, lo lasciava fare. Mentre maneggiava l'abito dei giovane, Thénardier, con una destrezza da prestigiatore, trovò modo di strappare, senza che Valjean se ne accorgesse, un lembo che nascose sotto il camiciotto, pensando forse che quel pezzo di panno gli poteva servire più tardi a riconoscere l'assassinato e l'assassino. Del resto, non trovò altro che i trenta franchi.

- E' vero, - diss'egli, - non possedete che questi.

E dimenticando la sua parola: "dividiamo", prese tutto. Esitò un momento dinanzi ai soldoni; ma dopo aver riflettuto li prese, borbottando:

- Non importa! Si ammazzano le persone a troppo buon mercato.

Ciò fatto, tirò di nuovo la chiave di sotto al camiciotto.

- E ora, amico, te ne devi andare. Qui è come alla fiera, si paga uscendo. Hai pagato, vattene.

E si mise a ridere.

Nel porgere il soccorso di quella chiave a quello sconosciuto, e nel far passare da quella porta un altro in vece sua, aveva l'intenzione pura e disinteressata di salvare un assassino? Ci sia permesso dubitarne.

Thénardier aiutò Valjean a ricaricarsi Mario sulle spalle, poi, sulla punta dei piedi nudi, andò al cancello, facendo segno all'altro di seguirlo, guardò fuori ponendosi un dito sulla bocca, e rimase qualche momento quasi in sospeso. Fatta l'ispezione, mise la chiave nella toppa; la stanghetta scivolò e il cancello girò, senza che si udisse né stridere, né scricchiolare. Tutto si svolse con calma. Evidentemente quel cancello e i suoi cardini, unti con cura, si aprivano più spesso che non si sarebbe creduto. Quella calma era sinistra; vi si sentivano le andate e i ritorni furtivi di uomini notturni, e i passi di lupo del delitto. La fogna era evidentemente complice di qualche banda misteriosa: quel cancello taciturno era un manutengolo.

Thénardier lo aprì tanto da dare appena il passo a Valjean, lo richiuse, girando due volte la chiave nella toppa, e si immerse nell'oscurità senza fare più rumore d'un soffio; pareva che camminasse con le zampe vellutate della tigre. Un momento dopo, quella schifosa provvidenza era rientrata nell'invisibile. Valjean si trovò fuori.




9. MARIO SEMBRA MORTO A QUALCUNO CHE SE NE INTENDE


Lasciò scivolare Mario sull'argine. Erano all'aria aperta! I miasmi, l'oscurità, l'orrore, erano dietro di lui. Si sentiva inondato dall'aria salubre, pura, vivificante, gioconda, liberamente respirabile. Dappertutto silenzio, ma il silenzio piacevole del tramonto nel limpido azzurro. Era già il crepuscolo, veniva la notte, la grande liberatrice, l'amica di tutti quelli che abbisognano di un mantello d'ombra per uscire da un'angoscia.

Da ogni parte il cielo si offriva come un'enorme calma. Il fiume gli lambiva i piedi col rumore di un bacio. Si udivano gli aerei colloqui dei nidi che si davano la buona sera negli olmi dei Campi Elisi. Alcune stelle, che punteggiavano leggermente il pallido azzurro, visibili solo agli occhi meditabondi, accendevano nella immensità piccoli impercettibili splendori. La sera spiegava sul capo di Valjean tutte le dolcezze dell'infinito.

Era l'ora indecisa e bella che non dice né sì, né no. Era già buio abbastanza per perdersi di vista a qualche distanza, e abbastanza giorno per poter essere riconosciuti da vicino.

Egli restò per qualche attimo irresistibilmente vinto da quell'augusta e carezzevole serenità. Ci sono momenti di oblìo nei quali la sofferenza rinuncia a far soffrire il miserabile; ogni cosa si eclissa nella mente; la pace avvolge il sognatore come una notte; e sotto i riverberi del crepuscolo, ad imitazione del cielo che s'illumina, l'anima pare una stella. Valjean non poté fare a meno di contemplare quella vasta ombra chiara sopra di sé; pensoso, prendeva nel maestoso silenzio del cielo eterno un bagno d'estasi e di preghiera. Poi, premurosamente, come se gli tornasse il senso del dovere, si chinò su Mario, e attingendo un po' d'acqua nel cavo della mano, gli spruzzò leggermente alcune gocce sul volto. Le palpebre del giovane non si sollevarono; tuttavia la sua bocca socchiusa respirava.

Valjean stava per immergere di nuovo la mano nel fiume, quando provò a un tratto un certo imbarazzo, come quando si ha dietro qualcuno che non si vede. Abbiamo già indicato altrove questa impressione, che tutti conoscono. Si volse.

Come poco prima, qualcuno infatti era dietro di lui.

Un uomo d'alta statura, avvolto in un ampio soprabito, con le braccia incrociate, con nella mano destra un randello di cui si scorgeva il pomo di piombo, se ne stava in piedi a qualche passo da Valjean chino su Mario.

Anche l'oscurità contribuiva a farlo sembrare un'apparizione. Un sempliciotto ne avrebbe avuto paura a causa del crepuscolo, un uomo riflessivo a causa del randello.

Valjean riconobbe Javert.

Il lettore ha senza dubbio indovinato che il pedinatore di Thénardier non era altri che Javert, il quale, dopo la sua insperata uscita dalla barricata, era andato alla prefettura di polizia, aveva fatto una relazione verbale al prefetto in persona, in una breve udienza, e aveva preso immediatamente il suo servizio, che abbracciava - come sappiamo dalla nota trovatagli addosso - un certa sorveglianza sull'argine della riva destra ai Campi Elisi, il quale da qualche tempo richiamava l'attenzione della polizia. Veduto Thénardier, l'aveva seguito. Il resto ci è noto.

Si comprende pure che quel cancello aperto con tanta compiacenza a Valjean, era un'astuzia di Thénardier. Col fiuto che non inganna mai l'uomo inseguito, Thénardier sentiva che Javert era sempre là:

bisognava dunque gettare un osso a quel segugio. Un assassino, che fortuna! Era la parte più prelibata, che non bisogna mai rifiutare. Thénardier, mandando Valjean in sua vece dava una preda alla polizia, l'allontanava dalla propria traccia, si faceva dimenticare per un'avventura maggiore, ricompensava Javert della sua attesa - cosa sempre lusinghiera per una spia - guadagnava trenta franchi, e contava di fuggire con l'aiuto di quel tranello.

Valjean era passato da uno scoglio all'altro.

Quei due incontri successivi, quel cadere da Thénardier in Javert, era un colpo rude.

Il poliziotto non riconobbe Valjean che, come abbiamo detto, non assomigliava più a se stesso. Egli non disciolse le braccia, ma assicurandosi il randello nel pugno con un moto impercettibile, disse con voce breve e calma:

- Chi siete?

- Io.

- Voi, chi?

- Giovanni Valjean.

Javert si mise il randello tra i denti, piegò i garretti, inclinò il busto, pose le sue mani potenti sulle spalle di Valjean che si trovarono serrate come tra due morse, l'esaminò e lo riconobbe. I loro volti quasi si toccavano; lo sguardo del poliziotto era terribile.

Valjean rimase inerte sotto la stretta di Javert, come un leone che consentisse all'artiglio di una lince.

- Ispettore Javert, - diss'egli, - mi avete preso. Del resto, da stamattina mi considero come vostro prigioniero; non vi ho dato il mio indirizzo per tentare poi di sfuggirvi. Prendetemi: però accordatemi una cosa.

Pareva che Javert non l'udisse. Teneva la pupilla fissa su Valjean, e il suo mento corrugato spingeva le labbra verso il naso, segno di una meditazione selvaggia. Finalmente lo lasciò, si raddrizzò di colpo, riprese nel pugno il randello e mormorò come in sogno, più che pronunciare, questa domanda:

- Cosa fate qui? e chi è quest'uomo?

Continuava a non dargli più del tu.

Valjean rispose, e il tono della sua voce pareva che svegliasse Javert.

- Appunto di lui volevo parlarvi. Disponete di me come vi piace, ma aiutatemi prima a riportarlo a casa sua; non vi chiedo altro.

Il volto di Javert si contrasse, come gli avveniva ogni qualvolta la gente mostrava di supporlo capace di una concessione: pure, non disse di no.

Si curvò di nuovo, trasse di tasca un fazzoletto che immerse nell'acqua, e lavò il volto insanguinato di Mario.

- Quest'uomo era nella barricata, - disse sotto voce e come parlando a se stesso. - E' quello che chiamavano Mario.

Spione di qualità, aveva tutto osservato, tutto ascoltato, inteso e raccolto, benché credesse di dover morire; aveva spiato anche nell'agonia, aveva preso delle note affacciato sul primo gradino della tomba.

Prese la mano di Mario, cercando il polso.

- E' un ferito, - disse Valjean.

- E' un morto, - disse Javert.

Valjean rispose:

- No, non ancora.

- L'avete dunque portato dalla barricata fin qui? - chiese il poliziotto.

La sua preoccupazione doveva essere profonda se non insistette su quell'inquietante salvataggio attraverso la cloaca, e non notò neppure il silenzio di Valjean dopo la sua domanda.

Questi che, dal canto suo, sembrava avere un solo pensiero, riprese:

- Abita al Marais, via Figlie del Calvario, presso suo nonno...

Non ricordo più il nome.

E rovistando nell'abito del ferito, ne trasse fuori il portafoglio, lo aprì alla pagina scritta da Mario e lo porse a Javert.

C'era ancora nell'aria abbastanza luce per leggere, e inoltre Javert aveva nell'occhio la fosforescenza felina degli uccelli notturni. Decifrò le poche linee scritte da Mario e borbottò:

- Gillenormand, via delle Figlie del Calvario, numero sei.

Quindi gridò: - Cocchiere!

Il lettore ricorderà che una vettura era sempre a disposizione, per ogni eventualità.

Il poliziotto si tenne il portafoglio di Mario.

Un momento dopo, la vettura, scesa dalla rampa dell'abbeveratoio, era sull'argine. Mario era collocato sul sedile in fondo, e Javert sedeva vicino a Valjean su quello opposto.

Chiusa la portiera, la vettura si allontanò rapidamente, risalendo la riva in direzione della Bastiglia.

Lasciarono la Senna e penetrarono nelle vie. Il cocchiere, sagoma oscura sulla sua cassetta, sferzava i magri ronzini. Silenzio glaciale nella vettura. Mario, immobile, col dorso appoggiato a un angolo del fondo, la testa cadente sul petto, le braccia penzoloni, le gambe irrigidite, pareva non attendere altro che una bara. Valjean sembrava fatto di ombra, Javert di pietra; e dentro quella tenebrosa vettura, il cui interno, ogni volta che passava presso un lampione appariva lividamente illuminato come da un lampo intermittente, il caso riuniva e pareva confrontasse lugubremente le tre immobilità tragiche, il cadavere, lo spettro, e la statua.




10. RITORNO DEL FIGLIOL PRODIGO DALLA SUA VITA.


A ogni trabalzo della vettura sul selciato, cadeva una goccia di sangue dai capelli di Mario.

Era già notte buia quando la vettura giunse al numero sei della via Figlie del Calvario.

Javert discese per primo, verificò con un'occhiata il numero scritto sul portone e, sollevando il pesante martello di ferro, istoriato, all'antica moda, d'un capro e d'un satiro che si affrontavano, picchiò un colpo forte. Il battente fu socchiuso ed egli lo spinse. Il portinaio, semiaddormentato, si mostrò a mezzo, sbadigliando, con una candela in mano.

Nella casa dormivano tutti. Al Marais si coricano per tempo, soprattutto nei giorni di sommossa. Quel buon vecchio quartiere, spaventato dalla rivoluzione, si rifugia nel sonno, come fanno i fanciulli, che quando sentono avvicinarsi la bufera, nascondono in fretta la testa sotto le coltri.

Frattanto Valjean e il cocchiere trassero fuori Mario dalla vettura, Valjean sostenendolo per le ascelle e il cocchiere per le gambe.

Pur reggendo Mario in quel modo, Valjean fece passare una mano sotto gli abiti, che erano largamente stracciati, tastò il petto e si assicurò che il cuore batteva ancora. Batteva anzi un po' meno debolmente, come se il movimento della carrozza avesse determinato una certa ripresa della vita.

Javert interrogò il portinaio col tono che si addice all'autorità di fronte al portinaio d'un fazioso.

- C'è qui uno che si chiama Gillenormand?

- Sì, signore. Che desiderate da lui?

- Gli si riporta suo figlio.

- Suo figlio? - disse il portinaio attonito.

- E' morto!

Valjean che, cencioso e sudicio, veniva dietro a Javert, e che il portinaio guardava con un certo orrore, gli fece cenno di no col capo.

- E' andato alla barricata, ed eccolo qua.

- Alla barricata! - esclamò il portinaio.

- S'è fatto ammazzare. Andate a svegliare il padre.

Il portinaio non si muoveva.

- Andate dunque! - riprese Javert.

E aggiunse:

- Domani qui avrete un funerale.

Per Javert, gli incidenti abituali della pubblica strada erano classificati categoricamente - il che costituisce già il principio della previdenza e della vigilanza - e ogni eventualità aveva il suo compartimento; i fatti possibili erano in certo qual modo in tanti cassetti, donde uscivano, secondo l'occasione, in quantità variabili. Nella via c'era il tumulto, la sommossa, il carnevale, il funerale.

Il portinaio si contentò di svegliare Basco, che svegliò Nicoletta, che svegliò la zia Gillenormand. Quanto al nonno lo lasciarono dormire, pensando che avrebbe saputo la cosa sempre troppo presto.

Trasportarono Mario al primo piano, senza che nessuno se ne accorgesse nelle altre parti della casa, e lo deposero sopra un vecchio canapé nell'anticamera del signor Gillenormand; e mentre Basco andava a cercare un medico e Nicoletta apriva gli armadi della biancheria, Valjean sentì Javert toccargli la spalla. Capì e ridiscese, sentendo dietro il passo di Javert che lo seguiva.

Il portinaio li guardò partire come li aveva visti arrivare, con una sonnolenza sbigottita.

Risalirono sulla vettura; anche il cocchiere risalì sul proprio sedile.

- Ispettore Javert, - disse Valjean, - concedetemi un'altra cosa.

- Quale? - chiese rudemente Javert.

- Lasciatemi ritornare a casa un momento. Dopo, farete di me quello che vorrete.

Javert rimase qualche minuto in silenzio, col mento rientrato nel bavero del soprabito, poi abbassò il vetro davanti.

Cocchiere. - disse. - via Homme-Armé, numero sette.




11. UNA SCOSSA NELL'ASSOLUTO


Non aprirono bocca per tutto il tragitto. Che voleva Valjean?

Compiere quello che aveva cominciato: avvertire Cosetta, dirle dov'era Mario, darle forse qualche altra indicazione utile, lasciarle, se poteva, alcune supreme disposizioni. Quanto a lui, quanto a quello che lo riguardava personalmente, era finita; era arrestato da Javert e non resisteva. Un altro, in quella situazione, avrebbe forse pensato alla corda datagli da Thénardier e alle sbarre della prima cella in cui sarebbe entrato; ma da quando aveva conosciuto il Vescovo, ripetiamolo, c'era in Valjean di fronte a qualsiasi attentato, anche contro se stesso, una profonda esitazione religiosa.

Il suicidio, questa misteriosa via di fatto contro l'ignoto, la quale può contenere in una certa misura la morte dell'anima, gli riusciva impossibile.

La vettura si fermò all'ingresso della via Homme-Armé, troppo stretta per dare accesso alle carrozze, e Valjean e Javert discesero.

Il cocchiere fece umilmente osservare al "signor ispettore" che il velluto di Utrecht della sua vettura era tutto insudiciato dal sangue dell'assassinato e dal fango dell'assassino. Così egli aveva capito la cosa. Aggiunse che gli era dovuta una indennità, e nello stesso tempo, traendo di tasca il suo libretto, pregò il signor ispettore di avere la bontà di scrivere sopra il suo libretto un attestato di reso servizio.

Javert respinse il libretto presentatogli dal cocchiere e disse:

- Quanto ti devo, comprese la tua attesa e la corsa?

- Sono sette ore e un quarto, - rispose l'altro, - e il velluto era nuovo. Ottanta franchi, signor ispettore.

Il poliziotto cacciò di tasca quattro napoleoni e congedò la vettura.

Valjean ritenne che fosse intenzione di Javert condurlo a piedi al posto dei Blancs-Manteaux o a quello degli Archivi, situati lì vicino.

Entrarono nella via, che era, come al solito, deserta. Javert seguiva Valjean. Arrivati al numero 7, questi bussò e la porta si aprì.

- Sta bene, - disse Javert. - Salite.

E aggiunse con un'espressione strana e come se facesse uno sforzo per parlare in quel modo:

- Vi aspetto qui.

Valjean lo guardò: quel modo di agire era poco conforme alle abitudini del poliziotto. Tuttavia, deciso com'era a lasciarsi arrestare e finirla, Valjean non poteva meravigliarsi troppo che Javert gli accordasse ora una specie di sdegnosa fiducia, la fiducia del gatto che concede al sorcio una libertà lunga quanto la sua zampa. Spinse la porta, entrò in casa, gridò: - Sono io - al portinaio, che stava a letto e aveva tirato le tendine, e salì la scala.

Giunto al primo piano, si fermò un momento. Tutte le vie dolorose hanno le loro stazioni. La finestra del pianerottolo, larga e bassa, era aperta. Come in molte case antiche, la scala s'affacciava sulla via e riceveva di là, un po' di luce. Il lampione di fuori collocato proprio di fronte, dava un po' di luce agli scalini, il che costituiva una economia di illuminazione.

Fosse per respirare, fosse macchinalmente, Valjean sporse il capo dalla finestra, chinandosi a guardare nella via, che era corta e quindi illuminata dal lampione da un estremo all'altro. Valjean restò enormemente stupito: non c'era più nessuno.

Javert se n'era andato.




12. IL NONNO


Basco e il portinaio avevano trasportato nel salotto Mario, disteso immobile sul canapé su cui era stato adagiato all'arrivo.

Il medico mandato a chiamare era accorso, e la zia Gillenormand s'era alzata.

Questa andava e veniva, spaventata, giungendo le mani, e capace di dire soltanto: - Possibile, mio Dio! - E talvolta aggiungeva:- Si macchierà tutto di sangue! - Passato il primo orrore, una certa filosofia della situazione si fece strada nella sua mente, e si tradusse in questa esclamazione: - Doveva finire così! Non si spinse fino al "l'avevo detto io!" che è d'uso in simili occasioni.

Per ordine del medico, una branda fu allestita vicino al canapé.

Il medico esaminò Mario, e dopo aver constatato che il polso persisteva, che il ferito non aveva al petto nessuna piaga profonda, che il sangue agli angoli della bocca proveniva dalle fosse nasali, lo fece mettere disteso sul letto, senza guanciale, con la testa al livello del corpo, anzi un po' più bassa, il torso nudo per agevolare la respirazione. La signorina Gillenormand, vedendo che spogliavano Mario, si ritirò nella propria camera per recitare il rosario.

Il torso non aveva nessuna lesione interna; una palla, ammortita dal portafoglio, aveva deviato e girato tutt'intorno alle costole con una lacerazione orribile, ma non profonda, e quindi senza pericolo; la lunga marcia sotterranea aveva finito di lussare la clavicola spezzata, e in quel punto c'era qualche disordine serio; le braccia erano tagliuzzate; nessuna ferita sfigurava il volto; ma la testa era quasi coperta di tagli. Che ne sarebbe stato di quelle ferite al capo? Si fermavano al cuoio capelluto, o intaccavano il cranio? Non si poteva dirlo ancora. Era un sintomo grave che avessero cagionato lo svenimento; e non sempre da tali svenimenti si rinviene. Inoltre, l'emorragia lo aveva sfinito.

Dalla cintola in giù, il corpo era stato coperto dalla barricata.

Basco e Nicoletta laceravano dei pannolini per formarne bende.

Nicoletta le cuciva. Basco le arrotolava. In mancanza di filacce, il medico aveva provvisoriamente arrestato il sangue delle ferite con batuffoli d'ovatta. Tre candele ardevano accanto al letto, su una tavola, dove era schierata la batteria dei ferri chirurgici.

Il medico lavò il volto e i capelli di Mario con acqua fredda. Un secchio pieno d'acqua in un momento divenne rosso. Il portinaio, con la candela in mano, faceva lume.

Il medico pareva tristemente pensoso. Ogni tanto faceva un cenno di testa negativo, come se rispondesse a qualche quesito propostosi mentalmente. Sono un cattivo segno per il malato questi misteriosi colloqui del medico con se stesso.

Mentre asciugava il volto del ferito e toccava leggermente col dito le palpebre sempre chiuse, una porta si aprì in fondo alla sala e apparve una lunga figura pallida.

Era il nonno.

Da due giorni, la sommossa aveva molto agitato, sdegnato e preoccupato il signor Gillenormand. Non aveva potuto dormire la notte precedente, e aveva avuto la febbre per tutta la giornata.

La sera, si era coricato molto presto, raccomandando di sprangare tutto nella casa, e per la stanchezza si era assopito.

Ma i vecchi hanno il sonno fragile; la sua camera era attigua alla sala, e malgrado tutte le precauzioni usate, il rumore l'aveva svegliato. Sorpreso dalla fessura luminosa che vedeva alla sua porta, era disceso dal letto ed era venuto a tentoni.

Stava là sulla soglia, stupito, con una mano sulla maniglia della porta socchiusa, con la testa un po' china innanzi e oscillante, col corpo avvolto in una veste da camera bianca diritta e senza pieghe come un sudario; pareva un fantasma che guarda in una tomba.

Vide il letto, e sul materasso quel giovane sanguinante, bianco d'un candore di cera, con gli occhi chiusi, la bocca aperta, le labbra livide, nudo sino alla cintura, coperto dappertutto di piaghe vermiglie, immobile, chiaramente illuminato.

Il nonno ebbe dalla testa ai piedi tutto il brivido che possono provare le membra ossificate; i suoi occhi, con la cornea ingiallita dalla tarda età, si velarono di una specie di riflesso vitreo; tutta la faccia assunse in un momento tutte le terree angolosità di un teschio; le braccia caddero penzoloni come se si fosse spezzata una molla; lo stupore si manifestò col disgiungersi delle dita delle sue vecchie mani tutte tremanti, i ginocchi gli si piegarono innanzi, lasciando vedere dall'apertura della veste da camera le povere gambe nude irte di peli bianchi; mormorò:

- Mario!

- Signore, - disse Basco, - hanno portato poco fa il signore. E' andato alla barricata e...

- E' morto! - esclamò il vecchio con voce terribile. - Ah, brigante!

Allora una specie di trasfigurazione sepolcrale raddrizzò quel centenario, diritto come un giovanotto.

- Signore, - disse, - voi siete il medico. Cominciate col dirmi una cosa. E' morto, non è vero?

Il medico, al colmo dell'ansietà, non rispose.

Il signor Gillenormand si torse le mani con uno scoppio di risa spaventevole.

- E' morto! è morto! s'è fatto ammazzare sulla barricata! per odio verso di me! Ah! bevitore di sangue! E in questo modo ritorna!

Miseria della mia vita, è morto!

Andò a una finestra, la spalancò, quasi si sentisse soffocare, e ritto di fronte all'oscurità, si mise a parlare con le tenebre della via:

- Ferito, sciabolato, sgozzato, sterminato, tagliuzzato, fatto a brani! Capite, il briccone! Lo sapeva bene che l'aspettavo, che gli avevo fatto preparare la camera, che avevo messo al capezzale del mio letto il suo ritratto di quand'era piccino! Lo sapeva bene che gli bastava ritornare, che da anni lo invocavo, che me ne stavo la sera in un angolo del focolare con le mani sulle ginocchia, senza sapere che fare, e che mi ero rimbecillito!

Questo lo sapevi bene, che ti bastava tornare e dire: - Sono io, - e che saresti stato il padrone della casa, e io t'avrei obbedito; che avresti fatto quello che volevi del tuo vecchio imbecille di nonno! Lo sapevi, e hai detto: - No, è un legittimista, non andrò!

- E sei andato alla barricata e ti sei fatto uccidere per cattiveria! per vendicarti di quello che ti avevo detto a riguardo del signor duca di Berry! Ecco dov'è l'infamia! Coricatevi dunque e dormite tranquillamente! E' morto! Ecco il mio risveglio.

Il medico, che cominciava a essere inquieto, si staccò un momento da Mario e accostatosi al signor Gillenormand lo prese per il braccio. Il nonno si volse, lo guardò con occhi che parevano ingranditi e sanguinosi, e gli disse con calma:

- Signore, vi ringrazio. Sono tranquillo, sono un uomo, ho visto la morte di Luigi Sedicesimo, so sopportare gli avvenimenti.

Quello che è terribile, è pensare che sono i vostri giornali la causa di tutto il male. Voi avrete gli scribacchini, i parolai, gli avvocati, gli oratori, le tribune, le discussioni, il progresso, i lumi, i diritti sull'uomo, la libertà di stampa, ed ecco come vi riporteranno a casa i figlioli! Ah, Mario, è una cosa abominevole! Ucciso! Morto prima di me! In una barricata! Ah, bandito! Dottore, voi abitate nel quartiere, credo. Oh! vi conosco bene, vedo dalla finestra passare il vostro calessino. Vi dirò:

avreste torto di credere che io sia in collera; non si va in collera contro un morto; sarebbe stupido. E' un ragazzo che ho allevato; ero già vecchio, quand'egli era ancora piccino così.

Giocava alle Tuileries con la sua piccola pala e la sua seggiolina, e perché gli ispettori del giardino non lo sgridassero, io chiudevo man mano col bastone i buchi che egli faceva in terra con la pala. Un giorno ha gridato: - Abbasso Luigi Diciottesimo! - ed è andato via. Non è stata colpa mia. Era tutto roseo e biondo. Sua madre è morta. Avete notato che tutti i bambini sono biondi? Da che deriva? E' figlio d'un brigante della Loira, ma i figli sono innocenti dei delitti dei loro genitori. Me lo ricordo quando era alto così; non riusciva a pronunciare la d.

Parlava in un modo così dolce e confuso che pareva un uccello. Mi ricordo che una volta, davanti all'Ercole Farnese, si formò un capannello per ammirare, tanto era bello, il ragazzino! Aveva una testolina come se ne vedono nelle pitture. Gli facevo la voce grossa, gli mettevo paura col bastone, ma egli sapeva bene che lo facevo per ridere. Quando alla mattina entrava nella mia camera, io brontolavo, ma mi faceva l'effetto del sole. Non ci si può difendere da questi mocciosi; vi pigliano, vi tengono, non vi lasciano più. La verità è che era un amore di bambino come non ce n'è più. E ora, cosa ne pensate dei vostri Lafayette, dei vostri Beniamino Constant, dei vostri Tirecuir de Corcelles, che me lo ammazzano? La cosa non può finire così.

Si accostò a Mario sempre livido e immobile, presso cui il medico era tornato, e ricominciò a torcersi le braccia. Le labbra bianche del vecchio si agitavano quasi macchinalmente, e lasciavano passare, come soffi in un rantolo, delle parole quasi indistinte che si udivano appena: - Ah! senza cuore! Ah! clubista! Ah!

scellerato! Ah! settembrista! - Rimproveri a voce sommessa di un agonizzante a un cadavere.

A poco a poco, siccome è pur sempre necessario che le eruzioni interne si facciano strada, la concatenazione delle parole tornò, ma il vecchio pareva che non avesse più la forza di pronunciarle; la sua voce era così sorda e spenta che sembrava venisse dal fondo di un abisso.

- Per me è lo stesso, sto per morire anch'io. E dire che non c'è in tutta Parigi una briccona che non sarebbe stata fortunata di formare la felicità di questo miserabile! Un furfante che invece di divertirsi e di godersi la vita, è andato a battersi e a farsi mitragliare come un bruto! E per chi poi? Per la repubblica!

Invece di andare a ballare alla Chaumière, com'è dovere dei giovani. Vale proprio la pena di avere vent'anni. La repubblica, bella balorda minchioneria! Povere madri, mettete dunque al mondo dei bei giovanotti! Suvvia, è morto; ci saranno due funerali nella casa. Dunque ti sei fatto conciare in questo modo per i begli occhi del generale Lamarque! Che ti aveva fatto di bello, quel generale Lamarque? Uno sciabolatore! Un cialtrone! Farsi ammazzare per un morto! Ma non è una cosa da diventar pazzi? Capite! A vent'anni! E senza volgere la testa per guardare se lasciava nulla dietro di sé! Ed ecco ora i poveri vecchi condannati a morire soli. Crepa dunque nel tuo cantuccio, gufo! Ebbene, tutto sommato, tanto meglio, è quello che speravo, questo mi ucciderà senz'altro.

Sono troppo vecchio, ho cento anni, ho centomila anni, e da molto tempo ho il diritto di essere morto. Con un colpo simile, è fatta.

E' dunque finita, che fortuna! Perché gli fate fiutare l'ammoniaca e tutto quel mucchio di droghe? Voi ci rimettete la fatica, imbecille di un medico! Andate là, è morto, proprio morto. Io me ne intendo, io, che sono un morto. Non ha fatto la cosa a metà.

Sì, quest'epoca è infame, infame, infame; ecco cosa penso di voi, delle vostre idee, dei vostri sistemi, dei vostri padroni, dei vostri oracoli, dei vostri dottori, dei vostri cattivi arnesi di scrittori, dei vostri bricconi di filosofi e di tutte le rivoluzioni che da sessant'anni in qua spaventano gli stormi di corvi delle Tuileries! E giacché tu sei stato senza pietà facendoti uccidere così, neppure io mi affliggerò per la tua morte, capisci, assassino!

In quel momento Mario aprì lentamente le palpebre, e il suo sguardo, ancora velato dallo stupore letargico, si fermò sul signor Gillenormand.

- Mario! - gridò il vecchio. - Mario, mio piccolo Mario! Figlio mio! figlio mio diletto! Tu apri gli occhi, mi guardi, sei vivo, grazie!

E cadde svenuto.




Libro 4


JAVERT SVIATO


Javert si era allontanato a passi lenti da via Homme-Armé.

Per la prima volta in vita sua, camminava a capo chino, e anche per la prima volta teneva le mani dietro il dorso.

Dei due atteggiamenti di Napoleone, Javert fino a quel giorno aveva adottato soltanto quello che esprime la risolutezza, cioè le braccia conserte sul petto; ma quello che esprime l'incertezza, cioè le mani dietro il dorso, gli era ignoto. Ora, un cambiamento era avvenuto; tutta la sua persona, lenta e cupa, era piena di ansietà.

S'incamminò per le vie silenziose. Nondimeno seguiva una direzione. Si avviò per la strada più breve verso la Senna, raggiunse la riva degli Olmi, la percorse, oltrepassò la Grève e si fermò all'angolo del ponte Notre-Dame, a qualche distanza dal corpo di guardia della piazza Chatelet. Tra il ponte Notre-Dame e il Pont-au-Change da una parte, e tra la riva della Mégisserie e quella dei Fiori dall'altra, la Senna forma una specie di lago quadrato attraversato da una corrente.

Questo tratto di fiume è molto temuto dai barcaioli a causa della corrente pericolosissima, in quell'epoca rinserrata e irritata dalle palafitte del mulino del ponte, oggi demolito. I due ponti, così vicino l'uno all'altro, aumentano il pericolo, perché l'acqua si precipita sotto gli archi, vi forma dei larghi e terribili gorghi, vi si accumula e accavalla, e il flutto forza i pilastri, come se volesse strapparli con grosse corde liquide. Gli uomini che cadono là dentro non ricompaiono più; i migliori nuotatori vi rimangono annegati.

Javert appoggiò i gomiti al parapetto e il mento alle mani, e stette a riflettere, mentre le dita s'increspavano macchinalmente tra i suoi baffi ritti.

Era avvenuta nel fondo della sua anima una novità, una rivoluzione, una catastrofe. Aveva materia per un esame di coscienza.

Soffriva orribilmente. Da alcune ore aveva cessato di essere semplice; era diventato torbido; il suo cervello, così limpido nella sua cecità, aveva perduto la sua trasparenza, il cristallo si era appannato. Sentiva nella coscienza un dovere di sdoppiarsi, e non poteva nasconderlo a se stesso. Quando aveva incontrato così inaspettatamente Valjean sull'argine del fiume, c'era stato in lui qualcosa del lupo che riafferra la preda e del cane che ritrova il padrone.

Vedeva davanti a sé due strade ugualmente diritte; ma ne vedeva due, e questo lo atterriva perché in vita sua aveva sempre conosciuto una sola linea retta. E quelle due vie, straziante angoscia, erano contrarie: una di quelle due linee rette escludeva l'altra. Quale delle due era la vera?

La sua situazione era inesprimibile.

Essere debitore della vita a un malfattore, accettare un tal debito e rimborsarlo; trovarsi, a proprio dispetto, sul piede dell'uguaglianza con un criminale e pagargli un servigio con un altro servigio; lasciarsi dire "vattene", e dirgli a sua volta "sei libero"; sacrificare per motivi personali il dovere, che è un obbligo generale, e sentire anche in quei motivi personali qualche cosa di generale e forse di superiore; tradire la società per restare fedele alla propria coscienza. Era atterrito dal fatto che tutte queste assurdità si realizzavano e andavano ad accumularsi sul suo capo.

Una cosa lo aveva stupito: Valjean gli aveva salvato la vita; e una cosa lo aveva pietrificato: lui, Javert, aveva salvato la vita a Valjean.

A che punto era? Si cercava, e non si ritrovava più.

Che fare adesso? Consegnare Valjean era un male, lasciarlo libero era un male: nel primo caso, l'uomo dell'autorità cadeva più giù dell'uomo del penitenziario; nel secondo caso, un galeotto montava più su della legge e vi poneva sopra il piede; nei due casi, disonore per lui, Javert. Qualunque partito a cui si appigliasse, conteneva una caduta. Il destino ha certe estremità a picco sull'impossibile, al di là delle quali la vita diventa un precipizio. Javert si trovava a una di quelle estremità.

Una delle sue angosce era costituita dal fatto che era costretto a pensare; c'era obbligato dalla violenza stessa di tutte quelle emozioni contraddittorie. Pensare: cosa inusitata per lui e stranamente dolorosa.

Nel pensiero c'è sempre una certa quantità di ribellione interiore, che egli si irritava di constatare in sé.

Pensare su un qualunque argomento estraneo alla stretta cerchia delle sue funzioni, sarebbe stato in ogni caso per lui una cosa inutile e una fatica; ma pensare sulla giornata trascorsa era una tortura.

Nondimeno, dopo simili emozioni, era pur necessario guardare nella propria coscienza e render conto di sé a se stesso.

Quello che aveva fatto lo faceva rabbrividire. Aveva trovato opportuno decidere la liberazione di un uomo, contro tutti i regolamenti di polizia, contro tutta l'organizzazione sociale e giudiziaria, contro l'intero codice; la cosa gli era convenuta; aveva sostituito le sue parcelle agli affari pubblici: non era una cosa inqualificabile? Ogni volta che si metteva di fronte all'azione senza nome da lui commessa, tremava da capo a piedi. E che doveva risolvere? Gli rimaneva una sola risorsa: ritornare in fretta in via Homme-Armé, e far tradurre in prigione Valjean. Era chiaro che proprio questo bisognava fare. E non poteva.

Da questo lato, qualche cosa gli sbarrava la strada.

Qualche cosa. Quale? C'è forse al mondo qualche altra cosa oltre i tribunali, le sentenze esecutive, la polizia e la autorità? Javert era sconvolto.

Un galeotto sacro! Un forzato su cui la giustizia non deve mettere la mano! E questo a causa di Javert!

Non era orribile che Javert e Valjean, l'uomo fatto per incrudelire e l'uomo fatto per subire, che questi due uomini, i quali erano, l'uno e l'altro, cosa della legge, fossero arrivati al punto da mettersi tutti e due al di sopra della legge?

Come! Accadrebbero enormità simili e nessuno ne sarebbe punito!

Valjean, più forte dell'intero ordine sociale, rimarrebbe libero, ed egli, Javert, continuerebbe a mangiare il pane del governo!

La sua meditazione a poco a poco diventava terribile.

Avrebbe potuto muoversi anche qualche rimprovero a proposito dell'insorto riportato in via Figlie del Calvario; ma non ci pensava; la colpa minore si smarriva in quella più grande. Del resto quel giovane era evidentemente un uomo morto, e, legalmente, la morte estingue il provvedimento penale.

Il peso che aveva sull'anima era Valjean.

Valjean lo sconcertava. Tutti gli assiomi che erano stati i punti d'appoggio della sua vita intera crollavano dinanzi a quell'uomo.

La generosità di Valjean verso di lui, Javert, lo opprimeva. Altri infatti, che egli ricordava e che aveva una volta considerati menzogne o pazzie, ora gli tornavano alla memoria come realtà:

dietro Valjean riappariva il signor Madeleine; e le due immagini si sovrapponevano in modo da formarne una sola, che era venerabile. Sentiva che qualcosa di orribile gli penetrava nell'anima: l'ammirazione per un forzato. E' possibile mai il rispetto per un galeotto? Ne fremeva, ma non poteva sottrarvisi.

Per quanto si dibattesse, era ridotto a confessare davanti alla sua coscienza la sublimità di quel miserabile. E questo era odioso.

Un malfattore benefico, un forzato compassionevole, affabile, caritatevole, clemente, che ricambia il male col bene, l'odio col perdono, che preferisce la pietà alla vendetta e perde se stesso anziché il nemico, che salva chi l'ha rovinato, che sta inginocchiato sul culmine della virtù, più vicino all'angelo che all'uomo: Javert era costretto a confessare a se stesso che un tal mostro esisteva.

La cosa non poteva durare così.

Certo - e dobbiamo insistere su questo punto - egli non si era arreso senza resistenza a quel mostro, a quell'angelo infame, a quell'eroe schifoso, di cui era quasi altrettanto indignato che stupefatto. Venti volte, mentre era da solo a solo con Valjean in quella vettura, la tigre legale aveva ruggito in lui; venti volte era stato tentato di scagliarsi su Valjean, di afferrarlo, di divorarlo, vale a dire di arrestarlo. Che c'era infatti di più naturale del gridare al primo corpo di guardia dinanzi al quale si passava: - Ecco un galeotto in rottura di bando! - del chiamare i gendarmi e dir loro: - Quest'uomo è per voi! - e poi allontanarsi, lasciar là quel dannato, ignorare il resto e non immischiarsi più di nulla? Quell'individuo è per sempre prigioniero della legge che ne farà quello che vorrà. Cosa c'era di più giusto? Javert aveva pensato a tutto questo; aveva voluto passar oltre, agire, arrestare l'uomo, e allora, come ora, non aveva potuto; e ogni qualvolta aveva alzato convulsamente la mano verso il bavero di Valjean, gli era ricaduta come sotto un peso enorme, e aveva udito in fondo alla coscienza una voce, una voce strana che gli gridava:

- Sta bene: caccia in prigione il tuo salvatore, e poi fatti portare la catinella di Ponzio Pilato e lavati le mani.

Poi la sua riflessione ricadeva su lui stesso, e accanto a Valjean ingrandito vedeva se stesso degradato.

Un forzato era il suo benefattore!

Ma perché aveva permesso a quell'uomo di salvargli la vita? In quella barricata aveva il diritto d'essere ucciso. Avrebbe dovuto usare di quel diritto, chiamare gli insorti in suo soccorso contro Valjean e farsi fucilare per forza; sarebbe stato meglio.

La sua suprema angoscia era la scomparsa della certezza. Si sentiva sradicato; il codice non era più che un mozzicone; si trovava davanti a scrupoli di una specie ignota; avveniva in lui una rivelazione sentimentale del tutto distinta dall'affermazione legale, sino allora sua unica misura. Non gli bastava più rimanere nell'antica onestà; un intero ordine di fatti inattesi sorgeva e lo soggiogava; tutto un mondo nuovo appariva alla sua anima: il beneficio accettato e restituito, l'abnegazione, la misericordia, l'indulgenza, le violenze usate dalla pietà all'austerità, i riguardi personali, non più condanne definitive, non più dannazione, la possibilità di una lacrima nell'occhio della legge, una certa giustizia secondo Dio che va in senso inverso della giustizia secondo gli uomini. Scorgeva nelle tenebre la terribile aurora di un sole morale ignoto, e ne era atterrito e abbagliato.

Era un gufo costretto ad avere gli sguardi dell'aquila.

Pensava che era dunque vero, che c'erano delle eccezioni, che l'autorità poteva essere sconcertata, che la regola poteva non valere davanti a un fatto, che non tutto andava inquadrato nel testo del codice, che l'imprevisto si faceva obbedire, che la virtù di un galeotto poteva tendere un'insidia a quella di un funzionario, che il mostruoso poteva essere divino, che il destino aveva di tali imboscate, e pensava con disperazione che egli stesso non era rimasto immune da una sorpresa.

Era costretto ad ammettere che la bontà esiste, che quel galeotto era stato buono; che lui stesso, cosa incredibile, si era mostrato buono. Dunque si depravava.

Si riconosceva vile, e faceva orrore a se stesso.

L'ideale, per Javert, non era di essere umano, grande, sublime, ma di genere irreprensibile.

Ora egli aveva commesso una mancanza.

Come era arrivato a quel punto? Come era avvenuto? Non avrebbe saputo dirlo a se stesso. Si pigliava la testa nelle mani, e, checché facesse, non giungeva a spiegarselo.

Senza dubbio, aveva sempre avuto l'intenzione di rimettere Valjean alla legge, della quale Valjean era il prigioniero, e lui, Javert, lo schiavo. Mentre lo teneva, non aveva neppure per un momento confessato a se stesso di avere l'idea di lasciarlo andare; a sua insaputa, la mano gli si era aperta e lo aveva lasciato sfuggire.

Novità enigmatiche di ogni specie si aprivano davanti ai suoi occhi. Si formulava delle domande e si dava delle risposte; e queste risposte lo spaventavano. Chiedeva a se stesso: - Quel galeotto, quel disperato, contro il quale ho proceduto fino a perseguitarlo, e che mi ha tenuto sotto il suo piede, e che poteva vendicarsi - e doveva farlo per il suo rancore e per la sua sicurezza a un tempo - salvandomi la vita che cosa ha fatto? Il suo dovere? No, qualcosa di più. E io, facendogli grazia a mia volta, che ho fatto? il mio dovere? No; qualcosa di più. C'è dunque qualche cosa più del dovere? E qui egli sbigottiva. La sua bilancia si spostava; uno dei piatti cadeva nell'abisso, l'altro se ne andava nel cielo; ed egli si sentiva atterrito non meno da quello balzato in alto che da quello disceso in basso. Benché non fosse in nessun modo quello che si dice un volterriano o un filosofo o un incredulo, e fosse anzi istintivamente rispettoso verso la Chiesa, tuttavia la considerava soltanto come una parte augusta dell'insieme sociale; l'ordine era il suo dogma e gli bastava. Da che era diventato uomo e funzionario, riponeva quasi tutta la sua religione nella polizia, giacché era, e adoperiamo qui le parole senza la minima ironia e nel loro significato più serio, era, l'abbiamo già detto, una spia come si può essere prete. Egli aveva un superiore, Gisquet, e fino a quel giorno non aveva mai pensato a quell'altro superiore, Dio.

Questo nuovo capo, Dio, egli lo sentiva inaspettatamente, e ne era turbato.

Era disorientato da questa presenza inattesa. Non sapeva che farne di quell'altro superiore, egli che non ignorava che il dipendente è obbligato a piegarsi sempre, e non deve né disobbedire né biasimare né discutere, e sapeva che, di fronte a un superiore che lo stupisce troppo, l'inferiore non ha altra risorsa che le dimissioni.

Ma come si fa a presentare le proprie dimissioni a Dio?

Comunque fosse, ritornava sempre allo stesso punto, al fatto per lui dominante: aveva commesso una terribile infrazione. Aveva chiuso gli occhi sopra un condannato recidivo in rottura di bando; aveva lasciato libero un galeotto; aveva rubato alla legge un uomo che le apparteneva. Aveva fatto questo, lui? Non capiva più se stesso, non era più sicuro della propria identità. Gli sfuggivano anche i motivi della sua azione, e gliene restava soltanto l'angoscia. Fino a quel momento aveva vissuto di quella fede cieca che genera la probità tenebrosa, ora questa fede lo abbandonava, questa probità gli veniva a mancare. Tutto quello a cui aveva creduto svaniva, e altre verità che egli non voleva riconoscere l'ossessionavano. Da quel momento bisognava essere un altro uomo.

Provava gli strani dolori di una coscienza a un tratto operata di cataratta. Vedeva quello che gli ripugnava vedere. Si sentiva svuotato, inutile, scardinato dalla vita anteriore, destituito, disciolto. L'autorità in lui era morta; ed egli non aveva più ragione d'esistere.

Sentirsi commosso: terribile situazione!

Essere di granito e dubitare! Essere la statua del castigo fusa di un sol pezzo nello stampo della legge, e accorgersi all'improvviso di avere sotto la mammella di bronzo qualche cosa di assurdo e di disobbediente che somiglia quasi a un cuore! Arrivare al punto di rendere bene per bene, dopo essersi ripetuto fino a quel giorno che quel bene era il male! Essere il cane da guardia e lambire, essere il ghiaccio e sciogliersi, essere la tenaglia e diventare una mano! Sentire a un tratto di avere delle dita che si aprono e, cosa spaventosa! rilasciare la preda! L'uomo-proiettile che non sa più la strada, e indietreggia!

Essere obbligato a confessare che l'infallibile non è infallibile, che ci può essere errore nella legge, che quando il codice ha parlato non è detto tutto, che la società non è perfetta, che l'autorità può vacillare,che è possibile una crepa nell'immutabile, che i giudici sono uomini, che la legge può ingannarsi e i tribunali possono sbagliare! vedere una incrinatura nell'immenso cristallo azzurro del cielo!

Quello che accadeva in Javert era il Fampoux di una coscienza rettilinea, la deviazione di un'anima, il crollo di una probità lanciata irresistibilmente in linea retta e che va a cozzare in Dio. Certo, era una cosa strana che il fuochista dell'ordine, il macchinista dell'autorità montato sul cieco cavallo di ferro della via rigida potesse essere disarcionato da una folgorazione! che tutto quello che è incommutabile, preciso, geometrico, passivo, perfetto potesse cedere! che ci fosse una strada di Damasco per la locomotiva.

Dio che grida nell'intimo dell'uomo e ne dilania la coscienza; divieto alla scintilla di spegnersi; ordine al raggio di ricordarsi del Sole; ingiunzione all'anima di riconoscere il vero assoluto posto a confronto con l'assoluto fittizio; l'umanità imperdibile; il cuore umano inammissibile, il cuore, questo splendido fenomeno, il più bello forse dei prodigi interiori, Javert lo capiva? lo penetrava? se ne rendeva conto? Evidentemente no. Ma sotto la pressione di quell'incomprensibile che non poteva contestare, sentiva spaccarglisi il cranio.

Egli era più la vittima di quel prodigio che il beneficiario. Lo subiva, esasperato, e in tutto questo non vedeva che un'immensa difficoltà di vivere: gli sembrava che da quel momento in poi la sua respirazione sarebbe stata imbarazzata per sempre. Avere sul capo l'ignoto: a questo no, non era abituato.

Fino allora tutto quello che stava sopra di lui era al suo sguardo una superficie netta, semplice, limpida; nulla di ignoto in essa, nulla di oscuro; nulla che non fosse definito, coordinato, concatenato, preciso, esatto, circoscritto, limitato, chiuso; tutto era previsto; l'autorità era una cosa piana; nessuno scoscendimento in essa, nessun capogiro davanti a lei. Javert non aveva visto l'ignoto se non in basso. L'irregolare, l'inaspettato, il disordinato aprirsi del caos, la possibilità di sdrucciolare in un abisso, tutto questo era proprio delle regioni inferiori, dei ribelli, dei malvagi, dei miserabili. Ora si rovesciava tutto, ed era repentinamente atterrito dalla incredibile apparizione di una voragine in alto. Come! era smantellato da cima a fondo! era sconcertato, assolutamente! Di che fidarsi? Quello di cui era convinto, sprofondava!

Ecco! Un miserabile magnanimo poteva trovare il difetto nella corazza della società! Un onesto servitore della legge poteva di colpo vedersi preso tra due delitti, quello di lasciar sfuggire un uomo e quello d'arrestarlo! Non tutto era certo nella consegna data dallo Stato al funzionario! Potevano esserci dei vicoli ciechi nel dovere! E tutto questo era una realtà! era vero che un vecchio galeotto, curvo sotto la condanna, poteva raddrizzarsi e finire con l'aver ragione? Era credibile? C'erano dunque dei casi in cui la legge doveva ritirarsi dinanzi al delitto trasfigurato, balbettando delle scuse!

Sì, era così! e Javert lo vedeva! e Javert lo toccava con mano! e non solo non poteva negarlo, ma ne conveniva. Erano realtà. Era un abominio che i fatti reali potessero giungere a tanta deformità.

Se i fatti facessero il loro dovere, si limiterebbero a essere testimonianze della legge: i fatti, è Dio che li manda. L'anarchia dunque stava ora per scendere di lassù?

Dunque - e nell'angoscia crescente, nell'illusione ottica della costernazione, quella che avrebbe potuto restringere o correggere la sua impressione svaniva, e la società, l'umanità, l'universo si riassumevano ormai agli occhi suoi in un profilo semplice e ributtante - dunque, la penalità, la cosa giudicata, la forza dovuta alla legislazione, le sentenze delle corti sovrane, la magistratura, il governo, la prevenzione e la repressione, la saggezza ufficiale, la infallibilità legale, il principio d'autorità, tutti i dogmi sui quali è basata la sicurezza politica e civile, la sovranità, la giustizia, la logica che emana dal codice, l'assoluto sociale, la verità pubblica, tutto ciò diventava macerie, ammasso, caos; lui stesso, Javert, la vedetta dell'ordine, l'incorruttibilità al servizio della polizia, il mastino provvidenziale della società, era vinto e abbattuto; e su tutta questa rovina un uomo ritto col berretto verde sul capo e l'aureola intorno alla fronte; ecco a quale sconvolgimento era giunto, ecco la spaventosa visione che aveva nell'anima.

Che fosse almeno sopportabile. No!

Stato violento quant'altro mai. Non c'erano che due modi di uscirne: l'uno, di recarsi risolutamente da Valjean e restituire alla cella l'uomo del penitenziario; l'altro...

Javert lasciò il parapetto, a a testa alta e con passo fermo si diresse verso il corpo di guardia indicato da una lanterna, in un angolo della piazza Chatelet.

Arrivato là, vide attraverso i vetri una guardia di polizia ed entrò. I poliziotti si riconoscono fra loro, già solo dal modo con cui spingono l'uscio di un corpo di guardia. Javert disse il suo nome all'agente, gli mostrò la sua tessera e sedette davanti al tavolo su cui bruciava una candela. Sulla tavola c'era una penna, un calamaio di piombo, della carta per gli eventuali processi verbali e per le relazioni delle ronde notturne.

Quel tavolo, sempre completato dalla sua sedia impagliata, è un'istituzione; si trova in tutti i posti di polizia, ornato invariabilmente d'un piattello di bosso pieno di segatura e d'una scatoletta d'ostie; esso forma il piano inferiore dello stile ufficiale. Di là comincia la letteratura dello Stato.

Javert prese la penna e un foglio e si mise a scrivere. Ecco che cosa scrisse:


"ALCUNE OSSERVAZIONI PER UN BUON SERVIZIO.


Primo: prego il signor prefetto di dare un'occhiata.

Secondo: i detenuti che tornano dall'interrogatorio si tolgono le scarpe e rimangono a piedi nudi sul pavimento mentre li frugano.

Parecchi, quando rientrano in prigione, tossiscono; questo comporta delle spese d'infermeria.

Terzo: il pedinamento è buono, col cambio degli agenti di tratto in tratto; ma nelle occasioni importanti è conveniente che due agenti almeno non si perdano mai di vista, perché se per una causa qualsiasi uno dei due viene meno al suo servizio, l'altro lo sorveglia e lo supplisce.

Quarto: non si comprende perché il regolamento speciale della prigione delle Madelonnettes proibisca al prigioniero di avere una sedia, anche pagandola.

Quinto: alle Madelonnettes ci sono due sole sbarre al finestrino della cantina; questo permette alla vivandiera di lasciarsi toccare la mano dai detenuti.

Sesto: i detenuti chiamati abbaiatori, perché chiamano gli altri prigionieri al parlatorio, si fanno pagare due soldi dal chiamato per pronunciarne chiaramente il nome. E' un furto.

Settimo: nel laboratorio dei tessitori, si trattengono dieci soldi al detenuto per ogni filo spezzato; è un abuso dell'imprenditore perché la tela non è perciò meno buona.

Ottavo: è un inconveniente che chi va a visitare i prigionieri alla Force, debba attraversare il cortile dei ragazzi per recarsi al parlatorio di Santa Maria Egiziaca.

Nono: è indubitabile che tutti i giorni si sentono nel cortile della prefettura dei gendarmi raccontare gli interrogatori fatti dai magistrati agli indiziati. Un gendarme, che dovrebbe essere una persona sacra, e che ripete quello che ha sentito nel gabinetto del giudice istruttore, è un disordine grave.

Decimo: la signora Henry è una donna onesta e la sua cantina è decentissima; ma sta male che una donna tenga la chiave dello sportello della camera di deposito. Non è cosa degna della "Conciergerie" d'una grande città".

Javert scrisse queste righe con la sua calligrafia più calma e più corretta, senza omettere una virgola, e facendo scricchiolare fortemente la penna sulla carta. Sotto l'ultima riga firmò:

"Javert - Ispettore di prima classe".

"Dal posto in piazza Chatelet, 7 giugno 1832, l'una del mattino circa".


Asciugò l'inchiostro fresco sulla carta, la piegò come una lettera, la suggellò,scrisse di fuori: "Nota per l'amministrazione", e lasciandola sul tavolo uscì dal corpo di guardia. La porta a vetri e grata si chiuse dietro di lui.

Riattraversò diagonalmente la piazza Chatelet, raggiunse di nuovo la riva e ritornò con una precisione meccanica allo stesso posto lasciato un quarto d'ora prima; appoggiò i gomiti e riprese il medesimo atteggiamento, sulla stessa pietra del parapetto: pareva che non si fosse mosso.

L'oscurità era completa. Era l'ora sepolcrale che segna la mezzanotte. Uno strato di nubi celava le stelle. Il cielo era un blocco nero e sinistro. Le case non avevano un solo lume; nessuno passava; quanto si scorgeva delle vie e delle rive era deserto; Notre-Dame e le torri del Palazzo di Giustizia sembravano lineamenti della notte. Un lampione gettava la sua luce rossastra sulla spalletta della riva, e le sagome dei ponti si deformavano l'una dietro l'altra nella bruma. La pioggia aveva ingrossato il fiume.

Si ricorderà che il luogo dov'era appoggiato Javert era situato precisamente al di sopra della rapida della Senna, a picco su quella terribile spirale di vortici che si annodano e si snodano di continuo come una vite senza fine.

Egli chinò la testa e guardò. Tutto era nero; non si distingueva nulla; si udiva un rumore di schiuma, ma non si vedeva il fiume.

Ogni tanto, in quella profondità vertiginosa, appariva e serpeggiava confusamente un barlume, poiché l'acqua ha la facoltà, nella notte più buia, di prendere la luce non si sa da dove e di mutarla in serpente. Poi il barlume spariva e tutto ritornava indistinto. Pareva che là si spalancasse l'immensità, e che al di sotto ci fosse non l'acqua ma una voragine. Il muro a picco della riva, confuso, avvolto nella nebbia, sfuggente all'occhio, pareva uno scoscendimento dell'infinito.

Non si vedeva nulla, ma si sentiva la freddezza ostile dell'acqua e l'odore scipito delle pietre bagnate. Un soffio selvaggio saliva da quell'abisso. La piena del fiume, intravista più che vista, il tragico mormorìo delle onde, la lugubre vastità degli archi del ponte, l'immagine di una caduta in quel cupo vuoto, tutta quell'ombra era piena di orrore.

Javert restò immobile alcuni minuti, guardando quell'apertura di tenebre, considerando l'invisibile con una fissità che somigliava all'attenzione. L'acqua rumoreggiava. D'un tratto, si tolse di testa il cappello e lo posò sul parapetto della riva; e un momento dopo, una figura alta e nera, che da lontano qualche passante in ritardo avrebbe potuto prendere per un fantasma, apparve ritta sul parapetto. Si curvò sulla Senna, poi si raddrizzò e cadde diritta nelle tenebre.

Ci fu un tonfo sordo.

Soltanto la tenebra seppe il segreto delle convulsioni di quella forma oscura scomparsa sotto l'acqua.




Libro 5


IL NIPOTE E IL NONNO



1. SI RIVEDE L'ALBERO CON LA FASCIATURA DI ZINCO


Qualche tempo dopo gli ultimi avvenimenti da noi raccontati, il signor Boulatruelle provò una viva emozione.

Il signor Boulatruelle era quello stradino di Montfermeil già intravisto nelle parti tenebrose di questo libro.

Il lettore forse ricorderà che costui si occupava di cose torbide e svariate. Spaccava le pietre e alleggeriva qualche viaggiatore sulla strada maestra. Terrazziere e ladro, aveva un ideale:

credeva ai tesori nascosti nel bosco di Montfermeil. Sperava di trovare un giorno o l'altro dei denari sepolti al piede di qualche albero; nell'attesa, li cercava volentieri nelle tasche dei viandanti.

Tuttavia, per il momento, era prudente. L'aveva scampata bella.

Sappiamo che era stato sorpreso nella stamberga Jondrette con gli altri banditi; ma, utilità d'un vizio, la sua qualità di ubriacone l'aveva salvato. Non s'era mai potuto stabilire se si trovasse là come ladro o come derubato. E un'ordinanza di non luogo a procedere, fondata sul suo stato di ubriachezza, ben constatato la sera dell'agguato, lo aveva messo in libertà. Aveva ripreso la via dei boschi. Era ritornato alla sua strada da Gagny a Lagny a fare, sotto la sorveglianza dell'amministrazione, delle ghiaiate per conto dello Stato, con una cera umile, molto pensoso, meno appassionato al furto che lo aveva quasi perduto, e rivolto con maggior tenerezza al vino che lo aveva salvato.

Quanto alla viva emozione provata poco tempo dopo il suo ritorno sotto l'erboso tetto della sua capanna di stradino, eccola qui.

Una mattina Boulatruelle, recandosi come al solito al lavoro, e fors'anche all'agguato, un po' prima dello spuntar del giorno, scorse tra gli alberi un uomo di cui non vide altro che il dorso, ma la cui corporatura, da quello che gli parve a distanza e nel crepuscolo, non gli era del tutto sconosciuta. Sebbene ubriacone, Boulatruelle aveva una memoria precisa e lucida: arma difensiva indispensabile a chiunque sia un po' in lotta con l'ordine legale.

- Dove diavolo ho visto qualche cosa di simile a quell'uomo? - chiese a se stesso.

Ma non poté rispondere altro, se non che colui assomigliava a qualcuno di cui serbava confusamente la traccia nella mente.

Del resto, indipendentemente dall'identità che non riusciva ad afferrare, Boulatruelle fece dei riaccostamenti e dei calcoli.

Quell'uomo non era del paese, vi arrivava allora, e certamente a piedi, perché nessuna vettura pubblica passava a quell'ora per Montfermeil. Aveva camminato tutta la notte. Donde veniva? Non da lontano, poiché non aveva né sacco né involto. Da Parigi certamente. E perché si trovava nel bosco? Perché ci si trovava a quell'ora? Che ci veniva a fare?

Boulatruelle pensò al tesoro. A forza di scavare nella memoria, si ricordò confusamente di aver provato, parecchi anni prima, una preoccupazione simile, a proposito di un uomo che gli faceva l'impressione di poter essere quello stesso.

Così meditando, e sotto il peso della meditazione, aveva chinato la testa, cosa naturale ma poco abile. Quando la rialzò, non c'era più nulla: l'uomo era scomparso nella foresta e nel crepuscolo.

- Corpo del demonio! - diss'egli. - Lo ritroverò. Scoprirò la parrocchia di quel parrocchiano. Quel bighellone mattutino ha uno scopo, e io lo saprò. Non ci devono essere segreti nel mio bosco senza che c'entri anch'io.

Prese la zappa ben affilata, borbottando:

- Ecco di che frugare nella terra e in un uomo.

E rifacendo alla meglio l'itinerario che doveva aver seguito quell'individuo, come s'attacca un filo a un altro filo, si mise in cammino attraverso il bosco ceduo.

Quand'ebbe percorso un centinaio di passi, il giorno, che cominciava a spuntare, l'aiutò. Le orme impresse qua e là sulla sabbia, le erbe calpestate, alcune eriche schiacciate, dei giovani rami piegati nella sterpaglia, che si raddrizzavano con graziosa lentezza come le braccia d'una bella donna che si stirano svegliandosi, gli indicavano in certo modo una traccia. Egli la seguì, poi la perdette. Il tempo passava. Si addentrò di più nel bosco e giunse a una specie di altura. Un cacciatore mattutino che passava lontano fischiettando il motivo di Guillery, gli suggerì l'idea d'arrampicarsi sopra un albero. Benché vecchio, era agile.

Lì accanto c'era un gran faggio degno di Titiro e di Boulatruelle.

Ci salì su, più alto che poté.

L'idea era buona. Esplorando la solitudine dalla parte dove il bosco è più intricato e selvaggio, scorse d'un tratto l'uomo.

Ma l'aveva appena scorto che lo perse di vista.

L'uomo entrò o piuttosto sgusciò in una radura abbastanza lontana e mascherata da grandi alberi, ma che Boulatruelle conosceva benissimo per avervi notato, presso un gran mucchio di pietre molari, un castagno malato, medicato con una fascia di zinco inchiodata sulla corteccia. Era la radura che chiamavano una volta fondo Blaru. Il mucchio di pietre, destinato a chi sa quale uso, che vi si vedeva or sono trent'anni, certo c'è ancora. Non c'è niente che uguagli la longevità d'un mucchio di sassi, tranne quella d'una palizzata di tavole. Sono là provvisoriamente; ottima ragione per durare!

Con la rapidità della gioia, Boulatruelle si lasciò cadere più che non scendere dall'albero. Il covo era scoperto; si trattava ora di cogliere la bestia. Il famoso tesoro sognato probabilmente era là.

Non era una faccenda da poco arrivare a quella radura. Per i sentieri battuti, che hanno mille zig-zag secanti, ci voleva un buon quarto d'ora; in linea retta, attraverso la macchia, che da quel lato era straordinariamente folta, molto spinosa e aggressiva, occorreva più di mezz'ora. Ma questo Boulatruelle ebbe il torto di non capirlo. Egli prestò fede alla linea retta, illusione ottica rispettabile, ma che rovina molti uomini. La macchia, per quanto irta, gli parve la via buona.

- Prendiamo la via Rivoli dei lupi - disse.

Boulatruelle, abituato ad andare di traverso, commise l'errore di andare diritto.

Ebbe da fare con gli agrifogli, con le ortiche, coi biancospini, con le rose selvatiche, coi cardi, con rovi molto irascibili, e ne fu molto graffiato.

Nel fondo del burrone trovò dell'acqua che dovette attraversare.

Finalmente, dopo quaranta minuti, arrivò alla radura Blaru sudato, bagnato, ansante, scorticato e furioso.

Non ci trovò nessuno.

Corse al mucchio di pietre; era al suo posto, nessuno lo aveva portato via.

Quanto all'uomo, s'era dileguato nella foresta. Era fuggito. Dove?

da che parte? in quale macchia? Impossibile indovinarlo.

E, cosa straziante, dietro al mucchio di sassi, davanti all'albero dalla piastra di zinco, c'era della terra smossa di fresco, una zappa abbandonata o dimenticata e un buco.

Quel buco era vuoto.

Ladro! - gridò Boulatruelle, mostrando i pugni all'orizzonte.




2. MARIO USCITO DALLA GUERRA CIVILE, SI PREPARA ALLA GUERRA DOMESTICA


Mario rimase a lungo fra la morte e la vita. Per alcune settimane ebbe la febbre accompagnata da delirio e da sintomi cerebrali abbastanza gravi, cagionati dalle commozioni delle ferite alla testa piuttosto che dalle ferite stesse.

Per notti intere ripeté il nome di Cosetta, con la lugubre loquacità della febbre e la cupa ostinazione dell'agonia. La larghezza di alcune lesioni fu un pericolo serio, poiché sotto certe influenze atmosferiche la suppurazione delle piaghe larghe può sempre essere riassorbita e uccidere di conseguenza il malato; ad ogni variazione di tempo, al minimo temporale, il medico diventava inquieto. - E soprattutto che il ferito non provi nessuna emozione - ripeteva. Le medicazioni erano complicate e difficili, giacché non si era ancora scoperto il modo di fissare le bende con lo sparadrappo. Nicoletta consumò in filacce un lenzuolo "grande come un soffitto", diceva lei. Non senza fatiche, le lozioni clorurate e il nitrato d'argento vinsero la cancrena.

Finché ci fu pericolo, il signor Gillenormand disperato, al capezzale del nipote, fu come Mario: né morto né vivo.

Un signore coi capelli bianchi e molto ben vestito, tali erano i connotati riferiti dal portinaio, andava ogni giorno e talora due volte al giorno a chiedere notizie del ferito, e a portare un grosso involto di filacce per le medicazioni.

Finalmente il 7 settembre, tre lunghi mesi di sofferenza, dopo la dolorosa notte in cui Mario era stato portato moribondo in casa del nonno, il medico lo dichiarò fuori pericolo. Cominciò la convalescenza: tuttavia Mario dovette restare ancora più di due mesi disteso sopra una poltrona a sdraio, a causa della frattura della clavicola. C'è sempre in simili casi un'ultima ferita che non vuol chiudersi e che prolunga le medicazioni, con grande noia del malato.

Del resto, quella lunga malattia e quella lunga convalescenza lo salvarono da un processo. In Francia non c'è collera, nemmeno pubblica, che non si estingua in sei mesi. Le sommosse, nello stato in cui si trova la società, sono talmente colpa di tutti, che sono seguite da un bisogno di chiudere gli occhi.

Si aggiunga che l'inqualificabile ordinanza Gisquet, che imponeva ai medici di denunciare i feriti, aveva indignato l'opinione pubblica, e non questa soltanto, ma il re per primo; e fu così che i feriti si trovarono coperti e protetti da tale indignazione. Ad eccezione di quelli che erano caduti prigionieri in flagrante combattimento, i Consigli di guerra non osarono inquietare nessuno. Mario dunque fu lasciato tranquillo.

Il signor Gillenormand provò dapprima tutte le angosce, poi tutte le estasi. Si durò molta fatica a impedirgli di passar le notti accanto al malato, accanto al letto del quale fece portare la sua grande poltrona. Pretese che sua figlia adoperasse la più bella biancheria della casa per farne filacce e bende, ma la signorina Gillenormand, da persona saggia e attempata, trovò modo di salvare la bella biancheria, pur lasciando credere al padre di avergli obbedito. Il vecchio non permise che gli spiegassero che per far filacce la tela grossa è preferibile alla batista e la tela usata alla nuova. Egli assisteva a tutte le fasciature, dalle quali invece sua figlia si assentava pudicamente; e quando si tagliavano con le forbici le carni morte, egli gridava ahi! ahi! Nulla di più commovente che vederlo porgere al ferito una pozione col suo lieve tremito senile. Assediava il medico di domande, e non s'accorgeva di ripetere sempre le stesse.

Il giorno in cui il medico gli annunciò che Mario era fuori pericolo, il vecchio provò un delirio. Dette tre luigi di gratifica al portinaio. E la sera, entrato in camera ballò una gavotta, facendo le castagnette col pollice e l'indice, e cantò questa canzone:

"Gianna è nata a Fougère vero nido d'una pastora.

Io adoro la sua veste briccona.

Amore, tu vivi in lei; perché nella sua pupilla tu metti il tuo turcasso, furbacchione!

Io la canto e l'amo, più della stessa Diana, Gianna e il suo solido seno bretone".

Poi si mise in ginocchio sopra una sedia, e Basco che lo osservava dalla porta socchiusa, credette che pregasse.

Fino a quel giorno non aveva mai creduto in Dio.

A ogni nuova fase del miglioramento, che si andava sempre più delineando, il nonno usciva fuori di sé; faceva macchinalmente molti gesti di allegrezza, saliva e scendeva le scale senza sapere il perché. Una vicina, graziosa del resto, fu molto stupita una mattina di ricevere un gran mazzo di fiori; era il signor Gillenormand che glielo mandava. Il marito fece una scenata di gelosia. Il vecchio tentava di prendersi Nicoletta sulle ginocchia, chiamava Mario "signor barone" e gridava "Viva la repubblica".

Ogni momento chiedeva al medico: - E' vero che non c'è più pericolo? - Guardava Mario con occhi amorosi, lo covava mentre mangiava. Non si riconosceva più, non contava più nulla, Mario era il padrone della casa; c'era della abdicazione nella sua gioia; egli era il nipote di suo nipote.

In quella sua allegrezza, era il più venerando dei fanciulli. Per paura di stancare o d'importunare il convalescente, gli si poneva di dietro per sorridergli. Era contento, gioioso, rapito, grazioso, ringiovanito; i suoi capelli aggiungevano una dolce maestà alla gaia luce che gli risplendeva nel volto. Quando la grazia s'associa alle rughe diventa adorabile; c'è non so quale aurora in una vecchiezza gioconda.

Mario dal canto suo, mentre si lasciava medicare e curare, aveva un'idea fissa: Cosetta.

Da quando la febbre e il delirio l'avevano lasciato, egli non pronunciava più quel nome, e si sarebbe potuto credere che non ci pensasse più. Taceva, appunto perché la sua anima era con lei.

Non sapeva che ne fosse stato di Cosetta: tutta la faccenda di via Chanvrerie era come una nube nella sua memoria; delle ombre quasi indistinte ondeggiavano nella sua mente, Eponina, Gavroche, Mabeuf, i Thénardier, tutti i suoi amici lugubremente frammisti al fumo della barricata; lo strano passaggio del signor Fauchelevent in quella sanguinosa avventura gli faceva l'impressione d'un enigma in una tempesta; non comprendeva nemmeno in qual modo si trovasse in vita; non sapeva come e da chi fosse stato salvato, e nessuno lo sapeva intorno a lui; né avevano potuto dirgli altro, se non che una notte era stato portato in una vettura in via Figlie del Calvario; passato, presente, avvenire, era in lui tutta una nebbia d'una idea confusa, ma in quella nebbia c'era un punto immobile, un profilo netto e preciso, qualche cosa che era di granito, una risoluzione, una volontà: ritrovare Cosetta. Aveva deciso nel suo cuore di non accettare l'una senza l'altra, ed era incrollabilmente deciso a esigere da chiunque volesse costringerlo a vivere, da suo nonno, dal destino, dall'inferno, la restituzione del suo Eden sparito.

Non si nascondeva gli ostacoli.

Notiamo qui una circostanza: egli non era lusingato né molto commosso per tutte le premure e le tenerezze del nonno. In primo luogo, non le conosceva tutte; e poi, nelle sue fantasticherie di malato, ancora febbricitante forse, diffidava di tutte quelle carezze come di cosa strana e nuova, che avesse lo scopo di domarlo. Quindi, rimaneva freddo; e il povero sorriso senile del nonno era speso inutilmente. Mario pensava che tutto sarebbe andato bene fino a che avesse taciuto e lasciato fare; ma quando si fosse trattato di Cosetta, avrebbe trovato un altro viso, e il vero atteggiamento del vecchio si sarebbe smascherato. Allora la faccenda sarebbe diventata aspra; recrudescenza delle questioni di famiglia, confronti di posizione, tutti i sarcasmi e tutte le obiezioni insieme, Fauchelevent, Coupelevent, la ricchezza, la povertà, la miseria, la pietra al collo, l'avvenire. Resistenza violenta; in conclusione, il rifiuto. Mario si irrigidiva già in anticipo.

E poi, a mano a mano che ripigliava le forze, le antiche accuse risorgevano, le vecchie ulcere della sua memoria si riaprivano, ripensava al passato, vedeva il colonnello Pontmercy interporsi ancora fra lui e il signor Gillenormand e diceva tra sé che non poteva sperare nessuna sincera bontà da chi era stato così ingiusto e duro con suo padre. E con la salute, gli ritornava una certa asprezza contro suo nonno. Il vecchio ne soffriva dolcemente.

Il signor Gillenormand, senza per altro manifestare mai nulla, notava che Mario, da quando era stato riportato in casa e aveva ripreso i sensi, neppure una volta lo aveva chiamato padre. Non gli diceva signore, è vero: ma trovava modo di non dire né l'uno né l'altro, con una sua certa maniera di girar le frasi.

Evidentemente, una crisi s'avvicinava.

Come avviene quasi sempre in simili casi, Mario, per saggiare, tentò qualche scaramuccia prima della battaglia; quel che si chiama tastare il terreno. Una mattina accadde, a proposito d'un giornale cadutogli sotto mano, che il signor Gillenormand parlasse con leggerezza della Convenzione, e lanciasse un epifonema monarchico su Danton, Saint-Just e Robespierre. - Gli uomini del '93 erano giganti - osservò Mario severamente. Il vecchio tacque e non fiatò più per tutto il resto della giornata.

Mario, che aveva sempre presente nella memoria l'inflessibile nonno dei suoi primi anni, vide in quel silenzio una profonda concentrazione di collera, ne presagì una lotta, e aumentò nelle ultime trincee della sua mente i preparativi della battaglia.

Decise che in caso di rifiuto si sarebbe strappato le fasciature, spostato la clavicola, avrebbe messo al nudo e al vivo quante piaghe gli rimanevano, e respinto ogni cibo. Le ferite erano le sue munizioni. Ottenere Cosetta o morire.

Aspettò il momento favorevole con la pazienza sorniona dei malati.

E il momento venne.




3. MARIO ALL'ASSALTO


Un giorno, mentre sua figlia metteva in ordine le fiale e le tazze sul marmo del cassettone, il signor Gillenormand era chino su Mario e gli diceva col suo accento più tenero:

- Vedi, mio piccolo Mario, se io fossi in te mangerei adesso piuttosto carne che pesce; una sogliola fritta è ottima per cominciare la convalescenza, ma per mettere in piedi un malato ci vuole una buona costoletta.

Mario, a cui erano tornate quasi interamente le forze, le raccolse, si rizzò a sedere, appoggiò i pugni contratti sul lenzuolo, guardò in faccia il nonno, assunse un aspetto terribile e disse:

- Questo mi induce a dirvi una una cosa.

- Quale?

- Che voglio ammogliarmi.

- Previsto! - rispose il nonno; e scoppiò a ridere.

- Come, previsto?

- Sì, previsto. L'avrai la tua piccina.

Mario, stupefatto e oppresso da quella sorpresa, fu preso da un tremito in tutto il corpo.

Il signor Gillenormand continuò:

- Sì, l'avrai la tua bella figlioletta graziosa. Essa viene ogni giorno, sotto le sembianze d'un vecchio signore, a chiedere tue notizie. Da quando sei stato ferito, passa il tempo a piangere e a far filacce. Mi sono informato; abita in via Homme-Armé, numero sette. Ah, ci siamo! La vuoi eh? Ebbene, l'avrai. Eccoti preso al laccio. Tu avevi ordito il tuo piccolo complotto, avevi pensato fra te: "Glielo voglio intimare bruscamente a questo nonno, a questa mummia della reggenza e del direttorio, a questo vecchio galante, a questo Dorante diventato Geronte; le ha avute anche lui le sue leggerezze e i suoi amoretti, le sue donnine e le sue Cosette; anche lui ha strisciato attorno alle gonnelle, ha avuto le ali, ha mangiato il pane della primavera, e bisognerà pure che se ne ricordi. Staremo a vedere. Battaglia". Ah! tu pigli il toro per le corna! Sta bene. Io ti offro una costoletta, tu mi rispondi: "A proposito, voglio ammogliarmi". Questa sì che è una transizione! Ah! tu avevi calcolato di farmi brontolare! Tu non sapevi che sono un vecchio debole. Che ne dici? Tutto questo ti fa arrabbiare. Non ti aspettavi di trovare tuo nonno più gonzo di te; ci rimetti il discorso che mi volevi fare, signor avvocato, e questo ti dà noia. Ebbene, tanto peggio, arrovellati. Io faccio quello che vuoi e questo ti rompe le gambe, imbecille! Ascolta. Ho assunto le mie informazioni; sono sornione anch'io, sai! Lei è vezzosa, saggia; la storia del lanciere non è vera; ha fatto un monte di filacce; è un gioiello e ti adora... Se morivi, saremmo stati in tre; la sua bara avrebbe accompagnato la mia. Mi era ben passato per la testa, appena sei stato meglio, di schiaffartela qui al capezzale, ma solo nei romanzi s'introducono così senz'altro le ragazze vicino al letto dei leggiadri feriti che le interessano; sono cose che non si fanno. Che avrebbe detto tua zia? Tu eri nudo i tre quarti del tempo, ragazzo mio. Domanda a Nicoletta, che non t'ha mai lasciato un minuto, se era possibile che una donna ti restasse vicino. E poi che avrebbe detto il medico? Una bella ragazza non guarisce la febbre. Infine, sta bene, non parliamone più; è detto, fatto, concluso. Prendila. E' questa la mia ferocia. Capisci? ho visto che non mi volevi bene, e allora ho detto: Che devo fare perché questo animale mi voglia bene? E allora ho detto: - Toh! ho sottomano la mia piccola Cosetta, ora gliela do, e bisognerà pure che mi ami un poco, o mi dica perché non vuole. Ah! tu credevi che il vecchio dovesse tempestare, far la voce grossa, gridare di no, e alzare il bastone contro tutta questa aurora. Niente affatto.

Cosetta? sia; amore? sia; non domando di meglio. Signore, abbiate la compiacenza di ammogliarvi. Sii felice, figlio mio diletto!

Ciò detto, il vecchio scoppiò in singhiozzi.

E presa la testa di Mario, se la strinse fra le braccia, sul vecchio petto, e piansero tutti e due. E' una delle forme della felicità suprema.

- Padre mio! - esclamò Mario.

- Ah! dunque mi vuoi bene! - disse il vecchio.

Successe un momento ineffabile; si sentivano soffocare e non potevano parlare.

Finalmente il nonno balbettò:

- Su via! eccolo sulla buona strada. Mi ha chiamato padre.

Mario, liberata la testa dalle braccia del nonno, disse piano:

- Ma, padre mio, adesso che sto bene, mi pare che potrei vederla.

- Previsto anche questo. La vedrai domani.

- Padre mio!

- Cos'è?

- E perché non oggi?

- Ebbene, oggi; vada per oggi. M'hai chiamato tre volte tuo padre, una cosa vale l'altra. Vado a occuparmene. Te la condurranno.

Previsto, ti dico. Fu già messo in versi. E' la conclusione dell'elegia del "Giovane malato" di Andrea Chénier, di Andrea Chénier che fu sgozzato dagli sceller... dai giganti del '93.

Il signor Gillenormand credette di scorgere una leggera ruga sulla fronte del giovane, il quale invece, a dire il vero, non lo ascoltava, rapito com'era in estasi, e pensava molto più a Cosetta che al '93. Il vecchio, tremante d'aver ricordato così inopportunamente Andrea Chénier, riprese precipitosamente:

- Sgozzato non è la parola. Fatto sta che i grandi geni rivoluzionari, i quali non erano cattivi, questo è incontestabile, ed erano tanti eroi, altro che! trovarono che Andrea Chénier li infastidiva un poco, e lo fecero ghigliott... vale a dire che nell'interesse della salute pubblica quei grandi uomini il sette termidoro pregarono Andrea Chénier che si degnasse di andare...

Stretto alla gola dalla propria frase, il signor Gillenormand non poté continuare, e non potendo né terminarla né ritrattarla, mentre sua figlia rassettava il guanciale dietro di Mario, il vecchio sconvolto da tante emozioni, si slanciò fuori dalla stanza da letto con tutta la sveltezza concessagli dall'età, respinse dietro di sé la porta, e rosso, soffocato, schiumante di collera, con gli occhi fuori dalla testa, si trovò a faccia a faccia con l'onesto Basco, che stava in anticamera lucidando le scarpe.

L'afferrò per il bavero e gli gridò in viso con furore:

- Per le centomila incudini del diavolo, quei briganti lo hanno assassinato!

- Chi, signore?

- Andrea Chénier!

Sì, signore - rispose Basco spaventato.




4. LA SIGNORINA GILLENORMAND FINISCE COL TROVARE NORMALE CHE IL SIGNOR FAUCHELEVENT ENTRASSE CON QUALCHE COSA SOTTO IL BRACCIO


Cosetta e Mario si rividero. Rinunciamo a dire che cosa fu quel colloquio. Ci sono cose che non si deve tentar di descrivere; fra di esse c'è il Sole.

Tutta la famiglia, compresi Basco e Nicoletta, era riunita nella camera di Mario nel momento in cui entrò Cosetta.

Quando apparve sulla soglia, sembrava avvolta in un nimbo.

Il nonno, che proprio in quel momento stava per soffiarsi il naso, restò sospeso, col naso nel fazzoletto, e, guardando la fanciulla, esclamò:

- Adorabile!

Poi si soffiò rumorosamente.

Cosetta era inebriata, rapita, spaventata, estasiata. Era sgomenta quanto si può esserlo per troppa felicità. Balbettava, tutta pallida, tutta rossa, voleva lanciarsi nelle braccia di Mario, ma non osava, vergognosa d'amare davanti a tante persone. Siamo senza pietà con gli amanti infelici; restiamo là, proprio quando più vorrebbero essere soli, quando non hanno assolutamente bisogno di nessuno.

Con Cosetta - e dietro di lei - era entrato un uomo coi capelli bianchi, grave e pur sorridente, ma d'un sorriso incerto e straziante. Era "il signor Fauchelevent", era Valjean.

Era molto ben vestito, come aveva detto il portinaio, tutto di nero e a nuovo, e in cravatta bianca.

Il portinaio era lontano le mille miglia dal riconoscere in quel borghese corretto, in quel probabile notaio, l'orribile portatore di cadaveri, che lacero, inzaccherato, schifoso, stravolto, con la faccia coperta di sangue e di fango, si era presentato alla sua porta nella notte del 7 giugno, sostenendo per le ascelle Mario svenuto. Tuttavia il suo fiuto di portinaio era buono, e quando vide giungere il signor Fauchelevent con Cosetta, non seppe astenersi dal confidare a sua moglie questa idea:

- Non so perché, ma mi pare di avere già visto quel volto.

Fauchelevent, nella stanza di Mario, rimaneva quasi in disparte, presso l'uscio. Aveva sotto braccio un involto assai simile a un volume in ottavo, avvolto in un foglio di carta verdastra che sembrava ammuffita.

- Porta sempre dei libri sotto il braccio quel signore? - chiese sottovoce a Nicoletta la signorina Gillenormand, a cui non piacevano i libri.

- Ebbene - rispose con lo stesso tono il signor Gillenormand che l'aveva udita - è un dotto. E perciò? E' colpa sua? Il signor Boulard, che ho conosciuto, neppure lui andava in giro senza un libro, e ne aveva sempre uno così stretto al cuore.

- Signor Tranchelevent...

Papà Gillenormand non lo fece apposta, ma la sbadataggine per i nomi propri era in lui una maniera aristocratica.

- Signor Tranchelevent, ho l'onore di chiedervi per mio nipote, il signor barone Mario Pontmercy, la mano della signorina.

Il "Signor Tranchelevent" s'inchinò.

- E' fatto - disse il nonno.

E volgendosi a Mario e Cosetta, con le braccia distese, e benedicendoli, gridò:

- Vi permetto di adorarvi.

Non se lo fecero dire due volte. Tanto meglio! Cominciò il cinguettio. Parlavano sommesso. Mario puntellato col gomito sulla poltrona a sdraio, Cosetta in piedi vicino a lui.

- Ah mio Dio - mormorava Cosetta - vi rivedo! Sei tu! siete voi!

Andare a battervi in quel modo! Ma perché? E' una cosa orribile!

Per quattro mesi, sono stata come una morta. Che cattiveria essere stato a quella battaglia! Vi perdono, ma non lo farete più. Poco fa, quando sono venuti a dirci di venire, ho creduto ancora di morire, ma per la gioia. Ero così triste! Non mi sono neppure preoccupata di vestirmi: devo essere brutta da far paura. Cosa diranno i vostri parenti, vedendomi con una gorgiera tutta gualcita? Ma parlate dunque! Mi lasciate discorrere da sola.

Stiamo sempre in via Homme-Armé. Pare che la ferita alla spalla fosse spaventosa; m'hanno detto che vi si poteva cacciar dentro la mano. E poi, pare che vi abbiano tagliato le carni con le forbici; è una cosa orribile! Ho pianto tanto che non ho più occhi. E' strano che si possa soffrire così. Vostro nonno ha l'aria molto buona. Non state così scomodo, non vi appoggiate sul gomito; state attento, vi farete male. Oh, come sono contenta! Sono dunque finite le avventure! Sembro stordita; volevo dirvi tante cose, ma non ricordo più nulla. Mi amate sempre? Abitiamo in via Homme- Armé. Non c'è giardino. In tutto questo tempo ho sempre fatto filacce; guardate, è colpa vostra, signorino, ho un po' incallito le dita.

- Angelo! - diceva Mario.

Angelo è la sola parola che non si possa sciupare, nessun altro vocabolo resisterebbe allo spietato abuso che ne fanno gli innamorati.

Poi, essendoci delle persone presenti, s'interruppero e non aprirono più bocca, accontentandosi di toccarsi leggermente la mano.

Il signor Gillenormand si volse a tutte le persone che erano in quella stanza e gridò:

- Parlate dunque ad alta voce, voi altri, fate rumore, tra le quinte. Su animo, un po' di strepito, che diavolo! perché questi ragazzi possano chiacchierare a loro piacere.

E accostatosi a Mario e a Cosetta, aggiunse sottovoce:

- Datevi del tu, non abbiate soggezione.

La zia Gillenormand assisteva stupita a quella irruzione di luce nella sua vecchia casa. Ma quello stupore non aveva nulla di aggressivo: non era niente affatto l'occhiata scandalizzata e invidiosa d'una civetta a una coppia di colombi, ma lo sguardo inebetito d'una povera innocente di cinquantasett'anni; era la vita mancata che guardava quel trionfo, l'amore.

- Signorina Gillenormand - le disse suo padre - te l'avevo detto io che ti sarebbe accaduto così.

E dopo un momento di silenzio aggiunse:

- Guarda la felicità degli altri.

Quindi volgendosi a Cosetta:

- Com'è graziosa! com'è graziosa! E' un Greuze. L'avrai dunque tutta per te solo, ragazzaccio! Ah, briccone, la scampi bella con me! Sei fortunato: se avessi quindici anni di meno, ce la disputeremmo in duello. Ecco che sono innamorato di voi, signorina! E' naturale. E' il vostro diritto. Ah, che belle, che allegre nozze che faremo! La nostra parrocchia è San Dionigi del Santo Sacramento, ma otterrò una dispensa perché vi sposiate a San Paolo. La chiesa è più bella, più civettuola: fu edificata dai gesuiti dirimpetto alla fontana del cardinale di Birague. Il capolavoro architettonico dei gesuiti si trova a Namur; si chiama San Lupo. Dovreste andare a vederlo quando sarete sposati: val la pena d'un viaggio, signorina; io sono completamente della vostra opinione, voglio che le fanciulle si maritino; sono fatte per questo. C'è una certa santa Caterina che vorrei sempre vedere a capo scoperto. Rimanere nubili è una cosa bella, ma fredda. La Bibbia dice: Moltiplicatevi. Per salvare il popolo ci vuole Giovanna d'Arco, ma per fare il popolo ci vuole mamma Gigogne.

Dunque sposatevi, ragazze. Io non capisco davvero a quale scopo si debba restare zitelle. So benissimo che in chiesa hanno una cappella separata, e che vanno a finire nella confraternita della Vergine; ma, perbacco! un bel marito, un bravo ragazzo, e dopo un anno un bel bamboccio biondo che poppa gagliardamente, che ha delle buone pieghe di ciccia sulle cosce e che vi annaspa sul seno con le sue rosee manine ridendo come l'aurora; tutto questo vale più che tenere un cero a vespro e cantare "Turris Eburnea"!

Il nonno fece una piroetta sulle sue calcagna di novanta anni, e riprese a parlare come se avesse ricaricato la molla.

- "Dunque, frenando il tuo vagar fantasioso, E' proprio vero, Alcippo, tra poco sarai sposo".

- A proposito.

- Che cosa, padre mio?

- Non avevi un amico intimo?

- Sì, Courfeyrac.

- Cosa ne è stato?

- E' morto.

- Così va bene.

Sedette vicino a essi, fece sedere Cosetta, e prese le loro quattro mani nelle sue vecchie mani rugose:

- E' deliziosa, questa piccola. E' un capolavoro, questa Cosetta!

E' una ragazzina ed è già una gran dama. Sarà soltanto una baronessa; peccato, è nata marchesa! E che ciglia! Figli miei, ficcatevi bene nella zucca che voi siete nel vero. Amatevi, fino a diventarne stupidi. L'amore è la stoltezza degli uomini e lo spirito di Dio. Adoratevi! Solo che - soggiunse turbandosi d'un tratto - per disgrazia, ora che ci penso, più della metà di quanto possiedo è collocata a vitalizio. Finché vivrò io, le cose cammineranno abbastanza bene, ma dopo la mia morte, fra una ventina d'anni, miei poveri figlioli, non avrete più un soldo. Le vostre belle mani bianche, signora baronessa, faranno al diavolo l'onore di tirarlo per la coda.

A questo punto si udì una voce grave e tranquilla che diceva:

- La signorina Eufrasia Fauchelevent possiede seicentomila franchi.

Era la voce di Valjean.

Non aveva ancora proferito una parola, e pareva che nessuno sapesse che egli era là. Se ne stava in piedi e immobile dietro a tutte quelle persone felici.

- Chi è questa signorina Eufrasia? - chiese il nonno sorpreso.

- Sono io - rispose Cosetta.

- Seicentomila franchi! - riprese il signor Gillenormand.

- Meno forse quattordici o quindicimila franchi - osservò Valjean.

E posò sulla tavola l'involto che la zia Gillenormand aveva preso per un libro.

Valjean aprì lui stesso l'involto; era un fascio di biglietti di banca. Furono sfogliati e contati; c'erano cinquecento biglietti da mille franchi e centosessantotto da cinquecento; in totale cinquecentottantaquattromila franchi.

- Ecco un buon libro - disse il signor Gillenormand.

- Cinquecentottantaquattromila franchi - mormorò la zia.

- Questo accomoda molte cose, non è vero, signorina Gillenormand maggiore - riprese il nonno. - Quel diavolo di Mario è andato a snidare nell'albero dei sogni una ragazza milionaria! Fidatevi ora degli amoretti dei giovanotti! Gli studenti che trovano delle studentesse con seicentomila franchi! Cherubino che lavora meglio di Rothschild.

- Cinquecentottantaquattromila franchi - ripeteva sottovoce la signorina Gillenormand. - Cinquecentottantaquattromila franchi!

Tant'è dire seicentomila, diamine!

Mario e Cosetta frattanto si guardavano, e appena s'accorsero di quell'incidente.




5. DEPOSITATE IL VOSTRO DENARO IN CERTE FORESTE, PIUTTOSTO CHE PRESSO CERTI NOTAI


Il lettore ha certamente capito, senza bisogno di lunghe spiegazioni, che dopo il processo Champmathieu e grazie alla sua prima evasione di pochi giorni, Valjean aveva potuto andare a Parigi e ritirare in tempo dalla banca Laffitte la somma da lui guadagnata a Montreuil-sur-mer sotto il nome di Madeleine; e che, temendo d'essere ripreso, come infatti avvenne poco tempo dopo, aveva nascosto e sepolto quella somma nel bosco di Montfermeil, nel luogo detto il fondo Blaru. La somma, che era di seicentotrentamila franchi tutti in biglietti di banca, faceva poco volume e stava in una scatola. Sennonché, per preservare la scatola dall'umidità, l'aveva rinchiusa in un cofanetto di quercia pieno di trucioli di castagno, nel quale aveva messo pure l'altro suo tesoro, i candelieri del vescovo, che, come sappiamo, aveva portato via scappando da Montreuil-sur-mer. L'uomo, visto la prima volta una sera da Boulatruelle, era Valjean. Più tardi, ogni qual volta gli occorreva danaro, egli andava a prenderne nella radura Blaru; donde le sue assenze già accennate. In un nascondiglio tra le sterpaglie, noto a lui solo, teneva una zappa. Vedendo Mario in convalescenza, sentendo avvicinarsi il momento in cui quel denaro poteva essere utile, era andato a prenderlo; ed era ancora lui che Boulatruelle aveva visto nel bosco, questa volta però di mattina e non di sera. Boulatruelle ereditò la zappa.

La somma precisa era di cinquecentottantaquattromila franchi.

Valjean prelevò per sé cinquecento franchi, pensando: - Più tardi vedremo.

La differenza fra la somma attuale e i seicentotrentamila franchi ritirati dalla banca Laffitte rappresentava la spesa di dieci anni, dal 1823 al 1833. Pei cinque anni di soggiorno in convento erano bastati solo cinquemila franchi.

Valjean mise i due candelieri d'argento sul caminetto, ove brillarono con grande ammirazione della Toussaint.

D'altra parte Valjean sapeva d'essere stato liberato da Javert, avendo udito narrare e poi letto nel Moniteur che un ispettore di polizia Javert era stato rinvenuto annegato sotto un battello da lavandaia tra il Pont-au-Change e il Ponte Nuovo, e che uno scritto lasciato da quell'uomo, irreprensibile del resto e molto stimato dai suoi superiori, faceva credere a un accesso d'alienazione mentale e a un suicidio.

Infatti - pensò Valjean - per avermi lasciato libero quando già mi teneva, doveva proprio essere pazzo.




6. I DUE VECCHI FANNO DI TUTTO PERCHE' COSETTA SIA FELICE


Tutto fu disposto per il matrimonio. Il medico consultato dichiarò che poteva celebrarsi in febbraio. Si era allora in dicembre.

Trascorsero alcune incantevoli settimane di felicità perfetta.

Il meno felice non era il nonno, il quale rimaneva dei quarti d'ora a contemplarsi Cosetta.

- Oh che meravigliosa fanciulla! - esclamava. - E che fisionomia dolce e buona! Non c'è da far paragoni, è la più graziosa figliola che abbia mai visto in vita mia. Più tardi avrà delle virtù profumate di violetta. E' una vera grazia! Non si può non vivere nobilmente con una creatura simile. Mario, figlio mio, tu sei barone, sei ricco, non fare l'avvocato, te ne supplico.

Cosetta e Mario erano passati repentinamente dal sepolcro al paradiso; la transizione era avvenuta senza cautele, e ne sarebbero rimasti storditi se non ne fossero già stati abbagliati.

- Ci capisci qualcosa in tutto questo? - chiedeva Mario a Cosetta.

- No - rispondeva Cosetta - ma mi sembra che il buon Dio ci guardi.

Valjean fece tutto, appianò tutto, conciliò tutto, rese tutto facile. Egli affrettava la felicità della fanciulla con altrettanta premura e altrettanta gioia quanto Cosetta stessa.

Essendo stato sindaco, seppe risolvere un problema delicato, di cui egli solo conosceva il segreto: lo stato civile di Cosetta.

Confessarne apertamente l'origine, chi sa? poteva impedire il matrimonio. Egli cavò la fanciulla da tutte le difficoltà. Le diede una famiglia di persone morte, mezzo sicuro per evitare i reclami. Cosetta la superstite di una famiglia estinta. Non era figlia sua, ma d'un altro Fauchelevent. Due fratelli di questo nome erano stati giardinieri nel convento del Petit-Picpus. Si andò al convento, ove abbondarono le migliori informazioni e le più rispettabili testimonianze. Le buone religiose, poco adatte e poco inclini a investigare su questioni di paternità, e non supponendo malizia, non avevano mai saputo esattamente di quale dei due Fauchelevent Cosetta fosse figlia. Dissero quel che si volle da esse, e lo dissero con zelo. Fu steso un atto notarile e Cosetta davanti alla legge divenne la signorina Eufrasia Fauchelevent, dichiarata orfana di padre e di madre. Valjean fece in modo da essere designato, sotto il nome di Fauchelevent, come tutore di Cosetta, col signor Gillenormand come protutore.

Quanto ai cinquecentottantaquattromila franchi, dichiarò che erano un legato fatto a Cosetta da persona che desiderava restare sconosciuta. Il legato ammontava in origine a cinquecentonovantaquattromila franchi, ma diecimila erano stati spesi per l'educazione della signorina Eufrasia, di cui cinquemila pagati allo stesso convento. Quel legato, depositato in mano di terza persona, doveva essere rimesso alla fanciulla quando fosse maggiorenne o all'epoca del suo matrimonio. Tutto questo era molto plausibile, come si vede, soprattutto con l'appoggio di più d'un mezzo milione. C'erano, è vero, qua e là alcune cose strane, ma non le videro, giacché uno degli interessati aveva gli occhi bendati dall'amore, gli altri dai seicentomila franchi.

Cosetta seppe così di non essere figlia del buon vecchio da lei per tanto tempo chiamato padre. Egli era soltanto un parente; il suo vero padre era un altro Fauchelevent. In tutt'altro momento, questo fatto l'avrebbe rattristata; ma nel momento ineffabile in cui si trovava, fu appena una nuvola, un'ombra; ed era tanta la sua gioia che la nube durò poco. Essa aveva Mario. Il giovane arrivava e il vecchio scompariva. La vita è fatta così.

Inoltre, da molti anni Cosetta era abituata a vedersi intorno degli enigmi; chiunque abbia avuto un'infanzia misteriosa è sempre disposto a certe rinunce.

Tuttavia continuò a chiamare Valjean "padre".

Cosetta era entusiasta di papà Gillenormand, il quale, a dir vero, la colmava di madrigali e di doni. Mentre Valjean le costruiva una posizione normale nella società e uno stato civile ineccepibile, il signor Gillenormand attendeva al regalo nuziale. Niente gli piaceva tanto quanto mostrarsi magnifico. Le regalò una veste di merletti Binche che aveva ereditato dalla sua nonna, dicendole:

- Queste mode rinascono; le anticaglie fanno furore; le giovani della mia vecchiaia si vestono come le vecchie della mia infanzia.

Svaligiava i suoi rispettabili e panciuti canterani laccati, che non erano stati aperti da anni. - Scrutiamo i segreti di queste nobili dame; vediamo che cosa hanno nel pancione - diceva. - E violava rumorosamente i cassetti zeppi degli ornamenti di tutte le sue mogli, di tutte le sue amanti e di tutte le sue antenate.

Stoffe di Pechino, damaschi, lampazzi, moerri dipinti, abiti di gros marezzati di Tours, fazzoletti ricamati in oro lavabile delle Indie, delfine senza rovescio ancora in pezza, punti di Genova e d'Alençon, parures in oreficeria antica, bomboniere di avorio ornate di microscopiche battaglie, guarnizioni, nastri; tutto donava prodigalmente a Cosetta. E Cosetta meravigliata, pazza d'amore per Mario e riboccante di riconoscenza per il signor Gillenormand, sognava una felicità senza fine vestita di raso e di velluto. Il suo cesto con i doni nuziali le pareva sostenuto da serafini, e l'anima s'involava nell'azzurro sulle ali dei merletti di Malines.

L'ebbrezza degli innamorati non era uguagliata, l'abbiamo detto, se non dall'estasi del nonno. Nella via delle Figlie del Calvario c'era una specie di fanfara.

Ogni mattina, nuova offerta di cose rare del nonno a Cosetta, intorno alla quale si mettevano splendidamente in mostra tutti i possibili falpalà.

Un giorno Mario, che volentieri intercalava i discorsi seri con la sua felicità, disse a proposito di non so quale incidente: Gli uomini della rivoluzione sono così grandi, che hanno il prestigio dei secoli, come Catone e come Focione, e ciascuno di loro sembra una memoria antica.

- Moerro antico! - esclamò il vecchio. - Grazie, Mario, era appunto l'idea che cercavo.

E il giorno appresso una magnifica veste di moerro antico color tè fu aggiunto al corredo di Cosetta.

Da tutti quegli ornamenti il vecchio deduceva delle massime di saggezza.

- L'amore va bene, ma ci vuole anche questo. La felicità è soltanto il necessario; ci vuole anche l'inutile; bisogna condirla enormemente di superfluo. Un palazzo e il suo cuore; il suo cuore e il Louvre; il suo cuore e i gran giochi d'acqua di Versailles.

Datemi la mia pastorella e fate che sia duchessa. Conducetemi Fillide coronata di fiordalisi e aggiungetele centomila franchi di rendita. Spalancatemi una scena bucolica, a perdita di vista, sotto un colonnato di marmo e io accetto la bucolica e anche la fantasmagoria di marmo e oro. La felicità asciutta somiglia al pane asciutto; si mangia, ma non si pranza. Io voglio il superfluo, l'inutile, lo stravagante, l'eccessivo, quello che non serve a nulla. Mi ricordo di aver visto nella cattedrale di Strasburgo un orologio alto come una casa a tre piani, che indicava l'ora, che aveva la compiacenza d'indicare l'ora, ma che non pareva fatto per questo; dopo aver suonato mezzodì o mezzanotte, mezzodì l'ora del sole, mezzanotte l'ora dell'amore, o qualsiasi altra cosa che vi piaccia, vi dava la luna e le stelle, la terra e il mare, gli uccelli e i pesci, Febo e Febea, e un mucchio di cose che uscivano dalla nicchia, e i dodici apostoli, e l'imperatore Carlo Quinto, ed Eponina e Sabino, e per soprammercato un mucchio di pupazzi dorati che suonavano la tromba. Senza contare i deliziosi scampanii che diffondeva nell'aria ogni tanto senza ragione. Vale altrettanto un brutto quadrante nudo nudo che indica soltanto le ore? Io sto per il grande orologio di Strasburgo e lo preferisco al cuculo della Selva Nera.

Il signor Gillenormand divagava specialmente a proposito delle nozze, e tutte le specchiere del settecento passavano alla rinfusa nei suoi ditirambi.

- Voi altri ignorate l'arte delle feste - esclamava. - Oggi non sapete organizzare un giorno di gioia. Il vostro secolo diciannovesimo è fiacco; manca di eccessi; ignora il ricco, il nobile. E' troppo terra-terra. ll vostro terzo Stato è insipido, incolore, inodore e informe. Il sogno delle vostre borghesi quando si accasano, come dicono, è un bel salottino decorato di fresco, tutto in palissandro e calicò. Largo, largo! il signor Pitocco sposa la signorina Lesina. Sontuosità e splendore! Hanno attaccato un luigi d'oro a una torcia! Ecco l'epoca attuale. Domando di fuggirmene tra i Sarmati. Ah! io predissi che tutto era perduto fino dal 1787, il giorno in cui vidi il duca di Rohan, principe di Léon, duca di Chabot, duca di Mombazon, marchese di Soubise, visconte di Thouars, pari di Francia, andare a Longchamps in un calessino! La cosa ha dato i suoi frutti. In questo secolo fanno gli affari, giocano alla Borsa, guadagnano quattrini e sono spilorci. Curano e inverniciano la superficie, sono attillati, lavati, insaponati, raschiati, rasati, pettinati, lucidati, lisciati, strofinati, spazzolati, nettati al di fuori, irreprensibili, levigati come ciottoli, discreti, assettati, e nello stesso tempo - virtù della mia bella! - hanno in fondo alla coscienza dei letamai e delle cloache da far inorridire una vaccaia che si pulisca il naso con le dita! Io affibbio a quest'epoca la seguente divisa: "decenza sudicia". Mario, non andare in collera, permettimi di parlare, vedi che non dico male del popolo; ma lascia che mi sfoghi contro la borghesia. Sono borghese anch'io. Chi ama molto castiga molto. E con ciò ti dico chiaro e tondo che la gente si sposa, sì, ma non sanno sposarsi.

E' vero, io rimpiango la gentilezza delle antiche usanze.

Rimpiango tutto; l'eleganza, i modi cavallereschi, le maniere cortesi e graziose, il lusso rallegratore che ognuno dimostrava, la musica che faceva parte delle nozze - sinfonia per le alte classi, strepito di tamburi per le basse - le danze, i visi giocondi a mensa, i madrigali lambiccati, le canzoni, i fuochi d'artificio, le franche risate, il diavolo con tutte le sue diavolerie, e grandi nodi di nastri. Rimpiango la giarrettiera della sposa. Perché si fa la guerra di Troia? Diamine! per la giarrettiera di Elena. Perché si battono? perché il divino Diomede fracassa sul capo di Merione il grand'elmo di bronzo dalle dieci punte? perché Achille ed Ettore si picchiano a gran colpi di picca? No! Ma perché Elena s'è lasciata prendere la giarrettiera da Paride. Con la giarrettiera di Cosetta Omero comporrebbe l'Iliade; introdurrebbe nel suo poema un vecchio ciarlone come me e lo chiamerebbe Nestore. Amici miei, in altri tempi, in quegli amabili altri tempi si sposavano sapientemente; si faceva un buon contratto e poi una buona gozzoviglia; appena uscito il notaio entrava il cuoco. Ma sicuro! perché lo stomaco è una bestia piacevole, che reclama quanto le è dovuto, e vuole anch'essa le sue nozze. Si cenava bene, e a tavola si aveva una bella vicina senza colletto, che nascondeva il seno con moderazione. Oh, le belle bocche ridenti! e come si stava allegri allora! la giovinezza era un mazzo di fiori; ogni giovinotto si incoronava di un ramo di lilla o una ciocca di rose; anche i guerrieri erano pastori, e il capitano dei dragoni trovava modo di chiamarsi Floriano. Ci tenevano a essere belli; si coprivano di ricami e di porpora. Un borghese sembrava un fiore, il marchese una gemma. Non si usavano le ghette, non si usavano gli stivali. Erano azzimati, lustri, marezzati, biondeggianti, agili, leggiadri, galanti, ciò che non impediva di portare la spada al fianco. Il colibrì ha becco e unghie. Era l'epoca delle "Indie galanti". Uno degli aspetti del secolo era la delicatezza, l'altro la magnificenza, e, per la virtù d'un cavolo! si divertivano. Oggi invece sono tutti seri. Il borghese è avaro, la borghesia è schizzinosa. Il vostro è un secolo sfortunato. Caccerebbe via le grazie perché troppo scollacciate. Ahimé! nascondono la bellezza come una cosa brutta.

Dalla rivoluzione, tutti portano calzoni, anche le ballerine; una saltimbanca deve essere grave; le vostre danze sono dottrinarie.

Bisogna mostrarsi maestosi. Sarebbero irritatissimi se non potessero nascondere il mento nella cravatta. L'ideale d'un galoppino di vent'anni che prenda moglie è di somigliare a Royer- Collard. E sapete cosa otterrete con codesta maestà? Diventate piccini. Abbiate in mente che la gioia non è soltanto gioconda, ma è grande. Amoreggiate dunque allegramente, che diavolo! quando vi sposate; sposatevi dunque con la febbre e lo stordimento, lo strepito e il tramestio della felicità! Gravi in chiesa, sia pure; ma appena finita la messa, perdinci! si dovrebbe circondare la sposa d'un vortice fantastico. Uno sposalizio deve essere regale e chimerico, deve far passeggiare la cerimonia dalla cattedrale di Reims alla pagoda di Chanteloup. Io odio le nozze miserabili. Per Bacco Bacchissimo! siate nell'olimpo, almeno quel giorno: siate tanti dei. Potrebbero essere dei silfi, delle divinità del gioco e del riso, degli argiraspidi, e invece sono tanti gaglioffi! Amici miei, ogni novello sposo dev'essere un principe Aldobrandini.

Profittate di questo minuto unico nella vita per lanciarvi nell'empireo coi cigni e con le aquile, salvo a ricadere l'indomani nella borghesia dei ranocchi. Non economizzate la gioia, non accorciate i suoi splendori, non lesinate il giorno in cui dovete scintillare. Lo sposalizio non è il regime domestico.

Oh! se facessi a mio capriccio, riuscirebbe una cosa galante: si sentirebbero i violini tra gli alberi. Ecco il mio programma:

azzurro e denaro. Introdurrei nella festa le divinità agresti, convocherei le driadi e le nereidi. Le nozze d'Anfitrite, una nube rosea, delle ninfe bene pettinate e nude, un accademico che offre delle quartine alla Dea, un carro trascinato da mostri marini.

"Tritone trottava davanti, e cavava dalla sua conchiglia dei suoni così incantevoli che rapivano chiunque".

Ecco un programma di festa, un programma veramente magnifico, o che io non me ne intendo più, corpo d'un cestino!

Mentre il nonno, in piena effusione lirica, ascoltava se stesso, Cosetta e Mario s'inebriavano guardandosi liberamente.

La zia Gillenormand considerava tutte queste cose con la sua placidità imperturbabile. Negli ultimi cinque o sei mesi essa aveva provato una certa quantità d'emozioni: il ritorno di Mario, Mario riportato sanguinante, Mario proveniente da una barricata, Mario morto, poi vivo, Mario riconciliato, poi fidanzato, Mario che sposava una fanciulla povera, poi sposava una milionaria. I seicentomila franchi avevano costituito l'ultima sua sorpresa.

Dopo di che aveva ripreso la sua indifferenza di bambina di prima comunione. Si recava regolarmente in chiesa, sgranava il rosario, leggeva il suo eucologio, biascicava delle Ave in un angolo della casa, mentre nell'altro si sussurravano degli "I love you", e vedeva Mario e Cosetta come due ombre. L'ombra era lei.

C'è un certo stato d'ascetismo inerte in cui l'anima neutralizzata dal torpore, estranea a quella che potrebbe chiamarsi l'occupazione di vivere, non percepisce, tranne i terremoti e le catastrofi, nessuna impressione umana, né piacevole né disgustosa .

- La tua devozione - diceva il signor Gillenormand a sua figlia,- corrisponde a un'infreddatura di cervello; tu non senti nulla della vita, né i cattivi odori, né i buoni.

Del resto i seicentomila franchi avevano posto fine alle titubanze della vecchia zitella. Suo padre aveva preso l'abitudine di calcolarla così poco, che non l'aveva nemmeno consultata sul consenso al matrimonio di Mario. Aveva agito con la foga consueta, preoccupato, despota divenuto schiavo, da una sola idea:

contentare il nipote. Quanto alla zia, egli non s'era neppure sognato che esistesse e potesse avere un'opinione; ciò che, per quanto pecora fosse, l'aveva urtata. Un po' urtata in fondo all'anima, ma esteriormente impassibile, aveva detto fra sé: - Mio padre risolve la questione del matrimonio senza di me; io risolverò quella dell'eredità senza di lui. - Essa infatti era ricca e il padre no. S'era dunque riservata di decidere da sola su questo. Ed è probabile che se il matrimonio fosse stato povero, l'avrebbe lasciato tale. - Tanto peggio per il mio signor nipote!

Sposa una pezzente, e resti un pezzente. - Ma il mezzo milione di Cosetta le piacque, e mutò le disposizioni dell'animo suo riguardo a quella coppia d'innamorati. Seicentomila franchi meritano considerazione, ed era evidente che lei non poteva fare altrimenti che lasciare la sua ricchezza a quei due giovani, dal momento che non ne avevano più bisogno.

Fu stabilito che gli sposi avrebbero abitato in casa del nonno, il quale volle assolutamente cedere loro la propria camera, la più bella della casa.

- Questo mi farà ringiovanire - dichiarò. - E' un mio antico progetto; ho sempre avuto l'intenzione di far le nozze nella mia camera.

Quindi l'adornò d'una quantità di antichi ninnoli galanti, fece rinnovare il soffitto e la fece tappezzare con una stoffa straordinaria di Utrecht: fondo rasato a bottoni d'oro con fiori di velluto.

- Le cortine del letto della duchessa d'Anville alla Roche-Guyon- diceva egli - erano di questa stoffa. - E mise sul caminetto una figurina di Sassonia che si copriva il ventre nudo col manicotto.

La biblioteca del signor Gillenormand divenne lo studio legale di Mario, poiché, come già sappiamo, il consiglio dell'ordine degli avvocati prescriveva uno studio.




7. SOGNO E FELICITA'


I due innamorati si vedevano ogni giorno. Cosetta veniva col signor Fauchelevent. - Che mondo alla rovescia - diceva la signorina Gillenormand - adesso le fidanzate vengono a domicilio a farsi corteggiare. - Ma la convalescenza di Mario aveva introdotto l'abitudine, e le poltrone della via Figlie del Calvario, più comode per i colloqui intimi che non le sedie impagliate della via Homme-Armé, l'avevano radicata. Mario e Fauchelevent si vedevano ma non si parlavano. Pareva che così si fosse convenuto. Una signorina ha bisogno di un'accompagnatrice, e senza Fauchelevent Cosetta non poteva venire. Per Mario dunque Fauchelevent era la condizione "sine qua non" di Cosetta. Mettendo sul tappeto, in modo generico e senza precisare, le questioni politiche, dal punto di vista del miglioramento generale, essi arrivavano a dirsi qualche cosa di più del sì e no. Una volta anzi, a proposito dell'istruzione, che Mario voleva gratuita e obbligatoria, moltiplicata sotto tutte le forme, prodigata a tutti come l'aria e la luce, in una parola, respirabile dal popolo intero, si trovarono all'unisono e quasi conversarono. In quell'occasione Mario notò che il signor Fauchelevent parlava bene, e anche con una certa elevatezza di linguaggio; però, gli mancava un non so che: aveva qualcosa di meno di un uomo di mondo, e qualcosa di più.

Nel suo interno, nel fondo del suo pensiero, Mario faceva ogni sorta di mute domande a quel signore Fauchelevent, che si mostrava con lui soltanto benevolo e freddo. Provava talvolta dei dubbi sulle proprie rimembranze; c'era nella sua memoria un vuoto, un punto nero, un abisso scavato da quattro mesi d'agonia, nel quale molte cose s'erano perdute. Arrivava al punto di chiedersi se avesse realmente visto Fauchelevent, un uomo così serio e così calmo, nella barricata.

Non era questo il solo stupore che le apparizioni e le sparizioni del passato gli avessero lasciato nell'animo. Non è da credere che egli fosse libero da tutte quelle ossessioni della memoria che ci forzano,anche felici,anche soddisfatti, a guardare melanconicamente indietro. La mente che non si rivolge verso gli orizzonti svaniti non contiene né pensiero né amore. In certi momenti Mario, col viso nelle mani, vedeva il passato tumultuoso e incerto attraversargli il crepuscolo del cervello. Vedeva cadere Mabeuf, udiva Gavroche cantare sotto la mitraglia, sentiva sotto le labbra il freddo della fronte d'Eponina; Enjolras, Courfeyrac, Prouvaire, Combeferre, Bossuet, Grantaire, tutti i suoi amici gli si rizzavano dinanzi, poi svanivano. Tutti quegli esseri cari, dolorosi, valenti, graziosi o tragici, erano dunque sogni? o erano realmente esistiti? La sommossa gli aveva tutto travolto. Le grandi febbri hanno grandi sogni. Egli s'interrogava, si tastava, era preso dalla vertigine di tutte quelle realtà svanite.

Dov'erano essi? era proprio vero che tutto fosse morto? Una caduta nelle tenebre aveva ingoiato tutto, eccetto lui. Gli sembrava che tutto fosse scomparso come dietro un sipario di teatro. Ci sono infatti delle tende che calano così nella vita. Dio passa all'atto seguente.

Ed egli pure, era veramente lo stesso uomo? Egli, il povero, era ricco; egli, l'abbandonato, aveva una famiglia; egli, il disperato, sposava Cosetta. Gli pareva d'aver attraversato una tomba nella quale era entrato nero e ne era uscito bianco, mentre gli altri vi erano rimasti. In certi momenti, tutte le persone del passato, ritornate e presenti, formavano circolo intorno a lui e lo rendevano cupo. Allora pensava a Cosetta e subito si rasserenava. Ma ci voleva solo quella felicità per cancellare quella catastrofe.

Fauchelevent aveva preso posto fra questi esseri svaniti. Mario esitava a credere che il Fauchelevent della barricata fosse quello stesso in carne e ossa, così gravemente seduto accanto alla fanciulla. Il primo era probabilmente uno di quegli incubi recati e portati via dalle sue ore di delirio. Del resto, la stessa diversità dei loro caratteri rendeva impossibile qualunque interrogazione da parte di Mario; non gliene sarebbe venuta neppure l'idea. E' una circostanza caratteristica alla quale abbiamo già accennato.

E' meno raro che non si creda il caso di due uomini che hanno un segreto comune, e che, per una specie di tacito accordo, non si scambiano una parola su quell'argomento. Una sola volta Mario tentò la prova. Fece entrare nella conversazione la via Chanvrerie, quindi, volgendosi a Fauchelevent, gli disse:

- Conoscete quella via?

- Quale?

- La via Chanvrerie?

- Non ho nessuna idea del nome di quella via - rispose il signor Fauchelevent col tono più naturale del mondo.

La risposta, che riguardava il nome della via anziché la via stessa, parve a Mario più concludente di quanto non fosse in realtà.

Certamente - pensò - ho sognato, ho avuto un'allucinazione. Era qualcuno che gli somigliava, ma il signor Fauchelevent non c'era.




8. DUE UOMINI CHE NON SI POSSONO RITROVARE


Per quanto vivo, l'incantamento non cancellò dalla mente di Mario altre preoccupazioni.

Mentre attendeva l'epoca fissata per le nozze, che si andavano preparando, egli fece fare alcune scrupolose e difficili indagini sul passato.

Aveva un debito di gratitudine da più parti; ne doveva per suo padre e per sé. C'era Thénardier; c'era lo sconosciuto che aveva portato lui, Mario, in casa di Gillenormand. Egli ci teneva a ritrovare questi due uomini. Non intendeva ammogliarsi, essere felice e dimenticarli, temendo che quei debiti sacri, non soddisfatti, gettassero un'ombra sulla sua esistenza, la quale ora gli si offriva così luminosa. Gli pareva impossibile lasciarsi dietro tutto quel passato di sofferenza, e, prima d'entrare allegramente nell'avvenire, voleva aver saldato il conto col passato.

Che Thénardier fosse uno scellerato, questo non menomava in nulla il fatto di aver salvato la vita al colonnello Pontmercy.

Thénardier era un bandito per tutti, meno per lui.

Ignorando la vera scena di battaglia a Waterloo, Mario ignorava che suo padre si trovava di fronte a Thénardier nella strana situazione di dovergli la vita, senza dovergli alcuna riconoscenza.

Nessuno degli agenti impiegati da Mario giunse a scoprire la traccia di Thénardier. Da quel lato la scomparsa sembrava completa. La Thénardier era morta in prigione durante l'istruttoria del processo; Thénardier e la figlia Azelma, i due soli che restassero di quel deplorevole gruppo, si erano immersi di nuovo nell'ombra. Il gorgo dell'Ignoto sociale s'era richiuso silenziosamente su quegli esseri, e non si vedeva neppure alla superficie quel fremito, quel tremolio, quegli oscuri circoli concentrici i quali annunciano che qualche cosa è caduta in quel punto e che si può gettarvi lo scandaglio.

Morta la Thénardier, Boulatruelle messo fuori causa, Claquesous sparito, i principali accusati evasi di prigione, il processo dell'agguato nella topaia Gorbeau era quasi sfumato. La faccenda era rimasta abbastanza oscura. Il banco degli accusati aveva dovuto contentarsi di due subalterni, Panchaud detto Printanier, detto Bigrenaille, e Demi-Liard soprannominato Deux Milliards, condannato a dieci anni di galera. Contro i loro complici evasi e contumaci era stata pronunciata la pena dei lavori forzati a vita, e contro Thénardier, capo e organizzatore del delitto e anche contumace, quella di morte. Tale condanna era la sola cosa che rimanesse di quell'uomo, e gettava una luce sinistra su quel nome sepolto, come una candela sopra un feretro.

Del resto, sospingendo Thénardier nei più profondi nascondigli per il timore di essere ripreso, quella condanna accresceva le tenebre fitte che coprivano quell'uomo.

Quanto all'altro, all'uomo ignoto che aveva salvato Mario, le ricerche dettero dapprima qualche frutto, poi si fermarono a un tratto. Si riuscì a rintracciare la vettura che la sera del 6 giugno aveva trasportato Mario nella via Figlie del Calvario. Il cocchiere dichiarò che quel giorno egli era rimasto a disposizione d'un agente di polizia, dalle tre pomeridiane fino a notte sulla riva dei Campi Elisi al di sopra dello sbocco della Grande Fogna; che verso le nove di sera, il cancello della fogna che dà sull'argine del fiume si era aperto; ne era uscito un uomo portandone sulle spalle un altro che sembrava morto; l'agente, rimasto in osservazione su quel punto, aveva arrestato il vivo e sequestrato il morto; per ordine dell'agente, il cocchiere, aveva ricevuto "tutta quella gente" nella sua vettura; si erano prima recati in via Figlie del Calvario, dove avevano deposto il morto; quel morto era il signor Mario, e lui, il cocchiere, lo riconosceva benissimo benché "questa volta" fosse vivo, dopo erano risaliti nella sua vettura ed egli aveva sferzato i cavalli; a qualche passo dalla porta degli Archivi lo avevano fatto fermare, e là nella via l'avevano pagato e lasciato; l'agente aveva condotto via l'altro uomo; non sapeva nulla di più, inoltre la notte era molto buia.

Mario, come abbiamo detto, non si ricordava di nulla, ricordava soltanto di essere stato afferrato per di dietro nella barricata da una mano robusta nel momento in cui cadeva rovescio; poi tutto era svanito e non aveva ripreso i sensi se non in casa di Gillenormand.

Si perdeva in congetture.

Non poteva dubitare della propria identità.

Eppure, come era avvenuto che, caduto in via Chanvrerie, fosse stato raccolto da un agente di polizia, sull'argine della Senna vicino al ponte degli Invalidi? qualcuno l'aveva portato dal quartiere dei Mercati sino ai Campi Elisi. E come? attraverso la cloaca. Abnegazione inaudita!

Qualcuno? Chi?

Era l'uomo che Mario cercava.

Di quest'uomo, che era il suo salvatore, nulla, nessuna traccia, neppure il minimo indizio.

Quantunque obbligato a una grande riserva, Mario spinse le sue ricerche fino alla prefettura di polizia; ma là le informazioni non approdarono a nulla. La polizia ne sapeva meno del vetturino; non si sapeva di nessun arresto operato il 6 giugno al cancello della Grande Fogna; non era pervenuto nessun rapporto intorno a quel fatto, che dalla prefettura era considerato come una favola.

Se ne attribuiva l'invenzione al cocchiere, giacché i cocchieri per avere una mancia sono capaci di tutto, anche di inventare.

Eppure il fatto era certo e Mario non ne poteva dubitare a meno che non mettesse in dubbio, come abbiamo detto, la propria identità.

Tutto era inesplicabile in quello strano enigma.

Che ne era successo di quell'uomo, dell'uomo misterioso che il cocchiere aveva visto uscire dal cancello della Grande Fogna portando sulle spalle Mario svenuto, e che l'agente di polizia in agguato aveva arrestato in flagrante delitto di salvataggio d'un insorto? e che ne era stato dell'agente stesso? perché quell'agente aveva taciuto? l'uomo era forse riuscito a fuggire?

aveva corrotto l'agente? perché quell'uomo si era eclissato agli occhi di Mario che gli doveva tutto? Il disinteresse non era minore dell'abnegazione. Perché quell'uomo non ricompariva? Forse egli era superiore a ogni ricompensa, ma nessuno è superiore alla gratitudine. Era morto? e chi era? che viso aveva? Nessuno sapeva dirglielo. Il cocchiere rispondeva: "la notte era molto buia"; Basco e Nicoletta, sbalorditi, avevano badato soltanto al loro giovane padrone tutto sanguinante; il portinaio, la cui candela aveva illuminato il tragico arrivo di Mario, era il solo che avesse notato quell'uomo, ed ecco i connotati che ne dava:

"Quell'uomo era spaventevole".

Nella speranza di ricavarne qualcosa per le sue indagini, Mario fece conservare i vestiti intrisi di sangue, che aveva indosso quando l'avevano portato in casa del nonno. Nell'esaminare il soprabito s'accorse che una delle falde era lacerata in modo strano: ne mancava un pezzo.

Una sera Mario parlava, davanti a Cosetta e a Valjean, di tutta quella strana avventura, delle innumerevoli informazioni assunte e dell'inutilità dei suoi sforzi. Il viso freddo del "signor Fauchelevent" lo impazientiva: con una vivacità che aveva quasi le vibrazioni della collera, esclamò:

- Sì, quell'uomo, chiunque sia, fu sublime. Sapete cosa fece, signore? Intervenne come l'arcangelo. Dovette scagliarsi in mezzo alla battaglia, nascondermi, aprire la fogna, trascinarmi in essa, e portarmi attraverso di essa! Dovette percorrere più di una lega e mezzo tra orribili gallerie sotterranee, curvato, piegato, nelle tenebre, nella cloaca; più di una lega e mezzo, signore, con un cadavere sulle spalle! E a che scopo? Con l'unico scopo di salvare quel cadavere. E quel cadavere sono io. Egli pensò: qui c'è forse ancora un barlume di vita, e io voglio arrischiare la mia esistenza per questa miserabile scintilla. E la sua esistenza l'ha arrischiata non una volta, ma venti. Ogni passo era un pericolo; e lo prova il fatto che uscendo dalla fogna fu arrestato. Sapete, signore, che quell'uomo ha fatto tutto ciò? E non poteva sperare nessuna ricompensa. Cos'ero io? un insorto. Cos'ero? un vinto. Oh!

se i seicentomila franchi di Cosetta fossero miei...

- Sono vostri - interruppe Valjean.

- Ebbene - riprese Mario - io li darei per ritrovare quell'uomo.

Valjean tacque.




Libro 6


NOTTE BIANCA



1. IL 16 FEBBRAIO 1833


La notte dal 16 al 17 febbraio fu una notte benedetta; al di là del suo velo d'ombra il cielo si aprì sopra di lei. Fu la notte delle nozze di Mario e Cosetta.

La giornata era stata bellissima.

Non era stata la festa azzurra sognata dal nonno, una fantasmagoria con una confusione di cherubini e di cupìdi sopra la testa degli sposi, un matrimonio degno di figurare nei disegni d'una tappezzeria; ma era riuscita commovente e gioconda.

La moda delle nozze nel 1833 non era quella di oggi. Allora la Francia non aveva ancora preso a prestito dall'Inghilterra la delicatezza suprema di rapire la propria sposa, di fuggire via uscendo dalla chiesa, di nascondere vergognosi la propria felicità, e di amalgamare un contegno da bancarottiere con le estasi del Cantico dei Cantici. Non si era ancora compreso quanta castità, quanta squisitezza e decenza c'era nel far trabalzare il proprio paradiso in una carrozza postale, intercalare al proprio mistero le schioccate di frusta, prendere per letto nuziale un letto d'albergo, e lasciarsi indietro, in un'alcova volgare a tanta notte, il più sacro ricordo della vita, misto e confuso ai convegni dei postiglioni con le fantesche d'albergo.

In questa seconda metà del secolo diciannovesimo in cui ci troviamo, il sindaco e la sua sciarpa, il sacerdote e la sua pianeta, la legge e Dio non bastano più; a completarli ci vuole il postiglione di Longjumeau, l'abito turchino con risvolti rossi e i bottoni a campanello, la piastra sull'avambraccio, i calzoni di pelle verde, le bestemmie ai cavalli normanni dalla coda annodata, i galloni finti, il cappello incerato, i grossi capelli impolverati, l'enorme frusta e i robusti stivali. La Francia non spinge ancora la sua eleganza, come la nobiltà inglese, fino a far piovere sulla carrozza postale degli sposi una grandine di pantofole scalcagnate e di vecchie ciabatte, in memoria di Churchill, chiamato più tardi Marlborough o Malbrouck, il quale il giorno in cui sposò fu assalito dalla collera di una zia che gli portò fortuna. Le ciabatte e le pantofole non sono ancora comprese nelle nostre cerimonie nuziali; ma pazientate un poco, e col diffondersi del buon gusto ci si arriverà.

Nel 1833, - sembra siano trascorsi da allora cento anni - , non si facevano le nozze a gran trotto.

In quell'epoca credevano tuttavia, cosa bizzarra, che lo sposalizio fosse una festa intima e sociale, che un banchetto patriarcale non guastasse una solennità domestica, che la gioia, anche eccessiva purché onesta, non facesse male alla felicità, e che infine fosse cosa venerabile e buona che la fusione dei due destini da cui deve scaturire una famiglia cominciasse nella casa, e che l'accordo coniugale avesse a testimonio la camera nuziale. E commettevano l'impudicizia di sposarsi in casa propria!

Le nozze si fecero dunque, seguendo quella moda ora decaduta, in casa Gillenormand.

Per quanto naturale e ordinaria sia questa faccenda del matrimonio, le pubblicazioni, gli atti contrattuali, il municipio, la chiesa riservano sempre qualche complicazione; cosicché non si fu pronti prima del 16 febbraio.

Ora, notiamo questa circostanza per pura soddisfazione di essere esatti, avvenne che il 16 febbraio fosse il martedì grasso, donde esitazioni e scrupoli specialmente da parte della zia Gillenormand.

- Martedì grasso! - esclamò il nonno. - Tanto meglio. C'è un proverbio: "Le nozze di martedì grasso non avranno figli ingrati".

Passiamo oltre! Vada per il 16! Vuoi forse ritardare tu, Mario?

- No di certo! - rispose l'innamorato.

- Sposiamoci dunque! - concluse il vecchio.

Il matrimonio fu quindi celebrato il 16, malgrado la pubblica festa. Pioveva quel giorno; ma c'è sempre in cielo, a disposizione dell'allegria, un piccolo angolo azzurro, che gli amanti sanno scorgere anche se il resto della creazione sta sotto un ombrello.

Il giorno prima, Valjean aveva consegnato a Mario, in presenza del signor Gillenormand, i cinquecentottantaquattromila franchi.

Poiché il matrimonio avveniva in base al regime della comunione dei beni, il contratto era stato semplice.

La Toussaint, diventava ormai inutile a Valjean, fu presa da Cosetta e promossa al grado di cameriera.

Quanto a Valjean, c'era in casa Gillenormand una bella camera ammobiliata espressamente per lui, e Cosetta gli disse in modo così irresistibile: "Papà, ve ne prego", che finì col fargli quasi promettere di andarla a occupare.

Alcuni giorni prima di quello fissato per le nozze, era accaduto un incidente a Valjean: s'era un po' schiacciato il pollice della mano destra. Non era una cosa grave, ed egli non aveva permesso ad alcuno di occuparsene, né di medicargli la ferita né di vederla, neppure a Cosetta; fu però costretto ad avvolgere la mano in un fazzoletto e a portare il braccio al collo; e ciò gli impedì di firmare. Lo supplì Gillenormand in qualità di protutore di Cosetta.

Non condurremo il lettore né al municipio né alla chiesa. Non si seguono gli innamorati fin là, e abbiamo l'abitudine di volgere le spalle al dramma, appena lo sposo s'è messo il mazzolino di fiori all'occhiello. Ci limiteremo a notare un incidente, d'altronde inavvertito dal corteo, che capitò nel tragitto dalla via Figlie del Calvario alla chiesa di San Paolo.

Stavano in quei giorni riattando il lastricato dell'estremità nord di via San Luigi, la quale era sbarrata all'altezza della via del Parco Reale; era quindi impossibile alle carrozze dello sposalizio andare direttamente a San Paolo; bisognava cambiare itinerario, e il più semplice era di girare per il boulevard. Uno degli invitati fece osservare che era martedì grasso e che ci sarebbe stato ingombro di carrozze. - Perché? - domandò il signor Gillenormand.

- A causa delle maschere. - Magnifico! disse il nonno. - Andiamo allora di là. Questi giovani si sposano, stanno per entrare nella parte seria della vita; il vedere un po' di mascherata li preparerà meglio.

Presero per il boulevard. La prima berlina portava Cosetta, la signorina Gillenormand e Valjean; Mario, ancora separato dalla sposa, secondo l'uso, veniva nella seconda. All'uscire dalla via Figlie del Calvario, il corteo nuziale s'accodò alla lunga processione di vetture che formano una eterna catena dalla Maddalena alla Bastiglia e dalla Bastiglia alla Maddalena.

Sul boulevard c'era una folla di maschere; pioveva a intervalli, ma Pagliaccio, Pantalone e Zanni erano ostinati. Nel buonumore di quell'inverno del 1833, Parigi s'era travestita da Venezia. Di quei martedì grassi oggi non se ne vedono più. Tutto ciò che esiste attualmente è un eterno carnevale, e perciò non c'è più carnevale.

I viali laterali rigurgitavano di passanti e le finestre erano piene di curiosi. Le terrazze che coronano i peristili dei teatri erano zeppe di spettatori. Oltre le maschere, essi guardavano quella sfilata, caratteristica nel martedì grasso come Longchamps, di veicoli d'ogni sorta, che procedevano in ordine, l'uno dopo l'altro secondo i regolamenti di polizia e come incassati nelle rotaie. Quanti si trovano in quei veicoli sono nello stesso tempo spettatori e spettacolo. Le guardie di polizia contenevano sui lati del boulevard le due interminabili file parallele e procedenti in senso contrario, e sorvegliavano perché nulla intralciasse la duplice corrente dei due ruscelli di vetture scorrenti l'uno a valle, l'altro a monte, l'uno verso la Chaussée d'Antin, l'altro verso il sobborgo Sant'Antonio. Le carrozze stemmate dei Pari di Francia e degli ambasciatori tenevano il mezzo del corso andando e venendo liberamente, e alcune mascherate splendide e festose, in particolare quella del Bue Grasso, godevano lo stesso privilegio. In quella gaiezza parigina, l'Inghilterra faceva schioccare la sua frusta: la carrozza postale di lord Seymour passava rumorosamente, accompagnata da un nomignolo triviale.

Nella duplice fila, lungo la quale galoppavano le guardie municipali simili a cani da pastore, parecchi cupé privati, ingombri di prozie e di nonni, mettevano in mostra alle portiere freschi gruppi di fanciulli mascherati, pierrot di sette anni, pierrot di sei, vezzose creaturine che sentivano di partecipare alla pubblica allegrezza, e, compenetrate dalla dignità del loro travestimento, avevano una gravità da funzionari.

Ogni tanto sopravveniva un inciampo alla circolazione delle carrozze e l'una e l'altra fila laterale s'arrestavano sino a che non fosse sciolto l'ingorgo. La fermata di un solo veicolo bastava a paralizzare tutta la catena. Poi si rimettevano in cammino.

Le carrozze del corteo nuziale si trovavano nella fila che procedeva verso la Bastiglia e costeggiavano il lato destro del boulevard. All'altezza di via Pont-aux-Choux ci fu una fermata, e quasi contemporaneamente si fermò pure l'altra fila rivolta verso la Maddalena. In quel punto dell'altra fila c'era una vettura di maschere.

Queste vetture, o per dir meglio queste carrettate di maschere sono ben conosciute dai parigini, i quali se le vedessero mancare a un martedì grasso o a una mezza quaresima, si metterebbero in sospetto e direbbero: "C'è sotto qualche cosa. Probabilmente si sta per cambiare il Ministero". Un'accozzaglia di Cassandre, di Arlecchini e di Colombine trabalzava al di sopra dei passanti; tutti i grotteschi possibili, dal trucco al selvaggio; degli ercoli che sostenevano delle marchese; delle pescivendole che farebbero turare le orecchie a Rabelais come le menadi facevano abbassare gli occhi ad Aristofane; parrucche di stoppa; maglie rosse; cappelli da bellimbusto; occhiali da buffone; tricorni di Janot con una farfalla; grida lanciate ai pedoni; pugni sulle anche; pose ardite; spalle nude; volti mascherati; impudicizie sfrenate; un caos di sfrontatezze guidato da un cocchiere coronato di fiori: ecco cos'era quella festa.

La Grecia aveva bisogno del carro di Tespi, la Francia ha bisogno della vettura di Vadé.

Tutto può essere parodiato, anche la parodia. ll saturnale, questa caricatura della bellezza antica, va sempre più crescendo, quando è il martedì grasso. E il baccanale, una volta coronato di pampini, inondato di sole, che mostrava dei seni di marmo in una seminudità divina, oggi, rammollito sotto i cenci umidi del nord, finisce col chiamarsi mascherata.

La tradizione delle scarrozzate di maschere risale ai vecchi tempi della monarchia. Nei conti di Luigi Undicesimo figura la somma di "venti soldi tornesi", accordata al balivo del palazzo "per tre carri di mascherate nei crocicchi". Ai tempi nostri, questi mucchi di persone rumorose si fanno trasportare da qualche vecchia carrozza di cui ingombrano l'imperiale, oppure schiacciano col loro gruppo tumultuoso qualche landò dell'amministrazione di cui rovesciano i mantici. Salgono in venti in una vettura a sei posti, si cacciano sulla cassetta del cocchiere, sugli sportelli, sul mantice, sul timone; se ne vedono persino a cavalcione dei fanali.

Sono in piedi, seduti, sdraiati, accovacciati, con le gambe penzoloni; le donne stanno sulle ginocchia degli uomini; e da lontano si vede la loro forsennata piramide sul formicolio delle teste. Queste carrozze formano montagne d'allegria in mezzo alla folla, e da esse derivano Collé, Panard, Piron, ricchi di gergo.

Di là si sputa sul popolo il catechismo dei trivi. Quella vettura, resa smisurata dal carico, ha un'aria di conquista; il frastuono la precede e la confusione la segue. Vociferano, cantano, urlano, strepitano, si sbellicano dalle risa; l'allegria rugge, il sarcasmo scintilla, la giovialità si dispiega come una porpora; due rozze trascinano la farsa divenuta apoteosi: è il carro trionfale del Riso.

Riso troppo cinico per essere sincero. E' infatti un riso sospetto; ha una missione; è incaricato di dimostrare ai parigini l'esistenza del carnevale.

Quelle mascherate triviali, in cui si avvertono non so quali tenebre, rendono pensoso il filosofo. Là dentro c'è la mano del governo; è evidente che c'è un'affinità misteriosa fra gli uomini pubblici e le donne pubbliche.

Che le turpitudini sommate tra loro producano un totale d'allegria; che sovrapponendo l'ignominia all'obbrobrio si possa allettare il popolo; che lo spionaggio messo a cariatide della prostituzione diverta la turba affrontandola; che alla folla piaccia veder passare sulle quattro ruote d'una vettura quel mostruoso mucchio vivente, quel cencioso orpello, miscuglio di lordure e di luce, abbaiante e cantante; che si battano le mani a quella gloria composta di tutte le vergogne; che non ci sia festa per la moltitudine senza che la polizia conduca a spasso, in mezzo a essa, quella specie di idre della gioia dalle venti teste, certamente è una triste cosa. Ma che farci? Quelle carrettate di fango adorne di nastri e di fiori sono insultate e amnistiate dal riso pubblico. La risata di tutti è complice della degradazione universale. Certe feste malsane disgregano il popolo e lo trasformano in plebe; e alla plebe come ai tiranni occorrono i buffoni. Il re ha Roquelaure, il volgo ha Pagliaccio. Parigi è la grande città folle, quando non è la grande città sublime. Il carnevale fa parte della politica. Parigi, dobbiamo confessarlo, accetta volentieri il comico anche dall'infanzia; e ai suoi padroni - quando ne ha - chiede una cosa sola, che le venga imbellettato il fango. Roma aveva gli stessi gusti, e amava Nerone perché era un titanico istrione.

Come abbiamo detto, volle il caso che uno di quei deformi grappoli di donne e di uomini mascherati, trascinato da un ampio calesse, si fermasse sulla sinistra del boulevard, mentre il corteo nuziale si fermava sulla destra. Da un lato all'altro del boulevard, le maschere della vettura scorsero la carrozza della sposa.

- Toh! uno sposalizio, - disse una maschera.

- Uno sposalizio finto - riprese un'altra. - Il vero lo facciamo noi.

Ma trovandosi troppo lontano per interpellare il corteo, e temendo il richiamo delle guardie, le due maschere volsero gli occhi altrove.

Un momento dopo tutta la carrozzata delle maschere ebbe un gran da fare, perché la folla si mise a urlare, solita carezza della folla alle maschere. I due che avevano parlato dovettero unirsi ai compagni per far fronte a tutti, e non furono soverchie le munizioni del repertorio dei Mercati per rispondere alle enormi insolenze del popolo. Ne derivò tra le maschere e la moltitudine uno spaventoso scambio di metafore.

Frattanto altre due maschere della stessa vettura, uno spagnolo dal naso smisurato con un'aria vecchiotta e due enormi baffi neri, e una pescivendola, magra, giovanissima, con la mascherina, avevano notato anch'essi il corteo nuziale, e mentre i compagni scambiavano insulti con i passanti parlavano tra loro sottovoce.

Il loro dialogo a quattr'occhi era coperto dal tumulto, in cui si perdeva. Gli spruzzi di pioggia avevano bagnato la vettura tutta aperta; il vento di febbraio non è caldo, e perciò la pescivendola scollacciata, pur rispondendo allo spagnolo, tremava, rideva e tossiva.

Ecco il dialogo:

- Di' su, dunque.

- Cosa, babbino?

- Vedi quel vecchio?

- Quale?

- Là nella prima carrozza dello sposalizio, dalla parte nostra.

- Quello che porta il braccio appeso al collo con un fazzoletto nero?

- Sì.

- Ebbene?

- Sono sicuro di conoscerlo. Mi dovrebbero tagliare la testa se non conosco quel parigino!

- Oggi sì che Parigi è veramente Parigi!

- Puoi vedere la sposa chinandoti un poco?

- No.

- E lo sposo?

- Non c'è posto in questa carrozza.

- Eh via!

- A meno che non sia l'altro vecchio.

- Cerca, chinandoti bene, di vedere la sposa.

- Non posso.

- A ogni modo, quel vecchio che ha qualcosa alla zampa sono sicuro di conoscerlo.

- E cosa ti serve conoscerlo?

- Non si sa mai. Alle volte.

- Me ne infischio dei vecchi, io.

- Lo conosco.

- Conoscilo pure quanto ti piace.

- Come diavolo fa a trovarsi alle nozze?

- E noi, non ci siamo?

- Di dove viene, quel corteo?

- Che ne so io?

- Ascolta.

- Cosa c'è?

- Dovresti fare una cosa.

- Quale?

- Scendere dalla nostra carrozza e pedinare quella comitiva.

- Per fare che?

- Per sapere dove vanno e chi sono. Affrettati a scendere, corri fatina mia, tu che sei giovane.

- Ma io non posso lasciare la vettura.

- Perché?

- Perché sono pagata per stare qui.

- Ah diavolo!

- Devo alla prefettura di polizia l'intera giornata di pescivendola.

- E' vero.

- Se m'allontano dalla carrozza, il mio ispettore che mi vede m'arresta; lo sai bene.

- Sì, lo so.

- Per oggi sono pagata dal governo.

- Non importa, quel vecchio mi secca.

- I vecchi ti seccano; eppure non sei una ragazza, tu.

- Lui sta nella prima carrozza.

- Ebbene?

- In quella della sposa.

- E così?

- Dunque è il padre.

- Cosa me ne importa?

- Ti dico che è il padre.

- Non c'è quello solo, di padri.

- Ascolta.

- Cosa?

- Io non posso uscire che mascherato. Qui mi trovo nascosto, non sanno chi sono. Ma domani non ci saranno più maschere: è il mercoledì delle ceneri; rischio di essere preso. Bisogna che rientri nel mio buco. Tu invece sei libera.

- Non troppo.

- Sempre più di me.

- Ebbene, e poi?

- Devi cercare di sapere dove va quel corteo nuziale.

- Dove va?

- Sì.

- Lo so.

- Dove va?

- Al Cadran-Bleu.

- Prima di tutto non è da quella parte.

- Ebbene! alla Rapée. O altrove. Un corteo nuziale è libero. Le nozze sono libere.

- Non si tratta di questo. Ti dico, è necessario che tu mi faccia sapere cos'è quello sposalizio a cui prende parte quel vecchio, e dove stanno di casa gli sposi.

- Stai fresco! Questa sì che è curiosa. Come se fosse una cosa facile ritrovare, otto giorni dopo, uno sposalizio che è passato per le vie di Parigi il martedì grasso. Una spilla in un fienile!

Ma è possibile?

- Non importa, bisogna tentare. Capisci, Azelma?

Le due file ripresero, ai due lati del boulevard, il loro cammino in senso inverso, e la vettura delle maschere perse di vista la carrozza della sposa.




2. VALJEAN CONTINUA A PORTARE IL BRACCIO AL COLLO


Chi può realizzare il proprio sogno? Ci devono essere per questo delle elezioni in cielo. Noi tutti, a nostra insaputa, siamo candidati, e gli angeli votano. Cosetta e Mario sono stati eletti.

Tanto in municipio quanto in chiesa, Cosetta fu splendida e commovente. L'aveva abbigliata la Toussaint, con l'aiuto di Nicoletta.

Portava, su una gonna di taffetà bianco, la sua veste di merletto di Binche, un velo di pizzo inglese, una collana di perle fine e una corona di fiori d'arancio; tutto era bianco, e in mezzo a quel candore lei era radiosa. Era un candore squisito che si diffondeva e si trasfigurava in luce; pareva una vergine che si stesse mutando in dea.

I bei capelli di Mario erano lucidi e profumati; ma sotto le folte ciocche s'intravedevano qua e là delle linee pallide, che erano le cicatrici della barricata.

Il nonno, superbo, a testa alta, riunendo più che mai nella sua toletta e nelle sue maniere tutte le eleganze dei tempi di Barras, conduceva la sposa, tenendo le veci di Valjean, il quale, a causa del braccio al collo, non poteva darle una mano.

Valjean, vestito di nero, seguiva sorridendo.

- Signor Fauchelevent - gli disse il nonno - ecco una bella giornata. Io voto per la fine delle afflizioni e dei dispiaceri.

Bisogna che d'ora in poi non ci sia più tristezza, in nessun luogo. Perbacco! io decreto la gioia. Il male non ha più diritto di esistere. In verità, è vergognoso, per l'azzurro del cielo, che ci siano degli uomini infelici. Il male però non viene dall'uomo, che in fondo è buono; tutte le miserie hanno per capoluogo e per governo centrale l'inferno, altrimenti detto le Tuileries del diavolo. Bene, ecco che adesso mi sfuggono delle frasi demagogiche. Dal canto mio non ho più opinioni politiche; che tutti gli uomini siano ricchi, ossia allegri, ecco di che mi contento.

Quando, compiute le cerimonie, pronunciati tutti i sì possibili dinanzi al sindaco e dinanzi al prete, firmato il registro del municipio e quello della sacrestia, scambiati gli anelli, dopo essere stati in ginocchio, l'uno accanto all'altra sotto il velo nuziale di moerro bianco, in mezzo al fumo dell'incenso, quando, tenendosi per mano, ammirati e invidiati da tutti, Mario in nero e lei in bianco, preceduti dallo svizzero con le spalline di colonnello che batteva l'alabarda sul pavimento, fra due ali di curiosi meravigliati, giunsero sotto la porta maggiore della chiesa aperta a due battenti, e mentre era sul punto di risalire in carrozza e tutto era finito, Cosetta non poteva crederci ancora. Guardava Mario, la folla, il cielo, e pareva temesse di svegliarsi. La sua aria stupita e inquieta le aggiungeva qualche cosa di incantevole. Al ritorno, salirono insieme nella prima carrozza, l'uno accanto all'altra, mentre Gillenormand e Valjean sedettero dirimpetto. La zia, indietreggiando di un posto, si trovava nella seconda.

- Figlioli miei - disse il nonno - eccovi diventati il signor barone e la signora baronessa con trentamila franchi di rendita.- E Cosetta chinandosi verso Mario, gli accarezzò l'orecchio con questo angelico sussurro: - E' dunque vero; io mi chiamo Mario, sono la signora Te.

Queste due creature erano raggianti. Erano nel minuto irrevocabile e irreperibile, nell'abbagliante punto di intersezione di tutta la giovinezza e di tutta la gioia. Realizzavano il verso di Giovanni Prouvaire: tra tutti e due non formavano quarant'anni. Era il matrimonio sublimato; quei due ragazzi erano due gigli. Non si guardavano, si contemplavano; Cosetta scorgeva Mario in una gloria, Mario scorgeva Cosetta sopra un altare. E su quell'altare e in quella gloria, unendosi le due apoteosi, nel fondo, non si sa come, dietro una nube per Cosetta, in un fiammeggiamento per Mario, c'era la cosa reale e ideale, il ritrovo del bacio e del sogno, il guanciale di nozze.

Tutti i tormenti patiti erano restituiti in ebbrezza; pareva che i dolori, le insonnie, le lacrime, le angosce, gli spaventi, le disperazioni, divenuti carezze e raggi, rendessero ancora più incantevole l'ora incantevole che si avvicinava; e che le tristezze fossero divenute tante ancelle che attendessero alla toletta della gioia. Che ottima cosa aver sofferto! La passata sventura formava un'aureola alla presente felicità; la lunga agonia del loro amore metteva capo a un'ascensione.

C'era in quelle due anime il medesimo incanto, con una sfumatura di voluttà in Mario, di pudore in Cosetta. Si ripetevano sottovoce: "Andremo a rivedere il nostro giardinetto di via Plumet"; le pieghe dell'abito della sposa posavano sul giovane.

Una simile giornata è un'ineffabile miscela di sogno e di certezza. Si possiede e si suppone: si ha ancora del tempo davanti per indovinare. E' un'indicibile emozione, quel giorno, essere a mezzogiorno e pensare a mezzanotte. Le delizie di quei due cuori traboccavano sulla folla e ispiravano l'allegrezza nei passanti.

La gente si fermava sulla via Sant'Antonio, dinanzi alla chiesa di San Paolo, per vedere attraverso i vetri della carrozza tremolare i fiori d'arancio sulla testa di Cosetta.

Poi tornarono in via Figlie del Calvario, a casa loro. Mario, al fianco di Cosetta, salì, trionfante e radioso, quella scala su cui l'avevano trasportato morente. I poveri, raggruppati davanti alla porta, dividendosi il contenuto delle loro borse, li benedicevano.

Fiori da per tutto; la casa non era meno profumata della chiesa; dopo l'incenso le rose. Sembrava loro d'udire delle voci che cantassero sull'infinito; avevano Dio nel cuore; il destino appariva loro come un cielo stellato e vedevano sopra di sé una luce di sole nascente. A un tratto l'orologio suonò. Mario guardò il bel braccio nudo di Cosetta e le rosee bellezze che trasparivano vagamente attraverso i pizzi del corpetto; e Cosetta, vedendo lo sguardo di Mario, arrossì sino al bianco degli occhi.

Erano stati invitati molti vecchi amici della famiglia Gillenormand, i quali circondavano premurosamente la sposa, e facevano a gara nel chiamarla signora baronessa.

L'ufficiale Teodulo Gillenormand, ora capitano, era venuto da Chartres, dove si trovava di guarnigione, per assistere al matrimonio del cugino Pontmercy. Cosetta non lo riconobbe.

Egli dal canto suo, avvezzo com'era a piacere alle donne, non si ricordò di Cosetta più che di qualsiasi altra.

- Come ebbi ragione di non prestar fede a quella storia del lanciere! - disse tra sé il vecchio Gillenormand.

Cosetta non era mai stata più tenera con Valjean. Essa era all'unisono col nonno; mentre questi esprimeva la sua gioia in aforismi e sentenze, lei esalava l'amore e la bontà come un profumo. La felicità vuole tutti felici.

Per parlare con Valjean, ritrovava le inflessioni di voce della sua fanciullezza; lo carezzava col sorriso.

Nella sala da pranzo avevano preparato il banchetto.

Un'illuminazione a giorno è il condimento necessario di una gran gioia. La nebbia e l'oscurità non sono accettate dalla gente felice, la quale non acconsente a esser nera; la notte sì, le tenebre no. Se non c'è il sole, è necessario crearne uno.

La sala da pranzo era una fornace di cose giulive. Nel centro, al di sopra della tavola bianca e splendida, un lampadario di Venezia a lamine piatte, con ogni sorta d'uccelli d'ogni colore, bianchi, violacei, rossi, verdi, appollaiati in mezzo alle candele; intorno al lampadario le candele e lungo le pareti dei doppieri a sfera con tre o cinque bracci; specchi, cristalli, vetri, vasi, porcellane, maioliche, terraglie, ori, argenterie, ogni cosa brillava e si rallegrava. Gli intervalli fra i candelabri erano riempiti da mazzi di fiori; così che dove non c'era una luce c'era un fiore.

In anticamera, tre violini e un flauto suonavano in sordina dei quartetti di Haydn.

Valjean s'era seduto su una sedia nel salotto, accanto alla porta, il cui battente si ripiegava su di lui in modo quasi da nasconderlo. Pochi minuti prima di mettersi a tavola, Cosetta andò, come per capriccio, a fargli una gran riverenza spiegando a due mani la sua toletta di sposa, e con uno sguardo affettuosamente malizioso gli chiese:

- Papà, siete contento?

- Sì, - disse Valjean - sono contento.

- Ebbene, ridete allora.

E Valjean si mise a ridere.

Pochi minuti dopo, Basco annunciò che il pranzo era servito. I convitati, preceduti da Gillenormand che dava il braccio a Cosetta, entrarono nella sala da pranzo e si sparsero intorno alla mensa nell'ordine stabilito.

Due seggioloni a braccioli, collocati a destra e a sinistra della sposa, erano destinati, l'uno al signor Gillenormand e l'altro a Valjean. Il primo fu occupato, l'altro rimase vuoto.

Cercarono con l'occhio il "signor Fauchelevent". Non c'era. Il signor Gillenormand interpellò Basco:

- Sai dov'è andato il Fauchelevent?

- Signore - rispose il servo - appunto, il signor Fauchelevent m'ha detto d'avvertire il signore che soffriva un po' per la sua mano malata, e non avrebbe potuto pranzare col signor barone e la signora baronessa. Egli prega di volerlo scusare e dice che ritornerà domattina. E' uscito un momento fa.

Quella poltrona vuota raffreddò un momento la gioia del pranzo nuziale. Ma se il signor Fauchelevent era assente, il signor Gillenormand era presente e splendeva per due. Egli affermò che il signor Fauchelevent faceva bene a coricarsi per tempo, se soffriva, ma si trattava solo d'una "bua". Quella dichiarazione bastò. D'altronde cos'era un punto oscuro in quell'inondazione di gioia? Cosetta e Mario erano in uno di quei momenti egoistici e benedetti, in cui non si ha altra facoltà che quella di percepire la felicità. E poi, il signor Gillenormand ebbe un'idea: - Perbacco! giacché quella poltrona è vuota, occupala tu, Mario. Tua zia te lo permetterà, benché abbia il diritto di tenerti vicino.

Quel posto è per te, è una cosa legale e gentile. Fortunato vicino a Fortunata. - Applauso di tutta la tavola. Mario prese accanto a Cosetta il posto di Valjean; e le cose così si accomodarono in modo che Cosetta, dapprima triste per l'assenza di Valjean, finì con l'esserne contenta. Dal momento che era Mario il sostituto, Cosetta non avrebbe rimpianto neppure Dio. Posò il suo piedino calzato di raso bianco sul piede di Mario.

Occupato il seggiolone, il signor Fauchelevent venne dimenticato; non si avvertì più nessuna mancanza. Cinque minuti dopo, tutta la tavola rideva da un capo all'altro con la vivacità dell'oblio.

Al dessert, il signor Gillenormand in piedi, con un bicchiere di sciampagna in mano, pieno solo a metà perché il tremolio dei suoi novantadue anni non lo facesse traboccare, brindò alla salute degli sposi.

- Non sfuggirete a due sermoni - disse. - Avete avuto stamane quello del parroco, avrete stasera quello del nonno. Ascoltatemi; vi darò un consiglio: adoratevi. Io non faccio tante chiacchiere, vado dritto allo scopo: siate felici. Non ci sono nella creazione altri savi che le tortorelle. I filosofi dicono: moderate le vostre gioie; io dico: rallentate le briglie alle vostre gioie; siate infiammati come tanti diavoli, siate furibondi. I filosofi vaneggiano; vorrei far loro rientrare la filosofia nel gozzo.

Forse che possono esserci troppi profumi, troppi boccioli di rose appena schiusi, troppi usignoli che cantano, troppe foglie verdi, troppa aurora nella vita? è possibile amarsi troppo? è possibile piacere troppo l'uno all'altro? Bada Estella, sei troppo vezzosa.

Bada Nemorino, sei troppo bello! Oh che bella scempiaggine! Forse non è lecito affascinarsi, vezzeggiarsi, ammaliarsi troppo l'un l'altro? Forse che non si può essere troppo vivente, troppo felice? Moderate le vostre gioie. Stai fresco! Abbasso i filosofi.

La saggezza sta nell'allegria. Giubilate, giubiliamo. Siamo felici perché siamo buoni, oppure siamo buoni perché siamo felici? Il Sancy si chiama così perché appartenne ad Harlay de Sancy, o perché pesa centosei carati? Io non lo so; la vita abbonda di simili problemi; l'importante è di avere il Sancy, e la felicità.

Siamo felici senza cavillare; obbediamo ciecamente al sole. Cos'è il sole? E' l'amore; e chi dice amore, dice donna. Ah! Ah! la donna, ecco una vera onnipotenza! Chiedetelo a questo demagogo di Mario se non è schiavo di questa piccola tiranna di Cosetta. E col suo libero consenso, il vile! La donna! Non c'è Robespierre che tenga, la donna regna. Oramai non sono più realista se non di questa regalità. Cos'è Adamo? E' il regno di Eva. Non c'è '89 per Eva. C'era lo scettro reale sormontato da un giglio, c'era lo scettro imperiale sormontato da un globo, quello di Carlomagno che era di ferro, quello di Luigi il Grande che era d'oro; e la rivoluzione li ha torti fra il pollice e l'indice, come festuche di paglia da due centesimi; è finita, sono rotti, sono a terra, non ci sono più scettri. Ma fatemi un po' una rivoluzione contro quella piccola pezzuola ricamata, profumata di patchouli! Vorrei vedervi all'opera; provatevi. Perché è solida? perché è un cencio.

Ah, voi altri siete il secolo diciannovesimo? Ebbene, e perciò?

Noi eravamo il decimottavo, noi! Ed eravamo gonzi al pari di voi altri. Non immaginatevi d'aver mutato gran che dell'universo solo perché la dissenteria ora la chiamate "cholera-morbus", e perché la furlana la chiamate con un nome straniero. In fondo, sarà pur necessario amare le donne. Vi sfido a uscire di qui. Queste diavolesse sono i nostri angeli. Sì, l'amore, la donna, il bacio formano un circolo, da cui vi sfido a uscire, e nel quale dal canto mio vorrei poter rientrare. Chi di voi ha visto sorgere nell'infinito, mentre tutto era calmo intorno a lei, guardando i flutti come una donna, la stella di Venere, la grande maliarda dell'abisso, la Celimene dell'oceano? L'oceano, ecco un rude Alceste; eppure, ha un bel brontolare. Venere appare ed egli deve pur sorridere; il bruto si sottomette. E siamo tutti così.

Collera, procella, fulmini, schiuma fino al soffitto; ma se entra in scena una donna, se spunta una stella, in ginocchio! Sei mesi or sono, Mario si batteva, oggi si sposa. Così va bene. Sì, Mario, sì, Cosetta, avete ragione; vivete arditamente l'uno per l'altro, fatevi delle carezze, fateci crepare di rabbia per non poter fare altrettanto, idolatratevi. Raccogliete con i vostri due becchi tutte le festuche di felicità sparse sulla terra, e formatevene un nido per la vita. Perbacco! amare ed essere amato, che bel miracolo quando si è giovani! Non state a credere di averlo inventato voi. Io pure fantasticai, sognai, sospirai; io pure ebbi il chiaro di luna nell'anima. L'amore e una fanciulla che conta seimila anni, e ha diritto a una lunga barba bianca. Matusalemme è un monello di fronte a Cupido. Da sessanta secoli l'uomo e la donna si tolgono d'impaccio solo con l'amarsi. Il diavolo, che è astuto, si mise a odiare l'uomo, e l'uomo che è ancor più astuto, si mise ad amare la donna, e così ha fatto a se stesso più bene del male che gli ha fatto il diavolo. Tale astuzia risale al paradiso terrestre. Amici miei, l'invenzione è vecchia, ma è ancora nuovissima. Profittatene. Siate Dafni e Cloe, aspettando l'ora d'essere Filemone e Bauci. Quando vi trovate insieme, fate in modo che non vi manchi nulla. Cosetta sia il sole di Mario, Mario sia l'universo di Cosetta. Il sorriso di vostro marito sia per voi, Cosetta, il bel tempo; e le lacrime di tua moglie siano per te, Mario, la pioggia; e non piova mai nella vostra famiglia.

Vi è toccato un buon numero alla lotteria, l'amore nel sacramento; avete vinto il primo premio; custoditelo bene; mettetelo sotto chiave, non lo sciupate, adoratevi, e infischiatevi del resto.

Credete a quanto vi dico; è tutto buon senso, e il buon senso non può mentire. Siate l'uno per l'altro come una religione. Ciascuno ha il suo modo d'adorare Iddio; ma poffare! il migliore è quello d'amare la propria moglie. Io t'amo! ecco il mio catechismo; tutti quelli che amano sono ortodossi. La bestemmia d'Enrico Quarto mette la santità tra la gozzoviglia e l'ubriachezza. La religione di questa bestemmia non è la mia. S'è dimenticata la donna; e questo mi sorprende da parte di Enrico Quarto. Amici, viva la donna! Io sono vecchio, a quanto dicono, ma è strano come mi senta di lena d'essere giovane. Vorrei andare ad ascoltare le zampogne nei boschi. Lo spettacolo di questi figlioli, che riescono a essere belli e contenti, m'inebria. Mi sposerei senz'altro, se qualcuno mi volesse. E' impossibile supporre che Dio ci abbia creati per altro che per questo: idolatrare, tubare, azzimarsi, fare il colombo, fare il galletto, sbaciucchiarsi l'innamorata dalla mattina alla sera, specchiarsi nella propria sposina, essere fiero, essere trionfante, pavoneggiarsi; ecco lo scopo della vita.

Ecco, e non ve ne dispiaccia, ecco come pensavamo noi altri quando eravamo giovani. Ah! per mille bombe! quante belle donne c'erano allora, e leggiadre, sensibili! Anch'io feci le mie conquiste!

Dunque amatevi. Se non dovessimo amarci, davvero non comprenderei a cosa gioverebbe il possedere la primavera, e dal canto mio pregherei il buon Dio di rinchiudere tutte le belle cose che ci porge, di ritogliercele e di rimettere nella sua scatola i fiori, gli uccelli e le belle fanciulle. Figli miei, ricevete la benedizione di un vecchio galantuomo.

La serata trascorse animata, allegra, affettuosa. Il buonumore predominante del nonno diede l'intonazione alla festa, e tutti si regolarono su quella cordialità quasi centenaria. Ballarono un poco, risero molto; fu insomma un bello sposalizio alla buona, a cui avrebbero potuto invitare quel buon nonno che è il Passato:

questi, del resto, era già presente nella persona di papà Gillenormand.

Ci fu tumulto, poi silenzio.

Gli sposi disparvero.

Poco dopo mezzanotte la casa Gillenormand divenne un tempio.

Qui ci fermiamo. Sul limitare delle notti nuziali sta ritto un angelo sorridente, col dito sulla bocca.

L'anima entra in contemplazione dinanzi a quel santuario in cui si celebra l'amore.

Al di sopra di quelle case l'atmosfera dev'essere irradiata di luce; la gioia in esse contenuta deve sfuggire in raggi attraverso le pietre dei muri e rigare vagamente le tenebre. E' impossibile che quella festa sacra e fatale non irradi nell'infinito un celeste splendore. L'amore è il sublime crogiolo in cui s'effettua la fusione dell'uomo con la donna, e da cui esce l'essere uno, l'essere triplice, l'essere finale, la trinità umana. Quella nascita di due anime in una dev'essere un'emozione per l'ombra.

L'amante è un sacerdote; la vergine estasiata si sgomenta. Qualche cosa di quella gioia sale a Dio. Là dove c'è vero matrimonio, vale a dire dove c'è amore, entra l'ideale. Un letto nuziale traccia fra le tenebre un angolo d'aurora. Se alla pupilla di carne fosse dato di scorgere le temute e incantevoli visioni della vita superiore, probabilmente vedremmo le parvenze della notte, gli ignoti aligeri, gli azzurri passanti dell'invisibile, chinarsi, folla di visi oscuri, intorno alla casa luminosa, soddisfatti, benedicenti, additandosi gli uni agli altri la vergine sposa, dolcemente sbigottiti, col riflesso della felicità umana sul loro volto divino. Se in quell'ora suprema gli sposi, ebbri di gioia, stessero a origliare, udrebbero nella loro camera un confuso fruscio d'ali.

La felicità perfetta implica la solidarietà degli angeli. Quel piccolo angolo buio ha per soffitto tutto il cielo. Quando due bocche, consacrate dall'amore, si avvicinano, è impossibile che al di sopra di quell'ineffabile bacio non corra un brivido nell'immenso mistero delle stelle.

Tali felicità sono le vere; non c'è gioia al di fuori di esse.

L'amore, ecco l'unica estasi: tutto il resto piange.

Amare o avere amato, questo basta. Dopo, non chiedete più nulla; non c'è altra perla da trovare nelle pieghe tenebrose della vita.

L'amore è un coronamento.




3. L'INSEPARABILE


Che ne era di Valjean?

Subito dopo aver riso per il gentile comando di Cosetta, e mentre nessuno badava a lui, egli s'era alzato, non visto, e aveva raggiunto l'anticamera. Era la stessa sala in cui, otto mesi prima, era entrato sudicio di fango, di sangue e di polvere, riportando il nipote all'avo. Il vecchio tavolato lungo le pareti era inghirlandato di foglie e di fiori; i musicanti erano seduti sul canapé dove avevano deposto Mario. Basco in abito nero, in calzoni al ginocchio, calze bianche, guanti bianchi, disponeva delle corone di rose intorno a ciascuno dei piatti destinati alla mensa. Valjean, additandogli il braccio appeso al collo, l'aveva incaricato di spiegare la sua assenza ed era uscito.

Le finestre della sala da pranzo davano sulla via. Valjean stette alcuni minuti ritto, immobile nell'oscurità, sotto quelle finestre risplendenti. Ascoltava. Il rumore del banchetto giungeva fino a lui; udiva la parola alta e magistrale del nonno; i violini, il tintinnio dei piatti e dei bicchieri, gli scoppi di risa, e in mezzo a quel gaio rumore distingueva la dolce voce gioconda di Cosetta.

Lasciò la via Figlie del Calvario e s'incamminò verso la via Homme-Armé.

Per tornare a casa, andò per via San Luigi, via Culture-Sainte- Catherine e Blancs-Manteaux. La strada era un po' più lunga, ma era quella che da tre mesi, per evitare gli ingombri e il fango della via Vecchia del Tempio, usava seguire ogni giorno con Cosetta, per andare dalla via Homme-Armé a quella delle Figlie del Calvario.

Il cammino battuto da Cosetta escludeva per lui ogni altro itinerario.

Entrò in casa, accese la candela, e salì le scale. L'appartamento era vuoto, non essendovi più nemmeno la Toussaint. Il suo passo faceva nelle stanze più rumore del solito. Tutti gli armadi erano aperti. Entrò nella camera di Cosetta; non c'erano più lenzuola al letto, e il guanciale senza federe era posato sulle coltri piegate, a pie' dei materassi con le fodere scoperte, sui quali non doveva più coricarsi nessuno.

Tutti i piccoli oggetti femminili a cui Cosetta era affezionata li avevano portati via: non rimanevano che i mobili grossi e le quattro pareti. Anche il letto della Toussaint era sguarnito; uno solo era rifatto e pareva attendesse qualcuno: il suo.

Guardò le pareti, chiuse alcuni sportelli di armadi, e andò avanti e indietro da una stanza all'altra.

Poi si ritrovò nella sua camera, e posò la candela su una tavola.

Aveva liberato il braccio dal fazzoletto, e si serviva della mano destra come se non ne soffrisse.

S'accostò al letto, e i suoi occhi si fermarono, fu caso o intenzione? sull'inseparabile di cui Cosetta era stata gelosa, sulla piccola valigia che non lo abbandonava mai, e che, al suo arrivo nella via Homme-Armé il 4 giugno, aveva collocato sopra un tavolino accanto al capezzale. Mosse verso il tavolino con una certa premura, si tolse di tasca una chiave e aprì la valigia.

Ne trasse fuori lentamente delle vesti con le quali, dieci anni prima, Cosetta aveva lasciato Montfermeil: la vesticciola nera, poi il fazzoletto nero per il collo, poi le robuste scarpe da ragazzo che Cosetta avrebbe quasi potuto calzare ancora, tanto aveva il piede piccino; poi la fascetta di fustagno assai spessa, poi la sottanella a maglia, poi il grembialino con le saccocce, poi le calze di lana, che conservavano tuttavia l'impronta dei graziosi contorni di due piccole gambe, e che non erano più lunghe della mano di Valjean. Tutto in nero. Era stato lui che aveva portato quei vestiti per Cosetta a Montfermeil. A mano a mano che li toglieva dalla valigia, li poneva sul letto. E pensava:

ricordava. Era d'inverno, un dicembre freddissimo; lei tremava mezza nuda nei suoi stracci, coi poveri piedini rossi negli zoccoli; ed egli le aveva fatto lasciare quegli stracci per farle indossare quel vestito di lutto. La madre doveva essere stata contenta nella sua tomba, vedendola portare il suo lutto e soprattutto vedendo che era vestita e stava calda. Pensava a quella foresta di Montfermeil che avevano attraversato insieme, Cosetta e lui; pensava al tempo che faceva, agli alberi senza foglie, al bosco senza uccelli, al cielo senza sole; ma non importa, era un tempo delizioso. Allineò sul letto le piccole spoglie, la pezzuola accanto alla gonnella, le calze vicino alle scarpe, la fascetta accanto alla veste, e guardò tutto l'insieme.

Lei era alta appena così, portava fra le braccia la sua grande bambola, aveva il luigi d'oro nella taschina del grembiule, e rideva, e camminavano tutti e due tenendosi per mano, ed essa aveva lui solo al mondo.

Allora la sua veneranda testa canuta cadde sul letto, il suo vecchio cuore stoico si spezzò, il suo volto si sprofondò per così dire fra le vesti di Cosetta, e se qualcuno fosse passato per la scala, avrebbe udito dei singhiozzi spaventosi.




4. "IMMORTALE JECUR"


L'antica formidabile lotta, di cui abbiamo già visto parecchie fasi, ricominciò.

Giacobbe lottò una notte con l'angelo. Ohimé! quante volte invece abbiamo visto Valjean, lottare a corpo a corpo nelle tenebre con la sua coscienza, lottare disperatamente!

Lotta inaudita! In certi momenti, e il piede che scivola; in certi altri, è il terreno che manca. Quante volte, quella coscienza, forsennata per il bene, non lo aveva stretto e abbattuto! Quante volte la verità, inesorabile, gli aveva messo il ginocchio sul petto! Quante volte, atterrato dalla luce, le aveva chiesto grazie! Quante volte quella luce implacabile, accesa in lui e su lui dal Vescovo, lo aveva abbagliato violentemente, mentre desiderava essere cieco! Quante volte s'era rialzato nel combattimento, afferrandosi alla roccia, abbassandosi al sofisma, trascinandosi nella polvere, ora rovesciando sotto di sé la coscienza, ora rovesciato da lei! Quante volte, dopo un equivoco, dopo un'argomentazione ingannatrice e speciosa dell'egoismo, aveva udito la coscienza sdegnata gridargli all'orecchio: miserabile!

Quante volte il suo pensiero refrattario aveva rantolato convulsamente sotto l'evidenza del dovere! Resistenza a Dio.

Funebri sudori. Quante scorticature nella sua misera esistenza!

Quante volte s'era rialzato, sanguinante, ammaccato, spezzato, illuminato, con la disperazione nel cuore e la serenità nell'anima, vinto, ma sentendosi vincitore! E dopo averlo slogato, attanagliato e rotto, la sua coscienza, ritta sopra di lui, terribile, luminosa, tranquilla, gli diceva: - Ora, va' in pace!

Ma, uscendo da una lotta così cupa, ohimé, che lugubre pace!

Tuttavia, Valjean sentì che ingaggiava quella notte la sua ultima battaglia. Gli si presentava un quesito straziante.

Le predestinazioni non sono tutte diritte, non si svolgono in un viale rettilineo dinanzi al predestinato, ma hanno degli angiporti, dei vicoli ciechi, delle svolte oscure, dei crocicchi allarmanti che offrono parecchie strade. In quel momento Valjean faceva sosta nel più pericoloso di quei crocicchi.

Era giunto al supremo incrocio del bene e del male. Questa tenebrosa intersezione gli stava sotto gli occhi. Anche questa volta, come gli era già accaduto in altre dolorose peripezie, gli si aprivano due vie: una attraente, l'altra spaventosa. Quale scegliere?

Quella che lo atterriva gli era sconsigliata dal misterioso dito indicatore che scorgiamo ogni qual volta fissiamo nostri occhi nell'ombra.

Ancora una volta Valjean doveva scegliere fra il porto tremendo e l'insidia sorridente.

Il quesito che gli si presentava era questo:

Come si sarebbe comportato in presenza della felicità di Cosetta e di Mario? Quella felicità voluta da lui, era stata formata da lui; se l'era immersa egli stesso nelle viscere, e ormai nell'esaminarla poteva provare la soddisfazione di un armaiolo che riconosca la sua marca di fabbrica su un coltello, strappandoselo fumante dal petto.

Cosetta aveva Mario, Mario possedeva Cosetta; essi avevano tutto, fin la ricchezza: ed era opera sua.

Ma ora che quella felicità esisteva, che era là, che cosa ne avrebbe fatto lui, Valjean? Doveva imporsi a essa, trattarla come cosa di sua pertinenza? Senza dubbio, Cosetta apparteneva a un altro; ma doveva egli riservarsi tutto quello che poteva, rimanere quella specie di padre, veduto appena ma rispettato, che era stato? Doveva introdursi tranquillamente nella casa degli sposi, aggiungere, senza fiatare, il suo passato a quell'avvenire? Doveva presentarsi là come chi ne abbia diritto, e andarsi a sedere, velato, a quel luminoso focolare? Doveva stringere, sorridendo, nelle sue tragiche mani, quelle mani innocenti? Posare sui pacifici alari del salotto Gillenormand i suoi piedi, che si trascinavano dietro l'ombra infamante della legge? Far partecipare ai suoi rischi Cosetta e Mario? Addensare l'oscurità sulla propria fronte, e la nube sulle loro? Associare la sua catastrofe alle loro due felicità? Continuare a tacere? In una parola, doveva egli essere, accanto a quelle due creature felici, il sinistro muto del destino?

Bisogna essere abituati alla fatalità e ai suoi scontri per osare alzare gli occhi quando certe questioni ci appaiono nella loro orribile nudità. Dietro a quel severo punto interrogativo c'è il bene o il male. Che fare? domanda la sfinge.

Quell'abitudine alla lotta, Valjean la possedeva.

Egli guardò fisso la sfinge.

Esaminò sotto tutti gli aspetti lo spietato problema.

Cosetta, quell'incantevole esistenza, era la zattera di quel naufragio. Che fare? aggrapparvisi o abbandonarla?

Se vi si attaccava, usciva dal disastro, risaliva verso il sole, si lasciava sgocciolare l'acqua amara dagli abiti e dai capelli, era salvo, viveva.

La lasciava andare?

Allora, l'abisso.

Così si consigliava dolorosamente col proprio pensiero; o, per meglio dire, combatteva, e si precipitava furiosamente entro di sé, ora contro la sua volontà, ora contro la sua convinzione.

Fu una fortuna per Valjean aver potuto piangere, cosa che forse lo illuminò. Tuttavia il principio fu aspro: una tempesta più violenta di quella che altra volta l'aveva spinto verso Arras si scatenò in lui. Il passato tornava di fronte al presente; ed egli paragonava, e singhiozzava. Una volta aperta la cateratta delle lacrime, il disperato si contorse.

Si sentiva fermato.

Ahimé! nel pugilato a oltranza fra l'egoismo e il dovere, quando indietreggiamo passo passo davanti al nostro immutabile ideale, sconvolti, irritati, esasperati di dover cedere, disputando il terreno, sperando una possibile fuga, cercando un'uscita, quale brusca e sinistra resistenza è il muro che sta dietro di noi!

Sentire l'ombra sacra che fa ostacolo!

L'invisibile inesorabile, che ossessione!

Con la coscienza dunque non si finisce mai. Deciditi Bruto, deciditi Catone; essa è senza fine, perché è Dio. Si getta in quel pozzo il lavoro di tutta la vita, vi si getta la fortuna, la ricchezza, il successo conseguito, vi si getta la libertà e la patria, vi si getta il benessere, il riposo, la gioia. Ancora!

ancora! ancora! Vuotate il vaso, rovesciate l'urna! Bisogna finire col gettarvi il proprio cuore.

Fra le nebbie dei vecchi inferni c'è in qualche angolo un pozzo fatto così.

Non siamo perdonabili se alla fine non ci prestiamo? Forse che l'inesauribile può avere un diritto? Forse che le catene senza fine non sono superiori alla forza umana? Chi potrebbe biasimare Sisifo e Valjean se dicono: basta? L'obbedienza della materia è limitata dall'attrito. Non ci sarà un limite per la obbedienza dell'anima? Se è impossibile il moto perpetuo, si può esigere la perpetua abnegazione?

Il primo passo è nulla: difficile è l'ultimo. Cos'era il processo Champmathieu in confronto del matrimonio di Cosetta e delle sue conseguenze? Cos'era il ritorno nella galera di fronte al ritorno nel nulla?

O primo gradino della discesa, come sei scuro! O secondo gradino, come sei nero! Come non torcere il viso questa volta?

Il martirio è una sublimazione, ma una sublimazione corrosiva; è una tortura che santifica. Si può consentirvi alla prima ora; si va a sedersi sul trono di ferro rovente, si posa sulla fronte la corona di ferro rovente, si accetta il globo di ferro rovente, s'impugna lo scettro di ferro rovente; ma rimane ancora da indossare il manto di fiamme; e non c'è un minuto in cui la miserabile carne si rivolta, in cui si rinuncia al supplizio?

Finalmente Valjean entrò nella calma della prostrazione.

Meditò, ponderò, esaminò le alternative della misteriosa bilancia di luce e di ombra.

Imporre la sua galera a quei due splendidi ragazzi, o inabissarsi da sé irrevocabilmente. Da una parte il sacrificio di Cosetta, dall'altra il suo.

A quale soluzione si fermò? Quale determinazione prese? Quale fu, nel suo interno, la sua risposta definitiva all'incorruttibile interrogatorio della fatalità? Quale porta decise di aprire? Qual lato della sua esistenza stabilì di chiudere e murare? Fra tutti gli insondabili dirupi che lo circondavano, quale fu la sua scelta? Quale estremo accettò? A quale di quei precipizi fece un cenno col capo?

La sua vertiginosa fantasticheria durò tutta la notte.

Rimase là fino a giorno, nella solitudine, piegato in due su quel letto, abbattuto e forse, ahimé! schiacciato sotto l'enormità del destino, coi pugni contratti, con le braccia distese ad angolo retto, come un crocifisso schiodato e buttato con la faccia contro la terra.

Restò così per dodici ore, le dodici ore d'una lunga notte d'inverno, intirizzito, senza rialzare la testa e senza pronunciare una parola. Era immobile come un cadavere, mentre il suo pensiero si prostrava per terra o spiccava il volo verso il cielo, ora simile all'idra, ora simile all'aquila. A vederlo così, immobile, pareva morto; ma ad un tratto trasaliva convulsamente, e la sua bocca, incollata alle vesti di Cosetta, le baciava; allora si vedeva che era vivo.

Si vedeva? Ma da chi, se Valjean era solo e non c'era là nessuno?

Da Colui che è nelle tenebre.




Libro 7


L'ULTIMO SORSO DEL CALICE



1. IL SETTIMO CERCHIO E L'OTTAVO CIELO


L'indomani del giorno delle nozze è solitario. Si rispetta il raccoglimento dei felici. E anche un po' il loro sonno attardato.

Il frastuono delle visite e delle felicitazioni comincia solo più tardi. La mattina del 17 febbraio - un po' dopo mezzogiorno - Basco, con lo strofinaccio e il piumino sotto il braccio, occupato a "fare l'anticamera", udì bussare leggermente alla porta. Non avevano suonato, era una discrezione in un giorno simile. Basco aprì, e vedendo il signor Fauchelevent, l'introdusse nel salotto ancora ingombro e in disordine, che pareva il campo di battaglia delle allegrie del giorno prima.

- Si capisce, signore - osservò Basco - ci siamo svegliati tardi.

- Il vostro padrone è alzato? - disse Valjean.

- Come va il braccio del signore? - rispose il servo.

- Meglio. Il vostro padrone è alzato?

- Quale? il vecchio o il nuovo?

- Il signor Pontmercy.

- Il signor barone? - fece Basco raddrizzandosi.

Si è barone soprattutto per i propri domestici. Ne riverbera qualche cosa anche su loro; ricevono quello che un filosofo potrebbe chiamare le zacchere del titolo, ed è cosa che li lusinga. Mario, sia detto di volo, repubblicano militante, e lo aveva dimostrato, adesso era barone suo malgrado. Era avvenuta una piccola rivoluzione in famiglia intorno a quel titolo; adesso era il signor Gillenormand che ci teneva e Mario che ne era seccato.

Ma il colonnello Pontmercy aveva scritto: "Mio figlio porterà il mio titolo", ed egli obbediva. E poi Cosetta, nella quale incominciava a far capolino la donna, era contentissima di chiamarsi baronessa.

- Il signor barone? - ripeté Basco. - Vado a vedere. Gli dirò che il signor Fauchelevent è qui.

- No, non gli dite che sono io. Ditegli che c'è uno che chiede di parlargli in particolare, ma non gli dite il nome.

- Ah! - esclamò Basco.

- Voglio fargli una sorpresa.

- Ah! - replicò il servo, dando a se stesso questo secondo ah!

come spiegazione del primo.

E uscì.

Valjean rimase solo.

Il salotto, come abbiamo detto, era tutto in disordine: pareva che, tendendo l'orecchio, vi si potesse ancora udire il confuso rumore della festa. Sul pavimento c'era ogni sorta di fiori caduti dalle ghirlande e dalle acconciature femminili. Le candele, consumate fino in fondo, aggiungevano ai cristalli del lampadario stalattiti di cera.

Neppure un mobile a posto. Negli angoli, tre o quattro poltrone, ravvicinate in circolo l'una all'altra, pareva continuassero una conversazione. L'insieme era ridente: c'è ancora una certa grazia in una festa finita. E' stata una cosa felice. In quelle sedie in disordine, tra quei fiori che appassiscono, sotto quei lumi spenti si pensa alla gioia. Il sole succeduto all'illuminazione penetrava allegramente nel salotto.

Passarono alcuni minuti, durante i quali Valjean restò immobile dove l'aveva lasciato Basco. Era molto pallido, gli occhi erano incavati, e tanto affondati sotto le orbite dalla insonnia, che quasi vi sparivano; il suo abito nero aveva le pieghe calcate d'un vestito che ha passato la notte sulla persona, i gomiti imbiancati dalla calugine che lascia sul panno lo sfregamento della biancheria. Egli guardava ai suoi piedi la finestra disegnata dal sole sul pavimento.

Udendo un rumore alla porta, alzò gli occhi.

Mario entrò, con la testa alta, la bocca ridente, un non so che di luminoso nel volto, la fronte aperta e l'occhio trionfante.

Nemmeno lui aveva dormito.

- Siete voi, papà! - esclamò vedendo Valjean. - E quell'imbecille di Basco che aveva l'aria misteriosa! Ma voi venite troppo di buon'ora: non sono ancora le dodici e mezzo; Cosetta dorme.

La parola "Papà", detta da Mario al signor Fauchelevent significava "felicità suprema". Era sempre esistito fra loro come ci è noto, un dirupo, una freddezza, un riserbo, un ghiaccio insomma da rompere o da sciogliere, ma il giovane sposo era a tal punto d'entusiasmo, che il dirupo si abbassava, il ghiaccio si scioglieva, e il signor Fauchelevent era per lui, come per Cosetta, un padre.

Continuò; e le parole traboccavano da lui, come sempre avviene in quei divini parossismi della gioia:

- Come sono contento di vedervi! Se sapeste come sentimmo la vostra mancanza, ieri! Buon giorno, papà. Come va la vostra mano?

Meglio, vero?

E, soddisfatto della buona risposta che s'era dato da sé, proseguì:

- Abbiamo molto parlato di voi, tutti e due. Cosetta vi ama tanto!

Non dimenticate che avete qui la vostra camera. Non vogliamo più saperne di via Homme-Armé; per niente. Come avete fatto a scegliere una via come quella, ammalata, brontolona, brutta, con una sbarra all'estremità, dove si sente freddo e non si può entrare? Verrete ad alloggiare qui, e oggi stesso, altrimenti avrete da fare con Cosetta, la quale intende menarci tutti per la punta del naso, vi prevengo. La vostra camera l'avete già vista; è proprio vicino alla nostra e dà sul giardino. Abbiamo fatto accomodare la toppa, il letto è preparato, tutto è pronto, non avete da far altro che venire. Cosetta vi ha fatto collocare al letto una vecchia e grande poltrona di velluto di Utrecht, alla quale ha detto: Stendigli le braccia! Nel folto di acacie dirimpetto alla vostra finestra, viene tutte le primavere un usignolo; lo udrete tra due mesi; avrete il suo nido a sinistra e il nostro a destra; di notte udrete il suo canto, di giorno il cinguettio di Cosetta. La vostra camera è volta proprio a mezzodì.

Cosetta porrà in ordine i vostri libri, il viaggio del capitano Cook, quello di Vancouver, e tutte le cose vostre. C'è, mi pare, una valigetta che vi sta molto a cuore; ebbene, le ho preparato un cantuccio d'onore. Avete fatto la conquista di mio nonno; gli andate a genio. Vivremo tutti insieme. Conoscete il "whist"? Se lo sapeste giocare, colmereste mio nonno di gioia. Accompagnerete voi Cosetta a passeggio quando io dovrò recarmi al tribunale; le darete il braccio come una volta, al Lussemburgo, vi ricordate?

Noi siamo assolutamente decisi di essere felicissimi, e voi, papà, prenderete parte alla nostra felicità, capite? Appunto, fate colazione con noi oggi, vero?

- Signore - rispose Valjean - debbo dirvi una cosa. Io sono un ex- forzato.

Il limite dei suoni acuti percettibili può essere oltrepassato tanto dalla mente quanto dall'orecchio. Le parole "sono un ex- forzato", uscendo dalla bocca del signor Fauchelevent ed entrando nell'orecchio di Mario, andavano al di là del possibile. Il giovane non intese: gli parve che gli fosse stato detto qualche cosa, ma che cosa non seppe, e rimase a bocca aperta.

Si accorse allora che l'uomo che gli parlava era spaventevole.

Preso dal suo entusiasmo, fino a quel momento non aveva notato quel pallore terribile.

Valjean snodò il fazzoletto nero che gli sosteneva il braccio destro, svolse la benda avvolta intorno alla mano, mise a nudo il pollice e lo mostrò a Mario:

- Non ho nulla alla mano - disse.

Il giovane guardò il dito.

- Non ho avuto mai nulla - riprese Valjean.

Non c'era infatti nessuna traccia di ferita.

Valjean proseguì:

- Conveniva che io fossi estraneo al vostro matrimonio e ne sono rimasto estraneo più che ho potuto. Finsi questa ferita per non commettere un falso, per non introdurre un vizio di nullità negli atti matrimoniali, per potermi dispensare dalla firma.

Mario balbettò:

- Che vuol dire tutto questo?

- Questo vuol dire - rispose Valjean - che io fui in galera.

- Voi mi fate impazzire - esclamò Mario spaventato.

- Signor Pontmercy - disse Valjean - sono stato diciannove anni in galera: per furto; poi mi hanno condannato a vita: per furto; come recidivo. In questo momento, sono m latitante.

Mario aveva un bel rinculare dinanzi alla realtà, ricusare il fatto, resistere all'evidenza; bisognava arrendervisi. Cominciò a comprendere, e come sempre avviene in simili casi, esagerò. Ebbe il brivido di un terribile lampo interiore; un'idea, che lo fece fremere, gli attraversò la mente; intravide nell'avvenire, per se stesso, un destino mostruoso.

- Dite tutto! dite tutto! - gridò. - Voi siete il padre di Cosetta!

E fece due passi indietro con un moto d'indicibile orrore.

Valjean rialzò la testa con tale maestoso atteggiamento, che parve ingrandisse sino al soffitto.

- Signore, dovete credermi, e quantunque il giuramento fatto da noi altri non sia accolto dai tribunali...

Tacque un momento, poi, con una specie di autorità sovrana e sepolcrale, articolando lentamente e accentuando le sillabe aggiunse:

- ... Voi mi crederete. Il padre di Cosetta, io! giuro dinanzi a Dio, no. Signor barone di Pontmercy, io sono un contadino di Faverolles, mi guadagnavo la vita potando gli alberi. Non mi chiamo Fauchelevent, ma Giovanni Valjean. Non ho nessuna parentela con Cosetta. Rassicuratevi.

Mario balbettò:

- Chi mi prova?...

- Io, poiché lo dico.

Mario guardò quell'uomo. Era lugubre e tranquillo. Nessuna menzogna poteva uscire da una tale calma. Chi è ghiacciato è sincero, e in quella freddezza di tomba si sentiva la verità.

- Vi credo - disse il giovane.

Valjean chinò la testa quasi per prenderne atto, poi continuò:

- Che sono io per Cosetta? Un passante. Dieci anni or sono ignoravo persino che esistesse. Le voglio bene, è vero. Ci si affeziona a una fanciulla che si è conosciuta piccina, quando si era già vecchio. I vecchi si sentono nonni per tutti i bimbi. Mi sembra che possiate supporre in me qualche cosa che somiglia a un cuore. Lei era orfana, senza padre né madre, aveva bisogno di me, ed ecco perché mi misi ad amarla. Sono così deboli i fanciulli, che il primo che capita, anche un uomo come me, può essere il loro protettore. Ecco il dovere che ho compiuto verso Cosetta. Non credo che così poca cosa possa veramente chiamarsi una buona azione; ma se è tale, supponete che io l'abbia compiuta e prendete nota di questa circostanza attenuante. Oggi, Cosetta abbandona la mia esistenza; le nostre due strade si separano, d'ora innanzi io non posso più nulla per lei. Lei è la signora Pontmercy; la sua provvidenza è mutata e Cosetta guadagna nel cambio. Tutto per il meglio. Quanto ai seicentomila franchi, non me ne parlate, ma io prevengo il vostro pensiero: essi costituiscono un deposito. In che modo quel deposito era nelle mie mani? Che importa? Lo restituisco e nessuno può chiedermi nulla di più. Completo la restituzione col dirvi il mio vero nome. Anche questo mi riguarda:

ci tengo, io, che sappiate chi sono.

E fissò Mario in volto.

Tutto quanto Mario provava era tormentoso e incoerente. Certe ventate del destino producono nell'anima nostra simili ondulazioni.

Tutti abbiamo provato quegli istanti di turbamento, nei quali ogni cosa in noi si disperde; allora diciamo le prime parole venute, le quali non sempre sono precisamente quelle che bisognerebbe dire.

Ci sono subitanee rivelazioni che non si possono sopportare e ci ubriacano come un vino funesto. Dalla nuova situazione, intravista, Mario era sbalordito al punto di parlare a quell'uomo quasi come sdegnato di quella confessione.

- Ma infine - esclamò - perché mi dite tutto questo? Chi vi costringe? Potevate conservare il vostro segreto. Non siete né denunciato né inseguito né ricercato. Ci dev'essere una ragione per farmi così allegramente una simile rivelazione. Finite dunque:

c'è dell'altro. A quale scopo mi fate questa confessione? Per qual motivo?

- Per quale motivo? - rispose Valjean con voce così bassa e sorda che pareva parlasse a se stesso più che a Mario. - Per quale motivo, infatti, questo forzato viene a dirvi: Io sono un forzato?

Ebbene, sì, il motivo è strano! E' per onestà. La mia disgrazia è un filo che ho qui nel cuore e che mi tiene legato. E questi fili sono solidi soprattutto quando si è vecchi: tutta la vita all'intorno si sfascia, ma essi resistono. Se avessi potuto strapparmi questo filo, romperlo, sciogliere il nodo o tagliarlo, e andarmene assai lontano, mi sarei salvato. Bastava che partissi; nella via del Bouloy non mancano le diligenze; voi siete felici e io me ne vado. Ho tentato di romperlo questo filo, ho tirato con tutte le forze, ma ha tenuto fermo, non s'è rotto; dovrei strapparmi insieme il cuore. Allora ho detto: Non posso vivere altrove, devo rimanere. Ebbene, sì, avete ragione, sono un imbecille: perché non restare semplicemente? Voi mi offrite una camera qui nella casa, la signora Pontmercy mi vuole molto bene, e dice alla poltrona: stendigli le braccia; vostro nonno è contentissimo di avermi con sé, gli vado a genio; abiteremo tutti insieme; prenderemo i pasti in comune, io darò il braccio a Cosetta... alla signora Pontmercy, scusate, è l'abitudine...

avremo un solo tetto, una sola mensa, un solo focolare, lo stesso angolo da caminetto d'inverno, la stessa passeggiata d'estate; ma questa è gioia, è felicità, è tutto. Noi vivremo in famiglia. In famiglia!

A questa parola Valjean divenne torvo. Incrociò le braccia, guardò il pavimento ai suoi piedi come se volesse scavarvi un abisso, e d'un tratto la sua voce si fece sonora:

- Io, famiglia! no. Io non appartengo a nessuna famiglia, né alla vostra né a quella di tutti gli uomini. Nelle case dove si vive in dimestichezza io sono di troppo. Ci sono le famiglie, ma non per me. Io sono lo sventurato, l'escluso. Ebbi un padre e una madre?

quasi ne dubito. Il giorno in cui ho maritato quella fanciulla tutto è finito: ho visto che era felice con l'uomo amato, che c'era in questa casa un buon vecchio, un nido di due angeli, tutte le gioie, tutto il bene, e ho detto a me stesso: Non entrare, tu.

Potevo mentire, è vero, ingannarvi tutti, rimanere il signor Fauchelevent. Finché è stato per lei, ho potuto mentire; ma ora, non devo. Bastava tacere, è vero, e tutto sarebbe continuato. Voi mi chiedete che cosa mi costringa a parlare? una cosa curiosa, la mia coscienza. Eppure, tacere era assai facile: ho passato la notte a cercar di persuaderne me stesso. Voi mi chiedete la mia confessione, e quel che vi ho detto è tanto straordinario che ne avete il diritto. Ebbene sì, ho consumato la notte a dare a me stesso delle ragioni, e me ne sono date alcune molto buone, ho fatto quanto ho potuto, siatene certo. Ma ci sono due cose in cui non sono riuscito: né a spezzare il filo che mi tiene attaccato, ribattuto e suggellato qui col cuore né a far tacere qualcuno che mi parla sommessamente quando sono solo. Ecco perché sono venuto a confessarvi tutto stamane. Tutto, o quasi tutto. Ci sono delle cose inutili a dirsi che riguardano me solo, e che quindi tengo per me; l'essenziale lo sapete. Ho dunque preso il mio mistero e ve l'ho portato; ho sventrato il mio segreto sotto i vostri occhi.

Non era una risoluzione ovvia da prendere, e mi sono dibattuto tutta la notte. Ah! credete forse che non abbia detto a me stesso che questo non era più il caso del processo Champmathieu, che occultando il mio vero nome non danneggiavo nessuno, che il nome di Fauchelevent mi era stato dato dallo stesso Fauchelevent per riconoscenza d'un servigio resogli, che potevo benissimo serbarlo, che sarei stato felice nella camera da voi offertami, che non vi avrei dato nessun fastidio, che me ne sarei stato nel mio cantuccio, e che mentre voi avreste avuto Cosetta, io avrei avuto l'idea di trovarmi nella stessa sua casa? Ciascuno avrebbe goduto la sua proporzionata felicità. Continuando a essere il signor Fauchelevent, tutto s'accomodava; tutto, sì, fuorché l'anima mia.

Ci sarebbe stata la gioia sparsa su tutta la mia persona, ma il fondo dell'anima mia sarebbe rimasto nero. Non basta essere felici, occorre essere contenti. Dunque, sarei rimasto il signor Fauchelevent, avrei nascosto il mio vero volto; dunque, di fronte alla vostra espansione avrei avuto un enigma, in mezzo alla vostra piena luce mi sarei avvolto di tenebre; dunque, senza gridare "bada" con la massima semplicità, mi sarei seduto alla vostra mensa col pensiero che se aveste saputo chi sono mi avreste scacciato, mi sarei lasciato servire da domestici che, se avessero saputo, avrebbero esclamato: Che orrore! Dunque, vi avrei toccato col mio gomito che siete in diritto di respingere, avrei truffato la vostra stretta di mano! Nella vostra casa avrebbero diviso la riverenza tra i capelli bianchi venerabili e i capelli bianchi infamati; e nelle vostre ore più intime, quando tutti i cuori si sarebbero creduti aperti fino in fondo, trovandoci tutt'e quattro insieme, vostro nonno voi due e io, ci sarebbe stato fra noi un ignoto. Sarei stato fianco a fianco con voi nella vostra esistenza, con la sola preoccupazione di non spostare il coperchio del mio terribile pozzo! Così io, un morto, mi sarei imposto a voi che siete vivi. E lei, l'avrei condannata a essermi legata a vita.

Voi, Cosetta e io, saremmo stati tre teste nel berretto verde! Non vi sentite rabbrividire? Ora sono soltanto il più oppresso degli uomini; allora sarei stato il più mostruoso. E questo delitto, l'avrei commesso ogni giorno! E questa menzogna, l'avrei ripetuta ogni giorno e questa maschera di tenebre l'avrei tenuta sul viso ogni giorno! E ogni giorno vi avrei dato la vostra parte della mia infamia! Ogni giorno! a voi, i miei cari, a voi i miei figli, a voi, i miei innocenti! Tacere è nulla? Serbare il silenzio è una cosa semplice? No, non è semplice. C'è un silenzio che mentisce. E la mia menzogna, la mia frode, la mia indegnità, la mia viltà, il mio tradimento, il mio delitto, io li avrei bevuti a goccia a goccia, li avrei vomitati e poi ribevuti; avrei finito a mezzanotte e ricominciato a mezzogiorno, e il mio buongiorno avrebbe mentito, e il mio buonasera avrebbe mentito, e ci avrei dormito sopra, e l'avrei mangiato col pane, e avrei guardato in faccia Cosetta, e avrei risposto al sorriso dell'angelo col sorriso del dannato, e sarei stato un abominevole istrione! E perché? Per essere felice! Felice io! Ho forse il diritto d'essere felice? Io sono fuori della vita, signore.

Valjean si fermò. Mario ascoltava. Simili concatenamenti di idee e di angosce non si possono interrompere. Valjean abbassò di nuovo la voce, che non era più sorda, ma sinistra.

- Voi chiedete perché parlo? Io che non sono né denunciato né inseguito né ricercato, dite voi. Sì! sono denunciato! sono inseguito! sono ricercato! Da chi? Da me! sono io che sbarro a me stesso il passaggio, e mi trascino, e mi sospingo, e mi arresto, e mi condanno, e quand'uno è afferrato da se stesso, è ben tenuto.

E afferrandosi l'abito col pugno e tirandolo verso Mario:

- Guardate questo pugno - proseguì. - Non vi pare che sappia tenere questo bavero in modo da non lasciarselo sfuggire? Ebbene, la coscienza è un altro pugno! E per vivere felice, signore, bisogna non comprendere il dovere; appena è compreso, diventa implacabile. Sembra che vi punisca d'averlo capito; ma no, vi ricompensa invece, perché vi mette in un inferno dove si sente d'avere accanto Iddio. Appena ci siamo lacerate le viscere, ci sentiamo in pace con noi stessi.

E con accento straziante aggiunse:

- Signor Pontmercy, è una cosa che non ha senso, eppure io sono un uomo onesto. Ed è col degradarmi ai vostri occhi che mi elevo ai miei. Questo mi è già accaduto una volta, ma era meno doloroso; non era nulla. Sì, un uomo onesto. Non lo sarei, se per mia colpa aveste continuato a stimarmi; ora che mi disprezzate, lo sono.

Pesa su di me questa fatalità: che non potendo mai avere alcuna considerazione se non rubata, questa considerazione m'opprime interiormente, e perché io possa rispettare me stesso, è necessario che gli altri mi disprezzino. Allora mi rialzo. Sono un galeotto che obbedisce alla sua coscienza. So bene che non è una cosa verosimile; ma che posso farci io? è così. Ho preso degli impegni con me stesso e li mantengo. Avvengono certi incontri che ci legano, dei casi fortuiti che ci trascinano ad assumere dei doveri. Vedete, signor Pontmercy, mi sono accadute certe cose nella vita!...

Fece una nuova pausa, quindi ingoiando con fatica la saliva, come se le sue parole sapessero di amaro, riprese:

- Quando sopra di noi pesa un tale orrore, non abbiamo il diritto di renderne partecipi gli altri a loro insaputa, non abbiamo il diritto di comunicar loro la nostra peste, di farli sdrucciolare nel nostro precipizio senza che se ne avvedano, di buttar su di loro la nostra casacca rossa, e d'intralciare segretamente con la nostra miseria la felicità altrui. Avvicinarsi ai sani e toccarli di nascosto con la propria ulcera invisibile è una cosa orribile.

Fauchelevent ha un bel prestarmi il suo nome; io non ho il diritto di servirmene. Egli ha potuto darmelo, ma io non ho potuto prendermelo. Un nome è un io. Vedete, signore, ho un po' pensato, un po' letto, benché sia un contadino, e mi rendo conto delle cose. Vedete che mi spiego convenientemente. Mi sono fatto un'educazione da me stesso. Ebbene sì, sottrarre un nome e ripararvisi sotto è una cosa disonesta. Si possono rubare le lettere dell'alfabeto come una borsa o un orologio. Essere una firma falsa in carne e ossa, una chiave falsa vivente, entrare in casa di gente onesta scassinando la serratura, non guardar mai più francamente ma sempre di sottecchi, essere infame dentro di me no!

no! no! no! E' meglio soffrire, sanguinare, piangere, strapparsi la pelle dalle carni con le unghie, passare le notti a torcersi tra le angosce, rodersi il ventre e il cuore. Ecco perché vengo a raccontarvi tutto questo, allegramente, come voi dite.

Respirò penosamente, quindi lanciò quest'ultima frase:

- Una volta, per vivere, rubai un pane; oggi, per vivere, non voglio rubare un nome.

- Per vivere! - interruppe Mario. - Ma non avete bisogno di questo nome per vivere!

- Oh! me ne intendo io! - rispose Valjean alzando e abbassando lentamente la testa più volte di seguito.

Successe una pausa. Tacevano tutti e due, ciascuno inabissato in un gorgo di pensieri. Mario si era seduto vicino a una tavola e appoggiava l'angolo della bocca a un dito piegato. Valjean passeggiava su e giù. Si fermò davanti a uno specchio e rimase immobile; poi, come se rispondesse a un ragionamento interiore, disse guardando quello specchio nel quale non si mirava:

- Adesso mi sento sollevato.

Tornò a camminare e andò all'altro capo del salotto. Nel voltarsi s'accorse che Mario lo guardava camminare. Allora, con un accento inesprimibile, gli disse:

- Trascino un po' la gamba. Ora capite perché. - Quindi finì di volgersi verso Mario:

- Ed ora, signore, fate questa supposizione: Io non ho detto nulla, sono rimasto il signor Fauchelevent, ho preso il mio posto in casa vostra, faccio parte della famiglia, occupo la mia stanza, vengo la mattina a far colazione in pantofole, la sera andiamo tutt'e tre al teatro, io accompagno la signora Pontmercy alle Tuileries e alla piazza Reale, viviamo insieme, voi mi credete un vostro eguale; ed ecco che un bel giorno mentre ci troviamo uniti e discorriamo e ridiamo, udite d'un tratto una voce gridare il nome di Giovanni Valjean, e vedete una mano terribile, quella della polizia,balzare fuori dall'ombra estrapparmi improvvisamente la maschera!

Tacque di nuovo; Mario s'era alzato con un brivido. Valjean riprese:

- Che ne dite?

Il silenzio di Mario era una risposta.

L'altro continuò:

- Vedete bene che ho avuto ragione a non tacere. Su via, siate felice! siate al settimo cielo! siate l'angelo d'un angelo! e siate nel sole! e contentatevi, e non vi preoccupate di sapere che cosa faccia un povero dannato per squarciarsi il petto e fare il proprio dovere. Avete davanti a voi un miserabile.

Mario attraversò lentamente il salotto, e avvicinatosi a Valjean gli tese la mano.

Ma dovette egli stesso andare a prendere quella mano che non si presentava, e gli parve di stringere una mano di marmo. Valjean lasciò fare.

- Mio nonno ha molti amici - disse Mario - e vi farà ottenere la grazia.

- E' inutile - rispose Valjean. - Mi credono morto e ciò basta. I defunti non sono sottoposti a sorveglianza, si suppone che imputridiscano tranquillamente. La morte è lo stesso che la grazia.

E liberando la mano tenuta dal giovane, aggiunse con una specie di dignità inesorabile:

- D'altronde, fare il mio dovere: ecco l'amico a cui ricorro; e ho bisogno di una sola grazia, quella della mia coscienza.

In quel momento, all'altra estremità del salotto, la porta fu socchiusa adagino e apparve la testa di Cosetta, coi capelli in un incantevole disordine e le palpebre ancora gonfie di sonno. Col movimento d'un uccello che spinge la testa fuori dal nido, essa guardò prima suo marito, poi Valjean, e gridò loro, ridendo, con un sorriso che parve sbocciar da una rosa:

- Scommetto che parlate di politica. Che goffaggine! Invece di tenermi compagnia!

Valjean trasalì.

- Cosetta!... - balbettò Mario, e non disse altro. Sembravano due colpevoli.

Cosetta, raggiante, continuava a volgere lo sguardo dall'uno all'altro; e nei suoi occhi c'erano luci di paradiso.

- Vi colgo in delitto flagrante - disse. - Ho sentito attraverso l'uscio il mio papà Fauchelevent che diceva: la coscienza...

l'adempimento del dovere... E' politica, questa; e io non ne voglio. Non si parla di politica subito, all'indomani delle nozze; non è giusto.

- T'inganni, Cosetta - rispose Mario. - Parliamo d'affari, parliamo del collocamento migliore per i tuoi seicentomila franchi...

- Poco importa - interruppe la donna. - Vengo anch'io. Mi volete?

E spingendo risolutamente la porta entrò nel salotto. Era avvolta in un vasto accappatoio bianco a mille pieghe e a grandi maniche, che partendo dal collo le ricadeva fino ai piedi. Nei cieli d'oro dei vecchi dipinti gotici si vedono simili graziosi sacchi da porvi dentro un angelo.

Essa si mirò dalla testa ai piedi in un grande specchio, poi esclamò con un'esplosione d'estasi ineffabile:

- C'era una volta un re e una regina. Oh come sono contenta!

Ciò detto, fece la riverenza a Mario e a Valjean, e proseguì:

- Ecco, io mi metterò in una poltrona accanto a voi. Tra mezz'ora si fa colazione: voi direte tutto quello che volete, so bene che gli uomini devono parlare; me ne starò tranquilla.

Mario le prese il braccio e le disse amorosamente:

- Stiamo parlando d'affari.

- A proposito - rispose Cosetta - aprendo la mia finestra ho visto arrivare nel giardino una quantità di cinciallegre, che paiono maschere. Oggi è il mercoledì delle ceneri, ma non per gli uccelli.

- Ti ripeto che parliamo d'affari; va', mia piccola Cosetta, lasciaci soli un momento. Parliamo di cifre; t'annoieresti.

- Ti sei messo stamattina una deliziosa cravatta, Mario; siete molto civettuolo, mio signore. No, non m'annoierò.

- T'assicuro che t'annoierai.

- No, perché siete voi; non capirò, ma starò ad ascoltarvi. Quando si odono le voci amate non c'è bisogno di capire le parole che dicono. Non desidero altro che stare con voi. Rimango, via!

- Tu sei la mia adorata Cosetta! ma è impossibile.

- Impossibile!

- Sì.

- Va bene - riprese Cosetta. - Vi avrei dato delle notizie, vi avrei detto che il nonno dorme ancora, che vostra zia è andata a messa, che il camino della camera del mio papà Fauchelevent fa fumo, che Nicoletta ha fatto chiamare uno spazzacamino, che la Toussaint e Nicoletta hanno già litigato, e che Nicoletta si burla della balbuzie della Toussaint. Ebbene, non saprete nulla. Ah! E' impossibile? Anch'io a mia volta dirò è impossibile, vedrete, signore. E allora chi sarà preso al laccio? Te ne prego, mio piccolo Mario, lasciami stare qui con voi due.

- Ti giuro che è necessario che restiamo soli.

- Ebbene, sono forse qualcuno io?

Cosetta si volse verso Valjean che non diceva una parola:

- Prima di tutto, papà, voglio che veniate a darmi un bacio. Che cosa fate lì silenzioso, invece di prendere le mie difese? Chi mi ha dato un padre così? Non vedete che sono infelicissima in famiglia? Mio marito mi batte. Animo dunque, abbracciatemi subito.

Valjean s'avvicinò. Cosetta si volse verso Mario:

- A voi invece faccio le boccacce.

E porse la fronte a Valjean.

Questi le s'accostò d'un altro passo. Ma Cosetta rinculò.

- Siete pallido, papà. Forse che il braccio vi fa male?

- E' guarito - rispose.

- Avete dormito male?

- No.

- Siete triste?

- No.

- Datemi un bacio. Se vi sentite bene, se avete ben dormito, se siete contento, non vi sgriderò.

E gli porse nuovamente la fronte.

Valjean depose un bacio su quella fronte, su cui splendeva un riflesso del cielo.

- Sorridete.

Egli obbedì: fu il sorriso d'uno spettro.

- Ora difendetemi da mio marito.

- Cosetta... - esclamò Mario.

- Andate in collera! papà. Ditegli che è necessario che io rimanga qui, che si può benissimo parlare davanti a me. Mi credete dunque molto sciocca! Dunque è assai stupefacente quello che dite! Gli affari, collocare dei denari presso una banca, gran cosa! Gli uomini fanno i misteriosi per un nulla. Voglio restare. Sono molto bella stamane; guardami, Mario.

E con un adorabile moto delle spalle e non so qual broncio squisito, essa guardò il marito. Fra quelle due creature scoccò come un lampo. Poco importava che ci fosse qualcuno presente.

- T'amo - disse Mario.

- T'adoro - rispose Cosetta.

E caddero irresistibilmente nelle braccia l'uno dell'altra.

- Ora - riprese Cosetta, rassettandosi una piega dell'accappatoio con una smorfietta di trionfo - io rimango.

- Questo no - ripeté Mario in tono supplichevole. - Dobbiamo terminare qualche cosa.

- Ancora no?

Il giovane prese un tono severo:

- T'assicuro, Cosetta, che è impossibile.

- Ah! fate il vostro vocione d'uomo, signore. Va bene. Me ne vado.

Voi, papà, non m'avete sostenuta. Signor marito, signor padre, siete due tiranni, vado a dirlo al nonno. Se credete che tornerò e che vi starò a pregare, v'ingannate. Sono fiera. Adesso sarò io ad aspettarvi. Vedrete che vi annoierete senza di me. Me ne vado, va benissimo.

E uscì.

Due secondi dopo l'uscio si riaprì, il suo fresco viso vermiglio passò di nuovo tra i due battenti, ed essa gridò loro:

- Sono molto in collera.

La porta si richiuse e si rifecero le tenebre.

Fu come un raggio di sole fuorviato che, senza immaginarselo, aveva attraversato d'improvviso la notte.

Mario s'assicurò che l'uscio fosse ben chiuso.

- Povera Cosetta! - mormorò. - Quando verrà a sapere...

A queste parole Valjean tremò in tutte le membra, e fissò su Mario l'occhio smarrito.

- Cosetta! Ah! sì, è vero, voi le direte tutto; è giusto. E io non ci avevo pensato! Abbiamo talvolta la forza di sopportare una cosa e non un'altra. Signore, ve ne scongiuro, ve ne supplico, datemi la vostra parola più sacra che non glielo direte. Non basta forse che lo sappiate voi? Ho potuto dirlo io stesso senza esserci costretto; l'avrei detto a tutti, all'universo intero, non m'importava. Ma lei..., lei non capisce queste cose, e ne sarebbe spaventata. Un forzato, come! Sarebbe necessario spiegarglielo, dirle: E' un uomo che è stato in galera. Un giorno, vide passare la catena... Ah mio Dio!

Si abbatté su una poltrona e si nascose il volto fra le mani. Non si sentiva, ma dalle scosse delle spalle si vedeva che piangeva.

Lacrime silenziose, lacrime terribili.

I singhiozzi soffocano. Preso da un impeto convulso, dovette rovesciarsi indietro sulla spalliera come per respirare, lasciando pendere le braccia e mostrando a Mario la faccia inondata di lacrime; e Mario l'udì bisbigliare con voce così sommessa che sembrava provenire da un abisso senza fondo: - Oh! come vorrei morire!

- State tranquillo, - disse il giovane; - terrò il vostro segreto per me solo.

E meno commosso di quanto forse avrebbe dovuto esserlo, ma costretto da un'ora a familiarizzarsi con una spaventosa sorpresa, vedendo a grado a grado sotto i suoi occhi un galeotto sovrapporsi al signor Fauchelevent, vinto a poco a poco da quella lugubre realtà e condotto dalla china naturale della situazione a constatare l'intervallo che si era formato tra quell'uomo e lui, aggiunse:

- E' impossibile che non vi dica una parola intorno al deposito che m'avete così fedelmente e così onestamente rimesso. E' un atto di probità, ed è giusto che vi sia dovuta una ricompensa. Fissate voi stesso la somma che vi sarà sborsata; né dovete temere di fissarla troppo alta.

- Vi ringrazio, signore - rispose Valjean con dolcezza.

Rimase pensoso un momento, passando macchinalmente l'estremità dell'indice sull'unghia del pollice, quindi riprese:

- Tutto è quasi finito. Mi resta un'ultima cosa.

- Quale?

Valjean ebbe come una suprema esitazione, poi senza voce, quasi senza respiro, balbettò più che non dicesse:

- E ora che sapete, credete, signore, voi che siete il padrone, che io non debba più vedere Cosetta?

- Credo che sarebbe meglio - rispose Mario con freddezza.

- Non la vedrò più - mormorò Valjean.

E si diresse verso la porta.

Mise la mano sulla maniglia, che cedette subito, socchiuse la porta, l'aprì abbastanza per passare, restò un secondo immobile, poi la richiuse ancora e si volse verso Mario.

Non era più pallido, ma era livido; non aveva più lacrime negli occhi, ma una specie di tragica fiamma; e la sua voce aveva ripreso una strana calma.

- Ascoltatemi, signore, - disse - se lo permetterete, verrò a vederla. Vi assicuro che lo desidero ardentemente. Se non ci avessi tenuto a vedere Cosetta, non vi avrei fatto la confessione che vi ho fatta, sarei partito; ma volendo rimanere dov'è Cosetta e continuare a vederla, ho dovuto dirvi tutto. Voi seguite il mio ragionamento, non è vero? è una cosa facile a capirsi. Vedete, sono più di nove anni che l'ho con me. Abbiamo abitato prima in quella topaia del boulevard, poi nel convento, poi presso il Lussemburgo, dove l'avete vista la prima volta. Vi ricordate il suo cappello di felpa azzurro? Siamo stati poi nel quartiere degli Invalidi, dove c'era un cancello e un giardino, in via Plumet. Io abitavo dalla parte interna, da dove udivo il suo pianoforte.

Eccovi la mia vita. Non ci lasciavamo mai. La cosa è durata nove anni e alcuni mesi; io ero come un padre per lei, e essa la mia figliola. Non so se mi capite, signor Pontmercy; ma andarmene ora, non vederla più, non parlarle più, non avere più nulla, sarebbe difficile. Se non ci vedete niente di male, verrò ogni tanto a trovare Cosetta. Non verrei spesso, non resterei a lungo. Direte di ricevermi nel salottino di giù. Entrerei volentieri per la porta di dietro, destinata alla servitù, ma questo stupirebbe, forse; sarà meglio, credo, entrare dalla porta di tutti. Davvero, signore, vorrei vedere ancora un po' Cosetta: di rado, quando vi aggrada. Mettetevi al mio posto: non ho più nessuno al mondo. E poi, bisogna badare che se non venissi più, la cosa farebbe una brutta impressione, parrebbe molto strana. Quello che posso fare è di venire la sera, quando comincia a farsi buio.

- Verrete tutte le sere - disse Mario - e Cosetta vi aspetterà.

- Voi siete buono, signore - rispose Valjean.

Mario salutò Valjean. La felicità accompagnò fino all'uscio la disperazione, e quei due uomini si separarono.




2. LE OSCURITA' CHE PUO' CONTENERE UNA RIVELAZIONE


Mario era sconvolto.

Ora inclinava in quella specie di antipatia che aveva sempre provato per l'uomo accanto al quale vedeva Cosetta. C'era in quell'individuo un non so che di enigmatico di cui l'istinto l'avvertiva, e quell'enigma era la più schifosa delle vergogne: la galera. Fauchelevent era il forzato Valjean.

Trovare a un tratto un simile segreto in mezzo alla sua felicità somigliava a una scoperta d'uno scorpione in un nido di tortore.

La felicità di Mario e Cosetta era dunque condannata a quella vicinanza? Era un fatto compiuto? L'accettazione di quell'uomo faceva parte del matrimonio? Non rimaneva più nulla da fare? Aveva egli sposato anche il galeotto?

Si ha un bell'essere coronato di luce e di gioia, si ha un bell'assaporare la grande ora purpurea della vita, l'amore felice:

simili scosse costringerebbero a fremere anche l'arcangelo nella sua estasi, anche il semidio nella sua gloria.

Come sempre avviene nei cambiamenti improvvisi, Mario si chiedeva se non avesse qualche rimprovero da farsi.

Aveva mancato di giudizio? Aveva mancato di prudenza? Si era volontariamente stordito? Un po', forse. S'era lanciato, senza bastante precauzione, in quell'avventura d'amore che era finita nel suo matrimonio con Cosetta? Constatava - è così con una serie di successive constatazioni di noi stessi su noi stessi, la vita a poco a poco ci emenda - constatava il lato chimerico e visionario del proprio carattere, specie di nube interiore, caratteristica di molti individui e che nei parossismi della passione e del dolore, col mutar temperatura dell'anima, si dilata e invade interamente l'uomo in modo da formarne una coscienza inzuppata di nebbia. Più d'una volta abbiamo accennato a questo elemento caratteristico della personalità di Mario. Si ricordava che nell'ebbrezza del suo amore, in via Plumet, durante quelle sei o sette settimane estatiche, non aveva nemmeno parlato a Cosetta di quel dramma enigmatico della topaia Gorbeau, dove la vittima aveva avuto un così strano atteggiamento di silenzio durante la lotta, che poi era fuggita. Com'era stato possibile che non ne avesse parlato a Cosetta? Eppure si trattava di una cosa tanto recente e spaventosa. Come mai non le aveva neppure nominato i Thénardier, neanche il giorno in cui aveva incontrato Eponina? Durava quasi fatica a spiegarsi il suo silenzio d'allora. Però lo comprendeva; rammentava il suo sbalordimento, l'ebbrezza che provava per Cosetta, l'amore che assorbiva ogni cosa, quel sollevarsi l'un l'altro nell'ideale, e fors'anche, come la quantità impercettibile di ragione mista a quello stato violento e incantevole dell'anima, un vago e sordo istinto di nascondere e di cancellare nella memoria quella terribile avventura di cui temeva il contatto, nella quale non voleva recitare alcuna parte, a cui si sottraeva, in cui non poteva essere narratore o testimonio senza essere accusatore. D'altronde, quelle poche settimane erano state un lampo: non avevano avuto il tempo di far nulla, fuorché amarsi.

Infine, tutto calcolato, tutto rigirato, tutto esaminato, quand'anche avesse narrato a Cosetta l'insidia Gorbeau, quando le avesse nominato i Thénardier, quand'anche avesse scoperto che Valjean era un galeotto, questo avrebbe cambiato lui, Mario, e lei, Cosetta? Avrebbe egli indietreggiato? L'avrebbe meno adorata?

Avrebbe fatto a meno di sposarla? No. Ci sarebbe stato nulla di mutato in quanto si era fatto? No. Nulla dunque aveva da rimpiangere, nulla da rimproverarsi. Tutto per il meglio. C'è un Dio per quegli ubriaconi che si chiamano innamorati. Cieco, Mario aveva battuto la via che avrebbe scelto se ci avesse visto chiaro.

L'amore gli aveva bendato gli occhi, per condurlo dove? Al paradiso.

Ma a quel paradiso veniva ora ad aggiungersi un confine infernale.

L'antica antipatia di Mario per quell'uomo, per quel Fauchelevent divenuto ormai Valjean, era mista d'orrore.

Tuttavia in quell'orrore, diciamolo, c'era una qualche pietà e anche un po' di sorpresa.

Quel ladro, un ladro recidivo, aveva restituito un deposito. E quale? Seicentomila franchi! Ed era solo a conoscerne il segreto!

Poteva tenere tutto e aveva tutto restituito.

Inoltre aveva rivelato da sé la propria situazione. Nulla lo costringeva. Se si sapeva chi era, si sapeva per mezzo suo. C'era in quella confessione più che l'accettazione dell'umiliazione, l'accettazione del pericolo. Per un condannato, una maschera non è una maschera, è un rifugio; ed egli aveva rinunciato a quel rifugio; un falso nome è la sicurezza, ed egli aveva rigettato quel falso nome. Poteva, lui, galeotto, nascondersi per sempre in una famiglia onorata, e aveva resistito a quella tentazione. E per qual motivo? per scrupolo di coscienza; l'aveva spiegato egli stesso con l'irresistibile accento della verità. Chiunque fosse insomma quel Valjean, era incontestabilmente una coscienza che si ridestava; c'era in lui non so quale misteriosa riabilitazione già cominciata; e, secondo ogni apparenza, già da molto tempo lo scrupolo era padrone di quell'uomo. Simili scrupoli per la giustizia e per il bene non sono propri delle nature volgari. Un ridestarsi di coscienza è grandezza d'animo.

Valjean era sincero. Tale sincerità, visibile, palpabile, irrefragabile, resa evidente dallo stesso dolore che gli cagionava, rendeva inutile le indagini e dava autorità a tutto quanto diceva quell'uomo. Qui, per Mario, una strana inversione delle situazioni. Che cosa ispirava il signor Fauchelevent? la diffidenza. Che cosa emanava Giovanni Valjean? la fiducia.

Nel misterioso bilancio di quel Valjean, fatto da Mario cogitabondo, egli constatava l'attivo, constatava il passivo, e cercava di giungere a un risultato: ma era come in una bufera.

Sforzandosi di formarsi un concetto chiaro di quell'uomo, e inseguendo, per così dire, Valjean in fondo alla sua mente, lo perdeva di vista, e lo ritrovava circondato da una nebbia fatale.

L'onesta restituzione del deposito, la probità della confessione, sta bene; era come uno squarcio nella nube; poi la nube ridiventava nera.

Per quanto fossero confusi i ricordi di Mario, pure gliene ritornava qualche traccia.

Cos'era in definitiva l'avventura del tugurio Jondrette? Perché, all'arrivo della polizia, invece di querelarsi, quell'uomo era fuggito? Qui trovava la risposta; perché era un galeotto latitante.

Altro quesito: Perché quell'uomo era venuto nella barricata?

Adesso, Mario rivedeva distintamente quel ricordo, riapparso in quella sua emozione, come l'inchiostro simpatico al fuoco.

Quell'uomo era nella barricata, ma senza combattere. Che era venuto a fare? Di fronte a questa domanda, uno spettro si rizzava e rispondeva, Javert. Mario ricordava perfettamente in quel momento la funebre visione di Valjean che trascinava fuori della barricata Javert legato, e sentiva ancora venire di dietro l'angolo del vicolo Mondétour l'orribile colpo di pistola.

Verosimilmente c'era odio tra quella spia e quel galeotto; l'uno impacciava l'altro; e Valjean era andato alla barricata per vendicarsi. Vi era giunto tardi, quando già sapeva probabilmente che Javert vi era trattenuto prigioniero. La vendetta còrsa è penetrata in certi bassifondi e vi fa legge; essa è tanto semplice che non stupisce neppure le anime già mezzo rivolte verso il bene; e quei cuori sono così fatti che un colpevole avviato al pentimento può benissimo per scrupolo trattenersi dal furto e non dalla vendetta. Valjean aveva ucciso Javert; almeno, la cosa pareva evidente.

Ultimo quesito infine, a cui però non trovava risposta, e che lo teneva afferrato come una morsa. Come mai l'esistenza di Valjean era stata così a lungo vicino a quella di Cosetta? Cos'era quel cupo gioco della Provvidenza che aveva messo quella fanciulla a contatto con quell'uomo? Ci sono dunque delle catene a due forgiate lassù, e Dio si diletta ad accoppiare l'angelo col démone? Il delitto e l'innocenza possono dunque essere compagni di camerata nella misteriosa galera delle miserie? In quella sfilata di condannati che si chiama il destino umano, possono passare l'una vicino all'altra due fronti: l'una ingenua, l'altra terribile, l'una bagnata dai sublimi candori dell'alba, l'altra per sempre rabbrividente al bagliore d'un eterno lampo? Chi aveva potuto determinare quell'inesplicabile unione? In che maniera, in seguito a quale prodigio era stata possibile una comunanza di vita tra quella celeste piccina e quel vecchio dannato? Chi aveva potuto legare l'agnello al lupo, e, cosa più incomprensibile, il lupo all'agnello?

Infatti il lupo amava l'agnello, la creatura selvaggia adorava la creatura debole, e per nove anni l'angelo aveva trovato il suo punto d'appoggio nel mostro. L'infanzia e l'adolescenza di Cosetta, il suo sviluppo, il suo virgineo progresso verso la luce e la vita erano stati protetti da quell'affetto deforme.

E qui, i quesiti si sfogliavano, per così dire, in una serie innumerevole di enigmi, gli abissi si spalancavano in fondo agli abissi, e Mario non poteva più chinarsi verso Valjean senza vertigine Cos'era dunque quell'uomo-precipizio?

Gli antichi simboli genesiaci sono eterni. Nella società umana così com'è, fino al giorno in cui una maggior luce la muterà, ci sono sempre due uomini, l'uno superiore, l'altro sotterraneo; quello conforme al bene è Abele, quello conforme al male è Caino.

Cos'era quel Caino affettuoso? Cos'era quel bandito religiosamente assorto nell'adorazione d'una vergine, che aveva vegliato su lei, l'aveva allevata, custodita, resa pregevole, circondandola, egli impuro, di purezza? Cos'era quella cloaca che aveva venerato quell'innocenza al punto da non comunicarle alcuna macchia?

Cos'era quel Valjean che forniva l'educazione a Cosetta? Cos'era quella figura tenebrosa che aveva l'unica cura di preservare da ogni ombra e da ogni nube il sorgere d'un astro? Era quello il segreto di Valjean; ed era pure il segreto di Dio.

Di fronte a questo duplice segreto, Mario indietreggiava. L'uno in certo qual modo lo rassicurava dell'altro. In quell'avventura, Dio era visibile quanto Valjean. Dio ha i suoi strumenti, fa uso degli utensili che vuole, e non è responsabile dinanzi all'uomo.

Sappiamo noi quale sia il suo metodo? Era incontestabile che Valjean aveva lavorato attorno a Cosetta, aveva cooperato a formare quell'anima. Ebbene, è così? L'artefice era orribile, ma il lavoro mirabile. Dio, che produce i suoi miracoli come gli piace, aveva costruito quella incantevole Cosetta usando di Valjean: gli era piaciuto scegliersi quello strano collaboratore.

Che conto possiamo domandargli? E' forse la prima volta che il letame aiuta la primavera a produrre la rosa?

Mario si dava tali risposte, dichiarando tra sé che erano buone.

Su nessuno dei punti da noi ora indicati aveva osato insistere con Valjean, senza per altro confessare a se medesimo di non osare.

Adorava Cosetta, la possedeva e la trovava splendidamente pura; ciò gli bastava. Di quali schiarimenti aveva bisogno? Cosetta era una luce, e la luce ha forse bisogno di essere illuminata? Egli aveva già tutto; che poteva desiderare? Il tutto forse non basta?

Gli affari personali di Valjean non lo riguardavano. Chinandosi sull'ombra fatale di quell'uomo, egli si aggrappava alla solenne dichiarazione del miserabile: Io non sono nulla per Cosetta. Dieci anni fa non sapevo che lei esistesse.

Valjean era un passante. Lo aveva detto lui stesso. Ebbene, egli passava. Chiunque fosse, la sua parte era terminata. Ad adempiere le funzioni di Provvidenza vicino a Cosetta c'era lui ora, Mario.

Essa era venuta a rintracciare nell'azzurro il suo simile, l'amante, lo sposo, il maschio celeste; involandosi, alata e trasfigurata, essa si lasciava dietro sulla terra la sua vuota e orribile crisalide, Valjean.

In qualunque ordine d'idee si aggirasse, Mario tornava sempre a un certo orrore per Valjean. Orrore sacro, poiché, come abbiamo accennato, egli sentiva in quell'uomo un "quid divinum". Ma checché facesse e qualunque attenuante cercasse, doveva sempre ricadere su questo punto, che era un galeotto, vale a dire un essere che non trova posto nemmeno nella scala sociale, essendo più giù dell'ultimo gradino. Dopo l'ultimo degli uomini viene il forzato, il quale, per così esprimerci, non è più per i vivi nemmeno il prossimo. La società l'ha privato di tutta la parte d'umanità che si può togliere a un uomo. Quantunque democratico, nelle questioni penali Mario credeva ancora al sistema inesorabile, e aveva tutte le idee della legge su coloro che la legge colpisce. Egli non aveva, diciamolo pure, raggiunto tutti i progressi; non era ancora pervenuto a distinguere tra quanto è scritto dall'uomo e quanto è scritto da Dio, tra la legge e il diritto; non aveva esaminato e pesato la facoltà che l'uomo si arroga di disporre dell'irrevocabile e dell'irreparabile; la parola "vendetta" non lo rivoltava. Gli sembrava naturale che certe violazioni della legge scritta fossero seguite da pene eterne, e accettava, come un portato della civiltà, la dannazione sociale. Era ancora a quel punto, salvo ad andare infallibilmente avanti più tardi, poiché il suo carattere era buono e in fondo tutto fatto di progresso latente.

In mezzo a tale ordine d'idee, Valjean gli appariva deforme e ripugnante. Era il reprobo, il forzato: questa parola era per lui come la tromba del giudizio; e dopo aver considerato a lungo Valjean, il suo ultimo gesto era quello di volgere altrove il capo. "Vade retro".

Bisogna riconoscere che Mario - pur interrogando Valjean al punto che questi gli aveva detto: "voi volete la mia confessione" - non gli aveva mosso due o tre domande decisive; e questo non già perché non gli si fossero affacciate alla mente, ma perché ne aveva avuto paura. La stamberga Jondrette? La barricata? Javert?

Chi sa fin dove sarebbero giunte le rivelazioni?

Valjean non sembrava un uomo da indietreggiare.

Chi sa se, dopo averlo spinto, Mario non avrebbe desiderato trattenerlo?

Non è accaduto a tutti, in certe circostanze supreme, dopo aver fatto una domanda, di turarci le orecchie per non udire la risposta? Soprattutto quando si ama, accade di commettere simili viltà. Non è prudente interrogare a oltranza nelle situazioni sinistre, soprattutto quando il lato indissolubile della nostra esistenza vi è fatalmente implicato. Dalle spiegazioni disperate di Valjean poteva balzar fuori qualche luce spaventosa, e chi sa se questa non sarebbe rimbalzata anche su Cosetta? Chi sa se non sarebbe rimasta una specie d'infernale bagliore sulla fronte di quell'angelo?

La zacchera di un fulmine è pur sempre fulmine. La fatalità ha di queste solidarietà, nelle quali la stessa innocenza s'infosca di delitto per la legge dei riflessi coloranti. I visi più puri possono serbare pur sempre il riflesso d'una orribile vicinanza. A torto o a ragione, Mario aveva avuto paura. Ne sapeva già troppo.

Cercava di stordirsi anziché rischiararsi, e tutto smarrito, portava via con sé Cosetta fra le braccia chiudendo gli occhi su Valjean.

Quell'uomo era tenebra, tenebra vivente e terribile. Come osare indagarne il fondo? Interrogare l'ombra è una cosa spaventosa. Chi sa quale sarà la risposta? L'alba potrebbe rimanerne oscurata per sempre.

In tale stato d'animo, il pensiero che colui da quel momento avrebbe avuto un rapporto qualsiasi con Cosetta, era per Mario una straziante perplessità. Ora si rimproverava quasi di non aver mosso quelle domande formidabili, innanzi alle quali aveva indietreggiato, e da cui sarebbe potuta scaturire una decisione implacabile e definitiva. Gli sembrava d'essere stato troppo buono, troppo dolce, diciamo la parola, troppo debole, e che quella debolezza l'avesse trascinato a una concessione imprudente.

S'era lasciato commuovere. Aveva avuto torto. Avrebbe dovuto puramente e semplicemente respingere Valjean. Costui rappresentava la parte del fuoco: egli avrebbe dovuto farlo e sbarazzare di quell'uomo la sua casa. Era irritato con se stesso e con la rapidità di quel vortice d'emozioni che l'aveva assordato, accecato e trascinato. Era insomma scontento di sé.

E ora come fare? Le visite di Valjean gli ripugnavano profondamente. Perché quell'uomo in casa sua? Che ci veniva a fare? E qui si stordiva, non voleva indagare, non voleva approfondire, non voleva scrutare in se stesso. Aveva promesso, s'era lasciato indurre a promettere. Valjean aveva la sua promessa. Ebbene, anche con un forzato, soprattutto con un forzato, si deve mantenere la parola. Tuttavia il suo primo dovere riguardava Cosetta. Infine una ripugnanza, che dominava tutto, lo sconvolgeva.

Mario agitava nella mente tutte queste idee alla rinfusa, passando dall'una all'altra, sconvolto da tutte. Di qui un profondo turbamento, che non gli riuscì facile nascondere a Cosetta. Ma l'amore è un talento, e Mario ci riuscì.

Del resto, senza scopo apparente, fece delle domande a Cosetta, che era candida come la colomba e non sospettava di nulla; le parlò dell'infanzia e della giovinezza di lei, e si convinse sempre più che quel galeotto era stato per Cosetta tutto quanto un uomo può essere di buono, di paterno e di rispettabile. Quello che Mario aveva intravisto e supposto era reale: quella sinistra ortica aveva amato e protetto quel giglio.




Libro 8


DECRESCENZA CREPUSCOLARE



1. LA STANZA A PIANTERRENO


L'indomani, sull'imbrunire, Valjean bussò alla porta di casa Gillenormand. Lo accolse Basco, che si trovò nel cortile al momento opportuno, come se avesse ricevuto qualche ordine in proposito. Avviene talvolta di dire a un servo: - State attento che verrà il signor tale.

Senza aspettare che Valjean gli si avvicinasse, Basco gli rivolse la parola:

- Il signor barone m'ha incaricato di domandare al signore se desidera andare di sopra o restare a basso.

- Resto a basso - rispose Valjean.

Il servo, del resto perfettamente rispettoso, aprì l'uscio della sala al pianterreno, dicendo: - Vado ad avvertire la signora.

La stanza in cui entrò Valjean era un pianterreno a volta e umido, che all'occorrenza serviva di cantina; dava sulla via, aveva il pavimento di mattoni rossi, ed era male illuminato da una finestra con le sbarre di ferro.

Non era una stanza di quelle troppo molestate dalla scopa: la polvere vi si ammucchiava tranquillamente; la persecuzione dei ragni non vi era organizzata e una bella ragnatela, largamente distesa, nerissima e ornata di mosche morte, disegnava una ruota sopra un vetro della finestra. Piccola e bassa di soffitto, era occupata da un mucchio di bottiglie vuote buttate in un angolo; le pareti erano rivestite di un intonaco d'ocra gialla scrostato in molti punti; nel fondo, c'era un caminetto di legno dipinto in nero, con la mensola stretta, nel quale ardeva il fuoco; ciò che indicava come si fosse fatto assegnamento sulla risposta di Valjean: "Resto a basso".

Due poltrone erano collocate ai due angoli del caminetto, e tra esse era steso, come tappeto, un vecchio scendiletto che mostrava più corda che lana.

La stanza era illuminata dal fuoco del caminetto e dalla luce del crepuscolo che filtrava attraverso la finestra.

Valjean era stanco; da parecchi giorni non mangiava né dormiva. Si lasciò cadere su una poltrona.

Basco ritornò, pose sul camino una candela accesa e si ritirò, senza che Valjean, con la testa china e il mento sul petto, si accorgesse né di lui né del lume.

A un tratto si rizzò come di soprassalto. Cosetta gli era dietro.

Non l'aveva vista, ma l'aveva sentita entrare Si volse, la guardò. Era adorabilmente bella: però, ciò che egli guardava, con quello sguardo profondo, non era la bellezza, ma l'anima.

- Benissimo! bella idea! - esclamò Cosetta. - Sapevo che eravate strano, papà, ma questa non me la sarei aspettata mai più. Mario m'ha detto che siete voi a volere che io vi riceva qui.

- Sì, sono io.

- Prevedevo la risposta. Preparatevi ora: vi prevengo che sto per farvi una scena. Cominciamo dal principio; papà, baciatemi.

E gli porse la guancia.

Valjean rimase immobile.

- Vedo che non vi muovete: contegno da colpevole. Ma non importa, vi perdono. Gesù Cristo ha detto: "Porgete l'altra guancia".

Eccola.

E gli presentò l'altra guancia.

Valjean non si mosse; pareva che i suoi piedi fossero inchiodati al suolo.

- La faccenda si fa seria - disse Cosetta. - Che vi ho fatto? Mi dichiaro imbronciata. Ora dovete meritarvi la riconciliazione.

Pranzerete con noi.

- Ho già pranzato.

- Non è vero. Vi farò sgridare dal nonno; i nonni sono fatti apposta per correggere i genitori. Su via, salite con me nel salotto. Subito.

- Impossibile.

Qui Cosetta perse terreno: smise di comandare e passò alle domande.

Ma perché? E scegliete per vedermi la più brutta stanza della casa! E' orribile qui.

- Tu sai... - Valjean si corresse:

- Voi sapete, signora, che ho le mie idee, le mie ubbie.

Cosetta batté le piccole mani l'una contro l'altra.

- Signora!... voi sapete!... ecco altre novità! Che vuol dire?

Valjean le rivolse quel sorriso straziante al quale ricorreva talvolta.

- Avete voluto essere signora, e lo siete.

- Ma non per voi, papà.

- Non chiamatemi più papà.

- Come?

- Chiamatemi signor Giovanni o, se volete, Giovanni.

- Non siete più il mio papà? Non sono più Cosetta? signor Giovanni? Cosa vuol dire tutto ciò? Ma sono rivoluzioni, queste!

che è successo dunque? guardatemi un momento in faccia. E non volete abitare con noi! E non ne volete sapere della mia camera!

Che vi ho fatto? C'è dunque qualche cosa?

- Nulla.

- Ma, e allora?

- Tutto va come al solito.

- Perché cambiate nome?

- L'avete ben cambiato, voi!

Sorrise di nuovo e aggiunse con lo stesso sorriso:

- Poiché voi vi chiamate signora Pontmercy, io posso ben chiamarmi signor Giovanni.

- Non ci capisco niente. Tutto è idiota. Domanderò a mio marito il permesso che diventiate il signor Giovanni, e spero che non consentirà. Voi mi affliggete molto. Potete avere delle ubbie, ma non dovete per questo affliggere la vostra piccola Cosetta. Non va bene. Non avete il diritto d'essere cattivo, voi che siete buono.

Egli non rispose.

Lei gli afferrò con impeto le mani, e alzandole con un moto irresistibile fino al proprio volto, se le strinse, gesto di profonda tenerezza, sul collo e sul mento.

- Oh! - disse, - siate buono!

E proseguì:

- Ecco ciò che io chiamo essere buono: mostrarsi compiacente, venire ad abitare qui dove ci sono degli uccelli come in via Plumet, vivere con noi, lasciare quel buco di via Homme-Armé; riprendere le nostre belle passeggiatine, non darci delle sciarade da indovinare, essere come tutti, pranzare con noi, far colazione con noi, essere mio padre.

E gli lasciò libere le mani.

- Ora non avete più bisogno di padre, avete un marito.

Cosetta andò in collera:

- Non ho più bisogno di padre! A sentir queste cose che non hanno senso, davvero non si sa che rispondere!

- Se fosse qui la Toussaint - riprese Valjean come uno che è ridotto a invocare l'autorità altrui e si attacca a tutte le ramaglie - sarebbe la prima a convenire che ho sempre avuto le mie abitudini particolari. Non c'è niente di nuovo. Ho sempre amato il mio cantuccio oscuro.

- Ma qui fa freddo e non ci si vede chiaro. E' una cosa abominevole il volersi far chiamare signor Giovanni. Non voglio che mi diate del voi.

- Poc'anzi venendo qui - riprese Valjean - ho visto nella bottega d'un ebanista, in via San Luigi, un mobile che, se fossi una bella donna, vorrei avere per me. E' una bella toletta di forma moderna, di quello che chiamate, credo, legno rosa, tutta intarsiata, con uno specchio abbastanza grande. Ha pure i cassetti. E' graziosa.

- Uh! brutto orso! - rispose Cosetta.

E con una gentilezza squisita, stringendo i denti e staccando le labbra, soffiò contro Valjean: era una grazia che imitava una gatta.

- Sono furiosa - riprese. - Da ieri mi fate tutti arrabbiare, e io mi arrovello. Non capisco: voi non mi difendete contro Mario, Mario non mi sostiene contro di voi; sono sola. Preparo una bella camera; se avessi potuto metterci il buon Dio, ce lo avrei messo; ed ecco che mi lasciano la camera vuota: il mio inquilino fa bancarotta. Ordino a Nicoletta un buon pranzetto: - Signora, non vogliono il vostro pranzo. - E il mio papà Fauchelevent pretende che io lo chiami Giovanni, e che lo riceva in una vecchia e brutta cantina ammuffita dove le pareti hanno la barba, e per cristalli ci sono le bottiglie vuote e per tendine le ragnatele! Voi siete strano ne convengo, è la vostra specialità, ma si deve concedere un po' di tregua agli sposi novelli. Non avreste dovuto ricominciare così presto a essere strano. Ve ne andate a vivere tutto contento nella vostra orribile via Homme-Armé. Io invece ci sono stata tanto disperata! Che avete contro di me? Mi fate molta pena. Vergogna!

E diventando d'un tratto seria, guardò fisso Valjean e aggiunse:

- Vi dispiace dunque che io sia felice?

Talvolta l'ingenuità, a sua insaputa, colpisce molto addentro.

Questa domanda, semplice per Cosetta, era profonda per Valjean.

Essa aveva voluto soltanto graffiare e invece lacerava.

Valjean impallidì, rimase un istante senza rispondere; poi, con un tono inesprimibile e parlando a se stesso, mormorò:

- La tua felicità era lo scopo della mia vita. Ora Dio può firmarmi il biglietto d'uscita. Tu sei felice, Cosetta; il mio compito è finito.

- Ah! m'avete detto tu! - esclamò Cosetta.

E gli saltò al collo.

Valjean, fuori di sé, se la strinse al petto tutto smarrito. Gli parve quasi di riprendersela.

- Grazie, papà! - gli disse Cosetta.

Il trasporto minacciava di diventare straziante per Valjean, il quale staccatosi dolcemente dalle braccia di Cosetta, prese il cappello.

- Ebbene? - chiese lei.

Egli rispose:

- Vi lascio, signora, siete attesa E dal limitare della stanza aggiunse:

- Vi ho dato del tu. Dite a vostro marito che questo non mi accadrà più. Perdonatemi.

E uscì, lasciando Cosetta attonita per quell'enigmatico addio.




2. ALTRI PASSI INDIETRO


Il giorno seguente, Valjean tornò alla stessa ora.

Cosetta non gli fece domande, non si stupì più, non protestò di sentir freddo, non parlò più del salotto; evitò tanto di dire papà quanto signor Giovanni, si lasciò dare del voi, si lasciò chiamare signora. Sennonché c'era in lei una certa diminuzione di gioia; e sarebbe stata triste, se la tristezza le fosse stata possibile.

E' probabile che avesse avuto con Mario uno di quei colloqui, in cui l'uomo amato dice quello che vuole, non spiega nulla e accontenta la donna amata. La curiosità degli innamorati non si spinge mai molto lontano dal loro amore.

La stanza al pianterreno aveva fatto un po' di toletta! Basco aveva portato via le bottiglie e Nicoletta le ragnatele.

Tutti i giorni che seguirono Valjean ritornò alla stessa ora.

Tornò ogni giorno, non avendo la forza di prendere le parole di Mario se non alla lettera. Dal canto suo, Mario si regolò in modo da essere sempre assente nelle ore in cui veniva Valjean. La casa si abituò al nuovo contegno di Fauchelevent, e la Toussaint vi contribuì ripetendo: - ll signore è sempre stato così. - Il nonno diede questa sentenza: - E' un originale, - e se ne accontentò.

D'altronde a novant'anni non ci sono più nuovi legami possibili; tutto è sovrapposizione, e un nuovo venuto è un fastidio. Non c'è più posto: le abitudini sono ormai radicate; e papà Gillenormand non chiese nulla di meglio che essere dispensato da quel signor Fauchelevent o Tranchelevent, aggiungendo: - Non c'è cosa più comune di siffatti originali, che commettono ogni sorta di bizzarrie. Quanto ai motivi, zero. Il marchese di Canaples faceva di peggio; comprò un palazzo per abitarne il solaio. Sono fantasie.

Nessuno sospettò il tragico che c'era sotto. Chi, del resto avrebbe potuto sospettare una cosa simile? Ci sono dei curiosi pantani nell'India: l'acqua sembra straordinaria, inesplicabile, fremente mentre non c'è vento, agitata mentre dovrebbe essere calma: si vedono alla superficie quei subbollimenti senza causa, ma non l'idra che striscia sul fondo.

Molti uomini hanno un mostro segreto, un male che nutrono, un drago che li rode, una disperazione che abita la loro notte. Un uomo siffatto rassomiglia agli altri, si muove come gli altri; e nessuno sa che c'è in lui un tremendo dolore parassita dai mille denti, che vive in quel miserabile e lo uccide; nessuno sa che quell'uomo è una voragine, stagnante, ma profonda. Ogni tanto si nota alla sua superficie un turbamento del quale non si capisce niente. Una ruga misteriosa si forma, poi svanisce, poi ricompare; una bolla d'aria sale e scoppia. Poca cosa, ma terribile: è la respirazione del mostro ignoto.

Certe abitudini strane, arrivare quando gli altri partono, nascondersi quando gli altri si mettono in vista, conservare in ogni occasione quello che potrebbe chiamarsi il mantello color del muro, cercare il viale solitario, preferire la via deserta, non prendere parte alla conversazione, evitare le folle e le feste, sembrare agiato e vivere meschinamente, avere, pur essendo ricco, la chiave di casa in tasca e la candela del portinaio, entrare dalla porta di servizio, salire per la scala segreta: tutte queste stranezze insignificanti, rughe, bolle d'aria, striature momentanee alla superficie, derivano spesso da un fondo terribile.

Passarono così parecchie settimane. A poco a poco un'esistenza nuova s'impadronì di Cosetta. Le relazioni sorte dal matrimonio, le visite, le cure della casa e quegli importanti affari che sono i piaceri. I suoi piaceri non erano costosi: consistevano in uno solo: stare con Mario. Uscire con lui, rimanere con lui, ecco la grande occupazione della sua vita. Era per essi una gioia sempre nuova andar fuori a braccetto, alla luce del sole, nella pubblica via, senza celarsi, in presenza di tutti, loro due soli. Cosetta provò una contrarietà: la Toussaint non poté andar d'accordo con Nicoletta, essendo riuscito impossibile l'amalgama delle due vecchie zitelle, e se ne andò. Il nonno stava bene; Mario ogni tanto difendeva qualche causa, e la zia Gillenormand conduceva pacificamente presso la nuova coppia quell'esistenza laterale che le bastava.

Valjean veniva tutti i giorni.

Il tu sparito, il voi, il signora, il signor Giovanni lo rendevano diverso per Cosetta; e la cura che egli metteva a staccarla da sé otteneva effetto. Lei era sempre più gaia e sempre meno affettuosa; eppure gli voleva sempre molto bene, ed egli se ne accorgeva. Un giorno gli disse a un tratto: - Voi eravate mio padre e non siete più mio padre, eravate mio zio e non siete più mio zio, eravate il signor Fauchelevent e ora siete Giovanni. Chi siete dunque? Tutto questo non mi va. Se non vi conoscessi così buono, avrei paura di voi.

Egli continuò ad abitare in via Homme-Armé, giacché non riusciva a decidersi ad allontanarsi dal quartiere in cui dimorava Cosetta.

Nei primi tempi si tratteneva con lei soltanto alcuni minuti e se ne andava.

Poi, a poco a poco, prese l'abitudine di far le visite meno brevi.

Sembrava che approfittasse dell'autorizzazione delle giornate che si allungavano; giungeva più presto e ripartiva più tardi.

- Un giorno a Cosetta capitò di chiamarlo papà. Un lampo di gioia rischiarò il volto cupo di Valjean, il quale tuttavia la riprese:

- Dite Giovanni.

- Ah! è vero, - essa rispose con uno scoppio di risa, - signor Giovanni.

Così va bene - disse egli, e si voltò perché lei non lo vedesse asciugarsi gli occhi.




3. SI RICORDANO DEL GIARDINO DI VIA PLUMET


Fu l'ultima volta. Dopo l'ultimo barlume, fu l'estinzione completa. Non più familiarità, non più il buongiorno con un bacio, non più quella parola così profondamente dolce: papà! A sua richiesta e con la sua complicità, era successivamente scacciato da tutte le sue felicità; e sentiva quell'angoscia d'avere perduto Cosetta, prima, tutta intera, in un sol giorno, poi di riperderla lentamente, ma inesorabilmente, di giorno in giorno.

L'occhio finisce con l'abituarsi alla luce dei sotterranei. Tutto sommato, vedere ogni giorno Cosetta gli bastava. La sua vita si concentrava esclusivamente in quell'ora; si sedeva accanto a lei, la guardava in silenzio, oppure si parlava dei tempi addietro, dell'infanzia, del convento, delle sue piccole amiche d'allora.

Un pomeriggio - era una delle prime giornate d'aprile, già calda e ancora fresca, il momento della gran gioia del sole, i giardini dominati dalle finestre di Mario e Cosetta avevano l'emozione del risveglio, i biancospini cominciavano a spuntare, la gioielleria delle viole era in mostra sui vecchi muri, le rosee corolle si schiudevano fra le commessure delle pietre, nell'erba si vedeva un grazioso sbocciar di margherite e di ranuncoli gialli, le farfalle bianche del nuovo anno facevano la loro apparizione, e il vento, questo menestrello delle nozze eterne, tentava fra gli alberi le prime note di quella gran sinfonia aurorale, che gli antichi poeti chiamavano la stagione nuova - un pomeriggio Mario disse a Cosetta:

- Abbiamo detto che saremmo andati a rivedere il nostro giardino di via Plumet. Andiamoci. Non dobbiamo essere ingrati. - E presero il volo come due rondini verso la primavera. Quel giardino di via Plumet rappresentava per essi quasi l'alba; s'erano già lasciato indietro nella vita qualcosa che era come la primavera del loro amore. La casa di via Plumet, data a pigione, apparteneva tutta a Cosetta. Andarono in quel giardino e in quella casa e ci si ritrovarono, ci si dimenticarono. Quando la sera, all'ora solita, Valjean si presentò in via Figlie del Calvario, Basco gli disse: - La signora è uscita col signore e non è ancora tornata. - Egli sedette in silenzio e aspettò un'ora; ma Cosetta non rientrò.

Allora egli chinò la testa e se ne andò.

Cosetta era tanto inebriata della sua passeggiata al "loro giardino", così giuliva d'aver "vissuto un giorno intero del passato" che l'indomani non parlò d'altro, e non si accorse neppure di non aver visto Valjean.

- In che modo vi siete recati laggiù? - le chiese.

- A piedi.

- E come siete tornati?

- Con una vettura pubblica.

Da qualche tempo, Valjean notava la vita ristretta che conduceva la giovane coppia, e ne era preoccupato. L'economia di Mario era severa, e tale espressione per Valjean aveva il significato assoluto. Egli arrischiò una domanda.

- Perché non tenete una carrozza vostra? Un grazioso cupé non vi costerebbe che cinquecento franchi al mese, e voi siete ricchi.

- Non so - rispose Cosetta.

- E così pure per la Toussaint - egli riprese. - Da quando s'è licenziata, non l'avete ancora sostituita. Perché?

- Nicoletta basta.

- Ma vi occorrerebbe una cameriera.

- Non ho Mario?

- Dovreste formare una casa vostra, con domestici vostri, una carrozza, il palchetto a teatro. Non c'è niente di troppo bello per voi. Perché non approfittate della vostra ricchezza? Essa accrescerebbe la vostra felicità.

Cosetta non rispose.

Le visite di Valjean non s'accorciavano; anzi. Quando il cuore scivola, non ci si ferma sul pendio.

Se Valjean voleva prolungare la visita e far dimenticare l'ora, si metteva a tessere l'elogio di Mario: lo trovava bello, nobile, coraggioso, spiritoso, eloquente, buono. Cosetta rincarava la dose, egli tornava da capo, e non finivano più. Mario era un tema inesauribile; interi volumi si contenevano in quelle cinque lettere. Così gli riusciva di restare a lungo. Era così dolce per lui vedere Cosetta e dimenticare tutto, accanto a lei! Era la medicina della sua ferita. Accadde parecchie volte che Basco andò a dire a due riprese: - Il signor Gillenormand mi manda a ricordare alla signora baronessa che il pranzo è servito.

In quei giorni Valjean tornava a casa molto pensieroso.

C'era del vero dunque nella similitudine della crisalide che s'era presentata alla mente di Mario? Era veramente Valjean una crisalide che si ostinava ad andare a visitare la sua farfalla?

Un giorno si trattenne ancor più del solito. L'indomani notò che non c'era fuoco nel caminetto.

- Guarda, non c'è fuoco - pensò. E dette a se stesso questa spiegazione: - E' naturale; siamo in aprile, e non fa più freddo.

- Mio Dio, come fa freddo qui! - esclamò Cosetta entrando.

- Ma no - rispose Valjean.

- Siete stato voi che avete detto a Basco di non accendere?

- Sì. A momenti siamo in maggio.

- Ma si accende fino a giugno. In questa cantina poi, ci vuole tutto l'anno.

- Ho creduto che fosse inutile.

- Un'idea delle vostre! - essa riprese.

L'indomani il fuoco era acceso; ma le due poltrone erano collocate all'altra estremità della stanza, presso la porta.

- Cosa significa questo? - pensò Valjean.

Prese le poltrone e le rimise al solito posto, accanto al camino.

Tuttavia quel fuoco riacceso l'incoraggiò, e protrasse il colloquio anche più del solito. Mentre si alzava per andarsene, Cosetta gli disse:

- Mio marito mi ha detto una cosa curiosa ieri.

- Quale?

- Mi disse: - Cosetta, noi abbiamo trentamila franchi di rendita; ventisette tuoi e tre che mi ha assegnato il nonno. Io risposi: - Così sono trenta. - Egli riprese: - Avresti il coraggio di vivere coi soli tremila? - Io risposi: - Sì, anche con nulla, purché sia con te. - E a mia volta gli chiesi: Perché mi dici questo? - Così per sapere - mi rispose.

Valjean non trovò una parola da dire. Probabilmente Cosetta si aspettava da lui qualche spiegazione; ma egli l'ascoltò in un cupo silenzio. Ritornò in via Homme-Armé, ma era così profondamente assorto, che sbagliò uscio e invece di entrare in casa sua, entrò in quella vicina. Solo dopo aver salito due piani si avvide dell'errore e ridiscese.

La sua mente era piena di congetture. Evidentemente Mario aveva dei dubbi sull'origine dei seicentomila franchi, temeva qualche sorgente impura, fors'anche, chi sa? aveva scoperto che quel denaro proveniva da lui, ed esitava, e gli ripugnava accettare come sua quella ricchezza sospetta, preferendo rimanere povero con Cosetta, anziché essere ricco d'una ricchezza equivoca.

Inoltre, Valjean cominciava a sentirsi messo alla porta.

Il giorno seguente, entrando nella stanza al pianterreno provò quasi una scossa; le poltrone erano scomparse e non c'era neppure una sedia.

- Come! - esclamò Cosetta che sopraggiungeva, - le poltrone? Dove sono le poltrone?

- Non ci sono più - rispose Valjean.

- Questa è grossa!

Egli balbettò:

- Sono stato io che ho detto a Basco di portarle via.

- E il motivo?

- Non mi trattengo che pochi minuti oggi.

- Restare per poco non è una ragione per stare in piedi.

- Credo che Basco avesse bisogno delle poltrone per il salotto.

- Perché?

- Certo, stasera avrete gente.

- Non abbiamo nessuno.

Valjean non seppe aggiungere altro. Cosetta alzò le spalle.

- Far togliere le poltrone! L'altro giorno faceste spegnere il fuoco. Come siete bizzarro!

- Addio - mormorò Valjean.

Non disse: - Addio, Cosetta. - Ma non ebbe il coraggio di dire: - Addio signora.

Uscì abbattuto.

Questa volta aveva compreso.

L'indomani non venne. Cosetta lo notò soltanto la sera.

- Guarda! - disse - il signor Giovanni non è venuto oggi.

Provò una profonda stretta al cuore; ma la sentì appena, subito distratta da un bacio di Mario.

Il giorno dopo, non venne.

Cosetta non ci badò: passò la serata e dormì la notte come al solito, e ci pensò solo svegliandosi. Era tanto felice! Mandò subito Nicoletta dal signor Giovanni per sapere se era malato, e perché non era venuto la sera prima. Nicoletta riferì la risposta del signor Giovanni: non era malato, ma occupato; sarebbe venuto presto, più presto che poteva; del resto, doveva fare un piccolo viaggio; la signora doveva ricordarsi che egli aveva l'abitudine di fare dei viaggi di quando in quando. Non doveva avere nessuna inquietudine e non si doveva preoccupare per lui.

Nicoletta, entrando dal signor Giovanni, gli aveva ripetuto le precise parole della sua padrona: la signora mandava a chiedere "perché il signor Giovanni non era venuto il giorno prima".

- Sono due giorni che non vengo, - egli notò con dolcezza.

Ma l'osservazione sfuggì a Nicoletta, che non la riferì a Cosetta.




4. ATTRAZIONE ED ESTINZIONE


Durante gli ultimi mesi della primavera e i primi dell'estate del 1833 i rari passanti del Marais, i bottegai, gli oziosi che erano sulla soglia notavano un vecchio, vestito passabilmente di nero, che ogni giorno, verso la stessa ora, sull'imbrunire, usciva dalla via Homme-Armé dal lato della via Sainte-Croix-de-la-Bretonnerie, oltrepassava la via Blancs-Manteaux, raggiungeva la via Culture- Sainte-Catherine, arrivava a quella dell'Echarpe, voltava a sinistra ed entrava nella via San Luigi.

Là, camminava a passi lenti, con la testa in avanti, senza vedere nulla, senza sentire nulla, con lo sguardo immutabilmente fisso su un punto sempre identico, che a lui pareva stellato: l'angolo della via Figlie del Calvario.

Più s'avvicinava a quell'angolo di via, più il suo occhio si rischiarava; una gioia simile a un'aurora interna gli illuminava le pupille; il suo aspetto diventava affascinato e commosso; le sue labbra avevano dei movimenti strani, quasi parlasse a qualcuno che non vedeva; sorrideva vagamente e andava avanti più lentamente che poteva. Sembrava che, pur desiderando d'arrivare, avesse paura del momento in cui si sarebbe trovato là vicino. Quando non rimaneva più che qualche casa fra lui e la via che sembrava attirarlo, rallentava tanto il passo che in certi momenti pareva non camminasse neppure. Il vacillare del capo e la fissità dello sguardo facevano pensare all'ago che cerca il polo. Ma per quanto si impegnasse a ritardare l'arrivo, doveva pur arrivare; egli raggiungeva la via Figlie del Calvario, e allora si fermava tremando, sporgeva la testa con una certa cupa timidezza oltre la cantonata dell'ultima casa, e guardava nella via; in quel suo tragico sguardo c'era qualcosa che somigliava al barbaglio dell'impossibile e al riverbero d'un paradiso chiuso. Poi una lacrima formatasi a poco a poco nell'angolo delle palpebre, divenuta abbastanza grossa per cadere, scivolava sulla gota e qualche volta si fermava alla bocca, sicché il vecchio ne sentiva l'amaro sapore. Rimaneva così alcuni minuti come se fosse diventato una statua di pietra; poi se ne tornava per la stessa via, con lo stesso passo, e mentre si allontanava, lo sguardo si spegneva.

A poco a poco, quel vecchio smise di spingersi fino all'angolo della via Figlie del Calvario, fermandosi a metà strada nella via San Luigi, ora un po' più innanzi, ora un po' più indietro. Un giorno si fermò all'angolo della via Culture-Sainte-Catherine e guardò da lontano quella delle Figlie del Calvario; quindi, scuotendo silenziosamente il capo da destra a sinistra, come se negasse a se stesso qualcosa, tornò indietro.

Ben presto non raggiunse più nemmeno la via San Luigi: arrivava fino alla via Pavée, dimenava la testa e se ne tornava; poi non andò più in là della via dei Trois-Pavillons; poi non oltrepassò più quella dei Blancs-Manteaux. Sembrava il pendolo d'un orologio non ricaricato, che accorcia man mano le sue oscillazioni in attesa di fermarsi.

Ogni giorno usciva di casa alla stessa ora e cominciava lo stesso tragitto, ma non lo compiva più, e, forse senza avvedersene, l'abbreviava sempre un poco. Il suo volto esprimeva questa unica idea: A che pro? La pupilla era spenta; più nessun lampo; anche la lacrima era essiccata e non si raccoglieva più nell'angolo delle palpebre; il suo occhio pensoso era asciutto. La testa era sempre in avanti, il mento talvolta s'agitava, le pieghe del suo magro collo facevano pena. Qualche volta, quando il tempo era cattivo, portava sotto il braccio un ombrello che non apriva. Le donnette del quartiere dicevano: - E' uno scemo.

E i ragazzi lo seguivano ridendo.




Libro 9


OMBRA SUPREMA, SUPREMA AURORA



1. PIETA' PER GLI INFELICI, MA INDULGENZA PER I FELICI


E' una cosa terribile, essere felice! Come ci si accontenta! Come ci pare che basti! E come in possesso del falso scopo della vita che è la felicità, si dimentica il vero scopo che è il dovere!

Tuttavia, avremmo torto ad accusare Mario.

Abbiamo già spiegato che Mario, prima del suo matrimonio, non aveva rivolto domande al signor Fauchelevent e, dopo, aveva temuto di rivolgerne a Valjean. Aveva rimpianto la promessa sfuggitagli, e molte volte s'era ripetuto che aveva avuto torto nel fare quella concessione alla disperazione. S'era limitato ad allontanare Valjean a poco a poco dalla sua casa e a cancellarlo il più possibile dalla mente di Cosetta. Si era in certo modo frapposto sempre tra Cosetta e Valjean, sicuro che così lei, non vedendolo, non ci avrebbe pensato. Più che una cancellazione, era un'eclisse.

Mario agiva come riteneva necessario e giusto.

Per allontanare Valjean senza durezza ma senza debolezza, credeva di avere dei motivi seri che abbiamo già visto e altri che vedremo in seguito. Il caso gli aveva fatto incontrare, in una causa da lui patrocinata, un antico commesso della banca Laffitte, dal quale aveva avuto,senza chiederle, alcune misteriose informazioni, che in verità non aveva potuto approfondire, sia per rispetto a quel segreto che aveva promesso di custodire, sia per riguardo alla situazione pericolosa di Valjean. Credeva allora di avere un grave dovere da compiere: restituire i seicentomila franchi a qualcuno di cui andava in traccia con quanto maggior riserbo poteva. Frattanto si asteneva dal toccare quel denaro.

Quanto a Cosetta, non era a conoscenza di alcuno di quei segreti.

Da Mario a lei veniva un magnetismo onnipotente, che le faceva fare per istinto e quasi automaticamente tutto ciò che egli desiderava. Essa sentiva, nei riguardi del "signor Giovanni", una volontà del marito, e vi si uniformava. Senza che egli le dicesse nulla in proposito, subiva la pressione vaga ma chiara delle tacite intenzioni di lui e obbediva ciecamente. L'obbedienza in questo caso consisteva solo nel non ricordarsi di quanto egli dimenticava; né aveva bisogno di alcuno sforzo per questo. Senza neppure sapere il perché, e non c'è motivo di accusarla, la sua anima era tanto immedesimata con quella del marito, che quanto si copriva d'ombra nella mente di Mario, si oscurava nella sua.

Non andiamo però in fretta. Per quanto concerne Valjean, quell'oblio e quella cancellazione erano soltanto superficiali:

essa era più stordita che dimentica. In fondo, amava molto l'uomo che per tanto tempo aveva chiamato suo padre, ma amava ancor più suo marito. Questo aveva un po' falsato la bilancia del suo cuore, pendente da un sol lato.

Qualche volta Cosetta parlava di Valjean e si stupiva. Allora Mario la calmava: - E' assente, credo. Non disse che partiva per un viaggio? - E' vero - lei pensava; - aveva l'abitudine di sparire così, ma non tanto a lungo. - Mandò due o tre volte Nicoletta in via Homme-Armé a informarsi se il signor Giovanni fosse tornato dal suo viaggio; ma Valjean fece rispondere di no.

Cosetta non chiese di più. Una sola cosa al mondo le era necessaria: Mario.

Diciamo pure che dal canto loro Mario e Cosetta erano stati assenti: erano andati a Vernon, dove Mario aveva condotto Cosetta alla tomba di suo padre.

A poco a poco, Mario aveva sottratto Cosetta a Valjean, e lei aveva lasciato fare.

Del resto, quella che in certi casi con eccessiva durezza si chiama l'ingratitudine dei figli, non è sempre una cosa tanto riprovevole quanto si crede. E' l'ingratitudine della natura, la quale, l'abbiamo detto altrove, "guarda davanti a sé". La natura divide gli esseri viventi in quelli che arrivano e quelli che partono, questi rivolti verso l'ombra, gli altri verso la luce.

Quindi un distacco, che dal lato dei vecchi è fatale, e da quello dei giovani è involontario. Questo distacco, dapprima insensibile, poi s'accresce lentamente, come ogni separazione di rami, i quali senza staccarsi dal tronco se ne allontanano. Non è colpa loro; la giovinezza va dov'è la gioia, verso le feste, gli splendori, l'amore; la vecchiaia va verso la fine; non si perdono di vista, ma non sono più stretti insieme. I giovani sentono il raffreddamento della vita, i vecchi quello della tomba. Non accusiamo quei poveri figlioli.




2. ULTIME PALPITAZIONI DELLA LAMPADA SENZA OLIO


Un giorno Valjean scese le scale, fece tre passi nella via, sedette su un pilastrino, quello stesso su cui Gavroche lo aveva trovato pensieroso la notte dal 5 al 6 giugno; vi si trattenne alcuni minuti, poi risalì. Fu l'ultima oscillazione del pendolo.

L'indomani non uscì di casa; il terzo giorno non si alzò dal letto.

La portinaia, che gli preparava il magro pasto, un po' di cavoli o di patate con un po' di lardo, dopo aver guardato nella scodella di cretaglia, esclamò:

- Ma voi non avete mangiato, poveretto!

- Ma sì - rispose Valjean.

- La scodella è ancora piena.

- Osservate la brocca dell'acqua; è vuota.

- Questo dimostra che avete bevuto, ma non che avete mangiato.

- Ebbene, - replicò Valjean - se ho avuto fame soltanto di acqua?

- Questa si chiama sete e quando nello stesso tempo non si mangia, si chiama febbre.

- -Mangerò domani.

- O il giorno della Trinità! E perché non oggi? Ma si può dire:

mangerò domani? Lasciare lì il mio piatto senza toccarlo! La mia zuppetta che era tanto buona!

Valjean prese la mano della vecchia, e le disse con la sua voce affabile:

- Vi prometto di mangiarla.

- Non sono contenta di voi - rispose la portinaia.

Egli non vedeva nessuna creatura umana fuorché quella donna. Ci sono a Parigi delle vie in cui nessuno passa e delle case in cui nessuno entra; ed egli era appunto in una di quelle vie e di quelle case.

Quando usciva ancora, aveva comprato da un calderaio, per pochi soldi, un piccolo crocifisso di rame, che aveva appeso a un chiodo in faccia al letto. E' sempre bene avere sott'occhio quel patibolo.

Passò una settimana senza che Valjean facesse un passo nella stanza; era sempre coricato. La portinaia diceva a suo marito:

Quel buon uomo di sopra non si alza più, non andrà molto lontano.

Certo, ha dei dispiaceri. Nessuno mi toglie di testa che sua figlia sia mal maritata.

Il portinaio rispose con l'accento della sovranità maritale:

- Se è ricco, chiami un medico. Se non è ricco, ne faccia a meno.

Se non viene il medico, morirà.

- E se viene?

- Morirà - rispose il marito.

La donna si mise a grattare con un vecchio coltello l'erba che spuntava in quello che chiamava il suo selciato, e mentre strappava l'erba borbottava:

- E' un peccato; un vecchio così pulito! E' bianco come un pollo.

E vedendo un medico del rione che passava in fondo alla via, lo pregò di andare di sopra.

- E' al secondo piano - gli disse. - Entrate senz'altro: siccome il vecchio non si muove da letto, la chiave è sempre nella toppa.

Il medico vide Valjean e gli parlò.

Quando ridiscese, la portinaia lo interrogò:

- Ebbene; signor dottore?

- Il vostro ammalato sta molto male.

- Cos'ha?

- Tutto e nulla. A quanto pare, quell'uomo ha perduto una persona cara; e di questo, si muore.

- Che vi ha detto?

- M'ha detto che sta bene.

- Ritornerete, signor dottore?

Sì - rispose il medico. - Ma sarebbe necessario che ritornasse qualcun altro.




3. A CHI SOLLEVO' IL CARRO Dl FAUCHELEVENT PESA UNA PENNA


Una sera Valjean durò fatica sollevarsi sul gomito; si prese la mano e non trovò il polso; aveva il respiro corto e intermittente; riconobbe di essere più debole che mai, e allora, sotto la pressione di una preoccupazione suprema, fece uno sforzo, si rizzò a sedere e si vestì, indossando i suoi vecchi abiti da operaio. Da quando non usciva più, li aveva ripigliati e li preferiva. Dovette sostare parecchie volte, vestendosi; per infilare le maniche della giacchetta, il sudore gli scorreva dalla fronte.

Da quando era solo, aveva trasportato il letto nell'anticamera, per occupare meno che poteva quell'appartamento deserto.

Aprì la valigia e ne trasse fuori il corredo di Cosetta.

E lo spiegò sul letto.

I candelieri del vescovo erano al loro posto sul camino. Tolse da un cassetto due candele di cera e le mise nei candelieri; poi, benché fosse giorno d'estate, le accese. Si vedono così talvolta dei ceri accesi in pieno giorno nelle camere in cui c'è un morto.

Ogni passo che faceva per recarsi da un mobile all'altro lo estenuava e lo costringeva a sedersi. Non era la consueta stanchezza che consuma la forza per rinnovarla, ma l'avanzo dei movimenti possibili, la vita esausta, consumata a goccia a goccia in sforzi accascianti che non saranno più rinnovati.

Una delle sedie su cui si lasciò cadere era posta davanti allo specchio, così fatale per lui e così provvidenziale per Mario. Si vide nello specchio e non si riconobbe; dimostrava ottant'anni.

Prima del matrimonio di Mario, gliene avrebbero dati appena cinquanta. Quell'anno aveva contato per trenta. Quella che aveva sulla fronte non era più la ruga dell'età, ma il segno misterioso della morte; vi si sentiva il solco dell'unghia spietata. Le guance erano cascanti, la pelle del viso aveva quel colore che farebbe credere che ci sia già della terra sopra; gli angoli della bocca s'abbassavano come in quelle maschere che gli antichi scolpivano sulle tombe; guardava il vuoto con aria di rimprovero; si sarebbe detto uno di quei grandi esseri tragici che hanno da lagnarsi di qualcuno.

Si trovava in quello stato che è l'ultima fase della prostrazione, in cui il dolore non si sente più; è, per così dire, coagulato; e sull'anima c'è quasi un grumo di disperazione.

Era sopraggiunta la notte. Egli trascinò faticosamente una tavola e la vecchia poltrona presso il caminetto, e sulla tavola pose una penna, un calamaio e della carta.

Ciò fatto, svenne: quando riprese i sensi ebbe sete, e non potendo sollevare la brocca, la chinò verso le labbra e bevve un sorso.

Poi si volse verso il letto e, sempre seduto, poiché non poteva più stare in piedi, guardò la vesticciola nera e tutti quei cari oggetti.

Tali contemplazioni durano ore che sembrano minuti. D'un tratto fu colto da un brivido, sentì che il freddo veniva; posò il gomito sulla tavola rischiarata dai candelieri del vescovo e prese la penna.

Siccome la penna e l'inchiostro da molto tempo non erano stati adoperati, la punta della penna era incurvata, l'inchiostro disseccato: dovette alzarsi e mettere qualche goccia d'acqua nel calamaio, ciò che non poté fare senza fermarsi e sedersi due o tre volte. Fu obbligato a scrivere col dorso della penna. Ogni tanto si asciugava la fronte.

La sua mano tremava: scrisse lentamente queste poche righe:

"Cosetta, ti benedico. Voglio spiegarti. Tuo marito ha avuto ragione di farmi capire che dovevo allontanarmi; c'è qualche errore, è vero, in quello che ha creduto, ma insomma ha avuto ragione. Egli è un uomo eccellente. Amalo sempre, molto, quando io sarò morto. Signor Pontmercy, amate sempre la mia figliola adorata. Cosetta, troverete questo foglio; ecco che ti voglio dire, vedrai le cifre, se ho la forza di ricordarmele. Ascolta bene, quel denaro è proprio tuo. Ecco tutto il fatto. Il jais bianco viene dalla Norvegia, il jais nero dall'Inghilterra, le conterie nere vengono dalla Germania. Il jais è più leggero, più prezioso, più caro. Le imitazioni si possono fare in Francia come in Germania; occorre una piccola incudine di due pollici quadrati e una lampada a spirito per rammollire la pasta. La pasta una volta si faceva con la resina e il nerofumo e costava quattro franchi la libbra. Io pensai di farla con la gommalacca e la trementina; così non costa più che un franco e mezzo ed è molto migliore. I fermagli si fanno con un vetro violetto che s'incolla con quella pasta sopra una piccola ossatura di ferro. Il vetro dev'essere violetto per i gioielli di acciaio e nero per quelli d'oro. La Spagna ne compra in grande quantità. E' il paese del jais..." Qui s'interruppe, la penna gli cadde dalle dita, fu preso da uno di quei singhiozzi disperati che erompevano ogni tanto dalla profondità del suo essere. Il poveretto si prese la testa fra le mani e pensò.

- Oh! - esclamò dentro di sé (grida lamentose udite solo da Dio) tutto è finito. Non la vedrò più. E' stato un sorriso passato sopra di me. Entrerò nella notte senza nemmeno rivederla. Oh! un minuto, un istante, udire la sua voce, toccare la sua veste, guardarla, lei, l'angelo! e poi morire! Morire non è nulla; orribile morire senza vederla. Essa mi sorriderebbe, mi direbbe una parola. Forse che questo farebbe male a qualcuno? No, è finita, mai più. Eccomi solo. Mio Dio! mio Dio! non la vedrò più!

In quel momento bussarono alla porta.




4. BOTTIGLIA D'INCHIOSTRO CHE RIESCE SOLO A IMBIANCARE


Quello stesso giorno, o per dir meglio quella sera stessa, Mario s'era appena alzato da tavola e ritirato nel suo studio, perché aveva un processo da studiare, quando Basco gli rimise una lettera, dicendo:

- La persona che l'ha scritta aspetta in anticamera.

Cosetta aveva preso il braccio del nonno e faceva un giro nel giardino.

Una lettera può, come un uomo, avere un cattivo aspetto; carta grossa, mal piegata. Certe missive spiacciono al solo vederle. La lettera portata da Basco era di quel genere.

Mario la prese. Puzzava di tabacco. Non c'è nulla che desti un ricordo quanto un odore. Egli riconobbe quel tabacco. Guardò la soprascritta: "Al signor barone Pommerci. In suo palazzo". Il tabacco riconosciuto gli fece riconoscere la scrittura. Si potrebbe dire che lo stupore ha dei lampi, Mario fu illuminato da uno di quei lampi.

Quel misterioso ausilio della memoria che è l'odorato fece rivivere in lui un mondo intero. Era proprio la carta, il modo di piegare, la tinta pallida dell'inchiostro, la nota scrittura; era soprattutto lo stesso tabacco. Gli riappariva la stamberga di Jondrette.

In tal guisa - strano capriccio del caso! - una delle due tracce tanto ricercate, quella per cui recentemente aveva ancora fatto tanti sforzi e che credeva per sempre smarrita, veniva a offrirglisi da se stessa.

Aprì avidamente la lettera e lesse:

"Signor barone, Se l'Esser Supremo me n'avesse dato il talento, avrei potuto essere il barone Thénard, membro dell'istituto (accademia delle scienze), ma non lo sono. Io porto soltanto lo stesso nome di lui, fortunato se tale ricordo mi raccomanda alla eccellenza di vostra bontà. Il beneficio di cui m'onorerete sarà reciproco. Io sono in possesso d'un segreto riguardante un individuo. Quest'individuo vi riguarda. Io tengo il segreto a vostra disposizione desiderando avere l'onore d'esservi utile. Vi darò il mezzo semplice di scacciare dalla vostra onorevole famiglia quest'individuo che non vi à diritto, la signora baronessa essendo di nobile nascita. Il santuario della virtù non potrebbe coabitare più lungamente col delitto senza abdicare.

Aspetto nell'anticamera gli ordini del signor barone. Con rispetto Thénard".

Firma non falsa, ma soltanto un po' abbreviata.

Del resto il frasario e l'ortografia completavano la rivelazione; il certificato d'origine era completo, il dubbio non era possibile.

L'emozione di Mario fu profonda. Dopo il moto di sorpresa, ne ebbe uno di contentezza. Se ora gli riuscisse di trovare l'altro uomo che cercava, quello a cui doveva la vita, non gli rimarrebbe più nulla a desiderare.

Aprì un cassetto della scrivania, ne trasse alcuni biglietti di banca, se li mise in tasca, richiuse e suonò il campanello. Basco socchiuse l'uscio.

- Fate entrare - disse Mario.

Il servo annunciò:

- Il signor Thénard.

Nuova sorpresa per Mario. Il vecchio che entrò gli era perfettamente ignoto: aveva il naso grosso, il mento nella cravatta, gli occhiali verdi e i capelli grigi lisciati e appiattiti sulla fronte rasente le sopracciglia, come la parrucca dei cocchieri inglesi dell'alta società: vestiva di nero da capo a piedi, d'un nero molto ragnato ma pulito; un mazzo di ciondoli, che usciva dal taschino del panciotto, faceva supporre un orologio; teneva in mano un vecchio cappello; camminava curvo, e la curvatura della schiena era accresciuta dalla profondità del saluto.

Quello che a prima vista colpiva era l'abito di questo personaggio: troppo ampio, benché abbottonato con cura, non pareva fatto sulla sua misura. E qui è necessaria una breve digressione.

Viveva a quell'epoca a Parigi, in un buio bugigattolo di via Beautreillis, vicino all'arsenale, un ebreo ingegnoso, che esercitava la professione di trasformare un briccone in un galantuomo. Non per troppo tempo però, poiché sarebbe stato fastidioso per il briccone. Il cambiamento si operava a vista, per un giorno o due, a trenta soldi al giorno, per mezzo d'un vestiario il più possibile somigliante all'onestà di tutti. Quel noleggiatore si chiamava "il Trasformatore"; i borsaioli parigini gli avevano dato questo nome e non si sapeva che ne avesse altri.

Disponeva d'un assortimento assai ricco. Gli stracci con cui camuffava le persone erano press'a poco plausibili. Aveva delle specialità e delle categorie, e da ogni chiodo del suo magazzino pendeva, usata e logora, una condizione sociale, qui l'abito del magistrato, là quello del parroco, più in là quello del banchiere, in un angolo la divisa del militare in congedo, altrove l'abito del letterato, altrove ancora quello dell'uomo di Stato.

Quell'individuo era il vestiarista dell'immenso dramma rappresentato dalla ribalderia parigina. Il suo bugigattolo era la quinta da cui usciva il furto e in cui rientrava lo scrocco. Un ribaldo vi giungeva tutto cencioso, pagava i suoi trenta soldi, sceglieva l'abito che gli conveniva secondo la parte che voleva rappresentare quel giorno e quando ridiscendeva le scale, il ribaldo era un personaggio. L'indomani gli stracci erano fedelmente restituiti, e il Trasformatore, che affidava ogni cosa ai ladri, non era mai derubato. Quegli abiti però avevano un inconveniente: "non andavano", non erano fatti per quelli che li portavano, erano troppo stretti per l'uno, troppo larghi per l'altro, e non stavano bene a nessuno. Tutti i malandrini che sorpassavano la statura media, in più e in meno, non si trovavano bene nei vestiti del Trasformatore. Non bisognava essere né troppo magro né troppo grasso. Il Trasformatore aveva previsto solo gli uomini ordinari, e aveva scelto la misura tipica della persona del primo gaglioffo venuto, il quale non è mai né grasso né magro, né grande né piccolo. Perciò certi adattamenti a volte difficili, nei quali quel praticone del Trasformatore se la cavava come meglio poteva. Tanto peggio per le eccezioni! L'abito dell'uomo di Stato, per esempio, nero da capo a piedi e quindi conveniente, sarebbe stato troppo ampio per Pitt e troppo stretto per Castelcicala.

Copiamo dal catalogo del Trasformatore com'era indicato l'abbigliamento dell'uomo di Stato: "Un abito di panno nero, un paio di pantaloni di cuoio di lana nera, un panciotto di seta, scarpe e biancheria". In margine c'era: "Ex-ambasciatore", con una nota che pure trascriviamo: "In una scatola separata, una parrucca ben pettinata, un paio di occhiali verdi, dei ciondoli e due piccoli cannelli di penna, lunghi un pollice, avvolti di cotone".

Tutto ciò spettava all'uomo di Stato ex-ambasciatore. Questo vestiario era, per così dire, estenuato; le costure cominciavano a sbiancare, in uno dei gomiti si schiudeva una specie di occhiello; inoltre l'abito mancava di un bottone, ma era un particolare senza importanza poiché la mano dell'uomo di Stato, dovendo star sempre nell'abito e sul cuore, aveva l'incarico di nascondere l'assenza del bottone.

Se Mario avesse avuto una certa familiarità con le organizzazioni segrete di Parigi, avrebbe riconosciuto subito, addosso al visitatore introdotto da Basco, l'abito dell'uomo di Stato preso a prestito nel magazzino del Trasformatore.

Il disappunto di Mario al veder entrare un uomo diverso da quello che aspettava, si trasformò in malagrazia verso il nuovo venuto.

Lo squadrò da capo a piedi, mentre il personaggio si inchinava smisuratamente, e gli chiese seccamente:

- Cosa volete?

L'uomo rispose con un amabile ghigno, di cui il sorriso carezzevole d'un coccodrillo ci darebbe una qualche idea:

- Mi sembra impossibile di non aver avuto l'onore di conoscere il signor barone in società. Mi pare anzi di averlo incontrato alcuni anni or sono, particolarmente in casa della signora principessa Bagration, e nelle sale di Sua Signoria il visconte Dambray, Pari di Francia.

E' sempre una buona tattica di marioleria avere l'aria di riconoscere una persona che non si è mai conosciuta.

Mario stava attento al discorso di quell'uomo e ne spiava l'accento e il gesto; ma il suo disappunto crebbe udendo una pronuncia nasale, del tutto diversa dal tono aspro e secco di voce che si aspettava. Era completamente sorpreso.

- Non conosco - diss'egli - né la signora Bagration né il signor Dambray; in vita mia non ho mai posto piede in casa dell'una né dell'altro.

La risposta era burbera, ma il personaggio, grazioso a ogni costo, insistette:

- Allora sarà stato in casa di Chateaubriand che avrò visto il signore! Conosco bene Chateaubriand, che è affabilissimo e talvolta mi dice: - Thénard, amico mio... non berreste un bicchiere con me?

La fronte di Mario diventava sempre più severa:

- Non ho avuto mai l'onore d'esser ricevuto dal signor Chateaubriand. Insomma, che cosa volete?

L'uomo, di fronte alla voce più dura, salutò più profondamente.

- Signor barone, degnatevi di ascoltarmi. In America, in un paese dalle parti di Panama, c'è un villaggio chiamato la Joya. Questo villaggio è composto d'una sola casa, una grande casa quadrata a tre piani, costruita in mattoni cotti al sole; ogni lato del quadrato è lungo cinquecento piedi, ogni piano è dodici piedi più indietro del piano inferiore in modo da lasciare davanti un terrazzo che gira tutt'intorno al caseggiato; nel centro un cortile interno in cui sono le provviste e le munizioni; niente finestre, ma feritoie; niente porte, ma delle scale a mano per salire dal suolo al primo terrazzo e dal primo al secondo e dal secondo al terzo, e scale a mano per calarsi nel cortile interno; niente usci alle stanze, ma botole; nessuna scala di pietra, ma tutte a mano; la sera si chiudono le botole, si ritirano le scale e si puntano i tromboni e le carabine alle feritoie; non c'è mezzo d'entrare; casa di giorno, cittadella di notte, e ottocento abitanti: ecco cos'è quel villaggio. E perché tante precauzioni?

Perché è un paese pericoloso, pieno d'antropofagi. E allora perché ci vanno? Perché è un paese meraviglioso; ci si trova l'oro.

- Che cosa volete concludere? - interruppe Mario, che dal disappunto passava all'impazienza.

- Questo, signor barone. Io sono un ex-diplomatico stanco degli affari. La vecchia civiltà mi ha spaurito; ora voglio provare coi selvaggi.

- E poi?

- Signor barone, l'egoismo è la legge del mondo. La contadina proletaria che lavora alla giornata si volta quando passa la diligenza, la contadina proprietaria che lavora il suo campo non si volta mai. Il cane del povero abbaia dietro il ricco, il cane del ricco dietro il povero. Ciascuno per sé. L'interesse è lo scopo dell'uomo, l'oro è la sua calamita.

- E poi? concludete.

- Vorrei andare a stabilirmi a Joya. Siamo in tre, io, la mia consorte e la mia signorina, una figliola molto bella. Il viaggio è lungo e costoso, e ho bisogno di un po' di denaro.

- Ma questo a me che importa? - chiese Mario.

Lo sconosciuto allungò il collo fuori dalla cravatta, movimento proprio dell'avvoltoio, e raddoppiando il sorriso rispose:

- Il signor barone non ha letto la mia lettera?

La cosa era quasi vera. Mario non aveva badato al contenuto della missiva; aveva guardato la scrittura più che leggere la lettera, e se ne ricordava appena. Adesso la sua attenzione era stata ridestata dall'espressione: "la mia consorte e la signorina".

Teneva fisso sullo sconosciuto uno sguardo penetrante, che un giudice inquirente avrebbe potuto invidiare; quasi lo spiava. Si limitò a rispondere:

- Precisate.

L'individuo infilò le mani nei taschini del panciotto, alzò la testa senza raddrizzare la spina dorsale, e si pose a sua volta a scrutare Mario attraverso le lenti verdi dei suoi occhiali.

- Va bene, signor barone: preciso. Ho un segreto da vendervi.

- Un segreto!

- Un segreto.

- Che mi riguarda?

- Un poco.

- Qual è questo segreto?

Mentre lo ascoltava, Mario esaminava sempre meglio quell'uomo.

- Comincio gratis - disse lo sconosciuto. - Vedrete se riesco interessante.

- Parlate.

- Signor barone, voi avete in casa vostra un ladro assassino.

Mario trasalì.

- In casa mia? No! - diss'egli.

Lo sconosciuto, imperturbabile, pulì il cappello col gomito e proseguì:

- Assassino e ladro. Notate, signor barone, che io non parlo di fatti antichi, arretrati, caduchi, che possano essere cancellati dalla prescrizione in faccia alla legge e dal pentimento dinanzi a Dio. Parlo di fatti recenti, attuali, di fatti ancora ignoti alla giustizia. Continuo. Quest'uomo si è insinuato nella vostra confidenza, e quasi nella vostra famiglia, sotto un nome falso. Vi dirò il suo nome vero e ve lo dirò per nulla.

- Ascolto.

- Si chiama Giovanni Valjean.

- Lo so.

- Ora vi dirò, anche per niente, che cos'è quest'uomo.

- Dite.

- E' un ex-galeotto.

- Lo so.

- Lo sapete da che ho avuto l'onore di dirvelo.

- No, lo sapevo prima.

Il contegno freddo di Mario, la sua doppia risposta "lo s", il suo laconismo refrattario al dialogo, provocarono una sorda collera nello sconosciuto, che scoccò, di sfuggita, su Mario uno sguardo furioso, subito spento. Ma per quanto rapido fosse, quello sguardo era di quelli che visti una volta si riconoscono, e non sfuggì a Mario. Certi fiammeggiamenti non possono venire che da certe anime: la pupilla, spiraglio del pensiero, se ne accende, e gli occhiali non nascondono nulla: provatevi a mettere un vetro all'inferno!

Lo sconosciuto riprese, sorridendo:

- Non mi permetto di smentire il signor barone. In ogni caso, vedete che sono bene informato. Quello che ora mi rimane da confidarvi è noto a me solo, e riguarda la ricchezza della signora baronessa. E' un segreto straordinario ed è da vendere. L'offro a voi per primo, a buon mercato: ventimila franchi.

- Conosco questo segreto come conosco gli altri - rispose Mario.

L'individuo sentì il bisogno di abbassare un po' il prezzo.

- Signor barone, datemi diecimila franchi e parlo.

- Vi ripeto che non avete nulla da dirmi. So già quanto volete dirmi.

Ci fu nell'occhio dell'individuo un nuovo lampo; quindi esclamò:

- Eppure devo mangiare anche oggi. E' un segreto straordinario, vi ripeto. Signor barone, parlerò. Parlo; datemi venti franchi.

Mario lo guardò fisso.

- So già il vostro segreto straordinario, come sapevo il nome di Giovanni Valjean, come so il vostro.

- Il mio nome?

- Sì.

- Non è una cosa difficile, signor barone. Ebbi l'onore di scriverlo e di dirvelo: Thénard. - Dier.

- Eh?

- Thénardier.

- Chi?

Nel pericolo il porcospino s'arruffa, lo scarafaggio fa il morto, la vecchia guardia si stringe in quadrato; quell'uomo si mise a ridere.

Quindi con un buffetto si tolse via un granello di polvere dalla manica dell'abito.

Mario proseguì:

- Voi siete anche l'operaio Jondrette, il comico Fabantou, il poeta Genflot, lo spagnolo don Alvarez e la donna Balizard.

- La donna cosa?

- E avete tenuto una bettola a Montfermeil.

- Una bettola! Mai.

- E io vi dico che siete Thénardier.

- Lo nego.

- E che siete un birbante. Prendete.

E Mario, tolto di tasca un biglietto di banca, glielo buttò in faccia.

- Grazie! perdono! cinquecento franchi! signor barone!

E l'uomo, sconvolto, salutando e raccogliendo il biglietto, si mise a esaminarlo.

- Cinquecento franchi! - riprese, sbalordito; e balbettò sottovoce - Un bigliettone serio!

Poi esclamò bruscamente:

- Ebbene, sia! Mettiamoci in libertà.

E con prestezza di una scimmia, buttando indietro i capelli, strappandosi gli occhiali, ritirando dal naso e facendo scomparire i due cannelli di penne di cui si è detto più su, e che del resto si sono già visti in altra pagina di questo libro, si tolse la maschera come un altro si toglierebbe il cappello.

Il suo sguardo s'accese; la fronte ineguale, qua e là con fossi e bernoccoli e orribilmente corrugata in alto, apparve allo scoperto; il naso ridivenne acuto come un becco, e ricomparve il profilo feroce e astuto dell'uomo di rapina.

- Il signor barone è infallibile - diss'egli con voce chiara e niente affatto nasale. - Io sono Thénardier.

E raddrizzò il dorso incurvato. Thénardier, poiché veramente era lui, provava una strana sorpresa e si sarebbe turbato se gli fosse stato possibile. Era venuto per stupire e se ne stupiva prima lui.

Quella umiliazione gli veniva pagata cinquecento franchi e, tutto considerato, l'accettava; ma non era per ciò meno sbalordito.

Egli vedeva per la prima volta quel barone Pontmercy e, malgrado il suo travestimento, quel barone Pontmercy lo riconosceva e lo riconosceva a fondo; e non solo quel barone conosceva Thénardier, ma sembrava che conoscesse bene anche Valjean. Cos'era dunque quel giovanotto quasi imberbe, così glaciale e così generoso, che sapeva i nomi delle persone, tutti i loro nomi, apriva loro la borsa, maltrattava i birbanti come un giudice, e li pagava come chi si lascia abbindolare?

Il lettore ricorderà che Thénardier, benché fosse stato vicino di Mario, non lo aveva mai visto, cosa frequente a Parigi; aveva una volta udito le figlie parlare d'un giovanotto molto povero, di nome Mario, che abitava nella stessa casa, e gli aveva scritto senza conoscerlo la lettera che sappiamo;ma nessun riavvicinamento era possibile nella sua mente tra quel Mario e il signor barone Pontmercy.

Quanto al nome di Pontmercy, ricordiamo che sul campo di battaglia di Waterloo egli ne aveva udito solo le due ultime sillabe, per le quali aveva sempre nutrito il legittimo sdegno che si deve a quello che è soltanto un ringraziamento.

Del resto, per mezzo di sua figlia Azelma, da lui messa sulle tracce degli sposi del 16 febbraio, e per mezzo delle sue indagini personali, era arrivato a sapere molte cose, e dal fondo delle sue tenebre era riuscito ad afferrare più d'un filo misterioso. Egli aveva scoperto, a furia di ricerche, o almeno indovinato per via d'induzione, chi era l'uomo da lui incontrato un certo giorno nella Fogna Grande; e dall'uomo aveva potuto facilmente risalire al nome. Sapeva che la signora baronessa Pontmercy era Cosetta; ma da questo lato si riprometteva d'esser discreto. Chi era Cosetta?

Neppure lui lo sapeva precisamente. Certo, intravedeva una nascita illegittima, e la storia di Fantina gli era sembrata sempre un po' sospetta; ma a che serviva parlare? A farsi pagare il silenzio?

Egli teneva o credeva di tenere qualcosa di meglio da vendere. E c'erano tutte le probabilità che l'andare a fare, senza prove, questa rivelazione al barone Pontmercy: - "Vostra moglie è una bastarda", - riuscisse solo ad attirare lo stivale del marito verso la groppa del rivelatore.

Nel pensiero di Thénardier, il suo colloquio con Mario non era ancora cominciato. Aveva dovuto indietreggiare, modificare la sua strategia, abbandonare la sua posizione, mutare fronte, ma non era compromesso ancora nulla d'essenziale, e aveva cinquecento franchi in tasca. Inoltre, aveva qualcosa di decisivo da dire, e si sentiva forte anche contro quel barone Pontmercy così ben informato e così ben armato. Per gli uomini della specie di Thénardier ogni dialogo è un duello. E qual era la sua posizione in quello che stava per impegnarsi? Non sapeva con chi parlava, non sapeva di chi parlava. Fece rapidamente questa interna rivista delle sue forze, e dopo aver detto: "Sono Thénardier", - aspettò.

Mario era rimasto pensoso. Finalmente trovava Thénardier! l'uomo che aveva tanto desiderato rintracciare era là: poteva dunque far onore alla raccomandazione del colonnello Pontmercy. Era umiliato che quell'eroe dovesse qualcosa a un simile bandito, e che la cambiale, tratta dal fondo del sepolcro di suo padre, fosse rimasta fino a quel giorno protestata. Gli pareva pure che, nella situazione complessa in cui si trovava la sua mente di fronte a Thénardier, fosse il caso di vendicare il colonnello dalla sventura d'essere stato salvato da quel furfante. Comunque fosse, egli era contento; poteva dunque finalmente liberare dall'indegno creditore l'ombra del colonnello, e gli sembrava d'essere sul punto di togliere la memoria del padre dalla prigione per debiti.

Accanto a tale dovere, ce n'era un altro, quello cioè di far luce, se possibile, sull'origine della ricchezza di Cosetta. Pareva che gli si offrisse l'occasione; Thénardier sapeva forse qualcosa; poteva quindi essere utile vedere il fondo di quell'uomo. Cominciò da questo.

Thénardier aveva fatto sparire il "bigliettone serio" nel suo taschino, e guardava Mario con una dolcezza quasi affettuosa.

Mario ruppe il silenzio.

- Thénardier, vi ho detto il vostro nome. Ora volete che vi dica anche il vostro segreto, quello che venivate a svelarmi? Ho pure le mie informazioni, io, e ora vedrete che ne so più di voi.

Valjean, come avete detto, è un assassino e un ladro; un ladro, perché ha rubato a un ricco industriale di cui ha causato la rovina, il signor Madeleine; un assassino perché ha assassinato l'agente di polizia Javert.

- Non capisco, signor barone - fece Thénardier.

- Ora vi farò capire. Ascoltate. Verso il 1822 c'era in un circondario del Passo di Calais un uomo che aveva avuto qualche contrasto con la giustizia, e che, sotto il nome di Madeleine, s'era rialzato e riabilitato, e anzi era diventato un giusto, in tutta la forza del termine. Con un'industria, la fabbrica delle conterie nere, formò la fortuna d'una intera città. Quanto alla sua fortuna personale, egli l'aveva creata pure, ma in modo secondario e per così dire accidentalmente. Era il padre e il sostegno dei poveri, fondava ospedali, apriva scuole, visitava i malati, dotava le giovanette, sostentava le vedove, adottava gli orfani, era quasi il tutore del paese. Aveva rifiutato le decorazioni e l'avevano nominato sindaco. Un forzato liberato, che sapeva il segreto d'una condanna subita in altro tempo da quell'uomo, lo denunciò, lo fece arrestare, e profittò dell'arresto per venire a Parigi e farsi rimettere dalla banca Laffitte - ho saputo il fatto dal cassiere stesso - mediante una firma falsa, una somma d'oltre mezzo milione appartenente a Madeleine. Quel forzato che ha derubato Madeleine è Valjean.

Quanto all'altro fatto, non avete nemmeno in questo caso delle novità da comunicarmi. Valjean ha ucciso l'agente Javert, l'ha ucciso con una pistolettata. Ero presente io stesso che vi parlo.

Thénardier lanciò a Mario lo sguardo d'un uomo sconfitto che torna ad afferrare la vittoria e riacquista in un minuto tutto il terreno perduto. Ma ricomparve subito il sorriso; l'inferiore di fronte al superiore deve avere il trionfo carezzevole, e Thénardier si limitò a dire:

- Signor barone, noi sbagliamo strada.

E sottolineò la frase facendo fare al suo mazzo di ciondoli un mulinello espressivo.

- Come! - riprese Mario. - Mi contestate tutto questo? Ma sono fatti.

- Sono chimere. La fiducia della quale il signor barone mi onora mi fa un dovere di dirglielo. Innanzi tutto la verità e la giustizia - non mi piace di veder accusare le persone ingiustamente. Signor barone, Valjean non ha derubato Madeleine e non ha ucciso Javert.

- Questa è grossa! E come mai?

- Per due motivi.

- Quali? Parlate.

- Eccovi il primo; non ha derubato Madeleine, per il fatto che Valjean, proprio lui, era Madeleine.

- Che mi andate contando?

- Ed ecco il secondo: egli non ha assassinato Javert, giacché colui che ha ucciso Javert è stato Javert.

- Cosa intendete dire?

- Che quello di Javert è stato un suicidio.

- Le prove! le prove! - gridò Mario fuori di sé.

Thénardier riprese la frase come una volta si scandivano i versi:

- L'a-gen-te di po-li-zia Ja-vert fu tro-va-to an-ne-ga-to sotto un bat-tel-lo del Pont-au-Change.

- Ma le prove dunque!

Thénardier cavò dalla tasca laterale una larga busta di carta grigia, che pareva contenesse dei fogli piegati di varie dimensioni.

- Ho i miei documenti - diss'egli con calma.

E aggiunse:

- Signor barone, nel vostro interesse ho voluto conoscere a fondo il mio Valjean, e vi dico che Valjean e Madeleine sono una sola persona, vi dico che Javert non ha avuto altro assassino che Javert, e quando parlo vuol dire che ho le prove. Non prove manoscritte, la scrittura è sospetta, la scrittura è compiacente; ma prove stampate.

Mentre parlava, toglieva dalla busta due numeri di giornali ingialliti, sciupati e ben saturi di tabacco, uno dei quali, tutto gualcito nelle piegature, sembrava molto più vecchio dell'altro.

- Due fatti, due prove - fece Thénardier; e porse a Mario i due giornali aperti. Quei giornali, il lettore già li conosce. Uno, il più antico, un numero del "Drapeau blanc" del 25 luglio 1823, stabiliva l'identità di Madeleine con Valjean. L'altro, un "Moniteur" del 15 giugno 1832, constatava il suicidio di Javert, e aggiungeva che, da un rapporto verbale fatto dallo stesso Javert al prefetto, risultava che egli, fatto prigioniero nella barricata della via Chanvrerie, doveva la vita alla magnanimità di un insorto, il quale, tenendolo sotto la sua pistola, invece di bruciargli le cervella, aveva tirato in aria.

Mario lesse. C'era evidenza, data sicura, prova irrefragabile, poiché quei due giornali non erano stati stampati apposta per appoggiare le asserzioni di Thénardier; inoltre la nota inserita nel "Moniteur" era comunicata ufficialmente dalla prefettura di polizia. Non era possibile il dubbio. Le informazioni del commesso-cassiere erano false, e lui pure si era ingannato.

Valjean, ingrandito a un tratto, balzava fuori dalla nebbia. Mario non poté trattenere un grido di gioia:

- Ma allora quell'infelice era un uomo ammirabile! Tutto quel denaro era veramente suo! egli è Madeleine, la provvidenza d'un paese intero! è Valjean il salvatore di Javert! e un eroe! è un santo!

- Non è un santo e non è un eroe - disse Thénardier. - E' un assassino, un ladro.

E aggiunse col tono dell'uomo che comincia a sentirsi qualche autorità: - Calmiamoci.

Ladro, assassino: queste parole che Mario credeva scomparse e che ritornavano, caddero su di lui come una doccia ghiacciata.

- Ancora! - diss'egli.

- Sempre! - fece Thénardier. - Valjean non ha derubato Madeleine, ma è un ladro; non ha ucciso Javert, ma è un assassino.

- Volete forse parlare - riprese Mario - di quel miserevole furto di quarant'anni fa, espiato, come risulta dai vostri stessi giornali, con un'intera vita di pentimento, d'abnegazione e di virtù?

- Dico assassinio e furto, signor barone, e ripeto che vi parlo di fatti recenti. Ciò che debbo rivelarvi è assolutamente ignoto, è roba inedita e forse vi troverete la sorgente della ricchezza così abilmente offerta da Valjean alla signora baronessa. Dico abilmente, perché introdursi con tale donazione in una casa onorata, partecipare alle sue agiatezze, e, con lo stesso colpo, nascondere il delitto, godere il furto, sotterrare il proprio nome e crearsi una famiglia, tutto questo non manca certamente di accortezza.

- Potrei interrompervi a questo punto - osservò Mario. - Ma proseguite.

- Signor barone, vi dirò tutto, lasciando la ricompensa alla vostra generosità. Questo segreto vale un tesoro. Mi direte:

Perché non ti sei rivolto allo stesso Valjean? - per un motivo semplicissimo: so che egli s'è spogliato di tutto, e spogliato in vostro favore, combinazione che io trovo ingegnosa; non ha quindi più un soldo, mi mostrerebbe le sue mani vuote; e siccome io ho bisogno di un po' di denaro per il viaggio alla Joya, così preferisco voi, che avete tutto, a lui che non ha nulla. Ma sono un po' stanco, permettetemi di prendere una sedia.

Mario sedette e gli fece cenno di imitarlo.

Thénardier si accomodò su una sedia imbottita, riprese i due giornali, li ripose nella busta, e battendo con l'unghia sul "Drapeau blanc", mormorò: "Questo m'è costato fatica ad averlo".

Ciò fatto, incrociò le braccia e s'appoggiò col dorso, atteggiamento proprio della persona sicura di quello che dice; poi entrò in materia, gravemente e accentuando le parole:

- Signor barone, circa un anno fa, il 6 giugno 1832, il giorno della sommossa, un uomo si trovava nella Fogna Grande di Parigi, dal lato dove la cloaca va a raggiungere la Senna, tra il Ponte degli Invalidi e quello di Iena.

Mario avvicinò bruscamente la sua sedia a quella di Thénardier, il quale, notato il movimento, proseguì con la lentezza d'un oratore che domina l'interlocutore e che sente palpitare l'avversario sotto le sue parole.

- Quell'uomo costretto a nascondersi, per motivi, del resto, estranei alla politica, aveva scelto per domicilio la fogna, di cui possedeva una chiave. Era, lo ripeto, il 6 giugno; potevano essere le otto di sera, quando l'uomo udì un rumore nella fogna.

Assai sorpreso, si rannicchiò e stette a spiare. Era un rumore di passi. Qualcuno nell'ombra camminava e veniva dalla sua parte.

Cosa strana! C'era nella cloaca un altro uomo. ll cancello d'uscita della fogna non era lontano, e quel po' di luce che ne veniva permise di riconoscere il nuovo arrivato e di vedere che quell'uomo portava qualcosa sulle spalle. Camminava curvo, e l'uomo che camminava così era un ex-galeotto, e quello che portava sul dorso un cadavere. Flagrante delitto di assassinio, se mai ce ne fu uno. Quanto al furto, va da sé: non si uccide un uomo per nulla. Quel forzato andava a gettare il cadavere nel fiume. E' da notare che, prima di arrivare al cancello di uscita, quel forzato, che veniva da un punto lontano della cloaca, aveva necessariamente incontrato un avvallamento spaventoso, nel quale avrebbe potuto lasciare il cadavere; ma l'indomani i fognaioli, lavorando dov'era l'avvallamento, avrebbero ritrovato il corpo dell'assassinato; e questo non conveniva all'assassino. Egli aveva preferito attraversare l'avvallamento col suo carico, e deve aver fatto degli sforzi terribili; è impossibile arrischiare di più la vita; anzi non capisco come abbia potuto uscirne vivo.

La sedia di Mario si avvicinò di nuovo, e Thénardier ne profittò per respirare a lungo; quindi proseguì:

- Signor barone, una fogna non è il campo di Marte. Ci manca tutto, anche lo spazio. Quando si trovano là dentro, due uomini devono incontrarsi; ed è appunto quel che accadde. L'inquilino e il passante furono costretti a darsi il buongiorno, benché a malincuore. Il passante disse all'inquilino: - Vedi bene che cosa ho sulle spalle, ho bisogno d'uscire; tu hai la chiave, dammela. - Quel forzato era un uomo d'una forza terribile: non c'era mezzo di rifiutare. Tuttavia quello che aveva la chiave traccheggiò, soltanto per guadagnar tempo; esaminò il morto, ma non poté vedere nulla, tranne che era giovane, ben messo, d'apparenza signorile e tutto sfigurato dal sangue. Mentre discorreva, trovò modo di lacerare e di strappare, senza che l'assassino se ne accorgesse, un pezzetto dalla falda dell'abito dell'assassinato; corpo del reato; capirete; mezzo per ritrovare la traccia e provare il delitto del delinquente. Egli dunque si mise in tasca il corpo di reato; dopo di che aprì il cancello, fece uscire l'uomo col suo peso sul dorso, richiuse subito e s'allontanò, poco curandosi di trovarsi immischiato al seguito dell'avventura, e soprattutto non volendo essere presente quando l'assassino avrebbe gettato la vittima nel fiume. Ora comprendete tutto. Chi portava il cadavere era Valjean, quello che teneva la chiave vi parla in questo momento, e il brandello d'abito...

Thénardier compì la frase cavando di tasca e tenendo, all'altezza degli occhi, tra i due pollici e i due indici un pezzetto di panno nero strappato, tutto coperto di macchie scure.

Mario s'era alzato, pallido, respirando appena, con l'occhio fisso su quel frammento di stoffa, e, senza pronunciare una parola, senza lasciare quel cencio con lo sguardo, rinculava verso il muro, cercando con la mano destra dietro di sé, a tastoni sulla parete, una chiave che era nella serratura d'un armadio a muro presso il caminetto. Trovò la chiave, aprì l'armadio, vi cacciò dentro il braccio senza che i suoi occhi smarriti si staccassero dallo straccetto che Thénardier teneva spiegato.

Costui frattanto continuava:

- Signor barone, ho seri motivi di credere che il giovane assassinato fosse un ricco straniero, che aveva addosso una grossa somma, attirato da Valjean in qualche tranello...

- Il giovane ero io, ed ecco l'abito! - gridò Mario, gettando sul pavimento un vecchio abito nero tutto insanguinato.

Poi, strappando il pezzo di stoffa dalle mani di Thénardier, si accosciò e avvicinò alla falda lacerata il pezzo strappato: la laceratura si adattava perfettamente, e il cencio completava l'abito.

Thénardier restò di sasso; pensò soltanto: - Sono finito.

Mario si rizzò fremente, disperato, raggiante.

Si frugò in tasca e mosse furiosamente contro Thénardier, presentandogli e quasi appoggiandogli sul viso il pugno pieno di biglietti di banca da cinquecento e da mille franchi.

- Voi siete un infame! Siete un mentitore, un calunniatore, uno scellerato! Siete venuto per accusare quell'uomo e invece lo avete giustificato, avete tentato di perderlo e siete riuscito soltanto a glorificarlo. Voi siete un ladro! voi siete un assassino! Vi ho visto io, Thénardier Jondrette, in quel covo del boulevard dell'Ospedale. Ne so sul conto vostro quanto basta per mandarvi in galera e anche più lontano, se volessi. Prendete, eccovi mille franchi, sacripante che siete!

E gli gettò un biglietto di mille franchi.

- Ah! Jondrette Thénardier, vile ribaldo! Questo vi serva di lezione, rigattiere di segreti, trafficante di misteri, investigatore di tenebre; miserabile! Prendete questi cinquecento franchi e uscite di qui! Waterloo vi protegge.

- Waterloo! - borbottò Thénardier intascando i cinquecento franchi insieme con i mille.

- Sì, assassino! Voi avete laggiù salvato la vita a un colonnello..

- A un generale - disse Thénardier rialzando la testa.

- A un colonnello! - riprese Mario con impeto. - Non darei un centesimo per un generale. E venivate qui a perpetrare delle infamie! Vi dico che avete commesso tutti i delitti. Partite!

sparite! Siate soltanto felice, è tutto quanto desidero. Ah mostro! Eccovi altri tremila franchi, prendeteli. Voi partirete per l'America domani stesso con vostra figlia, poiché vostra moglie è morta, abominevole mentitore. Mi occuperò della vostra partenza, ribaldo, e all'ultimo momento vi darò ventimila franchi.

Andate a farvi impiccare altrove!

- Signor barone - rispose Thénardier, salutando fino a terra - riconoscenza eterna.

E uscì senza comprendere nulla, stupefatto e rapito per quel gradito schiacciamento sotto sacchi di scudi, per quella folgore che scoppiava sul suo capo in biglietti di banca.

Era fulminato, ma anche contento, e gli sarebbe assai dispiaciuto di avere un parafulmine contro simili saette.

Finiamola dunque con costui. Due giorni dopo gli avvenimenti da noi narrati egli partiva, per interessamento di Mario, sotto un falso nome, alla volta dell'America, con la figlia Azelma, provvisto di un assegno di ventimila franchi da incassare a New York. La miseria morale di Thénardier, questo borghese mancato, era irrimediabile; egli fu in America quello che era stato in Europa. Il contatto di un uomo malvagio basta talvolta per far imputridire una buona azione e per farne scaturire una cosa cattiva. Col denaro di Mario, Thénardier si dedicò alla tratta dei negri.

Non appena Thénardier fu uscito, Mario corse in giardino dove Cosetta passeggiava ancora.

- Cosetta! Cosetta! - gridò. - Vieni, vieni subito. Andiamo!

Basco, una vettura! Cosetta, vieni. Ah mio Dio! E' stato lui che mi ha salvato la vita. Non perdiamo un minuto! Metti lo scialle.

Cosetta lo credette impazzito e ubbidì.

Egli non poteva respirare, si metteva la mano sul cuore per comprimerne i battiti; andava su e giù a lunghi passi, abbracciava Cosetta dicendole - Ah Cosetta! io sono uno sciagurato!

Era fuori di sé. Cominciava a intravedere in quel Valjean non so quale alta e triste figura: gli appariva una virtù inaudita, augusta e tenera, umile nella sua immensità; il galeotto si trasfigurava in Cristo. Si sentiva abbagliato da quel prodigio.

Non sapeva bene quello che vedeva; ma era qualche cosa di grande.

Un momento dopo, la vettura era alla porta.

Mario vi fece salire Cosetta e vi saltò dentro dicendo:

- Cocchiere, via Homme-Armé, numero 7.

- Ah! che piacere! esclamò Cosetta. - Via Homme-Armé! Non osavo più parlartene. Andiamo a trovare il signor Giovanni.

- Tuo padre, Cosetta! tuo padre più che mai! Ora indovino, sai. Tu mi dicesti di non aver ricevuto la lettera che t'avevo mandato per mezzo di Gavroche; dovette cadere nelle sue mani, Cosetta, ed egli venne alla barricata per salvarmi. E siccome essere un angelo è una necessità per lui, così intanto ne salvò degli altri, salvò Javert. Mi trasse da quel precipizio per darmi a te, mi portò sulle spalle in quella orribile fogna. Ah! io sono un mostruoso ingrato. Dopo essere stato la tua provvidenza, egli fu pure la mia. Figurati che c'era un tremendo avvallamento da affogarvi cento volte, affogare nel fango, Cosetta! ed egli me l'ha fatto attraversare! Io ero svenuto, non vedevo niente, non udivo niente, non potevo sapere nulla della mia stessa avventura. Noi adesso andiamo a prenderlo, a condurlo con noi, voglia o non voglia, e non ci lascerà mai più. Purché sia in casa! Purché lo troviamo!

Passerò il resto della mia vita a venerarlo. Sì, deve essere così, sai, Cosetta? A lui Gavroche avrà consegnato la mia lettera. Tutto si spiega. Capisci?

Cosetta non capiva una parola.

- Hai ragione - diss'ella.

Frattanto la vettura correva.




5. LA LUCE DIETRO LE TENEBRE


Udendo bussare all'uscio, Valjean si volse.

- Avanti - disse debolmente.

La porta si aprì. Cosetta e Mario apparvero.

Cosetta si precipitò nella stanza.

Mario restò sulla soglia, appoggiato allo stipite.

- Cosetta! - disse Valjean, e si raddrizzò sulla sedia con le braccia aperte e tremanti, selvaggio, livido, sinistro e con un'immensa gioia negli occhi.

Cosetta, soffocata dall'emozione, si lasciò cadere sul petto di Valjean.

- Papà! - disse.

Egli, sconvolto, balbettava:

- Cosetta! lei! voi, signora! sei tu! Ah mio Dio! - E stretto tra le braccia di Cosetta, esclamò:

- Sei tu! tu qui! Dunque mi perdoni!

Mario, abbassando le palpebre per impedire alle lacrime di scorrere, fece un passo e mormorò tra le labbra convulsamente contratte per trattenere i singhiozzi:

- Padre mio!

- E voi, voi pure mi perdonate! - disse Valjean. Mario non poté trovare una parola, e Valjean soggiunse: - Grazie.

Cosetta si strappò lo scialle e il cappello e si gettò sul letto, dicendo:

- Mi danno fastidio.

E sedutasi sulle ginocchia del vecchio, con un adorabile gesto gli allontanò i capelli canuti e lo baciò in fronte.

Valjean, tutto smarrito, lasciava fare.

E Cosetta, che capiva appena qualche cosa in confuso, raddoppiava le carezze, come se volesse pagare il debito di Mario.

Valjean balbettava:

- Come si diventa sciocchi! Credevo di non vederla più. Figuratevi signor Pontmercy, che quando siete entrati, io dicevo tra me: - E' finita. Ecco la sua vesticciola; io sono un povero miserabile uomo, non vedrò più Cosetta; dicevo questo nel momento stesso che voi salivate le scale. Ero un idiota, no? Ecco come si può essere idioti! Si fanno i conti senza il buon Dio. E il buon Dio dice: - Tu credi che ti abbandoneranno, scioccone! No, no, le cose non andranno così. Su via, c'è là un povero vecchio che ha bisogno d'un angelo. - E l'angelo viene, ed ecco che rivedo la mia Cosetta, la mia piccola Cosetta! Ah! ero molto infelice!

Stette un po' senza poter parlare, quindi riprese:

- Avevo veramente bisogno di vedere un pochino ogni tanto Cosetta.

Qualunque cane vuole un osso da rosicchiare. Però sentivo bene che ero di troppo. Cercavo di persuadermene: Essi non hanno bisogno di te, resta dunque nel tuo cantuccio, non si ha il diritto di essere eterni. Ah! Dio benedetto la rivedo! Sai, Cosetta, che tuo marito è molto bello? Ah! hai un bel colletto ricamato; così va bene; mi piace questo disegno. Te l'ha scelto tuo marito, vero? E poi devi avere degli scialli di cascemir. Signor Pontmercy, permettetemi di darle del tu. Non sarà per molto tempo.

E Cosetta a sua volta:

- Che cattiveria, lasciarci in questo modo! Dove siete andato?

Perché siete stato lontano così a lungo? Una volta i vostri viaggi non duravano più di tre o quattro giorni. Ho mandato Nicoletta, ma le rispondevano sempre: è assente. Quando siete tornato? E perché non ce l'avete fatto sapere? Sapete che siete molto cambiato? Oh!

che brutto papà! è stato ammalato e noi non l'abbiamo saputo!

Guarda, Mario, toccagli la mano: senti com'è fredda.

- Siete qui dunque! Signor Pontmercy, voi mi perdonate! - ripeté Valjean.

A quella parola ripetuta da Valjean, tutto quello che gonfiava il cuore di Mario trovò un'uscita. Egli disse con impeto:

- Cosetta, capisci! Siamo a questo! mi chiede perdono. E sai tu che cosa mi ha fatto? mi ha salvato la vita. Anzi ha fatto più ancora; ti ha data a me. E dopo avermi salvato, e dopo averti data a me, Cosetta, sai che ha fatto di se stesso? Si è sacrificato.

Ecco l'uomo. E a me l'ingrato, a me il dimentico, a me lo spietato, a me il colpevole, dice: Grazie! Cosetta, sarebbe troppo poco passare tutta la vita ai piedi di quest'uomo! Quella barricata, quella fogna, quella fornace, quella cloaca, egli ha tutto attraversato per me, per te Cosetta; egli mi ha portato attraverso tutte le morti, allontanandole da me e accettandole per se stesso. Egli ha tutti i coraggi, tutte le virtù, tutti gli eroismi, tutte le santità. Cosetta, quest'uomo è l'angelo!

- Zitto! zitto! - disse sotto voce Valjean. - Perché dire tutte queste cose?

- Ma voi - esclamò Mario con una collera in cui c'era venerazione - perché non m'avete detto? E' anche colpa vostra. Salvate la vita alle persone e glielo nascondete! E fate di più: col pretesto di smascherarvi, vi calunniate. E' una cosa orribile!

- Ho detto la verità - rispose Valjean.

- No - riprese Mario - la verità è tutta la verità, e voi non l'avete detta tutta. Voi eravate Madeleine; perché non l'avete detto? Avete salvato Javert; perché non l'avete detto? Io vi devo la vita; perché non l'avete detto?

- Perché pensavo come voi, perché trovavo che avevate ragione, perché era necessario che io m'allontanassi. Se aveste saputo la faccenda della fogna, mi avreste fatto restare con voi; dovevo dunque tacere. Se avessi parlato, avrei imbarazzato ogni cosa.

- Imbarazzato che cosa? imbarazzato chi? - ribatté Mario. - Ma credete forse di dover restare qui? Noi vi conduciamo via. Ah, mio Dio! quando penso che tutto questo l'ho saputo solo per caso! Vi portiamo via, voi fate parte di noi stessi, siete suo padre e il mio. Non rimarrete un solo giorno di più in questa orribile casa.

Non state a credere di trovarvi qui domani.

- Domani - rispose Valjean - non sarò più qui, ma non sarò nemmeno con voi.

- Cosa volete dire? - riprese il giovane. - Ah! no, non permettiamo più nessun viaggio. Non ci lascerete più. Ci appartenete e non vi lasceremo più fuggire.

- Questa volta facciamo sul serio - aggiunse Cosetta. - Abbiamo una vettura giù. Vi rapisco. Userò la forza se occorre.

E ridendo fece il gesto di sollevare il vecchio fra le braccia.

- C'è sempre la vostra camera in casa nostra - proseguì. Se sapeste com'è bello, adesso, il giardino! Le azalee fioriscono a meraviglia. I viali sono coperti con sabbia di fiume, in cui ci sono delle piccole conchiglie violacee. Mangerete le mie fragole, sono io che le innaffio. E non c'è più né signora né signor Giovanni, siamo in repubblica e ci diamo tutti del tu, vero, Mario? Il programma è mutato. Se sapeste, papà, ho un dispiacere; c'era un pettirosso che aveva fatto il suo nido in un buco del muro, e un brutto gattaccio me l'ha mangiato. ll mio povero bel pettirosso che metteva fuori la testolina dalla sua finestra e mi guardava! Ne ho pianto. Avrei ammazzato il gatto! Ma ora non piange più nessuno; ridiamo tutti, siamo tutti felici! Verrete con noi. Come sarà contento il nonno! Avrete la vostra aiuola in giardino e la coltiverete voi, e vedremo se le vostre fragole saranno buone come le mie. E poi, io farò tutto quello che vorrete, e poi, voi mi obbedirete appuntino.

Valjean l'udiva senza intenderla; ascoltava la musica della voce più che il senso delle parole, mentre nell'occhio gli si addensava una di quelle grosse lacrime che sono le fosche perle dell'anima.

Mormorò:

- La prova che Dio è buono, eccola.

- Babbo mio! - disse Cosetta.

Valjean continuò.

- E' vero che sarebbe una delizia vivere insieme. Ci sono gli alberi pieni di uccelli. Io passeggerei con Cosetta. Vivere insieme, darsi il buongiorno, chiamarsi nel giardino, è una dolce cosa. Ci si vede fin dal mattino. Coltiveremmo ciascuno la nostra aiuola. Lei mi farebbe mangiare le sue fragole, io le farei cogliere le mie rose. Sarebbe incantevole. Solo che..

S'interruppe, poi disse dolcemente:

- Peccato!

La lacrima non cadde, rientrò, e Valjean vi sostituì un sorriso.

Cosetta prese le mani del vecchio fra le sue.

- Mio Dio! - disse. - Le vostre mani sono ancora più gelide. Siete forse malato? Soffrite?

- Io no - rispose egli. - Sto benissimo. Solo che...

E s'interruppe.

- Solo che cosa?

- Sto per morire.

Cosetta e Mario rabbrividirono.

- Morire! - esclamò Mario.

- Sì, ma non è nulla - disse Valjean.

Sospirò, sorrise e riprese:

- Cosetta, tu mi parlavi, continua, parla ancora; il tuo piccolo pettirosso è morto dunque, parla, che io oda la tua voce!

Mario, pietrificato, guardava il vecchio.

Cosetta mandò un grido straziante:

- Papà, papà mio! voi vivrete; dovete vivere. Voglio che viviate, capite!

Valjean alzò la testa verso di lei con venerazione.

- Oh, sì, vietami di morire. Chi sa? obbedirò, forse. Quando siete entrati stavo per morire. La vostra presenza mi ha fermato, mi è parso di rinascere.

- Voi siete pieno di forza e di vita - esclamò Mario. - Credete forse che si muore così? Avete avuto delle afflizioni, ma non ne avrete più. Sono io che vi chiedo perdono, e in ginocchio pure!

Voi vivrete con noi, vivrete a lungo. Siamo qui noi due, che d'ora in poi avremo un pensiero unico: la vostra felicità!

- Lo vedete? - riprese Cosetta tutta in lacrime. - Mario vi dice che non morirete.

Valjean continuava a sorridere.

- Quand'anche mi ripigliaste, signor Pontmercy, questo farebbe in modo che io non fossi quello che sono? No. Dio ha pensato come voi e me, e non muta parere; è utile che me ne vada. La morte è un buon accomodamento, Dio sa meglio di noi quello che fa. Siate felici! il signor Pontmercy possieda Cosetta! la gioventù sposi il mattino! i lillà e gli usignoli vi circondino, figli miei, e la vostra vita sia una bella aiuola battuta dal sole! tutti gli incanti del cielo vi riempiano l'anima, e che io, oramai non più buono a nulla, muoia; certamente tutto questo sta bene. Su via, siamo ragionevoli; ora nulla è più possibile, sento proprio che è finita! Un'ora fa ho avuto un deliquio; e poi, stanotte ho bevuto tutta quella brocca d'acqua. Come è buono, tuo marito, Cosetta!

stai meglio con lui che con me.

S'udì un rumore alla porta; entrava il medico.

- Buongiorno e addio, dottore - disse Valjean. - Ecco i miei poveri figlioli.

Mario s'avvicinò al medico; gli rivolse questa sola parola:

- Signore...? - ma nel modo di pronunciarla c'era una domanda completa.

Il medico rispose alla domanda con un'occhiata espressiva.

- Se le cose dispiacciono - disse Valjean - non è un motivo d'essere ingiusti verso Dio.

Ci fu un momento di silenzio. Tutti i petti erano oppressi.

Valjean si volse verso Cosetta, e si mise a contemplarla come se volesse prenderne l'immagine per tutta l'eternità. Nell'ombra profonda in cui era già disceso gli era tuttavia possibile l'estasi guardando Cosetta. Il riflesso di quel dolce viso illuminava la sua pallida faccia. Il sepolcro può avere i suoi bagliori.

ll medico gli toccò il polso.

- Ah! di voi aveva bisogno! - mormorò, guardando Cosetta e Mario.

E chinandosi all'orecchio di Mario, aggiunse con voce molto sommessa: - Troppo tardi!

Quasi senza cessare di guardar Cosetta, Valjean fissò serenamente Mario e il medico, e dalla sua bocca si sentirono uscire queste parole appena articolate:

- Morire è nulla; non vivere è orribile.

D'un tratto si alzò. Questi ritorni di forza talvolta sono un segno dell'agonia. Egli andò con passo fermo verso la parete, scostando Mario e il medico che volevano aiutarlo, staccò il piccolo crocifisso di rame che vi era appeso, tornò a sedersi con tutta la libertà dei movimenti dell'uomo sano, e posando il crocifisso sulla tavola, disse con voce alta:

- Ecco il gran martire.

Poi il petto gli si accasciò, la testa gli vacillò come se fosse presa dall'ebbrezza della tomba, e le mani posate sui ginocchi, cominciarono a graffiare con le unghie la stoffa dei pantaloni.

Cosetta gli sosteneva le spalle, e singhiozzava, e cercava di parlargli, senza riuscirvi. Tra le parole, miste a quella lugubre saliva che accompagna le lacrime, si distinguevano delle frasi come questa:

- Papà non ci abbandonate. Possibile che vi ritroviamo solo per perdervi?

Si potrebbe dire che l'agonia serpeggia; va, viene, s'avanza verso il sepolcro, retrocede verso la vita; morendo, si va quasi a tentoni.

Dopo quella mezza sincope, Valjean si riprese, scosse la fronte come per farne cadere le tenebre, e ritornò quasi interamente lucido. Prese un lembo della manica di Cosetta e la baciò.

- Rinviene, dottore, rinviene! - esclamò Mario.

- Voi siete buoni tutti e due - disse Valjean.

- Ora vi dirò che cosa mi ha fatto pena. Quello che mi ha fatto pena, signor Pontmercy, è stato che non avete voluto toccare il denaro. Esso appartiene proprio a vostra moglie. Ora vi spiego, figli miei, e anche per questo sono contento di vedervi. Il jais nero viene dall'Inghilterra, il jais bianco viene dalla Norvegia.

Tutto ciò è scritto su quel foglio lì, che leggerete. Per i braccialetti inventai di sostituire ai cerchietti di latta saldati i cerchietti di latta accostati; riescono più belli, migliori e meno cari. Capirete quanto denaro si può guadagnare. Dunque la ricchezza di Cosetta è proprio sua. Vi dò questi particolari perché abbiate l'animo tranquillo.

La portinaia era salita e guardava dalla porta socchiusa. Il medico la congedò, ma non poté impedire che quella donna zelante, prima d'allontanarsi, gridasse al moribondo:

- Volete un prete?

- Ne ho già uno - rispose Valjean.

E parve accennasse col dito un punto al di sopra della sua testa, dove si sarebbe detto che vedesse qualcuno.

E' probabile infatti che il Vescovo assistesse a quell'agonia.

Cosetta gli insinuò leggermente un guanciale dietro le reni.

Valjean riprese:

- Signor Pontmercy, non abbiate nessun timore, ve ne scongiuro. I seicentomila franchi sono di Cosetta. La mia vita sarebbe stata inutile se voi non li godeste! Eravamo riusciti a fabbricare molto bene quelle conterie, e potevamo gareggiare con quelli che chiamano i gioielli di Berlino. Per esempio, si può far concorrenza al vetro nero di Germania: dodici dozzine, cioè milleduecento grani ben tagliati, costano solo tre franchi.

Quando una persona cara sta per morire, noi la guardiamo con uno sguardo che si aggrappa a lei e vorrebbe trattenerla. Mario e Cosetta, tenendosi per mano, muti per l'angoscia, disperati, tremanti, stavano in piedi davanti a Valjean, non sapendo che cosa dire alla morte.

Di minuto in minuto, Valjean declinava, s'indeboliva, s'avvicinava sempre più all'orizzonte oscuro. Il suo respiro era divenuto intermittente, interrotto dal rantolo. Faceva gran fatica a muovere l'avambraccio; i piedi avevano perduto ogni movimento; e, mentre la debolezza delle membra e l'accasciamento del corpo crescevano, tutta la maestà dell'anima saliva e si spiegava sulla sua fronte. Già nella sua pupilla era visibile la luce del mondo ignoto.

Il suo volto impallidiva e nello stesso tempo sorrideva. Non si vedeva più la vita: ma ben altro. Il respiro scemava, lo sguardo s'ingrandiva. Era un cadavere al quale cominciavano a spuntare le ali.

Fece segno a Cosetta, poi a Mario d'accostarsi: era evidentemente l'ultimo minuto dell'ultima ora, ed egli si mise a parlar loro con voce così fioca, che pareva venisse di lontano; si sarebbe detto che ci fosse già una muraglia tra essi e lui.

- Avvicinatevi, avvicinatevi tutti e due. Io vi amo molto. Oh! è dolce morire così! Tu pure m'ami, Cosetta mia; io lo sapevo che conservavi sempre l'affetto per il tuo vecchio amico. Come sei stata gentile a mettermi questo guanciale dietro le spalle! Mi piangerai un poco, vero? Ma non troppo. Non voglio che tu abbia troppe afflizioni. E' necessario che vi divertiate un poco, figlioli miei. Ho dimenticato di dirvi che sui fermagli senza ardiglione guadagnavo anche più che su tutto il resto; dodici dozzine venivano a costare dieci franchi e si vendevano a sessanta. Era davvero un buon commercio. Non dovete dunque stupirvi dei seicentomila franchi, signor Pontmercy. E' denaro onesto; potete essere ricchi con tutta tranquillità. Dovrete avere una carrozza, ogni tanto un palco a teatro, delle graziose tolette da ballo per la mia Cosetta, e poi dare dei buoni pranzi agli amici, essere molto felici.

Poco fa scrivevo a Cosetta; essa troverà la mia lettera. A lei lascio i due candelieri che sono sul camino. Sono d'argento; ma per me sono d'oro, sono di diamante; mutano in ceri le candele che vi si pongono. Non so se colui che me li ha dati sia contento di me lassù. Ho fatto quanto ho potuto.

Figlioli miei, non dimenticate che io sono povero; mi farete seppellire in un cantuccio qualunque sotto una pietra che indichi il posto. E' questa la mia volontà. Nessun nome sulla pietra. Se Cosetta vorrà venire qualche volta, mi farà piacere, e voi pure signor Pontmercy.

A voi devo confessare che non vi ho sempre amato, e ve ne chiedo perdono; ora Cosetta e voi formate per me una sola persona. Vi sono tanto riconoscente, perché so che farete felice Cosetta. Se sapeste, signor Pontmercy, le sue belle guance rosee formavano la mia gioia, e quando la vedevo un po' pallida ero triste.

Nel cassettone c'è un biglietto di cinquecento franchi; non l'ho toccato; è per i poveri.

Cosetta, vedi là sul letto la tua vesticciola? La riconosci?

Eppure sono trascorsi solo dieci anni! Come passa il tempo! Siamo stati molto felici. Ora è finita. Figlioli miei, non piangete, non vado lontano, e di là vi vedrò. Basterà che guardiate lassù quando si fa notte e mi vedrete sorridere.

Cosetta, ti ricordi di Montfermeil? Eri sola nel bosco e avevi molta paura. Ti ricordi quando presi il manico del secchio d'acqua? Fu quella la prima volta che toccai la tua povera manina.

Era tanto fredda! Ah! avevate le mani rosse allora, signorina, e ora le avete così candide. E la grande bambola? ti ricordi? La chiamavi Caterina! Ti rammaricavi di non averla portata in convento! Quante volte m'hai fatto ridere, buon angelo mio! Dopo la pioggia, mettevi come barche dei fuscelli di paglia nei rigagnoli e li guardavi andare. Un giorno, ti diedi una racchetta di vimini e un volante con piume gialle, azzurre e verdi. Tu l'hai dimenticato, tu! Eri così birichina da piccola! Giocavi; ti mettevi delle ciliegie alle orecchie. Sono cose del passato. Le foreste attraversate con la mia bambina, gli alberi sotto i quali passeggiammo insieme, i monasteri in cui ci nascondemmo, i giochi, il bel riso della fanciullezza, sono ombra. E io che credevo che tutto ciò mi appartenesse; ecco la mia stoltezza. Quei Thénardier erano cattivi, ma bisogna perdonarli. Cosetta, è venuto il momento di dirti il nome di tua madre. Essa si chiamava Fantina. Ricorda questo nome: Fantina. Mettiti in ginocchio ogni qual volta lo pronuncerai. Ha patito molto; e ti ha molto amata. Essa ha avuto in sventura tutto quanto tu hai di felicità. Sono queste le parti che fa Dio. Egli è lassù, ci vede tutti, e sa quello che fa in mezzo alle sue grandi stelle.

Amatevi molto, sempre; non c'è altro al mondo: amarsi. Penserete talvolta al povero vecchio che muore qui.

Cosetta mia, non è colpa mia, sai, se in tutto questo tempo non ti ho vista; questo mi spezzava il cuore. Venivo fin sull'angolo della tua via; dovevo fare un'impressione curiosa alla gente che mi vedeva passare. Ero come pazzo; una volta sono uscito senza cappello. Figlioli miei, comincio a non vedere più chiaro; avevo ancora qualche cosa da dire, ma non importa. Pensate un po' a me.

Voi siete creature benedette. Non so cos'abbia, vedo della luce.

Avvicinatevi di più. Datemi le vostre care teste dilette; che vi metta sopra le mani!

Cosetta e Mario caddero in ginocchio, smarriti, soffocati dalle lacrime, ciascuno su una delle mani di Valjean. Quelle mani auguste non si muovevano più.

Egli era rovesciato indietro, e il suo bianco volto, illuminato dai candelieri, guardava il cielo; lasciava che Cosetta e Mario coprissero di baci le sue mani: era morto.

La notte era senza stelle e di un buio profondo. Certo, nell'ombra, qualche angelo immenso stava ritto, con le ali spiegate, ad attenderne l'anima.




6. L'ERBA NASCONDE E LA PIOGGIA CANCELLA


Nel cimitero di Père-Lachaise, vicino alla fossa comune, lontano dal quartiere elegante di quella città dei sepolcri, lontano da tutte quelle tombe dalle forme fantasiose che ostentano al cospetto dell'eternità le orride mode della morte, in un angolo deserto, rasente un vecchio muro, sotto una grossa pietra alla quale si abbarbicano dei vilucchi, tra la gramigna e il musco, c'è una tomba. Questa tomba non è esente più delle altre dalle ingiurie del tempo, dalla muffa, dal lichene e dagli escrementi di uccelli. L'acqua la inverdisce, l'aria l'annerisce. Non è vicina a nessun sentiero, e i visitatori non amano spingersi da quella parte perché l'erba è alta e bagna subito i piedi. Quando splende un po' di sole, ci vanno le lucertole. Tutt'intorno, c'è un fruscio di avena selvatica. A primavera le capinere vanno a cantare sull'albero.

Quella tomba è nuda. Chi tagliò quella pietra si curò solo del necessario e non si preoccupò d'altro che di fare quella pietra abbastanza lunga e abbastanza larga per coprire un uomo.

Non vi si legge alcun nome.

Solo, e sono già molti anni, una mano vi ha scritto a matita questi versi resi a poco a poco illeggibili dalla pioggia e dalla polvere, e probabilmente a quest'ora cancellati:

"Dorme. Benché fu ben strana la sorte egli viveva. E lo toccò la morte quando l'angelo suo non ci fu più.

E una cosa assai naturale essa fu come la notte che succede al giorno".

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