Verne



L'ISOLA MISTERIOSA

 

 

 

 

PARTE PRIMA


I NAUFRAGHI DELL'ARIA




CAPITOLO 1



- Risaliamo?

- No! Anzi, scendiamo!

- Peggio, signor Cyrus. Cadiamo.

- Vivaddio! Giù della zavorra!

- E' l'ultimo sacco che si vuota.

- Il pallone si innalza?

- No.

- Mi pare di sentire uno sciacquio d'onde...

- Abbiamo il mare di sotto.

- Sarà a centocinquanta metri da noi!

Allora una voce fortissima ordinò:

- Fuori tutto quello che pesa... tutto!... E ci aiuti Iddio!

Queste, le parole che risuonavano nell'aria, al di sopra di quello sterminato deserto d'acque che è il Pacifico, alle quattro del pomeriggio del 23 marzo 1865. Nessuno, certamente, ha dimenticato il terribile vento di nord-est che si scatenò nel pieno dell'equinozio di quell'anno, durante il quale il barometro precipitò settecentodieci millimetri. Fu un ininterrotto uragano che imperversò dal 18 al 26 marzo seminando la rovina in America, in Europa, in Asia, lungo una fascia di milleottocento miglia dal trentacinquesimo parallelo nord al quarantesimo parallelo sud. Città travolte, foreste sradicate, coste assalite e sommerse da montagne d'acqua, navi buttate a fracassarsi contro gli scogli, territori interi spazzati da trombe d'acqua e di vento e migliaia e migliaia di persone schiacciate sulla terra o inghiottite dai mari: questi gli effetti dello spaventoso uragano.

Ora, mentre tante catastrofi stavano succedendo sulla terra e sul mare, un dramma non meno terribile si svolgeva nell'aria agitata. Un pallone, portato via come una palla in cima a una tromba d'aria e ghermito nel suo vortice, correva per lo spazio con una velocità di centosettanta chilometri all'ora, girando su sé stesso come una trottola gigantesca. Sotto il grosso pallone oscillava una navicella che ospitava cinque passeggeri, appena visibili dentro le nebbie fuligginose e piovose che pesavano dal cielo buio sul mare.

Da dove veniva quell'aerostato, vero giocattolo in balia della paurosa tempesta? Da qual punto del mondo si era lanciato? Certo, non era partito durante l'uragano; poiché l'uragano imperversava già da cinque giorni, bisognava concludere che quel pallone veniva da assai lontano perché non aveva percorso meno di duemila miglia ogni ventiquattr'ore.

Comunque, i passeggeri non avevano potuto avere a loro disposizione alcun mezzo per conoscere la strada percorsa dalla loro partenza, poiché mancava loro qualsiasi punto di riferimento. Si poteva, anzi, stabilire questo fatto curioso: che, travolti dalla violenza della tempesta, essi non la subivano. Essi si spostavano, giravano su loro stessi senza avvertire per nulla quella rotazione e nemmeno i loro spostamenti in linea orizzontale. I loro occhi non potevano forare le spesse nebbie che si addensavano sotto la navicella. Non c'era che nebbia attorno a loro: una nebbia così opaca, che non avrebbero saputo dire nemmeno se era giorno o notte. Nessun riflesso di luce lontana, nessun rumore di terra abitata, nessuno scroscio d'onda era mai giunto sino alle loro orecchie, tanto si erano tenuti alti. Soltanto, la loro repentina caduta aveva dato loro coscienza dei pericoli che correvano sopra i flutti oceanici.

Intanto il pallone, alleggerito di tutti gli oggetti pesanti, come le munizioni, le armi e le provviste, era rimbalzato verso l'alto, fino a millecinquecento metri. I passeggeri, accertato che avevano il mare di sotto, trovando che era assai meno pericoloso restare in alto che in basso, non avevano esitato a buttare anche le cose più utili, e cercavano di non perdere nemmeno un atomo di quel fluido che era come l'anima del loro apparecchio e che era quello che li sosteneva nell'aria.

La notte trascorse in mezzo a inquietudini che sarebbero riuscite mortali a spiriti meno energici. Poi il giorno riapparve e, con la luce, l'uragano parve accennare a moderarsi un poco. Con l'alba del 24 marzo infatti, sembrò che la furia degli elementi un poco si placasse.

Le nubi risalivano verso il cielo, il vento, da tempestoso che era stato, diventò la «forte brezza» dei marinai.

Verso le undici la parte bassa dell'atmosfera si era notevolmente ripulita e presentava quell'aspetto di umido nitore che si vede, e anzi si sente, dopo il passaggio dei fortunali. L'uragano non sembrava essersi allontanato, ma piuttosto dissolto nell'aria, forse, schiantatasi la tromba marina, si era frazionato in temporali carichi di elettricità.

Nonostante questo, proprio intorno alle undici, il pallone riprese a scendere; pareva, anzi, che a poco a poco, si sgonfiasse, che il suo involucro si allungasse e assumesse una forma ovoidale.

A mezzogiorno, infatti l'aerostato filava a soli seicento metri al di sopra del mare. Stazzava circa millesettecento metri cubi e, in grazia a questo suo eccezionale volume, aveva potuto mantenersi a lungo nell'aria sia raggiungendo altissime quote, sia percorrendo una fortissima distanza.

In tanto frangente, i passeggeri lanciarono gli ultimi oggetti che ancora rappresentavano un peso, i pochi viveri che avevano conservato, perfino i minuscoli oggetti che avevano nelle loro tasche. Ma era chiaro che l'aerostato non poteva mantenersi in alto e che il gas sfuggiva da qualche lacerazione. In poche parole, erano perduti!

Non c'era infatti né un continente, né un'isola sotto di loro: il più piccolo punto dove atterrare, nemmeno un metro quadrato solido in cui la loro ancora potesse afferrarsi. Non c'era che il mare infinito, i cui flutti agitavano con incredibile violenza. Non c'era che l'Oceano sterminato, la sterminata pianura liquida flagellata spietatamente dall'uragano che dall'alto della navicella, doveva apparire ai passeggeri come una folle cavalcata di onde furibonde impennacchiate di candida schiuma. Non una terra, non in vista. Bisognava allora fermare a tutti i costi il movimento di discesa per impedire che l'aerostato venisse travolto dalle onde. I passeggeri della navicella mettevano in opera tutti i mezzi per tentarlo; ma, nonostante i loro sforzi, il pallone continuava ad abbassarsi, filando sempre, portato dal vento, verso sud-ovest.

Quale situazione per quei disgraziati! Ormai, non erano più padroni del loro mezzo di locomozione, e ogni loro tentativo era infruttuoso.

L'involucro del pallone si sgonfiava sempre più, il gas ne sfuggiva inesorabilmente, un'ora dopo mezzogiorno, la navicella non era più che a duecento metri sopra l'Oceano.

Impossibile fermare o tamponare la fuga di gas che sfuggiva da una lacerazione dell'involucro; e anche liberando la navicella di tutto quanto essa conteneva, i passeggeri non avrebbero fatto altro che prolungare di poco la loro agonia, di ritardare di poco la catastrofe; se qualche terra non appariva prima di notte, passeggeri, navicella e pallone sarebbero inesorabilmente finiti nel mare.

La sola manovra che si potesse fare in siffatte circostanze, venne fatta.

Evidentemente, i passeggeri erano uomini energici, che sapevano guardare la morte in faccia. Erano decisi a lottare sino all'ultimo minuto a fare di tutto per ritardare la caduta. La navicella era una specie di grande cassa di vimini e non si sarebbe certo mai riusciti a farla galleggiare.

Alle due, il pallone si trovava a centoventi metri dal pelo dell'acqua. In quel momento, una maschia voce echeggiò, e le risposero voci non meno virili.

- E' stato gettato tutto?

- No! Ci sono ancora diecimila franchi in oro.

Un attimo dopo, un sacco precipitava nelle onde.

- Ci solleviamo?

- Un po'; ma non tarderemo a riprendere la caduta.

- Che cosa c'è ancora da buttar fuori?

- Niente.

- Sì. La navicella.

- Attacchiamoci alle corde, e a mare la navicella!

Era, in realtà, il solo, estremo mezzo per alleggerire l'aerostato. Le corde che legavano la navicella all'involucro furono tagliate, e il pallone balzò fulmineo nell'aria a un'altezza di seicento metri. I cinque passeggeri si erano issati sulla rete di corde che avvolgeva l'involucro e si tenevano afferrati alle maglie guardando l'abisso.

Balzato così in alto, l'aerostato vi si tenne per qualche tempo, ma poi, fatalmente, ricominciò a discendere. La fuga del gas non si era fermata, ed era impossibile procedere a una riparazione. Tutto quello che i passeggeri avevano potuto fare, era stato fatto. Oramai non c'era più alcun mezzo umano di salvezza. Non restava che affidarsi a Dio.

Alle quattro, il pallone era ridisceso a centocinquanta metri dall'onde... Improvvisamente, si udì un latrato. Fra i cinque passeggeri c'era anche un cane, che si teneva aggrappato alle corde, accanto al suo padrone.

- Top ha visto qualche cosa - gridò uno dei cinque.

E, subito, una voce gridò:

- Terra! Terra!

Il pallone, che il vento continuava a trascinare verso sud-ovest, aveva già coperto, dall'alba, una distanza notevolissima, di centinaia di miglia; e ora una terra abbastanza alta si profilava lontana, sul mare. Ma, per raggiungerla, c'erano ancora trenta miglia da fare; c'era ancora una lunga ora da trascorrere, sempre che non s'andasse alla deriva. Un'ora! Ma il pallone non si sarebbe svuotato del tutto prima che questa ora finisse?

Ecco la terribile domanda. Sì, tutti i passeggeri vedevano distintamente quella strisciolina scura che bisognava raggiungere a tutti i costi. Non sapevano che terra fosse, se isola o continente:

sapevano soltanto, e assai vagamente, verso quale parte dell'emisfero l'uragano li aveva trascinati. Ma quella terra, abitata o deserta che fosse, ospitale o inospitale, bisognava raggiungerla.

Ora, alle quattro, era chiaro che il pallone non poteva ormai più sostenersi. Radeva ormai la superficie del mare, e già le creste spumose delle grandi onde avevano lambito più volte le corde che strascicavano in basso, e l'aerostato non si risollevava ormai più che per ricadere in giù, come un grande uccello ferito alle ali.

Mezz'ora più tardi, la terra non era più che a un sol miglio; ma il pallone, sfatto, floscio, spiegazzato malamente, non conservava che un poco di gas nella sua parte superiore. I passeggeri aggrappati alle corde, pesavano troppo, e presto semituffati nelle acque, furono schiaffeggiati dalle onde. Fu allora che l'involucro si piegò a forma di saccoccia, e il vento, facendo forza su quel viluppo, lo spinse contro la costa. Oramai la terra agognata non era più che a poche centinaia di metri; ma, all'improvviso, quattro urla echeggiarono, angosciose. L'aerostato, per qualche misteriosa ragione, ribalzava verso l'alto, percosso da un formidabile colpo di mare, e raggiungeva in un baleno i cinquecento metri di altezza, come se fosse stato alleggerito di un'altra parte del suo peso. Lassù, preso in una forte ondata di vento, cominciò a filare parallelamente alla costa; ma pochi minuti dopo ripiombava verso terra e, rapidamente, si afflosciava sulla spiaggia, lontano dalle onde.

I passeggeri, aiutandosi l'un l'altro, si liberarono dalle corde e saltarono sulla sabbia. Il pallone, liberato da quel peso, fu riafferrato dal vento che lo succhiò di nuovo in alto e lo portò, come un grande uccello ferito che ancora avesse trovato un poco di forza, chissà dove.

La navicella, però, aveva ospitato Cinque passeggeri e un cane; e sulla spiaggia non c'erano che quattro persone. Evidentemente, il quinto passeggero era stato strappato via dal colpo di mare che aveva percosso l'aerostato, e la sua scomparsa aveva provocato il balzo all'insù del pallone poco prima che toccasse terra.

Appena i quattro naufraghi - con quale altro nome potremmo chiamarli?

- ebbero messo piede a terra, accortisi che mancava un loro compagno, gridarono:

Forse, tenta di raggiungere a nuoto la riva. Salviamolo! Salviamolo!




CAPITOLO 2


Non erano né degli aeronauti di professione, né dei dilettanti di spedizioni aeree quelli che l'uragano aveva gettato su quella costa.

Erano dei prigionieri di guerra, che l'audacia aveva spinto alla fuga in straordinarie circostanze. Cento volte, avrebbero dovuto perire!

Cento volte il loro pallone strappato avrebbe dovuto precipitarli nell'Oceano! Ma il cielo li destinava a una sorte stranissima, e il 20 marzo dopo aver lasciato Richmond, assediata dalle truppe del generale Ulisse Grant, si trovavano a sette mila miglia da quella città, capitale della Virginia, principale piazzaforte dei separatisti durante la terribile guerra di Secessione. Il loro viaggio aereo era durato cinque giorni.

Ed ecco in quali strane circostanze era avvenuta la fuga di quei prigionieri, fuga che doveva concludersi con la catastrofe che abbiamo raccontato.

In quello stesso anno, nel febbraio del 1865, in uno di quei colpi di mano che il generale Grant tentava, inutilmente, per impadronirsi di Richmond, molti dei suoi ufficiali caddero prigionieri e furono rinchiusi dentro la città. Fra questi prigionieri, uno dei più distinti apparteneva allo Stato maggiore federale, e si chiamava Cyrus Smith.

Cyrus Smith, originario del Massachussets, era un ingegnere, uno scienziato autentico, cui il governo dell'Unione aveva affidato, durante la guerra, la direzione delle ferrovie: e si sa di quale importanza strategica furono esse nella guerra. Vero tipo di Americano del nord, magro, ossuto, sui quarantacinque anni, aveva corti capelli e la barba quasi grigia. La sua era una di quelle belle teste «numismatiche» che sembrano fatte per essere incise nelle medaglie.

Occhi ardenti, bocca seria, la sua era la tipica fisionomia dello scienziato della Scuola militare. Era uno di quegli ingegneri che hanno voluto cominciare a lavorare col piccone e il martello: come quei generali che hanno voluto cominciare a fare i semplici soldati.

Per questo, insieme con l'ingegnosità dello spirito, possedeva una grande abilità di manovale, e vantava dei muscoli eccezionali.

Uomo d'azione e uomo di pensiero al tempo stesso, agiva senza alcuno sforzo, mosso da una potente vitalità e da una fervida tenacia, che sfidavano tutte le sfortune. Coltissimo, praticissimo, sempre perfettamente padrone di sé, egli possedeva nella forma più completa e al più alto grado tre qualità fondamentali della energia umana:

l'operosità dello spirito e della mano, l'ardore dei desideri, e la potenza della volontà. E la sua divisa avrebbe potuto essere quella di Guglielmo di Orange «Non ho bisogno di oprare per agire, né di riuscire per perseverare».

Nello stesso tempo, Cyrus Smith era il coraggio personificato. Aveva preso parte a tutte le battaglie della guerra di Secessione. Dopo aver cominciato fra i volontari dell'Illinois agli ordini di Ulisse Grant, si era battuto a Paducah, a Belmont, a Pittsburg-Landing; all'assedio di Corinto, a Port-Gibson, a Chattanoga, a Wilderness, sul Potomak; e dovunque era stato un soldato valoroso di quel generale che diceva:

«Io non conto mai i miei morti». Cento volte, Cyrus Smith avrebbe dovuto essere nel numero di quelli che il fierissimo generale non usava contare; ma in tutte quelle battaglie la fortuna lo aveva assistito fino al giorno in cui, ferito, era stato fatto prigioniero sul campo di battaglia di Richmond.

Insieme a lui, un altro personaggio importante cadeva nelle mani dei sudisti. Era nientemeno che Gedeone Spilett, cronista del "New York Herald", che aveva avuto l'incarico dal suo giornale di seguire e riferire le vicende della guerra con gli eserciti del Nord. Gedeone Spilett apparteneva alla famiglia di quei sorprendenti cronisti inglesi o americani dalla quale erano usciti Stanley e altri, che non arretrano davanti a nulla pur di carpire un'informazione e trasmetterla nel più breve tempo possibile al loro giornale. I giornali dell'Unione sono delle vere e proprie potenze, e i loro inviati speciali delle autorità con le quali bisogna fare i conti.

Ora, Gedeone Spilett era uno dei più ragguardevoli di questi inviati speciali. Uomo d'alti meriti, pieno di energia, pronto a tutto, fertile di idee, conoscitore di tutti i Paesi del mondo, soldato e artista, ardente nei consigli, risoluto nell'azione, indifferente alle fatiche e ai pericoli quando si trattava di conoscere qualche cosa di utile per sé stesso e il suo giornale, vero eroe della curiosità, dell'informazione, dell'inedito, dell'ignoto, dell'impossibile, egli era uno di quegli intrepidi osservatori che scrivono sotto il fischiar delle pallottole, fanno la cronaca sotto le granate, e per i quali ogni pericolo rappresenta una fortuna.

Anche egli era stato a tutte le battaglie, in prima fila, rivoltella nella destra, taccuino nella sinistra, e la sua penna non tremava sotto la mitraglia. Egli non usava stancare incessantemente i fili del telegrafo, come fanno coloro che non hanno niente da dire; ma ognuna delle sue note, brevi, chiare, precise, gettava piena luce sopra un punto importante. Inoltre, non gli mancava una punta di umorismo. Fu lui che, dopo la battaglia del Fiume Nero, volendo a tutti i costi mantenere la precedenza allo sportello dell'ufficio telegrafico per annunciare al suo giornale il risultato dello scontro, telegrafò per due lunghe ore i primi capitoli della Bibbia. La faccenda costò duemila dollari al "New York Herald", ma il "New York Herald" fu il primo a conoscere e a pubblicare la notizia sulla battaglia.

Gedeone Spilett era d'alta statura, sui quarant'anni, con grossi favoriti biondo-rossicci che gli inquadravano il viso. Il suo occhio era calmo, vivo e mobilissimo: era l'occhio di chi è abituato a cogliere in un baleno tutti i particolari di un paesaggio o di una scena. Solidamente costruito, egli aveva affrontato tutti i climi della terra, temprandovisi come una sbarra di acciaio nell'acqua fredda.

Da dieci anni, era il redattore viaggiante titolare del "New York Herald", che si arricchiva delle sue cronache e dei suoi disegni, poiché lo Spilett maneggiava altrettanto bene la penna e la matita.

Quando fu preso, stava tracciando sul suo taccuino la descrizione e il disegno generale della battaglia. Le ultime parole tracciate sul suo taccuino furono: «Un sudista mi sta mirando e...». Ma Gedeone Spilett se l'era cavata, come sempre, senza la più piccola scalfittura.

Lo Smith e lo Spilett, che non si conoscevano se non di fama, erano stati portati tutt'e due a Richmond. L'ingegnere guarì rapidamente della sua ferita, e fu durante la sua convalescenza che strinse amicizia col cronista. I due uomini si piacquero e si apprezzarono a vicenda. E presto la loro vita non ebbe che un solo scopo: fuggire, raggiungere l'armata di Grant, riprendere le armi per l'unità federale.

I due Americani erano dunque decisi ad approfittare di tutte le occasioni, ma, per quanto fossero stati lasciati liberi nella città, Richmond era così meticolosamente vigilata che un'evasione poteva considerarsi come impossibile.

Intanto Cyrus Smith era stato raggiunto da un suo servitore che gli era devoto per la vita e per la morte. Era un negro, nato nelle proprietà dell'ingegnere da genitori schiavi, ma da lungo tempo reso libero da Cyrus Smith, abolizionista per ragionamento e per sentimento. Lo schiavo divenuto libero non aveva voluto abbandonare il suo padrone. Sarebbe morto volentieri per lui, tanto lo amava. Era un giovanotto sui trent'anni, gagliardo, agile, svelto, intelligente, dolce e calmo, talvolta ingenuo, sempre sorridente, servizievole e buono. Si chiamava Nabuccodonosor, ma non rispondeva che all'abbreviativo familiare di Nab.

Quando Nab seppe che il suo padrone era stato fatto prigioniero, lasciò il Massachussets senza esitare, arrivò davanti a Richmond, e, a forza di astuzia e di abilità, riuscì a penetrare nella città assediata. Ed è inutile descrivere il piacere di Cyrus nel rivedere il suo Nab e la gioia del negro nel trovare il suo padrone.

Ma se Nab era stato rapido nel penetrare in Richmond, assai più difficilmente se ne sarebbe potuto uscire, poiché i sudisti vigilavano da vicino tutti i prigionieri federali. Bisognava dunque aspettare un'occasione eccezionale per tentare, con qualche probabilità di successo, un'evasione: e tale occasione non solo non si presentava, ma era difficilissimo aiutarla a presentarsi.

Intanto Grant continuava le sue energiche operazioni, La vittoria di Petersburg gli era stata fieramente contesa; le sue forze, riunite a quelle di Butler, non riuscivano a conseguire risultati notevoli davanti a Richmond, e nulla lasciava pensare che la liberazione dei prigionieri potesse avverarsi sollecitamente. Il cronista, al quale la prigionia non consentiva più nessuna raccolta di notizie interessanti, non resisteva più e non aveva che un'idea: uscire da Richmond, a tutti i costi. Molte volte, anzi, tentò la fuga; ma sempre fu fermato da insormontabili ostacoli.

Continuando quell'assedio, però, se ansiosi erano i prigionieri di evadere per correre a raggiungere l'armata di Grant, non meno ansiosi di evadere erano alcuni degli stessi assediati che anelavano di ricongiungersi all'armata separatista. Fra questi, un certo Jonathan Forster, sudista arrabbiato. Infatti, se i prigionieri federali non potevano uscire dalla città, i sudisti non lo potevano nemmeno loro poiché l'armata del Nord li accerchiava. Il governatore di Richmond già da molto tempo non poteva più comunicare col generale Lee, mentre sarebbe stato del più alto interesse strategico fargli conoscere la situazione della città e orientarlo sulla sollecita marcia delle sue truppe. Jonathan Forster ebbe allora l'idea di innalzarsi in un pallone per traversare le linee degli assedianti e giungere al campo dei separatisti. Il governatore autorizzò l'impresa ardimentosa; un aerostato fu fabbricato e messo a disposizione del Forster che doveva essere accompagnato da cinque compagni, bene armati e ben provvisti di viveri. La partenza del pallone fu fissata per la notte del 18 marzo:

col favore del vento di nord-ovest, gli aeronauti contavano di raggiungere il campo del generale Lee in poche ore. Senonché, quella notte, il vento di nord-ovest non fu una brezza favorevole: era una furia che annunciava l' uragano. E infatti, ben presto la bufera assunse tali proporzioni, che la partenza del Forster dovette essere rinviata: era impossibile rischiare l'aerostato e la vita di coloro che vi sarebbero saliti in mezzo all' infuriare di quella tempesta. Il pallone, già gonfiato, era là, sulla piazza maggiore di Richmond, pronto a partire alla prima caduta del vento; e l'impazienza dei cittadini diventava sempre maggiore davanti all' ostinato imperversare del maltempo. Il 18 e il 19 trascorsero infatti senza che alcun mutamento si verificasse; era anzi difficile trattenere solidamente al suolo il pallone che gli impeti del vento tentavano di strappare via a ogni momento. La mattina del 20 l'uragano era sempre violento, e ogni idea di partenza fu provvisoriamente abbandonata.

Proprio quel giorno, Cyrus Smith venne avvicinato, in una via di Richmond, da un uomo che non conosceva. Era un marinaio chiamato Pencroff, sui trentacinque anni, vigorosissimo, abbronzatissimo, dalla faccia bonacciona. Era un Americano del Nord, che aveva corso per tutti i mari del globo, al quale erano capitate tutte le avventure che possono capitare, quaggiù, a una creatura umana. A questo va aggiunto, che Pencroff era uomo pieno di iniziative, pronto a tutto rischiare e che nulla al mondo avrebbe potuto stupire. Sul principio di quell'anno, Pencroff era capitato a Richmond con un giovinetto quindicenne della Nuova Jersey, Harbert Brown. Harbert era figlio del capitano di Pencroff, era rimasto orfano, e il rude marinaio gli voleva bene come se fosse il suo proprio figlio. Sopravvenuto l'assedio, non aveva potuto più lasciare la città, con suo grande dispetto, e non aveva avuto più che un'idea - anche lui!- quella di fuggire con ogni mezzo possibile. Egli conosceva di fama l'ingegnere Cyrus Smith, sapeva con quale impazienza quell'uomo audacissimo mordeva il freno, e, quel giorno, non esitò a fermarlo e a dirgli senz'altro preambolo:

- Signor Smith, non ne avete abbastanza di Richmond?

L'ingegnere guardò fissamente lo sconosciuto che continuò a voce bassa:

- Signor Smith, volete fuggire?

- Quando? - rispose vivacemente l'ingegnere; ma è lecito aggiungere che quella parola gli sfuggisse dalle labbra perché non aveva ancora «soppesato» l'uomo che gli faceva siffatta proposta. Dopo aver, però, esaminato quella schietta e leale faccia di marinaio, fu sicuro di avere davanti a sé un brav'uomo, e gli chiese:

- Chi siete voi?

Pencroff si presentò.

Va bene - fece Smith. - E con qual mezzo dovremmo fuggire?

- Con questo fannullone d'aerostato che pare stia proprio aspettandoci.

Il marinaio aveva appena dette queste parole, che l'ingegnere lo afferrò di slancio per un braccio e se lo strascinò dietro, fino nella sua stanza. Qui, Pencroff spiegò il suo progetto. Non si sarebbe arrischiato che la vita, nell'impresa. L'uragano era nel pieno della sua violenza; ma un ingegnere accorto e ardimentoso come Cyrus Smith avrebbe ben saputo guidare un aerostato. Se Pencroff avesse conosciuto le manovre, non avrebbe esitato a fuggire, con Harbert, s'intende. Ne aveva viste ben altre, lui, e non si lasciava certo sgomentare da una tempesta.

Cyrus Smith era stato ad ascoltarlo senza parole, ma i suoi occhi brillavano. Ecco, finalmente, l'occasione propizia. E Smith non era uomo da lasciarsela sfuggire. Il progetto non era che pericoloso, dunque era realizzabile. Durante la notte, nonostante la sorveglianza, non era difficile avvicinarsi al pallone, salire nella navicella, tagliare le gomene, partire. Certo, si rischiava di finire ammazzati; ma si poteva anche riuscire, e senza quella tempesta... Già, ma senza quella tempesta, il pallone sarebbe già partito con i sudisti, e, con esso, l'occasione tanto attesa.

- Ma io non sono solo... - osservò Cyrus Smith.

- Quante persone vorreste condurre con voi?

- Due: il mio amico Spilett e il mio servo Nab.

- Fanno tre; e, con me e Harbert, cinque. Il pallone doveva trasportarne sei...

- Il conto torna. Partiremo.

Quando il giornalista fu informato del temerario progetto, l'approvò senza la più piccola riserva; si meravigliò solo che un'idea così semplice non gli fosse già balenata nel cervello. Quanto a Nab, egli avrebbe seguito il suo padrone dappertutto.

- Allora, a questa sera - disse Pencroff. - Ci troveremo in quei paraggi come curiosi e...

- Sì. Alle dieci precise confermò Smith. - E voglia il cielo che l'uragano non si plachi prima di quell'ora.

Pencroff tornò nel suo alloggio, dove il giovinetto Harbert lo aspettava. Il ragazzo conosceva già il piano del marinaio, e attendeva con ansia il risultato del suo colloquio col famoso ingegnere.

La sera, l'uragano non si era placato, e Jonathan Forster e i suoi compagni non pensavano certamente a una imminente partenza. Tutta la giornata trascorse sotto la furia della bufera; e Smith temeva che quelle raffiche furibonde non finissero per lacerare il pallone trattenuto a terra da solide gomene. Per lunghe ore ronzò sulla piazza quasi deserta, intorno all'aerostato, come sorvegliandolo. Pencroff, dal canto suo, fece altrettanto, le mani in tasca, sbadigliando come un ozioso e disoccupato che non sa come ammazzare il tempo. Cadde la sera, la notte si fece profonda e buia. Cadeva la pioggia mescolata alla neve; faceva freddo, una nebbia pesante pareva avesse inghiottito Richmond. Si sarebbe detto che la furia del vento avesse stabilito una specie di tregua fra assedianti e assediati: anche i cannoni, infatti, tacevano davanti alla fragorosa violenza dell'uragano. Le strade della città erano deserte, e, con quel tempo così spaventoso, erano state tolte perfino le sentinelle di guardia al pallone. Tutto favoriva insomma la partenza dei prigionieri; e se non fosse stato quell'orribile tempo...

- Maledetto uragano! - brontolava Pencroff fermandosi con un pugno sulla testa il cappello che il vento voleva strappargli via. - Beh, vedremo di cavarcela lo stesso...

Alle nove e mezzo Cyrus Smith e i suoi due compagni giungevano, da opposte direzioni, sulla piazza che, spenti dal vento i fanali a gas, era immersa nella più profonda oscurità. Non si vedeva nemmeno l'enorme aerostato tutto schiacciato contro il suolo.

I cinque prigionieri si incontrarono vicino alla navicella. Nessuno li aveva visti e, tanta era l'oscurità, durarono fatica loro stessi a vedersi. Senza dire una parola, salirono sulla navicella mentre Pencroff, dietro ordine dell'ingegnere, tagliava uno dopo l'altro i cavi che trattenevano il pallone. Tagliato il penultimo il marinaio raggiunse i suoi compagni. L'ingegnere era sul punto di spezzare l'ultimo ormeggio quando un cane piombò all'improvviso nella navicella. Era Top, il cane di Smith che, rotta la sua catena, aveva inseguito e raggiunto il padrone. L'ingegnere esitò. Temeva in un eccesso di peso e stava per ributtare a terra il cane, ma Pencroff gli disse:

- Per uno di più...- Così dicendo tagliò risoluto l'ultimo cavo e il pallone rapito dal vento scattava in aria e spariva nella notte dopo avere abbattuto con la navicella due comignoli che aveva incontrato nel suo slancio.

L'uragano si scatenava allora con spaventosa violenza. L'ingegnere per tutta la notte mantenne l'aerostato assai alto; e quando sorse il giorno un denso strato di nebbia copriva la terra. Fu soltanto dopo cinque giorni di viaggio che un'improvvisa schiarita lasciò vedere lo sconfinato mare al disotto del pallone che il vento continuava a spingere con tremenda velocità.

Abbiamo visto come di quei cinque uomini partiti il 20 marzo, quattro fossero stati gettati, il 24, sopra una spiaggia deserta a più di seimila miglia dalla città di Richmond.

Ma colui che mancava, colui che i quattro scampati stavano ansiosamente cercando, era il loro capo naturale, l'ingegnere Cyrus Smith.




CAPITOLO 3


L'ingegnere era stato strappato via da un colpo di mare, e ii suo cane lo aveva voluto seguire precipitandosi dietro di lui come per aiutarlo.

- Andiamo - gridò il giornalista. E tutti e quattro, Gedeone Spilett, Harbert, Pencroff e Nab, dimenticando stanchezza e fatica, cominciarono affannosamente le loro ricerche. Il povero Nab piangeva di rabbia e di disperazione al pensiero di aver perduto quello che aveva di più caro al mondo. Ma non erano trascorsi più di due minuti fra l'attimo in cui l'ingegnere era stato strappato via dalle onde e il momento in cui i suoi compagni erano giunti sulla spiaggia: si poteva dunque sperare di arrivare in tempo a salvarlo.

- Cerchiamolo! Cerchiamolo! - gridava Nab.

- Sì, Nab - gli disse Gedeone Spilett. - Stai sicuro che lo troveremo.

- Vivo?

- Vivo!

- Sa almeno nuotare? - chiese Pencroff.

- Sì - rispose Nab. - E poi Top è con lui...

Ma il marinaio, sentendo i ruggiti dell'infuriato mare, scosse la testa dubbioso. L'ingegnere era scomparso a circa un mezzo miglio di distanza dal punto dove i naufraghi erano venuti a cadere col pallone.

Se egli avesse potuto raggiungere il punto più vicino della costa avrebbe toccato terra a mezzo miglio di distanza. Erano quasi le sei di sera, la nebbia saliva, la notte si annunciava assai buia. I naufraghi camminavano verso nord seguendo la costa di quella terra su cui il caso li aveva buttati: terra ignota di cui non potevano nemmeno supporre la posizione geografica. Camminavano sopra una terra sabbiosa che pareva sprovvista d'ogni specie di vegetazione, assai ineguale, scabra, rotta qua e là da piccoli pantani che rendevano arduo il cammino. Da quei brevi specchi d'acqua immobile scattavano su in lento volo degli uccellacci che il buio della notte subito inghiottiva.

Altri invece prillavano via in interi stormi che facevano pensare a nuvole cacciate dal vento. Pencroff credette di riconoscere in essi dei gabbiani le cui strida acute si udivano tra i ruggiti del mare.

Tratto tratto i naufraghi si fermavano, lanciavano delle grida e poi sostavano muti ad ascoltare se qualche grido rispondesse dall'Oceano.

Pensavano che, se fossero stati vicini al punto dove l'ingegnere aveva raggiunto la terra, i latrati di Top avrebbero risposto ai loro appelli qualora l'ingegnere non fosse stato in condizioni di poter lanciare un grido. Ma non si udiva che lo schianto delle onde contro la riva e il gruppo di uomini riprendeva il suo cammino.

Dopo venti minuti di ricerche i naufraghi furono fermati all'improvviso da una schiumante striscia di onde. La terra finiva. Si trovavano sull'estremità di una punta rocciosa contro la quale il mare si rompeva con furore.

- E' un promontorio - osservò il marinaio - bisogna che noi ritorniamo, tenendoci verso la destra; raggiungeremo così la terra ferma.

- Ma se egli fosse là!... - gridò Nab mostrando l'Oceano su cui biancheggiavano, nelle tenebre, le schiume delle onde.

- Chiamiamo ancora!

Tutti, unendo le loro voci, lanciarono alte grida; ma nessuno rispose.

Attesero un attimo di quiete, gridarono ancora una volta, non rispose che il silenzio. I naufraghi tornarono allora verso terra seguendo la costa opposta del promontorio. Anche qui il suolo era sabbioso e sparso di pietre; ma Pencroff notò che il terreno saliva e pensò che doveva raggiungere a poco a poco un'alta scarpata che si profilava confusamente nell'ombra della notte. Qui gli uccelli erano rari, il mare appariva meno agitato, le onde più tranquille, s'udiva appena il mormorio del risucchio. Questo lato del promontorio doveva senza dubbio formare una specie di baia semicircolare protetta dalla violenza della tempesta che infuriava al largo.

Ma, seguendo quella direzione, s'andava verso il sud e ci si allontanava da quel tratto di costa sul quale l'ingegnere avrebbe potuto metter piede. Dopo un cammino di un miglio e mezzo la costa non presentava alcuna svolta che consentisse di tornare verso il nord.

Eppure bisognava bene che quel promontorio di cui si era girata la punta si unisse alla terra ferma; e i naufraghi, quantunque sfatti dalla fatica, procedevano coraggiosamente sperando di trovare a ogni passo qualche angolo brusco che li rimettesse nella direzione primitiva. Senonché dopo circa due miglia di strada faticosa si videro ancora una volta fermati dal mare sopra una punta rocciosa.

- Siamo sopra un isolotto - esclamò Pencroff - e noi l'abbiamo traversato da una estremità all'altra!

Il marinaio aveva detto il vero. I naufraghi erano stati gettati non sopra un continente e nemmeno sopra un'isola vera e propria, ma sopra un isolotto che non misurava più di due miglia di lunghezza. Questo isolotto arido pietroso senza vegetazione, squallido rifugio di gabbiani, faceva forse parte di un arcipelago più importante? Chissà!

I passeggeri, quando dalla loro navicella lo videro attraverso le nebbie non avevano certo potuto esaminarlo con cura. Ma Pencroff, con i suoi occhi di marinaio abituati a vedere nelle tenebre, credette a un certo punto di distinguere verso occidente delle masse confuse che potevano annunciare una costa montagnosa. Senonché ormai era notte, non si poteva pensare ad abbandonare l'isolotto accerchiato dal mare e bisognava rinviare all'indomani le ricerche dell'ingegnere che non aveva risposto purtroppo a nessuna delle invocazioni lanciate nella notte dai suoi compagni.

- Ma il silenzio di Cyrus non prova niente - osservò il giornalista. - Potrebbe essere svenuto, ferito, impossibilitato per il momento a rispondere. Non bisogna disperare.

E propose di accendere nell'isolotto un fuoco che potesse servire da punto d'orientamento all'ingegnere. Ma invano cercarono legna o sterpi secchi: non c'era che sabbia e pietrame. Facile immaginare il dolore di Nab e dei suoi compagni, che erano così strettamente uniti all'ingegnere. Bisognava convenire che erano impotenti a portargli alcun soccorso e che era necessario attendere il giorno. E allora, o l'ingegnere aveva potuto salvarsi con le sole sue forze e aveva già trovato rifugio sopra un altro punto dell'isolotto, oppure era perduto per sempre.

Furono ore lunghe e penose. Il freddo era acuto e tormentava dolorosamente, ma i naufraghi non se ne accorgevano nemmeno, né pensarono di concedersi un minuto di riposo. Dimenticando le loro pene fisiche, il pensiero fisso al loro capo, sperando sempre, andavano e venivano sull'arido isolotto, frugando, chiamando, cercando, tornando sempre verso la punta settentrionale dove pareva loro di trovarsi più vicini al luogo dove si era perduto Cyrus Smith, restando in ascolto se venisse qualche grido lontano nella notte. A un certo punto, un grido di Nab parve riprodursi in un'eco; Harbert se ne avvide, lo fece notare a Pencroff, e aggiunse:

- Questo proverebbe che dovrebbe esserci verso occidente una costa abbastanza vicina.

Il marinaio ne convenne. D'altro lato, egli aveva intravisto qualche cosa, nel buio, verso quella parte; i suoi occhi non potevano ingannarsi; sì, doveva esserci una terra verso occidente.

Quella eco lontana fu la sola risposta che pervenisse alle orecchie dei naufraghi.

Intanto il cielo a poco a poco si puliva delle nuvole. Verso la mezzanotte qualche stella apparve e, se l'ingegnere fosse stato con loro, avrebbe fatto osservare ai suoi compagni che non erano già più le stelle dell'emisfero boreale. Infatti, non si vedeva la stella polare, le costellazioni zenitali non erano quelle che si vedevano sui cieli settentrionali dell'America, la Croce del Sud splendeva sul polo australe del globo.

La notte trascorse così. Verso le cinque del mattino, il cielo cominciò a impallidire. Ancor buio era l'orizzonte, ma poi, con l'alba, una nebbia pesante si stese sul mare e rapidamente: non ci si vedeva a venti passi di distanza. Era un motivo di nuove angosce per i naufraghi che avevano atteso la luce del giorno con tutta ansia e adesso non scorgevano assolutamente nulla.

- Non importa - disse Pencroff, - se non vedo la costa, la sento... E là... là, ne sono sicuro come sono sicuro di non essere più a Richmond.

Ma quella nebbia non poteva tardar troppo a sollevarsi, non era che una nebbia del bel tempo, e il calore del sole l'avrebbe presto dissolta. Verso le sei, infatti, cominciò a farsi trasparente; presto, l'intero isolotto si scoprì agli occhi dei naufraghi, poi il mare, infinito verso oriente, ma chiuso verso occidente da una costa alta e diruta. Sì! La terra era là! Là la salvezza sicura, almeno per qualche tempo. Fra l'isolotto e quella costa correva un braccio di mare, largo mezzo miglio ma tormentato da una corrente fortissima. Eppure, uno dei naufraghi, non ascoltando che il proprio cuore, si buttò nell'acqua senza dire una sola parola. Era Nab. Egli aveva fretta di essere su quella costa e di spingersi verso nord. Nessuno avrebbe potuto trattenerlo. Invano, infatti, Pencroff cercò di richiamarlo. E allora il giornalista si accinse a seguire il negro. Ma il marinaio lo fermò:

- Che volete fare? Buttarvi anche voi a nuoto verso la costa?

- Sì.

- Aspettate, date ascolto a me. Nab basterà, se mai, a soccorrere l'ingegnere. Se ci avventuriamo tutti in questo braccio di mare, la corrente potrebbe portarci verso il largo. Ora, se non m'inganno, si tratta di una corrente provocata dall'alta marea. Guardate, adesso la marea accenna a scendere. Un po' di pazienza, e, quando il mare sarà basso, troveremo probabilmente un passaggio guadabile.

- Sì, avete ragione - ammise Spilett. - E' meglio che ci separiamo il meno possibile.

Intanto Nab lottava con ostinatezza gagliarda contro la corrente, cercando di attraversarla in senso obliquo. Si vedevano le sue spalle nere emergere dall'acqua a ogni colpo di braccia; andava sì alla deriva, ma si avvicinava sempre più alla costa. Gli ci volle più di mezz'ora per superare quel mezzo miglio d'acqua, e quando raggiunse la costa si trovava a parecchie centinaia di metri più in là dal punto dell'isolotto dove si era lanciato a nuoto. A terra, Nab si trovò subito davanti a una muraglia di granito. Si scosse vigorosamente, poi, correndo, sparì agli occhi dei compagni svoltando dietro una punta rocciosa che si protendeva nel mare in direzione nord.

I suoi compagni lo avevano seguito con trepidazione e, quando lo perdettero di vista, cominciarono a esaminare quella terra dove tra breve si sarebbero trasferiti in cerca di un rifugio, sostenendosi con qualche arsella. Come colazione, era piuttosto magra; ma bisognava rassegnarsi...

La costa che si vedeva di fronte formava una vasta baia conchiusa verso sud da una punta assai acuta, senza alcun segno di vegetazione e dall'apparenza selvaggia. Verso settentrione, invece, la baia, aprendosi, formava un litorale meno scabro, che correva da sud-ovest a nord-est e terminava in un capo affilato. Fra quei due punti estremi sui quali s'appoggiava l'arco della baia, potevano correre circa otto miglia. Proprio davanti all'isolotto, quella terra mostrava, in primo piano, una spiaggia sabbiosa disseminata di rocce nerastre che la calante marea veniva a una a una discoprendo. In secondo piano, s'alzava una cortina granitica, tagliata a picco, incoronata da una cresta capricciosa alta un centinaio di metri sul mare, lunga circa tre miglia e che finiva con una specie di pane tagliato con tanta precisione che pareva opera umana anziché naturale. Nessun albero, in quel paesaggio desolato che ricordava quello che domina la città del Capo di Buona Speranza, naturalmente in proporzioni ridotte. Ma, verso destra, dall'isolotto, si potevano scorgere, al di là di quella specie di pan tagliato, le masse confuse di grandi alberi che si prolungavano a perdita d'occhio. Era una vista che rallegrava lo spirito, attristato dalla asprezza di quelle aride muraglie e di quelle spiagge desolate. E finalmente, sul fondo, in direzione nord-ovest, a oltre sette miglia, splendeva una cima bianca che i raggi del sole facevano brillare. Era un cappuccio di neve stesa sopra un monte lontano. Ma chissà se quella terra era un'isola oppure un continente! Vedendo certi cumuli di rocce contorte e sconvolte, non era difficile arguire che si trattasse di terreni vulcanici. Spilett, Pencroff e Harbert guardavano con attenzione quella terra sulla quale si accingevano a trasferirsi, sulla quale, forse, avrebbero dovuto vivere per anni e anni, e aspettarvi la fine, se essa non si trovava sopra qualche rotta marina...

- Pencroff - mormorò Harbert. - Che cosa ne pensi?

- Mah! - gli rispose il marinaio. - C'è del buono e del cattivo, come in tutte le cose di questo mondo. Vedremo. Intanto, però, la bassa marea comincia. Credo che fra tre ore potremo tentare il guado. Quando saremo di là, cercheremo di cavarcela e di trovare l'ingegnere Smith.

Pencroff non si era ingannato nelle sue previsioni. Tre ore dopo, col mare basso, quasi tutto il letto del canale, formato da sabbia, emergeva e non restava più fra l'isolotto e la terra ignota che uno strettissimo tratto di mare da traversare. Alle dieci, Spilett e i suoi compagni si spogliarono, si assicurarono i loro abiti in un fagotto sopra le teste e si avventurarono in quel breve tratto di mare, profondo poco più di un metro e mezzo. Il solo Harbert, ancora piccolo, dovette nuotare, e lo fece mirabilmente. In pochi minuti furono, senza fatica, sull'opposto litorale dove, asciugatisi al sole e rivestiti i loro abiti, si sedettero a deliberare sul da farsi.




CAPITOLO 4


Subito il giornalista disse a Pencroff di aspettarlo in quello stesso punto dove avevano toccato terra, e, senza il più piccolo indugio, risalì la costa seguendo la stessa strada che aveva poco prima seguito il negro Nab, sparendo presto dietro un angolo di terra. Harbert avrebbe voluto accompagnarlo, ma Pencroff lo aveva trattenuto, dicendogli:

- Resta, figliolo. Dobbiamo preparare un accampamento e vedere se non ci è possibile trovare qualche cosa da mettere sotto i denti: qualche cosa di più sostanzioso delle arselle di ieri. Anche i nostri amici avranno bisogno di rifocillarsi, quando torneranno. Andiamo: al lavoro!

- Eccomi pronto, Pencroff.

- Vedrai che qualche cosa combineremo. Procediamo con metodo. Siamo stanchi, abbiamo fame e abbiamo freddo. Bisogna dunque trovare un ricovero, del cibo e del fuoco. La foresta ha del legno, i nidi avranno delle uova; non ci resta che trovarci una casa.

- Andrò io a cercare una grotta dentro queste rocce, e finirò pure per trovare qualche bel buco dove potremo rifugiarci!

- Ecco. Andiamo, ragazzo.

Si misero in cammino ai piedi della enorme muraglia granitica, sulla spiaggia che la bassa marea aveva scoperto per largo tratto. Andavano però verso sud, perché Pencroff aveva osservato che, a un centinaio di metri al di sotto del punto dove erano arrivati, la costa presentava una specie di taglio che, secondo il marinaio, doveva essere la foce di un fiume o di un ruscello. Ora, se era importante trovare dell'acqua da bere, era anche possibile che la corrente avesse portato Smith proprio verso quella foce. La muraglia di granito, che si innalzava, come s'è detto, di un centinaio di metri, era compatta e nemmeno alla sua base, che pur veniva lambita dalle onde, presentava la più piccola incrinatura. Era, insomma, una specie di muraglione a picco liscio e durissimo, sulla cui sommità roteavano miriadi di uccelli acquatici, tutt'altro che spaventati dalla presenza di quegli uomini che vedevano certo per la prima volta. Pencroff riconobbe in mezzo a essi due o tre specie di gabbiani, e pensò che con un sol colpo di fucile se ne sarebbe potuto abbattere molti; ma per sparare un colpo di fucile, è necessario un fucile, e i due uomini non l'avevano. D'altra parte, si sa che i gabbiani non sono affatto buoni da mangiare e nemmeno le loro uova sono gradevoli al gusto.

Intanto, Harbert, che si era allontanato di qualche passo verso sinistra, scoprì delle rocce rivestite di alghe in mezzo alle quali innumerevoli erano certe conchiglie a doppia valva abbastanza solleticanti per gente affamata. Chiamò subito Pencroff, che si affrettò a raggiungerlo.

- Perbacco! - gridò il marinaio. - Ma sono delle arselle!

- Non direi - osservò Harbert che le aveva esaminate con attenzione. - Le direi piuttosto dei litodomi.

- Si mangiano?

- Benissimo.

- E allora, facciamo colazione con questi signori.

Ci si poteva fidare di Harbert, ferratissimo in storia naturale, che aveva, per volontà del padre, seguito i corsi dell'Università di Boston i cui professori avevano subito preso a ben volere quel giovinetto studioso e appassionato. La sua profonda conoscenza di siffatta disciplina doveva, anzi, tornare di grande utilità anche in avvenire.

Questi litodomi erano dei molluschi cosiddetti perforatori perché si scavano dei buchi dentro la pietra e hanno la conchiglia arrotondata verso le estremità.

Pencroff e Harbert ne fecero una scorpacciata, come se fossero ostriche, e non dovettero nemmeno lamentarsi per la mancanza di pepe perché il sapore di quei molluschi era già assai pepato per conto suo.

Calmato un poco l'appetito, bisognava pensare a trovare dell'acqua da bere. Raccolta un'ampia provvista di quei molluschi, Pencroff e Harbert si misero in cammino e duecento passi più in là arrivarono a quella spaccatura della costa dove il marinaio aveva supposto la foce di un corso di acqua. La sua supposizione era stata infatti esatta. Vi trovarono una specie di fiume che si cacciava dentro la spaccatura della muraglia di granito e, mezzo miglio più in su, spariva dentro un bosco.

- Harbert! Guarda. Qui, l'acqua; là, il bosco. Adesso non ci manca che la casa.

Era un'acqua limpida e, in quell'ora di bassa marea, dolce. Invano però Harbert cercò intorno una grotta, un rifugio qualunque: la muraglia di granito permaneva liscia e compatta. Però, proprio alla foce di quel corso di acqua, a seguito di alcune frane, si erano formate non delle grotte, ma come dei mucchi di rocce. Pencroff e Harbert si cacciarono per i sentieri di sabbia che correvano in mezzo a quella convulsione rocciosa, sfiorando pinnacoli che si reggevano per miracoli di equilibrio naturale, e duravano fatica a reggere contro il vento che si infilava rabbioso e violento dentro quei camminamenti sabbiosi che formavano come un labirinto in mezzo alle rocce.

- Fermiamoci - disse Pencroff. - Potremo utilizzare, per ora, uno di questi roccioni che presenti qualche cavità. Certo, se fosse qui l'ingegnere, egli saprebbe sfruttare assai meglio queste rocce...

- Tornerà presto - affermò Harbert. - Ma quando torna, deve trovare qui una dimora abbastanza abitabile. Del resto, la renderemo abitabile, se riusciremo a costruire una specie di focolare, in una di queste cavità, e a lasciarvi un'apertura perché il fumo possa uscirne.

- Ce la faremo, ragazzo mio. E prima di tutto, andiamo a raccogliere un poco di combustibile; penso che il bosco ce lo fornirà; e ci fornirà anche dei grossi legni per turare convenientemente la nostra grotta e sbarrare il passo a questo vento del diavolo.

Risalirono allora la sponda sinistra del corso d'acqua, notando che la corrente era assai forte e si portava dietro dei tronchi d'alberi.

Certo, durante l'alta marea, quelle acque dovevano essere risospinte all' indietro per un lungo tratto: e Pencroff pensò che si sarebbe potuto utilizzare benissimo quel movimento di flusso e riflusso per trasportare degli oggetti pesanti.

Dopo aver camminato per un quarto d'ora, il marinaio e il ragazzo arrivarono dove il corso d'acqua descriveva una brusca giravolta e si tuffava dentro una foresta di alberi stupendi, ancor ricchi di fogliame nonostante la stagione. Si trattava di conifere, e Harbert, il piccolo naturalista, riconobbe subito la famiglia alla quale appartenevano quelle conifere dal gradito profumo, e poi mostrò a Pencroff alcuni alti ciuffi di pini marittimi dal largo ombrello.

Camminando sotto quegli alberi, sotto le alte erbe, il marinaio sentì scricchiolare e crepitare sotto i suoi passi delle legne secche.

- Ragazzo - fece Pencroff, - io non conosco il nome di questi alberi, ma so di poterli catalogare nel genere della «legna da ardere»: ed è quello che, per ora, ci interessa.

- Facciamone subito una buona provvista - gli rispose Harbert, mettendosi senz'altro all'opera.

La raccolta fu facile. Non occorreva nemmeno rompere dei rami o strapparli dagli alberi, tanta era la quantità di legna secca che giaceva in terra. Il combustibile, insomma, non mancava; quello che mancava era un mezzo di trasporto. Secca com'era, quella legna doveva ardere con estrema facilità e rapidità; sarebbe quindi stato necessario portarne una forte provvista alla grotta, e il carico di due uomini era ben lungi dal bastare.

- Non preoccuparti, ragazzo - fece Pencroff - troveremo bene un mezzo per trasportare questo combustibile. Ci si arrangia sempre. Certo, se avessimo una carretta o una barca, la cosa sarebbe fin troppo facile.

- Ma abbiamo il fiume - esclamò Harbert.

- Ecco. Il fiume sarà per noi la strada che cammina per conto suo, e i traini di legname non sono stati inventati per nulla.

- Però, in questo momento, questa nostra strada d'acqua corre in una direzione proprio opposta alla nostra. C'è l'alta marea, e il corso d'acqua retrocede.

- Aspettiamo la bassa marea; e penserà quest'acqua a portarci il combustibile alla grotta.

E subito, tutt'e due, cominciarono a portare verso la sponda del fiume grossi fasci di legna secca. Poi, con dei tronchi abbastanza grossi legati insieme con robuste liane secche, costruirono una specie di zattera sulla quale accumularono ordinatamente la legna raccolta. In poco più di un'ora, il carico era completo, e il traino, assicurato alla sponda, aspettava la bassa marea per prendere il via e lasciarsi portare dalla corrente.

C'erano alcune ore da aspettare e venne a tutti e due il pensiero di impiegarle salendo fin sopra la muraglia di granito per esaminare di lassù la terra sconosciuta sulla quale avevano posto il piede. A un centinaio di metri più in là, la muraglia scendeva dolcemente, come a formare una scalinata naturale. Harbert e Pencroff la salirono agevolmente e in pochi minuti furono sulla sommità della gradinata granitica di dove potevano contemplare lo sterminato Oceano. Con ansiosa emozione scrutarono tutta la costa settentrionale, sulla quale erano scesi col pallone. Là, Cyrus Smith era scomparso, e là i loro occhi cercarono se qualche rottame dell'aerostato non fosse per avventura rimasto a galleggiare sulle acque; ma il mare non era che un infinito deserto d'acqua, e deserta appariva la costa. Non vi si scorgevano nemmeno Nab e il giornalista. Ma, forse, in quel momento, l'uno e l'altro stavano cercando ed esplorando in qualche altra parte della costa...

- Eppure, qualche cosa mi dice - esclamò Harbert - che un uomo come l'ingegnere non ha potuto annegare come l'ultimo venuto. Egli deve aver raggiunto qualche altro punto della costa. Non lo credi, Pencroff?

Il marinaio scosse la testa con tristezza; egli non aveva troppe speranze di rivedere Cyrus Smith; ma non voleva distruggere le speranze del ragazzo, e gli rispose:

- Senza dubbio, figliolo; il nostro ingegnere è uomo da cavarsi d'impiccio dove tutti gli altri uomini sarebbero fritti.

Verso occidente, si vedeva svettare la montagna con la sua cima coperta di neve. Larghe masse boscose l'ammantavano sino a una certa altezza, e dove il bosco finiva, spaziava una vasta prateria disseminata di ciuffi di alberi. Laggiù, qua e là, si vedeva anche scintillare l'acqua del fiume che certo doveva scendere dalla montagna.

- Chissà se siamo sopra un'isola! - mormorò pensoso Pencroff.

- Comunque, dovrebbe essere un'isola assai grande.

- Per quanto grande sia, sarebbe sempre un'isola...

La questione non poteva essere risolta in quel momento. Bastava constatare che, isola o continente, quella terra era abbastanza fertile, piacevole come paesaggio, varia nei suoi prodotti.

- Bisogna ringraziare la Provvidenza - disse Pencroff - che, in fondo, ci ha assistito nel nostro disastro.

- Sia dunque lodato Iddio - gli fece Harbert, il cui giovane cuore era pieno di riconoscenza per il Creatore.

Poi ripresero la strada del ritorno, seguendo la cresta meridionale della muraglia, orlata da un festone di rocce capricciose dalle quali, al passare dei due uomini, scattavano a volo stormi di uccelli.

- Ma non sono dei gabbiani - esclamò Harbert.

- E allora, che uccelli sono? Sembrerebbero dei piccioni!

- E difatti, sono dei colombi selvatici o colombi di roccia gli rispose Harbert. - Li riconosco benissimo dalla doppia banda nera che traversa le loro ali, dalla macchia di piume bianche sul dorso, e dal colore blu-cinerino delle loro piume. E, sai, il colombo di roccia è ottimo da mangiare: di conseguenza ottime devono essere le loro uova.

Ora, per poche che ne abbiano lasciate nei loro nidi...

- Ah, non lasceremo loro il tempo di schiudersi, se non in tante belle frittate.

- Già; ma e come le farai le frittate? Con che cosa?

- Hai ragione; non sono abbastanza mago per questo. Ma non importa; ci accontenteremo di uova alla coque e di uova sode. Le più dure me le papperò io.

Nelle anfrattuosità di quelle rocce, in certi buchi annidati nelle pieghe della pietra, trovarono molte uova e ne raccolsero alcune dozzine che conservarono accuratamente nel largo fazzoletto del marinaio. Quindi, scesero verso il corso d'acqua. Quando arrivarono sulla sponda, era un'ora del pomeriggio, e la bassa marea già cominciava. Bisognava approfittare del riflusso per avviare verso le grotte il carico di legna. Pencroff non voleva che quella zattera andasse sulla corrente senza direzione, e, d'altro canto, non osava imbarcarsi su quel fragile mezzo natante in mezzo a un fiume rapinoso, ma un marinaio non è mai in imbarazzo, quando si tratta di cavi e di gomene, e Pencroff, in un battibaleno, formò una grossa e lunga corda intrecciando insieme delle tenacissime liane, l'assicurò alla poppa della zattera e ne tenne un capo nelle mani, mentre Harbert, aiutandosi con una lunga pertica, manteneva l'imbarcazione nella corrente.

La cosa riuscì alla perfezione. Il grosso carico di legna, frenato dalla lunga corda vegetale tenuta nel pugno fermo del marinaio, seguiva docilmente il filo della corrente. La riva del fiume era pianeggiante, non c'era pericolo di urti che avrebbero messo a repentaglio il carico, e in poco meno di due ore, la zattera veniva fermata a pochi passi di distanza dalle grotte.




CAPITOLO 5


Scaricato il legno, Pencroff si dette subito da fare per rendere abitabile la grotta scelta come abitazione, ostruendo le aperture con sabbia, pietre, rami intrecciati saldamente e terra bagnata per evitare il passaggio dei venti. Venne lasciata una sola via libera, una specie di condotto, per il fumo. Nell'interno, la grotta era suddivisa in tre o quattro camere, se si potevano definire in tal modo certe tane delle quali una fiera si sarebbe disdegnosamente accontentata. Ma ci si stava al riparo, ci si poteva stare in piedi, almeno nella più grande, che era al centro della grotta. Il suolo era coperto da una sabbia finissima. Insomma, in attesa di meglio, ci si poteva arrangiare abbastanza bene.

Pencroff e Harbert lavoravano di buzzo buono, e parlavano.

- Non credi, Pencroff, che i nostri compagni avranno trovato una casa migliore di questa nostra?

- Può darsi; ma, nel dubbio, non astenerti dal lavoro. Meglio due corde sull'arco che nemmeno una corda.

- Pur che riportino l'ingegnere Smith, e non avremo più nulla da chiedere al Cielo.

- Sì... Che uomo, l'ingegnere! Non se ne trovava un altro...

- Trovava?!... Ma allora tu disperi di rivederlo?

- Dio me ne guardi.

Intanto, il lavoro era finito, e Pencroff se ne dichiarò soddisfattissimo.

- Ecco - disse. - Ora i nostri compagni possono tornare; troveranno un rifugio sufficiente.

Restava da costruire il focolare e preparare la cena. Una cosa semplice e facile, in fondo. In fondo a una specie di corridoio scavato fra le rocce, nella grotta, sotto l'apertura che era stata lasciata apposta per l'uscita del fumo, furono collocate delle grosse pietre rotonde e piatte. C'era anche questo di buono: quel calore che non se ne sarebbe uscito insieme col fumo dall'apertura, sarebbe bastato ad assicurare alla «casa» una temperatura conveniente. In una delle «camere» venne ammassata la provvista di legna, e poi il marinaio dispose sulle pietre del focolare improvvisato dei grossi ceppi mescolati a legna minuta. Fu a questo punto che Harbert gli domandò se avesse degli zolfanelli.

- Perbacco - gli rispose Pencroff. - E aggiungo, per fortuna; perché senza zolfanelli o senza esca, saremmo in un brutto impiccio.

- Non potremmo fare del fuoco come i selvaggi, strofinando energicamente due pezzi di legno uno contro l'altro? - Provaci, provaci, figliolo, e vedremo se ce la fai prima a ottenere il fuoco o a romperti le braccia.

- Eppure, è un metodo assai in uso nelle isole del Pacifico.

- Non dico di no; ma bisogna concludere che quei selvaggi sanno come si fa, oppure usano del legno particolare, perché io l'ho provato cento volte, e non ci sono mai riuscito. No; preferisco gli zolfanelli. Dove sono, a proposito?

Pencroff cercò la scatola per tutte le tasche della giacca e dei pantaloni, ma, con sua grande sorpresa, non la trovava.

- Ecco una cosa maledettamente seccante - brontolò. - La scatola deve essermi caduta dalla tasca, e non me ne sono accorto. Tu, Harbert, non hai uno zolfanello o qualche cosa da accendere?

- No, Pencroff!

Il marinaio uscì dalla grotta grattandosi la testa energicamente e, con Harbert, si dette a cercare ansiosamente nei dintorni, sulla sabbia, se per caso si trovasse la sua scatola preziosa. Era una scatola di rame, e difficilmente avrebbe potuto sfuggire ai loro occhi.

- Sei sicuro, Pencroff, di non aver buttato fuori dalla navicella anche quella scatola?

- Oh, me ne sono guardato bene. Soltanto, capirai, con tutti quegli scossoni che abbiamo subito, è facile che un oggetto così piccolo si sia smarrito. Anche la mia pipa, vedi, è sparita. Maledizione! Dove può mai essersi cacciata quella diabolica scatola?

- Guarda, il mare sta ritirandosi. Andiamo sul posto dove abbiamo preso terra.

Era assai poco probabile trovare la scatola su quella sabbia dove le onde avevano dovuto farla rotolare chissà dove, ma non si poteva trascurare neanche la più piccola possibilità. Corsero dunque su quel punto della costa, e là frugarono con cura minuziosa in ogni anfratto, in ogni buco, in ogni angolo, ma senza trovar niente. Evidentemente, se la scatola era caduta su quella sabbia, doveva poi essere finita in mare. Era una perdita gravissima, nelle loro circostanze:

irreparabile, anzi, e Pencroff non nascondeva il suo cruccio e il suo dispetto. Harbert cercò di confortarlo dicendogli che, se anche l'avessero trovata, quella scatola avrebbe ormai contenuto degli zolfanelli inservibili, inzuppati d'acqua di mare; ma il marinaio protestò: la sua scatola era assolutamente impenetrabile, aveva una chiusura ermetica.

- Beh, Pencroff, troveremo certamente qualche altro mezzo per procurarci del fuoco. E poi, Spilett o l'ingegnere avranno bene in tasca degli zolfanelli.

- Sì, ma intanto siamo senza fuoco, e al loro ritorno troveranno una ben malinconica cena che li aspetta. E poi, Nab e l'ingegnere non fumano, e perché vuoi che abbiano degli zolfanelli in tasca? E quanto a Spilett, quello avrà conservato senza dubbio il suo taccuino, ma non la sua scatola di zolfanelli.

Harbert non rispose. Era sicuro che si sarebbe potuto ottenere del fuoco anche senza quella famosa scatola. Pencroff invece, per quanto non fosse uomo da perdersi d'animo, non era altrettanto sicuro.

Comunque, intanto non c'era che una cosa da fare: aspettare il ritorno di Nab e di Spilett. Addio però cena con le uova sode! Bisognava accontentarsi di carne cruda: e la cosa, francamente, non era gran che allettante. A buon conto, prima di tornare alla grotta, fecero una nuova e abbondante provvista di litodomi. Lungo la strada del ritorno, Pencroff camminava a testa bassa, cercando sempre per terra la sua scatola, fermandosi a frugare sotto i ciuffi d'erba, sotto i sassi, lungo la riva del fiume. Alle cinque erano a «casa», e anche qui, dentro la vasta grotta e le sue «stanze» e i' suoi corridoi, fu cercato minuziosamente. Finalmente, decisero di sospendere quelle ricerche evidentemente inutili.

Un'ora dopo, proprio mentre il sole stava scendendo a occidente, dietro gli altipiani di quella terra, Harbert, che stava passeggiando sulla sabbia, vide Spilett e Nab che stavano tornando. Erano soli!...

Il giovinetto sentì stringersi il cuore. Ah, il marinaio non si era dunque ingannato: l'ingegnere Smith non era stato trovato!

Il giornalista, appena arrivato, si sedette sopra un sasso senza profferire parola. Sfatto di stanchezza e di fame, non aveva più la forza di parlare. Quanto a Nab, i suoi occhi pesti e arrossati dicevano quanto avesse pianto e, come fu davanti alla grotta, ricominciò a piangere.

Spilett fece poi il racconto di tutte le ricerche fatte. Insieme con Nab egli aveva percorso la costa per un tratto di otto miglia, e cioè era andato assai più in là dal punto dove era avvenuta la prima caduta dell'aerostato,caduta che aveva provocatolascomparsa dell'ingegnere. Ma la costa era deserta e non si era trovata alcuna traccia, alcuna impronta, né un sasso rimosso di fresco, né il segno di un piede umano sulla sabbia. Era evidente, anche, che nessun abitante frequentava quella zona costiera. E, corre la costa, deserto era il mare. Forse, in quel deserto d'acqua, a qualche centinaio di metri dalla riva, l'ingegnere aveva trovato la morte e la tomba!

A queste parole Nab si alzò di scatto e con voce convulsa e decisa gridò:

- No! No! Egli non è morto! No! No! Lui?!... Ma via... Qualsiasi altro, forse... Ma lui, no! Lui, non è possibile. Egli è un uomo che sa difendersi contro tutto e contro tutti...

Poi, disfatto dall'angoscia e dalla stanchezza, si lasciò cadere a terra, dicendo:

- Non ne posso più!...

Harbert gli si avvicinò:

- Coraggio, Nab. Lo troveremo, vedrai. Dio ce lo restituirà. Ma, adesso, dovete aver fame; mangiate, ve ne prego; mangiate qualche cosa.

Così dicendo, offriva al negro una manciata di conchiglie, una magra e povera cena, in verità! Nab, per quanto fosse digiuno da molto tempo, ricusò. No, senza il suo diletto padrone, egli non voleva vivere.

Gedeone Spilett, invece, divorò una grande quantità di quei molluschi, poi si sdraiò sulla sabbia, contro una roccia, estenuato ma calmo.

Harbert gli si avvicinò e gli disse:

- Signore, noi abbiamo trovato un rifugio dove starete meglio di qui.

Sta scendendo la notte. Venite a riposarvi. Domani vedremo...

Il giornalista si alzò e, guidato dal giovinetto, si avviò verso le grotte. A un tratto Pencroff lo fermò e gli chiese, con l'aria più naturale di questo mondo:

- A proposito, signor Spilett, non avreste uno zolfanello?

Il giornalista si frugò nelle tasche, non ci trovò niente, e rispose:

- Ne avevo, sì; ma ho dovuto buttar via tutto...

Il marinaio rivolse la stessa domanda a Nab, e n'ebbe la stessa risposta.

- Maledizione! - esclamò allora Pencroff fra i denti. Ma il giornalista lo sentì e gli chiese:

- Nemmeno uno zolfanello?

- Nemmeno uno, e, per conseguenza, nemmeno un briciolo di fuoco.

- Ah, se ci fosse qui il mio padrone - esclamò Nab - saprebbe ottenere il fuoco anche senza zolfanelli!

I quattro naufraghi si guardarono in viso preoccupati e perplessi. Poi Harbert ruppe quell'inquieto silenzio e disse:

- Signor Spilett, voi siete un accanito fumatore, dovete sempre avere degli zolfanelli dispersi in qualche tasca. Forse, non avete cercato bene. Cercate ancora! Un solo zolfanello basterebbe...

Il giornalista frugò accuratamente tutte le tasche della giacca, del panciotto, dei pantaloni, e finalmente, con grande gioia di Pencroff, sentì un piccolo sottilissimo legno tra la stoffa e la fodera del panciotto. Doveva essere uno zolfanello; ma era l'unico, ed era necessario estrarlo con grandissima cautela per non strappar via quel poco di fosforo.

- Volete lasciar fare a me? - chiese Harbert.

E, con molta leggerezza e abilità, il giovinetto riuscì a estrarre, da quel nascondiglio, la fragile asticciola di legno, quel misero e preziosissimo pezzo di legno, che rappresentava, per i naufraghi, un vero e proprio tesoro.

- Uno zolfanello! - esclamò Pencroff. - Ma è come se ne avessimo un carico intero.

Prese in consegna il prezioso zolfanello e, seguito dai suoi compagni, entrò nella grotta. Bisognava ora servirsi di quel legnetto con grande sicurezza e cautela, non sciuparlo. Pencroff si assicurò anzitutto che fosse ben secco, poi, guardandosi in giro, disse: - Mi occorre un po' di carta.

Spilett stette un poco soprappensiero, poi, sospirando, strappò un foglio dal suo taccuino, e lo diede al marinaio che si era già inginocchiato davanti al focolare, e vi aveva collocato accuratamente alcune manciate di erbe secche. Ciò fatto piegò il foglio in forma di imbuto, come fanno i fumatori di pipa per difendere la fiamma dal forte soffio del vento, e lo cacciò sotto le foglie secche. Si trattava ora di accendere quell'unico zolfanello. Pencroff sospirò, prese un ciottolo ben asciutto, vi sfregò contro piano piano lo zolfanello; ma la fiamma non sprizzò. Il marinaio aveva tenuto lo zolfanello troppo leggero, timoroso di rovinare la capocchia di fosforo.

- No! - fece. - Sento che non ci riuscirò mai... Non posso... Non voglio...

Si alzò, pregò Harbert di far lui. Il ragazzo non era mai stato così emozionato in tutta la sua vita. Il cuore gli batteva forte forte.

Prese lo zolfanello, lo fregò con vivacità sul ciottolo, si udì un lieve crepitio, e una piccola fiamma azzurrina spiccò in cima all'asticciola di legno. Harbert girò allora lo zolfanello in modo da alimentare quella fiammella, poi la introdusse dolcemente dentro l'imbuto di carta che si infiammò in un baleno, e pochi secondi dopo le erbe secche prendevano fuoco, la fiamma divampava alta e consolatrice, attaccava la legna accumulata sul focolare.

- Ah! - esclamò Pencroff. - Non sono mai stato così commosso!

Il focolare funzionava alla perfezione. Il fumo saliva per l'apertura, e un gradevolissimo calore si spandeva nella grotta.

Ora, sarebbe però stato necessario conservare quel fuoco, non lasciarlo spegnere mai, tenere sempre la bragia sotto la cenere; ma, insomma, tutto si sarebbe risolto con un poco di perseveranza e di pazienza.

Intanto, il marinaio provvide a preparare una cena che fosse un poco più invitante di quei molluschi, e Harbert portò due dozzine di uova di piccione. Spilett, seduto un poco in disparte, guardava quei preparativi e taceva. Tre pensieri lo tormentavano. Cyrus viveva ancora? E se viveva, dove poteva mai trovarsi? E, se era sopravvissuto alla catastrofe, come mai non era riuscito a dar segni della sua presenza? Quanto a Nab, sdraiato sulla sabbia,piangeva silenziosamente: egli non era ormai più che un corpo senz'anima...

Pencroff, che conosceva cinquantadue maniere di cuocere le uova, non aveva molta scelta, in quel momento. Dovette accontentarsi di seppellirle dentro la cenere calda e lasciarle cuocere così. Dopo qualche minuto, erano pronte, e il marinaio invitò i compagni a quella cena. La prima cena su quella ignota terra! Ma quelle uova erano squisite, e, poiché l'uovo contiene tutti gli elementi indispensabili al nutrimento dell'uomo, i naufraghi ne risentirono subito un grande beneficio.

Ah! se ci fossero stati tutti! Se uno non fosse mancato! Se i cinque prigionieri evasi da Richmond fossero stati tutti là, sotto quel cumulo di rocce, davanti a quella fiammata crepitante, su quella sabbia asciutta, avrebbero dovuto veramente ringraziare il cielo! Ma il più ingegnoso di loro, il più dotto, quello che era il loro capo, Cyrus Smith, mancava... e forse il suo corpo non aveva nemmeno potuto avere una sepoltura!... Così trascorse quella giornata del 25 marzo.

Intanto, era scesa la notte, si udiva, fuori, fischiare e gemere il vento, e rompersi il mare contro la riva. I ciottoli, sulla sabbia, percossi e spinti dall'onda, fragorosamente rotolavano.

Il giornalista si era ritirato in fondo a un corridoio oscuro, dopo aver tracciato sul suo taccuino sommariamente gli avvenimenti della giornata, ed era riuscito ad addormentarsi. Harbert, data la giovanissima età, lo aveva preceduto nel sonno. Il marinaio, steso davanti al fuoco, dormiva con un occhio aperto preoccupato com'era che il suo fuoco si spegnesse. Uno solo dei naufraghi non dormì: era l'inconsolabile, il disperato Nab che, nonostante tutte le preghiere dei compagni, per quanto durò la notte, girò su e giù per la costa chiamando il suo padrone!




CAPITOLO 6


L'inventario di quanto possedevano quei naufraghi gettati dal caso sopra quella costa che pareva disabitata, è presto fatto. Essi non possedevano nulla, all'infuori degli abiti che indossavano al momento della catastrofe Va fatta eccezione, tuttavia, per il taccuino e un orologio di Spilett, conservati evidentemente per distrazione. Non avevano nemmeno un'arma, nemmeno un utensile, nemmeno un temperino.

Dalla navicella, all'ordine gettato dall'ingegnere, era stato buttato proprio tutto. Gli eroi immaginari di Daniel de Foe e di altri romanzieri, non erano stati gettati sopra isole squallide e deserte in condizioni tanto disastrose. Essi traevano delle risorse abbondanti dalla loro nave incagliata sugli scogli o fracassata contro la costa, oppure trovavano di che provvedere ai primi bisogni della loro nuova esistenza in qualche grosso rottame che il mare buttava sulla costa.

Insomma, non si trovavano così totalmente disarmati in faccia alla natura. I nostri naufraghi non avevano nulla: e dal nulla, bisognava arrivare a tutto!

E almeno, se Cyrus Smith fosse stato con loro! Almeno se l'ingegnere avesse potuto mettere la sua scienza, il suo spirito inventivo al servizio di quella loro situazione disperata! Allora, forse, tutto non sarebbe stato perduto! Purtroppo, non si poteva più sperare di rivedere Cyrus Smith. I naufraghi non dovevano attendere altro aiuto se non dalle loro proprie forze e da quella Provvidenza che non abbandona gli uomini di fede.

Ma, prima di tutto, dovevano essi fermarsi su quel punto della costa senza cercare di sapere a qual continente apparteneva, se era abitata oppure la costa deserta di un'isola disabitata? Era una questione importante da risolvere, e senza indugio, perché dalla sua soluzione dipendevano le misure da prendere. Ma, prima di intraprendere qualsiasi esplorazione, seguendo il consiglio di Pencroff, risolsero di attendere qualche giorno. Bisognava preparare una scorta di viveri e procurarsi del cibo un poco più nutriente di qualche uovo e di un po' di molluschi. Gli esploratori, dovendo sopportare dure fatiche, sprovvisti di un comodo rifugio dove riposare la notte, dovevano, anzitutto, pensare al modo di rifocillare le proprie forze abbondantemente. Intanto, quella grotta offriva un rifugio sufficiente; il fuoco era acceso, bastava conservare la bragia, uova e litodomi non facevano difetto. Chissà che non ci fosse modo di uccidere qualcuno di quei colombi di roccia che volavano a stormi di centinaia sulla sommità della muraglia! Magari a colpi di bastone o a sassate... E perché gli alberi della foresta non dovevano dare qualche frutto nutriente e gustoso? E infine l'acqua dolce era là; a portata di mano. Tutto sommato, fu deciso di restare per qualche giorno nella grotta, a prepararvi una esplorazione accurata sia lungo la costa sia nell'interno.

Questo progetto piaceva soprattutto a Nab che, sempre più chiuso nelle sue idee, nei suoi presentimenti, non aveva alcuna fretta di abbandonare quel posto, teatro della catastrofe. Egli non credeva, non poteva, non voleva credere che l'ingegnere fosse perduto; non gli pareva possibile che un simile uomo fosse finito in quel modo banale, portato via da un colpo di mare, annegato miseramente nei flutti a qualche centinaio di passi dalla costa! Fin che le onde non avessero buttato sulla spiaggia il suo corpo; fino a che lui, Nab, non l'avesse visto coi suoi propri occhi, toccato con le mani, il cadavere del suo padrone, egli non avrebbe creduto alla sua morte. E questa idea si radicò sempre più nel suo cervello, diventò certezza segreta, assoluta. Forse, era un'affettuosa illusione; ma il marinaio non ebbe il coraggio di opporvisi. Per Pencroff, non c'era più speranza:

l'ingegnere era perito nel mare; ma con Nab, non voleva discutere, non si poteva discutere. Era come il cane che non può lasciare il posto dove il padrone è caduto, e il suo dolore era tale che probabilmente non sarebbe sopravvissuto.

Quel mattino del 26 marzo, fin dall'alba, Nab aveva ripreso lungo la costa le sue ricerche, spingendosi verso settentrione, ed era tornato in quel punto dove, presumibilmente, il mare si era rinchiuso sopra l'ingegnere.

Come tutta colazione, quel giorno non c'erano, come la sera precedente, che delle uova e dei litodomi. Ma Harbert aveva trovato del sale depositato nelle cavità delle rocce per evaporazione, e quella sostanza minerale giunse graditissima. Finita la colazione, Pencroff chiese al giornalista se voleva accompagnarli nella foresta, perché lui e Harbert avevano deciso di farvi una escursione. Ma poi, tutto ben ponderato, era meglio, anzi necessario che qualcuno restasse alla grotta per custodire il prezioso fuoco e anche per il caso che Nab avesse bisogno di soccorso. Il giornalista, dunque, restò.

- E noi, Harbert - disse il marinaio - andiamo a caccia. Troveremo delle munizioni lungo il cammino, e il nostro fucile ce lo taglieremo nella foresta.

Al momento di partire, però, Harbert fece osservare che, in mancanza di esca, sarebbe stato prudente tener pronto una sostanza che potesse sostituirla.

- Quale?

- Un pezzo di tela bruciacchiata. In caso di bisogno, essa potrà servirci da esca.

Il marinaio trovò la cosa giustissima; ma si rendeva necessario sacrificare un pezzo di fazzoletto. Poiché il sacrificio valeva la pena di esser compiuto, il fazzoletto a quadretti di Pencroff fu subito ridotto di proporzioni, e una larga striscia diventò uno straccetto bruciacchiato. Quella specie di miccia fu allora collocata dentro una nicchietta sassosa, al riparo d'ogni vento e d'ogni umidità.

Erano le nove del mattino, il tempo era nuvoloso, il vento soffiava da sud est, e Harbert e Pencroff si misero in cammino, volgendosi a guardare tratto tratto il fil di fumo che usciva dalla loro grotta.

Giunti nella foresta, Pencroff tagliò due solidi rami che trasformò in ottimi randelli dalla punta affilata contro un grosso sasso. Ah, se si fosse avuto un coltello!... I due cacciatori cominciarono ad avanzare fra le alte erbe, seguendo la riva del fiume. A un certo punto, il fiume faceva una brusca svolta verso sud ovest, restringendosi un poco, e le sue rive formavano un letto incassato coperto da una duplice arcata di rami fronzuti. Per non smarrire la strada, Pencroff decise di seguire il corso del fiume; ma la sponda presentava qua e là degli ostacoli notevoli: rami che scendevano fino al pelo dell'acqua, liane intrecciate tenacemente che bisognava rompere a colpi di bastone. Ogni tanto Harbert, con l'agilità di un gatto, si cacciava dentro il folto e spariva, ma il marinaio lo chiamava subito, ansioso e preoccupato, e infine lo pregò di non allontanarsi più.

Anche la foresta, come la costa, era immune d'ogni traccia di piede umano. Pencroff ci vide però impronte di quadrupedi, segni di passaggio recente di animali, dei quali tuttavia non seppe precisare la specie. Anche Harbert, come il marinaio, pensò che doveva trattarsi di qualche grossa fiera, con la quale si sarebbe presto o tardi dovuto fare i conti. Ma nemmeno un albero portava i segni di una scure, in nessun angolo v'erano tracce di un fuoco anche lontano nel tempo. Ma, del resto, questa solitudine era forse da benedirsi, perché la presenza di uomini su quella terra selvaggia in pieno Pacifico non sarebbe stata certo che una pericolosa presenza.

Pencroff e Harbert non si scambiavano che qualche rara parola, perché le difficoltà del cammino erano numerose e gravi: tanto gravi che, dopo un'ora di strada, non avevano fatto che un miglio. Fino allora, la caccia era stata infruttuosa; e pure molti erano gli uccelli che si sentivano cantare sugli alberi e si vedevano volare di ramo in ramo; ma la presenza di quei due uomini pareva che li avesse resi improvvisamente diffidenti. Fra gli altri, a un certo punto, Harbert vide un uccello dal becco acuto e lungo che somigliava a un grosso martin pescatore, ma con le piume assai più scure e d'uno splendore quasi metallico.

- Dovrebb'essere un jacamar - disse, cercando di avvicinarsi a quel volatile.

- Ben venga questo jacamar, se ha la buona idea di lasciarsi mettere arrosto - osservò Pencroff.

Proprio in quell'attimo, Harbert lanciava con molta destrezza un sasso che colpiva l'uccello a un'ala: questo però non bastò ad abbatterlo, perché la bestia, per quanto ferita, filò via nel folto, correndo sulle sue zampe.

- Sono stato maldestro! - si rammaricò il giovinetto.

- No, ragazzo. Tu hai tirato giusto, e non so chi sarebbe riuscito a colpire quell'uccello come lo hai colpito tu. Ma lasciamolo perdere e non sviamoci. Lo troveremo un altro giorno.

Continuarono nella loro esplorazione. Gli alberi erano sempre più stupendi, invano il marinaio cercava tra essi qualcuno di quei preziosi palmizi così utili e provvidenziali per i frutti che offrono all'uomo. Qui non si vedevano che conifere: pini e abeti, alti, certuni, fino a cinquanta metri. A un certo punto, però, un fitto volo di uccelli non molto grandi e dalle bellissime piume, venne a sciamare sui rami bassi degli alberi intorno ai due esploratori.

- Sono dei «curucus» - osservò Harbert.

- Preferirei che fossero delle galline faraone - disse Pencroff.- Ma si possono almeno mangiare?

- Sono buonissimi, e dalla carne assai delicata. Nota poi che si lasciano avvicinare senza troppa diffidenza. Scommetto che li potremo uccidere a colpi di bastone.

Scivolando cautamente fra tronco e tronco, il marinaio e il ragazzo arrivarono sotto una pianta i cui rami bassi erano pieni di quegli uccelli che aspettavano al loro passaggio mosche e farfalle per ghermirle e mangiarle. I due cacciatori, giunti a tiro, si alzarono bruscamente e usando i loro bastoni come falci, spazzarono via delle intere file di uccelli che non pensavano affatto a volar via e si lasciarono così stupidamente abbattere. Quando si decisero a prendere il volo, un centinaio di vittime giaceva sull'erba.

- Bene! - fece Pencroff. - Questa è selvaggina adatta a cacciatori come noi. Potevamo prenderli anche con le mani!

Il marinaio infilò per i becchi quegli uccelli, come allodole, sopra un giunco flessibile, e poi fu ripreso il cammino. Lo scopo principale di quella esplorazione era quello di procurare la maggior quantità possibile di cibo agli abitanti della grotta. Ora, lo scopo non era ancora stato raggiunto a pieno, e il marinaio che scrutava con attenzione ogni angolo e ogni ciuffo d'alberi, lanciava maledizioni contro quegli animali che si vedevano correre e sparire dentro il folto. Ah, se almeno ci fosse stato il cane Top! Ma anche Top era scomparso insieme col suo padrone.

Verso le tre del pomeriggio, altri grossi voli di uccelli furono avvistati sopra gli alberi e su cespugli di ginepro; e all'improvviso si udì nella foresta un vero e proprio suono di tromba. Quella specie di fanfara, era il canto di quegli uccelli, nei quali Harbert riconobbe subito dei «tetras» dalle piume giallo-brune e dalla coda bruna. Pencroff decise che bisognava assolutamente catturare almeno uno di quei grossi gallinacei, così buoni da mangiare. Ma la cosa era tutt'altro che facile, perché quegli uccelli non si lasciavano avvicinare. Infatti, dopo alcuni tentativi infruttuosi, il marinaio si fermò e disse:

- Dal momento che non si possono uccidere al volo, cerchiamo di prenderli con la lenza.

- Come delle carpe? - rispose ridendo Harbert.

- Ecco: come delle carpe - rispose serio serio il marinaio.

Pencroff aveva trovato nell'erbe alcuni nidi di tetras con due o tre uova ciascuno. Non toccò quei nidi, ai quali dovevano certamente tornare i rispettivi titolari; ma intorno a essi pensò di tendere le sue insidie. Trasse così Harbert in disparte, e preparò i suoi ingegnosi ordigni, mentre il ragazzo lo guardava attentissimo, ma poco fiducioso nell'esito di quella nuova «pesca».

Il marinaio costrusse le sue lenze con delle sottili liane attaccate l'una all'altra e lunghe cinque o sei metri; alle estremità di ogni liana venne assicurato un grosso spino ricurvo, tratto da arbusti di acacia; e come esca, vennero usati dei grossi vermi rossi. Preparati i suoi strumenti, Pencroff, scivolando tra l'erba, tornò verso i nidi, vi assicurò vicino un capo della sua lenza, e, tenendo l'altro capo in mano, si appiattò con Harbert in un nascondiglio erboso. Cominciò allora la paziente attesa. Harbert era sempre meno fiducioso nel successo dell'impresa. Dopo circa una mezz'ora, ecco i tetras tornare verso i loro nidi, proprio come Pencroff aveva pensato. Tornavano a coppie, si vedevano saltellare intorno ai nidi sbeccucciando nell'erba, senza accorgersi affatto della vicinanza dei due cacciatori, che, del resto, erano assai ben nascosti, e avevano avuto cura di collocarsi sottovento. Anche il ragazzo adesso si era appassionato a quel nuovo genere di caccia o di pesca che dir si voglia, e come Pencroff, tratteneva perfino il respiro, incantato a guardare avidamente quegli uccelli che passavano fra amo e amo mostrando di non accorgersene nemmeno. Fu allora che Pencroff diede una leggera scossa alla lenza; il movimento si propagò a tutta la fila degli ami, e i vermi si agitarono come se fossero ancora vivi. La cosa parve attirare l'attenzione dei tetras che, senz'altro, si buttarono contro quei vermi e li attaccarono a colpi di becco. Tre uccelli, i più voraci, inghiottirono insieme verme e amo; Pencroff diede uno strappo alla lenza, tirò la corda di liane, e un furioso dibattersi d'ali indicò che gli uccelli erano presi!Evviva! gridò il marmalo precipitandosi verso la selvaggina.

Harbert aveva battuto le mani. Era la prima volta che vedeva prendere degli uccelli con la lenza; ma il marinaio, modestamente, lo assicurò che non era alle sue prime armi, e che, del resto, non era lui l'inventore di quell'ingegnoso sistema di cattura.

- Ma, ridotti come siamo, ragazzo mio, bisogna prepararci a vederne di ben altre.

Con i tetras penzoloni sulle spalle, i due esploratori, felici di non tornare a mani vuote, ripresero la strada del ritorno, seguendo a ritroso il corso del fiume. Alle sei di sera, piuttosto stanchi del lungo cammino, rientravano nella grotta.




CAPITOLO 7


Gedeone Spilett se ne stava immobile sulla spiaggia, a braccia conserte, e guardava il mare all'orizzonte del quale si scorgeva una grossa nuvola nera salire sotto la spinta di un forte vento, indizio di una non lontana bufera.

Harbert entrò nella grotta, mentre Pencroff si avvicinava al giornalista che, tutto preso dai suoi pensieri, non lo vide venire.

- Avremo una pessima notte, signor Spilett - disse il marinaio.Si prepara una pioggia e un vento da far impazzire di gioia le procellarie.

Spilett si volse, vide Pencroff e bruscamente gli domandò:

- Secondo voi, a quale distanza dalla costa abbiamo ricevuto quel colpo di mare che ha portato via il nostro compagno?

Il marinaio, che non si aspettava una domanda siffatta, rifletté un poco, poi rispose:

- A quattrocento metri, al massimo.

- E allora Cyrus Smith sarebbe scomparso a quattrocento metri dalla costa?

- Press'a poco.

- E anche il suo cane?

- Anche il suo cane.

- Quello che mi stupisce è che, ammettendo che l'ingegnere sia perito abbia trovato la morte anche Top, e non si trovi qui sulla costa né il corpo dell'uno né quello dell'altro.

- Non c'è troppo da stupirsene, con un mare così agitato. Può darsi che le correnti abbiano portato i corpi lontano dalla costa.

- E voi pensate proprio che l'ingegnere sia perito nel mare?

- Lo penso.

- Per conto mio, fatto tanto di cappello alla vostra esperienza in materia, trovo che questa doppia scomparsa di Smith e del suo cane ha qualche cosa di inspiegabile e di inverosimile.

- Vorrei pensarlo anch'io, signor Spilett; ma, purtroppo, la mia convinzione e' un altra.

Ciò detto, Pencroff entrò nella grotta, dove scoppiettava un allegro fuoco che illuminava le pareti rocciose del rifugio. Senza indugio, il marinaio si accinse a preparare la cena. Desideroso di offrire ai suoi compagni un piatto un poco sostanzioso, spiumò due tetras, li infilò sopra una bacchetta e li fece arrostire davanti alla vigorosa fiamma del focolare.

Alle sette di sera Nab non era ancora tornato. Pencroff era molto inquieto per questa assenza; temeva che fosse capitato qualche brutto incidente al povero negro o che la disperazione gli avesse suggerito qualche gesto insano. Harbert invece, dal ritardo del negro, traeva riflessioni d'altra natura: per lui, se Nab non tornava era perché gli si era presentata qualche nuova circostanza che lo aveva consigliato a continuare nelle sue ricerche e a ritardare il suo ritorno: ora, questa nuova circostanza non poteva che essere favorevole. Infatti perché mai Nab non sarebbe rientrato se una nuova speranza non lo tratteneva fuori? Forse, aveva trovato qualche indizio, un'impronta sulla sabbia, un rottame indicatore... Forse, in quello stesso momento, stava seguendo una buona pista... Forse, era già accanto al suo padrone...

Così pensava il giovinetto, e i suoi pensieri, a un certo punto, espose ai compagni, che lo lasciarono dire in silenzio. Soltanto il giornalista ebbe un cenno di consenso. Pencroff sosteneva invece che Nab, avendo spinto le sue ricerche più al di là della zona percorsa il giorno prima, non poteva essere di ritorno ancora. Harbert, in preda ai suoi presentimenti, avrebbe voluto uscire e andare incontro al negro; ma Pencroff gli dimostrò che, con l'oscurità che era scesa e con quel tempo minaccioso, la sua sarebbe stata una camminata inutile e non sarebbe mai riuscito a rintracciare Nab. Era meglio aspettarlo nella grotta.

Se l'indomani Nab non fosse stato ancora di ritorno, allora anche Pencroff si sarebbe unito ad Harbert per andare in cerca di Nab.

Anche Spilett diede ragione al marinaio, e Harbert si arrese; ma due grosse lacrime silenziose gli scesero dagli occhi: tanto che il giornalista non poté trattenersi e abbracciò il generoso ragazzo.

Intanto, fuori, il tempo si era messo decisamente al brutto. Un vento di formidabile violenza spazzava la costa, il mare ruggiva contro gli scogli e la pioggia precipitava in rovesci terribili, mescolata a nuvole di sabbia sollevate dalle raffiche incessanti. Anche il fumo del focolare, respinto dal vento, si abbatteva all'indietro e si perdeva nella grotta, rendendola quasi inabitabile. E così, non appena gli uccelli furono pronti, Pencroff spense il fuoco e seppellì la bragia sotto la cenere.

Alle otto Nab non era ancora tornato; ma si poteva anche pensare che, sorpreso dall'uragano, avesse cercato rifugio in qualche altro buco roccioso per aspettare la fine del rovescio o, almeno, il ritorno del sole. Sempre più impossibile, comunque, uscire per andargli incontro.

I tetras arrostiti erano eccellenti, e tutti li gustarono volentieri; Pencroff e Harbert, poi, stanchi della lunga camminata, fecero a essi un onore eccezionale. Finita la cena, ognuno si ritirò nel suo cantuccio, e Harbert fu il primo a cedere al sonno, disteso accanto al marinaio, davanti al focolare.

Fuori, intanto, con l'avanzare della notte, l'uragano si faceva sempre più violento. Per fortuna, l'ammasso di rocce che proteggeva la grotta era tale da costituire una barriera insormontabile, per le raffiche.

Eppure, qualche volta, sotto l'impeto delle ventate, qualcuno di quei graniti ciclopici pareva perfino che tremasse, e Pencroff, che ogni tanto appoggiava la sua mano sopra la parete della grotta, avvertiva come dei brividi misteriosi. Dominava allora le sue inquietudini, pensando che quelle masse rocciose non correvano alcun pericolo, anche se sentiva delle pietre staccarsi e rotolare fragorosamente sulla spiaggia. Due volte, il marinaio si alzò e venne fino all'apertura della grotta a guardare lo spettacolo pauroso dell'uragano; e tutt'e due le volte si rassicurò, e tornò a distendersi tranquillo davanti al focolare. Nonostante il fragore orrendo della bufera, Harbert dormiva profondamente, e anche Pencroff finì per lasciarsi prendere dal sonno.

Soltanto Spilett restava sveglio, tormentato dall'inquietudine. Egli si pentiva di non aver accompagnato Nab. Sperava ancora, i presentimenti che avevano agitato il giovinetto erano ora passati nel suo cuore. Perché mai Nab non era tornato? E si voltava e si rivoltava nel suo cantuccio, sulla sabbia, prestando appena appena orecchio alle furie degli elementi. Frattanto i suoi occhi, appesantiti dalla fatica, si chiudevano, ma poi qualche improvviso pensiero glieli riapriva.

Potevano essere le due del mattino, quando Pencroff si sentì svegliato bruscamente: il giornalista era curvo su di lui e gli diceva:

- Pencroff!... Ascoltate!... Ascoltate!...

Il marinaio ascoltò, ma non udì altro che gli urli del vento e i ruggiti del mare.

- Il vento - disse.

- No - gli sussurrò Spilett. - Mi è parso di sentire....

- Che cosa?

- I latrati di un cane...

- Di un cane!?... - esclamò Pencroff balzando in piedi emozionato.

- Sì... dei latrati...

- Ma non è possibile. Nel fracasso della tempesta...

- Ascoltate... ascoltate...

Il marinaio stette in ascolto e, difatti, in un attimo di calma, gli parve di udire un latrato.

- Avete sentito?

- Sì... sì...

- E' Top... Non può essere che Top - gridò Harbert che si era svegliato, e tutti e tre si lanciarono verso l'apertura della grotta.

La furia del vento era tale che durarono fatica a uscire. Finalmente, riuscirono a sbucare all'aperto, ma non poterono restare in piedi che appoggiandosi contro le rocce. Guardavano, ma non potevano parlare. Il buio era fittissimo; mare, cielo e terra tutto era fuso in una eguale tenebra profonda. Per qualche minuto, tutti e tre stettero in ascolto, schiacciati dal vento, sotto la pioggia, accecati da turbini di sabbia; poi ancora sentirono quei latrati lontani. Sì, non poteva essere che Top. Ma dove era mai? E chi lo accompagnava? Doveva essere solo, perché se Nab fosse stato con lui, si sarebbe affrettato a correre verso la grotta.

A un certo punto, Pencroff strinse una mano del giornalista, come per dirgli «aspettate», e rientrò nella grotta; e poco dopo ne uscì con un grosso legno infiammato che buttò nelle tenebre davanti a sé, accompagnando il gesto con dei fischi acutissimi. A quei fischi, i latrati ripresero, più vicini, sempre più vicini, e alla fine un cane piombò in mezzo a loro e corse dentro la grotta. Pencroff, Spilett e Harbert lo seguirono, buttarono legna secca sul fuoco, un'altra fiamma crepitò e divampò illuminando l'antro... Sì, era Top, il magnifico anglo-normanno dell'ingegnere, velocissimo e gagliardo, finissimo di fiuto e resistente. Ma era solo! Né l'ingegnere, né il negro lo seguivano!

Ma come mai il suo istinto aveva potuto condurlo fino alla grotta che egli non conosceva? E in una notte così buia e tempestosa, per giunta?

Particolare ancora più misterioso, Top non appariva né stanco né disfatto e nemmeno insudiciato di mota o di sabbia.

Harbert se lo era preso vicino e lo accarezzava; il cane si lasciava fare e fregava il suo muso contro il braccio del ragazzo.

- Se si è trovato il cane, troveremo anche il padrone - affermò il giornalista.

- Dio lo voglia! - esclamò Harbert. - Andiamo. Top ci guiderà.

Questa volta, nemmeno Pencroff fece la più piccola obiezione. L'arrivo di Top poteva dare una smentita alle sue pessimistiche congetture.

- Andiamo - disse con risolutezza.

Coperta con cura la bragia, il marinaio, seguito da Harbert e dal giornalista, uscì nella notte dietro il cane che pareva esortare gli uomini ad affrettarsi con i suoi brevi latrati.

La tempesta aveva allora raggiunto il suo acme. La luna, che si era fatta in quei giorni, non riusciva a filtrare nemmeno un fil di luce traverso le nuvole. Arduo era tenere una direzione precisa, ed era meglio lasciarsi condurre da Top. Spilett e Harbert camminavano dietro il cane, il marinaio chiudeva la marcia. Non si poteva parlare, la pioggia non era forte perché veniva polverizzata in aria dall'uragano, ma la furia dell'uragano terribile. Ma una circostanza si presentò, favorevolissima, per i tre temerari: e cioè, il vento, soffiando da sud-est, li spingeva; quei turbini di sabbia che, se li avessero investiti di fronte, non avrebbero loro permesso di procedere, li ricevevano nella schiena e in tal modo la loro marcia non era per nulla ostacolata dalla tempesta, ed era anzi assai più veloce di quanto non avessero immaginato e sperato. D'altro campo, un'ardente speranza spronava i loro passi; questa volta non andavano più all'avventura; essi sentivano con certezza che Nab aveva trovato il suo padrone e aveva mandato alla grotta il fedelissimo e intelligentissimo Top. L'unico dubbio angoscioso era se avrebbero trovato ancor vivo l'ingegnere...

Dopo un primo tratto di cammino, si fermarono un attimo a riprender fiato contro una parete rocciosa che li proteggeva dall'uragano. In quel punto, potevano parlare, udirsi. Harbert aveva pronunciato il nome di Cyrus Smith, e Top aveva subito abbaiato come se avesse voluto assicurare i tre compagni che il suo padrone era salvo.

- Top, Top... - disse Harbert, - tu vuoi dire che il tuo padrone è salvo, vero?

Top tornò ad abbaiare come se volesse rispondere all'affannosa domanda del ragazzo.

Fu ripresa la marcia. Erano le due e mezzo del mattino. L'alta marea cominciava a farsi sentire, e, spinta dal vento, minacciava di essere fortissima. Le grandi onde si spaccavano fragorose contro gli scogli.

Come ebbero lasciato la parete rocciosa che li difendeva, i tre uomini furono assaliti dalla furia del vento. Curvi, spinti dalla bufera, camminavano di buon passo seguendo Top, rabbrividendo per il freddo acuto che sentivano. Ma nessuno dei tre si lamentava: erano decisi a seguire l'intelligente cane fin dove esso li avrebbe condotti.

Verso le cinque, cominciò a balenare la luce del giorno. Qualche sfumatura grigiastra ruppe le tenebre a oriente, poi una linea rossa disegnò vivacemente l'orizzonte, mentre, a occidente, emersero dal buio la costa rocciosa e il mare. Alle sei, era giorno fatto. Si vedevano le nuvole correre rapide in alto, cacciate dal vento. In quel momento, Pencroff e i suoi compagni erano a circa sei miglia dalla grotta. Camminavano sopra un greto pianeggiante, limitato al largo da una linea di rocce semisommerse dal mare, gonfio per l'alta marea. Dall'altro lato, una fila di dune irregolari dava al paesaggio un aspetto squallido e triste. Qua e là due o tre alberi svettavano malinconicamente nel vento, rami e fronde tese disperatamente verso occidente. Più lontano, nereggiava la foresta.

A un certo punto, Top diede dei segni evidenti di agitazione. Correva avanti, poi tornava verso Pencroff agitando la coda e emettendo dei guaiti ansiosi: pareva che volesse stimolarli a far presto, ancora più presto. Guidato dal suo infallibile istinto, aveva lasciato la costa e correva verso le dune. Lo seguirono; il luogo era deserto. I monticelli sabbiosi si estendevano a perdita d'occhio, come una Svizzera in miniatura. In quel labirinto di collinette microscopiche tutti si sarebbero smarriti; ma Top andava con sicurezza, e li portò davanti a una specie di anfrattuosità scavata dentro una duna più alta. Qui, Top si fermò e abbaiò forte. Spilett, Harbert e Pencroff entrarono nella grotta: e dentro trovarono Nab inginocchiato accanto a un corpo disteso sopra un letto d'erbe.

Era il corpo dell'ingegnere Cyrus Smith.




CAPITOLO 8


Nab non si mosse. Il marinaio gli chiese:

- Vivo?

Il negro non rispose. Spilett e Pencroff impallidirono, Harbert congiunse le mani e restò immobile. Era evidente che il povero negro, assorto nel suo dolore, non aveva visto i suoi compagni né inteso la domanda del marinaio. Il giornalista si inginocchiò accanto al corpo dell'ingegnere, e gli posò l'orecchio sul petto. Trascorse un minuto, che parve un secolo; alla fine Spilett si raddrizzò e disse:

- Vive!

Anche Pencroff si inginocchiò accanto all'immobile corpo di Smith, anche il suo orecchio avvertì qualche battito lieve e un sottile soffio che uscì dalle labbra chiuse dell'ingegnere. A un cenno del marinaio, Harbert si precipitò fuori, per cercare dell'acqua. A cento passi dalla duna, trovò un ruscello d'acqua limpida e pura; non avendo nulla con cui raccogliere un poco di quell'acqua, si limitò a immergevi il suo fazzoletto, e poi tornò di corsa alla duna. Ma quel fazzoletto inzuppato d'acqua bastò: Spilett lo appoggiò contro le labbra dell'ingegnere, e quelle molecole d'acqua fresca operarono subito il miracolo... Un lungo sospiro sfuggì dal petto dell'ingegnere e le sue labbra si mossero come se pronunciassero qualche parola.

- Lo salveremo! - fece il giornalista.

Nab, a quelle parole, aveva ripreso animo. Svestì cautamente il suo padrone per vedere se avesse riportato qualche ferita; ma né il torso, né la testa, né le membra portavano il segno di contusioni, e nemmeno di escoriature: e il fatto era veramente miracoloso, perché il corpo di Smith aveva dovuto rotolare sulla costa, in mezzo alle rocce.

Perfino le mani erano intatte; e non si riusciva a capire come mai l'ingegnere non recasse i segni degli sforzi disperati che aveva dovuto compiere per raggiungere la linea degli scogli.

Ma la spiegazione di questo mistero doveva venire più tardi. Quando l'ingegnere avesse potuto parlare, avrebbe raccontato tutte le sue vicende. Per il momento si trattava di richiamarlo in vita, e lo si sarebbe più agevolmente ottenuto con delle energiche frizioni. Il che fu subito fatto con fulmineo profitto. Riscaldato da quel massaggio, infatti, l'ingegnere mosse un poco le braccia, respirò più regolarmente. Era estenuato di stanchezza e di debolezza: e, certamente, senza l'arrivo tempestivo dei suoi compagni, non si sarebbe risvegliato mai più.

- L'avevi creduto morto, il tuo padrone, vero? - chiese il marinaio a Nab.

- Sì, morto; e se Top non vi avesse trovati, io avrei seppellito il mio padrone e sarei morto accanto a lui.

Ecco a che cosa si doveva la vita di Cyrus Smith!

Nab raccontò poi le sue vicende. Dopo aver lasciato la grotta, era risalito lungo la costa, in direzione nord e cercato a lungo sulla spiaggia qualche piccolo indizio che lo mettesse sulla buona strada.

Aveva scrutato soprattutto quella parte di spiaggia che l'alta marea non copriva perché, altrove, il flusso e il riflusso dovevano aver cancellato ogni traccia sulla sabbia. Nab non sperava ormai più di trovare il suo padrone vivo; ma andava alla ricerca del cadavere del suo adorato padrone perché voleva seppellirlo con le sue mani. Dopo lunghe e vane ricerche, lasciata quella costa, si era spinto ancora verso nord, pensando che forse la corrente poteva aver spinto il corpo più lontano.

- Per altre due miglia - raccontò il negro - risalii la costa, visitai, uno per uno, tutti gli scogli emersi per la bassa marea, e già disperavo di trovar qualcosa, quando, verso le cinque di sera, vidi l'impronte di un passo.

- Impronte di un passo?

- Sì.

- E queste impronte cominciavano proprio alla fila di scogli?

- No, cominciavano al limite della marea, perché da questo limite agli scogli dovevano essere state cancellate.

- Continua, Nab - lo stimolò Spilett.

- Quando vidi quelle impronte, mi parve di impazzire. Erano riconoscibilissime, e si dirigevano verso le dune. Le seguii per un quarto di miglio, correndo, ma attentissimo a non perderle. Cinque minuti dopo, quando già scendeva la notte, sentii il latrato di un cane. Era Top, e fu Top che mi guidò qui, dentro questa specie di grotta, accanto al mio padrone.

Nab finì descrivendo il suo dolore trovando il corpo inanimato dell'ingegnere. Aveva cercato di sentire in quel corpo un segno di vita, ma tutti i suoi sforzi erano stati inutili, e si era persuaso che non gli restava ormai più che rendere gli estremi onori a colui che egli aveva adorato. Poi aveva pensato ai suoi compagni. C'era Top; non ci si poteva forse fidare della intelligenza e dell'istinto di quel bravo animale? Nab disse allora, a voce forte, due o tre volte, il nome del giornalista, come quello dei compagni di Smith che l'ingegnere conosceva da maggior tempo; quindi gli mostrò la direzione da prendere; e il cane subito si lanciò abbaiando verso il sud...

I compagni di Nab avevano ascoltato il suo racconto con intensa attenzione. Ma c'era qualche cosa che non si riusciva a spiegare: e cioè come mai l'ingegnere, dopo gli sforzi che aveva dovuto fare per sfuggire al mare, traversando la scogliera, non avesse la più piccola graffiatura addosso; e altrettanto misterioso come fosse riuscito a raggiungere, nelle condizioni nelle quali si trovava, quella grotta scavata nelle dune.

- Non sei stato tu - chiese il giornalista a Nab - a portare il corpo dell'ingegnere fino a qui?

- No, no.

- Bisogna concludere che l'ingegnere ci è arrivato da solo.

- Sì, bisogna concludere così - ammise Spilett. - Ma è incredibile.

La spiegazione del mistero non la si sarebbe potuta avere che dalla bocca dello stesso ingegnere. Bisognava allora attendere che potesse parlare. Per fortuna, però, la vita rifluiva in Cyrus Smith rapidamente; il massaggio aveva ristabilito la circolazione nel sangue. L'ingegnere tornò a muovere le braccia, poi la testa, poi qualche incerta parola sfuggì dalle sue labbra. Nab, curvo su di lui, lo chiamava, ma l'ingegnere pareva non lo sentisse e i suoi occhi si mantenevano ostinatamente chiusi. Evidentemente, i sensi non si erano ancora risvegliati in lui.

Pencroff si rammaricava di non poter fare un po' di fuoco. Avesse almeno portato con sé la striscia del suo fazzoletto bruciacchiata!

Avrebbe potuto facilmente ottenere del fuoco, battendo una contro l'altra due pietre accanto a quella specie di miccia. Quanto alle tasche dell'ingegnere, erano assolutamente vuote, tranne quella del suo panciotto che conteneva l'orologio. Bisognava trasportare subito l'ingegnere alla grotta: tutti furono dello stesso avviso.

Intanto, però, le cure prodigate a Cyrus Smith dovevano restituirlo alla vita più rapidamente di quanto nessuno sperasse. L'acqua con cui gli si umettavano le labbra lo rianimava a poco a poco.

Pencroff ebbe a un certo punto l'idea di mescolare a quell'acqua un poco di sugo della carne di tetras, che egli si era portato con sé.

Harbert corse alla spiaggia, e ne portò due grandi conchiglie che aveva riempito d'acqua dolce al ruscello; Pencroff vi stemperò il sugo, e quel liquido denso e scuro venne introdotto cautamente nella bocca di Smith, che parve berlo con avidità.

Allora aprì gli occhi. Nab e il giornalista erano curvi su di lui.

- Padrone! Padrone! - mormorò il negro.

L'ingegnere lo udì. Riconobbe Nab e Spilett, poi il marinaio e Harbert, e, alzata faticosamente una mano, strinse le loro mani, a una a una, mollemente. E infine, qualche parola sfuggì dalle sue labbra, parole che, evidentemente, aveva già dovuto pronunciare e che indicavano quali pensieri tormentavano allora il suo spirito. Questa volta, tutti le intesero, le compresero:

- Isola o continente? - aveva sussurrato.

- Ah! - esclamò Pencroff. - Noi ce ne infischiamo, signor ingegnere, dal momento che siete vivo. Isola o continente? Lo vedremo dopo.

L'ingegnere fece un debole cenno di assenso, e parve addormentarsi.

Rispettarono quel sonno, e il giornalista dispose subito perché lo si potesse trasportare senza indugio alla grotta nelle condizioni migliori. Nab, Pencroff e Harbert si diressero verso una duna vicina, alla sommità della quale sorgevano alcuni alberi magri. Andando, il marinaio ripeteva fra sé le parole mormorate dall'ingegnere:

- Isola o continente? Pensare a queste cose quando non si ha più che un poco di respiro! Che sorta di uomo!

Giunti sulla duna, i tre, senz'altro utensile che le loro braccia, strapparono i rami maggiori di uno di quegli alberi, e, con quei rami, formarono una specie di barella coperta di foglie e di erbe; e dopo tre quarti d'ora, verso le dieci, erano di ritorno. In quel momento, Cyrus Smith si risvegliava e si guardava intorno. Le sue guance avevano ripreso un po' di colore; riuscì a sollevarsi sul gomito.

- Cyrus - gli chiese Spilett. - Potete ascoltarmi senza fatica?

- Sì.

- Io credo che il signor ingegnere vi sentirà anche meglio intervenne Pencroff - se riassaggia ancora un poco di questo specie di brodo freddo.

E offrì a Smith l'acqua nella quale era stato sciolto il sugo di tetras, e dove il marinaio aveva mescolato, questa volta, anche qualche pezettino di carne. Cyrus Smith masticò quei bocconi di carne lentamente, mentre gli altri si dividevano i resti di quella poca carne che giudiziosamente Pencroff aveva portato con sé.

- La colazione è magra - osservò il marinaio, - ma ci aspetta una colazione migliore nella nostra grotta. Signor Cyrus, dovete sapere che, laggiù, verso sud, noi abbiamo una casa con delle stanze, dei letti, un focolare e, nella dispensa, qualche dozzina di uova di colombi di roccia e degli uccelli che il nostro Harbert chiama coucourus. La barella è pronta, e quando ve la sentite, noi siamo qui per portarvi a casa.

- Grazie, amico mio - gli rispose l'ingegnere. - Ancora un'ora o due, e potremo partire... Intanto, ditemi, Spilett.

Il giornalista fece allora il racconto di tutto quello che era avvenuto dalla caduta del pallone, fino alla disperazione di Nab, alla sua partenza dalla grotta, alla comparsa di Top.

- Ma...- chiese perplesso l'ingegnere, - non siete stati voi a portarmi qui?

- No.

- A che distanza è questa grotta dalle scogliere?

- A circa un mezzo miglio - disse Pencroff; - e se vi meravigliate voi, anche noi siamo stupiti, e non poco.

- Già - mormorò Cyrus Smith, che si era ripreso notevolmente. La cosa è veramente singolare.

- Non potete dirci che cosa vi è successo dopo che quel colpo di mare vi strappò dalla navicella? Cyrus Smith si concentrò per ricordare; ma sapeva ben poco. Strappato via dal pallone, era affondato in mare; tornato a galla, aveva sentito qualcosa aggirarsi accanto a lui, era il suo fedele Top, lanciatosi in acqua per soccorrerlo. Alzando gli occhi, non aveva più visto il pallone, che, alleggerito dal suo peso, era balzato in alto con la velocità di una freccia. Vistosi in mare, a una distanza di un buon mezzo miglio dalla costa, tentò di nuotare con energia, aiutato da Top che lo reggeva per la giacca coi denti; poi una fortissima corrente lo prese, lo trascinò verso il nord. Dopo una mezz'ora di sforzi, si era abbandonato insieme con Top alle onde e...

da quel momento non ricordava più niente.

- Eppure, bisogna bene che siate stato gettato sulla costa osservò Pencroff. - E bisogna che abbiate avuto la forza di trascinarvi sin qui, dal momento che Nab vi ha trovato.

- Già... bisogna pure...- disse pensoso Cyrus. - Ma... non avete visto impronte di passi sulla sabbia?

- Nessuna - gli rispose Spilett. - Ma, d'altro canto, se ci fosse un salvatore, perché mai vi avrebbe abbandonato poi, solo, in questa grotta?

- Anche questo è giusto, Spilett. Nab - aggiunse l'ingegnere volgendosi verso il suo fedelissimo negro, - non sei stato tu a...

magari durante un momento di abbandono, di incoscienza... Ma no, è assurdo... Ci sono ancora delle impronte sulla sabbia?

- Sì, padrone - lo assicurò Nab. - Proprio contro questa duna, sul rovescio, in un punto riparato dal vento e dal mare... Le altre sono state cancellate dal mare.

- Pencroff - pregò l'ingegnere. - Usatemi la cortesia di prendere una delle mie scarpe e di controllare se vanno bene in quelle impronte.

Pencroff e Harbert, guidati dal negro, uscirono a eseguire quel controllo, mentre Cyrus Smith diceva al giornalista:

- Ci sono delle cose misteriose.

- Veramente misteriose.

- Per adesso, lasciamole stare. Cercheremo di spiegarle più tardi.

Pochi minuti dopo Pencroff rientrava nella grotta. Non c'era possibilità di dubbio; le scarpe dell'ingegnere si adattavano esattamente a quelle impronte. Segno evidente che era stato lo stesso ingegnere a lasciarvele.

- E va bene - concluse Cyrus. - Quegli attimi di incoscienza che io volevo mettere in conto a Nab, li ho avuti io. Avrò camminato come un sonnambulo, senza aver coscienza di quello che facevo; e sarà stato Top, nel suo istinto, a guidarmi in questo sicuro rifugio. Top, vieni qua! vieni, Top!

Il magnifico animale balzò verso il padrone abbaiando e cercando di lambirgli il viso teneramente...

In realtà, non c'era altro modo per spiegare la cosa...

Verso mezzogiorno, Cyrus Smith, con uno sforzo energico della sua volontà, si alzò in piedi; ma dovette appoggiarsi al marinaio per non cadere. Venne recata la barella, Cyrus Smith vi si stese; e Pencroff e Nab reggendo il carico prezioso, tutti si misero in cammino verso la grotta. C'erano otto miglia da fare; ma non si poteva andare in fretta, sarebbe stato necessario sostare ogni tanto, era insomma necessario contare sopra sei ore di cammino per arrivare alla meta.

Il vento era sempre violento, ma non pioveva più. Lungo la strada, l'ingegnere, appoggiato al gomito, osservava la costa e quella terra ignota. Non parlava, ma scrutava con attenzione terra, foresta, sabbia, roccia; poi, dopo due ore, la stanchezza ebbe su di lui il sopravvento, e si addormentò profondamente.

Alle cinque e mezzo la comitiva arrivò presso la grotta; tutti si fermarono, la barella fu deposta sulla sabbia. Cyrus Smith dormiva sempre.

Pencroff, con suo sommo stupore, intanto si guardava intorno: la spaventosa tempesta aveva cambiato la faccia al luogo. Nuovi ammmassamenti di rocce si erano formati, e il mare doveva essere giunto, con le sue ondate furenti, fino lì, perché tutto appariva sconvolto caoticamente. Davanti all'ingresso della loro grotta, poi, il terreno era addirittura scavato, sconquassato, irriconoscibile.

Il marinaio ebbe come un presentimento drammatico, e si precipitò nella grotta. Quasi subito ne usciva, e sostava immobile, le braccia penzoloni, guardando angosciato i suoi compagni...

Il fuoco era spento; le ceneri ridotte a fanghiglia; la striscia di fazzoletto bruciacchiata, scomparsa... Il mare aveva fatto irruzione fino in fondo alla grotta e vi aveva tutto distrutto.




CAPITOLO 9


Quando Spilett, Harbert e Nab seppero dell'accaduto, non si turbarono come Pencroff avrebbe creduto. Per lui, il disastro era gravissimo. Ma Nab, felice di aver ritrovato, e sano e salvo, il suo padrone, non lo ascoltò nemmeno; e Spilett disse al marinaio:

- Vi assicuro, Pencroff, che non me ne importa proprio un gran che.

- Ma lo sapete che non abbiamo più fuoco?

- Peuh...

- E neanche un mezzo per riaccenderlo?

- Pazienza.

- Ma, signor Spilett...

- Non è qui, con noi, Cyrus Smith? Non è qui, vivo e sano? E allora state sicuro che troverà bene il modo di procurarci del fuoco.

- Con che cosa?

- Con niente.

Che cosa poteva rispondere Pencroff? Niente, perché, in fondo, divideva egli pure la fiducia dei compagni nell'ingegnere. Per loro, l'ingegnere era un piccolo mondo, un concentrato di tutta la scienza e di tutta la intelligenza umana. Trovarsi in un'isola deserta con Cyrus Smith era come trovarsi in una grande città americana senza di lui.

Con lui, non sarebbe mancato niente; con lui, era inutile disperare.

Se fossero venuti a dire a quei naufraghi che una eruzione vulcanica stava per distruggere quella terra, che quella terra stava per sprofondare negli abissi dell'Oceano, essi avrebbero tranquillamente risposto:

- C'è qui Cyrus, andate a dirlo a lui.

Intanto, però, l'ingegnere dormiva profondamente, in preda a una prostrazione provocata dai disagi di quel lungo trasporto, e non si poteva ricorrere a lui. La cena allora doveva necessariamente essere fredda e magra. Finita la carne di tetras, portati via dal mare i couroucus, non c'era che... rinviare a miglior occasione il pranzo.

Così, prima di tutto, venne portato l'ingegnere dentro la grotta, nel punto meglio riparato, e disteso sopra una cuccetta di alghe secche.

La notte era scesa, e, con la notte, un freddo acuto che, penetrando per le fessure della grotta sconvolta dai marosi, tormentava i naufraghi. Anche l'ingegnere si sarebbe trovato assai male, se i suoi compagni, levatisi le giacche, non l'avessero sollecitamente coperto.

Per tutta cena, quella sera ci si dovette accontentare dei soliti litodomi abbondantemente raccolti sulla spiaggia da Harbert e da Nab.

Ma Harbert, ai molluschi, aggiunse una certa quantità di alghe commestibili che aveva trovato sopra alcune alte scogliere: erano alghe gelatinose assai ricche di elementi nutritivi. Il giornalista e i suoi compagni le gustarono, dopo i molluschi, e le trovarono abbastanza buone.

- E' proprio tempo - osservò il marinaio - che l'ingegnere venga in nostro aiuto.

Nel frattempo, il freddo si era fatto pungente, e non c'era alcun mezzo , per difendersene. Il marinaio cercò tutti i modi possibili per accendere un po' di fuoco, e Nab l'aiutò del suo meglio. Aveva trovato delle erbe secche e, sfregando energicamente due pietre, riuscì a ottenere delle scintille; ma le erbe secche non erano sufficientemente infiammabili, e non si accesero. Insomma, quel procedimento fallì.

Pencroff tentò allora di fregare due pezzi di legno, all'usanza dei selvaggi. Certo, i movimenti che Nab e il marinaio impressero ai due legni, se non bastarono a produrre il fuoco, sarebbero bastati a far bollire una intera caldaia. Ma, quanto a fuoco, il risultato fu nulla.

I due pezzi di legno si riscaldarono: i due operatori ancora di più; e questo fu tutto.

Dopo un'ora di quella erculea fatica, Pencroff, tutto bagnato di sudore, buttò via i due legni, e brontolò:

- Quando verranno a dirmi che i selvaggi accendono il fuoco in questa maniera, farà caldo anche d'inverno. Accenderei piuttosto le mie braccia, fregandole l'una contro l'altra. Ii marinaio sbagliava, nel negare l'efficacia di quel procedimento. I selvaggi ottengono veramente il fuoco; ma i loro movimenti sono rapidissimi, e poi non tutte le qualità di legno servono allo scopo; e infine c'è il «colpo», ossia il gesto preciso; ed è probabile che Pencroff non l'avesse...

Comunque, il cattivo umore del marinaio non fu di lunga durata. I due pezzi di legno buttati via da lui, erano stati raccolti da Harbert che si era accinto vigorosamente all'impresa.

- Frega, frega, figliolo - lo esortò ridendo Pencroff.

- Sì, frego; ma non ho altro scopo che di riscaldarmi un poco; e presto avrò caldo come te, Pencroff.

E difatti, fu così. Quanto al fuoco, bisognò rinunciarvi, per quella notte. Spilett ripeté per la ventesima volta che al fuoco avrebbe senz'altro provveduto l'ingegnere; e, in attesa, si stese sulla sabbia, in un angolo della grotta, e ben presto tutti lo imitarono.

Top dormiva accucciato ai piedi del suo padrone.

L'indomani, 28 marzo, svegliandosi che erano le otto del mattino, Cyrus Smith si vide intorno i suoi compagni che aspettavano il suo risveglio, e subito chiese: - Isola o continente?

Era, come si vede, la sua idea fissa.

- Signor Cyrus - gli rispose Pencroff. - Non ne sappiamo proprio nulla.

- Non lo sapete ancora?

- Oh, ma lo sapremo presto - aggiunse il marinaio. - Basterà che voi ci guidate un poco per questo paese.

- Credo che sarò in condizioni di farlo - disse l'ingegnere alzandosi e tenendosi dritto in piedi senza troppo sforzo.

- Ecco una bella cosa! - esclamò Pencroff.

- Piuttosto - aggiunse Cyrus Smith, - sento che sto per morire di fame. Amici miei, un po' di cibo, per piacere. Penso che avrete un po' di fuoco.

A queste parole fece seguito un desolato silenzio di tutti; poi il marinaio, sospirando, disse:

- Ahimè, signor Cyrus, non abbiamo neanche un po' di fuoco; o, meglio, non ne abbiamo pi.

E gli raccontò quello che era accaduto il giorno prima, divertendo l'ingegnere con la storia dell'unico zolfanello e dei suoi disperati e vani tentativi per procurare del fuoco secondo l'uso dei selvaggi.

- Beh, vedremo - fece l'ingegnere; - se non potremo procurarci qualche cosa che assomigli a un'esca...

- Allora?...

- Allora, fabbricheremo degli zolfanelli.

- Chimici?

- Chimici.

- Facilissimo, come vedete - intervenne Spilett, battendo una mano sulla spalla di Pencroff. Quanto a Pencroff non era dello stesso parere circa la facilità di quella fabbricazione, ma non disse verbo.

E tutti uscirono. Il tempo si era fatto bello, un sole fulgente brillava sul mare e metteva iridescenze dorate sopra la muraglia di granito. Dopo aver guardato in giro per poco, l'ingegnere si sedette sopra un sasso, Harbert gli offrì una manciata di litodomo e di alghe.

- Non abbiamo altro, signor Cyrus.

- Oh, grazie, ragazzo mio. Basterà, almeno per questa mattina.

E mangiò con appetito quei magri cibi che annaffiò con l'acqua fresca e pura tratta dal fiume in una conchiglia. Intorno a lui, i suoi compagni lo guardavano in silenzio; e Cyrus, rifocillatosi, cominciò:

- Allora, amici miei, non sapete ancora se il destino ci ha buttati sopra un'isola o un continente?

- No.

- Lo sapremo domani. E fino ad allora, non abbiamo niente da fare.

- Oh, sì - fece Pencroff.

- E che cosa?

- Del fuoco.

- Ne faremo, Pencroff. Ma, a proposito, mentre ieri mi trasportavate, mi è parso di vedere verso occidente una montagna che domina tutta questa zona. O m'inganno?

- No, no; la montagna non c'è - lo assicurò Spilett, - e dev'essere abbastanza alta.

- Bene, domani saliremo sulla sua cima e vedremo se siamo sopra un'isola o sopra un continente. Fino a quel momento, non possiamo far nulla.

- Del fuoco, signor ingegnere - ripeté l'ostinato marinaio.

- Ma sì, ma sì, ci sarà anche il fuoco - intervenne Spilett. Un po' di pazienza, Pencroff!

Il marinaio guardò Spilett con aria di rimprovero, come se volesse dirgli: «se non ci foste che voi, qui, addio speranza di gustar mai dell'arrosto!». Ma non gli disse nulla.

Cyrus Smith non aveva detto parola, pareva preoccupatissimo di questa faccenda del fuoco, ma, dopo qualche secondo di riflessione, disse:

- Amici miei, la nostra situazione è proprio miserrima; ma ha questo di buono: che è semplicissima. O siamo sopra un continente, e allora, a costo di fatiche più o meno dure, arriveremo a qualche luogo abitato; o siamo sopra un'isola, e in questo caso due sono le ipotesi:

o essa è abitata, e cercheremo di sistemarci coi suoi abitanti, o essa è disabitata, e ce la caveremo da soli.

- Sì, più semplice di così...- fece Pencroff.

- Ma, isola o continente - chiese Spilett - dove pensate mai che l'uragano ci abbia gettati?

- Con precisione proprio non saprei dirvi; presumo sopra una terra del Pacifico. Difatti, quando abbiamo lasciato Richmond, il vento soffiava da nord-est, e la sua stessa violenza ci dimostra che non ha dovuto subire delle variazioni di direzione. Se la sua direzione si è dunque mantenuta da nord-est a sud-ovest, noi abbiamo traversato gli Stati della Carolina del nord e del sud, della Georgia, il golfo del Messico, il Messico e quindi una porzione del Pacifico. Credo che il percorso coperto dal pallone non sia stato inferiore alle sei o sette miglia, e, per poco che il vento abbia variato d'un mezzo quarto, ha dovuto portarci o sull'arcipelago di Mendana, o sulle Pomotou, oppure, se soffiava con una velocità maggiore di quanto io pensi, anche sulle coste della Nuova Zelanda. Se quest'ultima ipotesi fosse la vera, il nostro rimpatrio sarebbe facilissimo. Inglesi o Maori, troveremo sempre qualcuno con cui parlare. Se, viceversa, questa costa appartiene a qualche isola deserta di qualche arcipelago della Micronesia, potremo vederlo dall'alto della montagna, domani, e allora studieremo di sistemarci qui come se non dovessimo andarcene mai più.

- Mai più?! - esclamò Spilett. - E siete voi che ci dite mai più?!

- Meglio sempre prevedere il peggio, e serbare soltanto la sorpresa del meglio.

- Ha ragione - intervenne Pencroff; - ha ragione il signor ingegnere.

Bisogna poi anche sperare che quest'isola, se è un'isola, non sia proprio all'infuori delle rotte delle navi...

- Ma non sapremo mai niente di preciso fino a quando non avremo fatto la salita di quella montagna, amici miei.

- Domani... - intervenne pensoso ed esitante Harbert; - domani vi sentirete poi in condizione di poter affrontare un'escursione come quella?

- Io lo spero - gli rispose l'ingegnere; - ma a una condizione: che Pencroff e te vi dimostriate dei bravi cacciatori.

- Signor Cyrus - gli rispose pronto il marinaio, - dal momento che ci parlate di selvaggina, io vi dirò che se avessi la certezza di poterla fare arrostire al mio ritorno così come ho la certezza di portarvela qui alla grotta...

- Beh, voi portatela, Pencroff.

Fu così deciso che Cyrus e Spilett sarebbero rimasti alla grotta per esaminare la costa e salire fino all'altipiano, mentre Nab, Pencroff e Harbert sarebbero andati a compiere un lungo giro nella foresta per far provvista di legna e dare addosso a tutta quella selvaggina di piuma o di pelo che avessero potuto trovare.

Verso le dieci del mattino, partirono, Harbert tutto fiducioso, Nab felice e Pencroff mormorante tra sé e sé:

- Se quando torno trovo del fuoco, è segno che è sceso un fulmine ad accenderlo...

Poi chiese ai suoi due compagni:

- Che facciamo, prima? I cacciatori o i legnaioli?

- Facciamo i cacciatori - gli rispose Harbert. - Vedo Top che punta già.

- E allora andiamo a caccia. Al ritorno, passeremo di qui a fare la provvista di legna.

Strapparono tre grossi rami a un albero e seguirono Top che andava correndo fra l'alte erbe. Ma, invece di seguire la sponda del fiume, questa volta, Pencroff si diresse direttamente verso il cuore della foresta. Erano sempre le stesse conifere che, qua e là, avevano dimensioni gigantesche e parevano quasi indicare che la latitudine di quella ignota terra fosse più elevata di quanto non supponesse l'ingegnere. Tratto tratto, qualche radura appariva completamente coperta di legna secca, e in tanta quantità da formare una riserva di combustibile inesauribile. Orientarsi in mezzo a quel colonnato di conifere era assai difficile; per questo, il marinaio segnava la sua strada spezzando dei rami che lasciava penzoloni sugli alberi, cosicché sarebbe stato poi facile, nel ritorno, riconoscere il cammino da seguire. Ma, forse, sarebbe stato meglio seguire ancora il corso del fiume, perché, dopo una buona ora di cammino, non avevano incontrato ombra di selvaggina. Top, correndo fra l'erbe, non aveva fatto levare che degli uccelli che non si lasciavano avvicinare.

Invisibili erano anche i couroucus, e pareva ormai fatale che il marinaio si decidesse a tornare in quella parte acquitrinosa della foresta dove il giorno innanzi aveva così fruttuosamente «pescato» i tetras.

- Pencroff mio - disse a un certo punto Nab, - se è tutta questa la selvaggina che avete promesso di portare a casa, non ci vorrà certo un gran fuoco per arrostirla.

- Pazienza, Nab; non sarà certo la selvaggina che mancherà al nostro ritorno.

- Non avete fiducia nel signor ingegnere?

- Sì.

- Ma non credete che potrà fare del fuoco?

- Lo crederò quando vedrò la fiamma scoppiettare sul focolare.

- La vedrete, dal momento che il mio padrone ve lo ha assicurato.

- Staremo a vedere.

Continuarono il cammino, e Harbert trovò un albero dai frutti commestibili: era un pino carico di pignoli, piccole mandorle speciali, in perfetto stato di maturità. Ne raccolsero moltissime, e Pencroff, riavviandosi, osservò:

- Ecco qua: delle alghe come pane, dei molluschi come carne e dei pignoli come frutta: il pranzo tipico di chi non possiede nemmeno un fiammifero!

- Non lamentiamoci, Pencroff! - lo ammonì Herbert.

- Non mi lamento, figliolo mio; osservo soltanto che la carne è un po' poco rappresentata in questa lista.

- Top ha visto qualcosa... - gridò Nab correndo verso un folto dove il cane si era lanciato abbaiando. Ai suoi latrati si mescolavano degli strani grugniti.

Pencroff e Harbert avevano seguito Nab. Se c'era qualche capo di selvaggina, non era il momento di stare a discutere sul modo di farla cuocere; bisognava prima di tutto prenderla!

Appena entrati in quel folto, videro Top alle prese con una bestia che aveva ghermito per un orecchio: era una specie di piccolo porco, lungo poco meno di un metro, nerastro, dal pelo duro e rado, che si teneva disperatamente aggrappato a terra con le sue zampe membranose. Harbert riconobbe subito in quell'animale un grosso roditore. Esso, invece di lottare contro il cane, se ne stava immobile, guardando con gli occhietti terrorizzati i tre uomini, che forse gli erano uno spettacolo nuovissimo. Nab, armato del suo bastone, stava per colpirlo, quando l'animale si svincolò dalla stretta di Top lasciandogli un pezzo d'orecchio in bocca, gettò un minaccioso grugnito e si buttò contro Harbert, rovesciandolo mezzo a terra e sparendo poi nel folto della foresta.

- Ah, il manigoldo! - gridò Pencroff.

Tutti e tre si lanciarono sulle peste di Top e già stavano per raggiungerlo quando il cane si buttò dentro un vasto acquitrino steso all'ombra di pini secolari.

Nab, Herbert e Pencroff si fermarono a guardare. Top nuotava e cercava il roditore, che si era accucciato sul fondo dello stagno e non compariva.

- Dovrà pur tornare alla superficie a respirare! - disse Harbert.

- Non si annegherà? - chiese Nab.

- No; è quasi un anfibio. Stiamo attenti.

Mentre Top nuotava in mezzo allo stagno, Pencroff e Harbert andarono a collocarsi sulle rive in modo da chiudere ogni via di ritirata al roditore. Harbert, del resto, non si era ingannato; dopo qualche minuto l'animale riaffiorò alla superficie. Top con un balzo gli fu addosso, impedendogli di rituffarsi e trascinandolo verso la riva, dove Nab lo finiva con una randellata precisa.

- Evviva! - esclamò Pencroff. - Datemi dei carboni ardenti, e vi preparerò un arrosto succulento.

Col roditore sulle spalle, Nab si avviò, seguito dai due compagni, per la strada del ritorno. Dall'altezza del sole, giudicarono che dovessero essere le due del pomeriggio. A ritrovare la strada del ritorno, nel folto della foresta, li aiutò assai l'istinto dell'intelligente Top. Mezz'ora dopo, infatti, erano in vista della grotta. E allora Pencroff si fermò, stettero un attimo silenzioso, poi tendendo la mano verso la grotta, gridò:

- Evviva! Evviva! Guardate, guardate!

Una colonna di fumo saliva su dalla grotta e si perdeva in lente volute nel cielo.




CAPITOLO 10


Qualche minuto dopo, i tre cacciatori si trovavano davanti a una bella fiammata, accanto alla quale sedevano l'ingegnere e il giornalista.

Pencroff, reggendo la sua preda, li guardava in silenzio.

- Ebbene, sì, caro mio - gli disse il giornalista. - Questo è fuoco, un autentico fuoco che arrostirà questo magnifico capo di selvaggina al quale faremo tutti onore.

- Ma... chi l'ha acceso? - domandò Pencroff.

- Il sole.

Questa risposta di Spilett era esatta. Era stato il sole a fornire quel calore che stupiva Pencroff. E Pencroff era talmente stupito che non pensava nemmeno di interrogare l'ingegnere. Fu Harbert che gli domandò:

- Ma avevate una lente, signor Cyrus?

- No, ragazzo mio - gli rispose Smith. - Me ne sono fabbricata una.

E mostrò l'apparecchio che gli aveva servito da lente. Non era altro che l'unione dei due vetri di orologio tratti dal suo e da quello del giornalista. Aveva riempito la cavità fra i due vetri di acqua e reso i loro orli aderenti per mezzo di un poco di argilla, e si era fabbricato così una vera e propria lente; concentrando i raggi del sole sopra dell'erba molto secca, l'aveva incendiata.

Il marinaio guardò l'apparecchio, poi l'ingegnere, e non disse parola.

Ma il suo sguardo parlava, ed eloquentemente, per lui. Se Cyrus Smith non era un dio, era certamente qualche cosa di più che un uomo.

Finalmente, parlò, e disse:

- Notate, notate questo miracolo sul vostro taccuino, signor Spilett!

Poco dopo, il roditore crogiolava sul fuoco.

La grotta era stata resa assai più abitabile: erano state turate tutte le falle e le incrinature fra parete e parete, e il fuoco diffondeva dappertutto un gradevole calore. L'ingegnere e Spilett avevano bene impiegato la loro giornata, insomma. Ormai Cyrus aveva completamente recuperato le sue forze, e si era anzi spinto sino sopra la muraglia di granito, e di lassù aveva a lungo contemplato, con occhio esperto, la montagna che si proponeva di scalare l'indomani. Essa si trovava a circa sei miglia di distanza verso il sud, e doveva essere alta circa millecinquecento metri. Di conseguenza, l'ingegnere calcolò che da quella vetta si sarebbe potuto spaziare con l'occhio per un raggio di circa cinquanta chilometri. Era dunque probabile che si sarebbe potuto finalmente risolvere il problema «isola o continente» che, per Cyrus, era il più assillante.

Quella sera, si cenò di gusto. La carne del roditore fu dichiarata eccellente, le alghe e i pignoli completarono convenientemente la cena durante la quale, peraltro, l'ingegnere parlò pochissimo, preso com'era dai progetti per l'indomani. Due o tre volte, Pencroff espose delle idee su quello che, secondo lui, sarebbe stato conveniente fare; ma Cyrus Smith, che era uno spirito metodico, si accontentò di scuotere la testa.

- Domani - affermò - sapremo dove siamo, e potremo decidere sul da farsi.

Finita la cena, altre bracciate di erbe secche e di legna furono gettate sul fuoco, e tutti gli ospiti della grotta, Top compreso, si addormentarono tranquillamente. Fu una notte senza incidenti, e l'indomani - 29 marzo - tutti si svegliarono freschi e riposati, pronti a intraprendere quella escursione che doveva decider della loro sorte.

Tutto era pronto per la partenza. I resti del roditore potevano bastare per tutti per altre ventiquattr'ore, e, d'altra parte, c'era la fondata speranza di poter catturare altra selvaggina durante il viaggio. Furono rimessi al loro posto i due vetri dei due orologi, e Pencroff abbruciò un altro spicchio del suo fazzoletto perché servisse da esca: come acciarino, avrebbero certamente trovato delle selci su quel terreno vulcanico.

Alle sette e mezzo del mattino, armati di nodosi randelli, i viaggiatori si mettevano in cammino, lungo la foresta, che pareva la strada più diretta per arrivare alla montagna, e seguendo per un buon tratto la sponda sinistra del fiume. Fu ritrovato il sentiero nel folto, già aperto da Pencroff nei suoi precedenti viaggi. Alle nove, erano giunti al limite occidentale della foresta. Qui, il terreno, da acquitrinoso prima, si era fatto secco e sabbioso, e già in leggera pendenza che saliva verso l'interno del paese. Sotto gli alberi si erano incontrati degli animali che erano fuggiti via velocissimi all'avvicinarsi della comitiva. Top li faceva schizzar via dai loro rifugi e avrebbe voluto inseguirli, ma l'ingegnere richiamava il cane con un fischio: non era ancora il momento di pensare alla caccia. Più tardi, se mai. Cyrus non era uomo da lasciarsi smuovere dalla sua idea fissa: probabilmente, anzi, non guardava nemmeno il paesaggio: il suo solo obbiettivo era la montagna che voleva a tutti costi scalare, e verso la quale puntava in linea diretta.

Alle dieci, fecero un alt di qualche minuto. Usciti dalla foresta, tutto il sistema orografico della zona apparve ai loro occhi. La montagna si componeva di due coni: il primo, tronco all'altezza di circa ottocento metri, appoggiava su dei capricciosi contrafforti che parevano ramificarsi come le diverse ugne di un solo artiglio piantato sul terreno. Fra questi contrafforti si aprivano delle valli strette e profonde, irte di alberi altissimi. Verso nord-est però il dorso del monte si faceva più brullo e vi si scorgevano delle zebrature che dovevano essere colate di lava solidificata. Su questo primo cono s'alzava un secondo cono, leggermente arrotondato sulla cima, e che era piantato un poco di traverso, come un cappello messo di sghimbescio, e che era formato di terra arida, seminata di rocce rossastre. Bisognava salire sulla sommità di questo secondo cono e la cresta dei contrafforti pareva la strada migliore per arrivarci.

Cyrus Smith aveva detto ai compagni che quello era un terreno vulcanico, ed essi, seguendolo, cominciarono a inerpicarsi per il dorso di uno di quei contrafforti che, con una linea sinuosa e perciò più facilmente accessibile, portava alla sommità del primo cono.

Evidenti e numerose erano, qua e là, le tracce dei sommovimenti vulcanici: blocchi erratici, detriti basaltici, pietre pomici, ossidiane. Ogni tanto, un ciuffo di conifere, sempre più rade.

Durante questa prima parte dell'ascensione, Harbert fece osservare le impronte di grossi animali, fiere od altre, che testimoniavano di un passaggio abbastanza recente.

- Penso - disse Pencroff - che questi animali non ci cederanno molto volentieri il loro regno.

- In questo caso - gli rispose Spilett, che aveva già cacciato la tigre nelle Indie e il leone in Africa - ce ne sbarazzeremo. Comunque, teniamoci pronti a ogni attacco.

Intanto, si saliva a poco a poco. Il cammino, allungato da volte e giravolte necessarie per i molti ostacoli che si frapponevano a una salita in linea retta, era assai lento. Tratto tratto il terreno mancava all'improvviso, e ci si trovava sull'orlo di profondi crepacci, che bisognava girare pazientemente. A mezzogiorno, quando il gruppetto di viaggiatori si fermò per la colazione ai piedi di un grosso ciuffo di abeti, accanto a un ruscello che scendeva verso il piano in cascatelle spumeggianti, non si era ancora giunti a mezza strada dal primo cono che, verosimilmente, non sarebbe stato raggiunto che al cader della notte.

Dal punto dove si trovavano, l'orizzonte del mare spaziava assai; ma, sulla destra, il panorama, interrotto dal promontorio che si staccava dalla costa, non consentiva di spingere gli sguardi più oltre e stabilire se la costa continuasse o si agganciasse a qualche altra terra. Anche a sinistra, del resto, gli sguardi dei viaggiatori, per quanto avessero davanti a loro un campo visivo di parecchi chilometri, era fermato dalla cresta di un contrafforte. Non si poteva dunque dare una risposta neanche approssimativa alla domanda dell'ingegnere Smith.

Alla una del pomeriggio, si rimisero in cammino. Passando sotto un bosco ceduo, si scorsero molti esemplari di fagiani di monte, grossi come galli normali; e Gedeone Spilett fu così abile e fortunato d'abbatterne uno con una sassata precisa. Pencroff corse a raccoglierlo sentendosi venire l'acquolina in bocca. Usciti dal bosco, i viaggiatori attaccarono una ripida scarpata che portava sopra un terrazzo naturale, di natura vulcanica, senza alberi e ciuffi d'erbe.

Da qui, il cammino si faceva più arduo: si trattava di tagliare dei pendii sassosi dove bisognava badar bene a piantare esattamente il piede sopra un punto consistente per evitare di scivolare a valle. Nab e Harbert marciavano in testa, Pencroff chiudeva la marcia, Cyrus e Spilett camminavano al centro. Gli animali che frequentavano quella zona - e non ne mancavano tracce qua e là - dovevano appartenere certamente alla famiglia dei camosci o degli stambecchi. Se ne vide anzi qualcuno; e Pencroff esclamò additandoli:

- Là, là... dei montoni!

Si erano tutti fermati a guardare: erano una mezza dozzina di esemplari, assai grossi, dalle piccole corna ricurve all'indietro, dal pelo lanoso color fulvo. Harbert li riconobbe subito per mufloni.

- Se ne possono trarre degli arrosti e delle costolette? chiese Pencroff.

- Perbacco!

- E allora, sono dei montoni.

Immobili sui sassi, quei mufloni guardavano stupiti quei «bipedi» che vedevano molto probabilmente per la prima volta. Poi, a un tratto, presi da chissà quale istintivo terrore, si lanciarono in un velocissimo battibaleno.

- Arrivederci - gridò Pencroff con un sospiro così comico che tutti risero.

Fu ripresa la marcia. La natura vulcanica del suolo appariva sempre più evidente. Tracce di lave, che zigzagavano per il dorso del monte; piccole solfature che sbarravano tratto tratto il cammino; ceneri biancastre luccicanti di migliaia e migliaia di cristalli. Quando si fu vicini alla sommità del primo cono, le difficoltà dell'ascensione si accrebbero. Ormai - erano le quattro del pomeriggio - la zona alberata era cessata; non restava più che qualche pino isolato che durava certo fatica a resistere ai soffi del freddo vento che veniva dal largo. Fortunatamente, il tempo era bello, l'aria tranquilla, la serenità perfetta. Il sole era nascosto dietro lo schermo massiccio del secondo cono la cui ombra gigantesca, stendendosi fino giù alla costa, dilagava sempre più man mano che l'astro radioso scendeva verso l'orizzonte. Già qualche nebbia violacea cominciava ad apparire verso oriente.

Un dislivello di poco più di centocinquanta metri li divideva dalla sommità del primo cono dove Cyrus aveva deciso di piantare l'accampamento per quella notte. Ma quei centocinquanta metri diventarono un cammino di due miglia abbondanti per gli innumerevoli zig zag che si resero necessari. Il terreno mancava sotto i piedi sull'erta ripidissima lastricata di lave sulle quali si scivolava senza che nulla si offrisse come appiglio ai cinque scalatori. Era quasi notte, quando Cyrus e i suoi compagni, stanchissimi, dopo sette ore di marcia, sbucavano sul pianoro che segnava la sommità del primo cono.

Non fu difficile trovare, fra le rocce che formavano la base del secondo cono, un ricovero ben riparato; venne raccolto del muschio secco e dell'erba arida; Pencroff, con quelle pietre, costruì una specie di focolare; fu trovata una selce che, percossa, fece sprizzare alcune scintille e la miccia-fazzoletto le raccolse, poi, sotto il soffio di Nab, le trasformò in fiamma. Pochi minuti dopo un fuoco vivificatore scoppiettava allegro dentro il rifugio. Come cena, Nab servì i resti del roditore e qualche dozzina di pignoli: il fagiano di monte, doveva servire per l'indomani.

Fu allora, ed era già quasi buio, che Cyrus Smith ebbe l'idea di andare a riconoscere la base del cono superiore. Prima di riposare, egli voleva accertarsi se quel cono poteva essere girato alla sua base nel caso che il suo dorso si presentasse troppo ripido per una scalata in linea retta. Lo tormentava il dubbio che il pianoro sul quale si trovavano fosse impraticabile dal lato opposto e che il fianco del secondo cono fosse così impervio da non poterlo assolutamente scalare:

nella quale eventualità, bisognava rinunciare definitivamente a raggiungere la sommità della montagna. E così, noncurante della stanchezza, mentre Pencroff e Nab organizzavano le cuccette d'erbe per la notte e Spilett annotava sul suo taccuino la cronaca della giornata, partì, accompagnato da Harbert.

La notte era bella e tranquilla, l'oscurità non ancora profonda. I due camminavano l'uno accanto all'altro senza parlare. Dopo una ventina di minuti di cammino, furono costretti a fermarsi: il pendio dei due coni era ormai un solo pendio, non li divideva più nemmeno una striscia di terreno; e salire su per quell'erta quasi verticale, diventava, massime a quell'ora, impossibile. Ma davanti ai due esploratori si spalancava un profondo imbuto scavato nel terreno: era il collo del cratere superiore, da dove, quando il vulcano era in attività, sgorgavano i rivoli di lava. Ora, le lave pietrificate, le scorie incrostate formavano una specie di scalinata naturale che facilitava l'ascensione della montagna. Cyrus s'avvide di quella fortunata disposizione del terreno e, senza esitare, seguito dal ragazzo, si avventurò dentro l'enorme cratere. C'era ancora un dislivello di oltre trecento metri da superare. Ma i pendii interni di quel cratere sarebbero stati praticabili? Cyrus continuò il suo cammino; fortunatamente, quei pendii si facevano sempre più allungati e sinuosi, descrivevano un largo passo di vite nell'interno del vulcano e favorivano l'ascensione della montagna. Ormai, il vulcano era spento; spento, forse, da secoli. Non il più piccolo filo di fumo sfuggiva dai suoi fianchi, non la più piccola fiamma, né dalle sue viscere, ormai pietrificate, uscivano quei sordi boati, quei fremiti che sono tipici dei fuochi sotterranei. L'atmosfera stessa del vulcano, dentro il cratere, non era affatto impregnata di vapori solforosi, ma purissima.

Il tentativo dell'ingegnere doveva avere successo. A poco a poco, Harbert e Cyrus, salendo lungo le pareti interne del vulcano, videro il cratere allargarsi al di sopra delle loro teste, e il cielo inquadrato dentro gli orli di quel cratere accogliere, man mano che salivano, sempre nuove costellazioni: le stupende costellazioni di quel cielo australe. Allo zenit brillava fulgentissima quella dello Scorpione; poco lontano quella del Centauro; poi apparve quella del Pesce, il Triangolo australe e, finalmente, quasi al polo antartico del globo, quella scintillante Croce del Sud che è la stella Polare dell'emisfero australe.

Alle otto Cyrus e Harbert mettevano il piede sulla sommità del secondo cono, sulla vetta della montagna. Il buio era fondo, a quell'ora, e lo sguardo non andava oltre un raggio di due miglia all'intorno. Il mare circondava quella terra da ogni lato, oppure essa si agganciava, a occidente, a qualche altra terra del Pacifico? Non si poteva ancora vedere. Verso occidente, una banda nuvolosa, nettamente disegnata all'orizzonte, accresceva il buio e l'occhio non sapeva distinguere se il cielo e il mare si confondessero sopra una sola linea circolare.

Ma, in un punto dell'orizzonte, all'improvviso, apparve una debole luce che lentamente scendeva, man mano che quella striscia di nuvole saliva verso lo zenit. Era la falce della luna crescente, già prossima al tramonto. Ma quella sua poca luce rossastra bastò a disegnare con precisione la linea orizzontale, allora staccata dalla banda nuvolosa:

e l'ingegnere poté vedere, per un attimo, quell'arco di luna riflettersi sopra una superficie liquida. Allora, prese una mano al ragazzo e gli disse con voce grave:

- E' un'isola!

In quell'attimo, il quarto di luna si spegneva calando dietro i flutti del mare.




CAPITOLO 11


Mezz'ora dopo, Cyrus e Harbert erano di ritorno all'accampamento, e l'ingegnere si limitava a comunicare ai compagni che la terra che li ospitava era un'isola e che, l'indomani, si sarebbe deciso sul da farsi. Poi ognuno si accomodò meglio che poté e, in quell'anfratto roccioso, a ottocento metri d'altezza, nella silenziosa serenità della notte, gli «isolani» dormirono d'un sonno profondo.

L'indomani, 30 marzo, dopo una rapida colazione, nella quale il fagiano di monte arrostito figurò al primo posto, Cyrus volle tornare in cima al vulcano, esaminare con attenzione, alla luce del sole, l'isola che li ospitava, vedere se a qualche distanza non si scorgesse qualche terra e se non fosse, per avventura, lungo la rotta delle navi che visitano gli arcipelaghi del Pacifico. Questa volta però tutti i suoi compagni lo accompagnarono: anch'essi erano ansiosi di vedere l'isola dove il destino li aveva gettati.

Dovevano essere circa le sette quando partirono. Nessuno appariva turbato. Erano pieni di fiducia in loro stessi; ma il punto d'appoggio di tal fede non era però lo stesso in Cyrus Smith e nei suoi compagni.

Cyrus aveva fiducia perché si sentiva pronto a strappare a quella natura selvaggia tutto ciò che sarebbe stato necessario alla vita dei suoi compagni e sua. I suoi compagni invece avevano fiducia perché avevano con loro l'ingegnere. Soprattutto Pencroff, dopo la faccenda del fuoco, non si sarebbe disperato nemmeno se si fosse trovato sopra una roccia ignuda, pur che l'ingegnere vi si trovasse con lui.

- Siamo usciti da Richmond - disse il marinaio allegramente senza il permesso delle autorità. Figuratevi se non riusciremo un giorno ad abbandonare quest'isola dove nessuno ci tratterrà...

Cyrus seguì la stessa strada della sera prima. Si girò intorno alla base del secondo cono fino all'orlo del grande cratere. Il tempo era stupendo e il sole inondava dell'oro dei suoi raggi il dorso della montagna. Si attaccò il cratere, le cui pareti interne avevano una pendenza non superiore ai trentacinque gradi e si potevano perciò scalare assai facilmente, e prima delle otto Cyrus e i suoi compagni erano raccolti sulla sommità del monte, proprio sopra un cocuzzoletto che sorgeva sull'orlo settentrionale della vetta.

- Il mare! Il mare dappertutto! - gridarono a una voce.

Infatti, intorno a loro, il mare dilagava scintillante di sole. Forse, Cyrus, salendo quella mattina, aveva avuto la speranza di scorgere qualche terra all'orizzonte, che la sera prima, per l'oscurità, non aveva potuto vedere. Ma non appariva nulla, fino a dove l'occhio poteva spaziare, cioè per un raggio di almeno cento chilometri: né una terra, né una vela. L'immensità del mare era deserta, e la loro isola pareva il centro di un oceano abbandonato.

Immobili e silenziosi, Cyrus e i suoi compagni guardarono per qualche minuto il mare, fino ai suoi limiti estremi. E neppure Pencroff, che aveva una vista acutissima, non vide nulla, assolutamente nulla! Poi dal mare, i loro occhi tornarono sulla loro isola; e la prima domanda venne posta da Gedeone Spilett che chiese:

- Quale sarà la grandezza di quest'isola?

Certo, in mezzo all'infinito oceano, non appariva molto considerevole.

Cyrus rifletté per qualche secondo; osservò attentamente il perimetro dell'isola, calcolò l'altezza alla quale si trovava, poi concluse:

- Amici miei, credo di non sbagliarmi di molto dando al perimetro della nostra isola una lunghezza di circa duecento chilometri.

- E la sua superficie, allora?...

- E difficile calcolarla, perché questa terra è troppo capricciosamente conformata...

Secondo Cyrus, insomma, l'isola aveva press'a poco le proporzioni di Malta o Zante, ma era, però, assai più irregolare, e meno ricca di capi, di promontori, di punte e di baie. La sua forma sorprendeva; e quando Gedeone Spilett l'ebbe, su preghiera di Cyrus, disegnata sul suo taccuino, si trovò che somigliava a qualche fantastico animale, a una specie di petropodo mostruoso addormentato sulle acque del Pacifico.

La parte orientale della costa - quella cioè sulla quale erano approdati i naufraghi - si apriva in una vasta baia chiusa a sud-est da un capo assai acuto, e a nord-est da un golfo, compreso fra altri due capi, che ricordava la mascella spalancata di qualche gigantesco squalo. Da nord-est a nord-ovest la costa si arrotondava come la volta cranica di una fiera; poi si gonfiava in una specie di gibbosità; da dove il litorale continuava abbastanza regolarmente in direzione nord- sud fino a un piccolo seno. Da qui si allungava nel mare in una lunga coda, simile all'appendice caudale di un formidabile alligatore.

Questa coda era una vera e propria penisola lunga una sessantina di chilometri e conchiudentesi con una vasta rada.

Nel suo punto più stretto, e cioè fra la grotta che li aveva ospitati la prima notte e il piccolo seno, l'isola non misurava più di venti chilometri di larghezza; ma dalla mascella di nord-est all'estremità della penisoletta non misurava meno di sessanta chilometri di lunghezza.

Nell'interno, appariva molto boscosa nella sua parte meridionale, arida e sabbiosa verso settentrione. Fra il vulcano e la costa orientale, Cyrus e i suoi compagni furono meravigliati di vedere un lago, inquadrato dentro una corona di alberi verdi, che pareva allo stesso livello del mare. Ma, fatto un rapido calcolo, Cyrus assicurò i compagni che doveva trovarsi almeno a cento metri d'altezza sul livello dell'oceano.

- Allora sarà un lago d'acqua dolce - osservò Pencroff.

- Certo; e penso che sarà alimentato dalle acque che scendono dalla montagna - gli rispose l'ingegnere.

- Difatti, vedo un fiumiciattolo che vi si getta - esclamò Harbert additando una striscetta argentea che scendeva giù dai contrafforti montagnosi e finiva nel lago.

- E allora - concluse Cyrus - è probabile che altri corsi d'acqua scarichino il lago nel mare. Lo vedremo al ritorno.

Questo fiumiciattolo che scendeva dalla montagna, e il fiume che i naufraghi già conoscevano vicino alla grotta, costituiva l'intero sistema idrografico dell'isola, quale appariva ai loro occhi dalla vetta del monte. Ma era anche probabile che sotto le scure masse degli alberi che facevano di almeno due terzi dell'isola una sola immensa foresta, altri ruscelli e corsi d'acqua scorressero verso il mare. Lo si poteva supporre anche dal fatto che l'isola appariva assai fertile e lussureggiante; nella sua parte settentrionale, invece, nessun indizio di acque correnti; forse qualche stagno o palude qua e là; e poi dune, sabbie, una aridità stranamente contrastante col rigoglioso verde che copriva tutta l'altra parte dell'isola.

Il vulcano non si ergeva al centro dell'isola, ma nella zona nord- occidentale, e pareva segnare il confine fra le due zone di essa: a sud-ovest, a sud e a sud-est i contrafforti scomparivano subito sotto un mantello di verzura al nord, le loro ramificazioni si potevano seguire, ignude e aride, fino alla sabbia della costa. Era da questa parte che, al tempo delle eruzioni vulcaniche, le lave si erano aperte un cammino fino al mare, lasciandovi le loro tracce imperiture.

Per oltre un'ora Cyrus Smith e i suoi compagni stettero lassù a guardare l'isola che si apriva sotto i loro occhi come un nitido altorilievo. Ma restava un problema importante da risolvere, e la cui soluzione avrebbe decisamente influito sull'avvenire dei naufraghi.

Quell'isola, era abitata?

Fu il giornalista a formulare questa domanda, alla quale tutti avrebbero sentito di poter rispondere negativamente, dopo l'esame fatto da quella cima. Da nessuna parte e in nessun punto appariva la traccia di una vita umana. Non un agglomerato di case, non una capanna, non un segno di pesca sulla costa; nessun filo di fumo che s'innalzasse dai boschi. E' pur vero che circa sessanta chilometri separavano i naufraghi dalle punte estreme dell'isola, e sarebbe stato difficile, anche per occhi acutissimi come quelli di Pencroff, scorgere, a tanta distanza, un'abitazione. Era anche vero che non si poteva sollevare quel folto sipario di verzura che celava i due terzi dell'isola; ma è noto che, normalmente, gli isolani abitano verso la costa: e la costa appariva decisamente deserta. Insomma, fino a quando non si fosse fatta un'esplorazione completa, si poteva concludere che l'isola era disabitata.

Ma era almeno frequentata dagli indigeni delle isole vicine? Difficile rispondere a questa domanda. Nessuna terra appariva all'orizzonte per un raggio di cento chilometri. Ma cento chilometri sono un percorso facilmente percorribile dalle barche malesi e dalle grandi piroghe polinesiane. Tutto dipendeva dalla posizione dell'isola, insomma: dal suo isolamento nel Pacifico o dalla sua vicinanza, sia pure relativa, con qualche arcipelago. Cyrus, sarebbe riuscito un giorno a calcolare esattamente la longitudine e la latitudine? Ecco una cosa difficile; comunque, nell'attesa, sarebbe stato prudente prendere certe precauzioni per difendersi da eventuali assalti da parte di indigeni vicini. Ormai, l'isola era stata esplorata, sia pure a volo d'uccello, la sua configurazione determinata, il suo rilievo fatto, la sua superficie calcolata, la sua idrografia e la sua orografia stabilite.

Sullo schizzo del giornalista, era stata segnata in linea generale anche la disposizione delle foreste e delle pianure; non c'era che tornare al piano ed esplorare il terreno al triplice scopo di identificare le risorse minerali, vegetali e animali dell'isola.

Ma prima di dare ai compagni il segno della partenza, Cyrus disse con la sua voce calma e grave:

- Ecco, amici, il piccolo lembo di terra dove l'Onnipotente ha voluto gettarci. E' qui che noi ci accingiamo a vivere, forse per molto tempo. Forse, un soccorso improvviso arriverà fino a noi, per esempio una nave... Ma forse, badate bene; perché quest'isola è assai poco importante, e non offre nemmeno un porto dove una nave possa gettare le sue ancore. E' anche probabile che essa si trovi all'infuori delle rotte ordinarie dei bastimenti, che sia collocata troppo a sud per le navi che visitano gli arcipelaghi del Pacifico, troppo a nord per quelli che vanno in Australia doppiando il capo Horn. Io non voglio nascondervi niente della nostra situazione...

- E avete perfettamente ragione, caro Cyrus - gli rispose vivacemente Spilett. - Siamo tutti degli uomini; abbiamo tutti piena fiducia in voi, e voi potete contare su di noi. Non è vero, amici?

- Io vi ubbidirò in tutto e per tutto, signor Smith - pronunciò con fervore Harbert prendendo una mano dell'ingegnere.

- Siete il mio padrone sempre e dovunque - esclamò Nab.

- E io - disse il marinaio - e io, che possa perdere il mio nome se mancherò al mio dovere. Per mille diavoli, se voi lo volete, noi faremo di quest'isola una piccola America. Vi costruiremo delle città, vi getteremo delle ferrovie, vi pianteremo delle linee telegrafiche, e un giorno, quando sarà ben coltivata, civilizzata, attrezzata, andremo a offrirla in dono all'Unione. Però, mi occorre una cosa.

- E cioè?

- Mi occorre che nessuno più parli di naufragio. Noi siamo dei coloni venuti qui per colonizzare.

Cyrus Smith sorrise, e la mozione del marinaio venne approvata da tutti. Poi, l'ingegnere ringraziò i compagni della fiducia che avevano in lui e li assicurò che, con l'aiuto della Provvidenza e col concorso dei suoi compagni, avrebbe vinto ogni avversità.

- E adesso, torniamo alla nostra grotta - gridò Pencroff.

- Un momento, amici - fece l'ingegnere. - Direi che prima dobbiamo dare un nome a quest'isola, ai suoi capi, ai suoi promontori, ai suoi fiumi.

- Benissimo - approvò il giornalista. - Questo semplificherà nell'avvenire le istruzioni che dovremo dare o seguire.

- Già... E' sempre qualche cosa poter dire dove si va e da dove si viene. Almeno, si ha l'impressione di essere in qualche posto preciso.

- La nostra grotta, per esempio...- disse Harbert.

- Già... Dopo quella camminata che abbiamo fatta, potremmo chiamarla... Camminata. Va bene, signor ingegnere ?

- Benissimo, Pencroff.

- Quanto agli altri, sarà altrettanto facile - proseguì il marinaio che era in vena. - Tiriamo fuori i nomi che usava quel Robinson di cui Harbert mi ha letto delle pagine. La «baia della Provvidenza», la «punta dei capidogli», il «capo della Speranza delusa»...

- O piuttosto i nomi del signor ingegnere, del signor Spilett, di Nab... - propose Harbert.

- Il mio nome!... - esclamò tutto emozionato il negro, spalancando la bocca in un sorriso che gli discoprì la candida dentatura.

- Perché no? - fece Pencroff. - Il «porto Nab», suona bene. E il «capo Gedeone»...

- Io preferirei prendere dei nomi che ci richiamassero la nostra America - propose Spilett.

- Sì, almeno per i punti principali - convenne Cyrus. - Diamo, a questa vasta baia dell'est, il nome di baia dell'Unione; a quel largo golfo del sud, quello di baia Washington; a questa montagna, il nome di monte Francklin; a quel lago che vediamo laggiù, il nome di Grant.

Sono nomi che ci ricordano il nostro Paese, e i suoi maggiori cittadini. Ma poi, per i corsi d'acqua, i golfi, i capi, i promontori che vediamo da quassù, scegliamo piuttosto dei nomi che ricordino la loro particolare configurazione. Si imprimeranno meglio nella nostra memoria, e saranno più pratici. La conformazione di quest'isola è già abbastanza strana perché noi si debba lavorare di fantasia per cercare dei nomi immaginari. Che cosa ne dite, amici?

Tutti furono dell'avviso dell'ingegnere; e venne deciso che Spilett avrebbe segnato sul suo schizzo i nomi man mano che venissero scelti e accettati.

Si battezzarono prima la baia dell'Unione, la baia Washington e il monte Francklin.

- E adesso - disse il giornalista - io proporrei di dare a quella penisola che si allunga nell'oceano il nome di penisola Serpentina, e quello di Rettile alla coda ricurva che la termina.

- Adottato - fece l'ingegnere.

- Adesso, a quel golfo che somiglia a una mascella semiaperta, darei il nome di golfo dello Squalo, - disse Harbert.

- Ben trovati - esclamò Pencroff. - Completerei quella parte dell'isola, chiamando Capi Mandibola le due estremità di quel golfo.

- Ma i capi sono due...

- E allora, Mandibola nord e Mandibola sud.

- Li ho già scritti sul disegno - fece Spilett.

- Ci resta da battezzare la punta all'estremità sud-occidentale dell'isola.

- L'estremità, cioè, della baia dell'Unione...

- Capo dell'Artiglio - propose Nab, che voleva essere lui pure padrino di qualche parte dell'isola. E, in verità, aveva trovato un nome eccellente, perché quel capo raffigurava esattamente l'artiglio potente di quel gigantesco animale mostruoso che pareva l'isola sotto gli occhi dei «coloni».

Divertiti a quel giuoco, andarono a gara a trovare altri nomi per le altre parti dell'isola già conosciute; e così venne chiamato Fiume della Grazia il corso d'acqua che forniva loro l'acqua da bere; isola della Salvezza l'isolotto dove i naufraghi avevano posto il piede all'atto della loro caduta; altipiano della Bella Vista il terrazzo naturale al di sopra della muraglia di granito; e poi foreste del Far West, tutti quei boschi che dilagavano per due terzi dell'isola.

Insomma, tutto era ormai fatto, e già stavano per mettersi in cammino per scendere, quando Pencroff esclamò:

- Ma sapete che siamo dei famosi storditi, noi!

- E perché mai? - chiese Gedeone Spilett.

- Ma... e la nostra isola? Ci siamo dimenticati di battezzarla!

Harbert propose subito di chiamarla col nome dell'ingegnere, e tutti avrebbero applaudito, ma Cyrus disse semplicemente:

- Chiamiamola col nome di un grande cittadino, amici miei: come di colui che lotta oggi per difendere l'unità della repubblica americana.

Chiamiamola isola Lincoln!

Tre evviva accolsero le parole dell'ingegnere. E quella sera, prima di addormentarsi, i nuovi coloni parlarono del loro Paese lontano; parlarono di quella terribile guerra che lo insanguinava. Essi erano sicuri che il sud sarebbe stato presto sconfitto, e che la causa del nord, la causa della giustizia, avrebbe finito col trionfare, in virtù di Grant, in virtù di Lincoln.

Era la sera del 30 marzo 1865; ed essi non potevano sapere che, sedici giorni dopo, uno spaventoso delitto sarebbe stato commesso a Washington e che, il giorno del venerdì santo, Abramo Lincoln sarebbe caduto sotto le pallottole di un fanatico.




CAPITOLO 12


L'indomani, 18 febbraio, venne esplorata tutta la parte boscosa che formava il litorale del promontorio del Rettile alla fine della Cascata. Si trattava di una foresta larga da tre a quattro miglia, che venne frugata a fondo, fra una costa e l'altra della penisola. Gli alberi erano altissimi e stupendi, così da ricordare le foreste vergini d'Africa e d'America. Ma lo scopo dei coloni non era quello di ammirare e studiare le bellezze vegetali della zona. Essi sapevano che la loro bella isola, degna di poter figurare accanto alle Canarie, il cui primo nome era stato quello di isole Fortunate, non apparteneva più soltanto a loro, ma che altri ne avevano preso possesso, un gruppo di scellerati che bisognava distruggere senza pietà.


Lungo tutta la costa occidentale, non vennero trovate tracce di sorta.


- Non mi stupisce - osservò Cyrus. - I banditi sono scesi sull'isola nei dintorni della Punta del Rottame, e di là si sono subito cacciati nelle foreste del Far West, dopo aver traversato gli stagni dell'Anitra. Devono aver seguito press'a poco la strada che abbiamo fatto noi lasciando il Palazzo di Granito. E difatti vi abbiamo trovato numerose tracce del loro passaggio. Ma, giunti sulla costa, devono avere capito che non ci sarebbe stata più per loro una via di ritirata opportuna, e allora sono risaliti verso settentrione, scoprendo così il nostro recinto.


- Dove, forse, a quest'ora, sono ritornati... - osservò il marinaio.


- Non lo credo - fece l'ingegnere. - Devono ben immaginare che le nostre ricerche ci porteranno là. Il recinto non dev'essere per loro che un luogo dove rifornirsi, non un accampamento definitivo.


- Anch'io sono del vostro avviso, Cyrus - disse il giornalista. Secondo me, è tra i contrafforti del monte Franklin che avranno cercato e trovato un rifugio.


- E allora, signor Cyrus, andiamo al recinto - fece Pencroff. Bisogna finirla e fin qui abbiamo perduto il nostro tempo.


- No, amico mio. Voi dimenticate che noi desideravamo sapere anche se le foreste del Far West celavano qualche abitazione. Non dimentichiamoci mai che la nostra esplorazione ha un duplice scopo.


Se, da una parte, noi dobbiamo punire un delitto, dall'altro abbiamo un dovere di riconoscenza da assolvere.


- Giusto, signor Cyrus - consentì il marinaio. - Aggiungerò, da parte mia, che noi non troveremo quel fior di gentiluomo se non quando e dove lui vorrà.


Pencroff, così dicendo, non faceva che esprimere l'opinione di tutti.


Era infatti probabile che il rifugio del loro protettore fosse altrettanto misterioso del suo abitatore.


Quella sera, il carro si fermò alla foce del fiume della Cascata. Si pose l'accampamento e si organizzò il servizio di guardia come le altre notti. Harbert, tornato il giovanotto gagliardo di prima, rifioriva sotto quelle foreste, all'aria salubre del mare, sotto i caldi raggi del sole. Oramai, non viaggiava più sul carro, ma camminava in testa alla colonna.


L'indomani, 19 febbraio, i coloni risalirono il corso della Cascata sulla sua riva sinistra. Erano a circa sei miglia dal monte Franklin.


Cyrus progettava di scandagliare attentamente la valle e arrivare cautamente al recinto; se l'avessero trovato occupato, avrebbero dato senz'altro l'assalto ai banditi; se non lo era, i coloni ne avrebbero fatto il centro delle loro operazioni e delle loro ricognizioni lungo i contrafforti della montagna.


Ci si incamminò lungo la stretta valle fra i due più potenti contrafforti del monte Franklin. Era un terreno montuoso, accidentato, propizio alle imboscate, e lungo il quale si avventurarono prendendo tutte le misure di precauzione possibili: Top e Jup facevano da esploratori, rivaleggiando in agilità e intelligenza. Niente però indicava che quella valletta fosse già stata percorsa e verso le cinque di sera il carro si fermava a circa seicento metri dalla palizzata del recinto.


Si trattava di riconoscere se era o meno occupato. Andarci apertamente, in piena luce, per poco che i banditi vi fossero annidati, voleva dire esporsi imprudentemente a ricevere qualche fucilata. Meglio dunque aspettare che fosse scesa la notte. Ma Spilett era ansioso di fare una ricognizione, e Pencroff si offrì di accompagnarlo.


- Abbiate pazienza, amici - disse Cyrus. - Aspettate la notte. Io non posso permettere che uno di voi si esponga così, in piena luce del giorno.


- Ma, signor Cyrus... - tentò di obiettare il marinaio, poco disposto a obbedire.


- Pencroff, ve ne prego - ripeté l'ingegnere; e il marinaio si arrese, accontentandosi di scagliare contro i pirati tutte le pittoresche ingiurie del suo vocabolario di marinaio.


I coloni restarono così attorno al carro, sorvegliando attentamente la palizzata e la foresta. Passarono così tre ore. Non c'era più vento, un silenzio assoluto regnava sotto le volte degli alberi. Tutto era tranquillo. Del resto, Top, sdraiato sull'erba, il muso allungato sulle zampe, non dava alcun segno di inquietudine.


Alle otto, la sera parve già abbastanza avanzata perché si potesse effettuare la progettata ricognizione. Spilett e Pencroff si prepararono a partire. Cyrus, Harbert e Nab sarebbero rimasti al carro, con Top e Jup. L'ingegnere fece qualche raccomandazione:

- Non arrischiatevi imprudentemente. Ricordatevi che non dovete impadronirvi del recinto, ma soltanto accertare se è occupato o no.


- D'accordo - fece Pencroff.


E i due partirono.


Sotto gli alberi c'era già una discreta oscurità. Il giornalista e il marinaio procedevano con estrema cautela, camminando un poco discosti l'uno dall'altro onde non offrire grande bersaglio ad eventuali sparatori; e, in realtà, si aspettavano sempre di sentire qualche detonazione. Dopo cinque minuti, erano sull'orlo della foresta, davanti allo spiazzo in fondo al quale sorgeva la palizzata. Si fermarono. Un po' di luce bagnava ancora l'erba del prato. La porta del recinto era a circa trenta passi da loro, e pareva chiusa. Ma quei trenta passi da fare, fra il bosco e la porta, completamente allo scoperto, costituivano la zona pericolosa. Sarebbe bastato che qualcuno sparasse dall'alto della palizzata, perché nessuno potesse impunemente traversare quel breve tratto di prato.


Spilett e Pencroff non erano certamente uomini da arrestarsi davanti a quella difficoltà; ma sapevano anche che un'imprudenza da parte loro, della quale sarebbero poi rimasti le prime vittime, sarebbe ricaduta anche sopra i loro compagni. Senonché Pencroff, eccitato dal sentirsi vicino al recinto dove sperava di fare le sue vendette, stava già per slanciarsi, quando il giornalista lo trattenne:

- Tra pochi minuti sarà notte profonda, e sarà allora il momento di agire.


Pencroff, con un lungo sospiro si contenne, e attese, borbottando maledizioni.


Presto le ultime luci del crepuscolo si spensero; l'ombra, che pareva uscire dalla foresta, dilagò sul prato. Il monte Franklin si drizzava come un nero schermo contro il cielo turchino. L'oscurità fu presto completa. Era il momento buono per avanzare.


Spilett e Pencroff, tenendosi per mano, cautamente, strisciarono allora verso la palizzata e arrivarono alla porta del recinto. Il marinaio cercò di spingerla, ma era chiusa. Pencroff poté però appurare che i catenacci esterni non erano stati tirati. Si poteva dunque pensare che i banditi occupassero il recinto, e che avessero ben chiusa la porta dall'interno.


Tesero l'orecchio, ma nessun rumore proveniva dall'interno. Mufloni e capre, addormentati nelle loro stalle, non turbavano per nulla la calma della notte. Scalare la palizzata e penetrare nel recinto?

Sarebbe stato contrario alle istruzioni date dall'ingegnere.


L'operazione poteva riuscire, d'accordo; ma poteva anche fallire. Ora, se i banditi non dubitavano di nulla; se non avevano il più piccolo sospetto di quello che si stava preparando contro di loro; se, insomma, esisteva in quel momento una possibilità di sorprenderli, si doveva pregiudicare quella possibilità dando la scalata alla palizzata imprudentemente?

Il giornalista credette meglio attendere e tentare l'impresa tutti insieme. Era intanto assodato che si poteva arrivare fino alla porta del recinto senza essere scorti e che la palizzata non era affatto vigilata. Appurati questi due punti, potevano tornare al carro.


Anche Pencroff fu dello stesso avviso, almeno Spilett lo pensò non sentendo il suo focoso compagno fare obbiezioni di sorta. E qualche minuto dopo Cyrus era messo al corrente dei risultati della ricognizione.


- Ebbene - fece l'ingegnere dopo un poco di riflessione - io sono convinto che i banditi non si trovano nel recinto.


- Lo sapremo quando avremo dato la scalata al recinto - disse Pencroff.


- Andiamoci, amici! - esclamò Cyrus.


- Il carro lo lasciamo nella foresta? - chiese Nab.


- No; è il nostro furgone delle munizioni e dei viveri; se occorre, ci servirà da trincea.


- Avanti allora - disse Spilett.


Il carro uscì dal bosco e cominciò a rotolare sull'erba, senza rumore, verso la palizzata. Il buio era fitto, il silenzio assoluto. Pencroff e il giornalista erano davanti, strisciando sull'erba. I coloni erano pronti a far fuoco, Jup chiudeva la marcia e Nab tratteneva al guinzaglio Top perché non balzasse avanti.


In pochi istanti venne traversata la zona pericolosa e scoperta, il carro si fermò davanti alla porta. Cyrus, Spilett, Harbert e Pencroff, mentre Nab restava accanto ai due asini, si accinsero a forzare la porta... Ma uno dei battenti era aperto!

- Ma non mi avevate detto che?... - chiese Cyrus a Spilett e al marinaio.


I due guardavano stupefatti.


- Sul mio onore - fece il marinaio - questa porta, poco fa, era tutta chiusa!

I coloni allora esitarono. Che i banditi fossero stati nel recinto, mentre il giornalista e Pencroff facevano la loro ricognizione? Non poteva che essere così, dal momento che quella porta non poteva che essere stata aperta da loro. Ma vi si trovavano ancora oppure ne erano usciti? O ne era uscito uno solo?

Mentre i coloni stavano ponendosi quelle domande, Harbert, che aveva fatto alcuni passi dentro il recinto, ne tornò tutto agitato e disse:

- C'è una luce!

- Nella casa?

- Sì!

Tutti e cinque entrarono nel recinto, guardarono. Sì, attraverso i vetri della finestra in faccia alla porta, si vedeva tremare una debole luce.


Cyrus prese subito una decisione.


- E' una vera fortuna trovare i banditi in casa, mentre non si aspettano affatto il nostro attacco. Sono nelle nostre mani! Avanti!

I coloni scivolarono nel recinto, il fucile pronto. Il carro era stato lasciato fuori, con Top e Jup, attaccati a una stanga perché non compromettessero l'impresa. Cyrus, Pencroff e Spilett da una parte, Harbert e Nab dall'altra, rasentando la palizzata, si avvicinarono piano piano alla casa di legno, e si fermarono davanti alla porta, che era chiusa. Cyrus allora, fatto segno ai compagni di non muoversi, si avvicinò al vetro e guardò nella stanza. Sul tavolo brillava una lanterna accesa, accanto al tavolo stava la cuccetta che serviva da letto ad Ayrton, e su quella cuccetta era steso il corpo di un uomo!

A un tratto Cyrus fece un passo indietro ed esclamò con voce soffocata: - Ayrton!

Subito i coloni spalancarono la porta, piombarono nella stanza.


Ayrton pareva addormentato, ma il suo viso dimostrava che aveva sofferto a lungo e duramente, e intorno ai suoi polsi e alle sue caviglie si vedevano cicatrici profonde.


Cyrus si curvò su di lui e lo chiamò, prendendolo leggermente per un braccio.


Ayrton aprì gli occhi, guardò l'ingegnere, gli altri, e gridò:

Voi?!... Voi?!...


- Ayrton! Ayrton! - ripeté Cyrus commosso.


- Ma dove sono?

- Nella casa del recinto!

- Solo?

- Sì... con noi...


- Ah, ma essi torneranno!... Difendetevi! Difendetevi!

E Ayrton ricadde spossato.


- Spilett - disse allora l'ingegnere. - Possiamo essere attaccati da un momento all'altro. Fate entrare il carro nel recinto, barricate la porta, e poi ritroviamoci tutti qui.


Pencroff, Nab e il giornalista si affrettarono a eseguire gli ordini dell'ingegnere. Non c'era un minuto da perdere. In un attimo attraversarono il recinto e furono alla porta, dietro alla quale si sentiva Top brontolare minacciosamente. Cyrus e Harbert, lasciato Ayrton, uscirono coi loro fucili e sorvegliarono la cresta del contrafforte che dominava il recinto, dove potevano essersi imboscati i banditi. In quel momento, la luna apparve sopra il nero sipario della foresta, e una candida luce inondò il recinto, coi suoi ciuffi d'alberi, il ruscello che lo attraversava e il soffice tappeto di erbe. Quasi subito entrò il carro, si udì il rumore della porta che veniva sprangata. Ma, proprio in quel momento, Top, rompendo con uno strappo la corda che lo teneva legato al veicolo, si slanciò verso il fondo del recinto abbaiando furiosamente.


- Attenti, amici! - gridò Cyrus. - Pronti coi fucili!

I coloni avevano puntato i loro fucili. Top abbaiava sempre, Jup, che aveva raggiunto il cane, fischiava minacciosamente. I coloni mossero, guardinghi, verso i due animali e arrivarono sulla riva del ruscello, all'ombra degli alberi. E là, illuminati in pieno dalla luna, che cosa videro mai?

Cinque corpi distesi sull'erba. Erano quelli dei banditi che, quattro mesi prima, erano sbarcati sull'isola Lincoln.




CAPITOLO 13


Che cosa era successo? Chi aveva colpito i banditi? Ayrton forse? Non era possibile, poiché, un momento prima, aveva mostrato di paventare il loro ritorno. D'altro canto, Ayrton, dopo quelle poche parole pronunciate, era piombato in assopimento profondo, e i coloni, turbati da mille pensieri, attesero tutta la notte nella casa di legno, senza nemmeno tornare sul posto dove giacevano morti i pirati. Sapevano, è vero, che nemmeno Ayrton avrebbe potuto chiarire il mistero, dal momento che non sapeva nemmeno di essere nel recinto; ma avrebbe raccontato quanto gli era accaduto, quanto era accaduto prima di quella catastrofe.


L'indomani, infatti, Ayrton, usciva dal suo torpore, accoglieva commosso le testimonianze di esultante affetto dei coloni e, in poche parole, raccontava tutto quello che sapeva.


L'indomani del suo ritorno al recinto, e precisamente il 10 novembre, sul cader della notte, era stato sorpreso dai banditi che avevano dato la scalata al recinto. Fu legato e imbavagliato e trasportato in un'oscura caverna, al piede del monte Franklin, che serviva di rifugio ai ribaldi. La sua morte era già stata decisa, quando uno di essi lo riconobbe e lo chiamò col nome che Ayrton portava quando era in Australia. I miserabili che volevano trucidare Ayrton, rispettarono Ben Joyce. Ma da quell'istante, Ayrton fu in preda alle crudeli insistenze dei suoi antichi compagni che volevano a tutti i costi che egli tornasse con loro e contavano su di lui per impadronirsi dell'inaccessibile Palazzo di Granito, sterminare i coloni e diventare indisturbati signori dell'isola. Ma Ayrton tenne duro, e si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che tradire i suoi compagni. Sempre legato e imbavagliato, stette quattro mesi in quella caverna. Intanto, i banditi, che nel recinto avevano trovato riserve abbondanti, vivevano di quelle, ma non stavano nel recinto. L'11 novembre, due di loro, essendo tornati al recinto, spararono su Harbert; uno di essi tornò nella caverna assicurando di avere ucciso un colono; ma era solo. Il suo compagno era stato freddato dall'ingegnere. Figuriamoci l'inquietudine e la disperazione di Ayrton quando apprese la morte del ragazzo. I coloni ormai erano soltanto in quattro e, per così dire, alla mercé dei banditi. Per tutto il tempo che i coloni restarono al recinto a curare Harbert, i pirati non abbandonarono la loro caverna, muovendosi soltanto per saccheggiare la Bella Vista. Ma i maltrattamenti inflitti ad Ayrton allora raddoppiarono. I suoi legami vennero ancor più stretti, e i suoi polsi e le sue caviglie ne portavano le sanguinose impronte. A ogni minuto, si aspettava d'essere ucciso... Si arrivò così alla terza settimana di febbraio. I banditi, sempre in attesa di un'occasione favorevole, lasciavano assai di rado la caverna e solo per qualche escursione di caccia. Ayrton non aveva più notizie dei suoi amici, e ormai disperava di mai più rivederli. Un giorno, sfinito per i continui maltrattamenti, cadde in una profonda prostrazione, non vide, non udì più nulla. Da allora, ed erano trascorsi più di due giorni, non sapeva assolutamente quello che era accaduto.


- Ma come mai - chiese all'ingegnere - come mai, da quella caverna dov'ero tenuto prigioniero, sono arrivato fino al recinto?

- E come mai - gli replicò l'ingegnere - come mai i banditi sono là, morti, sull'erba, in mezzo al recinto?

- Morti?! - gridò Ayrton sollevandosi a sedere, nonostante la grande stanchezza, sul lettuccio.


Poi volle alzarsi, e, sostenuto dai coloni, uscì per vedere. Era ormai giorno. E là, sulla riva del ruscello, nella posizione dove li aveva sorpresi una morte indubbiamente folgorante, giacevano i cinque banditi.


Ayrton sembrava atterrito. Nab e Pencroff, a un ordine di Cyrus, visitarono quei cadaveri. Apparentemente, non portavano alcun segno di ferita; ma, dopo un esame più attento, il marinaio scoprì sulla fronte di uno, nel petto di un altro, sulla schiena di quello, sulla spalla di questo, un puntolino rosso, una specie di contusione appena visibile e di cui non si poteva assolutamente riconoscere l'origine.


- E' là che sono stati colpiti! - disse Cyrus.


- Ma con quale arma? - chiese il giornalista.


- Un'arma che fulmina e che noi ignoriamo.


- Ma chi li avrà così fulminati? - domandò il marinaio.


- Il giustiziere dell'isola - rispose Cyrus. - Colui che vi ha trasportato qui, Ayrton; colui che ancora una volta ha esercitato la sua influenza; colui che fa per noi tutto quello che noi non possiamo fare e che, dopo aver agito, si nasconde agli occhi nostri.


- Cerchiamolo! - proruppe Pencroff.


- Sì, cerchiamolo - fece Cyrus. - Ma l'essere superiore che compie questi prodigi noi non lo potremo mai trovare fino a quando egli stesso non ci chiami a lui! Noi cerchiamolo; e Dio voglia che ci sia concesso un giorno di dimostrare a questo alto protettore disdegnoso che non siamo degli ingrati. Ah, che cosa non darei io per potermi sdebitare con lui, restituendogli, sia pure a prezzo della vita, un qualsiasi servizio!

Da quel giorno, la ricerca dell'ignoto benefattore fu la sola preoccupazione dei coloni...


Poco dopo, tutti rientravano nella casa di legno, dove vennero prodigate ad Ayrton tutte le cure possibili, mentre Nab e Pencroff, trasportati i cinque cadaveri nella foresta, li seppellivano in fosse profonde. Poi Ayrton venne messo al corrente di tutto quello che era accaduto.


- E adesso, - concluse Cyrus - non ci resta che un dovere da compiere.


La metà del nostro dovere l'abbiamo compiuta; ma oggi, se non abbiamo più da temere i banditi, non lo dobbiamo a noi e all'opera nostra!

- Ebbene - esclamò Spilett - frughiamo tutto questo labirinto di contrafforti del monte Franklin! Guardiamo dentro tutte le grotte e tutti gli antri! Vi assicuro che mai giornalista al mondo si è trovato alla presenza di un mistero così affascinante.


- Non torneremo al Palazzo di Granito - disse Harbert - prima di aver trovato il nostro benefattore!

- Sì, noi faremo tutto quello che è umanamente possibile fare affermò Cyrus; - ma vi ripeto che non lo troveremo se non quando egli vorrà.


- Allora, restiamo al recinto? - chiese Pencroff.


- Restiamoci pure - disse l'ingegnere. - Le provviste vi sono abbondanti, e qui siamo proprio nel centro delle nostre investigazioni. E del resto, se è necessario, il carro può tornare al Palazzo di Granito.


- Vorrei fare un'osservazione - disse il marinaio.


- E cioè?

- Cioè che siamo nella bella stagione, e non dobbiamo dimenticare che abbiamo una traversata da fare.


- Una traversata? - chiese Spilett.


- Quella dell'isola Tabor. E' pur necessario portarci la notizia che Ayrton è qui e far conoscere la posizione della nostra isola, nel caso che la nave di lord Glenarvan torni. A meno che non sia già troppo tardi...


- Ma, Pencroff - domandò l'ingegnere - e come vorreste fare questa traversata?

- Tò! Sul "Bonaventura"!

- Il "Bonaventura"! - gridò Ayrton. - Non c'è più, il "Bonaventura"!

- Non c'è più? - urlò Pencroff balzando in piedi.


- No. I banditi l'hanno trovato nel suo porticciolo, otto giorni fa, hanno preso il mare, e...


- E...?

- ... e, non avendo più Bob Harvey per manovrarlo, sono finiti contro gli scogli dove la barca si è fracassata.


- Ah, miserabili! Banditi! Farabutti! - gridò esasperato il marinaio.


- Pencroff - gli fece Harbert - calmati! costruiremo un'altra barca, e più grande. Abbiamo tutti i ferri e le attrezzature del brigantino a nostra disposizione!

- Già, ma ci vorranno almeno cinque o sei mesi per costruire un'imbarcazione di trenta o quaranta tonnellate!

- Beh, avremo pazienza, e rimanderemo la traversata al prossimo anno - disse Spilett.


- Bisognerà rassegnarsi, Pencroff mio - aggiunse l'ingegnere.


Speriamo soltanto che tanto ritardo non sia di grave pregiudizio ad Ayrton.


- Ah, il mio "Bonaventura"! Il mio povero "Bonaventura"! andava ripetendo Pencroff addirittura annientato per la perdita della sua cara barca, della quale era tanto fiero.


La perdita della barca era certamente incresciosa, e fu deciso di ricostruirne una seconda al più presto possibile. Intanto, però, si doveva portare a buon fine l'esplorazione delle più segrete zone dell'isola.


Quello stesso giorno, 19 febbraio, furono iniziate le ricerche, e durarono un'intera settimana. La base del monte, i suoi contrafforti e le numerose ramificazioni formavano un vasto labirinto di vallette e contravvallette disposte capricciosamente. Era là, o forse addirittura nelle viscere stesse della montagna che bisognava cercare, perché nessuna zona dell'isola si prestava come quella a dei nascondigli perfetti.


I coloni visitarono prima di tutto la valle che si apriva a sud del vulcano e raccoglieva le prime acque del fiume della Cascata. Fu là che Ayrton mostrò ai compagni la caverna nella quale s'erano rifugiati i banditi e dove egli era stato tenuto prigioniero per tanto tempo. La caverna era nelle stesse condizioni nelle quali l'aveva lasciata Ayrton, e ci si trovò una discreta quantità di munizioni e di viveri, che i banditi avevano portato via dal recinto.


La valle era ombreggiata da grandi alberi, soprattutto conifere, e fu esplorata con estrema attenzione. A un certo punto, la valletta si stringeva, diventava una gola dove gli alberi si facevano più radi e l'erba veniva sostituita dalle pietre. Fra tutte le valli che si staccavano dalla montagna, tre sole erano boscose, ricche di pascoli e di ruscelli. Evidentemente, in una di queste valli, un uomo avrebbe potuto benissimo nascondersi, sicuro di trovarvi tutto quanto è necessario per la vita. Ma i coloni le avevano frugate tutt'e tre e non vi avevano trovato nessun indizio che indicasse la possibile presenza di un uomo.


La zona settentrionale del monte, si spaccava in due valli larghe, poco profonde, aride, seminate di blocchi erratici. Fu una zona difficile da esplorare, perché innumerevoli erano le grotte e le anfrattuosità, assai ben nascoste e dal difficile accesso. Ma i coloni le visitarono a una a una, si cacciarono in oscuri budelli d'origine vulcanica, illuminandosi la strada ardua con rami resinosi infiammati.


E dappertutto, il silenzio e l'oscurità. Non pareva che un essere umano avesse mai posto il piede in quei sotterranei tenebrosi, avesse mai toccato quelle pietre annerite da antichi fuochi.


Eppure, se in quelle viscere dell'isola il deserto era assoluto e assoluta l'oscurità, Cyrus dovette convenire che non altrettanto assoluto era il silenzio. Infatti, giunto alla fine di una di quelle gallerie, lunga un centinaio di metri, egli fu meravigliato di udire dei sordi brontolii che la sonorità della roccia rendeva anche più percettibili. Anche Spilett, che lo accompagnava, li udì perfettamente; e a più riprese tutt'e due si fermarono e tesero ansiosamente l'orecchio. Furono infine d'accordo nel ritenere che qualche gigantesca reazione chimica stesse elaborandosi nelle viscere del monte Franklin.


- Che il vulcano non sia spento del tutto? - chiese il giornalista.


- E possibile che dopo la nostra escursione nel cratere rispose l'ingegnere - qualche cosa sia avvenuto negli strati inferiori. Ogni vulcano, per quanto spento sia, può riprendere la sua attività.


- Ma se si preparasse un'eruzione del Franklin, non credete che ci sarebbe pericolo per la nostra isola?

- Non lo credo, Spilett. Il cratere c'è, ed è ampio, e io penso che lave e vapori sfuggirebbero per le antiche strade.


- A meno che non se ne aprano delle nuove verso le zone fertili dell'isola.


- Ma perché non dovrebbero seguire il cammino del passato?

- Mah! I vulcani sono capricciosi!

- Ma osservate che l'inclinazione del monte favorisce lo scendere delle lave proprio verso quelle aride valli che stiamo ora esplorando.


Ci vorrebbe un terremoto per alterare il centro di gravità della montagna e, di conseguenza, il deflusso delle eruzioni vulcaniche.


- Un terremoto non è forse probabile in queste condizioni?

- Ah, questo sì: soprattutto quando le forze sotterranee cominciano a risvegliarsi e non trovano lo sfogo necessario perché le vie d'uscita sono bloccate da secoli. Ci si può allora domandare se un'eruzione del vulcano del Franklin non debba rappresentare per noi un fatto assai grave. Ma che cosa ci possiamo fare? Niente. E allora... Comunque, non credo che il nostro dominio della Bella Vista possa essere minacciato sul serio. Fra quell'altipiano e la montagna il terreno forma un avvallamento considerevole e, nel caso poco probabile che le lave prendano la strada del lago, verrebbero poi rovesciate sulle dune e nella zona del golfo dello Squalo.


- Però, non s'è visto ancora sulla cima del monte nessun filo di fumo che indichi la prossimità di un'eruzione.


- No; dal cratere non sfugge alcun vapore. E' però possibile che sul fondo di quell'imbuto, il tempo abbia accumulato delle rocce, delle ceneri, delle lave indurite che facciano provvisoriamente da tampone.


Ma è anche probabile che al primo sforzo serio, ogni ostacolo venga divelto. No, mio caro Spilett, state pur sicuro che né la montagna, che è la ciminiera, né l'isola che è la caldaia, non salteranno sotto la pressione del gas. Naturalmente torno a ripeterlo, sarebbe assai meglio che non avvenissero eruzioni.


- Eppure, sentite? Non ci inganniamo! Questi sono dei sordi boati che scuotono le viscere stesse della montagna.


- Già - ammise Cyrus, che ascoltava con grande attenzione. - Non è possibile ingannarsi. Laggiù sta verificandosi una reazione della quale non possiamo calcolare né l'importanza né gli effetti possibili.


Usciti dalla galleria, Cyrus e Spilett comunicarono ai compagni le loro osservazioni.


- Ah sì? Questo signor vulcano vuol farne una delle sue? esclamò Pencroff. - Faccia pure. Troverà chi lo serve a dovere.


- E chi mai?

- Il nostro genio, che diamine. Penserà lui a imbavagliare il cratere di questo maleducato d'un monte!

La fiducia del marinaio nel genio protettore dell'isola era infinita, e d'altra parte, la potenza di cui egli aveva dato prova anche recentemente era fuori dell'ordinario. Intanto, però, sfuggiva ostinatamente a tutte le più minuziose ricerche che, dal 19 al 25 febbraio, ebbero come teatro la regione settentrionale dell'isola.


Cyrus non lasciò un angolo inesplorato; salì fino alla sommità del monte, penetrò una seconda volta nel cratere ancora perfettamente spento ma nelle cui profondità si udirono i sordi boati e i brontolii che s'erano avvertiti nel sotterraneo. Ma nessuna traccia dell'ignoto protettore! Con la stessa cura e la stessa tenacia vennero esplorate le dune, poi le alte muraglie d'origine vulcanica del golfo dello Squalo. Nulla! Nessuno! Cyrus e i suoi compagni ne erano avviliti e arrabbiati al tempo stesso. Ma fu necessario pensare al ritorno, perché quelle ricerche non potevano certo durare eternamente. D'altro canto, i coloni cominciarono a credere che il misterioso genio non abitasse alla superficie dell'isola; e questo pensiero stimolò le fantasie di ognuno. Pencroff e Nab, i più semplici, lasciarono, con la loro immaginazione, la realtà e si lasciarono portare nell'irreale...


Il 25 febbraio i coloni ritornavano al Palazzo di Granito e un mese dopo, esattamente, salutavano il terzo anno della loro permanenza nell'isola Lincoln.




CAPITOLO 14


Erano trascorsi tre anni da quando i prigionieri di Richmond erano fuggiti, e quante, quante volte, in quei tre anni, avevano parlato della Patria, sempre presente ai loro cuori! Essi non mettevano in dubbio che ormai la guerra civile fosse finita e che la giusta causa del Nord avesse trionfato. Ma quali erano mai stati gli episodi di quella terribile guerra? Quanto sangue era mai costata? Quali amici erano caduti? Parlando di queste cose, non riuscivano a immaginare il giorno in cui avrebbero potuto rivedere il loro Paese. Tornarci, non fosse che per qualche giorno; rinnovare i legami col mondo sociale; stabilire una comunicazione fra la loro Patria e la loro isola; e poi tornare a trascorrere il più gran tempo possibile qui, su questa terra consacrata dai loro sforzi e che avrebbero offerto in dono alla Confederazione... Era dunque un sogno irrealizzabile? Non c'erano che due possibilità di realizzarlo: o, un giorno, una nave giungerebbe nelle acque dell'isola Lincoln, oppure i coloni stessi costruirebbero una imbarcazione sufficientemente robusta per sfidare il mare e una lunga traversata.


- A meno che - suggeriva Pencroff - il nostro genio protettore non ci dia lui stesso i mezzi per rimpatriare.


E infatti se si fosse detto al marinaio e a Nab che una nave di trecento tonnellate aspettava nel golfo dello Squalo o al Porto Pallone, non avrebbero fatto il più piccolo gesto di sorpresa. Da quell'ignoto protettore, essi si aspettavano tutto.


Ma Cyrus, meno fiducioso, li richiamava alla realtà, e fu messa in discussione la costruzione di una nuova imbarcazione per potere, il più presto possibile, portare nell'isola Tabor, nella casa dove aveva abitato Ayrton, un documento che spiegasse ogni cosa; ma, sparito il "Bonaventura", ci volevano almeno sei mesi per costruire una grande barca. Ora, l'inverno era alle porte, e la traversata non si sarebbe potuta fare, comunque, prima della bella stagione.


- Abbiamo dunque il tempo di prepararci per la bella stagione disse un giorno Cyrus a Pencroff. - Io penso, amico mio, che, se noi dobbiamo ricostruire una barca, sia meglio farla di proporzioni maggiori dell'altra. L'arrivo del panfilo di lord Glenarvan all'isola Tabor è problematico; senza contare che può essere già arrivato ed essere ripartito poi, senza avere trovato traccia alcuna di Ayrton. E allora, non sarebbe meglio costruire un'imbarcazione che, se necessario, sia in grado di portarci fino agli arcipelaghi della Polinesia o alla Nuova Zelanda? Che ne dite, voi?

- Io dico che se voi vi ci mettete, ne potete costruire una grandissima, come una piccola. Non ci manca né il legname, né tutta l'attrezzatura necessaria. Non è che una questione di tempo.


- E quanti mesi ci vorranno, secondo voi, per costruire una nave di due o trecento tonnellate?

- Almeno sette od otto mesi - rispose il marinaio. - Però, non bisogna dimenticare che l'inverno è qui e che, coi grandi freddi, il legno è difficile da lavorare. Bisogna dunque contare su qualche settimana di forzato riposo. Insomma, se la nostra imbarcazione sarà pronta per il prossimo novembre, dovremmo reputarci molto fortunati.


- Benissimo. Sarebbe proprio l'epoca favorevole per una traversata sia all'isola Tabor sia a qualche terra anche più lontana - disse l'ingegnere.


- E allora, voi tracciate i vostri progetti. Gli operai sono pronti e io penso che Ayrton ci sarà molto utile in questa circostanza.


I coloni approvarono la decisione, e, del resto, era proprio quello che conveniva fare in quella stagione. Naturalmente, la costruzione di un'imbarcazione di due o trecento tonnellate di stazza era un'impresa assai gravosa; ma i coloni avevano tutta la ferma fiducia che i successi precedenti giustificavano pienamente.


Mentre Cyrus studiava i progetti, i suoi compagni abbattevano e preparavano gli alberi che dovevano servire alla costruzione. Furono le foreste del Far West che offrirono le querce più rigogliose. Gli alberi furono poi trasportati alla Camminata, dove venne stabilito il cantiere. Si rendeva a questo punto necessario tagliare subito e lasciare stagionare il legno, perché non lo si poteva usare verde: e i carpentieri lavorarono con fervore per tutto l'aprile. Jup li aiutava del suo meglio, sia arrampicandosi in cima agli alberi da abbattere per fissarvi le corde, sia che prestasse le sue gagliarde spalle per il trasporto dei tronchi.


Quel mese di aprile fu bello e sereno, come avviene spesso per l'ottobre delle zone boreali. Non furono nemmeno trascurati i lavori agricoli, e in breve ogni traccia delle devastazioni piratesche sparì dai coltivati della Bella Vista. Venne rifabbricato il mulino, riedificate le stalle, che ora ospitavano ben cinque asini, assai robusti. Ognuno dei coloni lavorava nel suo settore, la salute e il buon umore erano costanti e completi. Le serate trascorrevano lietissime, al Palazzo di Granito, piene di progetti e di sogni...


Naturalmente, Ayrton partecipava ormai pienamente all'esistenza comune, e non pensava più di andare a ritirarsi nel recinto. Talvolta, è vero, restava triste e silenzioso e si univa con più slancio ai lavori che ai lieti conversari della sera. Ma era un lavoratore gagliardo ed espertissimo, era stimato e ben voluto da tutti.


Il recinto non fu però trascurato. Ogni due giorni, uno dei coloni, col carro o in sella a uno degli asini, vi si recava per badare al gregge dei mufloni e delle pecore, e ne riportava il latte che veniva consegnato a Nab. In queste gite, la caccia aveva il suo posto principale. Per questo, Harbert e Spilett, più degli altri, accompagnati da Top, compivano la gita al recinto e, con gli eccellenti fucili dei quali ora disponevano, abbattevano sempre molti capi di selvaggina di pelo e di piuma. Avevano anche rimesso in efficienza la linea telegrafica, necessaria soprattutto quando il colono che s'era recato al recinto, giudicava meglio passarvi anche la notte. Del resto, ormai l'isola era perfettamente sicura, almeno per quello che riguardava gli uomini. Senonché, quanto era avvenuto, poteva anche ripetersi. C'era sempre da temere un'altra incursione di banditi. Poteva darsi che altri complici di Bob Harvey, ancora detenuti a Norfolk, riuscissero a fuggire, fossero al corrente dei progetti del loro compagno e intendessero seguirne le tracce. Per questo, i coloni non trascuravano mai di vigilare il litorale, di scrutare l'orizzonte del mare: di stare in guardia, in una parola.


Per questo, una sera Cyrus informò i compagni di un suo progetto a proposito del recinto. Egli intendeva fortificarlo, alzandone la palizzata e fiancheggiandola di alcuni fortini ben nascosti nell'erba.


Il Palazzo di Granito non dava preoccupazioni, data la sua posizione; mentre il recinto, con i suoi allevamenti, le sue stalle e i suoi pascoli, poteva sempre formare l'oggetto di un attacco da parte di pirati o di banditi.


Il 15 maggio, la chiglia della nuova imbarcazione si allungava già nel cantiere, e cominciavano a profilarsi le murate. La lunghezza dello scafo era di oltre trenta metri e la larghezza di oltre otto. Ma presto l'arrivo dei grandi freddi interruppe ogni lavoro. La fine di maggio fu contrassegnata da un tempo pessimo. Il vento soffiava con la violenza di un uragano, e Cyrus ebbe qualche inquietudine a proposito dei capannoni del cantiere. Per fortuna, però, non ci furono danni seri, e Pencroff e Ayrton, i più zelanti in quei lavori, continuarono fino al limite del possibile la loro attività nel cantiere. Ma verso il 10 giugno, il freddo s'era fatto così acuto che si dovette dare un addio al cantiere.


Cyrus aveva osservato già che i freddi invernali dell'isola Lincoln erano insolitamente rigidi.


- Di solito - spiegava ad Harbert - a latitudini uguali, le isole e le regioni costiere sono meno fredde delle contrade mediterranee. Per esempio, gli inverni nella pianura lombarda sono più rigidi che nella Scozia e questo perché il mare restituirebbe durante l'inverno una parte dei calori che ha assorbito durante l'estate. E allora, le isole si trovano nelle condizioni migliori per ricevere questi benefici influssi.


- Ma perché la nostra isola sfugge a questa legge? - chiese Harbert.


- Non saprei, figliolo. Forse, per la sua posizione nell'emisfero australe che, come sai, è più freddo di quello boreale.


- Infatti - osservò Harbert - i ghiacci si incontrano nel sud a latitudini più basse che nel nord del Pacifico.


- Quando facevo il baleniere - ricordò Pencroff - mi ricordo di aver visto delle montagne di ghiaccio perfino all'altezza del capo Horn.


- Si potrebbe allora spiegare il freddo della nostra isola disse Spilett - pensando a dei banchi di ghiaccio relativamente vicini.


- Credo anch'io che sia per questa ragione - fece Cyrus. Dev'essere la vicinanza della banchisa che fa così rigidi gli inverni nell'isola Lincoln.


Qualunque fosse la cagione di quei freddi, certo è che essi costrinsero i coloni a restare ben chiusi dentro il Palazzo di Granito. E chi soffriva di più di quella forzata reclusione era Spilett.


- Vedi - disse un giorno a Nab - io ti cederei volentieri, con atto notarile, tutte le eredità che mi toccheranno, un giorno, se tu fossi così bravo da andare a farmi un abbonamento ad un giornale qualunque.


Quello che manca alla mia felicità, è di non poter sapere, il mattino, quello che è capitato nel mondo nelle ventiquattro ore precedenti.


La colonia dell'isola Lincoln, a parte questa malinconia professionale di Spilett, era allora nella sua maggiore prosperità, dopo tre anni di lavori assidui e intelligenti. L'incidente del brigantino era stato una nuova fonte di ricchezza per i coloni. Senza parlare dell'attrezzatura navale che avrebbe servito alla nuova imbarcazione, i magazzini del Palazzo rigurgitavano di attrezzi, utensili, armi, munizioni, abiti, biancheria, strumenti dl ogni genere e tipo. Ormai non sarebbe più stato necessario confezionare il feltro che era servito sin lì a vestirli. I coloni potevano ormai sfidare impunemente il freddo dell'inverno, protetti com'erano dai pesanti abiti tratti dalla squarciata stiva dell'"Attivo". Quanto alla biancheria, ne avevano moltissima, e quella moltissima curavano in modo particolare.


Cyrus era riuscito a ottenere della soda e del cloro, che servirono per pulire e tener sempre candida la biancheria. Si facevano quattro grandi liscive all'anno e Pencroff e Spilett si dimostrarono dei lavandai d'eccezione.


Così trascorsero i mesi invernali, il luglio, l'agosto e il settembre.


Furono mesi freddissimi, durante i quali il termometro scese a oltre 13 gradi sotto zero; ma sul focolare del Palazzo scoppiettava sempre un'allegra fiammata, e il combustibile non faceva certo difetto!

Uomini e bestie, insomma, godevano di una salute eccellente. Il più freddoloso si mostrava mastro Jup; e fu necessario confezionargli una buona veste da camera ben ovattata. Ma con tutto questo, esso restava sempre quell'ammirevole servitore, zelante, svelto, infaticabile, discretissimo, punto chiacchierone, e lo si poteva con ragione proporre a esempio a tutti i suoi colleghi bipedi dell'uno e dell'altro emisfero.


Per tutto l'inverno, e durante il mese di settembre, non ci fu più alcun segno del genio protettore; vero è che la sua azione sarebbe stata inutile, perché non si verificò nessun incidente... C'era di più: che, per tutti quei mesi, Top non diede più nessun indizio di inquietudine a proposito del pozzo del Palazzo. Né il cane né lo scimmione provavano ormai la più piccola esitazione a passare accanto all'orifizio del pozzo. Ma bastava questo per distruggere ogni possibile enigma? Si poteva dire che ormai non si sarebbe più presentata circostanza di sorta nella quale il misterioso personaggio non dovesse ripresentarsi sotto forma di uno di quegli interventi miracolosi che lo avevano caratterizzato? Chi poteva presagire l'avvenire?

Finalmente, anche quell'inverno finì. E proprio nei primissimi giorni di primavera, si verificò un fatto che avrebbe potuto avere le più funeste conseguenze.


La mattina del 7 settembre, Cyrus, che era andato a guardare la cima del monte Franklin, vide un fumo che incoronava il cratere e saliva a perdersi in lente volute nell'aria.




CAPITOLO 15


Richiamati dall'ingegnere i coloni interruppero i loro lavori, e vennero a vedere. Il vulcano s'era dunque svegliato, e i vapori sotterranei avevano rotto il tampone minerale che ostruiva il fondo del cratere! Ma i fuochi sotterranei, avrebbero ora provocato qualche violenta eruzione? Ecco un'eventualità che non si poteva in alcun modo precisare. Anche ammettendo però l'eventualità di un'eruzione, era probabile che l'isola non ne dovesse gran che soffrire. Non è detto che la discesa delle lave sia sempre disastrosa. Già nel passato l'isola era stata provata da siffatta catastrofe, come lo documentavano le colate di lava che zebravano i pendii settentrionali del monte. E poi la forma del cratere, le spaccature aperte ai suoi orli dovevano convogliare le materie ignee dell'eruzione verso la zona opposta a quella fertile.


Senonché, quanto era accaduto in passato costituiva necessariamente una sicurezza per l'avvenire? Non è raro il caso che nei vulcani si formino nuovi crateri. Così era accaduto sull'Etna, al Popocatepelt, all'Orizaba. Alla vigilia di un'eruzione, si può temere tutto. Sarebbe bastato, in poche parole, un terremoto - fenomeno abbastanza frequente nelle convulsioni vulcaniche - perché la disposizione interna del monte si modificasse e nuove vie si aprissero alle lave incandescenti.


Cyrus spiegò tutte queste cose ai compagni e, senza esagerare, fece loro conoscere insomma tutto il pro e il contro. Del resto, non c'era niente da fare. Il Palazzo di Granito, eccetto il caso di un violento terremoto, non avrebbe dovuto essere minacciato. Viceversa, il recinto aveva tutto da temere se qualche nuovo cratere dovesse aprirsi in cima al monte Franklin.


Da quel giorno, il fumo non cessò un'ora dall'impennacchiare la cima del Franklin, anzi la colonna fumosa andò crescendo sempre più, senza peraltro che comparisse alcuna fiamma. Evidentemente, il fenomeno si limitava ancora agli strati inferiori del cratere. Intanto, i coloni continuavano alacremente nei loro lavori, soprattutto al cantiere dove Cyrus, valendosi dell'energia tratta dalla cascata, poté fabbricare una segheria idraulica che tagliò rapidamente e perfettamente i tronchi degli alberi. Così che verso la fine del settembre tutto lo scafo della nave era pronto sui suoi puntelli nel cantiere Era una vera e propria goletta, sottile a prua, che avrebbero attrezzato per una lunga traversata: e la cosa non era difficile perché, per fortuna, avevano potuto salvare quasi tutto il ferro del brigantino naufragato.


I lavori al cantiere dovettero essere interrotti una settimana per i lavori della mietitura e il trasporto delle messi al Palazzo. Ma poi tutte le giornate e tutte le ore di ogni giorno vennero consacrate al cantiere. Quando scendeva la notte, i coloni erano davvero estenuati, e si affrettavano al Palazzo di Granito per dormirvi sodo fino all'alba. Ma qualche volta, la conversazione, dopo cena, specie se si trattava un argomento appassionante, rubava loro qualche ora di sonno.


Parlavano dell'avvenire, di quello che avrebbe potuto portare un viaggio con la goletta sino a qualche terra abitata. Ma in tutte queste promettenti visioni di un avvenire ormai sicuro, dominava poi sempre l'idea di tornare all'isola Lincoln. Mai essi avrebbero consentito ad abbandonare per sempre quella piccola terra, quella colonia che avevano fondato e curato con tanto amore e tanta passione e alla quale una possibile comunicazione con l'America avrebbe assicurato un meraviglioso avvenire. Pencroff e Nab, anche, contavano di finirci in pace i loro giorni.


- E tu, Harbert - chiedeva il marinaio - ti sentiresti forse di abbandonare la nostra isola?

- Mai, mai: soprattutto se tu conti di restarci.


- Se ci conto? Per mille diavoli, e lo metteresti in dubbio! Tu verrai qui con tua moglie e i tuoi figli, e dei tuoi figli io, poi, farò dei famosi buontemponi!

- Ti prendo in parola, Pencroff.


- Quanto poi a voi, signor Cyrus, voi sarete naturalmente, e sempre, il governatore dell'isola. Ma, a proposito, quanti abitanti potranno starci? Almeno un diecimila, non vi pare?

Questi i progetti per l'avvenire e i coloni vi si appassionavano tanto che Spilett aveva deciso la fondazione di un giornale, il "New Lincoln Herald"...


La sera del 15 ottobre, verso le nove, dopo un paio d'ore di queste affascinanti fantasticherie, stavano già per andare a dormire, quando il campanello elettrico del telegrafo all'improvviso squillò.


Erano tutti lì, nella sala centrale, al recinto non c'era dunque nessuno... Cyrus si alzò, i suoi compagni lo guardavano sbalorditi ed emozionati.


- Che cosa significa? - chiese Nab. - Che sia il demonio?

Nessuno rispose; solo Harbert tentò di osservare:

- Il tempo è temporalesco; e forse una scarica elettrica...


L'ingegnere fece segno di no con la testa, e Spilett disse:

- Aspettiamo. Se era un segnale, chiunque sia, lo ripeterà.


- Ma chi volete mai che sia? - chiese Nab.


- Forse - mormorò Pencroff - forse è colui che...


Ma non poté finire la sua frase, perché un nuovo squillo di campanello trillò. Cyrus si diresse allora verso l'apparecchio e lanciò verso il recinto questa frase, sul filo elettrico:

«Che cosa volete?».


Qualche attimo dopo, l'ago, muovendosi sul quadrante alfabetico del ricevitore, dava questa risposta:

«Venite subito al recinto più presto che potete».


- Finalmente! - esclamò Cyrus.


Sì, finalmente! Il mistero stava dunque per essere svelato. Davanti alla prospettiva di conoscere finalmente l'ignoto protettore, i coloni dimenticarono le dure fatiche della giornata di lavoro, e si lanciarono fuori dal Palazzo. La notte era nera, grosse nuvole temporalesche formavano una volta bassa e buia che intercettava anche i raggi delle stelle. Non c'era che qualche subitaneo chiarore di lampi lontani. Ma non era certo l'oscurità o la minaccia di un temporale che potevano fermare i coloni che, a passo rapido, il cuore stretto da una profonda emozione, camminavano di buon passo verso il recinto. Nel gran silenzio della notte, appesantito dalla sensazione dell'imminente temporale, non si udiva che il suono dei passi dei coloni che mantenevano essi pure il silenzio. Solo una volta si udì Pencroff mormorare:

- Avremmo dovuto prendere una lanterna.


E Cyrus rispondergli:

- Ne troveremo una al recinto.


Dopo mezz'ora di cammino, avevano già percorso tre miglia, ed erano a oltre mezza strada. Ormai, dei grandi lampi squarciavano frequenti la nera nuvolaglia e mostravano, in quell'attimo di abbagliante candore, la foresta intorno tutta nera di rami e di fronde. L'uragano non doveva tardare ad esplodere in tutta la sua violenza. Già sordi brontolii di tuono andavano avvicinandosi, l'atmosfera pesava. I coloni accelerarono il passo, e in breve, al chiarore di un lampo, scorsero la palizzata. Non avevano ancora spinto la porta, che un tuono gigantesco rimbombò sulle loro teste, come una salva di cento cannoni pesanti. In un baleno attraversarono lo spiazzo, giunsero alla porta della casa di legno. Cyrus bussò alla porta chiusa. Nessuno rispose. Allora aprirono, entrarono. Nessuno. Accesa una lanterna guardarono dappertutto. Nessuno.


- Che siamo stati tutti vittima di una illusione? - chiese Cyrus.


No, non era possibile. Quel telegramma aveva detto chiaramente:

«Venite al recinto più presto che potete».


Si avvicinarono al tavolo dove stava l'apparecchio telegrafico; ma tutto era al suo solito posto.


- Chi è stato qui l'ultima volta?

- Io, signor Smith.


- Quando?

- Quattro giorni fa.


- Ah! Guardate! - esclamò Harbert mostrando un foglietto di carta sulla tavola. Su quel foglietto qualcuno aveva scritto queste parole:

«Seguite il nuovo filo».


- Andiamo! - gridò Cyrus, che subito comprese come il telegramma non fosse partito dal recinto, ma dal misterioso rifugio che un nuovo filo allacciato all'altro, agganciava al Palazzo di Granito.


Nab prese la lanterna, e tutti uscirono. L'uragano si scatenava allora in tutta la sua violenza. I lampi erano incessanti, il tuono rimbombava senza interruzione, e a quelle livide luci si vedeva la cima del monte cinta di diversi vapori.


Appena furono usciti dalla palizzata, Cyrus scorse subito, al primo palo telegrafico, un nuovo filo che dall'isolatore cadeva a terra.


- Eccolo! - gridò.


Il filo era steso a terra, ma protetto da una materia isolante come un cavo sottomarino. Pareva che si dirigesse dentro la foresta, poi verso i contrafforti meridionali della montagna: insomma verso occidente.


- Seguiamolo - fece Cyrus.


E aiutandosi ora con la lanterna, ora con la luce dei lampi, i coloni si lanciarono dietro quel filo, noncuranti dell'uragano. Salirono prima il contrafforte che si elevava fra la valletta del recinto e quella del fiume della Cascata, che guadarono in punto assai stretto; poi salirono un altro contrafforte, scesero sopra uno spiazzo basaltico. Ogni tanto, qualcuno si chinava a terra per assicurarsi che il filo era sempre lì a guidarli. Ormai non c'era più dubbio: quel filo li portava verso il mare. Certamente, là, in qualche antro roccioso, si apriva la segreta dimora del genio protettore dell'isola!

Alle dieci di sera, i coloni erano arrivati sull'orlo dell'altipiano, strapiombante sull'oceano. Il temporale infuriava. Sotto di loro, a centocinquanta metri, si sentiva muggire la furia del mare.


A quel punto il filo correva fra le rocce, seguendo il pendio, e i coloni vi si gettarono, a rischio di provocare qualche fatale caduta di sassi e di precipitare in mare. Ma essi non calcolavano il pericolo, non erano più padroni di loro stessi, attratti verso quel punto misterioso dal quale era partito il richiamo, l'appello urgente!

Discesero così senza saperlo per quel pendio che, anche se fatto di giorno, in piena luce solare, sarebbe stato pericolosissimo. Cyrus era in testa a tutti, Ayrton chiudeva il cammino. Ora andavano cautamente, ora scivolavano sopra i sassi, ora cadevano, poi si rialzavano e continuavano l'arduo cammino senza dire una parola.


Finalmente, arrivarono sulla riva del mare, fra gli scogli. Qui il filo correva, fra i massi, parallelo all'acqua; finché, a un certo punto, si vide che si immergeva risolutamente nelle onde.


I coloni si fermarono stupefatti, poi, presi com'erano da quella sorta di affascinante ansietà, si sarebbero buttati in acqua per cercare una caverna sotterranea, quando l'ingegnere con un gesto li fermò.


- Un momento - disse. - Adesso, è l'alta marea. Aspettiamo la bassa marea, troveremo il cammino.


- Ma e se poi?... - cominciò Pencroff.


- Non ci avrebbe chiamati se poi dovessimo fermarci a mezza strada per l'impossibilità materiale di continuare.


Cyrus aveva parlato con tale accento di convinzione che tutti se ne persuasero. Non c'era che da aspettare qualche ora, e aspettarono schiacciati contro uno scoglio, sotto l'acqua torrenziale che precipitava dal cielo, fra tuoni e lampi da fine del mondo. Dopo circa due ore di quell'attesa fremente, Cyrus, presa la lanterna, scese fino al livello del mare a scrutare il filo. La bassa marea già cominciava a farsi sentire, e l'ingegnere poté scorgere distintamente, sotto l'acqua che stava a poco a poco ritraendosi, il disegno di una vasta escavazione, dentro la quale andava a finire il filo. Tornò allora vicino ai compagni, e disse semplicemente:

- Fra un'ora, potremo passare.


- C'è un passaggio? - fece Pencroff.


- E lo dubitavate? E' una caverna.


- Ma sarà piena d'acqua, almeno fino a una certa altezza.


- O si prosciugherà tutta con la bassa marea, e la percorreremo a piedi, oppure ci sarà dell'acqua ancora, e ci verrà offerto un mezzo di trasporto qualunque.


Passò un'altra ora, in silenzio. A un cenno di Cyrus, tutti scesero fino all'orlo delle onde. Il mare, sotto l'effetto della bassa marea, s'era ritirato di circa cinque metri. Si vedeva la caverna, con un arco di roccia, simile all'arco di un ponte; alto circa tre metri.


Curvandosi, Cyrus vide un oggetto nero che galleggiava; lo trasse a sé; era un canotto di tela impermeabile, con due remi sul fondo, trattenuto a qualche spuntone di roccia da una lunga corda.


- Imbarchiamoci - disse l'ingegnere.


Salirono tutti nel canotto, Nab e Ayrton presero i remi, Pencroff si pose al timone, Cyrus a prua reggendo la lanterna. La volta della caverna, prima assai bassa, si innalzava poi grandiosa: ma nell'oscurità non si vedeva nulla, e la luce della lanterna era troppo debole perché si potesse avere un'idea della vastità di quell'antro.


Il silenzio era impressionante. Non si udivano più né i tuoni né lo scroscio della pioggia violenta. Che quella immensa caverna si stendesse sotto la stessa isola e fosse grande quanto essa? Da un quarto d'ora navigavano sotto la volta buia, e ancora non si vedeva nulla. Improvvisamente Cyrus, che era a prua e cercava di rischiarare il cammino sull'acqua, ordinò a Pencroff: - A destra.


L'ingegnere voleva accertare se il filo elettrico correva lungo la parete di destra della caverna. Infatti, il filo era là, steso contro la roccia. Cyrus lo toccò, sospirò di sollievo, e disse: - Avanti!

Il canotto filò per un altro quarto d'ora sull'acqua cheta, quando la voce dell'ingegnere fermò bruscamente i remi: Fermatevi!

Il canotto si fermò e i coloni videro stupefatti una luce vivissima che illuminava la grandiosa cripta rocciosa aperta nelle viscere dell'isola. Poterono allora farsi un'idea di quella caverna. A un'altezza di una trentina di metri la volta si curvava appoggiandosi sopra colonne naturali di basalto fitte come una foresta che l'acqua bagnava alle basi. Colpite dalla luce misteriosa che pareva scaturire dall'acqua stessa, quelle colonne scintillavano come se fossero state di pietre preziose e si riflettevano poi nelle acque, creando uno spettacolo luminoso fantasmagorico. Né c'era da ingannarsi sulla natura di quella luce netta e rettilinea che sgorgava accecante da un focolaio centrale. Il suo candore, ne tradiva l'origine. Si trattava di luce elettrica.


A un segno di Cyrus i remi si rituffarono nell'acqua, e quando ne uscirono parvero grondanti di gemme. Il canotto si diresse verso quel centro di luce. E là, dove l'acqua si allargava in una specie di lago largo un centinaio di metri, la luce era tale che la volta e le pareti della immensa caverna parevano splendere naturalmente. In mezzo a quel lago, un lungo oggetto fusiforme galleggiava sulle acque, immobile e silenzioso. La luce sgorgava dai suoi fianchi come da due gole di ferro. L'oggetto, simile al corpo di un immenso cetaceo, misurava circa settanta metri di lunghezza e si levava di tre metri o poco più dal livello del lago.


Il canotto gli si avvicinò piano piano. A prua, Cyrus si era alzato in piedi e guardava, in preda a un'agitazione violenta. Poi, all'improvviso, afferrando il braccio di Spilett, esclamò:

- Ma è lui! Non può essere che lui!

Poi ricadde a sedere sul banco del canotto, mormorando un nome che soltanto il giornalista udì. E certo il giornalista conosceva quel nome, perché fece su di lui una impressione enorme, e lo si udì mormorare:

- Lui! Un uomo fuori della legge!

- Sì... Lui! - gli rispose Cyrus.


Poi diede un ordine, e il canotto s'accostò al fianco sinistro dell'oggetto, di dove, attraverso un ampio e grosso cristallo, si vedeva scaturire un fascio luminoso. Cyrus e i suoi compagni salirono sul dorso di quel cetaceo metallico, videro un'apertura, vi si avventurarono, scendendo per una scala, al piede della quale si apriva un corridoio illuminato elettricamente. In fondo al corridoio c'era una porta, che Cyrus aprì.


Una grande sala lussuosa: i coloni la attraversarono, entrarono in una biblioteca dove un soffitto luminoso faceva piovere una luce abbagliante. Attraversarono anche la biblioteca, in fondo alla quale c'era un'altra porta. Cyrus ne spinse i battenti, e i coloni entrarono in un salone immenso, una specie di museo dove, con tutti i tesori della natura minerale, apparvero agli occhi strabiliati dei coloni bellissime opere d'arte, meraviglie dell'industria...


Disteso sopra un divano videro un uomo, che parve non avvedersi nemmeno del loro arrivo.


Allora Cyrus Smith disse ad alta voce, fra la commossa sorpresa dei suoi compagni, queste parole:

- Capitano Nemo, ci avete chiamati? Eccoci.




CAPITOLO 16


A quelle parole, lo sconosciuto si raddrizzò, e il suo viso apparve in piena luce: una testa magnifica, dall'ampia fronte, dallo sguardo fierissimo, dai capelli bianchi e fluenti e dalla barba bianca. Egli si appoggiò con una mano al divano. Il suo sguardo era sereno, ma si vedeva che una lenta malattia l'aveva consumato per quanto la sua voce suonasse ancora forte. Disse, con accento di sorpresa:

- Io non ho nome, signore.


- Ma io vi conosco - gli rispose Cyrus.


Il capitano Nemo lo guardò con occhi sfavillanti, come se avesse voluto incenerirlo. Poi si rilasciò cadere sul divano mormorando:

- E, dopo tutto, che importa. Sto per morire!

Cyrus gli si avvicinò e Spilett prendendogli una mano sentì che scottava. Gli altri si tenevano timorosi e stupiti in disparte.


Intanto il capitano, svincolata la sua mano da quella di Spilett, invitò con un gesto i due a sedere. Tutti lo guardavano con una intraducibile emozione. Eccolo là, dunque, il «genio dell'isola», l'essere onnipotente al cui intervento dovevano la loro salvezza!

Davanti ai loro occhi non c'era che un uomo, mentre Pencroff e Nab erano sicuri di trovare un dio, e un uomo, per giunta, che stava per morire!

Ma come mai Cyrus conosceva questo capitano Nemo? E perché il capitano s'era drizzato su con tanto stupore e tanta collera silenziosa, quando aveva sentito il suo nome sulle labbra dell'ingegnere?

Il capitano, sollevato sopra un gomito, guardava intanto Cyrus e gli chiedeva:

- Voi sapete il mio nome, signore?

- Lo so, come so il nome di questo vostro magnifico sottomarino.


- Il "Nautilus"?

- Il "Nautilus".


- Ma... sapete anche... chi sono?

- Lo so.


- Eppure sono trent'anni che non ho più alcuna comunicazione col mondo abitato; trent'anni che io vivo in fondo al mare, il solo ambiente ove abbia trovato l'indipendenza. Chi ha mai potuto tradire il mio segreto?

- Un uomo che non aveva preso con voi nessun impegno, signore, e che, per conseguenza, non può essere tacciato di tradimento.


- Quel francese che il caso ha portato a bordo del mio sottomarino?

- Lui.


- Allora, quell'uomo e i suoi due compagni non sono periti nel maelstrom, quando il mio "Nautilus" si trovò preso in mezzo a quella terribile furia?

- Non sono periti, ed è comparsa, sotto il titolo "Ventimila leghe sotto i mari", un'opera che contiene la vostra storia.


- La mia storia di qualche mese soltanto, signore - rispose con vivacità il capitano.


- E' vero; ma solo qualche mese di questa vostra stranissima vita sono bastati per farvi conoscere...


- ... Come un grande colpevole, mi immagino - continuò il capitano Nemo con un sorriso di sprezzo. - Sì, un ribelle, messo forse al bando dell'umanità!

L'ingegnere tacque.


- Ebbene, signore?

- Non sta a me giudicare il capitano Nemo - fece Cyrus; - almeno per quello che si riferisce alla sua vita passata. Io ignoro, come ignorano tutti, quali sono stati i moventi di questa vostra misteriosa esistenza, e non posso giudicare degli effetti senza conoscere le cause. Ma quello che so, è che una mano benevola si è sempre distesa verso di noi da quando siamo arrivati nell'isola Lincoln; e che tutti noi dobbiamo la nostra vita a un essere buono, generoso, potente; e che questo essere buono, generoso, potente siete voi, capitano Nemo!

- Sì, sono io - disse con semplicità il capitano.


L'ingegnere e il giornalista si erano alzati, i loro compagni si erano avvicinati, e la riconoscenza che gonfiava i loro cuori stava per tradursi in gesti e parole, ma il capitano li fermò con un gesto della mano e con una voce più commossa di quanto non avrebbe voluto, disse:

- Prima ascoltatemi...


E in poche frasi nette e precise raccontò la sua storia. Fu una storia breve, ma dovette chiamare a raccolta tutte le sue energie per arrivare fino m fondo. Era chiaro che stava lottando contro una estrema debolezza, e parecchie volte Cyrus lo interruppe per pregarlo di riposarsi un poco, ma egli rispondeva scuotendo la testa da uomo al quale il domani non appartiene più e quando il giornalista gli offrì le sue cure, rispose:

- Sono inutili, le mie ore sono ormai contate!

Il capitano Nemo era un Indiano, il principe Dakkar, figlio del rajà del territorio allora indipendente del Bundelkund, e nipote dell'eroe dell'India Tippo Saib. Suo padre lo mandò in Europa quando aveva dieci anni perché vi ricevesse un'educazione completa, e nella segreta speranza che potesse un giorno lottare con armi eguali contro gli oppressori del suo Paese. Dai dieci ai trenta anni il principe Dakkar, dotato di intelligenza superiore, generoso di cuore e di spirito, si istruì nelle scienze, nelle lettere e nelle arti, viaggiò per tutta l'Europa. La sua nascita e le sue sterminate ricchezze lo facevano ricercatissimo, ma le seduzioni del mondo non lo affascinarono mai.


Giovane e bello, restò serio, silenzioso, divorato solo dalla sete di imparare con un implacabile rancore nel cuore. Il principe Dakkar odiava: odiava il solo Paese dove non avesse mai voluto mettere il piede, la sola nazione di cui ricusasse ostinatamente tutti gli inviti e le offerte: odiava l'Inghilterra, e tanto più la odiava in quanto sotto molti punti di vista doveva ammirarla. In quel giovane Indiano si riassumevano tutti gli odi violenti del vinto contro il vincitore.


L'invasore non aveva trovato grazia presso l'invaso. Il figlio di uno di quei sovrani cui il Regno Unito non aveva che formalmente evitato la schiavitù, quel principe, della famiglia di Tippo Saib, allevato negli ideali di rivendicazione e di vendetta, innamorato fino alla passione del suo Paese incatenato dagli Inglesi, non volle mai mettere il piede sulla terra da lui maledetta alla quale l'India doveva la sua schiavitù.


Il principe Dakkar diventò un artista che le meraviglie dell'arte europea impressionavano profondamente; diventò uno scienziato al quale non era straniera nessuna conquista della scienza: diventò un uomo politico che le università europee formarono ed educarono perfettamente. Agli occhi di chi lo guardava esteriormente, diventò uno di quei cosmopoliti curiosi di tutto, ma inadatti all'azione; uno di quei ricchissimi viaggiatori, spiriti fieri e platonici che amano correre il mondo e non mettono radici in nessuna terra mai. Non era così. Quell'artista, quello scienziato, quell'uomo politico era rimasto Indiano nel cuore, Indiano nel desiderio della vendetta, Indiano nella speranza di rivendicare un giorno i diritti sacrosanti del suo Paese, di cacciarne gli stranieri, di restituirgli la sua libertà!

Così, il principe Dakkar tornò al suo Bundelkund nel 1849, si sposò con una nobile Indiana il cui cuore sanguinava come il suo per le disgrazie della patria. E la felicità domestica non gli fece dimenticare la schiavitù dell'India. Aspettò un'occasione propizia.


Essa si presentò.


Il giogo inglese s'era fatto troppo pesante sulla popolazione. Dakkar fece sue le voci dei malcontenti, seppe infondere nei loro cuori tutto l'odio che egli sentiva per lo straniero. Percorse non soltanto le contrade della penisola indiana ma anche le regioni direttamente sottoposte all'amministrazione inglese, rievocò i grandi giorni di Tippo Saib caduto eroicamente a Seringapatam difendendo la libertà della sua Patria.


Nel 1857 scoppiò la grande rivolta dei cipays. Il principe Dakkar ne fu l'anima, organizzò l'immenso sollevamento, mise il suo ingegno e le sue ricchezze al servizio di quella causa. Pagò di persona, combattendo nelle prime file, rischiando la vita come il più umile di quegli eroi che s'erano ribellati per la libertà del loro Paese. Fu ferito dieci volte in venti scontri, e non poté trovare la morte quando gli ultimi soldati dell'indipendenza caddero sotto le pallottole inglesi.


Mai la potenza britannica in India corse tanto pericolo, e se, come s'era sperato, i cipays avessero trovato un aiuto dal di fuori, sarebbe forse finita per sempre l'influenza inglese in Asia.


Il nome del principe Dakkar fu famoso, a quel tempo. L'eroe che lo portava non si nascose, e lottò apertamente. La sua testa fu messa a prezzo e, se non si trovò nessun traditore che lo consegnasse al nemico, suo padre, sua moglie e i suoi figli pagarono per lui prima ancora che egli potesse sapere quali pericoli i suoi cari correvano per causa sua. Il diritto, quella volta, aveva dovuto cedere davanti alla forza. Ma la civiltà non indietreggia, e pare che giustifichi tutti i suoi accessi in nome della necessità! I cipays furono vinti, e il Paese degli antichi rajà ricadde sotto il dominio britannico.


Il principe Dakkar, che non aveva potuto trovare la morte in battaglia, ritornò nelle montagne del suo Bundelkund; e là, solo, preso da un immenso disgusto contro tutto ciò che portava un nome umano, divorato da un terribile odio contro il mondo civilizzato, ansioso di fuggirlo per sempre, realizzò i resti della sua fortuna, raccolse una ventina dei suoi antichi compagni, e, un bel giorno, sparì.


Dove era mai andato a cercare quella indipendenza che la terra abitata gli rifiutava? Sotto le acque, nella profondità degli oceani, dove nessuno avrebbe potuto seguirlo.


All'uomo di guerra si sostituì allora lo scienziato. In un'isola deserta del Pacifico stabilì i suoi cantieri dove, secondo i suoi piani, venne costruito un sottomarino, azionato, illuminato e riscaldato dall'elettricità. Il mare, coi suoi tesori inesauribili, le sue miriadi di pesci, la sua infinita massa di alghe ed erbe marine, i suoi enormi mammiferi e con tutti i tesori che gli uomini vi hanno, lungo i secoli, perduto, bastò largamente ai bisogni del principe e dei suoi uomini. Battezzò il suo battello "Nautilus", si chiamò il capitano Nemo, disparve sotto i mari.


Per anni e anni, egli visitò tutti gli oceani, dall'uno all'altro polo. Poi, del mondo abitato, raccolse nei fondi degli oceani meravigliosi tesori.


I milioni perduti nella baia di Vigo nel 1702 dai galeoni spagnoli gli fornirono ricchezze inesauribili di cui dispose sempre, anonimamente, per aiutare i popoli che si battevano per la libertà del loro Paese.


La notte del 6 novembre del 1866, dopo tanto tempo che non aveva più alcun rapporto col mondo abitato, tre uomini furono gettati a bordo del suo sottomarino. Erano un professore francese, il suo domestico e un pescatore canadese. Questi uomini erano stati lanciati in mare, per un urto fra il "Nautilus" e la fregata americana "Abraham Lincoln" che dava la caccia al sottomarino. Il capitano Nemo apprese da quel professore che il "Nautilus", considerato ora un mammifero gigante, ora una nave sottomarina di pirati, era braccato per tutti i mari del globo. Nemo avrebbe potuto restituire all'oceano quei tre uomini che il caso metteva nella sua vita. Non lo fece, li tenne suoi prigionieri a bordo del "Nautilus" e per sette mesi essi poterono ammirare tutte le meraviglie di un viaggio che continuò per ventimila leghe sotto i mari.


Un giorno, il 22 giugno 1867, quei tre uomini, che non sapevano nulla del passato del capitano Nemo, riuscirono a fuggire, dopo essersi impadroniti del canotto del sottomarino. Ma proprio in quel momento il "Nautilus" era stato ghermito dai gorghi del maelstrom, e trascinato verso le coste norvegesi; e il capitano credette che quei tre sciagurati fossero periti nello spaventoso vortice d'acqua. Non sapeva che il francese e i suoi due compagni erano stati invece miracolosamente gettati sulla spiaggia e tratti in salvo da alcuni pescatori dell'isola Loffoden, e che il Francese, tornato in Francia, aveva pubblicato l'opera nella quale raccontava tutta la strana e avventurosa navigazione del "Nautilus".


Per lunghi anni ancora il capitano Nemo aveva continuato la sua esistenza in fondo ai mari; ma a poco a poco i suoi compagni morirono e andarono a riposare nel loro cimitero di corallo in fondo al Pacifico. Il vuoto si fece intorno al "Nautilus" e alla fine il capitano restò solo. Aveva allora sessant'anni. Riuscì a portare il sottomarino in uno di quei porti subacquei che gli servivano talora per le sue soste. Questo porto era aperto sotto l'isola Lincoln.


Da sei anni, il capitano Nemo era là, in attesa della morte, del momento, cioè, in cui si sarebbe ricongiunto coi suoi compagni, quando il caso lo fece assistere alla caduta di un pallone: quello che trasportava i prigionieri di Richmond. Vestito del suo scafandro, stava allora passeggiando sotto il mare quando l'ingegnere fu precipitato in acqua. Bastarono pochi passi al capitano Nemo, e l'ingegnere Cyrus Smith era in salvo.


In principio, avrebbe voluto fuggire quei cinque intrusi, gettati senza risorse sull'isola deserta. Ma poi, quando si accorse che erano dei galantuomini legati l'uno all'altro da un'amicizia fraterna si interessò ai loro sforzi. Quasi senza volerlo, finì per conoscere tutti i loro segreti. Col suo scafandro gli era facilissimo arrivare fino in fondo al pozzo del Palazzo di Granito e ascoltarli mentre ricordavano il loro passato e progettavano l'avvenire. Apprese così il grande sforzo che stava compiendo l'America contro l'America stessa per abolire la schiavitù. Sì! Quegli uomini erano degni di riconciliare il capitano Nemo con l'umanità, che essi rappresentavano così nobilmente nell'isola!

Il capitano Nemo aveva salvato Cyrus. Era stato lui a guidare Top fino alla Camminata, lui a lanciare il cane fuori dalle acque del lago, lui a far trovare la cassa alla punta del Rottame, lui a far scendere la piroga lungo la Grazia, lui a lanciare la scala giù dal Palazzo di Granito invaso dalle scimmie, lui a far conoscere la presenza di Ayrton all'isola Tabor, lui a far saltare il brigantino dei pirati con una torpedine, lui che aveva salvato Harbert facendo trovare il solfato di chinino sulla tavola, lui, finalmente, che aveva fulminato i cinque banditi con le pallottole elettriche delle quali aveva il segreto e che usava nelle sue cacce sottomarine...


Quel grande misantropo aveva sete di bene! Avrebbe voluto dare tanti consigli a quei coloni, e, sentendo battere nel suo cuore gli avvertimenti della morte vicina, li aveva chiamati a sé con quel telegramma... Forse, non lo avrebbe fatto se avesse potuto immaginare che Cyrus Smith conosceva la sua storia così da poterlo chiamare col nome di capitano Nemo.


Il capitano aveva finito il racconto della sua vita. Cyrus prese allora la parola; ricordò tutti gli incidenti che avevano esercitato su di loro una così provvidenziale influenza e, in nome dei suoi compagni e suo, ringraziò l'essere generoso al quale dovevano tanto.


Ma il capitano Nemo non pensava alla gratitudine. Un ultimo pensiero gli tormentava lo spirito, e, prima di stringere la mano che gli tendeva l'ingegnere, disse:

- E adesso, signore, adesso che conoscete la mia vita, giudicatela!

Così dicendo il capitano Nemo alludeva evidentemente a un tragico incidente del quale i tre stranieri gettati a bordo del suo sottomarino erano stati testimoni e di cui certamente il Francese aveva dovuto narrare i particolari nel suo libro.


Infatti, qualche giorno prima che il professore e i suoi due compagni fuggissero dal "Nautilus", il sottomarino, inseguito da una fregata nelle acque settentrionali dell'Atlantico, s'era buttato come un ariete contro la nave e l'aveva colata a picco senza pietà.


Cyrus comprese tale allusione, e restò silenzioso.


- Era una fregata inglese, signore - esclamò il capitano Nemo, tornato per un attimo il principe Dakkar. - Una fregata inglese, capite?... Mi attaccava. Ero chiuso in una baia stretta e poco profonda, e dovevo passare... Sono passato.


Poi, con voce più calma, aggiunse:

- Ero nella giustizia e nel diritto. Dappertutto, ho fatto il bene che ho potuto, e anche il male che ho dovuto. Non è detto che la giustizia sia sempre nel perdono.


Seguirono alcuni attimi di silenzio, poi il capitano Nemo domandò:

- Che cosa pensate di me, signori?

Cyrus gli tese la mano e, con voce grave e solenne, gli rispose:

- Capitano, il vostro torto è di aver creduto che si poteva risuscitare il passato, e avete combattuto contro il progresso necessario. E' stato uno di quegli errori che gli uni ammirano, gli altri biasimano, ma soltanto Dio può giudicare e la ragione umana deve assolvere. Chi si inganna in un'intenzione che reputa buona, si può combatterlo, ma non si cessa di stimarlo. Il vostro errore è di quelli che non escludono l'ammirazione e il vostro nome non ha nulla da temere dal giudizio della storia. Essa ama le eroiche follie, pur condannando gli effetti che ne possono nascere.


Il petto del capitano Nemo si sollevò, la sua mano si alzò verso il cielo, la sua voce ansiosamente disse:

- Ho fatto male? Ho fatto bene?

Cyrus continuò:

- Tutte le grandi azioni risalgono a Dio poiché da Dio provengono.


Capitano Nemo, i galantuomini che avete davanti a voi, quelli che voi avete aiutato e salvato vi piangeranno per sempre!

Harbert s'era avvicinato al capitano, aveva piegato le ginocchia e s'era curvato a baciargli una mano.


Una lacrima scese lungo le guance del morente che mormorò:

- Figliolo, che tu sia benedetto!...




CAPITOLO 17


Era spuntato il giorno, ma nessun raggio di sole poteva penetrare dentro quella caverna, che l'alta marea doveva aver ostruito. Ma la luce continuava fulgente sul "Nautilus" e fulgente ne irradiava tutto intorno.


Una estrema stanchezza piegava il capitano Nemo che era ricaduto sul suo divano. Non si poteva certo pensare a trasportarlo nel Palazzo di Granito, dal momento che aveva manifestato la volontà di restare fra le meraviglie del suo battello ad aspettarvi la morte, ormai vicina.


Smith e Spilett esaminarono il morente, che giaceva senza conoscenza.


Era evidente che il capitano stava spegnendosi a poco a poco. Quel corpo così gagliardo un giorno, era diventato un fragile involucro dal quale l'anima era prossima a sfuggire. Tutta la vita era ormai concentrata nel cuore e nel cervello.


L'ingegnere e il giornalista si consultarono sottovoce. C'era qualche cura da fare? Si poteva, se non salvare, almeno prolungare ancora un poco quella vita? Lui stesso aveva detto che non v'era ormai più rimedio possibile, e aspettava sereno la morte, che non gli faceva paura.


- Non possiamo far nulla - concluse Cyrus.


- Ma di che muore? - chiese Pencroff.


- Si spegne - rispose il giornalista.


- Non credete che se lo trasportassimo fuori, all'aperto, in pieno sole, si riprenderebbe?

- No, Pencroff - fece l'ingegnere - non possiamo far nulla. D'altra parte, il capitano Nemo non consentirebbe mai a lasciare il suo battello. Da trent'anni vive sul "Nautilus", è sul "Nautilus" che vuole morire.


Certo, il capitano intese queste parole, perché si sollevò un poco e disse, con voce debolissima ma chiara:

- Avete ragione, signore. Io devo e voglio morire qui. Anzi, ho una preghiera da farvi.


Disposero i cuscini sul divano in modo che il morente potesse restare più comodamente disteso, e gli si raccolsero intorno commossi e silenziosi. Il capitano Nemo si guardò lentamente in giro, come se volesse ancora una volta contemplare tutte le meraviglie raccolte intorno a sé, fermò gli occhi sul motto che stava scritto sopra una parete di quel salone museo:

MOBILIS IN MOBILE e poi, nel profondo silenzio dei coloni che avevano rispettato reverenti quel suo momentaneo raccoglimento nel passato, il capitano Nemo si volse verso di loro e disse:

- Credete davvero, signori, di dovermi un po' di riconoscenza?

- Capitano, noi daremmo la nostra vita, per prolungare la vostra!

- Bene... promettetemi allora di eseguire le mie ultime volontà, e io sarò compensato per tutto quello che ho fatto per voi.


- Ve lo promettiamo.


- Signori, domani io sarò morto.


Fermò con un gesto della mano Harbert che stava per protestare, e continuò:

- Domani sarò morto, e io desidero di non avere altra tomba che non sia il mio "Nautilus". E' il mio feretro... Tutti i miei amici riposano in fondo al mare. Voglio riposarci anch'io per l'eternità.


Un silenzio profondo accolse le parole del capitano Nemo.


- Ascoltatemi bene. Il "Nautilus" è imprigionato in questa grotta, la cui entrata s'è ormai alzata. Ma, se non può uscirne, può almeno sprofondare nell'abisso che esso sovrasta e conservare la mia spoglia mortale. Domani, dopo la mia morte, signor Smith, voi e i vostri compagni lascerete il "Nautilus", perché tutte le ricchezze che esso contiene devono sparire con me. Un solo ricordo vi resterà del principe Dakkar, di cui voi sapete ora la storia. Quello scrigno...


là... rinchiude per parecchi milioni di diamanti, quasi tutti ricordi del tempo in cui, padre e sposo, ho quasi creduto alla felicità, e una collezione di perle raccolte dai miei amici e da me nel fondo dei mari. Con quel tesoro potrete fare, un giorno, delle cose utili e buone. In mano a voi, signor Smith, e ai vostri compagni, la ricchezza non potrà mai essere un pericolo. Da lassù sarò associato alle opere che farete, e mi sento sicuro.


Dopo qualche istante di riposo per riprendere lena, il morente continuò:

- Domani, prenderete quello scrigno, lascerete questo salone, di cui chiuderete la porta; risalirete sulla piattaforma del "Nautilus", chiuderete l'apertura, che assicurerete coi bulloni.


- Sarà fatto, capitano - lo assicurò Cyrus.


- Bene. Prenderete posto nel canotto che vi ha portati qui; ma, prima di lasciare il mio "Nautilus", andrete alla sua poppa, e là aprirete i due grandi rubinetti che troverete sulla sua linea di immersione.


L'acqua irromperà nei serbatoi e il Nautilus affonderà a poco a poco, fino a toccare il fondo, dove resterà per sempre.


Cyrus Smith tentò un gesto, ma il capitano lo prevenne affermando:

- Oh, non abbiate paura: voi non seppellirete in fondo al mare che un morto.


Nessuno osò dire una parola. Erano le sue ultime volontà, non c'era che da promettere.


- Ho la vostra promessa, signori?

- L'avete - disse l'ingegnere.


Il capitano fece un cenno di ringraziamento, poi pregò i coloni di lasciarlo solo per qualche ora; Spilett insisté per restare presso di lui, ma il morente ricusò, e ripeté:

- Vivrò fino a domani, signore.


Tutti lasciarono allora il salone, traversarono la biblioteca, la sala da pranzo, e giunsero a prua, nella sala delle macchine dove erano installati tutti gli apparecchi elettrici che davano al sottomarino il calore, la luce e il movimento. Poi salirono sulla piattaforma, e vi si sdraiarono, restando silenziosi e pensosi.


L'uomo che li aveva protetti e salvati, il loro buon genio protettore lo avevano finalmente trovato, ma stava per morire! Qualunque poi fosse il giudizio che i posteri avrebbero pronunciato sul conto del principe Dakkar e di quella sua esistenza quasi sovrumana, esso resterebbe pur sempre uno di quegli uomini che non si dimenticano mai.


- Ecco un uomo! - esclamò Pencroff. - Pare inverosimile che sia vissuto tanti e tanti anni in fondo ai mari! E dire che forse non vi ha trovato nemmeno quella pace che vi sperava!

- Ma il "Nautilus" avrebbe potuto servirci per lasciare l'isola Lincoln - osservò Ayrton.


- Per tutti i diavoli! Io non mi fiderei certo a governare un battello di questa specie - fece il marinaio. - Correre sui mari, vada ancora; ma sotto... no!

- Io credo invece - disse il giornalista - che la manovra di un sottomarino come questo debba essere facilissima, e che l'avremmo imparata subito. E poi, niente tempeste o venti da temere; niente incontri coi pirati. Un paio di metri sotto il livello del mare, le acque sono calme come quelle di un lago.


- Possibilissimo - ribatté Pencroff. - Ma, per conto mio, preferisco un buon colpo di vento sopra una nave bene attrezzata. Un battello è fatto per andare sopra le onde, mica sotto.


- Amici miei, - li interruppe l'ingegnere - questa discussione, per quanto almeno si riferisce al "Nautilus", è inutile. Questo battello non è nostro, e non abbiamo il diritto di servircene. Del resto, non potrebbe mai fare al caso nostro. Prima di tutto non può uscire da questa caverna; poi il capitano Nemo desidera che esso si sprofondi, dopo la sua morte, con lui, nel fondo del mare. La sua volontà è precisa, e noi l'ubbidiremo.


Dopo qualche tempo, Cyrus e i suoi compagni ridiscesero nel salone dove trovarono il capitano Nemo che s'era un poco ripreso e che li accolse con un cordiale gesto della mano, e con queste parole:

- Signori, voi siete degli uomini prodi, leali e buoni. Vi siete consacrati senza risparmio a un lavoro nobilissimo. Vi ho spesso osservati. Vi ho voluto bene, vi voglio bene... La vostra mano, signor Smith!

Cyrus tese la mano al capitano, che gliela strinse affettuosamente, mormorando: - Sono contento...


Poi riprese:

- E adesso basta parlare di me. Devo parlarvi di voi stessi e dell'isola sulla quale avete trovato rifugio. Contate di abbandonarla?

- Ma per tornarci, capitano! - proruppe vivacemente Pencroff.


- Tornarci?... - fece sorridendo il capitano. - Oh, so quanto volete bene a questa isola, che si è trasformata per merito vostro, ed è veramente vostra!

- Il nostro progetto - disse Cyrus - sarebbe quello di offrirla agli Stati Uniti e fondarci, per la nostra marina, una base che mi pare sarebbe assai felicemente situata in questa zona del Pacifico.


- Voi pensate al vostro Paese - disse il capitano. - Lavorate per la sua prosperità e per la sua gloria. Avete ragione. La Patria!... E' là che bisogna tornare! E' là che si deve morire!... E io mi spengo lontano da tutto quello che ho amato!...


- Avreste qualche ultima volontà da trasmettere? - chiese l'ingegnere.


- Qualche ricordo da consegnare agli amici che avete forse lasciato nelle montagne del vostro Bundelkund?

- No, signor Smith; io non ho più amici. Sono l'ultimo della mia gente... e sono morto da molto tempo per tutti coloro che ho conosciuto... Torniamo a noi. La solitudine è una cosa triste, al di sopra delle forze umane... Io muoio per aver creduto che si potesse vivere solo... Voi dovete dunque tentare di lasciare l'isola Lincoln e di tornare sulla terra dove siete nati! So che quei miserabili hanno distrutto la barca che v'eravate costruiti...


- Stiamo costruendo una goletta - intervenne Spilett abbastanza grande perché ci possa trasportare sino alle terre abitate più vicine. Ma se potremo lasciarla un giorno o l'altro, noi torneremo all'isola Lincoln. Troppi ricordi ci legano a essa perché noi la possiamo dimenticare!

- E' qui che abbiamo conosciuto il capitano Nemo! - disse Cyrus.


- Non è che qui che potremo trovare la nostra intera felicità esclamò Harbert.


- Ed è qui che io riposerò il mio sonno eterno se... - disse il capitano; ma esitò e, invece di finire quella frase, disse:

- Signor Smith, vorrei parlarvi... da solo a solo.


I compagni dell'ingegnere si trassero in disparte, e Cyrus restò per qualche minuto col capitano; poi li richiamò, ma non fece verbo di quella breve conversazione segreta. Spilett guardò allora l'ammalato con grande attenzione. Era chiaro che il capitano era sostenuto soltanto da una grande energia spirituale ma che non avrebbe potuto più a lungo resistere, contro la prostrazione fisica.


La giornata volse al termine senza che alcun cambiamento si manifestasse. I coloni non lasciarono un solo istante il "Nautilus".


Il capitano Nemo non soffriva, ma declinava. Il suo nobile viso pallidissimo era sereno. Ogni tanto dalle sue labbra uscivano parole inintelligibili, che si riferivano a episodi della sua vita passata.


Si sentiva che la vita se ne andava a poco a poco da quel corpo, le cui estremità erano già fredde. Ancora una volta o due rivolse la parola ai coloni, e sorrise loro di quell'estremo sorriso che pare continui anche dopo la morte. Poco dopo la mezzanotte, il morente fece un movimento supremo, e riuscì a incrociare le braccia sul petto.


Verso la una del mattino, tutta la vita pareva che si fosse rifugiata nei suoi occhi. Un ultimo fuoco brillò nelle sue pupille; poi mormorò queste due parole:

- Dio... Patria.


E spirò dolcemente.


Cyrus, curvatosi devotamente, chiuse gli occhi di colui che era stato il principe Dakkar e che non era ormai più nemmeno il capitano Nemo.


Harbert e Pencroff piangevano; Ayrton si asciugò furtivamente una lacrima; Nab era in ginocchio, accanto al giornalista che stava immobile come una statua.


Cyrus alzò la destra sopra la testa del morto e disse:

- Che Dio accolga la sua anima!

Poi si volse ai compagni e mormorò:

- Preghiamo per colui che abbiamo perduto!

Qualche ora dopo, i coloni esaudivano la promessa fatta al capitano.


Dopo aver preso lo scrigno avuto in dono supremo, lasciarono il battello, e salirono sulla piattaforma, per prendere posto nel canotto ammarato al fianco del "Nautilus". Si portarono alla poppa del sottomarino e aprirono i due rubinetti, l'acqua precipitò nei serbatoi e il "Nautilus", affondando a poco a poco, disparve sotto l'acqua.


Ma i coloni poterono seguirlo ancora attraverso gli strati subacquei, tanta era la luce che ne emanava, potente, mentre a poco a poco l'immensa caverna si andava riempiendo di buio. Poi anche quella sorgente di luce si spense: il "Nautilus", tomba del capitano Nemo, riposava sul fondo dei mari.




CAPITOLO 18


All'alba i coloni avevano raggiunto l'uscita della caverna, che avevano battezzato cripta Dakkar, in memoria del capitano Nemo. La marea era bassa, e poterono facilmente passare sotto la volta.


Assicurarono il canotto sulla spiaggia, contro la roccia perché fosse al sicuro. L'uragano era lontano, non pioveva più, ma il cielo restava nuvoloso. Cyrus e i suoi compagni ripresero la strada del recinto.


Mentre camminavano, Harbert e Nab avevano raccolto e andavano rotolando il filo che metteva in comunicazione il recinto col "Nautilus" e che avrebbe potuto tornare utile più tardi. Non riuscivano a parlare. Quanto era successo in quella notte li aveva profondamente impressionati. Il pensiero che il capitano Nemo non c'era più, che lui e il suo meraviglioso battello giacevano in fondo al mare li angustiava. Pareva loro di essere rimasti soli, assai più soli di quanto non fossero mai stati prima. S'erano abituati a contare su quella misteriosa potenza che li proteggeva; e ora sapevano che quella potenza era finita per sempre...


Verso le nove del mattino, in silenzio, i coloni erano tornati al Palazzo di Granito.


Era stato deciso di proseguire i lavori al cantiere e Cyrus vi consacrò tutto il suo tempo e le sue cure. Non si sapeva quel che riserbasse l'avvenire, e per i coloni era una garanzia avere una buona goletta che poteva affrontare senza pericolo un mare grosso e fare una traversata anche lunga. Se, come fosse finita la piccola nave, Cyrus e i suoi compagni non si fossero decisi a lasciare l'isola Lincoln per tentare di raggiungere o le coste della Nuova Zelanda o un'isola degli arcipelaghi della Polinesia, dovevano almeno recarsi all'isola Tabor per lasciarvi la notizia relativa ad Ayrton. Era una misura necessaria da prendere, nell'eventualità che il panfilo del gentiluomo scozzese tornasse per riprendere l'abbandonato.


I lavori furono dunque ripresi con grande alacrità. Bisognava che la goletta fosse pronta per il mese di marzo, per poter fare il viaggio sino all'isola Tabor in una stagione ancora propizia.


La fine di quell'anno 1868 li vide immersi in quei lavori fervidissimi che giorno per giorno traducevano in realtà i piani dell'ingegnere.


Naturalmente, il più attivo era sempre Pencroff, e bisognava sentirlo come brontolava quando qualcuno dei suoi compagni lasciava l'ascia di carpentiere per prendere il fucile e andarsene a caccia. Ma, d'altro canto, le provviste di viveri esigevano pure delle battute di caccia, soprattutto in vista del prossimo inverno... Pencroff lo sapeva benissimo; ma tanta era la sua passione per quella goletta che gli stava nascendo sotto le mani, che non tratteneva i suoi brontolii, e poi si vendicava lavorando per sei!

La stagione restava brutta, il caldo opprimente, l'atmosfera era quasi sempre carica di elettricità. Il primo gennaio del 1869, un uragano si abbatté violento sull'isola, e numerosi fulmini vi schiantarono molti grandi alberi. Che ci fosse qualche relazione fra quella inquietudine meteorologica e i fenomeni che stavano verificandosi nelle viscere della montagna? Cyrus fu portato a supporlo, perché la serie di quei rovesci temporaleschi corrispondeva a una recrudescenza dell'attività del vulcano. Il 3 gennaio Harbert, che all'alba era salito sulla Bella Vista per sellare uno degli asini, vide un gran pennacchio che sormontava la cima del vulcano. Chiamò subito i compagni, che corsero a guardare.


- Questa volta sì - disse Pencroff - non si tratta più di qualche fumata. Il gigante fa sul serio.


Difatti, da quasi tre mesi il vulcano emetteva dal suo cratere dei vapori più o meno intensi; ma quel giorno, ai vapori era seguito un fumo spesso e denso che si innalzava nell'aria, sotto forma di una colonna grigiastra, larga quasi un centinaio di metri alla sua base e che, a duecentocinquanta metri di altezza, si apriva come un fungo smisurato.


- Il fuoco è nel cratere - disse Spilett.


- E noi non lo potremo spegnere - fece Harbert.


- Si dovrebbe poter spazzare anche le cappe dei vulcani - disse con molta serietà Nab.


- E tu ti sentiresti di essere quello spazzacamino? - gli chiese Pencroff, ridendo come un ragazzo.


Cyrus intanto osservava attentamente quella colonna di fumo e stava in ascolto per sentire se si udisse qualche boato sotterraneo. Alla fine disse ai compagni:

- In realtà, qualche cosa è cambiato, lassù: è inutile nascondercelo.


Le materie vulcaniche si sono incendiate e siamo alla vigilia di una vera e propria eruzione.


- Ebbene, signor Cyrus, vedremo anche l'eruzione - fece il marinaio. - E se è bella, l'applaudiremo. Non credo che noi si abbia ragione di preoccuparci.


- No, Pencroff, perché l'antica strada della colata delle lave è sempre aperta, e, grazie alla sua disposizione, il cratere dovrebbe rovesciare il suo contenuto verso settentrione. Però...


- ... però, non c'è nessun vantaggio da aspettarci da un'eruzione - continuò il giornalista; - e sarebbe assai meglio che non avvenisse.


- Chi lo sa? - ribatté Pencroff. - Forse, questo signor vulcano sarà così gentile di vomitare qualche materia che ci manca e ci potrà servire!

Cyrus scosse la testa dubitoso. Le conseguenze di un'eruzione lo mettevano in una certa ansietà. Se le lave non minacciavano direttamente la parte coltivata dell'isola, potevano sorgere altre complicazioni: per esempio - e non sarebbe stato un fenomeno eccezionale - l'eruzione poteva essere accompagnata da un terremoto; e l'isola, data la sua formazione tutta vulcanica, ne poteva uscire assai sconquassata.


- Mi pare - disse a un certo punto Ayrton che s'era sdraiato in terra e aveva appoggiato l'orecchio contro il suolo - mi pare di sentire dei sordi brontolii...


I coloni tesero l'orecchio, e udirono. Sì, Ayrton non s'era ingannato:

e ai brontolii si univano talora come dei muggiti profondi come se un vento sotterraneo passasse nelle viscere della montagna e ne squassasse le fibre. Però non si udiva alcuna esplosione: segno che vapori e fumate trovavano via libera nel cratere; e questo metteva, almeno per il momento, al sicuro da qualche pericolo.


- E se tornassimo ai nostri lavori? - disse il marinaio. - Che il monte Franklin fumi, scatarri, vomiti, faccia quel che vuole: non è una buona ragione per restare inoperosi. Andiamo? Signor Cyrus, io penso che oggi dobbiamo lavorare tutti. Fra due mesi bisogna che il nostro nuovo "Bonaventura" - gli conserveremo questo nome, vero? - galleggi sulle acque del Pacifico. Via, non perdiamo del tempo prezioso.


Tutti i coloni, richiamati al dovere dalla passione di Pencroff, scesero al cantiere, e vi lavorarono senza sosta per tutta quella giornata, senza più preoccuparsi del vulcano che, del resto, dal cantiere, non si vedeva. Ma, un paio di volte, delle grandi ombre grigie, velando il sole, indicavano che quella colonna di fumo saliva altissima e si allargava sul cielo purissimo. Evidentemente, i fenomeni vulcanici si accentuavano; ma anche per questo, era di assoluto interesse continuare in fretta i lavori. Più presto fosse pronta la goletta, tanto meglio sarebbe per i coloni!

La sera, dopo la cena, Cyrus, Spilett e Harbert risalirono sulla Bella Vista. La notte era già buia, ma nelle tenebre sarebbe stato facile scorgere se il vulcano fosse in fiamme. Harbert, più svelto dei due compagni, fu il primo a giungere sull'altipiano, e subito lanciò un grido:

- Il cratere è tutto un fuoco!

Il monte Franklin, a sei miglia di distanza, appariva nella notte come una grande torcia; ma le fiamme, mescolate ai fumi densi e a nembi di scorie e di ceneri, non erano vive. Mandavano una specie di luce fulva che si diffondeva sulla foresta; e sopra, il cielo turchino era tutto imbrattato di nere nuvolacce fuligginose attraverso gli squarci dei quali brillavano le stelle.


- I progressi sono rapidi - mormorò Cyrus.


- Niente di strano - osservò Spilett. - Il risveglio del vulcano data ormai da parecchio tempo. Non vi ricordate, Cyrus, che vedemmo i primi vapori quando esploravamo i contrafforti della montagna? Mi pare che fosse il 15 ottobre.


- Sì, due mesi e mezzo fa - precisò Harbert.


- I fuochi sotterranei hanno dunque covato per dieci settimane; non è perciò strano che oggi si sviluppino e si manifestino con violenza.


- Non sentite come dei fremiti nel terreno? - chiese Cyrus.


- Sì, mi pare... ma siamo lontani da un terremoto, mi pare...


- No, non dico che siamo minacciati da un terremoto. Dio ce ne scampi!

No. Questi fremiti sono causati dall'effervescenza del focolaio centrale dell'eruzione. In fondo, la scorza terrestre è come la parete di una caldaia; e voi sapete che, quando è sotto la pressione dei gas, la parete di una caldaia vibra come un disco sonoro.


- Oh, che magnifiche fontane di fuoco! - gridò Harbert.


In quel momento sgorgava dal cratere una specie di enorme mazzo di fuochi artificiali: migliaia e migliaia di frammenti incandescenti si proiettavano dappertutto e ricadevano come una gran fontana di fuoco.


Contemporaneamente, una serie di fragorose detonazioni si sgranava nel silenzio della notte, come una batteria di gigantesche mitragliere che sparassero.


Dopo un'ora passata sulla Bella Vista a guardare quello spettacolo, i tre coloni tornarono al Palazzo. L'ingegnere era pensoso, tanto che Spilett gli chiese se prevedeva qualche pericolo imminente a proposito di quell'eruzione.


- Sì e no - gli rispose Cyrus.


- Vediamo un po' - disse il giornalista. - Il peggior male che potrebbe toccarci sarebbe un terremoto che sconquassasse l'isola. Ma questo mi pare che non dovrebbe avvenire, dato che i vapori e le lave hanno trovato una via di sfogo.


- No, nemmeno io penso alla possibilità di un terremoto, nel senso che si dà di solito alle convulsioni telluriche causate dall'espandersi di vapori sotterranei. Ma ci sono altre cause, che possono portare a grandi disastri...


- Ma quali?

- Non lo so... Bisogna che io veda... che io visiti la montagna... Fra qualche giorno sarò tranquillo su questo punto.


Spilett non insisté, e poco dopo, nonostante i boati e le esplosioni del vulcano, i coloni dormivano profondamente.


Nei tre giorni che seguirono, l'intera colonia lavorò assiduamente al cantiere, sotto la guida fervida dell'ingegnere. Sulla cima del monte Franklin permaneva un cappuccio di sinistre nuvole rossastre, che le fiamme e rocce incandescenti attraversavano continuamente. Molte di quelle materie fiammanti ricadevano nel cratere dal quale pareva che le lave ancora non fossero traboccate.


Per quanto i lavori per la goletta richiedessero tutta l'attività della colonia, non furono trascurati nemmeno gli altri lavori.


Intanto, bisognava salire fino al recinto dove il gregge richiedeva le cure dei coloni: e venne deciso che vi si sarebbe recato Ayrton l'indomani, 7 gennaio. Di solito ci andava da solo; e per questo Pencroff e gli altri si meravigliarono quando udirono l'ingegnere che diceva:

- Vi accompagnerò io, Ayrton.


- Signor Cyrus - protestò il marinaio. - I nostri giorni di lavoro sono contati, se anche voi ci lasciate domani, saranno quattro braccia di meno qui!

- Torneremo il giorno dopo, Pencroff. Del resto, ho proprio bisogno di andare al recinto. Desidero vedere a che punto è l'eruzione.


- L'eruzione, l'eruzione... - brontolò il marinaio. - Ecco una cosa che per me non ha proprio una grande importanza!...


L'indomani, Cyrus e Ayrton partirono, sul carro trainato da due asini.


Sopra la foresta passavano delle grandi nuvole fuligginose che lasciavano cadere una specie di nevischio di polvere nera. Al recinto, alberi, prati, spiazzi erano tutti coperti da quella lugubre nevicata di cenere. Poi, fortunatamente, il vento salì piuttosto impetuoso, e si portò via quella nuvolaglia vomitata dal vulcano.


- Strano - mormorò Ayrton.


- Direi che è un indizio grave - rispose Cyrus. - E' pozzolana polverizzata, pietre pomici ridotte in polvere: e questo dimostra che c'è un profondo turbamento negli strati inferiori del vulcano.


- Non si può far niente?

- Niente. Solo renderci un po' conto dello stato presente dell'eruzione. Voi, Ayrton, occupatevi delle stalle e del gregge; intanto io salirò fino alle sorgenti del fiume Rosso ed esaminerò lo stato del vulcano sul suo pendio settentrionale. Poi...


- Poi, signor Smith?...


- Poi andremo a dare un'occhiata alla cripta Dakkar... Voglio vedere... Beh, verrò a prendervi fra un paio d'ore.


Ayrton entrò nelle stalle a occuparsi del gregge, e Cyrus, avventuratosi sulla cresta dei contrafforti orientali, arrivò dove lui e i suoi compagni avevano scoperto un giorno una sorgente solforica.


Come erano mutate le cose! Invece di un solo colonnino di fumo, l'ingegnere ne contò tredici che sgorgavano su dalla terra, lanciati violentemente in aria da una misteriosa forza sotterranea. Era chiaro che, in quel punto, la scorza terrestre subiva una formidabile pressione, l'atmosfera era satura di gas solforoso, di idrogeno, di acido carbonico, mescolati a vapori acquei; e Cyrus sentiva fremere quel tufo vulcanico disseminato un po' dappertutto sul terreno. Ma non vide però alcuna traccia di lave nuove. Non ne vide nemmeno sul pendio settentrionale del monte Franklin. Turbini di fumo e di fiamme sgorgavano dal cratere; una grandinata di scorie incandescenti cadeva dappertutto; ma dagli orli del cratere non usciva nessun rigagnolo di lave. Evidentemente, il livello delle materie vulcaniche non aveva ancora raggiunto l'orlo del cratere.


- Eppure, io preferirei che le lave uscissero già! - disse a se stesso Cyrus. - Almeno sarei sicuro che le lave riprendono le strade di un tempo... E se si rovesciassero da un altro punto? Ma non è qui il pericolo. Oh, il capitano Nemo lo ha ben presentito! No, il pericolo non è nelle lave!

Dopo un accurato esame della situazione, l'ingegnere tornò al recinto, dove Ayrton lo aspettava.


- Il gregge è all'ordine, signor ingegnere.


- Bravo, Ayrton.


- Ma i mufloni sembrano inquieti.


- Eh, già!... E' l'istinto che si sveglia; e l'istinto non si sbaglia mai.


- Quando volete, io sono pronto.


- Prendete una lanterna, Ayrton, e andiamo.


- Presero lo stretto sentiero che conduceva alla costa. Camminavano sopra un terreno ovattato dalle materie pulverulenti cadute dalla nuvolaglia vulcanica. Nei boschi non si scorgeva né un uccello né un quadrupede. Ogni tanto, un po' di vento veniva a scompigliare la cenere disseminata ovunque, e ne faceva zampillare dei piccoli turbini soffocanti. Non si poteva camminare molto rapidamente, in quelle condizioni; ogni tanto bisognava fermarsi a riprendere fiato.


Finalmente, dopo un'ora di quel faticoso cammino, arrivarono all'orlo basaltico che strapiombava sul mare e attaccarono la discesa che, fatta alla luce del sole, era assai meno pericolosa di quanto era stata la notte. In breve furono sulla riva del mare, e trovarono facilmente, data la bassa marea, l'entrata della cripta Dakkar.


- C'è il canotto? - chiese Cyrus.


- Eccolo - rispose Ayrton.


- Allora, imbarchiamoci.


Salirono sulla fragile imbarcazione, e penetrarono nella caverna, dove Ayrton accese la sua lanterna. Cyrus era al timone; Ayrton aveva preso i due remi, avendo piantato la lanterna a prua. Non c'era più la sfolgorante sorgente di luce del "Nautilus" a illuminare la grande caverna; e solo la pallida luce della lanterna rischiarava il silenzioso cammino del canotto che seguiva la parete di destra. Il più profondo silenzio regnava sotto la grande volta; ma quando furono un poco addentro la caverna Cyrus sentì distintamente dei sordi e cupi brontolii che si propagavano nelle viscere sotterranee della montagna.


- E' il vulcano - disse a mezza voce.


Quasi subito, insieme a quei boati profondi, si cominciò ad avvertire la presenza nell'atmosfera di vapori solforosi, che presero alla gola l'ingegnere e il suo compagno.


- Ecco quello che temeva il capitano Nemo - disse Cyrus. Eppure bisogna andare fino in fondo.


- Andiamo - fece semplicemente Ayrton; e, curvatosi sui remi, remò con vigore. Venticinque minuti dopo essere entrati nella caverna, arrivarono alla sua parete terminale. Cyrus, salito allora sopra il bando del canotto, passò la lanterna sulle diverse parti della parete rocciosa che divideva la cripta dal focolaio centrale del vulcano.


Qual era mai lo spessore di quella parete rocciosa? Era di trenta metri o di tre metri? Chi lo poteva dire? Ma i rumori sotterranei erano troppo sensibili perché essa fosse molto spessa...


L'ingegnere, dopo avere scrutato attentamente la parete in senso orizzontale, legò la lanterna a un remo e l'alzò per vedere la parete a una maggiore altezza. Là, da fenditure appena visibili, attraverso i prismi mal congiunti della roccia, vedeva traspirare un fumo acre che infettava l'atmosfera. Qualche frattura già zebrava la muraglia, scendendo fino a un metro sopra il livello dell'acqua...


Cyrus restò qualche istante sopra pensiero, poi mormorò:

- Sì, aveva ragione il capitano Nemo. Ecco il pericolo, il gravissimo pericolo!

Ayrton non disse nulla; a un cenno dell'ingegnere riprese i remi, e, mezz'ora dopo, il canotto usciva dalla cripta Dakkar.




CAPITOLO 19


L'indomani mattina, 8 gennaio, Cyrus e Ayrton ritornavano al Palazzo di Granito, e subito l'ingegnere radunò i coloni e comunicò loro che l'isola correva un gravissimo pericolo che nessuna forza umana avrebbe mai potuto scongiurare.


- Amici - disse, e la sua voce tradiva una profonda emozione l'isola Lincoln non è una di quelle isole che possono durare quanto il globo; essa è destinata a una distruzione più o meno prossima, ed è essa stessa che porta nelle sue viscere la causa di questa sua morte.


I coloni si guardarono in viso, e poi guardarono Cyrus, sgomenti.


- Spiegatevi, Cyrus - disse Spilett.


- Mi spiegherò; o, piuttosto, non farò che trasmettervi la spiegazione che, nei pochi minuti del nostro colloquio segreto, mi ha dato il capitano Nemo.


- Il capitano Nemo?!

- Sì; è l'ultimo servigio che ha voluto renderci prima di morire.


- L'ultimo servigio?! Ma vedrete che anche da morto quell'uomo ci aiuterà! - esclamò Pencroff.


- E che cosa vi ha detto il capitano Nemo? - insisté il giornalista.


- Eccolo, amici. L'isola Lincoln non è nelle condizioni delle altre isole del Pacifico; e una sua struttura particolare, che il capitano Nemo mi ha fatto conoscere, deve, presto o tardi, provocare lo schianto della sua armatura sottomarina.


- L'isola Lincoln!? Ma via! - gridò Pencroff che, nonostante il grande rispetto che aveva per l'ingegnere, non poté fare a meno di alzare le spalle.


- Ascoltatemi, Pencroff. Il capitano Nemo aveva constatato, e l'ho constatato anch'io ieri, durante l'esplorazione che ho fatto nella cripta Dakkar, che questa cripta si prolungava fino al vulcano e che non ne è separata che da una parete rocciosa. Ora, questa parete è già rotta qua e là da molte incrinature e fenditure che lasciano passare i gas solforosi sviluppatisi nell'interno del vulcano...


- E allora?... - fece il marinaio il cui volto impallidiva.


- Ebbene, ho potuto constatare che quelle fenditure si allargavano sotto la pressione interna; che quella parete si andava a poco a poco fendendo e che, presto o tardi, finirà per lasciar passare l'acqua del mare.


- E allora - tentò di scherzare Pencroff - il mare spegnerà il vulcano, e tutto sarà finito.


- Sì, tutto sarà finito. Il giorno in cui il mare precipiterà nel focolaio del vulcano, l'isola Lincoln salterà come salterebbe la Sicilia se il Mediterraneo precipitasse nell'Etna.


I coloni tacquero sbigottiti. Avevano capito quale gravissimo pericolo li sovrastava. Insomma, era evidente che la vita dell'isola era strettamente legata alla resistenza della parete rocciosa della caverna contro le pressioni interne. Era allora una questione non di mesi o di settimane; ma di giorni: forse di ore!

Il primo sentimento dei coloni, fu un profondo dolore. Non pensarono al pericolo personale che correvano, ma alla distruzione di quel suolo che li aveva ospitati, che essi avevano fecondato con tanto amore; alla distruzione di quella bella isola alla quale volevano tanto bene e che avrebbero voluto rendere così fiorente e ricca un giorno!

Pencroff non riuscì a trattenere una grossa lacrima, che gli scivolò giù lungo la guancia. Poi si ripresero e discussero serenamente sulle possibilità di salvezza che restavano loro. In conclusione, riconobbero tutti che non si poteva perdere una sola ora di lavoro, che bisognava spingere i lavori intorno alla goletta con estrema sollecitudine, perché quella goletta rappresentava l'unica loro possibilità di salvezza. Inutile ormai mietere il grano, accumulare riserve, andare a caccia; quello che c'era nei magazzini bastava largamente per approvvigionare la goletta per una traversata. Quello che occorreva era che la goletta fosse pronta al più presto.


Vennero allora ripresi i lavori con disperata energia. Il 23 gennaio, la goletta era quasi pronta. Fino a quel giorno, sulla cima del vulcano non s'era ancora manifestato nessun cambiamento. Sempre fumate, miste a pietre incandescenti e a ceneri. Poi, nella notte sul 24, sotto l'impeto delle lave che dovevano essere giunte al livello del cratere, l'orlo venne schiantato con una formidabile esplosione. I coloni, che dormivano, furono risvegliati d'un colpo, e si precipitarono fuori del Palazzo. Erano le due del mattino. Il cielo era in fiamme. Il cono superiore del monte, un massiccio alto trecento metri, pesante miliardi di chilogrammi, era stato spaccato alla base e precipitato sull'isola, di cui tutto il suolo tremò. Per fortuna, il cono già era inclinato verso nord, e cadde sulla distesa di sabbia e di tufo che si stendeva tra il vulcano e il mare. Il cratere, allargatosi smisuratamente, vomitava una luce così ardente che tutta l'atmosfera pareva incandescente, mentre un torrente di lave, gonfiandosi all'apertura del vulcano, si rovesciava in larghe cascate, in mille serpenti di fuoco lungo i pendii del monte.


- Il recinto! Il recinto! - gridò Ayrton.


Era proprio verso il recinto che scendevano le lave e, di conseguenza, era tutta la zona fertile dell'isola, le sorgenti del fiume Rosso, i boschi del Jacamar, che venivano minacciati di immediata distruzione.


Al grido di Ayrton i coloni s'erano precipitati sulla Bella Vista, avevano attaccato di furia gli asini al carro, e s'erano precipitati verso il recinto, per mettere in libertà tutti gli animali che vi avevano raccolti. Vi giunsero alle tre del mattino. Urla terrorizzate indicavano come i mufloni e le capre, nelle stalle, si agitassero disperatamente. Quando i coloni giunsero alla palizzata, il torrente delle lave era vicino, divorava a poco a poco i pascoli, stava per lambire la palizzata. Piombarono nelle stalle, le aprirono, ne scacciarono le bestie che, terrorizzate, si dispersero, fuori della palizzata, in ogni direzione. Un'ora dopo, le lave avevano invaso il recinto, vaporizzato l'acqua del ruscello, fatto divampare la casa di legno, cancellato ogni traccia di alberi e di pascoli, distrutto ogni cosa.


Prima di tornare al Palazzo di Granito, Cyrus e i suoi compagni vollero vedere la direzione che prendeva il torrente delle lave.


Purtroppo, il pendio generale del suolo si abbassava verso est, ed era da temersi che, nonostante i folti boschi dello Jacamar, quel torrente micidiale scendesse fino alla Bella Vista.


- Il lago dovrebbe difenderci - osservò Spilett.


- Lo spero anch'io - gli fece eco Cyrus.


Intanto il vulcano, trasfigurato per lo schianto del secondo cono del monte, continuava a vomitare torrenti di fuoco e di materie incandescenti, mentre mille esplosioni, tuoni e boati echeggiavano paurosi. Ogni tanto, delle grosse rocce infuocate saettavano fuori dalla bocca ignea del vulcano e andavano a finire lontano, schiantandosi come granate. Il cielo, temporalesco, rispondeva coi suoi fulmini e i suoi tuoni a quel finimondo.


Verso le sette del mattino, i coloni non poterono più resistere dove si trovavano, sull'orlo dei boschi del Jacamar; non soltanto i proiettili in fiamme cominciavano a cadere anche intorno a loro, ma il torrente di lave, nella sua marcia, minacciava di tagliar loro la strada del ritorno. Ripresero allora la strada, andando lentamente, tristemente, in preda a mille pensieri angosciosi. Già la foresta alle loro spalle crepitava in fiamme, mentre gli alberi scoppiavano in aria come giganteschi fuochi d'artificio: le lave scendevano per il suolo in pendio velocemente... I coloni si fermarono sulle rive del lago.


Era una questione di vita o di morte, per loro. E Cyrus, abituato a ridurre in cifra ogni questione, la precisò in termini chiarissimi:

- O il lago arresta il torrente di fuoco, e una parte dell'isola sarà salvata da una totale devastazione; o il torrente invaderà le foreste del Far West, e non resterà nell'isola un albero solo e noi non avremo più alcuna risorsa su questo povero suolo bruciacchiato in attesa che l'esplosione dell'isola intera ci finisca.


- E allora, mi pare che sia inutile pensare a continuare i nostri lavori - fece Pencroff incrociando le braccia sul petto.


- No, Pencroff; bisogna fare il proprio dovere fino all'ultimo minuto - gli replicò Cyrus.


In quel momento il torrente della lava, dopo essersi aperto un passaggio di fuoco tra quei bellissimi alberi che divorava, era arrivato sulle rive del lago. Ma qui, proprio prima della riva, c'era un rialzo del terreno che, se fosse stato un poco più accentuato, sarebbe forse bastato per contenere la lava. Cyrus gridò:

- Al lavoro, amici!

- Tutti compresero. Bisognava cercare di imbrigliare, per così dire, quel torrente, e costringerlo a rovesciarsi nel lago. Volarono al cantiere, ne portarono attrezzi e, di furia, con gli alberi abbattuti, coi rami, i sassi, la terra, riuscirono in poche ore a innalzare una diga alta un metro circa e lunga un centinaio sul fronte dell'inondazione incandescente. Pareva loro di aver lavorato pochi minuti: avevano lavorato delle lunghe ore. Ma era appena tempo.


Il torrente raggiungeva la diga, il fiume fumante si fermò, si gonfiò come se volesse debordare rovesciando quel fragile ostacolo che gli chiudeva la strada delle foreste del Far West; ma, alla fine, dopo un attimo di esitazione che i coloni vissero in un'angoscia difficilmente descrivibile, il torrente si precipitò dentro il lago da tre metri di altezza.


I coloni, senza respiro, guardarono allora quella formidabile lotta fra i due elementi, il fuoco e l'acqua. Il lago sibilava, fumando ed evaporando al contatto di quelle materie incandescenti che vi precipitavano, e colonne altissime di vapore salivano al cielo turbinando. Però, per quanta fosse l'acqua del lago, essa doveva finire per venire assorbita, dal momento che non poteva rinnovarsi, mentre le lave ricevevano continuo incremento dalle materie infiammate che sgorgavano senza cessa dal cratere del vulcano. L'acqua doveva essere insomma vinta dal fuoco! E il lago trasformarsi in un ammasso rovinoso di giganteschi blocchi di lave solidificate.


Tuttavia, quella lotta fu una circostanza favorevole per i coloni; essa voleva dire alcuni giorni di tempo. La Bella Vista, il Palazzo di Granito e il cantiere sarebbero stati momentaneamente preservati dalla rovina. E in quei pochi giorni di relativa sicurezza avrebbero potuto finire la goletta, calafatarla, metterla in mare...


Durante i sei giorni dal 25 al 30 gennaio i coloni lavorarono come avrebbero potuto lavorare venti uomini almeno. Non prendevano che qualche ora di riposo, e le fiamme dell'eruzione consentivano loro di proseguire a lavorare anche di notte. Intanto, la pioggia delle lave pareva essere diminuita di intensità, e fu una fortuna, perché il bacino del lago era già ormai quasi colmo di lava.


Intanto, un altro torrente di lave era sceso lungo la vallata del fiume della Cascata, senza trovare ostacoli, ed era penetrato nella zona occidentale delle foreste del Far West incendiandola in modo che in un baleno la stupenda foresta fu in fiamme e tutti gli animali che ospitava fuggirono terrorizzati verso la Grazia, verso gli stagni dell'Anatra, al di là della strada di Porto Pallone. I coloni erano troppo occupati dai loro lavori, per occuparsi di quegli animali, anche dei più temibili. Del resto, avevano abbandonato il Palazzo di Granito, e accampavano sotto una tenda, vicino alle foci della Grazia.


Ogni giorno, salivano sulla Bella Vista a guardare il vulcano e l'isola. Ma quale desolante spettacolo! Tutta la zona boscosa dell'isola era ormai ridotta in una terra arida e calcinata, i fiumi non avevano più una goccia d'acqua nei loro letti; l'unica acqua da bere rimasta era quella poca del lago Grant, nella sua parte meridionale.


- Tutto questo spezza il cuore! - osservò una mattina Spilett a Cyrus.


- Sì, Spilett - gli rispose l'ingegnere. - E che il Cielo ci dia il tempo di finire la nostra goletta, unico rifugio nostro ormai!

- Ma non trovate, Cyrus, che il vulcano accenni a placarsi un poco?

Vomita sì ancora delle lave, ma con minore abbondanza, mi pare.


- Non ha molta importanza, purtroppo. Il fuoco cova sotto terra, e il mare può precipitarvi da un minuto all'altro. Siamo nella condizione di passeggeri la cui nave sia divorata da un incendio che non possono spegnere e che un'ora o l'altra raggiungerà la Santa Barbara. Andiamo, Spilett! Non perdiamo un'ora di lavoro!

Per altri otto giorni, e cioè fino al 7 febbraio, le lave continuarono a diffondersi, ma l'eruzione si conteneva nei limiti moderati che già avevano osservato Spilett e Cyrus. Verso il 20 febbraio, i coloni cominciarono a sentire dei fremiti strani nel suolo. Mancava ancora un buon mese di lavoro, prima che la goletta fosse pronta. Ma l'isola avrebbe resistito fino ad allora? Cyrus e Pencroff erano decisi a lanciare in mare la loro goletta non appena potesse reggere il mare, senza pensare di finire la sua attrezzatura interna, che avrebbero finita anche in mare. Contavano di portarla al Porto Pallone, abbastanza lontano cioè dal punto della possibile esplosione, nella speranza di poterla salvare. Si arrivò così fino al 3 marzo, e quel giorno deliberarono di varare la goletta fra dieci giorni. I cuori di tutti si erano riaperti alla speranza.


- Oh, la finiremo, la finiremo! - andava dicendo Pencroff. - Ed è ora, sapete. La stagione è quella buona, e noi ne approfitteremo per andare all'isola Tabor. Del resto, perché non passeremmo l'inverno all'isola Tabor? Certo che l'isola Tabor, dopo un'isola Lincoln e... e... Ah, mio Dio, chi l'avrebbe mai detto? Chi l'avrebbe mai pensato?

- Andiamo avanti! - rispondeva invariabilmente l'ingegnere.


E si lavorava senza perdere un minuto.


- Signor padrone - disse qualche giorno più tardi Nab - se il capitano Nemo fosse ancora vivo, credete voi che tutto questo sarebbe successo?

- Sì, Nab.


- E io non lo credo - fece a voce bassa Pencroff al negro.


- Nemmeno io - gli fece eco Nab.


Nella prima settimana di marzo, il monte Franklin ridiventò minaccioso. Il cratere si ingorgò ancora di lave che si rovesciarono giù per tutti i fianchi del monte, e un torrente di lave, questa volta, seguendo la riva sud-occidentale del lago, arrivò sulla Bella Vista distruggendo tutta l'appassionata opera dei coloni in pochi minuti. Fu un colpo terribile per la colonia. Del mulino, delle stalle, degli allevamenti, non restò assolutamente più nulla.


Intanto Top e Jup davano segni di grande agitazione; il loro istinto li avvertiva che un gravissimo pericolo incombeva sull'isola. Poi, finalmente, le lave, dall'altipiano della Bella Vista, cominciarono a precipitare sulla spiaggia in cateratte di fuoco. Durante la notte, pareva un Niagara di acciaio fuso, coi suoi vapori incandescenti in cima e le sue masse bollenti al piede!

I coloni, ridotti nel loro ultimo rifugio, una tenda presso il cantiere, presero una decisione eroica, quel giorno: l'indomani, 9 marzo, avrebbero messo in mare la goletta così come si trovava!

Ma la notte fra l'8 e il 9 marzo, una enorme colonna di vapori, sfuggendo dal cratere, salì, fra spaventose detonazioni, a più di mille metri di altezza verso il firmamento. La parete della cripta Dakkar aveva ceduto sotto la pressione dei gas e il mare s'era precipitato nel cuore ardente del vulcano, vaporizzandosi all'istante.


Ma il cratere non aveva potuto dare uno sfogo sufficiente a quella gigantesca quantità di vapori. Un'esplosione che si sarebbe potuto udire a cento miglia di distanza squarciò l'atmosfera della notte.


Pezzi di montagna ricaddero nelle onde, e, pochi minuti dopo, il Pacifico si stendeva sul luogo dove prima verdeggiava l'isola Lincoln.




CAPITOLO 20


Uno scoglio isolato, lungo dieci metri e largo cinque, emergente tre metri appena, era l'unico frammento di terra ferma su cui non si stendessero le onde dell'Oceano. Era tutto quello che restava del massiccio granito del Palazzo di Granito. Tutto era scomparso; scomparso il monte Franklin, scomparso il golfo dello Squalo, scomparso l'altipiano della Bella Vista, scomparso l'isolotto della Salvezza, Porto Pallone, le rocce basaltiche della cripta Dakkar, scomparsa la penisola Serpentina. Dell'isola Lincoln non era rimasto che quello spuntone di roccia che serviva di estremo rifugio ai sei coloni e al loro cane Top.


Tutti gli animali dell'isola erano periti nella ciclopica catastrofe; anche mastro Jup, poveretto, aveva trovato la morte in qualche crepaccio del suolo. Se Cyrus e i suoi compagni s'erano salvati, lo dovevano al fatto che, al momento dell'esplosione, si trovavano nella loro tenda: erano stati lanciati in mare, e quando erano tornati alla superficie delle onde, non avevano visto più nulla, sul deserto dell'oceano, all'infuori di quello scoglio sul quale si erano affrettati a rifugiarsi.


Là ormai vivevano da nove giorni. Qualche provvista trovata per miracolo sullo scoglio, proveniente dai magazzini del Palazzo di Granito, un po' d'acqua era rimasta nella incavatura rocciosa dello scoglio, ecco tutto quello che ormai possedevano quegli sciagurati.


Non avevano modo di lasciare quello scoglio, non avevano possibilità di accendere un fuoco. Erano destinati a perire!

Quel giorno, 18 marzo, non restava loro che un po' di cibo per altri due giorni. Tutta la loro scienza, tutta la loro intelligenza non poteva niente. Erano nelle mani di Dio: e basta.


Cyrus era calmissimo, Spilett più nervoso, Pencroff animato da una sorda collera andava e veniva sullo scoglio, Nab e Ayrton erano rassegnati al destino, Harbert non lasciava un minuto l'ingegnere e pareva che aspettasse da lui un aiuto, una risorsa!


- Per mille e poi mille e poi ancora mille demoni! - ruggiva Pencroff.


- Se si avesse... macché barca... un guscio, un guscio di noce, io mi sentirei di portarvi all'isola Tabor! Ma invece, niente! niente!

niente!

- Il capitano Nemo ha fatto bene a morire - disse una volta Nab.


Nei cinque giorni che seguirono, i coloni vissero con la più estrema parsimonia, mangiando giusto quel pochissimo che bastava per non morire di fame; ma la loro debolezza era impressionante, e già Nab e Harbert davano segni di delirio.


Era possibile, in siffatte condizioni, che conservassero ancora qualche speranza? E poi, quale speranza mai? Che una nave passasse in vista del loro scoglio? Ma sapevano bene che quella zona del Pacifico era fuori delle solite rotte! Oppure potevano sperare che, per una provvidenziale fatalità, il panfilo scozzese venisse proprio in quei giorni a cercare Ayrton nell'isola Tabor? Ma anche se arrivava, i coloni non avevano potuto mettere nell'isola un segno qualunque che indicasse dove era stato portato Ayrton; e il panfilo non si sarebbe certo sognato di venire verso quello scoglio isolato!

No. Non c'era proprio nessuna speranza di salvezza, e una orribile morte, la morte per la fame e per la sete, li aspettava su quello spuntone di roccia. E già vi si erano distesi, quasi composti, nell'attesa dell'attimo supremo, inconsci di quanto accadeva intorno a loro. Ayrton, a un certo punto, in uno sforzo disperato, sollevò la testa, guardò l'oceano infinito...


Era la mattina del 24 marzo. E le braccia Idi Ayrton si stesero verso un punto dell'orizzonte. Poi, barcollando, riuscì a mettersi in piedi, ad alzare le braccia, ad agitarle una, due volte...


Una nave!... Una nave era in vista dello scoglio! Una nave che non andava alla ventura, ma puntava dritta dritta verso lo scoglio, proprio verso lo scoglio...


- Il "Duncan"!... - mormorò Ayrton, cadendo svenuto sullo scoglio.


Quando Cyrus e i suoi compagni ripresero conoscenza, grazie alle cure che vennero loro prodigate, si trovarono nella stanza di una nave, e non riuscirono a capire come mai erano sfuggiti alla morte. Ma una parola di Ayrton bastò per illuminare le loro menti.


- Il "Duncan"!

- Il "Duncan"?! - esclamò l'ingegnere levando le braccia al cielo. - Dio onnipotente, tu non hai dunque voluto che noi finissimo su quello scoglio!

Era infatti il "Duncan", il bel panfilo di lord Glenarvan, comandato allora da Roberto, figlio del capitano Grant, che era stato spedito all'isola Tabor per riprendervi e rimpatriare Ayrton dopo dodici anni di espiazione.


I coloni erano salvi, e sulla strada del ritorno!

- Capitano Roberto - domandò Cyrus - ma che cosa vi ha mai indotto, dopo aver lasciato l'isola Tabor senza trovarci Ayrton, a puntare verso quello scoglio, a cento miglia a settentrione dell'isola Tabor?

- Ma, signor Smith! Sono venuto a cercare non soltanto Ayrton ma voi e i vostri compagni!

- I miei compagni e me?!

- Ma sì! All'isola Lincoln!

- L'isola Lincoln!? - esclamarono nello stesso tempo stupitissimi Spilett, Harbert, Pencroff e Nab.


- E come conoscevate l'isola Lincoln dal momento che non è segnata su nessuna carta? - domandò Cyrus.


- L'ho conosciuta leggendo quello che avete lasciato scritto nell'isola Tabor.


- Quello che ho lasciato scritto?...


- Sì; ecco, del resto, il documento - fece Roberto Grant mostrando un foglio nel quale era indicata la longitudine e la latitudine dell'isola Lincoln «residenza attuale di Ayrton e di cinque coloni americani».


- Il capitano Nemo!... - mormorò Cyrus dopo aver letto quel foglio e aver constatato che era stato tracciato dalla stessa mano che aveva scritto il documento relativo ad Ayrton.


- Ah! - fece Pencroff. - Allora, era stato lui a prendere il nostro "Bonaventura" e ad arrischiarsi fino all'isola Tabor, tutto solo!...


- Per lasciarvi questo documento! - completò Harbert.


- Avevo ragione io allora - affermò trionfante il marinaio quando vi dicevo che il capitano Nemo ci avrebbe aiutati anche dopo morto!

- Amici! - disse con voce grave Cyrus - che il Signore di tutte le misericordie accolga l'anima del capitano Nemo, nostro salvatore!

I coloni si scoprirono a queste parole, e mormorarono commossi il nome del capitano Nemo.


In quel momento Ayrton, avvicinandosi all'ingegnere, gli chiese:

- E dove posso mettere questo scrigno?

Era lo scrigno che Ayrton era riuscito a salvare, a costo della propria vita, proprio nel momento in cui l'isola si sprofondava sfracellata dall'esplosione, e che ora rimetteva coscienziosamente all'ingegnere.


- Ayrton! Ayrton! - esclamò Cyrus con una profonda emozione. Poi, indirizzandosi a Roberto Grant, fece:

- Signore, dove voi avete lasciato un colpevole, trovate oggi un uomo che l'espiazione ha rifatto un galantuomo, al quale io sono fiero di stringere la mano!

Roberto Grant fu messo al corrente della strana storia del capitano Nemo e della colonia dell'isola Lincoln.


Quindici giorni dopo, i coloni sbarcavano in America e trovavano la loro patria pacificata, dopo quella terribile guerra che aveva fatto trionfare il diritto e la giustizia.


Delle ricchezze contenute nello scrigno lasciato in eredità dal capitano Nemo ai coloni, la maggior parte fu usata nell'acquisto di un vasto dominio nello Stato di Iowa. La perla più bella venne mandata a lady Glenarvan in nome dei rimpatriati del "Duncan".


Là, su quel dominio, i coloni chiamarono al lavoro, cioè alla fortuna e alla felicità, tutti coloro ai quali avrebbero voluto offrire ospitalità sull'isola Lincoln. Là fu fondata una grande colonia che battezzarono col nome dell'isola scomparsa nelle profondità del Pacifico. C'era anche un fiume, che fu chiamato della Grazia, un monte che fu detto Franklin, un laghetto che fu il lago Grant, dei boschi che diventarono le foreste del Far West. Era come un'isola sulla terra ferma.


Là, sotto la guida intelligente dell'ingegnere, tutto prosperò. Non mancava nessuno dei coloni dell'isola Lincoln, perché avevano giurato di stare sempre insieme: Nab sempre accanto al suo padrone; Ayrton che si sarebbe fatto in mille per i suoi compagni; Pencroff, più agricoltore che mai; Harbert, i cui studi si compivano sotto la direzione di Cyrus Smith, Spilett che finì per fondare e dirigere il "New Lincoln Herald", il giornale meglio informato del mondo!...


Là Cyrus e i suoi compagni ricevettero parecchie volte la visita di lord e lady Glenarvan, del capitano John Mangles e di sua moglie, sorella di Roberto Grant, del maggiore Mac Nabb, di tutti coloro che erano stati mescolati alla doppia storia del capitano Grant e del capitano Nemo.


Là, finalmente, furono felici, uniti nel presente come lo erano stati nel passato; e mai dovevano dimenticare la loro isola, quell'isola sulla quale erano arrivati nudi e poveri: quell'isola che per quattro anni era bastata a tutti i loro bisogni e di cui ormai non restava più che uno spuntone di scoglio granitico battuto dalle onde del Pacifico, tomba di colui che era stato il capitano Nemo!

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