Alexander Puskin

 

LA FIGLIA DEL CAPITANO

 

 

 

Custodisci l'onore fin da giovane

Proverbio

 

 

 

CAPITOLO PRIMO

 

IL SERGENTE DELLA GUARDIA

Sarebbe della guardia doman stesso capitano "Non occorre: servizio presti nell'esercito".

Ben detto! Che si travagli un po'...

[...] Ma chi è suo padre?

KNIAZNIN (1)

Il padre mio, Andréj Petrovic' Griniòv, nella sua gioventù aveva servito sotto il conte Minich, e era andato in pensione da primo maggiore nel 17... Da allora era vissuto nella sua campagna di Simbìrsk, dove aveva anche sposato la signorina Avdotia Vasìlievna Ju., figlia di un nobile povero del luogo. Eravamo nove figli.

Tutti i miei fratelli e sorelle morirono nell'infanzia. Io fui iscritto nel reggimento Semiònovski come sergente, grazie al maggiore della guardia principe B., nostro prossimo parente. Fui considerato in licenza fino al termine degli studi. A quel tempo non ci si cresceva al modo di oggi. Dall'età di cinque anni fui messo in mano allo staffiere Savelic', datomi come precettore per la sua sobria condotta. Sotto la sua vigilanza, nel dodicesimo anno, imparai a leggere e scrivere il russo, e potevo assai correttamente giudicare delle qualità di un levriero maschio.

A quel tempo il babbo prese per me un francese, "mossié" Beaupré, che fecero venire da Mosca con l'annuale scorta di vino e d'olio d'oliva. La sua venuta spiacque molto a Savelic'.

"Grazie a Dio", egli bofonchiava tra sé, "il bimbo è, sembra, lavato, pettinato, nutrito. Che bisogno c'era di spendere denaro d'avanzo e prendere un 'mossié', come se ci mancasse gente nostra!".

Beaupré nella patria sua era stato parrucchiere, quindi in Prussia soldato, poi era venuto in Russia "pour être outchitel" (per fare il precettore), senza capire molto il significato di questa parola. Era un buon figliuolo, ma sventato e sregolato all'estremo. Sua principale debolezza era la passione per il bel sesso; non di rado a causa delle sue tenerezze riceveva spintoni per i quali gemeva per ventiquattr'ore intere. Inoltre non era nemmeno, secondo la sua espressione, "un nemico della bottiglia", cioè, a dirla in russo, gli piaceva vuotarne un goccio di troppo.

Ma poiché il vino si serviva da noi solo a pranzo, e eziandio un bicchierino a testa, in occasione di che il precettore di solito lo saltavano, il mio Beaupré si abituò prestissimo all'acquavite russa, e cominciò perfino a preferirla ai vini della sua patria, come senza confronto più salutare per lo stomaco. C'intendemmo subito, e, sebbene per contratto fosse tenuto a insegnarmi "il francese, il tedesco e tutte le scienze", egli preferì svelto svelto imparare da me a masticare il russo, e dopo ciascuno di noi due si occupava ormai dei fatti propri. Vivevamo in perfetta armonia. Né io desideravo altro mentore. Ma ben presto il destino ci separò, e ecco per qual vicenda.

La lavandaia Palaska, una ragazza grossa e butterata, e la guercia vaccara Akulka si accordarono per gettarsi a un tempo ai piedi della mamma, accusandosi di colpevole debolezza e lamentandosi in pianto di "mossié", che aveva circuito la loro inesperienza. Alla mamma con queste cose non piaceva scherzare e se ne dolse col babbo. Egli fece pronta giustizia. Mandò subito a chiamare quella canaglia di francese. Gli riferirono che "mossié" stava dandomi lezione. Il babbo venne nella mia camera. In quel momento Beaupré dormiva sul letto il sonno dell'innocenza. Io ero occupato in una faccenda. Bisogna sapere che per me era stata fatta venire da Mosca una carta geografica. Essa pendeva alla parete senz'uso di sorta, e da un pezzo mi aveva tentato per l'ampiezza e la bontà della carta. Avevo risoluto di farne un aquilone e, approfittando del sonno di Beaupré, mi ero messo all'opera. Il babbo entrò proprio mentre adattavo una coda di stoppa al Capo di Buona Speranza. Vedendo il mio esercizio di geografia, il babbo mi tirò un orecchio, poi corse da Beaupré, lo svegliò senza tanti riguardi e prese a caricarlo di rimbrotti. Beaupré, piccino piccino, voleva sollevarsi e non poteva: il disgraziato francese era ubriaco fradicio. Una le paga tutte. Il babbo lo sollevò per il bavero dal letto, lo spinse fuori della porta e quello stesso giorno lo cacciò via, con indescrivibile gioia di Savelic'. E così terminò la mia educazione.

Vivevo da fanciullo, inseguendo i colombi e giocando a cavallina coi monelli della servitù. Frattanto compii sedici anni. Qui la mia sorte mutò.

Una volta in autunno la mamma coceva in salotto della confettura di miele e io, leccandomi le labbra, guardavo ribollire la liquida crosta. Il babbo presso la finestra leggeva il "Calendario di Corte", da lui ricevuto ogni anno. Questo libro aveva sempre su lui un forte influsso: non lo rileggeva mai senza un particolare interesse, e quella lettura sempre gli procurava uno stupefacente rimescolio di bile. La mamma, che sapeva a memoria tutte le sue usanze e consuetudini, cercava sempre di ficcare il malcapitato libro il più lontano possibile, e in tal modo il "Calendario di Corte" non gli veniva sott'occhi a volte per interi mesi. In compenso, quando per caso lo trovava, non se lo lasciava più scappare di mano per ore intere. E così, il babbo leggeva il "Calendario di Corte", alzando di tanto in tanto le spalle e ripetendo sottovoce: "Tenente generale!... Nella mia compagnia era sergente!... Cavaliere dei due ordini russi!... Ma è un pezzo che noi?...". Infine il babbo scagliò il "Calendario" sul divano e s'immerse in una meditazione che non presagiva nulla di buono.

D'un tratto si rivolse alla mamma:

- Avdotia Vasìlievna, ma quanti anni ha Petruscia?

- Ma, ecco, ha compiuto il sedicesimo, - rispose la mamma, Petruscia nacque lo stesso anno che perdette l'occhio zia Nastassia Gheràssimovna, e quando ancora...

- Bene, - interruppe il babbo, - è ora di fargli prendere servizio. Deve smettere di correre per le stanze delle serve, e di arrampicarsi sulle colombaie.

Il pensiero di una prossima separazione da me colpì talmente la mamma, che lasciò cadere il cucchiaio nella casseruola, e le lacrime colarono giù per il suo viso. Invece è difficile descrivere il mio entusiasmo. Il pensiero del servizio militare si fondeva in me coi pensieri della libertà, coi piaceri della vita pietroburghese. Mi figuravo ufficiale della guardia, il che, secondo la mia opinione, era il colmo della felicità.

Al babbo non piaceva né mutare i propri disegni, né differirne l'esecuzione. Venne fissato il giorno della mia partenza. Alla vigilia il babbo dichiarò che intendeva scrivere per mio mezzo al futuro mio superiore, e chiese penna e carta.

- Non dimenticare, Andréj Petrovic', - disse la mamma, - di salutare anche da parte mia il principe B.: io poi spero che lui non priverà Petruscia dei suoi favori.

- Che sciocchezza! - rispose il babbo, aggrottando le ciglia, a che proposito mi metterò a scrivere al principe B.?

- Ma se hai detto che volevi scrivere al superiore di Petruscia!

- Ebbene, che cosa ci trovi?

- Ma il superiore di Petruscia è il principe B. Sai bene che Petruscia è iscritto al reggimento Semiònovski.

- Iscritto! E che mi fa, ch'è iscritto? Petruscia a Pietroburgo non andrà. Che cosa può imparare, servendo a Pietroburgo? A scialacquare e fare il rompicollo? No, faccia servizio nell'esercito, e tiri la carretta, e senta l'odore della polvere, e sia un soldato e non un damerino nella guardia! Dov'è il suo passaporto? Dallo qua.

La mamma cercò il mio passaporto, custodito nel suo scrignetto con la camicina nella quale mi avevano battezzato, e lo consegnò al babbo con mano tremante. Il babbo lo lesse con attenzione, lo pose davanti a sé sulla tavola e cominciò la sua lettera.

La curiosità mi tormentava. Dove mi mandavano, se non più a Pietroburgo? Non toglievo gli occhi dalla penna del babbo, che si moveva abbastanza lentamente. Infine egli terminò, suggellò la lettera in un piego col passaporto, si tolse gli occhiali e, chiamatomi, disse:

- Eccoti una lettera per Andréj Kàrlovic' R., mio vecchio camerata e amico. Vai a Orenbùrg a servire sotto i suoi ordini.

E così tutte le mie brillanti speranze rovinavano! Invece dell'allegra vita pietroburghese mi aspettava la noia in una contrada sperduta e lontana. Il servizio militare, a cui un minuto prima pensavo con tanto ardore, mi parve una dura infelicità. Ma non c'era da discutere! La mattina del giorno dopo fu condotta all'ingresso la carretta da viaggio; vi misero su una valigia, una cassetta col servizio da tè e fagotti con panini e pasticcini, ultimi segni dei domestici vezzi. I miei genitori mi diedero la benedizione. Il babbo mi disse: - Addio, Piotr. Servi fedelmente colui al quale avrai giurato; obbedisci ai superiori; non correre dietro alla loro benevolenza; non cercare tu stesso il servizio:

dal servizio non esimerti; e ricorda il proverbio: "Bada al vestito fin da nuovo, e all'onore fin da giovane". - La mamma in lacrime raccomandò a me di aver cura della mia salute, e a Savelic' di vegliare sul ragazzino. Mi misero un pellicciotto di lepre, e una pelliccia di volpe sopra. Sedetti nel carro con Savelic' e mi posi in cammino, sciogliendomi in lacrime.

Quella stessa notte arrivai a Simbìrsk, ove dovetti passare tutta una giornata per l'acquisto di cose di necessità; del che era stato incaricato Savelic'. Mi fermai in una locanda. Savelic' fin dalla mattina andò in giro per le botteghe. Annoiatomi di guardare dalla finestra nel sudicio vicolo, me n'andai vagando per tutte le stanze. Entrato nella sala del biliardo, vidi un signore alto, sui trentacinque anni, dai lunghi baffi neri, in veste da camera, con la stecca in mano e la pipa tra i denti. Giocava col pallaio, il quale a ogni vincita beveva un bicchierino di vodka, e a ogni perdita doveva ficcarsi carponi sotto il biliardo. Presi a guardare il loro giuoco. Più a lungo durava, più le gite carponi si facevano frequenti, finché in ultimo il pallaio restò sotto il biliardo. Il signore pronunciò sopra di lui alcune energiche espressioni a guisa di orazione funebre e mi propose di fare una partita. Rifiutai adducendo che non sapevo giocare. Ciò parve riuscirgli strano. Mi guardò quasi con compassione; tuttavia attaccammo discorso. Seppi che si chiamava Ivàn Ivànovic' Zurin, ch'era capitano del reggimento ussari a cavallo di... e si trovava a Simbìrsk per ricevere le reclute, e alloggiava all'albergo.

Zurin mi offerse di pranzare con lui, con quel che il convento passava, da soldati. Acconsentii volentieri. Ci mettemmo a tavola.

Zurin beveva molto e faceva bere anche me, dicendo che bisognava assuefarsi al servizio, mi raccontava aneddoti militari, per i quali poco mancava non schiattassi dalle risa, e ci alzammo da tavola amici perfetti. Qui si offrì d'insegnarmi a giocare al biliardo.

- Per noialtri soldati, - diceva, - è indispensabile. In marcia, per esempio, arrivi in un sito; di che vuoi che ci si occupi? Non si possono mica sempre picchiare gli ebrei. Te ne vai per forza all'albergo e ti metti a giocar al biliardo; e per questo bisogna saper giocare!

Fui convinto perfettamente e intrapresi con grande assiduità lo studio. Zurin m'incoraggiava a gran voce, stupiva dei miei rapidi progressi, e dopo qualche lezione mi propose di giocare a soldi, a mezza copeca sola, non per la vincita, ma così, per non stare a giocare di nulla, che era, a detta sua, la peggiore abitudine.

Acconsentii anche a quello, e Zurin ordinò di portare il ponce e mi esortò a provare, ripetendo che al servizio occorreva avvezzarsi, e senza ponce che servizio è mai ! Gli diedi retta.

Intanto il gioco nostro continuava. Più sorseggiavo il mio bicchiere, più mi facevo ardito. Le palle a ogni momento mi volavano fuori di sponda; mi scaldavo, sgridavo il segnatore, che contava Dio sa come, aumentavo sempre più la posta; in una parola, mi comportavo come un ragazzaccio scappato in libertà. Intanto il tempo era passato insensibilmente. Zurin diede un'occhiata all'orologio, ripose la stecca, e mi dichiarò che avevo perduto cento rubli. Ciò m'imbarazzò un pochino. Il mio denaro l'aveva Savelic'. Presi a scusarmi. Zurin m'interruppe:

- Ma via! Non dartene pensiero. Posso anche aspettare; e intanto andremo da Arìnuska.

Che volete? Finii la giornata così scapestratamente come l'avevo cominciata. Cenammo da Arìnuska. Zurin a ogni istante mi versava da bere, ripetendo che bisognava assuefarsi al servizio. Alzatomi da tavola, appena mi reggevo in piedi; a mezzanotte Zurin mi riportò alla locanda.

Savelic' ci venne incontro sul terrazzino. Egli mandò un gemito, scorgendo gl'indubbi segni del mio attaccamento al servizio.

- Che mai t'è accaduto, signore? - disse con voce dolente, dove ti sei sborniato così? Ahimè, Signore! nella vita non s'è mai dato un guaio simile!

- Zitto, vecchio barbogio! - gli risposi, biascicando, - sei certamente ubriaco; vattene a dormire... e mettimi a letto.

Il giorno appresso mi svegliai col mal di testa, riandando confusamente i fatti del giorno prima. Le mie riflessioni furono interrotte da Savelic', entrato in camera mia con una tazza di tè.

- Presto, Piotr Andreic', - mi disse, crollando il capo, presto cominci a spassartela. E da chi hai preso ciò? Né il babbo né il nonno furono ubriaconi, mi sembra; della mamma non c'è da parlare; in vita sua, tranne il "kvas" non mise mai nulla in bocca. Ma chi ha colpa di tutto? Il maledetto "mossié". Non faceva altro che correre dall'Antìpievna: "Madam, ze vu pri, della vodka". Ed eccoti il "ze vu pri"! Non c'è che dire: instradava al bene, figlio di un cane. E bisognava prenderlo per precettore! Come se il padrone non avesse avuto gente propria!

Ebbi vergogna. Mi voltai in là e gli dissi:

- Vattene via, Savelic'; tè non ne voglio.

Ma Savelic' era difficile farlo tacere, quando attaccava una predica.

- Ecco, vedi, Piotr Andreic', che vuol dire alzare il gomito. Si ha la testa pesante, e poi non si ha voglia di mangiare. L'uomo che beve non è buono a nulla... Bevi un po' di salamoia di cetrioli col miele, ma meglio di tutto sarebbe snebbiarsi con mezzo bicchierotto di acquavite. Non lo comandi?

In quel mentre entrò un ragazzo e mi porse un biglietto da parte di I. I. Zurin. Lo spiegai e lessi le seguenti righe:

"Carissimo Piotr Andréievic', per favore, mandami col mio ragazzo i cento rubli che perdesti meco ieri. Ho bisogno estremo di quattrini. Ai tuoi servizi.

"Ivàn Zurin".

Non c'era che fare. Assunsi un'aria indifferente e, rivolgendomi a Savelic', che "e dei soldi, e della biancheria e degli affari miei aveva cura", ordinai di consegnare ai ragazzo i cento rubli.

- Come! perché? - domandò sbalordito Savelic'.

- Glieli devo, - risposi con la maggior freddezza possibile.

- Li devi! - replicò Savelic', piombando in un sempre maggior sbalordimento, - ma quando, signore, facesti in tempo a indebitarti con lui? C'è qualcosa che non va. Come vuoi, signore, ma i soldi non li darò.

Pensai che, se in questo minuto decisivo non la vincevo sull'ostinato vecchio, con l'andar del tempo mi sarebbe stato difficile liberarmi della sua tutela,e,guardandolo orgogliosamente, dissi:

- Io sono il tuo signore, e tu sei il mio servo. I denari sono miei. Li ho perduti giocando perché così mi saltò in mente; ti consiglio di non ragionare tanto e di fare quel che ti si ordina.

Savelic' fu così colpito dalle mie parole che batté le mani e rimase stordito.

- Perché te ne stai lì? - gridai irosamente.

Savelic' si mise a piangere.

- "Bàtiuska", Piotr Andreic', - disse con voce tremante, - non mi fare morire di dispiacere. Luce mia, dà retta a me, che sono vecchio, scrivi a quel brigante che scherzasti, che tali somme noi nemmeno le si vede. Cento rubli! Dio misericordioso! Di' che i genitori ti hanno rigorosamente proibito di giocare, fuorché a noci...

- Basta ciarlare, - lo interruppi severo, - da' qua i soldi, o ti metterò fuori per le spalle.

Savelic' mi guardò con profonda tristezza e andò a prendere la somma da me dovuta. Mi rincresceva per il povero vecchio; ma volevo affrancarmi e dimostrare che non ero più un bambino. Il denaro fu recapitato a Zurin. Savelic' si affrettò a trarmi fuori della maledetta locanda. Comparve con la notizia che i cavalli erano pronti. Con la coscienza inquieta e un tacito pentimento partii da Simbìrsk, senza accomiatarmi dal mio insegnante e pensando di non rivederlo mai più.

 

 

 

NOTE:

  1. Poeta e drammaturgo (1742-1791).

 

 

 

CAPITOLO SECONDO

 

LA GUIDA

O paese mio, paesello, Paese sconosciuto!

Perché mal non venni lo stesso, Perché un buon destrier non mi portò?

Mi portar, me bravo giovine, La sveltezza, un franco ardire E i fumi della bettola.

CANZONE ANTICA.

Le mie meditazioni di viaggio non erano molto piacevoli. La mia perdita, secondo i prezzi di allora, non era di poco conto. Non potevo non riconoscere nell'anima che la condotta mia nella locanda di Simbìrsk era stata sciocca, e mi sentivo colpevole verso Savelic'. Tutto ciò mi tormentava. Il vecchio sedeva cupo sulla sponda del carro, voltandomi il dorso, e taceva, solo gemendo a tratti. Io volevo assolutamente far pace con lui, e non sapevo da che cosa cominciare. Infine gli dissi:

- Via, via, Savelic'!; basta, facciamo la pace, ho torto; vedo io stesso che ho torto. Ieri commisi molte pazzie e ti offesi per nulla. Prometto di comportarmi d'ora in poi più saggiamente e di darti ascolto. Su, non essere in collera, facciamo pace.

- Eh, "bàtiuska" Piotr Andreic'! - rispose lui con un profondo sospiro, - sono in collera con me stesso: ho torto io in pieno.

Come potei lasciarti solo alla locanda? Che fare? Fui indotto in peccato: mi venne in mente di dare una capatina dalla sagrestana, di vedere la comare. Proprio così: dalla comare mia passai, e in prigione mi fermai. Un vero guaio! Come mi mostrerò agli occhi dei signori? Che diranno essi, quando sapranno che il ragazzo beve e giuoca?

Per consolare il povero Savelic', gli diedi la parola di non disporre in avvenire di una sola copeca senza il suo consenso. A poco a poco egli si calmò, sebbene borbottasse pur sempre ogni tanto fra sé, scotendo la testa:

"Cento rubli! E che è poca cosa?".

Mi avvicinavo alla mia destinazione. Intorno a me si stendevano malinconici deserti, intersecati da colline e burroni. Tutto era coperto di neve. Il sole calava. Il carro andava per una strada angusta, o, più esattamente, sull'orma tracciata dalle slitte dei contadini. D'un tratto il vetturale si mise a guardare da una parte e infine, toltosi il berretto, si rivolse a me e disse:

- Signore, non ordini di tornare?

- E perché?

- Il tempo è malcerto: si alza un po' di vento; guarda come spazza via la neve.

- Poco male.

- Ma vedi là quel che c'è?

Il vetturale indicò con la frusta a oriente.

- Io nulla vedo, tranne la steppa bianca e il cielo chiaro.

- Ma laggiù laggiù: quella nuvoletta.

Scorsi infatti al margine del cielo una nuvoletta bianca, che prima avevo scambiato quasi per una collinetta lontana. Il vetturale mi spiegò che la nuvoletta annunciava una bufera di neve.

Avevo sentito parlare delle tempeste di neve di quei luoghi e sapevo che interi convogli ne erano stati ricoperti. Savelic', conforme all'avviso del vetturale, consigliava di ritornare. Ma il vento non mi parve forte: fidai di raggiungere a tempo la stazione successiva e ordinai di procedere svelto.

Il vetturale mise al galoppo, ma sempre dava occhiate a oriente. I cavalli correvano di buon accordo. Il vento intanto vieppiù si rafforzava. La nuvoletta era diventata una bianca nube, che pesantemente si alzava, cresceva e man mano circondava il cielo.

Venne giù una neve minuta, e di un tratto si rovesciò a fiocchi.

Il vento prese a urlare; scoppiò la tempesta. In un attimo il cielo scuro si mescolò col mare di neve. Tutto scomparve.

- Be', signore, - gridò il vetturale, - è un guaio: c'è la bufera!

Guardai fuori del carro: tutto era buio e turbine. Il vento ululava con tanto feroce vigore che pareva animato; la neve si ammucchiava su me e Savelic'; i cavalli andavano al passo e presto si fermarono.

- Perché non vai avanti? - domandai al vetturale con impazienza.

- Anche così non si sa dove ci siamo cacciati: non c'è strada e tutt'intorno è foschia.

Stavo per sgridarlo. Savelic' ne prese le difese.

- Bella voglia che hai avuto di non dar retta, - diceva in tono stizzito, - saresti tornato all'albergo, avresti preso il tè, riposato ben bene fino alla mattina, la tempesta si sarebbe calmata, avremmo proseguito. E dove ci affrettiamo? Se ancora fosse a nozze!

Savelic' aveva ragione. Non c'era niente da fare. La neve cadeva a tutt'andare. Attorno al carro se ne stava alzando un cumulo. I cavalli stavano ritti, con le teste chine, e tremando ogni tanto.

Il vetturale andava in giro, aggiustando i finimenti, visto che non sapeva che fare. Savelic' brontolava; io guardavo da tutte le parti, sperando di scorgere almeno un indizio di focolare o di strada, ma nulla potevo distinguere, salvo il vortice nevoso. A un tratto vidi qualcosa di nero.

- Ehi, vetturale! - gridai, - guarda: che è quel nero laggiù?

Il vetturale scrutò attentamente.

- Solo Dio lo sa, signore, - disse, sedendo al suo posto, carro non è, albero non è, ma sembra che si muova. Un lupo o un uomo, dev'essere.

Ordinai di dirigersi verso l'oggetto sconosciuto, che subito cominciò a spostarsi incontro a noi. Di lì a due minuti fummo di fronte a un uomo.

- Ehi, buon uomo! - gli gridò il vetturale, - dimmi, non sai dov'è la strada?

- La strada è qui; io sto sulla traccia dura, - rispose il viandante, - ma a che serve?

- Stammi a sentire, contadinotto, - gli dissi, - conosci questo paese? Ti prendi l'impegno di condurmi a un alloggio?

- Il paese mi è noto, - rispose il viandante, - grazie a Dio, l'ho percorso e ripercorso in lungo e in largo. Ma guarda che tempo: in men che non si dica, perdi la strada. Meglio fermarci qui, e aspettare; chi sa che non troviamo il cammino, regolandoci sulle stelle.

Questo sangue freddo mi diede coraggio. M'ero ormai risolto, rimettendomi al volere di Dio, a pernottare in mezzo alla steppa, quando all'improvviso il viandante sedette lesto sulla sponda e disse al vetturale:

- Be', grazie a Dio, il ricovero non è lontano, volta a dritta, e va'.

- E perché devo andare a dritta? - domandò il vetturale con tono di malcontento, - dove la vedi la strada? Non ci pensare: se i cavalli sono d'altri e la bardatura non è tua, frusta e non fermarti.

Mi sembrava che il vetturale avesse ragione.

- Infatti, - dissi, - perché pensi che un asilo non sia lontano?

- Ma perché il vento ha tirato di là, - rispose il viandante, e ho sentito che sapeva di fumo; senza dubbio c'è un villaggio vicino.

La sua sagacia e la finezza del fiuto mi sbalordirono. Ordinai al vetturale di andare. I cavalli avanzavano pesantemente nella neve alta. Il carro procedeva adagio, ora entrando in un mucchio di neve, ora sprofondando in un borro e sbandando un po' da un lato, un po' dall'altro. Somigliava alla navigazione di un bastimento nel mare in tempesta. Savelic' gemeva, urtandomi a ogni istante nei fianchi. Io abbassai la stuoia, mi ravvolsi nella pelliccia e presi a sonnecchiare, cullato dal canto della tempesta e dal dondolio del lento viaggio.

Feci un sogno che mai potei dimenticare, e nel quale tuttora vedo un che di profetico, quando lo associo alle strane circostanze della mia vita. Il lettore mi scuserà, perché probabilmente saprà per esperienza come sia proprio dell'uomo l'abbandonarsi alla superstizione, nonostante ogni possibile sprezzo dei pregiudizi.

Mi trovavo in quello stato dei sensi e dell'anima in cui la realtà, cedendo alle fantasticherie, si fonde con esse nelle indistinte visioni del primo sonno. Mi sembrava che il turbine di neve tuttora infuriasse e noi vagassimo ancora per il nevoso deserto... D'un tratto scorsi un portone e entrai nella corte padronale della nostra fattoria. Primo mio pensiero fu il timore che il babbo non si adirasse con me per l'involontario ritorno sotto il tetto paterno, e non lo prendesse per una meditata disobbedienza. Con inquietudine balzo fuori del carro e vedo: la mamma mi viene incontro sul terrazzino con aria di profondo dispiacere. "Piano", mi dice, "il babbo è malato, in punto di morte, e vuole dirti addio". Preso da terrore, la seguo nella stanza da letto. Vedo che la stanza è debolmente illuminata; vicino al letto gente in piedi con visi mesti. Mi accosto pian piano al letto; la mamma solleva la cortina e dice: "Andréj Petrovic'! E' arrivato Petruscia; è tornato, avendo saputo della tua malattia; benedicilo". Mi posi in ginocchio e fissai i miei occhi sull'infermo. Ma che è?... Invece del padre mio, vedo che in letto giace un contadino dalla barba nera, guardandomi lietamente.

Perplesso, mi girai verso la mamma, dicendole: "Che significa ciò?

Non è il babbo. E a che proposito dovrei domandare la benedizione di un contadino?". "Fa lo stesso, Petruscia", mi rispose la mamma, "è il tuo padrino: baciagli la mano, e che egli ti benedica...".

Io non acconsentivo. Allora il contadino saltò giù dal letto, cavò fuori una scure da dietro il dorso e prese a brandirla in tutti i sensi. Io volevo fuggire... e non potevo; la stanza si riempì di cadaveri; inciampavo nei corpi e scivolavo nelle pozze di sangue.

Il terribile contadino mi chiamava carezzevolmente, dicendo: "Non temere, accostati per ricevere la mia benedizione...". Sgomento e incertezza s'impadronirono di me... E in quel punto mi svegliai. I cavalli erano fermi; Savelic' mi teneva per mano, dicendo:

- Esci, signore, siamo arrivati.

- Arrivati dove? - domandai, strofinandomi gli occhi.

- A una locanda. Il Signore ci ha aiutati, siamo capitati dritto sul recinto. Esci, signore, presto, e scaldati.

Uscii dal carro. Il turbine di neve continuava, sebbene con minor forza. C'era un buio da cavarsi gli occhi. Il padrone ci venne incontro al portone, tenendo un fanale sotto la falda della giacca, e mi condusse in una camera stretta ma abbastanza pulita; una schiappa accesa la rischiarava. Sul muro pendeva una carabina e un alto berretto cosacco.

Il padrone, un cosacco oriundo del Jaìk pareva un contadino sui sessanta, ancora vivace e arzillo. Savelic' portò dietro di me la cassetta da viaggio, chiese del fuoco per fare il tè, che mai m'era sembrato così necessario. Il padrone si mise in faccende.

- Dov'è la guida? - domandai a Savelic'.

- Qui, vostra nobiltà, - mi rispose una voce dall'alto.

Gettai uno sguardo verso il soppalco e scorsi una barba nera e due occhi scintillanti.

- Che sei intirizzito, fratello?

- Come non intirizzire con nient'altro che un cattivo gabbano indosso! Avevo un pellicciotto di montone ma a che nascondere il malfatto? Lo impegnai ieri sera dall'oste: il gelo non mi era parso grande.

In quest'istante il padrone entrò col samovàr bollente; offrii alla nostra guida una tazza di tè, il contadino scese dal soppalco. Il suo aspetto mi parve notevole. Era sulla quarantina, di media statura, sparuto, largo di spalle. Nella sua barba nera si vedeva qualche pelo grigio; i grandi occhi vivi erano sempre in moto. Il suo viso aveva un'espressione abbastanza piacevole, ma da mariuolo. I capelli erano tagliati in tondo, aveva indosso un gabbano strappato e braconi tartari. Gli porsi una tazza di tè; egli l'assaggiò e corrugò le sopracciglia.

- Vostra nobiltà, fatemi questa grazia... Ordinate di portarmi un bicchiere di vino; il tè non è la nostra bevanda cosacca.

Appagai con piacere il suo desiderio. Il padrone cavò da un recipiente di legno una bottiglia quadra, si accostò a lui e, guardandolo in faccia:

- Eh, eh, - disse, - di nuovo dalle nostre parti! Dove ti ha portato Iddio?

La mia guida ammiccò significativamente e rispose con un adagio:

- Nell'orto volavo, la canapa beccavo; mi gettò la nonna un sassolino, ma mi passò vicino. Be', e che fanno i vostri?

- Ma che devono fare i nostri! - rispose il padrone, continuando l'allegorica conversazione, - volevamo sonare a vespro, ma la moglie del "pop" (il prete ortodosso) l'ha proibito: il "pop" è in visita, i diavoli sono in parrocchia.

- Taci, zio, - ribatté il mio vagabondo, - vi sarà la pioggia; ci saranno pure i funghi, e ci sarà il paniere; e ora - (qui egli strizzò nuovamente un occhio) - ficca la scure dietro il dorso:

c'è in giro il guardaboschi. Vostra nobiltà! alla vostra salute!

A queste parole prese il bicchiere, si segnò e bevve di un fiato, poi mi fece un inchino e tornò sul soppalco.

Nulla potei allora capire di quella conversazione furbesca, ma poi mi accorsi che si trattava di faccende dell'esercito del Jaìk, in quel tempo appena sottomesso dopo la rivolta del 1772. Savelic' aveva ascoltato con aria di grande malcontento. Aveva guardato con sospetto ora il padrone, ora la guida. La locanda, o, come si dice laggiù, l'"umiòt", si trovava fuori mano, nella steppa, lontano da ogni villaggio, e somigliava molto a un rifugio di briganti. Ma non c'era niente da fare. Non si poteva neppure pensare a continuare il viaggio. L'inquietudine di Savelic' mi divertiva parecchio. Nel frattempo mi disposi a pernottare e mi coricai su una panca. Savelic' si risolse ad andarsene sulla stufa; il padrone si stese per terra. Ben presto tutta l'isba prese a russare, e io mi addormentai come morto.

Svegliatomi la mattina abbastanza tardi, vidi che la tempesta si era calmata. Il sole splendeva. La neve giaceva a guisa di accecante lenzuolo sull'immensa steppa. I cavalli erano attaccati.

Saldai il conto al padrone, il quale ci prese uno scotto così modesto che perfino Savelic' non attaccò briga con lui e non si diede a tirare sul prezzo, secondo il suo solito, e i sospetti del giorno prima si cancellarono totalmente dalla sua testa. Chiamai la guida, la ringraziai per l'aiuto prestatoci e ordinai a Savelic' di darle mezzo rublo di mancia. Savelic' si accigliò.

- Mezzo rublo di mancia! - disse, - perché ciò? Perché tu stesso hai voluto portarlo alla locanda? Come vuoi, signore: non abbiamo mezzi rubli soverchi. A dar la mancia a tutti, toccherà presto a te stesso patire la fame.

Non potevo litigare con Savelic'. I denari, giusta la mia promessa, erano a sua piena disposizione. Mi rincresceva però di non potere ringraziare un uomo che mi aveva tratto, se non da un malanno, almeno da una spiacevole situazione.

- Va bene, - dissi con flemma, - se non vuoi dar il mezzo rublo, tiragli fuori qualcosa del mio vestiario. E' vestito troppo leggero. Dagli il mio pellicciotto di lepre.

- Per carità, "bàtiuska" Piotr Andreic'! - disse Savelic', perché dargli il tuo pellicciotto di lepre? Lui se lo berrà, il cane, alla prima bettola.

- Questo, vecchio, non è impiccio tuo, - disse il mio vagabondo,- se me lo berrò oppure no. Sua nobiltà mi favorisce la pelliccia togliendola dalle spalle sue: tale è la sua volontà di padrone, e è dover tuo di servo non discutere, ma ubbidire.

- Non hai timore di Dio, brigante! - gli rispose Savelic' con voce stizzita, - vedi che il ragazzino ancora non capisce, e ti fai un piacere di spogliarlo, per via della sua semplicità. Che ti serve il pellicciotto del signorino? Non ci entreranno nemmeno le tue dannate spallacce.

- Prego di non far lo spiritoso, - dissi al mio precettore, porta qui subito il pellicciotto.

- Signore Iddio! - gemé il mio Savelic', - un pellicciotto di lepre quasi nuovo! E pazienza a chiunque altro, ma ad un ubriacone e malandrino!

Tuttavia il pellicciotto di lepre comparve. Il contadino prese a misurarselo lo stesso. Effettivamente il pellicciotto, non più comodo nemmeno per me, era un po' stretto per lui. In qualche modo però egli s'ingegnò e se lo mise indosso, scucendone i punti.

Savelic' per poco non urlò, sentendo come si rompevano i fili. Il vagabondo era straordinariamente contento del mio regalo. Mi accompagnò al carro e disse con un profondo inchino:

- Grazie, vostra nobiltà! Vi compensi il Signore del vostro beneficio. Finché campo, non scorderò la vostra bontà.

Egli se n'andò dalla sua parte e io mi avviai oltre, senza far caso a Savelic', e ben presto dimenticai la tempesta di neve del giorno prima, la mia guida e il pellicciotto di lepre.

Giunto a Orenbùrg, mi presentai difilato dal generale. Vidi un uomo di statura alta, ma già incurvata dalla vecchiezza. I suoi lunghi capelli erano completamente bianchi. La vecchia uniforme stinta rammentava un guerriero dei tempi di Anna Ioànnovna , e nella sua parlata si sentiva fortemente la pronuncia tedesca. Gli porsi la lettera del babbo. Al nome di lui mi gettò una rapida occhiata.

- Tio mio! - disse, - non mi sembra molto che Andréj Petrovic' era ancor tella tua età, e ora ecco che ciofinotto ha cià!... Ah, il tempo, il tempo!

Dissuggellò la lettera e si mise a leggerla sottovoce, facendo le sue osservazioni: - "Egregio signor Andréj Kàrlovic', spero che vostra eccellenza...". Che cerimonie sono cveste ? oipò, come non si fa scrupolo! Certo, la disciplina è la prima cosa, ma si scrife così a un fecchio camerata?... "Vostra eccellenza non ha dimenticato...", uhm... "e... quando... defunto feldmaresciallo Min... in campagna... come pure... Karolinka"... E-eh, "bruder" (fratello)! così rammenta ancora le nostre fecchie scappate? "Ora al fatto... Vi mando il mio rompicollo...", uhm... "tener in briglia...". Che è cvesto "tener in priglia?" Tev'essere un moto ti tire russo... Che cos'è cvesto "tener in priglia"? ripeté, rivolgendosi a me.

- Vuol dire, - gli risposi con l'aria più innocente possibile, trattar bene, non troppo severamente, dare la massima libertà, tener in briglia.

- Uhm, capisco... "E non dargli libertà...", no, si vete che tener in priglia non fuol tir quello... "Includo... il suo passaporto".

Dov'è? Ah, ecco... "Scriverne al Semiònovski. Bene, bene: tutto sarà fatto... "Permetterai che, senza gradi, ci abbracciamo e...

vecchio compagno e amico", ah! finalmente l'ha indovinata...

eccetera, eccetera...

- Be', "bàtiuska", - disse, dopo aver letto la lettera e messo da parte il mio passaporto, - tutto sarà fatto: sarai trasferito come ufficiale nel reggimento..., e, per non perder tempo, domani stesso andrai alla fortezza di Bielogòrsk, dove sarai al comando del capitano Mironov, buono e onesto uomo. Laggiù farai vero servizio, imparerai la disciplina. A Orenbùrg non c'è nulla da fare per te; la distrazione è nociva a un giovane. E oggi favorirai a pranzo da me.

"Di male in peggio!", pensai tra me, "a che m'è servito l'essere già sergente della guardia quasi nel grembo di mia madre ! Dove m'ha portato ciò? Nel reggimento... e in un'oscura fortezza, al confine delle steppe chirghiso-caisacche!". Pranzai da Andréj Kàrlovic', in tre con il suo vecchio aiutante. Una severa economia tedesca regnava alla sua tavola, e io penso che la paura di vedere qualche volta un ospite di più alla sua mensa di scapolo fu in parte la causa del mio sollecito allontanamento in una guarnigione. Il giorno dopo mi congedai dal generale e mi avviai al luogo di mia destinazione.

 

 

 

CAPITOLO TERZO

 

LA FORTEZZA

In fortezza noi viviam, Mangiam pane e acqua beviam; Se i nemici, gli assassini, Qui verran per pasticcini, Un banchetto lor daremo:

A mitraglia spareremo.

CANZONE SOLDATESCA.

Gente all'antica, babbo mio.

"Il minorenne" (Commedia di Fonvisin).

La fortezza di Bielogòrsk si trovava a quaranta verste da Orenbùrg. La strada seguiva la scoscesa riva del Jaìk. Il fiume non era ancora gelato, e le sue plumbee onde nereggiavano tristemente tra le uniformi rive, coperte di bianca neve. Di là da esse si stendevano le steppe chirghise. Io mi sprofondai in meditazioni per lo più malinconiche. La vita di guarnigione aveva per me scarsa attrattiva. Cercavo di figurarmi il capitano Mironov, mio futuro superiore, e lo immaginavo un vecchio severo, collerico, che nulla conosceva fuorché il suo servizio, e pronto per ogni bagattella a mandarmi agli arresti a pane e acqua. Nel frattempo cominciò a imbrunire. Si andava abbastanza velocemente.

- E' lontana la fortezza? - domandai al mio vetturale.

- Non è lontana, - rispose, - eccola, si vede già.

Guardai da tutte le parti, aspettandomi di scorgere minacciosi bastioni, torri e un terrapieno, ma nulla vidi, tranne un villaggetto, circondato da un recinto di travi. Da una parte stavano tre o quattro mucchi di fieno mezzo coperti di neve; dall'altra un mulino storto, dalle ali rozze, pigramente abbassate.

- Ma dov'è la fortezza? - domandai con meraviglia.

- Ma eccola, - rispose il vetturale, indicando il villaggetto, e a queste parole vi entrammo.

Presso la porta scorsi un vecchio cannone di ferro fuso; le vie erano strette e storte; le isbe basse e per la maggior parte coperte di paglia. Ordinai di andare dal comandante, e di lì a un minuto il carro si fermò davanti a una casetta di legno, costruita su un rialto, vicino alla chiesa, pur essa di legno.

Nessuno mi venne incontro. Passai nell'ingresso e aprii la porta che dava in anticamera. Un vecchio invalido seduto sulla tavola, cuciva una toppa turchina sul gomito di una vecchia divisa. Gli ordinai di annunciarmi.

- Entra, "bàtiuska", - rispose l'invalido, - i nostri sono in casa.

Entrai in una stanza pulita, arredata all'antica. In un angolo stava un armadio con stoviglie; sulle pareti pendeva un diploma d'ufficiale in cornice con vetro; lì vicino facevano bella mostra quadretti di poco prezzo, raffiguranti la presa di Kustrin e di Ociakov, nonché la scelta della sposa e i funerali del gatto (...celebrati dai topi. Stampa satirica diffusa in Russia. Nota dei curatori). Presso la finestra sedeva una vecchina in mantelletta foderata di pelo e con un fazzoletto in testa.

Dipanava una matassina che un vecchietto guercio, in divisa d'ufficiale, teneva distesa sulle mani.

- Che desiderate, "bàtiuska"? - domandò, continuando la sua occupazione.

Risposi ch'ero venuto a prendere servizio e a presentarmi come di dovere al signor capitano, e a queste parole fui per rivolgermi al vecchietto guercio, prendendolo per comandante; ma la padrona di casa interruppe il discorso da me mandato a memoria.

- Ivàn Kuzmìc' in casa non c'è, - rispose, - è stato invitato da padre Gherassim; ma fa lo stesso, "bàtiuska", io sono la sua massaia. Prego di volerci bene e favorire. Siedi, "bàtiuska".

Diede una voce a una ragazza e le ordinò di chiamare il sottufficiale. Il vecchietto col suo occhio solitario mi guardava con curiosità.

- Oso domandare, - disse, - in che reggimento avete servito?

Soddisfeci la sua curiosità.

- E oso domandare, - continuò: - perché siete passato dalla guardia in una guarnigione?

Risposi che tale era stato il volere dei superiori.

- Sarà per atti non convenienti a un ufficiale della guardia, immagino? - continuò l'instancabile interrogatore.

- Smettila di dire insulsaggini, - gli disse la moglie del capitano, - lo vedi, il giovane è stanco dal viaggio; non ha la testa a te... tieni dunque le mani più dritte...

- E tu, "bàtiuska" mio, - continuò rivolgendosi a me, - non t'affiiggere che ti abbiano spedito in quest'angolo remoto. Non sei il primo, non sarai l'ultimo. Prima si sopporta, poi ci si affeziona. Svabrin, Aleksiéj Ivanic', sono ormai cinque anni che fu trasferito da noi per un'uccisione. Sa Dio come fu indotto in peccato; egli, vedi, andò fuori di città con un tenente, e avevano preso con loro le spade, e giù a colpirsi l'un l'altro, e Aleksiéj Ivanic' infilzò il tenente, e ancora davanti a due testimoni! Che vuoi farci? Tutti si può peccare.

In quel momento entrò un sottufficiale, un cosacco giovane e ben fatto.

- Maksimic'! - gli disse la moglie del capitano, - assegna al signor ufficiale un alloggio, ma il più pulito possibile.

- Ubbidisco, Vassilissa Jegòrovna, - rispose il sottufficiale, non metteremmo sua nobiltà da Ivàn Polezaiev?

- Vaneggi, Maksimic', - disse la moglie del capitano, - da Polezaiev sono già allo stretto; poi mi è compare e si rammenta che siamo suoi superiori. Conduci il signor ufficiale... com'è il vostro nome e patronimico, "bàtiuska" mio ?

- Piotr Andreic'.

- Conduci Piotr Andreic' da Semiòn Kusov. Il briccone ha lasciato entrare il suo cavallo da me nell'orto. Ebbene, Maksimic', va tutto bene?

- Tutto è quieto, grazie a Dio, - rispose il cosacco, - solo il caporale Pròchorov è venuto alle mani nel bagno con Ustinia Niegulin per il secchio dell'acqua calda.

- Ivàn Ignatic'! - disse la moglie del capitano al vecchietto guercio, - vedi un po' fra Ustinia e Pròchorov chi ha ragione, chi torto. E castigali tutt'e due. Su Maksimic', vattene con Dio.

Piotr Andreic', Maksimic' vi condurrà al vostro alloggio.

Mi accomiatai. Il sottufficiale mi guidò in un'isba, situata sull'alta riva del fiume, proprio all'estremità della fortezza.

Metà dell'isba era occupata dalla famiglia di Semiòn Kusov, l'altra l'assegnarono a me. Constava di una camera, abbastanza linda, divisa in due da un tramezzo. Savelic' prese a metterla in ordine; io mi misi a guardare dalla stretta finestra. Davanti a me si stendeva la malinconica steppa. Di sbieco stavano alcune casupole; per la via vagavano alcune galline. Una vecchia, in piedi sul terrazzino con un mastello, chiamava i maiali che le rispondevano con amichevoli grugniti. Ed ecco in che posto ero condannato a passare la mia giovinezza! L'angoscia mi prese; mi scostai dalla finestra e mi coricai senza cena, nonostante le esortazioni di Savelic', che ripeteva contrito:

- Signore Iddio! non vuol mangiar nulla! Che dirà la signora, se il figliuolo si ammalerà?

La mattina del giorno dopo avevo appena cominciato a vestirmi, che la porta si aprì e da me entrò un giovane ufficiale, di non alta statura, dal viso bruno e superlativamente brutto, ma vivace in modo straordinario.

- Scusatemi, - mi disse in francese, - che vengo senza cerimonie a fare la vostra conoscenza. Seppi ieri del vostro arrivo; il desiderio di vedere finalmente un volto umano s'è talmente impossessato di me, che non ho potuto reggere. Lo capirete, quando avrete vissuto qui un po' di tempo.

Indovinai chi era l'ufficiale escluso dalla guardia per duello.

Svabrin non era affatto sciocco. La sua conversazione era acuta e interessante. Con molta gaiezza mi descrisse la famiglia del comandante, la sua cerchia e il paese dove m'aveva condotto la sorte. Risi di vero cuore, quando entrò da me l'invalido che rappezzava l'uniforme nell'anticamera del comandante, e a nome di Vassilissa Jegòrovna mi chiamò a pranzare da loro. Svabrin si offrì di venire con me.

Avvicinandoci alla casa del comandante, vedemmo in una piazzetta una ventina d'invalidi anzianotti con lunghe trecce e cappelli a tricorno. Erano schierati in linea di fronte. Davanti stava il comandante, un vecchio arzillo e d'alta statura, in berretta e in veste da camera di Nanchino. Vedendoci, si accostò a noi, mi disse qualche parola affabile e riprese a dare comandi. Volemmo fermarci a guardare gli esercizi; ma egli ci pregò di andare da Vassilissa Jegòrovna, promettendo di seguirci subito.

- E qui, - aggiunse, - non avete nulla da guardare.

Vassilissa Jegòrovna ci accolse alla buona e cordialmente, e mi trattò come se mi avesse sempre conosciuto. L'invalido e Palaska mettevano la tovaglia.

- Cos'è che il mio Ivàn Kuzmìc' oggi si strapazza così? - disse la moglie del comandante: - Palaska, chiama il padrone a pranzare. Ma dov'è Mascia?

Qui entrò una fanciulla sui diciotto anni, dal viso tondeggiante, colorita, dai capelli di un biondo chiaro, pettinati dietro le orecchie, che aveva tutte arrossate. A prima vista non mi piacque molto. La guardavo con prevenzione: Svabrin mi aveva descritto Mascia, la figlia del capitano, come una perfetta sciocchina.

Maria Ivànovna sedette in un angolo e si mise a cucire. Intanto servirono la minestra di cavoli. Vassilissa Jegòrovna, non vedendo il marito, mandò una seconda volta Palaska a chiamarlo.

- Di' al padrone: gli ospiti aspettano, la minestra si raffredda; grazie a Dio, gli esercizi non scapperanno; avrà tempo di sgolarsi.

Il capitano di lì a un po' comparve, accompagnato dal vecchietto guercio.

- Che è ciò, "bàtiuska" mio? - gli disse la moglie, - il mangiare è servito da un pezzo, e non si riesce a farti venire.

- Ma senti, Vassilissa Jegòrovna, - rispose Ivàn Kuzmìc', - ero occupato col servizio, istruivo i soldatini.

- Ih, smetti! - ribatté la moglie del capitano, - è solo una chiacchiera che istruisci i soldati: né loro riusciranno a imparare il servizio, né tu ci sai fare. Se te ne stessi a casa a pregare Dio, sarebbe meglio. Cari ospiti, favorite a tavola.

Sedemmo a pranzo. Vassilissa Jegòrovna non stava zitta un momento e mi tempestava di domande: chi erano i miei genitori, erano vivi, dove abitavano e qual era la fortuna loro? Sentendo che il babbo aveva trecento contadini servi: - Vi par poco! disse; - di gente ricca ce n'è al mondo! E noi, "bàtiuska" mio, abbiamo in tutto e per tutto la serva Palaska; ma, grazie a Dio, tiriamo avanti. Un sol guaio: Mascia è una ragazza da marito, e che dote ha? Un pettine fitto, lo scopettino, e tre soldini (Dio, perdonami! ), il necessario per andare al bagno. Fortuna, se si troverà un brav'uomo; se no, stattene per sempre zitella.

Diedi un'occhiata a Maria Ivànovna; lei arrossi tutta, e le gocciolarono perfino delle lacrime nel piatto. Ne ebbi pietà, e mi affrettai a cambiare discorso.

- Ho sentito, - dissi, abbastanza fuor di proposito, - che la vostra fortezza si preparano ad assaltarla i baschiri.

- Da chi, "bàtiuska", hai sentito questo? - domandò Ivàn Kuzmìc'.

- Così mi dissero a Orenbùrg, - risposi.

- Frottole, - disse il comandante, - da noi è un pezzo che non si sente nulla. I baschiri sono gente spaurita, e i chirghisi hanno avuto una lezione. Non credo che ci verranno addosso; ma se verranno, darò loro una strigliata che li calmerò per un dieci danni.

- E non avete paura, - continuai, rivolgendomi alla moglie del capitano, - di rimanere in una fortezza esposta a tali pericoli?

- E' l'abitudine, "bàtiuska" mio, sono vent'anni che dal reggimento ci trasferirono qui, e Dio ne scampi, come temevo questi dannati infedeli! Quando vedevo berretti di lince, e quando sentivo le loro grida, credi, padre mio, mi mancava il cuore addirittura! E adesso sono talmente abituata, che non mi muovo dal posto, quando vengono a dirci che i malviventi girano nei pressi della fortezza.

- Vassilissa Jegòrovna è una signora valorosissima, - osservò in tono d'importanza Svabrin, - Ivàn Kuzmìc' ne può far fede.

- Ma senti, - disse Ivàn Kuzmìc', - la donna non è poi di razza timida.

- E Maria Ivànovna, - domandai, - è ardita come voi?

- Ardita Mascia? - rispose sua madre, - no, Mascia è una paurosona. Tuttora non può sentire un colpo di fucile: non fa che tremare. E quando due anni fa a Ivàn Kuzmìc' saltò in mente, il giorno del mio onomastico, di far sparare il nostro cannone, lei, la mia colombella, per poco dalla paura non se n'andò all'altro mondo. Da allora non spariamo più il maledetto cannone.

Ci alzammo da tavola. Il capitano e la capitanessa andarono a dormire; e io mi recai da Svabrin, col quale passai l'intera serata.

 

 

 

CAPITOLO QUARTO

 

IL DUELLO

Tal sia, mettiti or dunque in positura.

Vedrai com'io trapasserò la tua figura.

KNIAZNIN.

Passò qualche settimana, e la mia vita nella fortezza di Bielogòrsk si fece per me non solo sopportabile, ma perfino piacevole. In casa del comandante ero accolto come un parente.

Marito e moglie erano le persone più rispettabili. Ivàn Kuzmìc', arrivato, da figlio di soldato, a essere ufficiale, era un uomo incolto e semplice, ma onestissimo e buono. Sua moglie lo guidava, ciò che si accordava con la sua noncuranza. Vassilissa Jegòrovna badava anche alle faccende di servizio, come alle sue domestiche, e governava la fortezza così esattamente come la propria casa.

Maria Ivànovna ben presto smise di fuggirmi. Facemmo conoscenza.

Trovai in lei una ragazza savia e sensibile. Senza accorgermene, mi affezionai alla buona famiglia, persino a Ivàn Ignatic', il tenente guercio della guarnigione, del quale Svabrin aveva inventato che fosse in illecita relazione con Vassilissa Jegòrovna, ciò che non aveva ombra di verosimiglianza ma Svabrin di questo non si dava pensiero.

Fui promosso ufficiale. Il servizio non mi opprimeva. In quella fortezza protetta da Dio non c'erano ispezioni, né esercizi, né servizio di guardia. Il comandante di sua propria volontà istruiva a volte i soldati, ma non aveva ancora potuto ottenere che sapessero tutti qual era la destra, e quale la sinistra. Svabrin aveva alcuni libri francesi. Mi diedi a leggere, e in me si svegliò il gusto della letteratura. Le mattine leggevo, mi esercitavo in traduzioni, e a volte anche nel comporre versi; pranzavo quasi sempre dal comandante, dove solitamente trascorrevo il resto della giornata, e qui la sera compariva a volte padre Gherassim con la moglie, Akulina Panfìlovna, primo gazzettino di tutti i dintorni. Con Aleksiéj Ivànovic' Svabrin, s'intende, mi trovavo ogni giorno; ma la sua compagnia diventava per me sempre meno piacevole. I suoi perpetui motteggi sulla famiglia del comandante non mi piacevano affatto, specialmente le mordaci osservazioni su Maria Ivànovna. Altra compagnia in fortezza non c'era; ma altra neppure ne desideravo.

Nonostante le predizioni, i baschiri non si sollevavano. La calma regnava intorno alla nostra fortezza. Ma la pace fu interrotta da un'improvvisa discordia.

Ho già detto che mi occupavo di letteratura. I miei saggi per i tempi d'allora erano passabili, e Aleksàndr Petrovic' Sumarokov, alcuni anni dopo, li lodava parecchio. Una volta mi riuscì di scrivere una canzoncina, della quale fui soddisfatto. Si sa che i compositori a volte, con l'aria di domandare consiglio, cercano un ascoltatore benevolo. E così, copiata la mia canzoncina, la portai da Svabrin, che solo in tutta la fortezza poteva apprezzare l'opera di un verseggiatore. Dopo un piccolo preambolo, tirai fuori dalla tasca il mio quadernetto e gli lessi i seguenti versi:

L'amoroso pensier distruggendo, Io mi sforzo la bella scordar, Ed ahimè, sì da Mascia fuggendo, Penso allor libertà ritrovar!

Ma quegli occhi che fermi prigione Ogni istante dinanzi mi stanno; Han turbato in me la ragione, La mia pace infranto essi hanno.

Tu, saputo del reo mio duolo, Pietà, Mascia, tu abbi di me, Me vedendo in sì barbaro suolo, E che in ceppi fui messo da te.

- Come giudichi ciò? - domandai a Svabrin, aspettando una lode, come un tributo che mi toccasse senza fallo. Ma, con mio gran dispetto, Svabrin, di solito condiscendente, dichiarò reciso che la mia canzone era brutta.

- Perché poi? - domandai, celando il mio dispetto.

- Perché, - rispose, - simili versi sono degni del mio maestro Vassili Kirillic' Trediakovski, e mi rammentano parecchio le sue strofette amorose.

Qui egli mi prese il quaderno e cominciò ad esaminare spietatamente ogni verso e ogni parola, canzonandomi nel modo più pungente. Io non ressi, strappai dalle sue mani il mio quadernetto, e dissi che mai più in vita mia gli avrei mostrato le mie composizioni. Svabrin rise anche di questa minaccia.

- Vedremo, - disse, - se manterrai la tua parola; ai poeti occorre un ascoltatore, come a Ivàn Kuzmìc' una caraffetta di vodka prima di pranzo. E chi è questa Mascia verso la quale esprimi tenera passione e amoroso duolo? Non sarà Maria Ivànovna?

- Non è affar tuo, - risposi accigliato, - chiunque sia questa Mascia. Non domando né il tuo parere, né le tue congetture.

- O-oh! Poeta d'amor proprio e amante discreto! - continuò Svabrin, irritandomi sempre più, - ma ascolta un consiglio d'amico: se vuoi riuscire, ti suggerisco di non agire con le canzoncine.

- Che significa ciò, signore? Spiegati.

- Volentieri. Significa che, se vuoi che Mascia Mirònovna venga da te sul far della sera, invece di teneri versetti, devi regalarle un paio di buccole.

Il sangue mi ribollì.

- E perché hai di lei un simile concetto? - domandai, trattenendo a stento la mia indignazione.

- Ma perché, - rispose con un sogghigno infernale, - so per esperienza usi e costumi suoi.

- Tu menti, mascalzone! - gridai in un impeto di rabbia, - menti nel modo più spudorato.

Svabrin cambiò faccia.

- Questa non t'andrà liscia, - disse, stringendomi la mano, - mi darete soddisfazione.

- Sia pure; quando vuoi! - risposi contento.

In quell'istante ero pronto a farlo a pezzi.

Mi avviai subito da Ivàn Ignatic' e lo trovai con l'ago in mano; per incarico della moglie del comandante, infilava funghi da seccare per l'inverno.

- Ah, Piotr Andreic'! - disse, vedendomi, - benvenuto! Com'è che Dio v'ha mandato? per che faccenda, oso domandare?

In brevi parole gli spiegai che avevo rotto con Aleksiéj Ivànovic', e pregavo lui, Ignatic', di farmi da padrino. Ivàn Ignatic' mi ascoltò con attenzione, sgranando il suo unico occhio.

- Volete dire, - mi disse, - che vorreste infilzare Aleksiéj Ivanic', e desiderate che io vi faccia in ciò da testimone? E' così? oso domandare.

- Proprio così.

- Misericordia, Piotr Andreic'! Che avete ideato mai! Avete litigato con Aleksiéj Ivanic'? Gran guaio! Le parole non hanno odore. Lui ve ne ha dette, e voi cantategliele; lui ve le darà sul grugno, e voi su un'orecchia, sull'altra, su una terza a lui... e separatevi; ma già vi faremo riappacificare. Se no, è forse una buona cosa infilzare il prossimo, oso domandare? E pazienza se voi infilaste lui! Dio l'abbia in gloria, Aleksiéj Ivanic'; per lui non sono io stesso troppo tenero. Be', ma se sarà lui a infilarvi?

S'è mai vista una cosa simile? Chi ci lascerà le penne, oso domandare?

I ragionamenti del saggio tenente non mi scossero. Rimasi fermo nel mio proposito.

- Come vi piace, - disse Ivàn Ignatic', - fate come vi sembra. Ma perché poi dovrei fare qui da testimone? Che c'entra? Uomini che si battono, che rarità è mai, oso domandare? Grazie a Dio, ho marciato contro lo svedese e contro il turco: ho visto di tutto.

In qualche modo presi a spiegargli l'ufficio di padrino, ma Ivàn Ignatic' non poteva in alcun modo capirmi.

- Come volete, - disse, - giacché devo mischiarmi in codesta faccenda, sarà meglio andare da Ivàn Kuzmìc', e riferirgli, per dovere di servizio, che in fortezza si va meditando un delitto, contrario all'interesse della corona: chi sa che il signor comandante non pensi bene di prendere i provvedimenti del caso.

Mi spaventai e mi diedi a pregare Ivàn Ignatic' di non dire nulla al comandante; lo persuasi a stento; egli diede la sua parola e io risolsi di rinunciare a lui.

Passai la sera, al mio solito, dal comandante. Mi sforzavo di sembrare gaio e indifferente, per non dare nessun sospetto e evitare domande importune; ma non avevo, lo confesso, il sangue freddo che vantano quasi sempre coloro che si trovarono nella mia condizione. Quella sera ero disposto alla dolcezza e all'intenerimento. Maria Ivànovna mi piaceva più del consueto. Il pensiero che forse la vedevo per l'ultima volta le dava ai miei occhi qualcosa di commovente. Svabrin comparve in quel momento. Lo presi in disparte e lo informai della mia conversazione con Ivàn Ignatic'.

- A che ci servono i padrini? - mi disse seccamente, - ne faremo a meno.

Convenimmo di batterci dietro i mucchi di fieno che si trovavano presso la fortezza, e di recarci là il giorno dopo, alle sette del mattino. Discorrevamo, in apparenza, così amichevolmente che Ivàn Ignatic' dalla contentezza si tradì.

- Da un pezzo avreste dovuto far così, - mi disse con aria soddisfatta, - una cattiva pace è meglio di una buona lite, e anche se non è onorata, è salutare.

- Che cosa, che cosa, Ivàn Ignatic'? - disse la moglie del comandante, che in un angolo faceva le carte, - non ho inteso bene.

Ivàn Ignatic', osservando in me segni di malcontento e rammentando la sua promessa, si turbò e non seppe che rispondere. Svabrin fece in tempo a venirgli in aiuto.

- Ivàn Ignatic', - disse, - approva il nostro accomodamento.

- E con chi mai, "bàtiuska" mio, hai litigato?

- Io e Piotr Andreic' stavamo per venire a una baruffa abbastanza grossa.

- Perché poi?

- Per una vera inezia: per una canzoncina, Vassilissa Jegòrovna.

- Ha trovato di che fare lite! per una canzoncina!... E com'è andata?

- Ma ecco come: Piotr Andreic' compose di recente una canzone e oggi la cantò in mia presenza, e io intonai la mia preferita:

Figlia del capitano, A mezzanotte non andar a spasso.

Ne nacque una stonatura. Piotr Andreic' era quasi in collera, ma poi considerò che ognuno è libero di cantare quel che gli piace. E finì così.

La sfrontatezza di Svabrin per poco non mi rese furioso; ma nessuno, tranne me, capì le sue grossolane allusioni; per lo meno, nessuno vi fece caso. Dalle canzonette la conversazione si rivolse ai verseggiatori, e il comandante osservò che essi tutti sono ubriaconi scapestrati e incalliti, e mi consigliò amichevolmente di lasciare stare la poesia, come cosa contraria al servizio e che non porta a nulla di buono.

La presenza di Svabrin era insopportabile. Ben presto mi accomiatai dal comandante e dalla sua famiglia; giunsi a casa, esaminai la mia spada, ne provai la punta e mi coricai, dopo aver ordinato a Savelic' di svegliarmi alle sette.

Il giorno dopo, all'ora fissata, stavo già dietro i mucchi, aspettando il mio avversario. Ben presto comparve.

- Ci possono sorprendere, - disse, - bisogna spicciarsi.

Ci togliemmo le divise, rimanemmo nei soli giubbetti, e snudammo le spade. In quel momento, da dietro un mucchio di fieno, comparve di un tratto Ivàn Ignatic' con quattro o cinque invalidi. Egli c'ingiunse di presentarci al comandante. Ubbidimmo con dispetto; i soldati ci attorniarono e ci avviammo sulle orme di Ivàn Ignatic', che ci condusse in trionfo, procedendo a grandi passi, con mirabile gravità.

Entrammo in casa del comandante. Ivàn Ignatic' aprì la porta, proclamando solennemente: - Li ho condotti! - Ci venne incontro Vassilissa Jegòrovna.

- Ah, padri miei! S'è mai visto? come? che cosa? Nella nostra fortezza combinare un assassinio! Ivàn Kuzmìc', mettili subito agli arresti! Piotr Andreic', Aleksiéj Ivanic'! date qua le vostre spade, date, date qua. Palaska, porta queste spade nel ripostiglio. Piotr Andreic', questo da te non me l'aspettavo, come non hai scrupolo! Pazienza Aleksiéj Ivanic': lui anche dalla guardia è stato escluso per omicidio, lui anche nel Signore Iddio non crede; ma tu che fai? ti metti sulla stessa strada?

Ivàn Kuzmìc' era pienamente d'accordo con la sua consorte e soggiunse:

- Ma stai a sentire, Vassilissa Jegòrovna dice il vero. I duelli sono formalmente vietati in un'ordinanza militare.

Intanto Palaska ci aveva ritirato le spade e le aveva portate nel ripostiglio. Non potei non mettermi a ridere. Svabrin serbò la sua gravità.

- Con tutto il mio rispetto per voi, - le disse con flemma, non posso non osservarvi che vi disturbate per nulla, assoggettandoci al vostro giudizio. Lasciate ciò a Ivàn Kuzmic: è affar suo.

- Ah, "bàtiuska" mio, - replicò la moglie del comandante, - ma che marito e moglie non fanno un solo spirito e un corpo solo? Ivàn Kuzmìc'! perché stai lì a sbadigliare? Mettili in differenti angoli a pane e acqua che gli passi il ruzzo; e che padre Gherassim imponga loro una penitenza, onde implorino il perdono da Dio e si pentano davanti agli uomini.

Ivàn Kuzmìc' non sapeva a che risolversi. Maria Ivànovna era straordinariamente pallida. A poco a poco la burrasca tacque; la moglie del comandante si calmò e ci costrinse a baciarci l'un l'altro. Palaska ci portò le nostre spade. Uscimmo da casa del comandante, in apparenza, riconciliati. Ivàn Ignatic' ci seguì.

- Come non aveste vergogna, - gli dissi adirato, - di denunciarci al comandante, dopo avermi dato la parola di non farlo?

- Com'è vero Dio, a Ivàn Kuzmìc' non lo dissi, - rispose, Vassilissa Jegòrovna è riuscita a cavarmi tutto di bocca. E fu lei a disporre tutto, all'insaputa del comandante... Del resto, sia lode a Dio che tutto è finito così.

A queste parole girò verso casa, e Svabrin e io rimanemmo da solo a solo.

- La nostra faccenda non può finire così, - gli dissi.

- Certo, - rispose Svabrin, - mi risponderete col vostro sangue dell'insolenza vostra; ma probabilmente ci terranno d'occhio.

Dovremo fingere per qualche giorno. Arrivederci.

E ci separammo come se nulla fosse stato.

Io, tornato dal comandante, al mio solito, sedetti accanto a Maria Ivànovna. Ivàn Kuzmìc' non era in casa; Vassilissa Jegòrovna era occupata nelle faccende domestiche. Ci mettemmo a discorrere sottovoce. Maria Ivànovna mi rimprovera con tenerezza per l'inquietudine causata da tutta la mia baruffa con Svabrin.

- Io tramortii, - disse, - quando ci dissero che intendevate battervi alla spada. Come sono strani gli uomini! Per una parola, che di lì a una settimana avrebbero certo dimenticato, sono pronti a scannarsi e a sacrificare non solo la vita, ma pure la coscienza, e la felicità di coloro che... Ma io sono convinta che non siete voi l'istigatore di questa rissa. Il torto è certo di Aleksiéj Ivanic'.

- E perché mai così pensate, Maria Ivànovna?

- Ma così... è tale uno schernitore! Non amo Aleksiéj Ivanic'!

Egli mi ripugna molto; è strano: non vorrei a nessun patto che io pure non gli piacessi allo stesso modo. Mi turberebbe all'estremo.

- E come pensate, Maria Ivànovna? Gli piacete, oppure no?

Maria Ivànovna prese a balbettare e arrossì.

- Mi sembra, - disse, - penso che gli piaccio.

- E perché vi sembra così?

- Perché mi chiese in moglie.

- In moglie! Vi chiese in moglie? Ma quando?

- L'anno scorso, un due mesi prima del vostro arrivo.

- E voi non lo sposaste?

- Come potete vedere. Aleksiéj Ivanic', certo, è un uomo intelligente e di buona famiglia, e ha una fortuna; ma quando penso che bisognerebbe, al momento della benedizione nuziale, scambiare con lui davanti a tutti il bacio... per nulla al mondo!

per nessuna felicità!

Le parole di Maria Ivànovna mi aprirono gli occhi e mi chiarirono molte cose. Capii l'ostinata maldicenza con cui Svabrin la perseguitava. Probabilmente aveva osservato la nostra vicendevole inclinazione e cercava di staccarci l'uno dall'altra. Le parole che avevano dato motivo alla nostra contesa mi parvero anche più ignobili, quando, invece di un grossolano e turpe dileggio, vi scorsi una meditata calunnia. Il desiderio di punire l'insolente sparlatore si fece in me più forte ancora, e con impazienza presi ad aspettare un'occasione propizia.

Non aspettai a lungo. Il giorno dopo, mentre ero intento a un'elegia e rosicchiavo la penna in attesa di una rima, Svabrin picchiò sotto la mia finestra. Lasciai la penna, presi la spada e uscii da lui.

- A che pro rimandare? - mi disse Svabrin, - non ci sorvegliano.

Scendiamo al fiume. Là nessuno ci darà noia.

Ci avviammo in silenzio. Calati per un ripido sentiero, ci fermammo proprio vicino al fiume e snudammo le spade. Svabrin era più destro di me, ma io più forte e ardito, e "mossié" Beaupré, che un tempo era stato soldato, mi aveva dato qualche lezione di scherma, di cui mi giovai. Svabrin non si aspettava di trovare in me un avversario tanto pericoloso. Per lungo tempo non potemmo farci l'un l'altro alcun danno; infine, accortomi che Svabrin s'indeboliva, mi diedi a incalzarlo vivacemente e lo spinsi quasi fin proprio nel fiume. A un tratto sentii il mio nome, strillato a gran voce. Volsi lo sguardo e vidi Savelic' che scendeva di corsa verso di me per il ripido sentiero... Nello stesso tempo sentii una violenta fitta in petto sotto la spalla destra, caddi e persi i sensi.

 

 

 

CAPITOLO QUINTO

 

L'AMORE

Ah, tu, figlia, figlia bella!

Non sposarti, figlia, giovane; Chiedi, figlia, a babbo, a mamma, Ai parenti, alla casata; Tu giudizio, figlia, accumula, E giudizio, e senno, e dote.

CANZONE POPOLARE.

Se meglio di me trovi - tu mi scordi, Se peggio di me trovi - mi ricordi.

CANZONE POPOLARE.

Dopo aver ripreso i sensi, per qualche tempo non potei raccapezzarmi e capire quello che m'era accaduto. Giacevo in letto in una camera sconosciuta e sentivo una gran debolezza. Davanti a me stava Savelic' con una candeletta in mano. Qualcuno svolgeva cautamente le fasciature da cui avevo stretti il petto e la spalla. A poco a poco i miei pensieri si schiarirono. Rammentai il mio duello e mi avvidi ch'ero ferito. In quel momento l'uscio cigolò.

- Ebbene, come va? - proferì in bisbiglio una voce che mi fece sussultare.

- Sempre nello stesso stato, - rispose Savelic' con un sospiro,- sempre senza conoscenza, ecco ormai il quinto giorno.

Io volevo girarmi, ma non potevo.

- Dove sono? chi c'è? - dissi con sforzo.

Maria Ivànovna si accostò al mio letto e si chinò su me.

- Ebbene, come vi sentite? - disse.

- Dio sia lodato, - risposi con voce debole, - siete voi, Maria Ivànovna? Ditemi...

Non fui in grado di continuare e tacqui. Savelic' mandò un gemito.

La gioia si dipinse sul suo viso.

- E' rinvenuto! è rinvenuto! - ripeteva, - gloria a Te, o Signore!

Orsù, "bàtiuska" Piotr Andreic'! quanto m'hai spaventato! Va meglio? Cinque giorni!

Maria Ivànovna interruppe il suo dire.

- Non parlare molto con lui, Savelic', - disse, - è ancora debole.

Ella usci e riaccostò la porta pian piano.

I miei pensieri si agitavano. Dunque ero in casa del comandante:

Maria Ivànovna entrava da me. Volevo fare a Savelic' varie domande, ma il vecchio scosse la testa e si turò gli orecchi. Io con dispetto chiusi gli occhi e ben presto mi assopii.

Svegliatomi, chiamai Savelic', ma invece di lui scorsi davanti a me Maria Ivànovna; la sua angelica voce mi salutò. Non posso esprimere il dolce sentimento che si impadronì di me in quell'istante. Afferrai la sua mano e mi ci attaccai, versando lacrime d'intenerimento. Mascia non la strappava via... e di un tratto i suoi labbruzzi sfiorarono la mia guancia, e io sentii il loro bacio fresco e ardente. Un fuoco mi percorse.

- Cara, buona Maria Ivànovna, - le dissi, - sii mia moglie, acconsenti alla mia felicità.

Ella si riprese.

- Per l'amor dl Dio, calmatevi, - disse, togliendomi la sua mano, - siete ancora in pericolo, la ferita può aprirsi. Abbiatevi riguardo, non fosse che per me.

A queste parole uscì, lasciandomi nell'ebbrezza dell'estasi. La felicità mi rianimò. Ella sarà mia! mi ama! Questo pensiero riempiva tutta la mia esistenza.

Da allora andai sempre più migliorando. Mi curava il barbiere del reggimento, poiché nella fortezza non c'era altro medico e, grazie a Dio, non faceva il saputo. La giovinezza e la natura affrettarono la mia guarigione. Tutta la famiglia del comandante si dava premura di me. Maria Ivànovna non mi lasciava. Alla prima occasione favorevole, s'intende, ripresi la conversazione interrotta, e Maria Ivànovna mi ascoltò più pazientemente. Senza alcuna leziosaggine mi confessò la sua sincera propensione e disse che i suoi genitori sarebbero certamente stati lieti della sua felicità.

- Ma pensaci bene, - soggiunse, - da parte dei tuoi parenti non vi saranno poi ostacoli?

Mi feci pensieroso. Della tenerezza della mamma non dubitavo; ma, conoscendo l'indole e il modo di pensare di mio padre, sentivo che il mio amore non l'avrebbe troppo commosso, e che egli l'avrebbe considerato come il ghiribizzo di un giovanotto. Lo confessai francamente a Maria Ivànovna, e stabilii tuttavia di scrivere al babbo nella maniera più eloquente possibile, domandando la benedizione paterna. Feci vedere la lettera a Maria Ivànovna, la quale tanto la trovò persuasiva e commovente che non dubitò del suo buon esito, e si abbandonò ai sentimenti del tenero cuor suo con tutta la fiducia della giovinezza e dell'amore.

Con Svabrin mi riconciliai nei primi giorni della mia guarigione.

Ivan Kuzmìc', rimbrottandomi per il duello, mi disse:

- Eh, Piotr Andreic'! dovrei metterti agli arresti, ma sei già punito anche così. Quanto ad Aleksiéj Ivanic', lo tengo chiuso sotto buona guardia nel deposito del grano, e la sua spada ce l'ha sotto chiave Vassilissa Jegòrovna. Se ne stia a riflettere, e a pentirsi.

Ero troppo felice per serbare in cuore un sentimento malevolo.

Presi a intercedere per Svabrin, e il buon comandante, con l'assenso della sua consorte, si decise a liberarlo. Svabrin venne da me; testimoniò un profondo rammarico per quello che era accaduto tra noi; si riconobbe pienamente colpevole, e mi pregò di scordare il passato. Essendo per natura alieno da rancore, gli perdonai sinceramente e la nostra rissa e la ferita che da lui avevo ricevuto. Nella sua calunnia scorsi il dispetto dell'amor proprio offeso e del respinto amore, e generosamente scusai il mio rivale sfortunato.

Ben presto guarii e potei passare nel mio alloggio. Aspettavo con impazienza la risposta alla lettera inviata, non osando sperare e sforzandomi di soffocare tristi presentimenti. Con Vassilissa Jegòrovna e suo marito non m'ero ancora spiegato; ma la mia proposta non doveva far loro meraviglia. Né io né Maria Ivànovna cercavamo di nascondere a loro i nostri sentimenti, e eravamo anticipatamente sicuri del loro consenso.

Infine una mattina Savelic' entrò da me, tenendo in mano una lettera. L'afferrai con trepidazione. L'indirizzo era scritto di mano del babbo. Ciò mi preparò a qualcosa di grave, poiché di solito le lettere me le scriveva la mamma, e lui in calce aggiungeva qualche riga. A lungo non dissuggellai il piego e rilessi la solenne soprascritta: "Al figlio mio Piotr Andréievic' Griniòv, provincia di Orenbùrg, fortezza di Bielogòrsk". Mi sforzavo d'indovinare dalla scrittura la disposizione di spirito in cui era stata scritta la lettera; infine mi risolsi ad aprirla, e fin dalle prime righe mi avvidi che tutta la faccenda era andata a monte. Il tenore della lettera era il seguente:

"Figlio mio Piotr! La tua lettera, nella quale ci chiedi la nostra benedizione e il consenso al matrimonio con Maria Ivànovna figlia di Mironov, la ricevemmo il 15 corrente mese, e non solo non intendo darti né la mia benedizione né il mio consenso, ma ancora mi accingo a raggiungerti e darti una buona lezione, come si dà a un ragazzaccio, nonostante il tuo grado di ufficiale: perché hai dimostrato che ancora non sei degno di portare la spada, la quale ti è stata concessa per la difesa della patria, e non per duelli con rompicolli pari tuoi. Scriverò immediatamente ad Andréj Kàrlovic', pregandolo di trasferirti dalla fortezza di Bielogòrsk in qualche parte più lontano, dove ti passi il ruzzo. Mamma tua, saputo del tuo duello e ch'eri stato ferito, si ammalò per il dispiacere e ora è a letto. Che sarà di te? Prego Dio che tu ti corregga, sebbene neppure osi sperare nella Sua grande misericordia.

"Tuo padre A. G.".

La lettura di questa lettera svegliò in me sensazioni diverse. Le crudeli espressioni, che il babbo non aveva lesinato, mi offesero profondamente. Lo sprezzo col quale menzionava Maria Ivànovna mi parve non tanto sconveniente quanto ingiusto. Il pensiero di un mio trasferimento dalla fortezza di Bielogòrsk mi sgomentava; ma più di tutto mi afflisse la notizia dell'infermità di mia madre.

Mi indignavo contro Savelic', non dubitando che il mio duello fosse stato conosciuto dai genitori per mezzo suo. Misurando a grandi passi avanti e indietro la mia angusta camera, mi fermai davanti a lui e dissi, guardandolo minaccioso:

- Non ti basta, si vede, che per causa tua fui ferito e per tutt'un mese stetti sull'orlo della tomba; vuoi far morire anche mia madre.

Savelic' rimase come colpito dalla folgore.

- Per carità, signore - disse, per poco non scoppiando in singhiozzi, - perché dici questo? Io la causa che fosti ferito?

Dio lo vede, correvo a ripararti col mio petto dalla spada di Aleksléj Ivanic'! Me l'impedì la dannata vecchiaia. Ma che cosa feci a mamma tua?

- Che facesti? - risposi, - chi ti pregò di scrivere denunce contro di me? Mi fosti preposto, forse, per spia?

- Io scrissi denunce contro di te? - rispose Savelic' in lacrime.

- Signore, re dei cieli! Ebbene, di grazia, leggi un po' quello che mi scrive il padrone: vedrai come ti ho denunciato.

Qui egli cavò di saccoccia una lettera e lesse quanto segue:

"Vergognati, vecchio cane, di non avermi riferito, nonostante i miei severi ordini, circa il figlio mio Piotr Andréievic', e che gli estranei son costretti a informarmi delle sue scappate. Così adempi il tuo dovere e la volontà del padrone? Ti manderò, vecchio cane, a pascolare i porci per aver nascosto la verità e per connivenza col giovanotto. Al ricevere della presente, ti ordino di scrivere senza indugio come va ora la sua salute, della quale mi scrivono che si è ristabilita; e in che posto precisamente fu ferito e se l'hanno guarito bene".

Era evidente che Savelic' di fronte a me aveva ragione e che a torto l'avevo offeso coi rimproveri e i sospetti. Gli domandai perdono; ma il vecchio era inconsolabile.

- Ecco quel che dovevo vedere, - ripeteva, - ecco quali ricompense ho ricevuto dai miei signori! Sono e un vecchio cane, e un guardiano di porci, e poi anche la causa della tua ferita!... No, "bàtiuska" Piotr Andreic'! non io, ma il maledetto "mossié" ha la colpa di tutto: lui t'insegnò a infilzare con gli spiedi di ferro, e a scalpicciare, come se con l'infilzare e lo scalpicciare ci si potesse guardare da un malvagio! C'era bisogno di prendere un "mossié" e di sprecar quattrini!

Ma chi s'era preso la briga d'informare mio padre della mia condotta? Il generale? Ma egli sembrava non darsi troppo pensiero di me; e Ivàn Kuzmìc' non aveva stimato necessario far rapporto sul mio duello. Mi perdevo in congetture. I miei sospetti si fermarono su Svabrin. Lui solo aveva interesse a una denuncia, conseguenza della quale poteva essere il mio allontanamento dalla fortezza e una rottura con la famiglia del comandante. Andai ad annunciare tutto a Maria Ivànovna. Ella mi venne incontro sul terrazzino.

- Che mai vi è accaduto? - disse, vedendomi, - come siete pallido!

- Tutto è finito! - risposi, e le porsi la lettera del babbo.

Ella impallidì a sua volta. Dopo aver letto, mi rese la lettera con mano tremante e con voce tremante disse:

- Si vede che non è mio destino... I vostri parenti non mi vogliono nella loro famiglia. Sia fatta in tutto la volontà del Signore! Dio sa meglio di noi quel che ci occorre. Non c'è che fare, Piotr Andreic', siate almeno voi felice...

- Non sarà mai! - gridai io, afferrandole la mano, - tu mi ami; io sono pronto a tutto. Andiamo a gettarci ai piedi dei tuoi genitori; loro sono gente semplice, non superbi dal cuor duro...

Ci benediranno; ci sposeremo. E laggiù, col tempo, ne son certo, placheremo mio padre; la mamma sarà per noi; lui mi perdonerà...

- No, Piotr Andreic', - rispose Mascia, - non ti sposerò senza la benedizione dei tuoi genitori. Senza la loro benedizione non avrai fortuna. Pieghiamoci al volere di Dio. Se troverai colei che t'è destinata, se amerai un'altra, Dio sia con te, Piotr Andreic'; e io per tutt'e due voi...

Qui ella scoppia in pianto e mi lasciò; io volevo già seguirla in camera sua, ma sentii che non ero in grado di dominarmi, e tornai a casa.

Sedevo immerso in profonde fantasticherie, quando a un tratto Savelic' interruppe le mie meditazioni.

- Ecco, signore, - disse, porgendo un foglio scritto, - guarda se sono io il denunciatore del mio padrone, e se cerco di mettere in discordia padre e figlio.

Gli presi dalle mani la carta: era la risposta alla lettera da lui ricevuta. Eccola, parola per parola:

"Signore Andréj Petrovic', padre nostro graziosissimo!

"Ricevetti il vostro grazioso scritto, nel quale ti compiaci di adirarti con me, vostro schiavo, che non abbia vergogna di non eseguir gli ordini dei miei signori; ma io non sono un vecchio cane, bensì il fedele vostro servo, ubbidisco agli ordini del padrone e sempre con zelo vi servii e ho fatto i capelli bianchi.

Della ferita di Piotr Andreic' nulla vi scrissi, per non spaventare inutilmente, e sento dire che la padrona, la madre nostra Avdotia Vassìlievna, anche così già si e ammalata dallo spavento, e io pregherò Dio per la sua salute. E Piotr Andreic' fu ferito sotto la spalla destra, al petto, proprio sotto l'osso, profondo tre dita, e stette in letto in casa del comandante, dove lo portammo dalla riva, e lo curò il barbiere di qui, Stiepàn Paramonov, e ora Piotr Andreic', grazie a Dio, sta bene, e di lui nulla c'è da scrivere, fuor che bene. I comandanti, sento dire, son contenti di lui; e Vassilissa Jegòrovna lo ha in conto di figlio proprio. E che gli sia capitato un caso simile, al giovanotto non va mosso rimprovero: il cavallo, pur con quattro zampe, inciampa. E se credete di scrivere che mi manderete a pascolare i porci, sia fatta anche in ciò la vostra padronale volontà. Col che vi saluto ossequiosamente.

"Il vostro fedel servitore "Archip Saveliev".

Non potei a più riprese non sorridere, leggendo l'epistola del buon vecchio. Di rispondere al babbo non ero in grado; e a tranquillizzare la mamma, la lettera di Savelic' mi parve sufficiente.

Da allora la mia situazione cambiò. Maria Ivànovna quasi non mi parlava e cercava in tutti i modi di evitarmi. La casa del comandante fu per me priva di attrattive. A poco a poco mi abituai a starmene solo in casa. Vassilissa Jegòrovna in principio me ne rimproverava, ma, vedendo la mia ostinazione, mi lasciò in pace.

Con Ivàn Kuzmìc' mi trovavo solo quando l'esigeva il servizio; con Svabrin m'incontravo di rado e malvolentieri, tanto più che osservavo in lui una nascosta inimicizia per me, il che mi confermava nei miei sospetti. La vita mi si fece insopportabile.

Caddi in una tetra fantasticaggine, che isolamento e inazione alimentavano. L'amor mio divampava in solitudine e sempre più mi diventava penoso. Perdetti il gusto per la lettura e la letteratura. Il mio spirito si abbatté. Temevo o d'impazzire o di darmi agli stravizi. Inaspettati avvenimenti, che ebbero importanti influssi su tutta la mia vita, diedero di un tratto alla mia anima una scossa violenta e fortunata.

 

 

 

CAPITOLO SESTO

 

LA RIVOLTA DI PUGACIOV

Voi, ragazzini, ascoltate Quel che noi, vecchi, vi diremo.

CANZONE.

Prima di mettermi a descrivere gli strani avvenimenti dei quali fui testimone, devo dire alcune parole della situazione in cui si trovava la provincia di Orenbùrg alla fine del 1773.

Quella vasta e ricca provincia era abitata da una moltitudine di popoli semiselvaggi, che ancora da poco avevano riconosciuto la dominazione dei sovrani russi. Le loro sommosse d'ogni istante, la loro mancanza d'abitudine alle leggi e al vivere civile, la loro leggerezza e crudeltà esigevano da parte del governo un'incessante vigilanza per tenerli in soggezione. Le fortezze erano costruite in posti riconosciuti adeguati, e popolate, in massima parte, di cosacchi, antichi possessori delle rive del Jaìk. Ma i cosacchi del Jaìk, che dovevano salvaguardare la tranquillità e la sicurezza di quel paese, da qualche tempo erano essi stessi per il governo sudditi irrequieti e pericolosi. Nel 1772 nacque una sommossa nella loro principale città. Causa n'erano stati i severi provvedimenti presi dal maresciallo di campo Traubenberg per ridurre l'esercito alla debita sottomissione. Ne fu conseguenza la barbara uccisione di Traubenberg, l'arbitrario mutamento di amministrazione e infine la repressione della rivolta con la mitraglia e con pene crudeli.

Ciò era accaduto qualche tempo prima del mio arrivo nella fortezza di Bielogòrsk. Tutto era ormai quieto, o tale sembrava; il comando troppo facilmente aveva creduto a un preteso pentimento degli scaltri ribelli, i quali covavano rancore e aspettavano un'occasione propizia per ricominciare i disordini.

Torno al mio racconto.

Una sera (fu al principio dell'ottobre 1773) me ne stavo a casa solo, ascoltando l'urlo del vento autunnale e guardando dalla finestra le nubi che fuggivano davanti alla luna. Vennero a chiamarmi a nome del comandante. Mi avviai subito. Dal comandante trovai Svabrin, Ivàn Ignatic' e il sottufficiale dei cosacchi.

Nella stanza non c'era né Vassilissa Jegòrovna, né Maria Ivànovna.

Il comandante mi salutò con aria impensierita. Chiuso l'uscio, ci fece seder tutti, fuorché il sottufficiale, che stava presso l'uscio, cavò di tasca una carta e ci disse:

- Signori ufficiali, un'importante novità! Sentite quel che scrive il generale. - Qui egli inforcò gli occhiali e lesse quanto segue:

"Al signor comandante la fortezza di Bielogòrsk Capitano Mironov.

Segreto.

Con la presente vi informo che il cosacco del Don e scismatico Jemeliàn Pugaciòv, fuggito dagli arresti,commettendo l'imperdonabile temerità di assumere il nome dell'imperatore Pietro Terzo, ha raccolto una masnada di scellerati, determinato una sommossa nei villaggi del Jaìk, e già preso e rovinato alcune fortezze, operando dappertutto saccheggi e omicidi. Pertanto, al ricevere della presente, dovrete, signor capitano, prendere immediatamente gli opportuni provvedimenti per respingere il menzionato malfattore e impostore, e, se possibile, anche per il completo suo annientamento, qualora si diriga verso la fortezza affidata alle vostre cure".

"'Prendere gli opportuni provvedimenti!", - disse il comandante, levandosi gli occhiali e piegando la carta, - senti, è facile dire. Il malfattore poi, si vede, è forte, e noi abbiamo in tutto centotrenta uomini, senza contare i cosacchi, dei quali c'è poco da fidarsi, non sia detto per rimprovero a te, Maksimic', - il sottufficiale sorrise. - Però non c'è che fare, signori ufficiali!

Siate diligenti, istituite servizi di guardia e ronde notturne, in caso di attacco chiudete le porte e fate uscire i soldati. Tu, Maksimic', sorveglia a dovere i tuoi cosacchi. Esaminare il cannone, e ripulirlo bene. E più di tutto conservare il segreto su tutto ciò, che in fortezza nessuno possa saperne prima del tempo.

Distribuiti questi ordini, Ivàn Kuzmìc' ci accomiatò. Uscii con Svabrin, ragionando di quel che avevamo sentito.

- Come pensi che andrà a finire? - gli domandai.

- Dio lo sa, - rispose, - vedremo. Di grave per il momento non vedo nulla. Se poi...

Qui egli si fece pensieroso e, distratto, prese a fischiettare un'arietta francese.

Nonostante tutte le nostre cautele, la notizia della comparsa di Pugaciòv corse per la fortezza. Ivàn Kuzmic', per quanto stimasse molto la propria consorte, per nulla al mondo le avrebbe svelato un segreto, confidatogli per causa di servizio. Ricevuta la lettera del generale, egli in modo abbastanza ingegnoso aveva fatto uscire Vassilissa Jegòrovna, dicendole che padre Gherassim aveva ricevuto da Orenbùrg certe mirabolanti notizie, che teneva in gran segreto. Vassilissa Jegòrovna volle subito far visita alla moglie del "pop", e, per consiglio di Ivàn Kuzmìc', prese con sé anche Mascia, perché non si annoiasse a star sola.

Ivàn Kuzmìc', rimasto padrone assoluto, ci aveva subito mandati a chiamare, e Palaska l'aveva chiusa nel ripostiglio, perché non potesse stare ad ascoltarci.

Vassilissa Jegòrovna tornò a casa, senz'essere riuscita a saper nulla dalla moglie del "pop", e apprese che durante la sua assenza c'era stato consiglio da Ivàn Kuzmìc', e che Palaska era stata sotto chiave. Indovinò di esser stata ingannata dal marito, e procedette all'interrogatorio. Ma Ivàn Kuzmìc' si era preparato all'assalto. Non si turbò affatto e rispose bravamente alla sua curiosa coniuge:

- Ma senti, mammina, alle nostre donne salta in testa di accendere le stufe con la paglia; e poiché ne può venire un guaio, ho dato severo ordine che d'ora in poi le donne non accendano con la paglia le stufe, ma d'accenderle con sterpi e schegge.

- E perché dovevi chiudere Palaska? - domandò la moglie del comandante. - Perché la povera ragazza è rimasta nel ripostiglio finché non siamo tornate noi?

Ivàn Kuzmìc' non era preparato a simile domanda s'imbrogliò e borbottò qualcosa di assai goffo. Vassilissa Jegòrovna vide l'astuzia del marito, ma, sapendo che non ne avrebbe cavato nulla, smise le sue domande e portò il discorso sui cetriuoli salati, che Akulina Panfìlovna preparava in modo proprio speciale. Per tutta la notte Vassilissa Jegòrovna non poté prendere sonno, e in nessun modo riuscì a indovinare che cosa suo marito avesse in testa, ch'ella non potesse conoscere.

Il giorno dopo, tornando da messa, scorse Ivàn Ignatic' che tirava fuori dal cannone straccetti, pietruzze, schiappe, ossicini e rifiuti di ogni specie ficcativi dai ragazzini.

"Che significherebbero questi preparativi di guerra?" pensò la moglie del comandante, "non s'aspetteranno un assalto dei chirghisi? Ma possibile che Ivàn Kuzmìc' si metta a nascondermi simili bazzecole?". Ella chiamò Ivàn Ignatic' con la ferma intenzione di cavare da lui il segreto che tormentava la sua curiosità di donna.

Vassilissa Jegòrovna gli fece alcune osservazioni circa le faccende di casa, come un giudice che comincia l'inchiesta con domande indifferenti, per sopire dapprima la diffidenza dell'imputato. Poi, dopo aver taciuto alcuni istanti, sospirò profondamente e disse, crollando il capo:

- Signore, Dio mio! Ve' che novità! Che ne verrà fuori?

- Ih, mammina! - rispose Ivàn Ignatic', - Dio è misericordioso; soldati ne abbiamo abbastanza, polvere molta, il cannone l'ho pulito. Chi sa che non diamo il fatto suo a Pugaciòv. Se Dio non ci abbandona, il porco non ci mangia!

- E che uomo è codesto Pugaciòv? - domandò la moglie del comandante.

Allora Ivàn Ignatic' si accorse di essersi tradito, e si morse la lingua. Ma ormai era tardi. Vassilissa Jegòrovna lo costrinse a confessare tutto, dopo avergli dato parola di non ridirne a nessuno.

Vassilissa Jegòrovna mantenne la sua promessa e non disse una parola ad alcuno, se non alla moglie del "pop", e ciò solo perché la mucca di lei vagava ancora nella steppa e poteva esser presa dai malfattori.

In breve tutti si misero a parlar di Pugaciòv. Le voci erano diverse. Il comandante mandò il sottufficiale con l'incarico d'informarsi a dovere su tutto per i villaggi e i forti vicini. Il sottufficiale tornò di lì a due giorni e annunciò che nella steppa, a un sessanta verste dalla fortezza, aveva visto una quantità di fuochi e sentito dai baschiri che stava venendo una forza sconosciuta. Del resto non poteva dir nulla di positivo, perché aveva avuto paura di andar più lontano.

Nella fortezza tra i cosacchi si fece visibile un'insolita agitazione: in tutte le vie si affollavano a crocchi, discorrevano piano fra loro e si separavano scorgendo un dragone o un soldato del presidio. Furono mandate loro delle spie. Julàj, un calmucco battezzato, fece al comandante un grave rapporto. Le dichiarazioni del sottufficiale, a detta di Julàj, erano menzognere; al suo ritorno lo scaltro cosacco aveva dichiarato ai suoi compagni ch'era stato dai ribelli, si era presentato al loro stesso capo, il quale lo aveva ammesso al baciamano, e aveva conversato a lungo con lui. Il comandante mise immediatamente il sottufficiale agli arresti, e destinò Julàj al suo posto. Questa novità fu accolta dai cosacchi con visibile malcontento. Mormoravano ad alta voce, e Ivàn Ignatic', esecutore della disposizione del comandante, sentì coi propri orecchi che dicevano: "Ecco che la pagherai, topo di guarnigione!". Il comandante pensava d'interrogare il suo detenuto quello stesso giorno; ma il sottufficiale fuggì di prigione, probabilmente con l'aiuto dei suoi seguaci.

Una nuova circostanza aumentò l'inquietudine del comandante. Fu preso un baschiro con fogli sediziosi. In questa congiuntura il comandante pensò di radunare daccapo i suoi ufficiali e volle allontanare di nuovo Vassilissa Jegòrovna con un pretesto plausibile. Ma' poiché Ivàn Kuzmìc' era uomo quanto mai retto e veritiero, non trovò altro espediente se non quello già una volta da lui usato.

- Senti, Vassilissa Jegòrovna, - le disse tossicchiando, - padre Gherassim ha ricevuto, dicono, dalla città...

- Basta mentire, Ivàn Kuzmìc', - lo interruppe la moglie, - a quanto sembra, tu vuoi tener consiglio, e discorrere in mia assenza di Jemeliàn Pugaciòv, ma non mi ci cogli.

Ivàn Kuzmic sgranò gli occhi.

- Be', mammina, - disse, - già che sai tutto, rimani pure, discorreremo anche in tua presenza.

- Ecco appunto, padre mio, - rispose lei, - non dovresti giocare d'astuzia; manda su a chiamare gli ufficiali.

Ci radunammo di nuovo. Ivàn Kuzmìc', in presenza della moglie, ci lesse un proclama di Pugaciòv, scritto da qualche cosacco semianalfabeta. Il brigante annunciava il suo proposito di marciare immediatamente sulla nostra fortezza; invitava cosacchi e soldati a entrare nella sua banda, e i comandanti li esortava a non far resistenza, minacciando il supplizio in caso contrario.

L'appello era scritto in termini rozzi, ma forti, e doveva produrre una pericolosa impressione sulle menti di uomini semplici.

- Che furfante! - gridò la moglie del comandante, - che cosa ardisce ancora proporci! D'andargli incontro e deporre ai suoi piedi le bandiere! Ah, figlio di un cane! Ma non sa che siamo in servizio da quarant'anni e, grazie a Dio, abbiam visto di tutto?

Possibile che si siano trovati comandanti che abbiano dato retta al brigante?

- Non dovrebb'essere, sembra, - rispose Ivàn Kuzmìc', - ma si dice che lo scellerato già si sia impadronito di molte fortezze.

- Si vede che è davvero forte, - osservò Svabrin.

- Ma ecco, subito sapremo la sua vera forza, - disse il comandante: - Vassilissa Jegòrovna, dammi la chiave del magazzino.

Ivàn Ignatic', conduci un po' qua il baschiro e ordina a Julàj di portare le sferze.

- Aspetta, Ivàn Kuzmìc', - disse la moglie del comandante alzandosi dal suo posto, - lasciami portare Mascia da qualche parte fuori di casa; se no sentirà le grida, si spaventerà. E anch'io, a dire il vero, non sono amica dell'inquisizione. Buona permanenza.

La tortura un tempo era così radicata negli usi della procedura, che il benefico editto che la sopprimeva rimase a lungo senza effetto. Si pensava che la personale confessione del delinquente fosse indispensabile per la sua piena convinzione, idea non solo senza fondamento, ma addirittura contraria a un sano concetto giuridico: perché, se la negativa dell'imputato non si riconosce come prova della sua innocenza, la sua confessione ancora meno deve essere prova della sua colpevolezza. Perfino oggi mi capita di sentire vecchi giudici che lamentano la soppressione della barbara usanza. Ai tempi nostri poi nessuno dubitava della necessità della tortura, né giudici né accusati. E così, l'ordine del comandante non meravigliò e non rimescolò nessuno di noi. Ivàn Ignatic' si avviò a prendere il baschiro, che stava in magazzino sotto chiave a cura della moglie del comandante, e di lì a qualche minuto condussero il prigioniero in anticamera. Il comandante ordinò di presentarglielo.

Il baschiro varcò a fatica la soglia (era in ceppi) e, toltosi l'alto berretto, si fermò presso la porta. Gli gettai uno sguardo e sobbalzai. Non scorderò mai quell'uomo. Dimostrava un settant'anni. Non aveva naso né orecchi. La sua testa era tutta rasata; invece della barba si vedevano alcuni peli bianchi; era di piccola statura, scarno e incurvato; ma i suoi occhi alquanto stretti brillavano ancora di fuoco.

- Eh, eh! - disse il comandante, riconoscendo dai suoi contrassegni uno dei rivoltosi puniti nel 1741: - ma tu, si vede, sei un lupo vecchio, hai conosciuto le nostre tagliole. A quanto sembra, non è già la prima volta che ti ribelli, se la zucca ti fu spianata così. Fatti un po' più vicino; parla, chi ti ha mandato a spiare?

Il vecchio baschiro taceva e guardava il comandante con un'aria di assoluta stupidità.

- Perché stai zitto? - continuò Ivàn Kuzmìc', - o che di russo non capisci un ette? Julàj, domandagli un po' al modo vostro chi l'ha mandato nella nostra fortezza.

Julàj ripeté in lingua tartara la domanda di Ivàn Kuzmìc'. Ma il baschiro lo guardò con la stessa espressione e non rispose una parola.

- "Jaksci" (bene in tartaro), - disse il comandante, - parlerai, e come! Ragazzi, levategli quel balordo camiciotto a righe, e fategli un po' di punto dietro, sulla schiena. Bada, Julàj, di lavorarmelo a dovere!

Due invalidi presero a svestire il baschiro. Il viso del disgraziato espresse inquietudine. Si guardava attorno da tutte le parti, come una bestiola selvatica acchiappata dai ragazzini.

Quando poi uno degli invalidi gli prese le braccia e se le pose intorno al collo, sollevò il vecchio sulle proprie spalle, e Julàj prese una sferza e l'alzò, allora il baschiro prese a gemere con debole voce implorante e, scotendo la testa, aprì la bocca, nella quale invece della lingua, si moveva un breve mozzicone.

Quando rammento che ciò accadde ch'ero già vivo e che oggi sono giunto al mite regno dell'imperatore Alessandro, non posso non stupire dei progressi della civiltà e della diffusione dei precetti di filantropia. Giovanotto! se le mie memorie capiteranno fra le tue mani, ricordati che i mutamenti migliori e più solidi sono quelli che procedono dal miglioramento dei costumi, senza scosse violente di sorta.

Tutti fummo stupefatti.

- Orsù, - disse il comandante, - si vede che non potremo cavarne nulla di sensato. Julàj, riconduci il baschiro in magazzino. E noi, signori, discorriamo ancora di qualcosa.

Avevamo preso a ragionare della nostra situazione, quando a un tratto Vassilissa Jegòrovna entrò nella stanza, ansante e con aria straordinariamente sbigottita.

- Che ti è accaduto? - domandò sbalordito il comandante.

- Babbo, una sciagura! - rispose Vassilissa Jegòrovna, - la fortezza di Niznieòsero è stata presa stamane. Il lavorante di padre Gherassim ne è tornato poco fa. Vide come la presero. Il comandante e tutti gli ufficiali furono impiccati. Tutti i soldati fatti prigionieri. Da un momento all'altro i malfattori saranno qui.

L'inattesa notizia mi colpì fortemente. Il comandante della fortezza di Niznieòsero, un giovane quieto e modesto, lo conoscevo: un paio di mesi prima era passato, venendo da Orenbùrg, con la sua giovane moglie e si era fermato da Ivàn Kuzmìc'. La fortezza di Niznieòsero si trovava a un venticinque verste dalla nostra. Da adesso in ora anche noi dovevamo aspettarci l'assalto di Pugaciòv. La sorte di Maria Ivànovna mi si presentò vivamente, e il cuore mi mancò.

- Sentite, Ivàn Kuzmìc'! - dissi al comandante, - è nostro dovere difendere la fortezza fino all'ultimo respiro; su questo non c'è nulla da dire. Ma bisogna pensare alla sicurezza delle donne.

Mandatele a Orenbùrg, se la strada è ancor libera, o in una fortezza lontana, più sicura, dove i malfattori non siano riusciti a giungere.

Ivàn Kuzmic si rivolse alla moglie e le disse:

- Ma senti, mammina, infatti, non sarebbe il caso di mandarvi un po' più distante, finché non avremo messo a posto i ribelli?

- Ih, ciance! - disse la moglie del comandante, - dov'è la fortezza in cui non volino le pallottole? In che cosa quella di Bielogòrsk non è sicura? Grazie a Dio, ci viviamo da più di ventun anni. Abbiamo visto e i baschiri e i chirghisi: chi sa che non resistiamo anche a Pugaciòv!

- Be', mammina, - ribatté Ivàn Kuzmìc', - resta pure, già che ti fidi della nostra fortezza. Ma che dobbiamo fare di Mascia ? Sta bene, se resisteremo, o se vedremo giungere soccorsi; ma, e se gli scellerati prenderanno la fortezza ?

- Ebbene, allora...

Qui Vassilissa Jegòrovna esitò e tacque con un aspetto di estrema agitazione.

- No, Vassilissa Jegòrovna, - continuò il comandante, osservando che le sue parole avevano avuto effetti, forse per la prima volta in vita sua. - A Mascia restar qui non conviene. La manderemo a Orenbùrg dalla sua madrina: la c'è truppa e cannoni a sufficienza, e la muraglia è di pietra. E anche a te consiglierei di andartene con lei laggiù; non fa nulla che sei una vecchia, ma considera che sarà di te, se prenderanno la fortezza d'assalto.

- Bene, - disse la moglie del comandante, - così sia, manderemo Mascia. Ma a me non lo domandare neppure in sogno, non ci andrò; non vedo perché in vecchiaia dovrei separarmi da te, e andare cercando una fossa solitaria in terra straniera. Insieme vivere, insieme anche morire.

- Ben detto anche questo, - disse il comandante. - Orsù, non c'è da indugiare. Va' a preparare Mascia per il viaggio. Domani all'alba l'avvieremo, e le daremo anche una scorta, sebbene non abbiamo uomini di troppo. Ma dov'è Mascia?

- Da Akulina Panfìlovna, - rispose la moglie del comandante, - è stata male, quando ha sentito della presa di Niznieòsero; temo che si ammali. Signore Iddio, che cosa ci tocca vedere!

Vassilissa Jegòrovna andò ad occuparsi della partenza della figlia. La conversazione dal comandante proseguì; ma ormai non mi ci mischiavo e non sentivo nulla. Maria Ivànovna comparve, a cena, pallida e con gli occhi rossi di pianto. Finimmo di cenare in silenzio e ci alzammo da tavola più presto del solito; salutata tutta la famiglia, ci avviammo ciascuno a casa sua. Ma io dimenticai apposta la spada e tornai a prenderla: presentivo che avrei trovato Maria Ivànovna sola. Infatti ella mi venne incontro sulla porta e mi consegnò la spada.

- Addio, Piotr Andreic'! - mi disse in lacrime, - mi mandano a Orenbùrg. Vivete e siate felice; forse il Signore ci permetterà di rivederci; se poi no...

Qui scoppiò in singhiozzi. L'abbracciai.

- Addio, mio angelo, - dissi, - addio, mia cara, mia amata!

Qualunque cosa sia di me, credi che l'ultimo mio pensiero e l'ultima preghiera saranno per te!

Mascia singhiozzava, attaccata al mio petto. La baciai con ardore e uscii in fretta dalla stanza.

 

 

 

CAPITOLO SETTIMO

 

L'ASSALTO

Testa mia, testolina, Vecchia testa di soldato!

Già servì la testa mia Ben trent'anni e ancora tre.

Ahi, né gioia né vantaggi Guadagnò la testolina, E né manco una parola Buona, o pure un alto grado.

Guadagnò la testolina Sol di pali alti una coppia, Con la lor traversa d'acero, E ancora un cappio serico.

CANZONE POPOLARE.

Quella notte non dormii e non mi spogliai. Mi proponevo di avviarmi all'alba verso la porta della fortezza, di dove Maria Ivànovna doveva uscire, e lì salutarla un'ultima volta. Sentivo in me un gran cambiamento: l'agitazione dell'anima mi era assai meno pesante dello scoramento in cui ancora poco prima ero immerso. Col dolore del distacco si fondevano in me anche vaghe, ma dolci speranze, e l'impaziente attesa del pericolo, e un sentimento di nobile ambizione. La notte passò insensibilmente. Già volevo uscire di casa, quando la mia porta si aprì, e si presentò a me un caporale col rapporto che i nostri cosacchi nottetempo avevano lasciato la fortezza, dopo aver preso con loro a viva forza Jùlaj, e che attorno alla fortezza cavalcavano uomini sconosciuti. Il pensiero che Maria Ivànovna non avrebbe fatto in tempo a partire mi sgomentò; in fretta diedi al caporale alcune istruzioni e mi precipitai subito dal comandante.

Già faceva giorno. Volavo per la via, quando sentii che mi si chiamava. Mi fermai.

- Dove andate? - disse Ivàn Ignatic', raggiungendomi. - Ivàn Kuzrnic' è sul bastione e mi ha mandato a cercarvi. Pugàc' (forma abbreviata di Pugaciòv, significa anche: spauracchio. Nota dei curatori.) è arrivato.

- Se n'è andata Maria Ivànovna? - domandai col cuore palpitante.

- Non ha fatto a tempo, - rispose Ivan Ignatic', - la strada per Orenbùrg è tagliata; la fortezza è circondata. Andiamo male, Piotr Andreic'.

Andammo sul bastione: un rialzo formato dalla natura e rafforzato da una palizzata. Già vi si affollavano tutti gli abitanti della fortezza. La guarnigione era in armi. Il cannone ce l'avevano trascinato alla vigilia. Il comandante andava e veniva davanti al suo esiguo schieramento. La vicinanza del pericolo animava il vecchio guerriero d'inconsueta baldanza. Per la steppa, non molto lontano dalla fortezza, cavalcavano una ventina di uomini. Erano, pareva, cosacchi, ma fra loro si trovavano anche baschiri, che era facile distinguere dai berretti di lince e dai turcassi. Il comandante fece il giro delle sue truppe dicendo ai soldati: - Su, figlioli, teniamo duro oggi per la nostra madre imperatrice, e mostriamo a tutto il mondo che siamo gente intrepida e legata al giuramento! - I soldati ad alta voce attestarono il loro zelo.

Svabrin stava accanto a me e guardava fisso il nemico. Gli uomini che cavalcavano nella steppa, osservando movimento nella fortezza, si radunarono in mucchio e si misero a parlare tra loro. Il comandante ordinò a Ivàn Ignatic' di puntare il cannone sul loro attruppamento e applicò lui stesso la miccia. La palla ronzò e passò su quelli, senza fare danno. I cavalieri, sparpagliatisi, galopparono subito fuor di vista, e la steppa si fece deserta.

Allora comparve sul bastione Vassilissa Jegòrovna, e con lei Mascia, che non aveva voluto lasciarla.

- Ebbene? - disse la moglie del comandante, - come va la battaglia? Dov'è dunque il nemico?

- Il nemico non è lontano, - rispose Ivàn Kuzmìc': - se Dio vuole, tutto andrà bene. Che, Mascia, hai paura?

- No, babbo, - rispose Maria Ivànovna, - fa più paura star sola a casa.

Qui ella mi guardò e sorrise con sforzo. Involontariamente strinsi l'impugnatura della mia spada, ricordando che alla vigilia l'avevo ricevuta dalle sue mani, come a difesa della mia amata. Il mio cuore ardeva. Mi figuravo suo paladino. Desideravo dimostrare che ero degno della sua fiducia, e con impazienza presi ad aspettare il momento decisivo.

Nel frattempo, da dietro a un'altura, che si trovava a mezza versta dalla fortezza, si mostrarono nuove truppe a cavallo, e in breve la steppa si disseminò di una quantità di gente, armata di picche e di archi. Fra loro, su un cavallo bianco, andava un uomo in caffettano rosso con una sciabola sguainata in mano: era Pugaciòv in persona. Egli si fermò; lo attorniarono e per suo ordine, si vede, quattro uomini si staccarono e a spron battuto galopparono fin sotto la fortezza. In essi riconoscemmo i nostri traditori. Uno di loro teneva al di sopra del berretto un foglio di carta; un altro reggeva conficcata su una picca la testa di Julàj, che, dopo averla scossa, ci scagliò contro, al disopra della palizzata. La testa del povero calmucco cadde ai piedi del comandante. I traditori gridavano:

- Non sparate; uscite incontro al sovrano. Il sovrano è qui!

- Ecco, ora v'aggiusto io! - gridò Ivàn Kuzmìc', - ragazzi, fuoco!

I nostri soldati fecero una scarica. Il cosacco che teneva lo scritto barcollò e precipitò da cavallo; gli altri galopparono indietro. Guardai Maria Ivànovna. Colpita dalla vista della testa insanguinata di Julàj, assordata dalla scarica, sembrava priva di conoscenza. Il comandante chiamò un caporale e gli ordinò di prendere il foglio dalle mani del cosacco abbattuto. Il caporale uscì e rientrò conducendo per la briglia il cavallo dell'ucciso.

Consegnò al comandante la lettera. Ivàn Kuzmìc' la lesse tra sé e poi la fece in pezzi. Intanto i ribelli si preparavano visibilmente all'azione. Ben presto le pallottole cominciarono a fischiare alle nostre orecchie e alcune frecce si conficcarono attorno a noi in terra e nella palizzata.

- Vassilissa Jegòrovna! - disse il comandante, - qui non è cosa da donne, porta via Mascia, lo vedi, la figliola è più morta che viva.

Vassilissa Jegòrovna, ammansita sotto le pallottole, diede uno sguardo alla steppa, nella quale era visibile un gran movimento; poi si rivolse al marito e gli disse:

- Ivàn Kuzmìc', in vita e in morte Dio dispone: benedici Mascia.

Mascia, accostati a tuo padre!

Mascia, pallida e tremante, si accostò a Ivàn Kuzmìc', si mise ginocchioni e gli s'inchinò fino a terra. Il vecchio comandante le fece tre volte il segno della croce; poi la rialzò e, baciatala, le disse con voce mutata:

- Orsù, Mascia, sii felice. Prega Dio: Egli non ti abbandonerà. Se si troverà un brav'uomo, concedavi Iddio amore e consiglio. Vivete come siamo vissuti io e Vassilissa Jegòrovna. Be', addio, Mascia.

Vassilissa Jegòrovna, portala via presto presto.

Mascia gli si gettò al collo e scoppiò in singhiozzi.

- Diamoci un bacio anche noi, - disse piangendo la moglie del comandante, - addio, mio Ivàn Kuzmìc'. Perdonami se in qualche cosa ti recai dispiacere!

- Addio, addio, mammina! - disse il comandante, abbracciando la sua vecchia. - Su, basta! Andate, andate a casa; e, se fai in tempo, fa' mettere a Mascia il "sarafan".

La moglie del comandante e la figlia si allontanarono. Io seguivo con lo sguardo Maria Ivànovna; ella si voltò indietro e mi fece un cenno con la testa. Qui Ivàn Kuzmìc' si rivolse a noi, e tutta la sua attenzione si fissò sul nemico. I ribelli si radunavano intorno al loro capo e di un tratto cominciarono a scendere da cavallo.

- Adesso tenete duro, - disse il comandante, - ci sarà l'assalto...

In quel momento echeggiarono spaventevoli grida e urla; i ribelli venivano di gran corsa verso la fortezza. Il nostro cannone era stato caricato a mitraglia. Il comandante li lasciò accostare il più vicino possibile e d'un tratto fece fuoco nuovamente. La mitraglia colse proprio in mezzo alla folla. I ribelli rimbalzarono dalle due parti e indietreggiarono. Il loro capo rimase solo davanti... Brandì la sciabola e pareva esortarli con ardore... L'urlo e le grida, che avevano taciuto un momento, ricominciarono subito.

- Animo, ragazzi, - disse il comandante, - adesso aprite la porta, suonate il tamburo. Ragazzi! avanti, in sortita, dietro di me!

Il comandante, Ivàn Ignatic' e io in un attimo ci trovammo di là dal bastione; ma la guarnigione impaurita non si mosse.

- Perché state lì, figlioli? - gridò Ivàn Kuzmìc', - se si deve morire, si muore, è affare da soldati!

In quell'istante i ribelli piombarono su noi e irruppero nella fortezza. Il tamburo tacque; la guarnigione gettò i fucili; mi avevano già quasi rovesciato in terra, ma mi alzai e coi ribelli entrai nella fortezza. Il comandante, ferito al capo, stava in mezzo a un mucchio di scellerati, che esigevano da lui le chiavi.

Volli lanciarmi in suo aiuto; alcuni robusti cosacchi mi afferrarono e mi legarono con le cinture, soggiungendo: - Ecco, ora la pagherete, che avete disubbidito al sovrano! - Ci trascinarono per le vie; gli abitanti uscivano dalle case col pane e sale. Si sentì un rintocco di campane. A un tratto gridarono nella folla che il sovrano in piazza aspettava i prigionieri e riceveva il giuramento. La gente si avviò in folla verso la piazza; noi ci condussero pure là.

Pugaciòv sedeva in una poltrona sul terrazzino della casa del comandante. Indossava un caffettano rosso da cosacco, adorno di galloni. Un alto berretto di zibellino con fiocchi d'oro era tirato sui suoi occhi scintillanti. Il suo viso mi parve conosciuto. Lo circondavano sottufficiali del cosacchi. Padre Gherassim, pallido e tremante stava vicino al terrazzino, con la croce in mano, e sembrava che tacitamente lo supplicasse per le vittime imminenti. Sulla piazza avevano eretto alla svelta una forca. Quando ci avvicinammo, i baschiri dispersero la gente, e ci presentarono a Pugaciòv. I rintocchi cessarono; si fece un profondo silenzio.

- Qual è il comandante? - domandò l'impostore.

Il nostro sottufficiale cosacco uscì dalla folla e indicò Ivàn Kuzmìc'. Pugaciòv guardò minaccioso il vecchio e gli disse:

- Come hai osato opporti a me, tuo sovrano?

Il comandante, languente per la ferita, raccolse le ultime forze e rispose con voce ferma:

- Tu non mi sei sovrano; tu sei un ladro e un impostore, sentimi!

Pugaciòv aggrottò cupamente le ciglia e agitò un fazzoletto bianco. Alcuni cosacchi presero il vecchio capitano e lo trascinarono verso la forca. Sulla traversa di questa si trovava cavalcioni il baschiro mutilato che avevamo interrogato alla vigilia. Egli teneva in mano una corda e di li a un minuto vidi il povero Ivàn Kuzmìc' alzato in aria. Allora condussero da Pugaciòv Ivàn Ignatic'.

- Giura, - gli disse Pugaciòv, - al sovrano Piotr Feòdorovic'!

- Tu non ci sei sovrano, - rispose Ivàn Ignatic', ripetendo le parole del suo capitano, - tu, zietto, sei un ladro e un impostore!

Pugaciòv agitò daccapo il fazzoletto, e il buon tenente spenzolò accanto al suo vecchio superiore.

Era la mia volta. Io guardavo arditamente Pugaciòv, preparandomi a ripetere la risposta dei miei magnanimi camerati. Allora, con mio indicibile stupore, scorsi in mezzo ai capi ribelli Svabrin, tosato in tondo e in caffettano da cosacco. Egli si accostò a Pugaciòv e gli disse all'orecchio qualche parola.

- Impiccarlo! - disse Pugaciòv, senza più guardarmi. Mi gettarono al collo un laccio, presi a recitare tra me una preghiera, offrendo a Dio il sincero pentimento di tutti i miei peccati e supplicandolo di salvare tutte le persone vicine al mio cuore. Mi trascinarono sotto la forca.

- Niente paura, niente paura, - mi ripetevano gli assassini, forse desiderando davvero farmi coraggio.

A un tratto sentii il grido: - Fermatevi, maledetti! Aspettate!...

- I carnefici si arrestarono. Guardo: Savelic' giace ai piedi di Pugaciòv.

- Padre mio! - diceva il mio povero precettore, - che ti fa la morte di un fanciullo di signori? Lascialo andare; per lui ti pagheranno un riscatto; e per dare l'esempio e mettere paura ordina d'impiccare magari me, che son vecchio! Pugaciòv fece un segno e subito mi slegarono e lasciarono.

- Il babbino nostro ti fa grazia, - mi dicevano.

In quel momento, non posso dire che mi rallegrassi della mia liberazione, non dirò tuttavia che me ne dolessi. Le mie sensazioni erano troppo confuse. Mi condussero nuovamente dall'impostore e mi posero davanti a lui in ginocchio. Pugaciòv mi tese la sua mano venosa.

- Bacia la mano, bacia la mano! - dicevano intorno a me.

Ma io avrei preferito il più crudele supplizio a così vile umiliazione.

- Babbino Piotr Andreic'! - bisbigliava Savelic', standomi dietro e spingendomi: - non ostinarti! che cosa ti costa? infischiatene, e bacia al malf... (oibò!) baciagli la mano.

Io non mi muovevo. Pugaciòv lasciò andare la mano, dicendo con un sorriso:

- Sua nobiltà, a quanto sembra, è ingrullito dalla gioia.

Alzatelo.

Mi alzarono e mi lasciarono in libertà. Io presi a guardare il seguito dell'orrenda commedia.

Gli abitanti cominciarono a giurare. Si accostavano l'un dietro l'altro, baciando il crocifisso e inchinandosi poi all'impostore.

I soldati della guarnigione stavano pure lì. Il sarto della compagnia, armato delle sue forbici smussate, tagliava loro le trecce. Essi, scrollandosi, si accostavano alla mano di Pugaciòv, il quale annunciava loro il perdono e li riceveva nella sua banda.

Tutto ciò continuò per circa tre ore. Infine Pugaciòv si alzò dalla poltrona e scese dal terrazzino in compagnia dei suoi anziani. Gli portarono un cavallo bianco, adorno di una ricca bardatura. Due cosacchi lo presero sotto braccio e lo misero in sella. Egli annunciò a padre Gherassim che avrebbe pranzato da lui. In quel momento si sentì un grido di donna. Alcuni briganti avevano tratto sul terrazzino Vassilissa Jegòrovna, scarmigliata e denudata. Uno do loro già aveva avuto il tempo di adornarsi con la sua mantelletta di pelliccia. Altri trascinavano piumini casse, stoviglie da tè, biancheria e tutte le suppellettili.

- Padri miei! - gridava la povera vecchietta, - lasciatemi salva la vita. Padri miei, conducetemi da Ivàn Kuzmìc'.

Improvvisamente ella gettò un'occhiata alla forca e riconobbe suo marito.

- Scellerati! - si mise a gridare in delirio, - che ne avete fatto? Cuore mio, Ivàn Kuzmìc', valoroso soldato! non ti toccarono né le baionette prussiane, né le pallottole turche; non in combattimento leale desti la tua vita, ma la perdesti per un evaso dalle galere!

- Far tacere quella vecchia strega! - disse Pugaciòv.

Allora un giovane cosacco la colpì con la sciabola sulla testa, e ella cadde morta su uno scalino del terrazzo. Pugaciòv se n'andò; il popolo si precipitò dietro a lui.

 

 

 

CAPITOLO OTTAVO

 

L'OSPITE NON INVITATO

L'ospite non invitato è peggio del tartaro.

PROVERBIO.

La piazza si fece deserta. Io stavo sempre allo stesso posto e non potevo mettere in ordine i pensieri turbati da così orrende impressioni.

L'incertezza sulla sorte di Maria Ivànovna mi tormentava più di tutto. Dov'era? che le era accaduto? era riuscita a nascondersi?

era sicuro il suo rifugio? Pieno di pensieri inquietanti, entrai nella casa del comandante... Tutto era vuoto, sedie, tavole, casse erano rotte; le stoviglie fracassate; tutto rubato. Corsi su per la piccola scala che portava alla stanzetta, e per la prima volta in vita mia entrai nella camera di Maria Ivànovna. Vidi il suo letto, messo a soqquadro dai briganti; l'armadio era stato sfondato e saccheggiato; il lumino ardeva ancora davanti alla vetrinetta delle immagini, deserta. Era intatto anche lo specchietto, appeso al tramezzo murato... Ma dov'era la padrona di quell'umile cella verginale? Un pensiero terribile mi balenò in mente: la immaginai nelle mani dei banditi... Il mio cuore si strinse... Amaramente piansi, amaramente e ad alta voce pronunciai il nome della mia amata... In quell'istante si udì un lieve rumore, e da dietro l'armadio comparve Palaska, pallida e tremante.

- Ah, Piotr Andreic'! - disse, battendo le palme, - che giornata!

che spaventi!...

- E Maria Ivànovna? - domandai impaziente, - che n'è di Maria Ivànovna?

- La signorina è viva, - rispose Palaska, - è nascosta da Akulina Panfìlovna.

- Dalla moglie del "pop"! - gridai con sgomento: - Dio mio! ma c'è Pugaciòv!...

Mi slanciai fuori della stanza, in un attimo mi trovai nella via, e corsi a precipizio a casa del sacerdote, senza vedere né sentire nulla. Colà risonavano grida, risate e canti... Pugaciòv banchettava coi suoi compagni. Palaska vi accorse dietro di me. La mandai a chiamare sottovoce Akulina Panfìlovna. Di lì a un momento la moglie del "pop" venne da me nell'ingresso con una misura da un litro e mezzo in mano.

- Per l'amor di Dio! Dov'è Maria Ivànovna? - domandai con inesplicabile agitazione.

- E' coricata, la mia colombella, sul letto lì da me, dietro il tramezzo, - rispose la moglie del "pop". - Eh, Piotr Andreic', per poco non è capitato un guaio ma, grazie a Dio, tutto è passato felicemente: lo scellerato s'era appena seduto a pranzo che lei, la mia poverina rinviene e si mette a gemere!... Tramortii. Lui sentì . "Ma chi è che sospira da te, vecchia?". Faccio un profondo inchino al ladrone: "Mia nipote, sire, s'è ammalata, e sta in letto; ecco, saranno ormai otto giorni". "Ed è giovane, tua nipote?". "Giovane, sire". "Ma fammela un po' vedere, vecchia, tua nipote". In me il cuore fu un sol palpito, ma non c'era che fare.

"Volentieri, sire; solo che la ragazza non può alzarsi e venire da tua grazia". "Non importa, vecchia, andrò io stesso a vederla". E andò, sai, il maledetto, dietro il tramezzo; che cosa credi? già, tirò la tendina, guardò coi suoi occhi d'avvoltoio... e nulla...

Dio ce ne ha tratti fuori! Ma ci credi? io e il mio uomo c'eravamo bell'e preparati alla morte dei martiri. Per buona sorte lei, la mia colombella, non lo riconobbe. Signore Iddio, la bella festa che abbiamo avuto! Non c'è che dire! Povero Ivàn Kuzmìc'! chi l'avrebbe pensato!... E Vassilissa Jegòrovna! E Ivàn Ignatic'? Lui poi, perché?... Com'è che voi vi han risparmiato? E quello Svabrin, Aleksiéj Ivànic'? Ecco che s'è tagliato i capelli in tondo, e ora è qui da noi che gozzoviglia con loro! E' in gamba, non c'è che dire! E quando dissi della nipote malata, ci credi?, mi lanciò un'occhiata, come si farebbe di un coltello, da parte a parte; però non mi tradì, e di questo gli va dato un grazie.

In quel momento risuonarono le grida ebbre degli ospiti e la voce di padre Gherassim. Gli ospiti chiedevano vino, il padrone di casa chiamò la consorte. La moglie del "pop" si diede premura.

- Andatevene a casa, Piotr Andreic', - disse, - ora non si ha la testa a voi; dagli scellerati c'è baldoria. Guai se capitate sotto mano a un ubriaco. Addio, Piotr Andreic'. Sarà quel che sarà; forse Dio non ci abbandonerà!

La moglie del "pop" uscì. Un po' tranquillizzato, mi diressi al mio alloggio. Passando accanto alla piazza, vidi alcuni baschiri che si pigiavano intorno alla forca e cavavano gli stivali agl'impiccati; a stento trattenni un impeto d'indignazione, sentendo l'inutilità di un gesto di difesa. Per la fortezza correvano banditi, saccheggiando le case degli ufficiali.

Dappertutto echeggiavano grida di ribelli avvinazzati. Giunsi a casa. Savelic' mi venne incontro sulla soglia.

- Sia lodato Iddio! - gridò, vedendomi, - pensavo già che i malfattori ti avessero riacciuffato. Be', "bàtiuska" Piotr Andreic'! lo crederesti? tutto ci hanno portato via i furfanti:

vestiti, biancheria, oggetti, stoviglie... non hanno lasciato nulla. Ma che fa! Sia lode a Dio, che ti hanno lasciato andare vivo! E l'hai riconosciuto, signore, l'atamàn (il capo della banda di briganti)?

- No, non l'ho riconosciuto; e chi è?

- Come, "bàtiuska"? Hai dimenticato quell'ubriacone che ti scroccò il pellicciotto alla locanda? Una pelliccetta di lepre nuova nuova; e lui, briccone, la scucì quant'era lunga sforzandosela addosso!

Fui sbalordito. Infatti la somiglianza di Pugaciòv con la mia guida era sorprendente. Mi persuasi che Pugaciòv e lui erano la stessa persona e capii allora la ragione della grazia accordatami.

Non potei non ammirare la strana concatenazione di circostanze: il pellicciotto da ragazzo donato al vagabondo mi aveva sottratto al capestro, e l'ubriacone, che gironzava per le locande, assediava le fortezze e sconvolgeva lo Stato!

- Non vorresti mangiare? - domandò Savelic', costante nelle sue abitudini, - a casa non c'è nulla; andrò, frugherò e ti preparerò qualche cosa.

Rimasto solo, mi immersi in riflessioni. Che dovevo fare? Restare nella fortezza sottomessa allo scellerato, o seguire la sua banda, era indecoroso per un ufficiale. Il dovere esigeva che mi presentassi là dove il mio servizio poteva ancora esser utile alla patria nelle difficili congiunture del momento... Ma l'amore vivamente mi consigliava di restare presso Maria Ivànovna e di esserle difensore e protettore. Sebbene prevedessi un rapido e indubbio mutare di circostanze, pur tuttavia non potevo non tremare, immaginando il pericolo della condizione di lei.

Le mie meditazioni furono interrotte dalla venuta di uno dei cosacchi, il quale era accorso con l'annuncio: - Il gran sovrano ti vuole a sé, - com'egli disse.

- Dov'è? - domandai, preparandomi a ubbidire.

- Al comando, - rispose il cosacco, - dopo pranzo babbo nostro si reca al bagno, e ora riposa. Ebbene, vostra nobiltà, da tutto si vede ch'è un gran personaggio: a pranzo volle mangiare due porcellini arrosto, e fa il bagno a vapore così caldo che neppure Taràs Kùrockin ci resse, e passò la scopetta a Fomkà Bilbaiev, e a stento è rinvenuto sotto l'acqua fredda. Non c'è che dire: ha modi così importanti... E nel bagno, dicono, ha mostrato i suoi marchi regali alle mammelle: su una, l'aquila a due teste, della grandezza di un soldo, e sull'altra, la sua persona.

Non ritenni necessario contraddire l'opinione del cosacco e con lui mi diressi alla casa del comandante, immaginandomi anticipatamente il colloquio con Pugaciòv e sforzandomi di indovinare come sarebbe finito. Il lettore può facilmente immaginare che non ero del tutto in possesso del mio sangue freddo.

Cominciava a imbrunire, quando giunsi alla casa del comando. La forca con le sue vittime nereggiava paurosamente. Il corpo della povera moglie del comandante giaceva ancora ai piedi del terrazzino, presso il quale due cosacchi montavano la guardia. Il cosacco che mi aveva portato andò ad annunciarmi e, subito tornato, mi guidò in quella stanza dove alla vigilia così teneramente avevo preso commiato da Maria Ivànovna.

Mi si presentò un quadro insolito. A una tavola, coperta da una tovaglia e guarnita di grosse bottiglie e di bicchieri, Pugaciòv e una decina di capi cosacchi sedevano con berretti e camicie a colori, riscaldati dal vino, con i visi rossi e gli occhi lucenti.

Fra essi non c'era né Svabrin, né il nostro sottufficiale cosacco, i traditori nuovi arruolati.

- Ah, vostra nobiltà! - disse Pugaciòv, vedendomi, - benvenuto; vi facciamo onore e posto, favorite.

Gl'interlocutori si restrinsero. Io in silenzio sedetti a un capo della tavola. Il mio vicino, un giovane cosacco, snello e avvenente, mi versò un bicchiere di vino semplice, che non toccai.

Con curiosità presi a esaminare la compagnia. Pugaciòv stava seduto al posto d'onore coi gomiti appoggiati alla tavola e la barba nera posata sul suo largo pugno. I tratti del suo viso, regolari e abbastanza piacevoli, non denotavano niente di feroce.

Si rivolgeva spesso a un uomo sui cinquanta, chiamandolo ora conte, ora Timofieic', e a volte dandogli dello zietto. Tutti si comportavano tra loro come camerati e non dimostravano nessuno speciale attaccamento al loro capo. La conversazione si aggirava sull'assalto della mattina, sul buon esito della sommossa e sulle azioni future. Ciascuno millantava, affacciava le sue opinioni e contendeva liberamente con Pugaciòv. E in quello strano consiglio militare fu stabilito di marciare su Orenbùrg: mossa audace e che per poco non fu coronata da una fatale riuscita! La marcia fu annunciata per il giorno dopo.

- Su, fratelli, - disse Pugaciòv, - intoniamo per il prossimo sonno la mia canzoncina preferita. Ciumakòv! attacca!

Il mio vicino intonò con voce sottile una triste canzone di tonneggiatori, e tutti fecero coro:

Non stormire, o verde madre selva, Non impedire a me, buon giovane, di pensare i miei pensieri, Che diman son chiamato, io buon giovane, a rispondere Davanti a un giudice severo, lo zar stesso.

Comincerà il sovrano a domandarmi:

Dimmi, dimmi tu, figliuol, di contadini figlio, Con chi dunque rubavi, con chi briganteggiavi, Molti ancora eran teco i compagni?

Dirò a te, ortodosso zar, nostra speranza, Tutta la verità dirò a te, la pura verità, Che compagni ne avevo quattro:

Primo compagno mio - la notte scura, E secondo mio compagno - il coltel damascato, E come terzo compagno - il mio buon cavallo, E quarto mio compagno - l'arco teso; Che gl'inviati miei furon dardi arroventati.

Che dirà l'ortodosso zar, nostra speranza:

Salute a te, figliuol, di contadini figlio, Che sapesti predare, ora risponder sai!

In cambio ti accorderò, figliuolo, In mezzo a un campo un alto maniero, Due pali cioè con una traversa.

E' impossibile dire quale effetto produsse su me questa canzone popolare sulla forca, cantata da uomini che alla forca erano votati. Le loro facce minacciose, le voci armoniche, l'espressione triste che essi davano alle parole, già così espressive: tutto mi fece vibrare di poetico sgomento.

Gli ospiti bevvero ancora un bicchiere a testa, si alzarono da tavola e si congedarono da Pugaciòv. Io volevo seguirli, ma Pugaciòv mi disse:

- Rimani; voglio discorrere con te.

Restammo faccia a faccia. Il nostro vicendevole silenzio durò qualche minuto. Pugaciòv mi guardava fissamente, strizzando a tratti l'occhio sinistro con mirabile espressione di marioleria e di canzonatura. Infine rise, e con tal sincera gaiezza che io, guardandolo, mi misi a ridere senza sapere io stesso di che.

- Ebbene, vostra nobiltà? - mi disse, - avesti paura, confessalo, quando i giovanotti miei ti buttarono la corda al collo? Ti sarai visto, immagino, con un palmo di lingua fuori... E avresti dondolato alla traversa, se non era il tuo servo. Riconobbi subito il vecchio barbogio. Orsù, pensavi mai tu, vostra nobiltà, che l'uomo che ti condusse al ricovero fosse il gran sovrano stesso? - (Qui egli prese un'aria grave e misteriosa). - Tu sei colpevole di brutto davanti a me, continuò, - ma ti graziai per il tuo beneficio, perché mi rendesti un servizio, quand'ero costretto a nascondermi ai miei nemici. E quello che ancora vedrai! Come ti ricompenserò, quando avrò avuto il mio Stato! prometti di servirmi con zelo?

La domanda del furfante e la sua spavalderia mi parvero cosi divertenti che non potei far a meno di sorridere.

- Di che sorridi ? - mi domandò, aggrottando le ciglia. - O non credi che sono il gran sovrano? Rispondi francamente.

Mi turbai. Di riconoscere il vagabondo per sovrano non me la sentivo: mi pareva una pusillanimità imperdonabile. Dargli dell'impostore in faccia avrebbe significato espormi alla rovina, e ciò a cui ero stato pronto sotto la forca agli sguardi di tutto il popolo e nel primo impeto d'indignazione, mi sembrava ora un'inutile gradassata. Titubavo. Pugaciòv cupo aspettava la mia risposta. Infine (ancor oggi rammento con soddisfazione quell'istante) il sentimento del dovere trionfò in me sull'umana debolezza. Risposi a Pugaciòv:

- Ascolta, ti dirò tutta la verità. Ragiona, posso io riconoscere in te il sovrano? Sei uomo di senno, vedresti tu stesso che giuoco di astuzia.

- E chi sarei, a tuo giudizio?

- Dio ti conosce; ma chiunque tu sia, giuochi un giuoco pericoloso.

Pugaciòv mi gettò un rapido sguardo.

- Allora tu non credi, - disse, - che io sia il sovrano Piotr Fèodorovic'? Be', va bene. Ma la fortuna non arride forse agli audaci? Forse che un tempo Griska Otriopiev non regnò? Pensa di me quel che vuoi, ma non ti staccare da me. Che t'importa di tutto il resto? Chiunque sia il "pop", gli si dà del "padre". Servimi con fede e lealtà, e io ti farò feldmareseiallo, e principe. Come la pensi?

- No, - risposi, - sono nobile di nascita; ho giurato alla sovrana imperatrice: servir te non posso. Se in realtà mi vuoi del bene, lasciami andare a Orenbùrg.

Pugaciòv si fece pensoso.

- E se ti lascerò andare, - disse, - mi prometti almeno di non servire contro di me?

- Come posso prometterti questo? - risposi, - Sai pure che non son libero: se mi si ordinerà di marciare contro di te, marcerò, non c'è niente da fare. Ora sei tu stesso un capo; tu stesso esigi obbedienza dai tuoi. Che azione sarebbe, se mi rifiutassi al servizio, quando del mio servizio si avrà bisogno? La mia testa è in tuo potere: se mi lasci andare, ti dico grazie; se mi metti a morte, ti sarà giudice Dio; ma io ti ho detto la verità.

La mia sincerità fece stupire Pugaciòv.

- Così sia, - disse, battendomi sulla spalla: - se è morte è morte, se è grazia è grazia. Vattene dove ti garba e fa' quel che vuoi. Domani vieni a salutarmi, e ora vattene a dormire, che anche a me m'è preso sonno.

Lasciai Pugaciòv e uscii sulla via. La notte era calma e gelida.

La luna e le stelle splendevano vivamente, rischiarando la piazza e la forca. Nella fortezza tutto era quieto e buio. Solo in una bettola brillava un fuoco e risonava un vocio di beoni attardati.

Diedi uno sguardo alla casa del sacerdote. Gli scuri e il portone erano chiusi. Pareva che tutto vi fosse tranquillo.

Giunsi al mio alloggio e trovai Savelic' in pena per la mia assenza. La nuova della mia libertà lo allietò indicibilmente.

- Lode a te, Signore! - disse, facendosi il segno della croce, appena giorno lasceremo la fortezza e ce n'andremo alla ventura.

Ti ho preparato qualche cosa, mangia, "bàtiuska", e riposa fino a domattina, come in grembo a Cristo.

Seguii il suo consiglio e, cenato con grande appetito, mi addormentai sul nudo pavimento, affranto di spirito e di corpo.

 

 

 

CAPITOLO NONO

 

LA SEPARAZIONE

Dolce per me fu legarmi, O bellissima, con te; Triste, triste è il separarmi, Qual saria dall'alma, ohimè!

CHERASKOV.

Di prima mattina mi svegliò il tamburo. Andai all'adunata. Già vi erano schierate le turbe di Pugaciòv intorno alla forca, dove penzolavano sempre le vittime del giorno prima. I cosacchi stavano a cavallo, i soldati portavano le armi. Le bandiere sventolavano.

Alcuni cannoni, tra cui riconobbi anche il nostro, erano sistemati su affusti da campagna. Tutti gli abitanti si trovavano lì, aspettando l'impostore. Presso la scaletta della casa del comandante un cosacco teneva per la briglia un bellissimo cavallo bianco di razza chirghisa. Cercai con gli occhi il corpo della moglie del comandante. Era stato portato un po' in disparte e coperto con una stuoia. Infine Pugaciòv uscì dall'ingresso. La gente si scoprì. Pugaciòv si fermò sul terrazzino e salutò tutti.

Uno dei capi gli porse un sacchetto di monete di rame e lui prese a gettarle a piene mani. La gente con grida si precipitò a raccattarle, e la cosa non andò senza storpiature. Pugaciòv venne attorniato dai più importanti dei suoi seguaci. Tra essi, c'era anche Svabrin. I nostri sguardi s'incontrarono; nel mio egli poté leggere il disprezzo, e si voltò in là con espressione di sincero malanimo e di finta derisione. Pugaciòv, vistomi tra la folla, mi fece un segno con la testa e mi chiamò a sé.

- Ascolta, - mi disse, - va' subito a Orenbùrg e avvisa da parte mia il governatore e tutti i generali che mi aspettino da loro tra una settimana. Consigliali di accogliermi con amore e ubbidienza filiali; se no non sfuggiranno a un crudele supplizio. Buon viaggio, vostra nobiltà.

Poi si rivolse alla gente e disse, indicando Svabrin:

- Eccovi, figliuoli, il nuovo comandante. Ubbiditegli in tutto, e lui mi risponde di voi e della fortezza.

Sentii quelle parole con sgomento: Svabrin era diventato capo della fortezza; Maria Ivànovna rimaneva in suo potere! Dio, che sarebbe stato di lei! Pugaciòv scese dal terrazzino. Gli portarono il cavallo. Egli saltò svelto in sella, senza aspettare i cosacchi, che volevano aiutarlo a montare. In quel momento da un mucchio di gente vedo che esce fuori il mio Savelic', si accostò a Pugaciòv e gli porge un foglio di carta. Non potevo immaginare quel che ne sarebbe risultato.

- Che cos'è? - domandò con fare d'importanza Pugaciòv.

- Leggi, e vedrai, - rispose Savelic'.

Pugaciòv prese la carta e la esaminò a lungo con aria significativa.

- Perché scrivi in modo così difficile? - disse infine, - i nostri serenissimi occhi non ci possono capir nulla. Dov'è il mio primo segretario?

Un giovanotto in divisa di caporale accorse pronto a Pugaciòv.

- Leggi forte! - disse l'impostore, consegnandogli la carta.

Ero straordinariamente curioso di sapere che cosa il mio precettore avesse avuto l'idea di scrivere a Pugaciòv. Il primo segretario con voce tonante prese a compitare quanto segue:

"Due vesti da camera, di grosso calica e di seta a righe, sei rubli".

- Che significa ciò? - disse, aggrottando le ciglia Pugaciòv.

- Ordina di leggere oltre, - rispose tranquillo Savelic'.

Il primo segretario continuò:

"Una divisa di panno verde sottile, sette rubli. Calzoni di stoffa bianchi, cinque rubli. Dodici camicie di tela d'Olanda con gale, dieci rubli. Una cassetta con servizio da tè, due rubli e mezzo...".

- Che ciance sono? - interruppe Pugaciòv. - Che importa a me di cassette e di calzoni con le gale?

Savelic' borbottò e prese a spiegarsi.

- Questa, "bàtiuska", vedi, è la lista della roba del signorino, rubata dagli scellerati...

- Che scellerati? - disse minaccioso Pugaciòv.

- Scusami, ho sbagliato, - rispose Savelic': - scellerati o non scellerati, ma i tuoi ragazzi hanno talmente rovistato e rubacchiato! Non andare in collera: il cavallo, pur con quattro zampe, inciampa. Ordina di leggere fino in fondo.

- Finisci di leggere, - disse Pugaciòv.

Il segretario continuò:

"Una coperta d'indiana, altra di taffetà di cotone, quattro rubli.

Una pelliccia di volpe, foderata di rattina rossa. E ancora il pellicciotto di lepre, offerto a tua grazia alla locanda, quindici rubli".

- Che cos'è questo ancora! - gridò Pugaciòv, balenando fuoco dagli occhi.

Confesso che mi spaventai per il mio povero precettore. Egli volle di nuovo ingolfarsi in spiegazioni, ma Pugaciòv lo interruppe.

- Come osi venirtene da me con simili inezie! - gridò, strappando la carta dalle mani del segretario e gettandola in viso a Savelic'. - Stupido vecchio! Li hanno rubati: bel guaio! Ma tu devi, vecchio barbogio, in eterno pregare Dio per me e per i miei ragazzi, che tu e il padrone tuo non penzoliate qui con questi che mi si ribellarono... Il pellicciotto di lepre! Ti darò io il pellicciotto di lepre! Ma lo sai che dò ordine di scoiarti vivo per farne pellicciotti?

- Come ti piacerà, - rispose Savelic', - ma io sono un sottoposto, e dovrò rispondere della roba del padrone.

Pugaciòv era, si vede, in un accesso di magnanimità. Si voltò e partì senza più dire una parola. Svabrin e gli anziani lo seguirono. La banda uscì dalla fortezza in ordine. Il popolo andò ad accompagnare Pugaciòv. Rimasi sulla piazza solo con Savelic'.

Il mio precettore teneva in mano la sua lista e la esaminava con aria di profondo rammarico.

Vedendo il mio buon accordo con Pugaciòv, aveva pensato di trarne partito; ma il savio disegno non gli era riuscito. Volli sgridarlo per lo zelo fuori di posto, e non potei trattenermi dal ridere.

- Ridi, signore, - rispose Savelic', - ridi, ma quando ci toccherà rimettere su casa di sana pianta, vedremo se ci sarà da ridere.

Mi affrettai a casa del sacerdote, per incontrarmi con Maria Ivànovna. La moglie del "pop" mi accolse con una triste notizia.

Nella notte a Maria Ivànovna era venuta una forte febbre ardente.

Ella giaceva senza conoscenza e in delirio. La moglie del "pop" mi condusse nella camera di lei. Mi accostai piano al suo letto. Il cambiamento del suo viso mi costernò. L'inferma non mi riconobbe.

A lungo stetti davanti a lei, senz'ascoltare né padre Gherassim, né la sua buona moglie, i quali, sembra, mi stavan confortando.

Tetri pensieri mi agitavano. Lo stato della povera orfana indifesa, lasciata in mezzo a malvagi ribelli, la mia propria debolezza mi sbigottirono. Svabrin, Svabrin più di tutto tormentava la mia immaginazione.Investito dipotere dall'impostore, al comando della fortezza, dov'era rimasta l'infelice fanciulla, innocente oggetto del suo astio, egli poteva risolversi a tutto. Che dovevo fare? Come darle aiuto? Come liberarla dalle mani dello scellerato? Restava un solo mezzo:

risolsi di andare sul momento a Orenbùrg, per affrettare la liberazione della fortezza di Bielogòrsk, e possibilmente cooperarvi. Salutai il sacerdote e Akulina Panfìlovna, affidandole con calore colei che già consideravo mia moglie. Presi la mano della povera fanciulla e la baciai, bagnandola di lacrime.

- Addio, - mi disse la moglie del "pop", accompagnandomi, addio, Piotr Andreic'. Ci vedremo forse in tempi migliori. Non dimenticateci e scriveteci spesso. La povera Maria Ivànovna, eccetto voi, non ha ora né conforto né protettore.

Sceso in piazza, mi fermai un istante, guardai la forca, mi inchinai, uscii dalla fortezza e presi la strada di Orenbùrg, seguito da Savelic', che non si staccava da me.

Camminavo, occupato dai miei pensieri, quando a un tratto sentii dietro di me un calpestio di cavalli. Mi volto e vedo: dalla fortezza galoppa fuori un cosacco tenendo per la briglia un cavallo baschiro e facendomi cenni da lontano. Mi fermai e in breve riconobbi il nostro sottufficiale. Accostatosi di galoppo, scese dal suo cavallo, porgendomi le briglie dell'altro:

- Vostra nobiltà! Il padre nostro vi offre il cavallo e una pelliccia già portata da lui. - (Alla sella era legato un pellicciotto di montone). - E ancora, - proferì, esitando, il sottufficiale, - vi offre... mezzo rublo in spiccioli... ma li ho smarriti per via: perdonatemi generosamente.

Savelic' lo guardò di sbieco e brontolò:

- Smarriti per via! E che cos'è che ti tintinna in petto?

Disonesto!

- Che cosa mi tintinna in petto? - ribatté il sottufficiale, senza per niente scomporsi, - Dio sia con te, vecchio! E' la briglietta che tintinna, non il mezzo rublo.

- Bene, - dissi, interrompendo la contesa. - Ringrazia da parte mia colui che t'ha mandato; e il mezzo rublo perduto cerca di trovarlo sulla via del ritorno, e prenditelo per la vodka.

- Molto grato, vostra nobiltà, - rispose, girando il suo cavallo, - in eterno pregherò Dio per voi.

Con queste parole egli galoppò indietro, tenendosi una mano in petto. e in un momento fu fuor di vista. Indossai il pellicciotto e salii a cavallo, facendo sedere dietro a me Savelic'.

- Ecco, vedi, signore, - disse il vecchio, - che non invano ho porto al furfante la supplica; il ladrone s'è fatto scrupolo. Per quanto la smilza brenna baschira e il pellicciotto di montone non valgano la metà di quello che loro, i furfanti, ci han rubato, e di quel che tu stesso gli volesti favorire, serviranno pur sempre; e da mala pecora anche un sol fiocco di lana vien buono.

 

 

 

CAPITOLO DECIMO

 

L'ASSEDIO DELLA CITTA'

Prati e monti occupati, dei guardi Sulla città, com'aquila, volgea dall'alto i dardi; Un traino entro il suo campo ei fe' costrurre e, a notte scura, Celati in esso i fulmini, addur sotto le mura.

CHERASKOV.

Appressandoci a Orenbùrg, vedemmo una folla di detenuti dalle teste rasate, coi volti sfigurati dalle tanaglie del carnefice.

Lavoravano attorno alle difese, sotto la vigilanza degl'invalidi della guarnigione. Gli uni trasportavano su carri l'immondizia che aveva riempito il fossato, gli altri con badili scavavan la terra, sul bastione i muratori trascinavano mattoni e riparavano il muro di cinta. Alla porta le sentinelle ci fermarono e chiesero i nostri passaporti. Appena il sergente sentì che venivo dalla fortezza di Bielogòrsk, mi condusse difilato a casa del generale.

Lo trovai in giardino. Esaminava i meli spogliati dal soffio dell'autunno, e con l'aiuto di un vecchio giardiniere li copriva accuratamente di stoppia calda. Il suo viso esprimeva calma, salute e bonarietà. Si rallegrò con me e prese a interrogarmi sui terribili avvenimenti di cui ero stato testimone. Gli raccontai tutto. Il vecchio mi ascoltava con attenzione, e intanto troncava i rametti secchi.

- Povero Mironov, - disse, quand'ebbi finito il mio triste racconto, - mi rincresce per lui, era un bravo ufficiale; anche madame Mironov era una buona signora, e che maestra nel salare i funghi! E che n'è di Mascia, la figlia del capitano?

Risposi che era rimasta nella fortezza, sulle braccia della moglie del "pop".

- Ahi, ahi, ahi! - osservò il generale, - ciò è male, molto male!

Sulla disciplina dei briganti non si può affatto contare. Che sarà della povera ragazza?

Risposi che la fortezza di Bielogòrsk non era lontana, e che, probabilmente, sua eccellenza non avrebbe tardato a inviare truppe per la liberazione dei suoi poveri abitanti. Il generale scosse la testa con aria di sfiducia.

- Vedremo, vedremo, - disse, - avremo ancora il tempo di discorrerne. Prego di favorire a casa mia per una tazza di tè:

oggi da me ci sarà un consiglio militare. Tu puoi darci informazioni sicure su quel furfante di Pugaciòv e sul suo esercito. Ora intanto va' a riposarti.

Mi recai all'alloggio assegnatomi, dove già Savelic' era occupato nelle faccende di casa, e con impazienza mi misi ad aspettare il momento fissato. Il lettore immaginerà facilmente che non mancai di comparire al consiglio, che doveva aver tanta influenza sul mio destino. All'ora stabilita ero già a casa del generale.

Trovai da lui uno dei funzionari municipali, ricordo, il direttore delle gabelle, un vecchiotto grosso e colorito in caffettano di broccato lucido. Egli prese a interrogarmi sulla sorte di Ivàn Kuzmìc', che chiamava compare, e spesso interrompeva il mio dire con domande complementari e osservazioni morali, che, se pure non denotavano in lui un uomo versato in arte militare, indicavano quanto meno avvedutezza e naturale intelletto. Frattanto s'erano raccolti anche gli altri invitati. Quando tutti furono seduti e ad ognuno ebbero portato una tazza di tè, il generale espose in modo quanto mai chiaro e ampio come stavano le cose.

- Ora, signori, - continuò, - importa decidere come dobbiamo operare contro i ribelli: "offensivamente" o "difensivamente"?

Ciascuno di questi metodi ha il suo vantaggio e il suo svantaggio.

Un'azione offensiva offre maggiori speranze di una prontissima distruzione del nemico; l'azione difensiva è più sicura e meno rischiosa... Allora, cominciamo a raccogliere i pareri secondo l'ordine legale, cioè cominciando dai meno anziani di grado.

Signor alfiere! - continuò, rivolgendosi a me,- vogliate spiegarci la vostra opinione.

Mi alzai e, dopo avere in brevi termini descritto prima Pugaciòv e la sua banda, affermai che l'impostore non aveva modo di resistere contro le armi regolari.

La mia opinione fu accolta dai funzionari con palese sfavore. Essi vi scorgevano l'irriflessione e la temerità del giovane. Sorse un mormorio, e sentii distinta la parola: "sbarbatello", pronunciata da qualcuno a mezza voce. Il generale si rivolse a me e disse con un sorriso:

- Signor alfiere! i primi voti nei consigli militari si danno di solito in favore dei movimenti offensivi: è l'ordine legale. Ora continueremo la raccolta dei pareri. Signor consigliere di collegio! diteci il vostro avviso.

Il vecchiotto in caffettano di broccato vuotò in fretta la sua terza tazza, considerevolmente allungata con rum, e rispose al generale:

- Io penso, vostra eccellenza, che non si deve agire né offensivamente né difensivamente.

- Come dunque, signor consigliere di collegio? - ribatté il generale sbalordito: - altri metodi la tattica non offre: mossa difensiva od offensiva...

- Eccellenza, movetevi corruttivamente.

- E-eh, eh! L'opinione vostra è quanto mai saggia. Le mosse corruttive sono ammesse dalla tattica, e noi ci varremo del vostro consiglio. Si potranno promettere per la testa del briccone... una settantina di rubli e magari cento... dal fondo segreto...

- E allora, - interruppe il direttore delle gabelle, - ch'io sia un montone chirghiso, e non un consigliere di collegio, se quei ladri non ci consegneranno il loro "atamàn", incatenato mani e piedi.

- Ci penseremo e ne ragioneremo ancora, - rispose il generale.

Occorre però in ogni caso prendere dei provvedimenti militari.

Signori, date i vostri pareri nell'ordine legale.

Tutte le opinioni si mostrarono contrarie alla mia. Tutti i funzionari parlavano di poca sicurezza delle truppe, d'incertezza di riuscita, di prudenza e simili cose. Tutti opinavano che fosse più savio restare sotto la protezione dei cannoni, dietro un solido muro di pietra, che non in campo aperto tentare la sorte delle armi. Infine il generale, sentiti tutti i pareri, scosse la cenere dalla pipa, e pronunciò il seguente discorso:

- Signori miei! debbo dichiararvi che per parte mia concordo pienamente con l'opinione del signor alfiere: perché tale opinione è fondata su tutte le norme di una sana tattica, che quasi sempre preferisce le mosse offensive a quelle difensive.

Qui egli si fermò e prese a riempire la sua pipa. Il mio amor proprio trionfava. Guardai orgogliosamente i funzionari, che bisbigliavano tra loro con aria di malcontento e d'inquietudine.

- Ma, signori miei, - egli continuò, emettendo, insieme con un profondo sospiro, uno spesso getto di fumo di tabacco, - io non oso prendere su di me una così grande responsabilità, quando si tratta della sicurezza delle province a me affidate da sua maestà imperiale, la mia graziosissima sovrana. E così, son d'accordo con la maggioranza dei pareri, la quale ha deciso esser più di tutto saggio e meno rischioso aspettare l'assedio dentro la città, e respingere l'assalto del nemico con la forza dell'artiglieria e (ove riesca possibile) con sortite.

I funzionari a loro volta con aria canzonatoria guardarono me. Il consiglio si sciolse. Non potei non rimpiangere la debolezza del venerando guerriero che, a dispetto della propria convinzione, si era deciso a seguire le opinioni di uomini ignoranti e inesperti.

Qualche giorno dopo questo illustre consiglio, apprendemmo che Pugaciòv, fedele alla sua promessa, si avvicinava a Orenbùrg. Vidi l'esercito dei ribelli dall'alto del muro di cinta. Mi parve che il loro numero fosse cresciuto di dieci volte dal tempo dell'ultimo assalto, di cui ero stato testimone. Era con loro anche l'artiglieria presa da Pugaciòv nelle piccole fortezze già da lui conquistate. Rammentando la decisione del consiglio, previdi una lunga reclusione nelle mura di Orenbùrg e per poco non piansi di rabbia.

Non starò a descrivere l'assedio di Orenbùrg, che appartiene alla storia, e non alle memorie di famiglia. Dirò brevemente che quest'assedio, per l'inconsiderazione del comando locale, fu rovinoso per gli abitanti, che patirono la fame e tutti i mali possibili. Ci si può facilmente immaginare che la vita a Orenbùrg fu la più intollerabile. Tutti aspettavano sconfortati la decisione della loro sorte; tutti gemevano per il rincaro dei prezzi, che proprio era tremendo. Gli abitanti si abituarono alle palle di cannone che volavano sui loro cortili; perfino gli assalti di Pugaciòv non attiravano più la curiosità generale.

Morivo dalla noia. Il tempo passava. Lettere dalla fortezza di Bielogòrsk non ne ricevevo. Tutte le strade erano tagliate. La separazione da Maria Ivànovna mi diventò insopportabile.

L'incertezza della sua sorte mi tormentava. L'unico mio svago consisteva nel fare scorribande. Grazie a Pugaciòv avevo un buon cavallo, col quale dividevo il magro cibo e su cui ogni giorno uscivo fuor di città a scambiar fucilate coi cavalieri di Pugaciòv. In queste sparatorie la meglio era solitamente dalla parte dei malfattori, sazi, ebbri e ben montati. La macilenta cavalleria della città non poteva superarli. A volte usciva nella campagna anche la nostra affamata fanteria; ma l'altezza della neve le impediva di operare con buon esito contro i cavalieri sparpagliati. L'artiglieria tuonava invano dall'alto del bastione, e nella campagna sprofondava e non si spostava a causa dello sfinimento dei cavalli. Tale era il quadro delle nostre operazioni militari! E ecco quello che i funzionari di Orenbùrg chiamavano prudenza e senno!

Una volta che ci riuscì, non so come, di disperdere e scacciare una truppa abbastanza folta, mi scontrai con un cosacco, rimasto indietro ai suoi compagni; già ero pronto a colpirlo con la mia sciabola turca, quand'egli a un tratto si tolse il berretto e gridò:

- Buon giorno, Piotr Andreic'. Come ve la passate, in grazia di Dio?

Guardai e riconobbi il nostro sottufficiale. Ne fui indicibilmente lieto.

- Buon giorno, Maksimic', - gli dissi. - E' molto che manchi dalla fortezza di Bielogòrsk?

- Non molto. "bàtiuska" Piotr Andreic': ne tornai solo ieri. Ho un bigliettino per voi.

- Dov'è? - gridai, arrossendo tutto.

- Con me, - rispose Maksimic', mettendosi una mano in petto, promisi a Palaska di farvelo avere in qualche modo. Qui mi porse una carta piegata e subito si allontanò al galoppo. L'aprii e col batticuore lessi le seguenti righe:

"Piacque a Dio privarmi improvvisamente di padre e madre: non ho in terra né parenti, né protettori. Ricorro a voi, sapendo che sempre mi avete voluto bene e che siete pronto ad aiutare ognuno.

Prego Dio che questa lettera in qualche modo vi raggiunga!

Maksimic' ha promesso di recapitarvela. Palaska ha sentito sempre da Maksimic' che lui spesso vi vede da lontano nelle sortite, e che voi non vi risparmiate affatto e non pensate a quelli che in lacrime pregano Dio per voi. Fui a lungo inferma; e quando mi ristabilii, Aleksiéj Ivànovic', che comanda da noi al posto del povero babbo, costrinse padre Gherassim a consegnarmi a lui, intimorendolo con Pugaciòv. Vivo nella nostra casa, sotto guardia.

Aleksiéj Ivànovic' mi forza a sposarlo. Dice che mi ha salvato la vita, perché coprì l'inganno di Akulina Panfìlovna, che aveva detto ai malfattori che ero sua nipote. Ma per me sarebbe meglio morire che diventare moglie di un uomo come Aleksiéj Ivànovic'.

Egli mi tratta molto crudelmente e minaccia, se non mi ricredo e non acconsento, di portarmi al campo dello scellerato, e allora, dice: 'Sarà di voi come di Lizaveta Chàrlova' (risparmiata per la sua bellezza, da Pugaciòv, e costretta a diventare sua concubina).

Ho pregato Aleksiéj Ivànovic' di lasciarmi riflettere. Egli ha acconsentito ad aspettare ancora tre giorni, e se fra tre giorni non lo sposerò, non ci sarà più remissione. 'Bàtiuska' Piotr Andreic'! siete il mio solo protettore; venite in mia difesa, infelice. Supplicate il generale e tutti i comandanti d'inviarci al più presto soccorsi, e venite voi stesso, se potete. Sono la vostra umile misera orfana.

Maria Mironov.

Letta questa lettera, per poco non impazzii. Mi precipitai in città, spronando senza misericordia il mio povero cavallo. Per strada immaginavo questo e quell'altro per la liberazione della misera fanciulla, e non potevo escogitare niente. Giunto al galoppo In città, mi avviai direttamente a casa del generale e entrai a precipizio da lui.

Il generale andava avanti e indietro per la stanza fumando la sua pipa di schiuma. Vedendomi, si fermò. Probabilmente il mio aspetto lo colpì: si informò premurosamente sulla ragione della mia frettolosa venuta.

- Eccellenza, - gli dissi, - ricorro a voi come al mio proprio padre; per l'amor di Dio, non ricusate la mia preghiera: si tratta della felicità di tutta la mia vita.

- Che è, "bàtiuska"? - domandò il vecchio sbalordito, - che posso fare per te? Parla.

- Eccellenza, ordinatemi di prendere una compagnia di soldati e mezza centuria di cosacchi e lasciatemi andare a ripulire la fortezza di Bielogòrsk.

Il generale mi guardò attento, pensando, verosimilmente, che io fossi ammattito (nel che quasi non sbagliava).

- Come ciò? Ripulire la fortezza di Bielogòrsk? - disse infine.

- Vi garantisco un buon esito, - risposi con calore, - soltanto lasciatemi andare.

- No, giovanotto, - disse, scrollando il capo, - a distanza così grande sarà facile al nemico tagliarvi fuori delle comunicazioni col punto strategico principale e riportare su voi completa vittoria. Una comunicazione tagliata...

Mi spaventai, vedendolo attratto in dissertazioni militari, e mi affrettai a interromperlo.

- La figlia del capitano Mironov, - gli dissi, - mi scrive una lettera; domanda aiuto; Svabrin la costringe a sposarlo.

- Possibile? Oh, quello Svabrin è un grandissimo "schelm" e se mi verrà tra le mani, lo farò processare in ventiquattr'ore e lo fucileremo sul parapetto della fortezza! Ma per ora ci vuole pazienza...

- Pazienza! - gridai fuor di me, - e lui intanto sposa Maria Ivànovna!

- Oh! - ribatté il generale, - questo non è ancora un guaio:

meglio per lei essere, ora come ora, moglie di Svabrin; adesso lui può accordarle protezione; e quando lo fucileremo, a Dio piacendo, le si troveranno anche dei partiti. Le vedovelle graziose non restano a lungo nubili, cioè volevo dire che una vedovella troverà più presto marito che non una ragazza.

- Voglio piuttosto morire, - dissi furibondo, - che cederla a Svabrin!

- Bah, bah, bah, bah! - disse il vecchio, - ora capisco... Sei innamorato di Maria Ivànovna, si vede. Oh, allora è un'altra cosa!

Povero ragazzo! Ma tuttavia non posso proprio darti una compagnia di soldati e mezzo centinaio di cosacchi. Questa spedizione sarebbe irragionevole; non posso prenderne la responsabilità.

Chinai il capo; la disperazione s'impossessò di me. A un tratto un pensiero balenò nella mia testa: in che consistesse, il lettore vedrà dal capitolo seguente, come dicono i vecchi romanzieri.

 

 

 

CAPITOLO UNDICESIMO

 

IL QUARTIERE DEI RIBELLI

Sazio era il leone, feroce pur nato.

"Perché nel mio covo sei tu or entrato?".

Gentil domandò.

SUMAROKOV.

Lasciai il generale e mi affrettai al mio alloggio. Savelic' mi accolse col suo consueto sermone.

- Bella voglia che hai, signore, d'intrattenerti coi banditi ubriachi! E' cosa da boiardi codesta? Tutto può capitare: per un nonnulla ti rovini. E ancora se tu marciassi contro il turco o lo svedese, ma è perfin peccato dire contro chi.

Interruppi il suo discorso con la domanda: - Quanto denaro ho in tutto?

- Ti basterà, - rispose con aria soddisfatta, - i furfanti ebbero un bel rovistare laggiù, riuscii tuttavia a nasconderlo. E a questo punto tirò fuori dalla tasca un lungo borsellino a maglia, pieno di monete d'argento.

- Be', Savelic', - gli dissi, - dammene ora metà; e il resto prendilo tu. Vado alla fortezza di Bielogòrsk.

- "Bàtiuska" Piotr Andreic'! - disse il buon precettore con voce tremante, - abbi timor di Dio! Come puoi metterti in viaggio oggigiorno, che non si passa da nessuna parte a causa dei banditi!

Abbi pietà dei tuoi genitori, se non hai riguardo per te. Dove devi andare? Perché? Aspetta un pochino: verranno truppe, acchiapperanno i furfanti; e allora vattene pure ai quattro venti.

Ma la mia risoluzione era fermamente presa.

- E' tardi per ragionarci, - risposi al vecchio, - devo andare, e non posso non andare. Non affliggerti, Savelic': Dio è misericordioso, chi sa che non ci rivediamo! Ma guarda, non darti scrupolo e non fare il tirchio. Compera quello che ti occorrerà, fosse pure tre volte più caro. Codesti denari te li regalo. Se fra tre giorni non sarò tornato...

- Che dici, signore? - m'interruppe Savelic', - che ti lasci andar solo! Ma questo non lo domandare neppure in sogno. Già che ti sei deciso ad andare, io, foss'anche a piedi, verrò dietro a te, e non ti abbandonerò. Che me ne stia senza di te a sedere a ridosso della muraglia! Ma che sono ammattito? Come vuoi, signore, ma da te non mi staccherò.

Sapevo che con Savelic' non c'era da discutere, e gli permisi di prepararsi per il viaggio. Di lì a mezz'ora inforcai il mio buon cavallo, e Savelic' una brenna magra e zoppicante che gli aveva consegnato gratis uno degli abitanti della città, non avendo più i mezzi per nutrirla. Arrivammo alla porta della città; le sentinelle ci lasciarono passare, uscimmo da Orenbùrg.

Cominciava a imbrunire. La mia strada passava accanto al borgo di Berdà, rifugio di Pugaciòv. La strada dritta era ingombra di neve; ma per tutta la steppa si vedevano impronte di cavalli, ogni giorno rinnovate. Andavo di buon trotto. Savelic' appena poteva seguirmi a distanza e mi gridava ogni momento:

- Piano, signore, per l'amor di Dio, più piano! Il mio dannato ronzino non ce la fa a tenere dietro al tuo demonio dalle zampe lunghe. Dove ti affretti? Pazienza se fosse a un banchetto, ma in bocca al lupo, temo io... Piotr Andreic'... "bàtiuska" Piotr Andreic' ! ... Signore Iddio, si perderà il signorino!

Ben presto brillarono i fuochi di Berdà. Ci accostammo ai burroni, naturali difese del borgo. Savelic' non si staccava da me, senza interrompere le sue querule implorazioni. Speravo di oltrepassare la borgata felicemente, quando a un tratto scorsi nell'oscurità proprio davanti a me un cinque contadini, armati di randelli: era la guardia avanzata del rifugio dl Pugaciòv. Ci diedero il chi va là. Non sapendo la parola d'ordine, volevo tirare oltre in silenzio; ma essi mi circondarono subito, e uno afferrò il mio cavallo per la briglia. Tirai fuori la sciabola e colpii il contadino in testa; il berretto lo salvò, tuttavia egli barcollò e lasciò andar la briglia. Gli altri si scompigliarono e fuggirono; io approfittai di quell'istante, spronai il cavallo e via di galoppo.

L'oscurità della notte vicina poteva sottrarmi a ogni pericolo, quando improvvisamente, voltatomi, vidi che Savelic' non era con me. Il povero vecchio sulla sua zoppicante cavalcatura non aveva potuto allontanarsi al galoppo dai banditi. Che fare? Dopo averlo aspettato qualche minuto e essermi convinto che era stato preso, girai il cavallo e mi avviai a liberarlo.

Accostandomi al burrone, sentii da lontano lo strepito, le grida e la voce del mio Savelic'. Affrettai l'andatura e in breve mi ritrovai fra i contadini di guardia che m'avevan fermato alcuni minuti prima. Savelic' si trovava fra loro. Essi tiravan giù il vecchio dalla sua brenna e si apprestavano a legarlo. La mia venuta li rallegrò. Con un grido si gettarono su me e in un attimo mi trascinarono giù da cavallo. Uno di essi, in apparenza il capo, ci annunciò che ci avrebbe subito condotti dal sovrano.

- E il nostro babbino, - aggiunse, - è libero di ordinare se impiccarvi subito, o aspettare la luce del buon Dio.

Non feci resistenza; Savelic' seguiva il mio esempio, e le sentinelle ci condussero in trionfo.

Valicammo il burrone e entrammo nel borgo. In tutte le isbe ardevano fuochi. Strepito e grida risonavano dappertutto. Nella via incontrai una quantità di gente; ma nessuno nel buio si accorse di noi, né riconobbe in me un ufficiale di Orenbùrg. Ci portarono difilato a una isba situata all'angolo di un crocicchio.

Vicino al portone stavano alcune botti da vino e due cannoni.

- Ecco il palazzo, - disse uno dei contadini, - ora vi annunceremo.

Egli entrò nell'isba. Guardai Savelic': il vecchio si segnò, recitando tra sé una preghiera. Aspettai a lungo; infine il contadino tornò e mi disse:

- Cammina, il nostro babbino ha ordinato d'introdurre l'ufficiale.

Entrai nell'isba, ossia nel palazzo, come la chiamavano i contadini. Era rischiarata da due candele di sego, e le pareti erano tappezzate di carta dorata; per il resto, panche, tavola, lavamani appeso alla cordicella, asciugamano al chiodo, il forchetto in un angolo e l'ampio focolare ingombro di vasetti, tutto era come in una comune isba. Pugaciòv sedeva sotto le immagini, in caffettano rosso, berretto alto, le mani gravemente sui fianchi. Intorno a lui stavano alcuni dei suoi principali consoci, in aria di simulata servilità. Si vedeva che la notizia dell'arrivo di un ufficiale da Orenbùrg aveva svegliato nei ribelli una viva curiosità, e che si erano preparati ad accogliermi solennemente. Pugaciòv mi riconobbe al primo sguardo.

La sua finta aria d'importanza sparì di colpo.

- Ah, vostra nobiltà! - mi disse vivacemente. - Come stai? Per che cosa ti ha portato Iddio?

Risposi che andavo per una mia faccenda e che gli uomini mi avevano fermato.

- E per che faccenda? - mi domandò.

Non sapevo che rispondere. Pugaciòv, pensando che non volessi spiegarmi in presenza di testimoni, si rivolse ai suoi compagni e comandò loro di uscire. Tutti ubbidirono, tranne due che non si mossero.

- Parla bravamente davanti a loro, - mi disse Pugaciòv, - a loro non nascondo nulla.

Guardai di sbieco i favoriti dell'impostore. Uno di essi, un vecchietto sparuto e curvo, dalla barbetta bianca, non aveva in sé nulla di notevole, salvo un nastro azzurro messo a tracolla su un gabbano grigio. Ma in vita mia non dimenticherò il suo compagno.

Era di alta statura, corpulento e largo di spalle, e mi parve sui quarantacinque anni. La folta barba fulva, i grigi occhi sfolgoranti, il naso senza narici e le macchie rossastre sulla fronte e le guance davano alla sua larga faccia butterata un'espressione inesplicabile. Era in camicia rossa, veste chirghisa e braconi cosacchi. Il primo (come seppi dopo) era il caporale disertore Bielobòrodov; il secondo, Afanassi Sokolòv (soprannominato Chlopuscia), un criminale deportato, tre volte evaso dalle miniere siberiane. Nonostante i sentimenti esclusivi che mi agitavano, la compagnia in cui così all'improvviso ero venuto a trovarmi seduceva fortemente la mia immaginazione. Ma Pugaciòv mi ricondusse a me con la sua domanda:

- Parla, per quale faccenda sei uscito da Orenbùrg?

Uno strano pensiero mi venne in testa: mi parve che la Provvidenza, la quale m'aveva condotto per la seconda volta da Pugaciòv, mi offrisse l'occasione di mandare ad effetto il mio disegno. Risolsi di approfittarne e, senz'aver avuto il tempo di pensare a che mi risolvessi, risposi alla domanda di Pugaciòv:

- Andavo alla fortezza di Bielogòrsk a liberare un'orfana che colà offendono.

Gli occhi di Pugaciòv scintillarono.

- Chi dei miei uomini osa offendere un'orfana? - gridò, - avesse pur la fronte alta sette spanne, non sfuggirà al mio giudizio.

Parla, chi è il colpevole?

- Svabrin è il colpevole, - risposi. - Egli tiene in schiavitù quella fanciulla che tu vedesti, malata, dalla moglie del "pop", e vuole sposarla per forza.

- Insegnerò io a Svabrin! - disse minacciosamente Pugaciòv.

Imparerà che vuol dire da me fare di propria testa e offendere la gente. Lo impiccherò.

- Fammi dire una parola, - disse Chlopuscia con voce rauca, - tu ti affrettasti a nominare Svabrin comandante della fortezza, e adesso ti affretti a impiccarlo. Hai già offeso i cosacchi, mettendo loro a capo un nobile; non spaventare ora i nobili, mandandoli al supplizio alla prima calunnia.

- Non c'è né da compatirli, né da favorirli! - disse il vecchietto dal nastro azzurro, - giustiziare Svabrin non è un guaio; e neppure è male interrogare a dovere il signor ufficiale: perché s'è degnato venire? Se non ti riconosce per sovrano, non ha nemmeno da cercare soddisfazione da te; e se ti riconosce, come mai a tutt'oggi se n'è stato a Orenbùrg coi tuoi nemici? Non ordinerai di portarlo in cancelleria, e di accendervi un focherello? mi ha l'aria che sua grazia ci sia stato segretamente inviato dai comandanti di Orenbùrg.

La logica del vecchio scellerato mi sembrò abbastanza convincente.

Un gelo mi corse per tutto il corpo al pensare in mani di chi mi trovavo. Pugaciòv osservò il mio turbamento.

- Che, vostra nobiltà? - mi disse ammiccando, - il mio feldmaresciallo parla assennato, sembra. Come la pensi?

La canzonatura di Pugaciòv mi ridiede il coraggio. Risposi tranquillamente che mi trovavo in suo potere e che egli era libero di agire come gli sarebbe piaciuto.

- Bene, - disse Pugaciòv, - ora dimmi, in che condizioni è la vostra città?

- Grazie a Dio, - risposi, - tutto va bene.

- Bene? - ripeté Pugaciòv, - ma se la gente muore di fame!

L'impostore diceva il vero; ma io, per dovere di giuramento, mi diedi ad assicurare che erano tutte voci vane e che a Orenbùrg c'erano sufficienti scorte di ogni genere.

- Lo vedi, - ribatté il vecchietto, - che t'inganna a viso aperto.

Tutti i fuggiaschi attestano concordi che a Orenbùrg c'è fame e pestilenza, che laggiù mangiano le carogne, e lo stimano un onore; e sua grazia assicura che c'è di tutto a sazietà. Se vuoi impiccare Svabrin, su quella stessa forca impicca pure questo giovanotto, perché non ci sia invidia per nessuno.

Le parole del maledetto vecchio parvero scuotere Pugaciòv. Per fortuna, Chlopuscia prese a contraddire il suo compagno.

- Smettila, Naumìc! - gli disse, - tu vorresti sempre strangolare e sgozzare. Che eroe sei tu? A guardarti, reggi l'anima coi denti.

Hai tu stesso la fossa sotto agli occhi, e tiri a rovinare gli altri. Hai forse poco sangue sulla coscienza?

- E tu che razza di cuore tenero? - replicò Bielobòrodov, - da dove ti viene la pietà?

- Certo, - rispose Chlopuscia, - anch'io sono peccatore, e questo braccio, - (qui strinse il suo pugno ossuto e, rimboccate le maniche, scoprì un braccio villoso), - e questo braccio è colpevole di sangue cristiano versato. Ma io ammazzavo l'avversario e non l'ospite; a un crocicchio aperto e nello scuro bosco, e non in casa, seduto accanto alla stufa; col mazzafrusto e la scure, e non con calunnie da donnicciuola.

Il vecchio si voltò in là e borbottò le parole: - Narici strappate!...

- Che cosa mormori, vecchio barbogio? - gridò Chlopuscia. - Ti darò io "narici strappate"; aspetta, verrà anche l'ora tua: se Dio vuole, fiuterai tu pure le tenaglie... E intanto, bada che io non ti strappi la barbetta!

- Signori "ginarali"! - esclamò gravemente Pugaciòv - basta litigare. Non sarebbe un guaio se anche tutti quei cani di Orenbùrg tirassero calci all'aria sotto una stessa traversa: il guaio sarà se i nostri mastini si morderanno tra loro. Su, fate pace.

Chlopuscia e Bielobòrodov non dissero nemmeno una parola e si guardarono cupi l'un l'altro. Io vidi l'urgenza di cambiare un discorso che poteva finire per me in modo assai svantaggioso, e, rivolgendomi a Pugaciòv, gli dissi con viso gaio:

- Ah, dimenticavo di ringraziarti per il cavallo e il pellicciotto. Senza di te non avrei raggiunto la città e sarei gelato per strada.

La mia astuzia riuscì. Pugaciòv si rallegrò.

- Il debito è bello quand'è pagato, - disse ammiccando e strizzando un occhio: - raccontami ora un po', che ci hai a che fare tu con la ragazza che Svabrin offende? Non sarà la fiamma di un ardimentoso cuore, eh?

- E' la mia fidanzata, - risposi a Pugaciòv, vedendo il propizio cambiare del tempo, e non trovando il bisogno di nascondere la verità.

- La tua fidanzata! - gridò Pugaciòv. - Ma perché non l'hai detto prima? Ma noi ti daremo moglie e banchetteremo alle tue nozze! - Poi, rivolgendosi a Bielobòrodov: - Ascolta, feldmaresciallo! Io e sua nobiltà siamo vecchi amici; sediamo orsù e ceniamo; la notte porta consiglio. Domani vedremo quello che faremo di lui.

Ero pronto a rinunciare all'offerto onore; ma non c'era niente da fare. Due giovani cosacche, figlie del padrone dell'isba, coprirono la tavola con una tovaglia pulita, portarono pane, zuppa di pesce e alcune grosse bottiglie di vino e birra, e io mi trovai per la seconda volta a mensa con Pugaciòv e i suoi terribili compagni.

L'orgia, della quale fui involontario testimonio, continuò fino a tarda notte. Infine l'ebbrezza cominciò a vincere gli interlocutori. Pugaciòv si appisolò, seduto al suo posto; i suoi compagni si alzarono e mi fecero segno di lasciarlo. Uscii con loro. Per disposizione di Chlopuscia, una sentinella mi portò nell'isba della cancelleria, dove trovai anche Savelic', e dove mi lasciarono con lui, chiusi a chiave. Il precettore era in uno sbalordimento tale, alla vista di tutto quello che succedeva, che non mi fece nessuna domanda. Si coricò al buio, e sospirò e gemette a lungo; infine cominciò a russare, e io mi abbandonai a meditazioni che per tutta la notte non mi lasciarono prendere sonno neppure per un istante.

Al mattino mi mandarono a chiamare da parte di Pugaciòv. Andai da lui. Vicino al suo portone c'era un carro coperto, con tre cavalli tartari attaccati. La gente si affollava nella via. Nell'ingresso incontrai Pugaciòv: era vestito da viaggio, in pelliccia e berretto chirghiso. Gli interlocutori del giorno prima lo circondavano e avevano preso un'aria di servilità che vivamente contraddiceva a tutto ciò di cui ero stato testimonio la vigilia.

Pugaciòv mi salutò allegramente e mi ordinò di montare con lui sul carro. Prendemmo posto.

- Alla fortezza di Bielogòrsk! - disse Pugaciòv al tartaro spalluto, che in piedi guidava il carro.

Il cuore mi batté forte. I cavalli si mossero, la campanella tintinnò, il carro partì di volata...

- Ferma, ferma! - risuonò una voce, a me ben nota, e vidi Savelic' che ci correva incontro. Pugaciòv ordinò di fermarsi.

- "Bàtiuska" Piotr Andreic'! - gridava il precettore, - non mi abbandonare nei miei vecchi anni in mezzo a questi fur...

- Ah, vecchio barbogio! - gli disse Pugaciòv. - Dio ci ha nuovamente permesso di vederci. Be', monta sulla sponda.

- Grazie, sire, grazie, padre mio vero! - diceva Savelic', sedendo, - ti conceda Iddio cent'anni di salute per avermi protetto e rassicurato, me, vecchio che sono. In eterno pregherò Dio per te, e il pellicciotto di lepre non starò più a menzionarlo.

Questo pellicciotto di lepre poteva infine irritare sul serio Pugaciòv. Per buona sorte, l'impostore o non sentì bene, o trascurò l'inopportuna allusione. I cavalli presero il galoppo; la gente nella via si fermava e si inchinava profondamente. Pugaciòv faceva cenni con la testa dalle due parti. In un attimo uscimmo dal borgo e ci slanciammo sulla strada piana.

Si può facilmente immaginare quello che sentivo io in quell'istante. Di lì a qualche ora dovevo trovarmi con colei che per me consideravo ormai perduta. Mi immaginavo il momento della nostra riunione... Pensavo anche all'uomo nelle cui mani si trovava il mio destino e che, per uno strano concorso di circostanze, era misteriosamente legato a me. Ricordai l'irriflessiva ferocia, le sanguinarie abitudini di colui che si era offerto come salvatore della mia amata! Pugaciòv non sapeva che lei era la figlia del capitano Mironov; l'inasprito Svabrin poteva rivelargli tutto; Pugaciòv poteva venire a sapere la verità anche in altro modo... Allora che sarebbe stato di Maria Ivànovna?

Un freddo corse per il mio corpo, e i capelli mi si drizzarono...

D'un tratto Pugaciòv interruppe le mie riflessioni, rivolgendomisi con la domanda:

- A che pensa vostra nobiltà?

- Come non pensare? - gli risposi; - sono ufficiale e nobile; ieri ancora mi battevo contro di te, e oggi vado con te su uno stesso carro, e la felicità di tutta la mia vita dipende da te.

- Ebbene? - domandò Pugaciòv, - ti fa paura?

Risposi che, essendo già stato graziato una volta da lui, speravo non solo nella sua misericordia, ma perfino nel suo aiuto.

- E hai ragione, quant'è vero Dio, hai ragione! - disse l'impostore. - Hai visto che i miei ragazzi ti guardavano storto; e il vecchio anche oggi insisteva che sei una spia, e che bisogna metterti alla tortura e impiccarti; ma io non acconsentii, - aggiunse, abbassando la voce, perché Savelic' e il tartaro non potessero sentirlo, - ricordando il tuo bicchiere di vino e il pellicciotto di lepre. Vedi che non sono ancora tanto bevitore di sangue, come dicono di me i vostri.

Mi ricordai la presa della fortezza di Bielogòrosk, ma non ritenni necessario contraddirlo e non risposi una parola.

- Che dicono di me a Orenbùrg? - domandò Pugaciòv, dopo aver taciuto un po'.

- Ma dicono che sbrigarsela con te è difficiluccio. Non c'è che dire, ti sei fatto conoscere.

Il viso dell'impostore espresse l'amor proprio soddisfatto.

- Sì, - disse con aria gaia, - non combatto troppo male. Sanno da voi a Orenbùrg della battaglia di Juzéjeva? Quaranta "ginarali" uccisi, quattro armate fatte prigioniere. Cosa pensi: il re di Prussia potrebbe discuterla con me?

La baldanza del bandito mi parve divertente.

- Tu stesso come la pensi, - gli dissi, - ce la faresti con Federico?

- Con Fiodor Fiòdorovic'? E come no? Coi vostri "ginarali" me la batto bene; e loro lo hanno sconfitto. Finora le mie armi sono state fortunate. Da' tempo, e che altro non ci vorrà essere, quando marcerò su Mosca?

- E tu conti di marciare su Mosca?

L'impostore pensò un poco e disse a mezza voce:

- Dio lo sa. La mia via è stretta; sono poco libero. I miei ragazzi fanno i saputi. Sono ladroni. Devo stare all'erta: alla prima che va male, riscatteranno il loro collo con la mia testa.

- Ma guarda! - dissi a Pugaciòv, - non faresti meglio a staccarti tu stesso da loro, a tempo, e ricorrere alla clemenza della sovrana?

Pugaciòv sorrise amaramente.

- No, - rispose, - è tardi per me pentirmi. Per me non ci sarà remissione. Continuerò come ho cominciato. Come si fa a sapere?

Chi sa che non mi riesca! Griska Otriopiev regnò pure su Mosca.

- Ma sai com'egli finì? Lo gettarono dalla finestra, lo sgozzarono, lo arsero, caricarono con le sue ceneri un cannone e fecero fuoco.

- Ascolta, - disse Pugaciòv con una certa selvaggia ispirazione,- ti racconterò una favola che nell'infanzia mi raccontava una vecchia calmucca. Una volta l'aquila domandò al corvo: "Dimmi, uccello corvo, perché vivi tu in questo mondo trecent'anni, e io in tutto e per tutto solo trentatré anni?". "Perché, 'bàtiuska'", gli rispose il corvo, "tu bevi sangue vivo, e io mi nutro di carogne". L'aquila pensò: orsù, proveremo anche noi a nutrirci allo stesso modo. Bene. Se ne volarono via aquila e corvo. Ecco che videro da lontano un cavallo morto, scesero e si posarono. Il corvo si mise a beccare e a lodare i bocconi. L'aquila diede una beccata, ne diede un'altra, batté un'ala e disse al corvo, "No, fratello corvo! Anziché nutrirsi trecent'anni di carogne, meglio dissetarsi una volta di sangue vivo; e poi sarà quel che Dio vorrà!". Com'è la favola calmucca?

- Ingegnosa, - gli risposi. - Ma vivere d'assassinio e di brigantaggio significa per me beccar carogne.

Pugaciòv mi guardò con meraviglia e non rispose nulla. Tacemmo tutti e due, immergendoci ciascuno nei suoi pensieri. Il tartaro attaccò una triste canzone, Savelic', sonnecchiante, dondolava sulla sponda. Il carro volava sul liscio cammino invernale... A un tratto vidi il villaggetto sulla riva scoscesa del Jaìk, con la palizzata e il campanile, e di lì a un quarto d'ora entrammo nella fortezza di Bielogòrsk.

 

 

 

CAPITOLO DODICESIMO

 

L'ORFANA

Come il nostro melo Cima non ha, né germogli; Come la nostra principessina Padre non ha, né madre.

Che l'adorni, nessuno, Che la benedica, nessuno.

CANTO NUZIALE.

Il carro si avvicinò alla scaletta della casa del comandante. La gente riconobbe la campanella di Pugaciòv e in folla corse dietro a noi. Svabrin venne incontro all'impostore sul terrazzino.

Vestiva da cosacco e si era lasciata crescere la barba. Il traditore aiutò Pugaciòv a scendere dal carro, attestando in termini abietti la sua gioia e il suo zelo. Vedendomi, si turbò, ma si rimise prontamente, e mi tese la mano, dicendo:

- Anche tu dei nostri? Da un pezzo avrebbe dovuto essere così.

Io mi girai dall'altra parte e non risposi nulla.

Il cuore mi si strinse, quando ci trovammo nella stanza, da gran tempo conosciuta, dove alla parete pendeva ancora il diploma del defunto comandante, come un malinconico epitaffio del tempo andato. Pugaciòv sedette sul divano su cui era solito sonnecchiare Ivàn Kuzmìc', assopito dal brontolare della sua consorte. Svabrin stesso gli servì della vodka. Pugaciòv vuotò il bicchierino e gli disse, indicando me:

- Offrine anche a sua nobiltà.

Svabrin mi si accostò col suo vassoio; ma io per la seconda volta gli girai le spalle. Egli sembrava scombussolato. Con la consueta sua sagacia si era certamente accorto che Pugaciòv era scontento di lui. Gli stava davanti spaurito e ogni tanto guardava me con diffidenza. Pugaciòv si informò sulle condizioni della fortezza, sulle voci circa le truppe nemiche, e simili cose, e all'improvviso gli domandò inaspettatamente:

- Dimmi, fratello, che ragazza tieni chiusa da te sotto guardia?

Mostramela un po'.

Svabrin si fece pallido come un morto.

- Sire, - disse con voce tremante, - sire, non è sotto guardia...

è ammalata... coricata nella cameretta.

- Conducimi allora da lei, - disse l'impostore, alzandosi dal posto.

Esimersi era impossibile. Svabrin condusse Pugaciòv alla stanzetta di Maria Ivànovna. Io li seguii.

Svabrin si fermò sulla scala.

- Sire, - disse, - voi siete padrone di volere da me quello che vi piace; ma non fate entrare un estraneo nella camera di mia moglie.

Sussultai.

- Dunque sei ammogliato! - dissi a Svabrin, preparandomi a sbranarlo - Piano! - m'interruppe Pugaciòv, - questo è affar mio. E tu, continuò, rivolto a Svabrin, - non fare il furbo e non t'intestardire: che ti sia moglie, o non moglie, porto da lei chi voglio. Vostra nobiltà, vieni dietro a me.

Alla porta della stanzetta Svabrin tornò a fermarsi e disse con voce rotta:

- Sire, vi avverto che ha la febbre delirante, e è il terzo giorno che vaneggia senza posa.

- Apri! - disse Pugaciòv.

Svabrin prese a cercarsi nelle tasche, e disse che non aveva preso con sé la chiave. Pugaciòv diede un calcio alla porta; la serratura saltò via, e noi entrammo.

Io guardai, e tramortii. In terra, in un lacero vestito da contadina, sedeva Maria Ivànovna, pallida, magra coi capelli scarmigliati. Davanti aveva una brocca di acqua, coperta da una fetta di pane. Vedendomi, ella tremò e si mise a gridare. Ciò che allora fu di me non ricordo.

Pugaciòv guardò Svabrin e disse con un sorriso amaro:

-Bello il lazzaretto che hai! - poi si accostò a Maria Ivànovna:- Dimmi, colombella, perché tuo marito ti castiga? Di che ti sei resa colpevole verso di lui?

- Mio marito! - ella ribatté, - lui non mi è marito. Io non sarò mai sua moglie! Ho piuttosto deciso di morire, e morirò, se non mi si libererà.

Pugaciòv gettò un'occhiata minacciosa a Svabrin.

- E tu hai osato ingannarmi! - gli disse, - sai tu, farabutto, che cosa meriti?

Svabrin cadde in ginocchio... In quell'istante il disprezzo soffocò in me tutti gli altri sentimenti di odio e d'ira. Guardavo con disgusto quel nobile che si era buttato ai piedi di un cosacco disertore. Pugaciòv si addolcì.

- Ti faccio grazia per questa volta, - disse a Svabrin, - ma sappi che alla prima colpa sconterai anche questa.

Poi si volse a Maria Ivànovna e le disse affabilmente:

- Esci, bella fanciulla; ti dono la libertà. Sono il sovrano.

Maria Ivànovna gli gettò una rapida occhiata e indovinò che le stava davanti l'assassino dei suoi genitori. Si coprì il viso con le due mani e cadde priva di sensi. Mi slanciai verso di lei; ma in quel momento s'insinuò nella stanza la mia vecchia conoscente Palaska e cominciò a prendersi cura della sua padroncina. Pugaciòv uscì dalla stanzetta, e noi tre scendemmo nel salotto.

- Dunque, vostra nobiltà? - disse Pugaciòv, - l'abbiamo liberata, la bella fanciulla! Cosa pensi, non si deve chiamare per il "pop", e fargli maritare la nipote? Magari farò io da compare, Svabrin da valletto; mangiamo, beviamo, e il portone chiudiamo!

Quello che temevo accadde. Svabrin, sentendo la proposta di Pugaciòv, uscì fuori di sé.

- Sire! - disse nel furore, - sono colpevole, vi ho mentito - ma anche Griniòv vi inganna. Questa ragazza non è la nipote del "pop" di qui: è la figlia di Ivàn Mironov, che fu giustiziato alla presa della locale fortezza.

Pugaciòv puntò su me i suoi occhi di fuoco.

- Che è questo ancora? - mi domandò perplesso.

- Svabrin ti ha detto la verità, - risposi con fermezza.

- Tu questo non me lo dicesti, - osservò Pugaciòv, il cui viso si rabbuiò.

- Giudica tu stesso, - gli risposi, - se si poteva dichiarare al cospetto dei tuoi uomini che la figlia di Mironov era viva. Ma l'avrebbero fatta a pezzi. Niente l'avrebbe salvata.

- Anche questo è vero, - disse ridendo Pugaciòv - i miei ubriaconi non avrebbero risparmiato la povera ragazza. Bene fece comare popessa, che li gabbò.

- Ascolta, - continuai, vedendo la sua buona disposizione, come chiamarti non lo so, e neppure voglio saperlo... Ma Dio vede che sarei lieto di ripagarti con la vita quello che hai fatto per me.

Solo non chiedere quello che è contrario al mio onore e alla coscienza cristiana. Tu sei il mio benefattore. Finisci come hai cominciato: lasciami andare con la povera orfana, dove Iddio ci mostrerà il cammino. E noi, ovunque tu sia e qualunque cosa ti accada, ogni giorno pregheremo Dio per la salvezza dell'anima tua peccatrice...

Sembrò che la rude anima di Pugaciòv fosse scossa.

- Sia dunque a modo tuo! - disse, - se è morte è morte, se è grazia è grazia: tale è l'uso mio. Pigliati la tua bella, portala dove vuoi, e vi conceda Iddio amore e consiglio!

Qui si rivolse a Svabrin e gli ordinò di darmi un salvacondotto per tutte le barriere e le fortezze a lui soggette. Svabrin, interamente disfatto, stava lì come impietrito. Pugaciòv andò a visitare la fortezza. Svabrin l'accompagnò, e io rimasi con la scusa dei preparativi per la partenza.

Corsi alla stanzetta. La porta era chiusa. Bussai.

- Chi è? - domandò Palaska Dissi il mio nome. La cara voce di Maria Ivànovna risuonò da dietro la porta:

- Aspettate, Piotr Andreic'. Sto cambiando vestito. Andate da Akulina Panfìlovna: ci sarò subito anch'io.

Mi scusai e andai a casa di padre Gherassim. E lui e la popessa mi uscirono di corsa incontro. Savelic' li aveva già avvertiti.

- Buon giorno, Piotr Andreic', - diceva la moglie del "pop": Dio ha permesso che ci si rivedesse. Come state? Ogni giorno parlavamo di voi. E Maria Ivànovna ha patito di tutto senza di voi, la mia colombella!... Ma dite, padre mio, com'è che vi siete inteso con Pugaciòv? Come mai non vi ha fatto la festa? Meno male, vada un grazie allo scellerato anche per questo.

- Basta, vecchia, - interruppe padre Gherassim, - non stare a vuotare il sacco. Il troppo parlare nuoce. "Bàtiuska" Piotr Andreic'! entrate, favorite. E' un pezzo, un pezzo che non ci siamo visti.

La moglie del "pop" cominciò a offrirmi quello che aveva di pronto, e intanto parlava senza posa. Mi raccontò in che modo Svabrin li aveva costretti a consegnargli Maria Ivànovna; come Maria Ivànovna piangeva e non voleva separarsi da loro; come Maria Ivànovna avesse con lei continue relazioni per mezzo di Palaska (ragazza in gamba, che faceva filare a modo suo anche il sottufficiale cosacco); come ella avesse consigliato a Maria Ivànovna di scrivermi la lettera, e via dicendo. A mia volta, le raccontai brevemente la mia storia. Il "pop" e la "popessa" si segnarono, avendo sentito che a Pugaciòv era noto il loro inganno.

- La forza della Croce sia con noi! - diceva Akulina Panfìlovna,- che Dio scacci da noi la nube. Ah, ma quell'Aleksiéj Ivanic', non c'è che dire, è un bel tomo!

Nello stesso istante la porta si aprì e Maria Ivànovna entrò con un sorriso sul pallido volto. Aveva lasciato i suoi panni contadineschi e era vestita come prima, in modo semplice e grazioso.

Presi la sua mano e per un lungo tempo non riuscii a pronunciare una sola parola. Tutt'e due tacevamo perché avevamo il cuore pieno. I nostri ospiti sentirono che non avevamo la testa a loro, e ci lasciarono. Restammo soli. Tutto era dimenticato. Parlavamo e non potevamo saziarci di parlare. Maria Ivànovna mi raccontò tutto quello che le era successo fin dalla presa della fortezza; mi descrisse tutto l'orrore della sua condizione, tutte le prove a cui l'aveva sottoposta l'ignobile Svabrin. Ricordammo anche il tempo felice di prima... Tutt'e due piangemmo... Infine io presi a spiegarle i miei progetti. Nella fortezza, soggetta a Pugaciòv e comandata da Svabrin, le era impossibile restare. Neppure si poteva pensare a Orenbùrg, che pativa tutti i mali di un assedio.

Ella non aveva al mondo un solo parente. Le proposi di andare in campagna dai miei genitori. In principio titubò: la sfavorevole disposizione di mio padre, a lei nota, la spaventava. Io la tranquillizzai. Sapevo che mio padre avrebbe stimato fortuna e si sarebbe fatto un dovere di accogliere la figlia di un benemerito soldato, caduto per la patria.

- Cara Maria Ivànovna! - dissi infine, - io ti considero mia moglie. Miracolose circostanze ci hanno uniti indissolubilmente; niente al mondo può separarci.

Maria Ivànovna mi ascoltò con semplicità, senza finta timidezza, senza pretesti ingegnosi. Sentiva che la sua sorte era unita alla mia. Ma ripeté che non sarebbe stata mia moglie se non con il consenso dei miei genitori. Io non la contraddissi. Ci baciammo con ardore, schiettamente, e così tutto fu tra noi stabilito.

Di lì a un'ora il sottufficiale mi portò il lasciapassare sottoscritto da uno sgorbio di Pugaciòv, e mi chiamò da lui, a suo nome. Non posso spiegare quello che sentivo separandomi da quell'uomo terribile, mostro, scellerato per tutti, fuorché per me solo. Perché non dire la verità? In quel momento mi suscitava una viva simpatia. Desideravo ardentemente strapparlo dai malfattori che comandava, e salvare la sua testa, mentre ancora si era in tempo. Svabrin e la gente affollatasi intorno a noi mi impedirono di dire tutto quello di cui era pieno il mio cuore.

Ci separammo amichevolmente. Pugaciòv, scorgendo nella folla AkulinaPanfìlovna,la minacciò col dito e ammiccò significativamente; poi montò sul carro coperto, ordinò di far via per Berdà, e, quando i cavalli si mossero, si sporse ancora una volta dal carro e mi gridò:

- Addio, vostra nobiltà! Chi sa che non ci rivediamo un giorno.

Ci vedemmo infatti, ma in quali circostanze...

Pugaciòv era partito. Guardai a lungo la bianca steppa, su cui correva la sua troika. La gente si disperse. Svabrin si era dileguato. Tornai a casa del sacerdote. Tutto era pronto per la nostra partenza; non volevo più indugiare. La nostra roba era stata messa tutta sulla vecchia carretta del comandante. I vetturali in un batter d'occhio attaccarono i cavalli. Maria Ivànovna andò a dire addio alla tomba dei suoi genitori, seppelliti dietro la chiesa. Volevo accompagnarla, ma ella mi pregò di lasciarla sola. Dopo qualche minuto ritornò, bagnandosi di quiete, silenziose lacrime. Fu fatta avanzare la carretta.

Padre Gherassim e sua moglie uscirono sul terrazzino. Salimmo sul veicolo in tre: Maria Ivànovna con Palaska, e io; Savelic' si appollaiò sulla sponda.

- Addio, Maria Ivànovna, mia colombella! Addio, Piotr Andreic', falchetto nostro radioso! - diceva la buona moglie del "pop". Buon viaggio, e che Dio vi conceda felicità a tutt'e due!

Partimmo. Alla finestra della casa del comandante vidi Svabrin in piedi. Il suo viso esprimeva una cupa malvagità. Io non volevo trionfare sul nemico annientato e girai gli occhi in un'altra direzione. Infine uscimmo dalla porta del forte e per sempre lasciammo la fortezza di Bielogòrsk.

 

 

 

CAPITOLO TREDICESIMO

 

L'ARRESTO

"Signor, non t'adirar: per dover mio In prigion tosto metterti debb'io".

Sta bene, pronto son: ma vo' sperare Che pria potrò spiegarvi questo affare.

KNIAZNIN.

Riunito in modo così insperato alla cara fanciulla, per la quale ancora quella mattina così tormentosamente mi inquietavo, non credevo a me stesso e mi immaginavo che quanto m'era accaduto fosse un vano sogno. Maria Ivànovna guardava soprappensiero ora me, ora la strada, e sembrava che non fosse ancora riuscita a riaversi e a tornare in sé. Tacevamo. I nostri cuori erano troppo stanchi. Inavvertitamente, di lì a un paio d'ore, ci ritrovammo nella vicina fortezza, pure sottomessa a Pugaciòv. Qui cambiammo i cavalli. Dalla rapidità con cui li attaccavano, dalla diligente premura del barbuto cosacco, posto a comandante da Pugaciòv, mi avvidi che, grazie alla loquacità del vetturale che ci aveva condotti, mi si prendeva per un favorito di corte.

Proseguimmo. Cominciò a imbrunire. Ci avvicinammo a una cittadina dove, a detta del comandante barbuto, si trovava un forte distaccamento che andava a riunirsi con l'impostore. Venimmo fermati dalle sentinelle. Alla domanda: "Chi va là?", il vetturale rispose con voce forte: - Il compare del sovrano con la sua padroncina. - A un tratto una frotta di ussari ci attorniò con orribili parolacce.

- Esci fuori, compare del Demonio! - mi disse un barbuto maresciallo d'alloggio: - ti si darà una bella doccia calda, a te e alla tua padroncina!

Scesi dal carro e richiesi che mi si conducesse dal loro capo.

Vedendo un ufficiale, i soldati smisero le loro invettive. Il maresciallo mi accompagnò dal maggiore. Savelic' non si scostava da me, dicendo fra se stesso: "Eccoti il compare del sovrano!

Dalla padella nella brace... Signore Iddio! come finirà tutto ciò?". Il carro ci venne dietro al passo.

Di lì a cinque minuti giungemmo a una casetta vivamente illuminata. Il maresciallo mi lasciò sotto guardia e andò ad annunciarmi. Tornò poi subito, dichiarandomi che sua alta nobiltà non aveva tempo di ricevermi, e che aveva comandato di portare me in carcere, e la padroncina di condurla da lui.

- Che vuol dire ciò? - gridai nella rabbia, - ma che è impazzito?

- Non so, vostra nobiltà, - rispose il maresciallo, - solo che sua alta nobiltà ha ordinato di portare vostra nobiltà in carcere, e sua nobiltà è stato ordinato di condurla da sua alta nobiltà, vostra nobiltà!

Mi precipitai sul terrazzino. Le sentinelle non pensarono a trattenermi, e io corsi difilato nella stanza, dove cinque o sei ufficiali degli ussari giocavano a faraone. Il maggiore teneva banco. Quale non fu il mio stupore quando, guardandolo, riconobbi Ivàn Ivànovic' Zurin, che mi aveva vinto al giuoco nell'albergo di Simbìrsk.

- Possibile? - esclamai: - Ivàn Ivànovic'! Tu?

- Oh, oh, oh, Piotr Andreic'! Qual buon vento? Da dove vieni?

Salute, fratello. Non vuoi fare una puntata?

- Molto grato. Ordina piuttosto di assegnarmi un alloggio.

- Che alloggio? Rimani da me.

- Non posso: non sono solo.

- Be', porta qui il camerata.

- Non sono con un camerata, sono... con una signora.

- Con una signora? Ma dove l'hai arraffata? Eh, eh, fratello!

A queste parole Zurin fischiettò così espressivamente, che tutti scoppiarono in una risata, e io mi confusi del tutto .

- Be', - continuò Zurin, - così sia. Avrai l'alloggio. Ma peccato... avremmo gozzovigliato un po', all'antica... Ehi!

giovanotto! Ma perché non portano qui la comare di Pugaciòv? O che fa la restia? Dille che non abbia paura; è un signore, dille, eccellente, non ti farà torto in nulla, e prendila delicatamente per il collo.

- Che fai? - dissi a Zurin, - che comare di Pugaciòv? E' la figlia del defunto capitano Mironov. L'ho liberata dalla prigionia e ora la conduco alla campagna del babbo, dove la lascerò.

- Come! Allora eri tu quello che or ora mi annunciavano? Via! ma che significa ciò?

- Poi ti racconterò tutto. Ma adesso, per amor di Dio tranquillizza la povera figliuola, che i tuoi ussari hanno tutta spaventata.

Zurin diede subito disposizioni. Egli stesso uscì sulla via a scusarsi con Maria Ivànovna dell'involontario equivoco e ordinò al maresciallo di assegnarle il miglior alloggio della città. Io restai a pernottare da lui.

Finimmo di cenare, e quando rimanemmo noi due soli, gli raccontai tutte le mie avventure. Zurin mi ascoltava con grande attenzione.

Quando finii, scosse la testa e disse:

- Questo, fratello, va bene; una sola cosa non va bene: perché il Diavolo ti porta a prendere moglie? Io, onorato ufficiale, non voglio ingannarti; credimi che sposarsi è una pazzia. Via, come potresti prenderti il fastidio di una moglie e tener dietro ai ragazzini? Eh, sputaci su. Da' retta a me: allontanati dalla figlia del capitano. La strada per Simbìrsk è stata da me ripulita e resa sicura. Mandala fin da domani sola dai tuoi genitori, e tu rimani da me al distaccamento. Non hai nessun motivo di tornare a Orenbùrg. Ricadresti nelle mani dei ribelli, e dubito fortemente che te la caveresti ancora una volta. In tal modo l'amorosa fantasia passerà da sé e tutto andrà bene.

Pur non essendo affatto d'accordo con lui, sentivo però che il dovere dell'onore esigeva la mia presenza nell'esercito dell'imperatrice. Mi decisi a seguire il consiglio di Zurin:

inviare Maria Ivànovna al villaggio e restare nel suo distaccamento.

Savelic' si presentò per svestirmi; lo avvertii che il giorno dopo si tenesse pronto a mettersi in viaggio con Maria Ivànovna.

S'intestardì.

- Che dici, signore? Ma come farò a lasciarti? Chi avrà cura di te? Che cosa diranno i genitori tuoi?

Conoscendo l'ostinazione del mio precettore, pensai di persuaderlo con l'amorevolezza e la sincerità.

- Amico mio, Archìp Savelic'! - gli dissi. - Non rifiutare, sii il mio benefattore: di servi non avrò bisogno, e non sarò tranquillo se Maria Ivànovna si metterà in viaggio senza di te. Servendo lei, servi anche me, perché ho fermamente stabilito, appena le circostanze lo permetteranno, di sposarla.

Qui Savelic' batté le palme con aria di stupore indescrivibile.

- Sposarla! - ripeté, - il fanciullo vuole sposarsi! E che dirà il babbo, e la mamma che cosa penserà?

- Acconsentiranno, di sicuro acconsentiranno, - risposi, quando avranno conosciuto Maria Ivànovna. Conto anche su di te. Il babbo e la mamma ti credono; ci farai da avvocato, no?

Il vecchio fu commosso.

- Oh, "bàtiuska" mio, Piotr Andreic'! - rispose, - per quanto un po' presto ti sia messo in mente di prender moglie, Maria Ivànovna è però una così buona signorina, che sarebbe peccato lasciarsi sfuggire l'occasione. Sia dunque fatto a modo tuo! L'accompagnerò, quell'angelo di Dio, e umilmente dirò ai tuoi genitori che una simile sposa non ha neppure bisogno di dote.

Ringraziai Savelic' e andai a letto nella stessa camera con Zurin.

Accalorato e agitato, non finivo di chiacchierare. Zurin all'inizio discorreva volentieri con me, ma a poco a poco le sue parole si fecero più rade e sconnesse; infine, in risposta a una mia domanda, si mise a russare con accompagnamento di sibili. Io tacqui e in breve seguii il suo esempio.

La mattina del giorno dopo mi recai da Maria Ivànovna. Le comunicai i miei progetti. Ella ne riconobbe la saggezza e fu subito d'accordo con me. Il distaccamento di Zurin doveva uscire dalla città quello stesso giorno. Non c'era da indugiare. Mi separai lì stesso da Maria Ivànovna, dopo averla affidata a Savelic' e averle dato una lettera per i miei genitori. Maria Ivànovna si mise a piangere.

- Addio, Piotr Andreic', - disse a bassa voce, - se dovremo rivederci oppure no, Dio soltanto lo sa; ma in vita mia non vi dimenticherò; fino alla tomba rimarrai tu solo nel mio cuore.

Non potei rispondere nulla. Delle persone ci avevano circondati.

Non volevo in loro presenza abbandonarmi ai sentimenti che mi agitavano. Infine ella partì. Tornai da Zurin, mesto e taciturno.

Egli voleva farmi stare di buon umore; io pensavo di distrarmi; passammo la giornata rumorosamente e tumultuosamente, e la sera ci mettemmo in marcia.

Si era alla fine di febbraio. L'inverno, che intralciava le disposizioni militari, stava passando, e i nostri generali si preparavano a una cooperazione concorde. Pugaciòv era tuttora sotto Orenbùrg. Nel frattempo intorno a lui i nostri distaccamenti si congiungevano e da tutte le parti si avvicinavano al nido dello scellerato. I villaggi insorti, alla vista delle nostre truppe, venivano a sommissione; le bande dei briganti dappertutto fuggivano davanti a noi, e tutto presagiva una fine rapida e felice.

Ben presto il principe Golitsin, sotto la fortezza di Tatìsceva, sconfisse Pugaciòv, disperse le sue orde, liberò Orenbùrg e sembrò assestare alla rivolta il colpo ultimo e risolutivo. Zurin era in quel tempo distaccato contro una banda di baschiri insorti, che si dispersero prima che li vedessimo. La primavera ci fermò in un villaggetto tartaro. I fiumicelli strariparono e le strade si fecero impraticabili. Ci consolavamo nella nostra inazione col pensiero della pronta cessazione di una guerra tediosa e sminuzzata con briganti e selvaggi.

Ma Pugaciòv non fu preso. Egli comparve nelle fattorie siberiane, vi raccolse nuove bande e ricominciò i suoi misfatti. L'eco dei suoi buoni successi riprese a diffondersi. Apprendemmo della devastazione delle fortezze siberiane. In breve la notizia della presa di Kasàn e della marcia dell'impostore su Mosca mise in apprensione i capi degli eserciti, che negligentemente sonnecchiavano nella speranza di una debolezza dello spregiato ribelle. Zurin ricevette l'ordine di passare il Volga e affrettarsi a Simbìrsk, dove già divampava la fiamma dell'incendio. Il pensiero che forse mi sarebbe riuscito di fare una scappata in campagna da noi, abbracciare i genitori e vedere Maria Ivànovna, mi animò di letizia. Saltavo come un bambino, e ripetevo, abbracciando Zurin: - A Simbìrsk! a Simbìrsk! - Zurin sospirava e diceva, alzando le spalle: - No, non finirai bene. Ti sposi e ti perderai per nulla!...

Ci avvicinavamo alle rive del Volga. Il nostro reggimento entrò nel villaggio di ... e si fermò a pernottarvi. La mattina dopo dovevamo passare il fiume. Il capo del villaggio mi fece sapere che dall'altra parte tutti i villaggi si sollevavano; le bande di Pugaciòv vagavano dappertutto.

Questa notizia mi mise in viva apprensione.

L'impazienza si era impadronita di me e non mi dava requie. La campagna di mio padre era situata a trenta verste dall'altra parte del fiume. Domandai se non si sarebbe trovato un traghettatore.

Tutti i contadini erano pescatori; barche ce n'erano molte. Andai da Zurin e gli spiegai il mio proposito.

- Bada, - mi disse, - andare solo è pericoloso. Aspetta la mattina. Traverseremo per primi e faremo visita ai tuoi genitori con cinquanta ussari, per precauzione.

Io insistetti. La barca era pronta. Vi sedetti con due rematori.

Essi disormeggiarono e misero in voga i remi.

Il cielo era sereno. La luna splendeva. Il tempo era calmo. Il Volga scorreva uguale e placido. La barca, mollemente dondolando, scivolava sulla superficie delle onde scure. Passò una mezz'ora.

Mi ero immerso nei sogni della fantasia: quiete della natura e orrori politici, amore e così via. Avevamo raggiunto il mezzo del fiume... A un tratto i rematori cominciarono a bisbigliare tra loro.

- Che c'è? - domandai, riavendomi.

- Non sappiamo, Dio lo sa, - ripresero i rematori, guardando da una parte.

I miei occhi presero la stessa direzione, e scorsi nell'oscurità qualche cosa che galleggiava in discesa per il Volga. L'ignoto oggetto si avvicinava. Ordinai ai rematori di fermarsi e aspettare.

La luna si nascose dietro una nuvola. La visione galleggiante si fece ancor più scura. Mi era ormai vicina e non potevo tuttavia distinguerla.

- Che sarebbe ciò? - dicevano i rematori, - vela non è, albero non è.

Improvvisamente la luna uscì da dietro la nuvola e rischiarò uno spettacolo orribile. Ci veniva incontro galleggiando una forca assicurata a una zattera. Tre corpi pendevano dalla traversa. Una curiosità morbosa si impadronì di me. Volli gettare un'occhiata sulle facce degli impiccati. Per mio ordine i rematori agganciarono la zattera col raffio, e la mia barca urtò la forca galleggiante. Saltai fuori e mi trovai fra gli orrendi pali. La luna piena illuminava i visi sfigurati degli infelici... Uno di essi era un vecchio ciuvascio, l'altro un contadino russo, un giovane forte e robusto, sui vent'anni. Guardando il terzo, fui vivamente impressionato e non potei trattenere un'esclamazione di rimpianto: era Vanka, il mio povero Vanka, che per la sua balordaggine aveva aderito alla causa di Pugaciòv. Sopra di essi era stata fissata una nera tavoletta, su cui a caratteri bianchi era scritto: "Ladri e ribelli". I rematori indifferenti mi aspettavano, trattenendo la zattera col raffio. Ripresi posto in barca. La zattera scese galleggiando per il fiume. A lungo la forca nereggiò nelle tenebre. Infine si dileguò, e la mia barca approdò all'alta e scoscesa riva.

Pagai generosamente i rematori. Uno di loro mi portò dal capo del villaggio che si trovava presso il traghetto. Entrai con lui nell'isba. Il capo, sentito che volevo dei cavalli, mi accolse abbastanza ruvidamente, ma la mia guida gli disse piano alcune parole, e la sua rudezza si convertì subito in sollecita premura.

In un momento fu pronta una troika. Montai sul veicolo e ordinai di portarmi alla nostra campagna.

Galoppavo per lo stradone davanti ai villaggi addormentati. Temevo una sola cosa: di essere fermato per la strada. Se il mio notturno incontro sul Volga dimostrava la presenza di ribelli, era prova altresì di una vigorosa reazione del governo. Per ogni buon fine avevo in tasca il salvacondotto rilasciatomi da Pugaciòv, e un ordine del colonnello Zurin. Ma non incontrai nessuno, e verso la mattina scorsi da lontano il fiume e il boschetto d'abeti, dietro cui si trovava la nostra campagna. Il vetturale sferzò i cavalli, e dopo un quarto d'ora entrai a .... La casa padronale si trovava all'altra estremità del villaggio. I cavalli andavano di carriera.

A un tratto in mezzo alla via il postiglione cominciò a trattenerli.

- Che c'è? - domandai con impazienza.

- La barriera, padrone, - rispose il postiglione, arrestando a fatica i corsieri infuriati.

Infatti vidi un cavallo di frisia e una sentinella col randello.

Il contadino mi si accostò e si tolse il berretto chiedendo il passaporto.

- Che significa ciò? - gli domandai, - perché c'é il cavallo di frisia? Per chi stai in vedetta?

- Ma noi, "bàtiuska", siamo in rivolta, - rispose, grattandosi.

- E dove sono i vostri signori? - domandai con lo sgomento in cuore.

- I signori nostri dove sono? - ripeté il contadino: - i signori nostri sono nel granaio.

- Come nel granaio?

- Ma Andriuska lo scrivano li ha messi ai ceppi, vedi, e vuole portarli dal babbino nostro sovrano!

- Dio mio! Togli via, gonzo, il cavallo di frisia. Che hai da sbadigliare?

La sentinella indugiava. Saltai giù dal carro, gli sferrai un colpo (chiedo venia) all'orecchio e scostai io stesso il ferro spinato. Il mio contadino mi guardava con balorda perplessità.

Risalii sul carro e ordinai di galoppare alla casa padronale. Il granaio si trovava in cortile. Vicino alla porta chiusa stavano due contadini con i randelli. Il carro si fermò proprio davanti ad essi. Balzai giù e mi gettai difilato sui due.

- Aprite la porta! - dissi loro.

Probabilmente il mio aspetto era terribile, tanto che entrambi scapparono, gettando i bastoni. Cercai di far saltare la serratura, di sfondare la porta; ma la porta era di quercia, e l'enorme serratura infrangibile. In quel momento un contadino uscì dall'isba della servitù e mi domandò con aria arrogante come osassi fare tanto chiasso.

- Dov'è lo scrivano Andriuska? - gli gridai, - chiamalo qui da me!

- Sono io stesso Andréj Afanàsievic', e non Andriuska, - mi rispose, mettendo le mani orgogliosamente sui fianchi, - che volete?

Per tutta risposta lo afferrai per il bavero e, trascinatolo alla porta del granaio, gli ingiunsi di aprirla. Lo scrivano voleva ostinarsi, ma la paterna correzione aveva operato anche su lui.

Tirò fuori la chiave e apri il granaio. Varcai di slancio la soglia, e in un angolo buio, debolmente rischiarato da uno stretto buco del soffitto, vidi la mamma e il babbo. Le loro mani erano legate, ai piedi erano infilati i ceppi. Mi gettai ad abbracciarli e non riuscii a pronunciare nemmeno una parola. Tutti e due mi guardarono con stupore: tre anni di vita militare mi avevano talmente cambiato, che non potevano riconoscermi.

A un tratto sentii una cara, nota voce.

- Piotr Andreic', siete voi?

Mi girai e vidi in un altro angolo Maria Ivànovna, pure legata.

Impietrii. Mio padre mi guardava in silenzio, non osando credere a se stesso. La gioia brillava sul suo viso.

- Buon giorno, buon giorno, Petruscia! - diceva, stringendomi al cuore, - grazie a Dio, ti vediamo arrivare!

La mamma si mise a gemere e poi scoppiò a piangere.

- Petruscia, amico mio! - diceva la mamma. - Come ti ha portato il Signore? Stai bene?

Mi affrettai a recidere con la sciabola i nodi delle loro corde e a portarli fuori di prigione; ma, avvicinandomi alla porta, la ritrovai chiusa.

- Andriuska! - gridai, - apri!

- Ma ti pare! - rispose da dietro la porta lo scrivano; stattene un po' lì anche tu! Ti insegneremo noi a fare il chiassone e a trascinare per il collo i funzionari del sovrano!

Mi diedi a esaminare il granaio, cercando se non vi fosse qualche mezzo per uscirne fuori.

- Non stare a penare, - mi disse il babbo, - non sono un tal padrone che si possa entrare nei miei granai e uscirne da buchi buoni per i ladri.

La mamma, per un attimo felice della mia comparsa, ripiombò nella disperazione, vedendo che era toccato anche a me di condividere la rovina di tutta la famiglia. Ma io ero più tranquillo da quando mi trovavo con loro e con Maria Ivànovna. Avevo con me la sciabola e due pistole: potevo ancora sostenere un assedio. Zurin doveva arrivare verso sera e liberarci. Comunicai tutto ciò ai miei genitori e riuscii a tranquillizzare la mamma e Maria Ivànovna.

Esse si abbandonarono completamente alla gioia dell'incontro, e alcune ore passarono per noi inavvertite in vicendevoli carezze e ininterrotti discorsi.

- Be', Piotr, - mi disse mio padre, - ne hai fatte parecchie delle tue e io ce l'avevo ben bene con te. Ma è inutile parlare di cose vecchie. Spero che adesso ti sarai emendato e avrai fatto senno.

So che hai servito come è dovere di un ufficiale d'onore. Grazie, hai consolato questo vecchio. Se dovrò a te la liberazione, la vita mi sarà doppiamente grata.

Io in lacrime baciavo la sua mano e guardavo Maria Ivànovna, così allietata dalla mia presenza da sembrare del tutto felice e tranquilla.

Verso mezzogiorno sentimmo uno strepito insolito e delle grida.

- Che vuol dire ciò? - disse il padre, - non sarà arrivato il tuo colonnello?

- E' impossibile, - risposi, - non sarà qui prima di sera.

Il frastuono cresceva. Suonavano l'allarme. Per il cortile galoppava gente a cavallo. In quell'istante in uno stretto vano aperto nel muro si insinuò la testa canuta di Savelic', e il mio povero precettore disse con voce querula:

- Andréj Petrovic'! "Bàtiuska" mio, Piotr Andreic'! Maria Ivànovna! Sciagura! Gli scellerati sono entrati nel villaggio. E sai, Piotr Andreic', chi li ha guidati? Svabrin, Alekséj Ivanic', lo colga il Demonio!

Sentendo il nome odiato, Maria Ivànovna batté le palme e rimase immobile.

- Ascolta! - dissi a Savelic', - manda qualcuno a cavallo al traghetto, incontro al reggimento di ussari, e ordina di far sapere al colonnello il nostro pericolo.

- E chi mandare, signore? Tutti i monelli si rivoltano e i cavalli sono tutti presi. Ohimè! Eccoli già lì fuori! Stanno per giungere al granaio.

In quel momento di là dalla porta risonarono alcune voci. Feci segno alla mamma e a Maria Ivànovna di ritirarsi in un angolo, sguainai la spada e mi appoggiai al muro proprio vicino alla porta. Il babbo prese le pistole, le armò tutt'e due e si mise accanto a me. Stridette la serratura, la porta si aprì, e comparve la testa dello scrivano. La colpii con la sciabola, e egli cadde, sbarrando l'ingresso. Nello stesso momento il babbo sparò un colpo nel vano della porta. La folla che ci assediava scappò via con imprecazioni. Trascinai attraverso la soglia il ferito e richiusi.

Il cortile era pieno di uomini armati. Tra essi riconobbi Svabrin.

- Non abbiate paura, - dissi alle donne, - c'è speranza. E voi, babbo, non sparate più. Teniamo in serbo l'ultima carica.

La mamma in silenzio pregava Dio. Maria Ivànovna stava accanto a lei, aspettando con angelica serenità la decisione della sua sorte. Di là dalla porta risonavano minacce, ingiurie e maledizioni. Io stavo al mio posto, pronto a sciabolare il primo audace. D'un tratto gli scellerati tacquero. Sentii la voce di Svabrin, che mi chiamava per nome.

- Sono qui. Che vuoi?

- Arrenditi, Griniòv: resistere è impossibile. Abbi pietà dei tuoi vecchi. Con l'ostinazione non ti salverai. Vi prenderò!

- Prova, traditore!

- Non mi ci caccerò io stesso per niente, né starò a sprecare i miei uomini, ma ordino di dar fuoco al granaio, e allora vedremo che farai, don Chisciotte di Bielogòrsk. Adesso è ora di mangiare.

Intanto stai lì a pensare a tuo agio. Arrivederci! Maria Ivànovna, non mi scuso con voi: probabilmente non vi annoierete al buio col vostro cavaliere.

Svabrin si allontanò, lasciando una guardia vicino al granaio. Noi tacevamo. Ciascuno di noi meditava tra sé, senza osare comunicare agli altri i suoi pensieri. Io andavo immaginando tutto quello che era in grado di fare l'inasprito Svabrin. Di me quasi non mi davo pensiero. Devo confessarlo? Anche la sorte dei miei genitori non mi sgomentava tanto quanto il destino di Maria Ivànovna. Sapevo che la mamma era adorata dai contadini e dalla servitù. Il babbo, nonostante la sua severità, era egli pure amato, perché era giusto e conosceva i veri bisogni della gente a lui soggetta. La loro ribellione era uno smarrimento, un'ubriacatura momentanea, e non un attestato della loro indignazione. Qui una remissione era probabile. Ma Maria Ivànovna? Quale sorte le preparava quell'uomo senza coscienza e depravato? Non osavo soffermarmi su quest'orrendo pensiero e mi preparavo (Signore, perdonami) a darle la morte, piuttosto di vederla ancora nelle mani del crudele nemico.

Passò un'altra oretta. Nel villaggio risuonavano i canti degli ubriachi. Le nostre sentinelle li invidiavano e, stizzite contro di noi, bestemmiavano minacciando tortura e morte. Noi aspettavamo un seguito alle intimidazioni di Svabrin. Infine ci fu nel cortile un gran movimento, e di nuovo sentimmo la voce di Svabrin.

- Be', vi siete decisi? Vi arrendete spontaneamente nelle mie mani?

Nessuno rispose.

Dopo aver aspettato un po', Svabrin ordinò di portare delle stoppie. Di lì a qualche minuto divampò un fuoco che rischiarò l'oscuro granaio. Il fumo cominciò a penetrare di sotto alle fessure della soglia.

Allora Maria Ivànovna si accostò a me e piano, prendendomi una mano, disse:

- Basta, Piotr Andreic'! Non rovinate, per me, e voi e i genitori.

Svabrin mi ascolterà. Lasciatemi uscire!

- A nessun costo! - gridai in collera, - sapete quello che vi aspetta?

- All'infamia non sopravviverò, - rispose, calma, - ma forse salverò il mio liberatore e la famiglia che ha così generosamente assistito me, povera orfana. Addio, Andréj Petrovic'! Addio, Avdotia Vassìlievna! Foste per me più che benefattori. Beneditemi.

Addio anche a voi, Piotr Andreic'. Siate certo che... che.... - Qui ella scoppiò in pianto e si coprì il viso con le mani... Io ero come pazzo. La mamma piangeva.

- Smetti di parlare a vanvera, Maria Ivànovna, - disse mio padre, - chi ti lascerà andare da sola da quei banditi? Stai qui e zitta.

Se si deve morire, si muoia insieme. Ascolta! Che cosa dicono ancora là fuori?

- Vi arrendete? - gridava Svabrin, - lo vedete, fra cinque minuti vi avranno arrostiti.

- Non ci arrenderemo, scellerato! - gli rispose il babbo con voce ferma.

Il suo viso ardito, coperto di rughe, si era mirabilmente animato.

Gli occhi sfavillavano di sotto alle canute sopracciglia.

Rivolgendosi a me, disse: - E' l'ora!

Egli aprì la porta. Il fuoco irruppe e salì su per le travi, ristoppate di muschio secco. Il babbo sparò, varcò la soglia in fiamme e gridò: - Seguitemi! - Io presi per mano la mamma e Maria Ivànovna e prontamente le trassi fuori all'aria. Vicino alla soglia giaceva Svabrin, colpito dalla debole mano di mio padre. La folla dei briganti, scappata all'inattesa nostra sortita, subito si rinfrancò e cominciò ad accerchiarci. Feci in tempo a vibrare ancora qualche colpo; ma un mattone, scagliato con fortuna, mi colse in pieno petto. Caddi e per un momento perdetti i sensi; mi circondarono e disarmarono. Riavutomi, vidi Svabrin seduto sull'erba insanguinata, e davanti a lui la nostra famiglia.

Mi sorreggevano per le ascelle. Una calca di contadini, cosacchi e baschiri ci attorniava. Svabrin era terribilmente pallido. Con una mano si premeva il fianco ferito. Il suo viso esprimeva spasimo e rancore. Alzò lentamente la testa, mi guardò e pronunciò con voce debole e indistinta:

- Impiccare lui... e tutti... fuorché lei...

La folla subito ci fu intorno e ci trascinò verso il portone. Ma di botto ci lasciarono disperdendosi; dal portone era entrato Zurin e dietro a lui tutto uno squadrone con le sciabole sguainate.

I ribelli fuggivano da tutte le parti. Gli ussari li inseguivano, li sciabolavano e li prendevano prigionieri. Zurin balzò da cavallo, si inchinò al babbo e alla mamma e mi strinse forte la mano.

- Sono arrivato in tempo! - ci disse: - Ah! ecco anche la tua fidanzata!

Maria Ivànovna arrossì fino agli orecchi. Il babbo si accostò a lui e lo ringraziò con aspetto sereno, anche se commosso. La mamma lo abbracciò, chiamandolo angelo liberatore.

- Favorite da noi, - gli disse il babbo e lo guidò in casa nostra.

Passando accanto a Svabrin, Zurin si fermò.

- Chi è? - domandò, guardando il ferito.

- E' lo stesso capo della banda, - rispose mio padre con un certo orgoglio, che rivelava il vecchio soldato: - Dio ha aiutato la mia mano senile a punire il giovane scellerato e a vendicare su di lui il sangue di mio figlio.

- E' Svabrin, - dissi a Zurin.

- Svabrin! Molto lieto. Ussari, prendetelo! E dite al dottore che gli fasci la ferita e lo tenga come la pupilla degli occhi.

Svabrin bisogna assolutamente presentarlo alla commissione segreta di Kasàn. E' uno dei colpevoli principali, e le sue dichiarazioni devono essere importanti...

Svabrin scoprì un occhio languente. Sul suo viso nulla si dipinse, tranne il dolore fisico. Gli ussari lo portarono via su un mantello.

Entrammo nelle stanze. Con emozione guardavo intorno a me, ricordando gli anni della mia infanzia. Nulla in casa era cambiato, tutto era al posto di prima: Svabrin non aveva permesso di saccheggiarla, conservando nel suo stesso avvilimento un'involontaria avversione per la disonesta cupidigia.

I servi comparvero in anticamera. Essi non avevano partecipato alla rivolta e di vero cuore si allietavano della nostra liberazione. Savelic' era trionfante. Bisogna sapere che, durante il tumulto prodotto dall'assalto dei banditi, egli era corso nella scuderia, dove stava il cavallo di Svabrin, lo aveva sellato, condotto fuori pian piano e, in grazia del trambusto, inosservato era corso di carriera al traghetto. Aveva incontrato il reggimento, che già riposava di qua dal Volga. Zurin, appreso da lui il nostro pericolo, aveva ordinato di montare in sella, comandato: "Avanti al galoppo!", e, grazie a Dio, era giunto in tempo.

Zurin insisté perché la testa dello scrivano fosse per qualche ora esposta su un'asta vicino all'osteria.

Gli ussari tornarono dall'inseguimento, dopo aver fatto alcuni prigionieri. Li chiusero in quello stesso granaio in cui avevamo sostenuto il memorabile assedio. Ci ritirammo ciascuno in camera sua. I vecchi avevano bisogno di riposo. Non avendo dormito l'intera notte mi gettai sul letto e mi addormentai profondamente.

Zurin andò a dare le sue disposizioni.

A sera ci riunimmo in salotto attorno al samovàr, discorrendo gaiamente del passato pericolo. Maria Ivànovna versava il tè. Io le sedevo accanto e mi occupavo di lei esclusivamente. I miei genitori parevano considerare con benevolenza la tenerezza delle nostre relazioni. Tuttora quella serata vive nel mio ricordo. Ero felice, perfettamente felice; ma ce ne sono di tali momenti nella povera vita umana?

Il giorno dopo riferirono al babbo che i contadini si erano presentati nel cortile padronale per fare ammenda. Il babbo uscì loro incontro sul terrazzino. Al suo comparire i contadini si misero in ginocchio.

- Be', che è, sciocconi? - egli disse loro, - perché vi è saltato in mente di ribellarvi?

- Abbiamo mancato, perdonaci; signor nostro, - risposero a una voce.

- Già già, mancato! Fanno le marachelle, e poi ne sono loro stessi scontenti! Vi perdono per la gioia che Dio mi ha concesso di rivedere il mio figlio Piotr Andréjevic'. Be', va bene: peccato confessato è mezzo perdonato.

- Abbiamo mancato, certo, abbiamo mancato!

- Dio ci ha mandato il bel tempo. Era il momento di riporre il fieno, e voi, balordi, che avete fatto in tre giornate sane?

"Stàrosta"! Metterli tutti quanti alla falciatura; e bada, briccone dal pelo rosso, che per il giorno di Sant'Ivàn il fieno mi sia abbarcato! Andatevene!

La ferita di Svabrin non era mortale. Lo inviarono sotto scorta a Kasàn. Vidi dalla finestra come lo adagiarono sul carro. I nostri sguardi si incontrarono. Egli chinò la testa, e io mi scostai in fretta dalla finestra: temevo di avere l'aria di trionfare dell'umiliazione e della disgrazia di un nemico.

Zurin doveva proseguire oltre. Decisi di seguirlo, nonostante il mio desiderio di passare ancora qualche giorno in mezzo alla mia famiglia. Alla vigilia della marcia mi presentai ai miei genitori e, secondo l'uso di allora, mi inchinai loro fino a terra chiedendone la benedizione al matrimonio con Maria Ivànovna. I vecchi mi alzarono e con lacrime di gioia mi diedero il consenso.

Portai loro Maria Ivànovna, pallida e trepidante. Ci benedissero.

Quel che sentivo, non starò a descrivere. Chi è stato nella mia condizione mi capirà anche così. Chi non c'è stato, non posso che compiangerlo e consigliargli, finché non sia passato il tempo, di innamorarsi e ricevere dai genitori la benedizione.

Il giorno dopo il reggimento si radunò. Zurin si accomiatò dalla nostra famiglia. Tutti eravamo certi che le operazioni militari presto sarebbero terminate. Entro un mese speravo di essere sposo.

Maria Ivànovna, salutandomi, mi baciò in presenza di tutti. Salii sul carro coperto. Savelic' mi segui di prontamente, e il reggimento partì. A lungo guardai da lontano la casa campestre, da me nuovamente lasciata. Un cupo presentimento mi sbigottiva.

Qualcuno mi sussurrava che non tutti i guai erano passati. Il cuore presagiva una nuova tempesta.

Non starò a descrivere la nostra campagna e la fine della guerra di Pugaciòv. Attraversavamo i villaggi distrutti da Pugaciòv e eravamo costretti a togliere ai miseri abitanti quello che era stato lasciato loro dai banditi.

Essi non sapevano a chi sottomettersi. L'amministrazione era dappertutto interrotta. I proprietari si rifugiavano nei boschi.

Le bande dei briganti commettevano scelleratezze per ogni dove. I capi dei distaccamenti isolati spediti all'inseguimento di Pugaciòv, allora già in fuga verso Astrachan, punivano dispoticamente colpevoli e innocenti. Lo stato di tutta la contrada dove infuriava l'incendio era terribile. Dio guardi dal vedere una sommossa russa, stupida e spietata. Coloro che meditano da noi impossibili rivolgimenti o sono giovani e non conoscono il nostro popolo, o sono gente crudele, per cui poco vale la propria pelle, e ancora meno l'altrui.

Pugaciòv fuggiva, inseguito da Ivàn Ivànovic' Mìchelson. Presto sapemmo della sua piena disfatta. Infine Zurin ebbe notizia della cattura dell'impostore, e con quella anche l'ordine di fermarsi.

Finalmente mi era possibile andare dai miei genitori! Il pensiero di abbracciarli, di vedere Maria Ivànovna, di cui non avevo alcuna notizia, mi animava d'entusiasmo. Saltavo come un bambino. Zurin rideva e diceva alzando le spalle: - No! finirai male! Ti sposerai... e per nulla ti rovinerai!

Ma intanto uno strano sentimento avvelenava la mia gioia: il pensiero del malfattore, spruzzato del sangue di tante vittime innocenti, e del supplizio che lo attendeva, involontariamente mi sbigottiva: "Jemelià, Jemelià!", pensavo con stizza, "perché non ti gettasti contro una baionetta o non cadesti sotto la mitraglia?

Non avresti potuto pensare nulla di meglio". Che ci volete fare?

Il pensiero di lui era in me inseparabile dal pensiero della grazia fattami in uno degli orribili momenti della sua vita, e della liberazione della mia fidanzata dalle mani dell'abominevole Svabrin.

Zurin mi diede un permesso. Di lì a qualche giorno dovevo ritrovarmi in mezzo alla mia famiglia, rivedere la mia Maria Ivànovna. D'un tratto un'inaspettata tempesta mi atterrò.

Il giorno fissato per la partenza, nel momento stesso che mi disponevo a mettermi in viaggio, Zurin entrò nell'isba da me, tenendo in mano una carta, con aria straordinariamente impensierita. Qualcosa mi punse in cuore. Mi spaventai, senza sapere io stesso di che. Egli mandò fuori il mio attendente e dichiarò che aveva bisogno di parlarmi.

- Che c'è? - domandai con inquietudine.

- Una piccola noia, - rispose, porgendomi la carta, - leggi quello che ho ricevuto or ora.

Mi misi a leggerla: era un ordine segreto a tutti i comandanti isolati di arrestarmi, ovunque fossi venuto loro sotto mano, e di inviarmi immediatamente sotto scorta a Kasàn, alla commissione d'inchiesta, istituita per l'affare Pugaciòv.

La carta. per poco non mi cadde dalle mani.

- Non c'è niente da fare! - disse Zurin, - il mio dovere è d'ottemperare all'ordine. Probabilmente, la voce dei tuoi amichevoli viaggi con Pugaciòv in qualche modo è giunta fino al governo. Spero che la cosa non avrà alcuna conseguenza e che ti giustificherai davanti alla commissione. Non lasciarti abbattere e parti.

La mia coscienza era netta; non avevo paura di un giudizio; ma il pensiero di rinviare l'istante del dolce incontro, forse ancora di qualche mese, mi sgomentava. La carretta era pronta. Zurin mi salutò amichevolmente. Mi fecero salire sulla carretta. Con me sedettero due ussari con le sciabole sguainate, e mi avviai per lo stradone.

 

 

 

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

 

IL GIUDIZIO

Voci mondane - onda di mare.

PROVERBIO.

Ero convinto che causa di tutto era la mia arbitraria assenza da Orenbùrg. Potevo facilmente giustificarmi: le scorrerie non solo non erano mai state vietate, ma anzi erano incoraggiate con tutte le forze. Potevo essere accusato di soverchia foga, e non d'insubordinazione. Ma i miei amichevoli contatti con Pugaciòv potevano essere provati da una quantità di testimoni e dovevano sembrare per lo meno assai sospetti. Per tutta la strada pensai agli interrogatori che mi aspettavano, meditai le mie risposte e decisi di dichiarare davanti alla corte la pura verità, giudicando questo modo di giustificazione il più semplice, e insieme anche il più sicuro.

Arrivai a Kasàn, devastata e incendiata. Per le vie, al posto delle case, giacevano mucchi di carboni e sporgevano mura annerite senza tetti e finestre. Tale era la traccia lasciata da Pugaciòv!

Mi portarono nella fortezza, rimasta intatta in mezzo alla città bruciata. Gli ussari mi consegnarono all'ufficiale di guardia.

Egli ordinò di chiamare il fabbro. Mi posero ai piedi la catena e la ribadirono saldamente. Poi mi condussero in prigione e mi lasciarono solo in una stretta e buia topaia con le sole nude pareti e un finestrino chiuso da un'inferriata. Un simile principio non mi presagiva nulla di buono. Tuttavia non mi perdetti né di coraggio né di speranza. Ricorsi al conforto di tutti gli afflitti e, gustata prima la dolcezza di una preghiera sgorgata da un cuore puro, ma straziato, mi addormentai placidamente, senza darmi pensiero di quello che mi sarebbe accaduto.

Il giorno dopo un secondino mi svegliò con l'annuncio che mi si voleva alla commissione. Due soldati mi condussero attraverso il cortile nella casa del comandante, si fermarono in anticamera e mi lasciarono entrare solo nelle stanze interne.

Entrai in una sala abbastanza ampia. A una tavola, coperta di carte, sedevano due uomini: un generale attempato, dall'aria severa e fredda, e un giovane capitano della guardia, sui ventott'anni, di assai piacevole aspetto, dal tratto sciolto e franco. Presso una finestra, a una tavola separata, era seduto un segretario con la penna all'orecchio, chino su una carta, pronto a registrare le mie dichiarazioni. Cominciò l'interrogatorio. Mi domandarono nome e condizione. Il generale si informò se non fossi figlio di Andréj Petrovic' Griniòv. E alla mia risposta replicò duramente:

- Peccato che un uomo così rispettabile abbia un figlio così indegno!

Risposi tranquillamente che, quali che fossero le accuse gravanti su me, speravo di dissiparle con una franca spiegazione della verità. La mia sicurezza non gli piacque.

- Tu, fratello, sei fino, - mi disse, accigliandosi, - ma ne abbiamo visti ben altri!

Allora il giovanotto mi domandò in quale occasione e in che momento fossi entrato al servizio di Pugaciòv, e per quali missioni fossi stato da lui impiegato.

Risposi con indignazione che io, come ufficiale e nobile, non potevo aver assunto servizio da Pugaciòv, né aver accettato da lui alcuna missione.

- In che modo, - ribatté il mio interrogatore, - un solo nobile e ufficiale fu graziato dall'impostore, mentre tutti i suoi compagni furono scelleratamente uccisi? In che modo questo stesso ufficiale e nobile banchetta amichevolmente coi ribelli, accetta dal malfattore capo regali, una pelliccia, un cavallo e mezzo rublo di spiccioli? Da che nacque una così strana amicizia, e su che cosa è fondata, se non sul tradimento o, quanto meno, su una indegna e colpevole pusillanimità?

Fui profondamente offeso dalle parole dell'ufficiale della guardia e con ardore cominciai la mia discolpa. Raccontai com'era cominciata la mia conoscenza con Pugaciòv nella steppa, durante la tempesta di neve, come alla presa della fortezza di Bielogòrsk egli mi avesse riconosciuto e fatto grazia. Dissi che il pellicciotto e il cavallo, è vero, non mi ero fatto scrupolo di accettarli dall'impostore; ma che la fortezza di Bielogòrsk l'avevo difesa contro lo scellerato fino all'ultimo. Infine mi riferii anche al mio generale, che poteva attestare il mio zelo durante il disastroso assedio di Orenbùrg.

Il severo vecchio prese dalla tavola una lettera aperta e si mise a leggerla ad alta voce:

"Alla richiesta di vostra eccellenza circa l'alfiere Griniòv, in quanto implicato nei torbidi odierni e entrato con lo scellerato in relazioni non consentite dal servizio e contrarie al dovere del giuramento, mi onoro chiarire: esso alfiere Griniòv si trova in servizio a Orenbùrg dal principio dell'ottobre 1773 al 24 febbraio del corrente anno, nella quale data si assentò dalla città, e da allora più non si presentò al mio comando. E si sente dire da disertori che egli fu nel sobborgo da Pugaciòv e con lui si recò alla fortezza di Bielogòrsk, nella quale prima faceva servizio; per quanto riguarda la sua condotta, posso...".

Qui egli interruppe la sua lettura e mi disse ruvidamente:

- Che dirai ora a tua discolpa?

Volli continuare come avevo cominciato, e spiegare il mio legame con Maria Ivànovna sinceramente come tutto il resto, ma di un tratto sentii un'invincibile ripugnanza. Mi venne in mente che, se l'avessi nominata, la commissione l'avrebbe chiamata a rispondere, e il pensiero di mescolare il suo nome alle ignobili denunce degli scellerati e di portarla a un confronto con loro, questo pensiero mi costernò talmente che esitai e infine mi confusi.

I miei giudici, che cominciavano, pareva, ad ascoltare le mie risposte con una certa benevolenza, furono nuovamente prevenuti contro di me alla vista del mio imbarazzo. L'ufficiale della guardia chiese che mi si mettesse a confronto col denunciatore principale. Il generale ordinò di chiamare lo scellerato del giorno prima. Con vivacità mi voltai verso la porta, aspettando la comparsa del mio accusatore. Dopo qualche minuto risonarono delle catene, la porta si aprì, e entrò Svabrin. Fui sbalordito dal suo cambiamento. Era terribilmente magro e smorto. I suoi capelli, prima neri come la pece, erano del tutto incanutiti; la lunga barba era arruffata. Egli ripeté le sue accuse con voce debole, ma risoluta. A suo dire, io ero stato inviato da Pugaciòv a Orenbùrg quale spia; ogni giorno uscivo a fare a fucilate al fine di trasmettere notizie scritte su tutto ciò che si faceva in città; che infine mi ero dato palesemente all'impostore, me ne ero andato con lui di fortezza in fortezza, cercando in tutti i modi di rovinare i suoi compagni di tradimento, per occuparne i posti e godere le ricompense distribuite dall'impostore. Lo ascoltai in silenzio e fui contento di una sola cosa: il nome di Maria Ivànovna non fu pronunciato dall'infame scellerato, forse perché il suo amor proprio soffriva al pensiero di colei che lo aveva respinto con disprezzo; forse perché nel suo cuore si celava una scintilla di quello stesso sentimento che costringeva anche me a tacere. Comunque fosse, il nome della figlia del comandante di Bielogòrsk non fu pronunciato in presenza della commissione. Mi rafforzai ancora di più nel mio proposito, e quando i giudici domandarono "come potessi confutare la deposizione di Svabrin", risposi che mi tenevo alla mia prima spiegazione e che non potevo dire null'altro a mia discolpa. Il generale ordinò di condurci fuori. Uscimmo insieme. Io guardai tranquillamente Svabrin, ma non gli dissi una parola. Egli sorrise di un sorriso cattivo e, sollevando le sue catene, mi precedette e affrettò il passo. Mi ricondussero in prigione e da allora non mi chiamarono più all'interrogatorio.

Non fui testimonio di tutto quello che mi resta da rendere noto al lettore; ma ne sentii così spesso i racconti che i minimi particolari si scolpirono nella mia memoria, e mi sembra di avervi assistito, invisibile.

La voce del mio arresto costernò tutta la mia famiglia. Maria Ivànovna aveva raccontato così semplicemente ai miei genitori la mia strana conoscenza con Pugaciòv, che lei non solo non li aveva messi in apprensione, ma li aveva anche fatti ridere spesso di gran cuore. Il babbo non voleva credere che io potessi essere invischiato nell'odiosa rivolta, scopo della quale era il rovesciamento del trono e lo sterminio dei nobili. Interrogò severamente Savelic'. Il precettore non nascose che il padrone aveva fatto visite a Jemelka Pugaciòv, e che lo scellerato aveva una certa benevolenza per lui; ma giurava di non aver sentito parlare di nessun tradimento. I vecchi si tranquillizzarono e con impazienza presero ad aspettare notizie favorevoli. Maria Ivànovna era fortemente sbigottita, ma taceva, perché dotata in sommo grado di modestia e prudenza.

Passò qualche settimana... A un tratto il babbo riceve da Pietroburgo una lettera del nostro parente, il principe B. Il principe gli scriveva di me. Dopo il consueto esordio, gli annunciava che i sospetti circa la mia partecipazione ai disegni dei ribelli erano malauguratamente apparsi troppo fondati, che avrebbe dovuto colpirmi un castigo esemplare, ma che la sovrana, in considerazione dei servigi e dei tardi anni del padre, si era risoluta a graziare il figlio e, risparmiandogli una pena infamante, aveva ordinato solo di inviarlo in una lontana contrada della Sìberia in perpetuo esilio.

Questo colpo inaspettato per poco non uccise mio padre. Egli perdette la sua abituale fermezza, e il suo dolore (di solito muto) si esalava in amare doglianze.

- Come! - ripeteva, fuori di sé, - mio figlio ha preso parte ai progetti di Pugaciòv! Giusto Iddio, che m'è toccato vedere! La sovrana gli risparmia il supplizio! Che forse ne traggo sollievo?

Non il supplizio atterrisce: il mio quadrisavolo morì sul patibolo, difendendo quel che lui riteneva la santità della coscienza; mio padre soffrì insieme con Volinski e Chrusciòv. Ma un nobile tradire il proprio giuramento, unirsi ai banditi, agli assassini, a servi fuggiaschi! Onta e vituperio alla nostra stirpe!...

Spaventata dalla sua disperazione, la mamma non osava piangere in sua presenza, e si sforzava di ridargli coraggio, parlando di falsità delle voci, d'instabilità dell'opinione umana. Mio padre era inconsolabile.

Maria Ivànovna si tormentava più di tutti. Convinta che avrei potuto scagionarmi solo che l'avessi voluto, indovinava la verità e si riteneva colpevole della mia sventura. Ella nascondeva a tutti le sue lacrime e sofferenze e intanto pensava senza posa ai mezzi per salvarmi.

Una sera il babbo sedeva sul divano sfogliando il "Calendario di Corte", ma i suoi pensieri erano lontani, e la lettura non produceva su lui il consueto effetto. Fischiettava una vecchia marcia. La mamma in silenzio faceva un panciotto di lana, e lacrime ogni tanto cadevano sul suo lavoro. A un tratto Maria Ivànovna, pure seduta lì a un lavoro, dichiarò che un'assoluta necessità la costringeva a recarsi a Pietroburgo, e che pregava di darle il mezzo di andarvi. La mamma ne fu afflitta.

- Perché devi andare a Pietroburgo? - disse, - possibile, Maria Ivànovna, che anche tu voglia abbandonarci?

Maria Ivànovna rispose che tutto il suo futuro dipendeva da quel viaggio, e che andava a cercare protezione e aiuto dai potenti, come figlia di un uomo che aveva patito per la sua fedeltà.

Mio padre chinò la testa: ogni parola che ricordasse il preteso delitto del figlio gli riusciva penosa e gli sembrava un pungente rimprovero.

- Va', "màtuska", - le disse con un sospiro, - non vogliamo frapporre ostacoli alla tua felicità. Ti conceda Iddio per fidanzato un brav'uomo, non un infame traditore.

Egli si alzò e uscì dalla stanza.

Maria Ivànovna, rimasta a quattr'occhi con la mamma, le spiegò in parte i suoi progetti. La mamma in lacrime l'abbracciò e pregò Dio per un felice esito del progettato disegno. Maria Ivànovna fu provvista del necessario e dopo qualche giorno si mise in viaggio con la fedele Palaska e col fedele Savelic', il quale, separato a forza da me, si consolava almeno col pensiero che serviva la mia promessa sposa.

Maria Ivànovna giunse felicemente a Sofia e, saputo che la corte si trovava in quel momento a Tsàrskoie Selò, decise di rimanere lì. Le assegnarono un angolino dietro un tramezzo. La moglie del mastro di posta attaccò subito discorso con lei, dichiarò che era la nipote del fochista di corte, e la iniziò a tutti i misteri della vita di palazzo. Raccontò a che ora di solito la sovrana si svegliava, prendeva il caffè, faceva la passeggiata; quali gran signori si trovassero in quel momento alla sua presenza; quello che il giorno prima si era degnata di dire alla sua mensa; chi riceveva la sera. In una parola, la conversazione di Anna Vlàssievna valeva alcune pagine di memorie storiche, e sarebbe stata preziosa per la posterità. Maria Ivànovna l'ascoltava con attenzione. Andarono in giardino. Anna Vlàssievna raccontò la storia di ciascun viale e di ciascun ponticello e, dopo aver passeggiato a piacer loro, tornarono alla stazione, soddisfattissime l'una dell'altra.

Il giorno dopo di buon'ora Maria Ivànovna si svegliò, si vestì e zitta zitta andò in giardino. Era un bel mattino, il sole illuminava le cime dei tigli, ingialliti ormai sotto il fresco soffio dell'autunno. L'ampio lago brillava immobile. I cigni risvegliati uscivano gravi a nuoto da sotto i cespugli che ombreggiavano la riva. Maria Ivànovna camminò lungo il magnifico prato, dove da poco era stato eretto un monumento in onore delle recenti vittorie del conte Piotr Aleksàndrovic' Rumiantsev. A un tratto una cagnetta bianca di razza inglese abbaiò e le corse incontro. Maria Ivànovna si spaventò e si fermò. Nello stesso istante risuonò una piacevole voce di donna:

- Non abbiate timore, non morde.

E Maria Ivànovna vide una signora, seduta su una panchina di fronte al monumento. Maria Ivànovna sedette all'altra estremità della panchina. La signora la fissava attentamente; e Maria Ivànovna, dal canto suo, gettando qualche occhiata di fianco, riuscì a esaminarla da capo a piedi. Era in un vestito bianco da mattina, cuffia da notte e mantelletta foderata di pelliccia.

Dimostrava una quarantina d'anni. Il suo viso, pieno e colorito, esprimeva gravità e calma, e gli occhi azzurri e il leggero sorriso avevano un incanto indefinibile. La signora per prima ruppe il silenzio.

- Voi, certo, non siete di qui? - disse.

- Proprio così, signora: solo ieri sono arrivata di provincia.

- Siete venuta coi vostri parenti?

- Nossignora, sono venuta sola.

- Sola! Ma siete ancora così giovane...

- Non ho né padre né madre.

- Siete qui senza dubbio per qualche affare, no?

- Precisamente, signora. Sono venuta a porgere una supplica alla sovrana.

- Voi siete orfana: probabilmente reclamerete per un'ingiustizia o un torto?

- Nossignora. Sono venuta a chiedere grazia, e non giustizia.

- Permettete la domanda, chi siete?

- Sono la figlia del capitano Mironov.

- Del capitano Mironov! Di quello stesso che era comandante in una delle fortezze di Orenbùrg?

- Proprio così, signora.

La signora sembrava commossa.

- Scusatemi, - disse con voce ancora più carezzevole, - se m'immischio nelle cose vostre; ma io frequento la corte; spiegatemi in che consiste la vostra supplica, e forse riuscirò ad aiutarvi.

Maria Ivànovna si alzò e la ringraziò rispettosamente. Tutto nella signora sconosciuta conquistava il cuore e ispirava fiducia. Maria Ivànovna tirò fuori dalla tasca una carta piegata e la porse alla sua ignota protettrice, che si mise a leggerla tra sé.

In principio lesse con aria attenta e benevola; ma ad un tratto il suo viso cambiò, e Maria Ivànovna, che seguiva con gli occhi tutti i suoi movimenti, si spaventò dell'espressione severa di quel viso, un minuto prima tanto piacevole e calma.

- Voi intercedete per Griniòv? - disse la signora con modi freddi.

- L'imperatrice non può perdonarlo. Si è unito all'impostore non per ignoranza e credulità, ma come un furfante immorale e nocivo.

- Oh, non è vero! - gridò Maria Ivànovna.

- Come, non è vero! - ribatté la signora, avvampando tutta.

- Non è vero, davanti a Dio non è vero! Io so tutto e vi racconterò tutto. Per me sola si espose a tutto quello che l'ha colpito. E se non si discolpò in giudizio, fu solo perché non voleva implicare me.

Allora raccontò con foga tutto ciò che è già noto al lettore.

La signora l'aveva ascoltata con attenzione.

- Dove vi siete fermata? - domandò poi e, sentendo che era da Anna Vlàssievna, disse con un sorriso: - Ah! so. Addio, non parlate a nessuno del nostro incontro. Spero che non aspetterete a lungo risposta alla vostra lettera.

A queste parole si alzò e si ritirò per un viale coperto e Maria Ivànovna fece ritorno da Anna Vlàssievna, piena di gioiosa speranza.

La padrona di casa la sgridò per la sua mattutina passeggiata autunnale, dannosa, secondo lei, alla salute di una giovanetta.

Portò il samovàr, e, mentre bevevano il tè, stava appena per cominciare gli interminabili discorsi sulla corte, quando a un tratto una carrozza di corte si fermò davanti alla scaletta, e un valletto di camera entrò con l'annuncio che la sovrana si degnava di invitare presso di sé la signorina Mironov.

- Ohimè, Signore! - gridò, - la sovrana vi vuole a corte. Ma come ha fatto a sapere di voi? E come farete, "màtuska", a presentarvi all'imperatrice? Immagino che neppure saprete come si cammina a corte... Non farei bene a portarvi? In qualcosa posso pur sempre premunirvi. E come potete andare in vestito da viaggio? Non dovrei mandare dalla levatrice a prendere il suo vestito giallo?

Il valletto dichiarò che la sovrana gradiva che Maria Ivànovna andasse sola e vestita come si sarebbe trovata. Non c'era che fare: Maria Ivànovna salì in carrozza e si recò a palazzo, accompagnata dai consigli e dalle benedizioni di Anna Vlàssievna.

Maria Ivànovna presentiva la decisione della nostra sorte; il cuore le batteva forte e le mancava. Dopo qualche minuto la carrozza si fermò al palazzo. Maria Ivànovna con trepidazione salì la scala. Le porte si spalancavano davanti a lei. Attraversò una lunga fila di magnifiche stanze deserte: il valletto indicava la via.

Infine, avvicinatasi a una porta chiusa, dichiarò che l'avrebbe subito annunciata, e la lasciò sola.

Il pensiero di vedere l'imperatrice faccia a faccia l'intimoriva così tanto, che a stento poteva reggersi in piedi. Di lì a un attimo la porta si aprì, e lei entrò nello spogliatoio della sovrana.

L'imperatrice era seduta alla sua specchiera. Alcuni cortigiani la circondavano e rispettosamente fecero largo a Maria Ivànovna. La sovrana le si rivolse affabile, e Maria Ivànovna riconobbe in lei la signora con la quale così francamente si era spiegata pochi minuti prima. La sovrana la chiamò a sé e disse con un sorriso:

- Sono lieta di aver potuto mantenere la parola datavi e esaudire la vostra preghiera. La vostra vicenda è terminata. Sono convinta dell'innocenza del vostro fidanzato. Ecco una lettera che voi stessa vi incaricherete di portare al futuro suocero.

Maria Ivànovna ricevette la lettera con mano tremante e, piangendo, cadde ai piedi dell'imperatrice, che la rialzò e la baciò. La sovrana si mise a parlare con lei.

- So che non siete ricca, - disse, - ma io sono in debito con la figlia del capitano Mironov. Non impensieritevi per l'avvenire. Mi incarico io di fare la vostra fortuna.

Dopo aver riempito di carezze la povera orfana, la sovrana la congedò. Maria Ivànovna se ne andò in quella stessa carrozza di corte. Anna Vlàssievna, che impaziente aspettava il suo ritorno, la tempestò di domande, alle quali Maria Ivànovna rispose alla meglio. Anna Vlàssievna, sebbene scontenta dell'oblio di lei, lo attribuì a timidità provinciale e perdonò generosamente. Lo stesso giorno Maria Ivànovna, senza mostrare curiosità di dare uno sguardo a Pietroburgo, fece ritorno al villaggio...

 

Qui si interrompono le memorie di Piotr Andreic' Griniòv. Dalle tradizioni di famiglia si sa che fu liberato dalla detenzione sul finire del 1774, per decreto sovrano; che egli assisté al supplizio di Pugaciòv, e che questi lo riconobbe nella folla e gli fece segno con la testa, la quale, dopo un minuto, morta e insanguinata fu mostrata al popolo. Poco tempo dopo Piotr Andreic' sposò Maria Ivànovna. I loro discendenti prosperano nella provincia di Simbìrsk. A trenta verste da ... si trova un borgo appartenente a dieci proprietari. In una delle costruzioni padronali viene mostrata una lettera di pugno di Caterina Seconda in cornice con vetro. E' scritta al padre di Piotr Andréjevic' e contiene la giustificazione di suo figlio e elogi per l'intelletto e il cuore della figlia del capitano Mironov.

Il manoscritto di Piotr Andréjevic' ci fu procurato da uno dei suoi nipoti, il quale aveva saputo che noi eravamo stavamo compiendo un lavoro relativo ai tempi descritti da suo nonno. Ci decidemmo, con l'autorizzazione dei parenti, a pubblicarlo a parte, dopo aver trovato a ciascun capitolo un'appropriata epigrafe e esserci permessi di cambiare alcuni nomi propri.

L'editore

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