Adriano Banchieri

(Camillo Scaligeri della Fratta)

Caccasenno

Novella di Cacasenno
figlio del semplice Bertoldino.



Divisa in discorsi e ragionamenti.
Opera onesta e di piacevole trattenimento, copiosa di
motti, sentenze, proverbi ed argute risposte,



Interlocutori

Il Re Alboino
Ipsicratea Regina sua Moglie
Erminio Gentiluomo di Corte
Andronico Maggiordomo di Corte
Attilio Servo famigliare di Corte
Marcolfa Nonna di Cacasenno
Bertoldino Padre di Cacasenno
Menghina Madre di Cacasenno
Palafrenier di Corte
Servitor di Erminio
Un Viandante contadino
Un Lettighiere di Corte



INTRODUZIONE

Erminio, Gentiluomo favorito Cortigiano del Re Alboino, avendo con un suo Servitore scorso molti giorni la campagna, passò sotto la montagna sopra la quale abitava la Marcolfa con il gustosissimo umore di suo figlio Bertoldino. Ed immaginandosi far cosa grata al Re e la Regina suoi Signori, portandogliene qualche novella, si pose a salire la montagna, e giunto alla casa vidde, stante la qualità del paese, una assai buona fabrica, e quivi picchiando alla porta, si affacciò la Marcolfa alla finestra, la quale scendendo a basso, e riconoscendo Erminio, con molta allegrezza lo condusse in casa, facendogli liete accoglienza; e, discorrendo, gli raccontò di suo figlio Bertoldino, che avea preso moglie, e che con li danari e robe donategli dal Re e dalla Regina, quando già furono in Corte, avevano comperati alcuni poderi e accomodatisi di molti mobili e suppellettili per loro proprio comodo, soggiungendo di più che Bertoldino suo figlio, all'uscire di fanciullezza, era divenuto accorto, onde ne vivevano con molto loro contento e tranquillità d'animo. Una sol cosa gli era molesta, che avendo preso Bertoldino moglie, ed avendone sinora avuto un solo figlio, che ora è età di sette anni, è riuscito più semplice, che già non fu suo Padre, e più grosso dell'acqua dei maccheroni. Di questo discorso ne prese Erminio non picciolo contento, determinando in sé stesso voler a tutto suo potere condurre questo novello parto al Re e Regina, così disse:

ERMINIO E MARCOLFA

Erminio. Ditemi Marcolfa, dove è Bertoldino, con questo suo figlio, che detto mi avete?

Marcolfa Sono andati qui vicino, alla capanna d'un nostro pecoraro, né molto può tardare il loro ritorno, essendo ormai vicina l'ora di desinare.

Erminio. E come ha nome il figlio che dite?

Marcolfa. Il suo nome proprio fu Arsenio, ma perché i Contadini e Montanari sempre giungono o scemano li propri nomi, come sarìa il dire, se uno tra noi ha nome Antonio, essendo di alta statura li dicono Tognone, s'è corpacciuto, Tognazzo, s'è di giusta statura, Togno, s'è di statura scarsa, Tognetto, essendo piccolo e grasso, Tognolo, s'è piccolo, Tognino; di modo che riducono il nome di Antonio in molti nomi, e li dicono Tognone, Tognazzo, Togno, Tognetto e Tognino; e quivi tornando in carreggiata, avendo il nostro fanciullo nome Arsenio, per essere alquanto turlurù gli diciamo Cacasenno.

Erminio udendo questo nome ridicoloso di Cacasenno ne prese grandissimo gusto, e maggiormente gli accese il pensiero di volerlo condurre in Corte; e mentre stava in questo desiderio udì la Menghina, moglie di Bertoldino, in strada cantare questo

STRAMBOTTO

Ciascun mi dice, ch'io son tanto bella,
    Che sembro esser la figlia d'un Signore,
Chi mi assomiglia alla Diana stella,
    Chi mi assomiglia al faretrato Amore.
Tutta la Villa ogn'or di me favella,
    Che di bellezza porto in fronte il fiore.
Mi disse l'altro giorno un giovinetto:
    Perché non ho tal pulce nel mio letto?

Comparvero intanto Bertoldino, Menghina e Cacasenno, con alcuni mazzi di asparagi, fragole, articiocchi e ricottine, portate da lor podere. Qui furono grandi e lieti i complimenti, di dove Erminio così disse:

ERMINIO, MENGHINA, MARCOLFA E BERTOLDINO

Erminio. Eravate voi quella giovine, che ho udito cantare?

Menghina. Signor no, era una nostra pecorara qui vicina.

Marcolfa. Ah bugiarda, sta così bene dir le bugie? Lasciatevi dire, Signor Erminio, era lei, e sapete se ne canta di belle?

Erminio Di grazia, bella giovine, favoritemi cantar un'altra volta quella, ovvero un'altra a gusto vostro.

Menghina Adesso non posso cantare; sono arrochita.

Bertoldino. Deh cantane una; che hai, paura?

Menghina. Adesso non me ne ricordo nessuna in vero.

Marcolfa. Orsù fatti ben pregare; vuoi far restare in vergogna questo Gentiluomo?

Bertoldino. Così fanno le buone cantarine, farsi pregare un pezzo; canta Menghina.

Menghina. Ora, perché mi date la baia, non voglio più cantare, m'avete inteso?

Erminio. Non andate in collera Menghina; vostro marito burla così con voi.

Marcolfa, Orsù canta mo', Nuora mia cara, non è bene farsi tanto pregare.

Menghina. Orsù son contenta, ma non voglio cantar qui, anderò in cucina.

Erminio. Andate dove vi pare, pur che cantìate.

STRAMBOTTO

Se vuoi venir con meco cuor mio bello,
    Ti metterò sull'asino a cavallo.
Vedrai la casa mia com'è un giojello,
    Di masserizie piena, sino al gallo.
Ancor udrai cantar un filunguello,
    Qual'ha le penne verde, bianche, e giallo
Darotti ancor piacer, spasso e diletto,
    Pigliando tordi e merli al mio boschetto.

Intanto che Menghina cantava, Marcolfa e Bertoldino pigliarono licenza da Erminio, per andare a porre in ordine il desinare; in questo arriva Cacasenno, che aveva fatto colazione; Erminio, con suo grandissimo gusto, lo piglia per la mano, e finito la Menghina il canto, Erminio interroga Cacasenno.

ERMINIO E CACASENNO

Erminio. Che fai, il mio bel fanciullino?

Cacasenno, Ho fatto colazione adesso adesso.

Erminio. Buon principio (dove vai tu? sto con altri); dimmi, come hai tu nome?

Cacasenno, Messer no, che non sono un uomo, sono un ragazzo.

Erminio. Non ti addimando se sei un uomo, dico il tuo nome: come ti chiami?

Cacasenno, Quando uno mi chiama, ed io gli rispondo.

Erminio. Volendoti io chiamare, come ho da dire?

Cacasenno. Dite come vi pare, ma tenete le mani a voi; perché mi volete cavar gli occhi, sì ch'io vi darò sul capo con questo bastone? non mi conoscete bene.

Erminio, facendo de' gesti con le dita mentre ragionava con Cacasenno, questi pensò che gli volesse cavar gli occhi, onde alzò un bastone che aveva in mano e gli voleva dar sulla testa; quivi la Marcolfa corse, e per correzione gli dette uno schiaffo. Cacasenno cominciò così dirottamente a piangere e gridare, che pareva un porchetto quando lo vogliono scannare. A questo rumore, corse la Menghina con un castagnazzo caldo per quietarlo, così dicendo:

Menghina Che hai che gridi, il mio Cacasennino?

Cacasenno. Uh uh, la Nonna, uh uh, mi ha dato, perché mi son difeso, uh uh, da questo uomo che mi voleva cavar gli occhi con le dita, uh uh.

Menghina. Orsù taci, il mio Cacasennino, che stasera manderemo la Nonna scalza in letto.

Erminio. Non è vero, il mio Cacasenno, che io ti volessi cavar gli occhi: orsù vieni, e piglia il quattrino, su, facciamo pace; oh che bel quattrino!

Cacasenno vedendo il quattrino si rappacificò, e nel pigliarlo Menghina gli disse: baciati il ditino e di' nonna; il che fece Cacasenno.

Erminio intanto, mirandolo, non poteva contenersi dal riso, e sentiva gusto del piacere che ne avrebbero preso il Re e la Regina. Questo Cacasenno era grosso di cintura, aveva la fronte bassissima, gli occhi grossi, le ciglia irsute, il naso e la bocca aguzza, che certo assomigliavasi ad un gatto mammone, ovvero ad uno scimiotto; ed essendo ora di mangiare, lavaronsi le mani, andarono a tavola, e finito il desinare, Erminio così disse:



ERMINIO, MENGHINA, MARCOLFA E BERTOLDINO

Erminio. Sappiate, che il nostro Spenditore di Corte l'altra mattina in mercato comprando alcuni capretti da un Montanaro della vostra montagna, intese ancora da quello l'esser vostro e gli diede contezza di questo vostro bel Cacasennino: il che divulgatosi per la Corte è ancora pervenuto all'orecchio del Re e della Regina, miei Signori, per lo che mi hanno mandato in persona, desiderosi di vederlo, dove tutti voi, per termine di creanza, dovete compiacergli.

Menghina. Non sarà egli mai vero, perché questo nostro figliuolino è così semplice, che son certa gli interverrebbe qualche sinistro incontro.

Marcolfa. Non vi è pericolo, Nuora mia cara, perché andrò io in sua compagnia; li Principi hanno lunghe le mani, ed i lor cenni bisogna riconoscerli per comandamenti, ed obedirgli.

Bertoldino. E tanto più al re Alboino, che ne ha dato tutto quello che noi abbiamo; però Menghina mia cara contentatevi, che questa è nostra nuova ventura.

Alle parole di Marcolfa e Bertoldino, si quietò Menghina, e vestito coi panni delle feste il suo Cacasenno, lo consegnò alla Marcolfa, e quindi, facendo i complimenti, restarono Bertoldino con Menghina alla cura di casa, ed Erminio con il suo servitore, Marcolfa e Cacasenno (con un bel collaretto dalle belle lattughe), scendendo la montagna, s'inviarono verso la Città, e giunti alla prima Osteria Erminio fece scendere da cavallo il suo Servitore, e presone un altro lo spinse in posta alla Corte, per dar contezza al Re e alla Regina di questo fatto, dove il Servitore galoppando si licenziò; ed essendo il cavallo della briglia che aveva in mano, così forte la tirava che il cavallo, inarborandosi, si drizzò in piedi, onde dirottissimamente Cacasenno gridava: Ohimè, ohimè, aiutatemi,che questo animalaccio mi vuol portar per aria e farmi romper la testa.

A questo gridare volgendosi Erminio, gridava che lasciasse la briglia, ma il povero Cacasenno, lasciandola andare affatto, fe' sì che il cavallo vi inciampò dentro e fecelo cadere in terra, ma per esservi la polvere alta, non si fece alcun male. Marcolfa, dubitando che si fosse fatto gran male, correndo, disse:



MARCOLFA, ERMINIO E CACASENNO

Marcolfa. Ohimè, poveretto, scendete signor Erminio, che costui senz'altro si è storpiato.

Erminio. Eccomi sceso; che fai Cacasenno? ti sei fatto male?

Cacasenno. O male o bene, voglio tornarmene a casa.

Erminio. Orsù rimonta a cavallo, e nel modo ch'io ti pongo la briglia in mano, così lascia venire il cavallo.

Cacasenno. Se volete ch'io monti, voglio che mi lasciate montare nel modo che ho visto far voi.

Erminio. Son contento: monta ch'io tengo il cavallo, e poiché non arrivi alle staffe, monta su questo sasso.

Erminio montò a cavallo e lasciò che la Marcolfa li tenesse il cavallo. Intanto Cacasenno, pigliando il vantaggio, pose il piè mancino nella staffa dritta, e salito che fu si trovò con la faccia volta verso le natiche del cavallo; quivi Erminio crepava dal ridere, e volendo ch'ei smontasse, mai fu possibile a persuaderlo.



ERMINIO E CACASENNO

Erminio. Bisogna scendere, se vuoi cavalcare.

Cacasenno. Io non potrei star meglio. Non avete voi detto che il Re e la Regina v'hanno mandato a casa nostra acciò mi conduceste a casa loro?

Erminio. L'ho detto, è vero, che vuoi dir per questo?

Cacasenno. Pigliate dunque voi la briglia del mio cavallo e conducetemi, ché in questo modo ubbidirete i padroni, ed io non vedrò i pericoli che devo passare.

Erminio. Oh, questa sì vale il resto del carlino! Invero, ho preso a menar l'Orso a Modena!

Accidentalmente passando un Contadino, che veniva anch'egli alla Città Regale, Erminio fece condurre il cavallo di Cacasenno così a mano, e cavalcando in tal guisa, giunsero alla Porta della Città. Erminio ordinò al Contadino, che così lo conducesse sino alla porta del Palazzo, ed ivi lo aspettasse; poi diede alcuni di quei soldati che stavano alla Porta, acciò lo accompagnassero per guardia, temendo che i ragazzi non lapidassero per la Città Cacasenno con pomi e torsi; intanto Erminio, dato de' sproni al suo cavallo, giunse in Palazzo, e trovò il Re e la Regina ch'erano ad un balcone per veder la venuta di questo bell'umore (già descrìttoli dal servitore di Erminio), e qui raccontando detto Erminio frettolosamente quanto gli era successo per istrada, un'ora parevagli mille anni, che comparisse. Intanto giunse, e vedendo le Regie Corone venire la Marcolfa filando, con quel Contadino che conduceva Cacasenno a rovescio sopra il cavallo, accompagnato con gridi e fischiate da moltitudine di ragazzi, il Re e la Regina di tale vista ne presero grandissimo piacere, e giunti in Palazzo fecero introdurre a loro questo ridicoloso spettacolo. Entrando pertanto la Marcolfa dinanzi le Regie Corone con ripetuti inchini, fu prevenuta dal Re.

RE, MARCOLFA E REGINA

Re. Ben venuta, Marcolfa; godo vedervi viva.

Marcolfa. Ed io vivendo per veder le Maestà loro, ne ringrazio il cielo di tanto dono.

Regina. Mi riconoscete, o Marcolfa?

Marcolfa. Tali sono gli obblighi ch'io le devo, mercé le grazie e doni e favori ricevuti già alcuni anni sono, mentre fui in questa Regia Corte con mio figlio Bertoldino, che ho sempre avanti gli occhi impresse l'effigie d'amendue, e questo sia detto senza alcuna adulazione; e quantunque io sia una povera montanara, sempre la verità e realtà, mi è piaciuta, perché sanno bene loro quanto il mio marito, mentre visse, fosse accorto, pronto ed arguto nelle belle sentenze, proverbi e salutifere moralità, dal quale più volte sentii uscirgli di bocca queste due belle sentenze:

1. Il Povero superbo È come un frutto acerbo, Ma il Povero benigno È come l'or del scrigno.

2. Il Povero bugiardo Fa come il topo al lardo, Ma il Povero reale Tant'oro a peso vale.

Re. Sentenze veramente da imprimersi a lettere d'oro; ma lasciamo i complimenti: dov'è Cacasenno?

Marcolfa. Eccolo qui meco; vieni avanti Cacasenno. Ohimè, dov'è restato? era pure in mia presenza; dove sei?

A questo chiamare, i Palafrenieri di Corte, alzando la portiera, fecero entrare Cacasenno, il quale sopra le spalle si trascinava un uscio di legno.

Il Re e la Regina, a questa gustosa entratura ebbero a smascellarsi dalle risa, intendendo tal stravaganza; ma più stupita restò la Marcolfa di tal cosa; e quivi il Maggiordomo di Corte, che si trovò presente, appena potendosi contenere dalle risa, così disse alle Regie Corone:

MAGGIORDOMO, E DETTI

Maggiordomo. S appia no, le Regie Corone loro, che nel salir le scale del Palazzo, mentre Marcolfa entrava in sala, questo bamboccio disse a un Palafreniere che si sentia volontà di orinare. Fu egli intanto condotto al luogo di necessità, con sopportazione parlando, ed uscitone fuori non serrò l'uscio della bussola, onde io trovandomi, così gli dissi: Fanciullo, tirati dietro l'uscio, per non sentire il fetore; ed egli, levando l'uscio della bussola dai gangheri, se lo trascina dietro, onde così l'abbiamo introdotto qui a Loro.

Re. Dimmi Cacasenno, perché ti trascini dietro quell'uscio?

Cacasenno. Che importa a voi di saperlo?

Re. M'importa perché sono il padrone di casa.

Cacasenno. Se siete il padron di casa, quest'uscio adunque è vostro; ditemi che ne ho da fare.

Re. Lascialo andare.

Cacasenno. Uscio vattene, che il padrone ti dà licenza; vattene, dico, tu pesi troppo, né ti posso più tenere in ispalla; che sì, uscio, se tu non obbedisci, il padrone di casa ti farà qualche scherzo.

A quella semplicità corse la Marcolfa, e levatogli l'uscio di spalla, ordinò a Cacasenno che facesse un inchino al Re ed al la Regina, ed inchinatosi fino a terra, ad ambedue baciasse la mano; allora Cacasenno, quasi un nuovo Cabalao, con bella grazia si pose trabocconi per terra, così dicendo:



CACASENNO E MARCOLFA

Cacasenno. Oh! messeri, eccomi qui chinato in terra, siccome m'ha detto mia Nonna; mettetemi la mano in bocca, ch'io ve la voglio baciare; venite, vi aspetto.

Marcolfa. Che cosa fai pecora, così traboccante in terra?

Cacasenno. Non avete voi detto, ch'io m'inchini in terra, e baci la mano del Re e Regina? Eccomi chinato, diteli che vengano, che mi sento volontà di merendare.

Le Regie Corone risero tanto, che li dolevano le gote e la testa; dopo il riso lo fecero levar da terra, e da Attilio servo familiare di Corte condurre a merenda, restando quivi la Marcolfa a complire ed iscusare Cacasenno.



MARCOLFA, RE E REGINA

Marcolfa. Serenissime Corone, sappiano che questo Cacasenno non è meno semplice di quello che già fu in questa Corte Bertoldino suo Padre; tal fu l'albero, tal'è il frutto: però non prendano meraviglia delle sue inezie; io volentieri l'ho condotto qui in Corte per obedire, desiderosa però quanto prima esser di ritorno alla mia casa per molte fatiche che vi ho.

Re. Bertoldino vostro figlio che fa, è egli vivo?

Marcolfa. È sano vivo, e all'uscir di fanciullezza è divenuto accorto, ed ha preso moglie, dalla quale è nato il nostro Cacasenno; mercé i donativi che ne furon fatti in questa Corte, siamo assai comodi in beni di fortuna.

Re. Ed è vero quanto mi dite di Bertoldino?

Marcolfa. Verissimo; io non direi bugia a lei, mio Signore, e quando non le fosse di tedio le vorrei raccontare un caso seguìto di quelli che raccontava Bertoldo mio marito in proposito di uno che, dicendo una bugia al suo Prencipe, si perse mille fiorini.

Re. Ditelo pure, che ne sarà di sommo gusto.

Marcolfa. Fu già un Prencipe, che aveva in Corte un Servo molto familiare. Occorse che un Cittadino, vedendo la gran familiarità che il Servo teneva con il suo Signore, ricercò per suo mezzo una grazia, offerendogli, se l'otteneva, un donativo di mille fiorini; al suono dei quali li fu promesso operar il possibile acciò la grazia si ottenesse. Stando in questo, il Servo familiare ricorse al Prencipe e li chiese la grazia, e per effettuarla più facilmente vi annesse una bugia, con dire che la grazia da lui ricercata era in persona di un suo fratello. Il Prencipe disse che vi penserebbe un poco sopra e poi risolverebbe sì o no; ma poiché le bugie hanno corte le gambe ed al bugiardo ricercasi buona memoria, il Prencipe si ricordò che il suo familiare, già una volta ragionando, dissegli non aver fratelli; onde, per scapricciarsi segretamente fece chiamare il Cittadino che desiderava la grazia, e quando gli fu davanti, dissegli il Prencipe: O dimmi la verità, o tu resti privo della grazia mia. Risposeli il Cittadino di sì. Soggiunse il Prencipe: Il tale è tuo fratello? Rispose il Cittadino di no. Replicò il Prencipe: Perché ti ha egli impromesso farti avere la grazia che tu desideri? Rispose il Cittadino: Avendogli impromesso, subito ottenuta, un donativo di mille fiorini. Disse di nuovo il Prencipe: Or dà a me li mille fiorini, e siati fatta la grazia; e comandolli che di ciò non facesse alcun motto all'amico. Il familiare intanto, non sapendo il negozio fra il Prencipe ed il Cittadino, trovandolo un giorno di vena, gli ricordò la grazia di quel suo fratello; allora il Prencipe argutamente gli rispose: Vatti pur trova un altro fratello, perché quello che tu pensavi dovesse esser tuo è diventato mio.

Re Onde applicando, il fratello erano i mille fiorini. Arguta risposta, e gioiosa invenzione certo; ma torniamo un poco al nostro primo ragionamento; per che cagione non ci avete dato contezza di voi, che ogn'anno v'averessimo mandato qualche cosa.

Marcolfa. Indiscreto è quello che non si contenta dell'onesto; fu invero grandissima la magnanimità loro quando alla nostra partenza ne furono donati in quel cofanetto li mille scudi, quattro pezze di panno, duecento braccia di tela, dieci soma di grano, ed altre tante botti di vino, le quali cose da noi furono vendute, e compratone tanti beni, onde possiamo campare più che da pari nostri.

Re. E perché non vi vestiste di quel panno e tela, non mangiaste quel grano, e beveste quel vino?

Marcolfa. Perché il nostro felice paese di montagna ricerca vestimenti rozzi, pane mesturato e bere acqua continuamente, li cui cibi e vestiti conferiscono grandemente alla sanità.

Re Quello che si contenta gode; potendo mangiare buon pane e bever buon vino, mi pare gran semplicità il cibarsi di mestura ed acqua.

Marcolfa. Tra l'altre male cose, il bever vino a quelli che non sono avvezzi si è la peggiore per la sanità, sì come sortisce agli avvezzi bevendone di soverchio; ed in tal proposito, se alle Maestà loro non porto tedio, voglio narrargli una favola raccontatami da mio marito in proposito di chi beve soverchio.

Re. Eccoci attenti per ascoltarvi, ditela pure.

Marcolfa. Un Gentiluomo principale Todesco, volendosi partire dalla patria per trasferirsi a vedere la maravigliosa Città di Roma, ed insiememente scorrere il delizioso Regno di Napoli, si pose in cammino con un Servitore suo fidato e pratico di tali paesi; e gionti che furono a Bologna, ordinò pertanto il gentiluomo al Servo che andasse avanti, e in tutte le Città, Castelli, Ville e Borghi che sono per la strada maestra, ed in tutte le Osterie si fermasse, e gustasse se ivi era buon vino; e quando l'aveva gustato ivi si fermasse o ponesse sopra la porta dell'Osteria una lettera maiuscola in lingua latina, che dicesse EST, cioè: Quivi è buon vino. Il Servo obedì; e mentre il Gentiluomo trovava un'Osteria, né vi vedeva la maiuscola EST, diceva tra sé: Nitte, ed andava avanti; e quando trovava la maiuscola EST, ivi si fermava un giorno, sì per veder quel luogo, sì anco per gustare così buona bevanda. Così camminando verso Roma, giunse il Servo a una Terra del Serenissimo Gran Duca di Toscana, situata a mezza strada tra Firenze e Siena, nominata Poggibonsi (che fu patria del famosissimo Cecco Bembo) e fermatosi all'Osteria delle Chiavi, trovò ivi tre variate sorti di vini esquisiti, Vernaccia, Moscatello e Trebbiano. A questa trovata fece il Servo un Epitaffio, replicando tre volte la maiuscola così EST, EST, EST. Giunto il padrone, e gustati tali Vini, concluse ivi trattenersi tre giorni, né saziandosi di berne, tanto vi soverchiò, che fu miserabilmente assalito da un improviso soffocamento, dove in poche ore se ne morì. Il Servitore mal contento, ritornatosene al suo paese con così trista novella, a tutti li parenti ed amici che li dimandavano del suo Padrone, loro rispondeva con questi due versi latini:

Propter EST, EST, EST,
Dominus meus mortuus est

Sì che applicando dico, che il vino per lo più genera infiniti disordini, onde ne derivano diverse infermità, ed a noi là su in montagna non gusta, ma più ne piace quelle nostre acque freschissime, lucide come specchi e chiare come cristallo, che in dolce mormorio scaturiscono da certe pendici in concave fontane, le quali acque si rendono non solo delicate al gusto, ma ne liberano dalle indigestioni.

Regina. Graziosa novella invero è stata quella di quell'infelice Todesco, sì come pur troppo è vero quello che ne avete significato.

Re. Intanto imaginandomi, o Marcolfa, che siate stanca dal lungo e faticoso viaggio, andate a reficiarvi e riposarvi insieme; poi ritornateci a vedere con il vostro Cacasenno.

Chiamò il Re il Maggiordomo, ed ordinò che alla Marcolfa ed a Cacasenno fossero assegnate stanze, come fu eseguito, e giunta che fu la Marcolfa all'appartamento, vide Cacasenno disteso in terra che gridava, con la pancia in giù: Ohimè, ohimè! né potendolo Attilio Servo quietare, la Marcolfa dimandolli il perché, e così disse:



MARCOLFA,SERVO E CACASENNO

Marcolfa. Povera me tapina, che spettacolo è questo?

Servo. Sappiate Madonna Marcolfa, che questo vostro zucca senza sale, dopo avere merendato disse che voleva dormire, onde io non lo giudicando così semplice, gli dissi: Se vuoi dormire monta sul letto, ed egli a guisa di quei fanciulli che sogliono pigliar l'Oca, invece di montare sul letto (come dissi) s'aggrappò con le braccia e le gambe ad una colonna della trabacca e giunto alla staggia dove sono li anelli del coltrinaggio, essendo essa staggia fragile, si è scavezzata per il peso ed è qui caduto come vedete.

Marcolfa. Di questo non vi meravigliate, il mio uomo da bene, perché nella nostra montagna non si usano ai letti queste trabacche, ond'egli si è imaginato, che il coperto sia il letto, e volendovi salire come fosse un Castagno, cagionò questo disordine; ma poverina me, costui non parla; olà Cacasenno che fai?

Cacasenno. Ho tanto sonno ch'io dormo; di grazia Nonna non mi svegliate.

La Marcolfa, levandolo da terra tutto sonnacchioso lo pose sopra il letto, e chiudendo le finestre lasciollo acciò potesse dormire; intanto il Servo con suo gran gusto corse dal Re e Regina, i quali erano insieme e si stupivano della memoria di Marcolfa, avendo alla mente tante belle cose udite già raccontare dall'astuto Bertoldo, ed ancora non si saziavano di ridere della positura di Cacasenno mentre stava traboccone in terra, aspettando li ponessero la mano in bocca per baciarla. Quivi entrando Attilio ansioso li raccontò la caduta di Cacasenno da sopra il coperto della trabacca; or quivi si raddoppiò il riso, e tanto godevano di questa simplicità che se la fecero raccontare un'altra volta, sempre crescendogli maggior piacere.

Il Re ordinò di nuovo al Servo che tornasse all'appartamento di Cacasenno e sapesse di mano in mano dar minuto racconto di quanto succedeva, siccome da Attilio fu effettuato. Ora, mentre Cacasenno dormiva, la Marcolfa intanto stanca dal viaggio si ristorò e reficiò di mangiare, bere, e dormire; e mentre ella saporitamente dormiva fu risvegliata da uno stramazzone che diede Cacasenno giù dal letto gridando:



CACASENNO E MARCOLFA

Cacasenno. Ohimè, o infelice me, dove sono?

Marcolfa. Che hai il mio Cacasenno? Che rumore è stato questo?

Cacasenno. Son caduto, né so di dove, e mi sono cavati gli occhi.

Marcolfa. Oh sventurata me, che dirà Bertoldino mio figlio e Menghina mia Nuora, quando sapranno che tu sei cieco? dove sei?

Cacasenno. Se son cieco, come volete che vegga ove sono?

Marcolfa. Aspetta che aprirò le finestre.

Cacasenno. Allegrezza, allegrezza, mia Nonna, che mi sono tornati gli occhi come prima.

Marcolfa. Deh animale, eri cieco perché erano chiuse le finestre; levati su, dimmi, ti sei fatto male?

Cacasenno. Mi sento doler le natiche, ma non me ne curo, per l' allegrezza d' aver trovato gli occhi.

Stando la Marcolfa e Cacasenno in quelle loro inezie, il Servo che di commissione del suo Signore stavasi appiattato dietro una bussola dell'anticamera, lesto come un gatto non poté contenersi di non correre a dar ragguaglio della perdita degli occhi, che aveva fatto Cacasenno. Quanto per ciò si ridesse, ciascuno se lo può immaginare, tanto più che il Servo scaltrito minutamente raccontava il tutto. Intanto la Regina disse al detto Servo che facesse ambasciata alla Marcolfa in suo nome, che desiderava ragionar con lei per certo suo negozio particolare, ma desiderava venisse sola, lasciando Cacasenno alle stanze. Attilio, al comandamento della Regina, fece l'ambasciata alla Marcolfa; così intanto disse lei a Cacasenno:



MARCOLFA E CACASENNO

Marcolfa. Cacasenno, mi conviene andare dalla Regina, la quale mi ha fatto intendere che vadi sola, però restati fino al mio ritorno.

Cacasenno. Voglio venir anch'io perché ho paura, restando qui solo, di non perder gli occhi un'altra volta.

Marcolfa. E di che hai paura? Non v'è pericolo; resta e trattienti fino al mio ritorno, che sarà breve.

Marcolfa con prestezza chiuse la porta, acciò che Cacasenno non le corresse dietro, onde egli si pose dirottamente a gridare, ed infine trovando trattenimento si quietò. Intanto la Marcolfa, giunta dalla Regina salutolla dicendo:



MARCOLFA E LA REGINA

Marcolfa. Serenissima Regina, eccomi prontissima alli suoi comandi.

Regina. Marcolfa mia cara, mi sovviene quando già fosti nella nostra Corte con Bertoldino vostro figlio, che mi dichiarasti certi dubbi enigmatici occorsi in un gioco di Cavalieri e Dame; e perché domani a sera devesi fare un ridotto simile, vorrei che m'insegnaste qualche gran galanteria, toccando a me ordinare il trattenimento; so che siete Donna sagace e per conseguenza credo che ne sappiate di belle.

Marcolfa. Pianta silvestre non produce frutto domestico; io che abito la montagna non posso dirle cosa degna, che una Regina la proponga.

Regina. Ditela pure, e poi lasciate la cura a me.

Marcolfa. Devo compiacerla in ogni modo; sibbene li dirò cosa di basso rilievo, in bocca sua valerà assai, attesoché i Grandi sebbene talvolta dicono qualche castroneria, uscendo dalla bocca loro viene interpretata per dotta sentenza; vi vorrìa però tempo a pensarvi sopra.

Regina. Come, una pari vostra ricerca tempo di pensarvi sopra? Dubito vogliate darmi la burla.

Marcolfa. Io burlare a una sua pari? Non sia mai vero, le sono troppo obbligata, siccome poco fa dissi alla presenza del Re suo marito, che di povera, ch'io ero, coi suoi doni sono ascesa in grandezza, stante la qualità del mio paese e della persona mia.

Regina. Questi sono frutti che produce il mondo, che un povero diventi ricco, siccome un ricco povero: non sapete quel proverbio che dice:

Questo mondo è fatto a scale,
Chi lo scende, e chi lo sale?

Marcolfa. E mio marito Bertoldo soleva dire:

Il mondo è fatto a scarpette,
Chi se le cava, e chi se le mette.

Ed anco soleva dire in questo modo più breve:

Chi sù, e chi giù.

E siccome sono in questo proposito, mi sovviene una bella moralità d'una Volpe e d'un Orso.

Regina. Questa sì voglio che me la raccontiate, poi torneremo al nostro primo ragionamento.

Marcolfa. Passando un giorno accidentalmente l'astuta Volpe per un cortile di certi Signori, montò sopra una Cisterna, nella quale era mancata l'acqua per una gran siccità; guardando pertanto la Volpe nel fondo non solo vide esservi poca acqua ma scoperse gran quantità di Pesci, onde lasciandosi vincere dalla gola all'improvviso pensò una sua astuzia. Vidde che alla Cisterna vi era una catena con due secchie, e si slanciò in una di esse, che per la gravezza sua si calò al basso, dove mangiò tanto Pesce, che si empì la pancia fino al canarozzolo. Quando fu sazia, per l'improvisa risoluzione fatta nello scendere senza prima pensare la maniera di salire dopo, si disperava; onde trovandosi così in miseria cominciò a dolersi dicendo: O infelice me, che ho fatto? Ho pensato far bene e mi riesce male; misera, che farò, chi mi libererà da tal cattività? Se i Padroni per caso tornano, e quaggiù mi trovano, senza altro, se avrò mangiato le candele, mi faranno cacare li stoppini, e similmente se viene qualche Contadino per attingere acqua, e qua giù mi scorge, con un'archibugiata, mi dà l'ultimo vale. Intanto che la Volpe stava in questi lamenti, passò per costì il suo parente Orso, il quale, conoscendola alla voce, affacciossi sopra la Cisterna, e mirando a basso disse: O parente Volpe, che fai colà giù? Perché ti lamenti? Ci sei forse caduta, né ti dà l'animo tornar di sopra? Dimmi, come sta questo negozio? Allora la maliziosa Volpe subito fu pronta all'astuzia e disse: Il mio caro parente Orso, sai perché mi lamento? Del brodo troppo grasso; son venuta quaggiù, ed ho mangiato tanto Pesce, che son piena sino agli occhi. Rispose l'Orso: E per questo ti lamenti? Soggiunse la Volpe: Non mi lamento di quel che ho trangugiato, mi duole di quello che vi lascio. Replicò l'Orso: Dimmi, ve n'è assai? Rispose la Volpe: Se ne caricano dieci soma. L'Orso sentendo questo, disse: Voglio venire anch'io a cavarmi il corpo di grinze; dimmi come hai fatto a scender colà giù. La Volpe gli insegnò, dicendo: Fa come ho fatto io, lanciati con le zampe a quel secchio, che verrai a basso. L'Orso, per esser goffo e destro, senza pensare il suo fine, prese il consiglio della Volpe. Ella intanto entrò nell'altro secchio e per esser l'Orso più grave, tirò su la Volpe, la quale quando fu passata disse all'Orso: A rivederci parente: Chi su, e chi giù. Il che applicando alla moralità talvolta una persona trovasi in miseria ed ascende alla felicità, come la Volpe, sazia e contenta, e talvolta anco interviene come all'Orso, che lasciandosi ingannare finì la sua vita in estrema necessità.

Regina. Buonissima moralità e degna di considerazione, ma torniamo un poco (come dice il proverbio) l'acqua al nostro molino. Desidero per domani a sera che tu m'insegnassi un gioco di quelli che quando si erra si depone un pegno, e nel volerlo riscuotere si risolve qualche dubbio, il quale venendo risoluto giudiziosamente, se ne fa giubilo ed applauso.

Marcolfa. Uno voglio insegnargliene, che, venendo proposto dalla Regia persona sua le farà onore, per esser un gioco, che molti anni sono Bertoldo mio marito vide fare in casa di certi Signori. Il gioco si chiama della Musica Stromentale.



DICHIARAZIONE

Li giocatori e giocatrici non devono essere in numero maggior di dodici o minore di otto, che dove è maggior numero ivi è confusione, ed essendo meno non riesce; ciascuno devesi pigliare uno degl'infrascritti Stromenti, e quello imitare con la bocca e con le mani, poi pigliarne uno dei compagni, come segue:



GIOCO DELLA MUSICA STROMENTALE

Dodici Stromenti in tre sillabe l'uno

1. Spinetta 2. Liuto 3. Chitarra 4. Violino 5. Biabò 6. Pivetta 7. Trombetta 8. Tamburo 9. Cornetto 10. Flauto 11. Viola 12. Trombone

Quello che propone il gioco dica per esempio: Dirin dirin din, la tua Spinetta. Quello della Spinetta replichi, poi ne dica un altro, così seguitando: Dirin dirin din, la mia Spinetta. Tra pa ta pa ta, il tuo Tamburo. E quello del Tamburo risponda subito.

1. Dirin dirin din, la mia, o tua Spinetta.
2. Tronc tronc tronc, il tuo, o mio Liuto.
3. Trinc trinc ti ri trinc, la tua, o mia Chitarra.
4. Si ri si ri si, il mio, o tuo Violino.
5. Bi ri bi, il mio, o tuo Biabò.
6. Tu tu tu tu tu, la mia, o tua Pivetta.
7. Ta ran ta ran ta, la tua, o mia Trombetta.
8. Tra pa ta pa ta, il tuo, o mio Tamburo.
9. Ci ri ci, il mio, o tuo Cornetto.
10. Fis fis fis fis, il tuo, o mio Flautino.
11. Vion vion vi, la tua, o mia Viola.
12. Fu fu fu fu fu, il mio, o tuo Trombone.

Gli errori che possono scorrere, per li quali si depone un pegno, saranno: Quando non risponde presto lo stromento chiamato. Quando si fallasse nel cantar giusto il versetto. Quando si dicesse mio in cambio di tuo. Quando non s'imiti con le mani l'istromento suo, e quello del compagno. Avvertendo che se gli istromenti sono di voce acuta, si deve pigliar voce sottile, e se quelli sono di voce grave si piglia la voce grossa, siccome chi errasse in questo depone un pegno.

E perché dice il proverbio che ogni bel cantar rincresce, e come ogni corto gioco è bello, di mano in mano che uno depone il pegno esca di gioco, e quando li giocatori sono dodici, giunti alli sei li pegni, si diano uno per ciascuno, cioè quello del perditore al vincitore, per fargli riscuotere; e quando uno è uscito di gioco, ed un altro inavertentemente lo chiamasse, questo torna in gioco e ricupera il pegno, e quello che ha errato depone il pegno ed esce.

Regina. Marcolfa mia cara credo senz'altro avervi capita: quello che propone il gioco, deve cantare colla bocca ed imitare con le mani uno degli istromenti che sono in gioco, e quello che vien pronunziato subito rispondere con quel suo stromento, e pronunziarne un altro, e così seguitare con le condizioni dettemi nel deporre i pegni, le quali cose tutte tengo benissimo alla memoria. Ora, se io nel gioco fossi tra li sei, ovvero quattro vincitori, voglio m'insegniate qualche dubbio, ovvero enigma da proporre al Cavaliere o Dama che vorrà riscuoter il suo pegno.

Marcolfa Eccolo. Come farìa la Regia Corona Vostra a partire venti in cinque parti, e tutte cinque le dette parti fossero in numero dispari?

Regina. Io professo per mio diporto un poco d'Aritmetica: aspettate ch'io faccia il computo: uno e tre fan quattro, e cinque fa nove, e sette sedici, avanza quattro, non riesce. Tre via quattro dodici, avanza otto; manco. Tre e cinque otto, e sette quindici, e tre disdotto, avanza due, peggio. Quattro via cinque venti, ma sono pari; non è possibile, Marcolfa, spartire venti in cinque parti come dite, e siano dispari.

Marcolfa. Or vedete con che facilità voglio ponervi in chiaro: volendo partire venti in cinque parti, e tutte siano in numero dispari, si deve spartire la lettera

V E N T I
1 2 3 4 5

Ecco il dubbio risoluto, e riesce giudizioso.

Regina. Piacemi grandemente, ed è un bello enigma; io l'intendevo aritmeticamente, ed è litteralmente; pertanto del gioco e dell'enigma resto sodisfatta, e ve ne ringrazio; ora, dovendo io attendere a certi miei affari, voi Marcolfa andatevene a trovare Cacasenno, che aspettar vi deve.

Qui la Marcolfa fece le debite cerimonie nel licenziarsi dalla Regina; ora torniamo al nostro Cacasenno lasciato di sopra, che sua Nonna, partendosi, li disse che si trattenesse sino al di lei ritorno; onde Attilio, che per comandamento del Re stavasi appiattato dietro la bussola dell'anticamera per osservare tutto quello che Cacasenno operava, vedendogliene far una corse subito a raccontarla al Re, ond'egli, che intese che Cacasenno era solo, ordinò che lo conducessero a lui; il Servo, volando, tornò a Cacasenno, e sotto pretesto di menarlo a bere lo condusse avanti al Re, ond'egli, vedendogli il viso tutto impiastricciato, interrogandone Attilio, così disse:



IL RE, SERVO E CACASENNO

Re. Che cosa vuol dire che il nostro Cacasenno ha così impiastricciato il viso?

Servo Sappi, mio Signore, che avendo il Sottocredenziere ordinato al Guattero, che facesse un catino di colla per far l'impennata al gioco della Racchetta, costui si è tirato detta colla tra le gambe e, servendosi delle mani per mescola, tutta se l'ha trangugiata, e gli è restato il volto così impiastricciato.

Re. Dimmi, il mio caro Cacasenno, hai mangiato la colla?

Cacasenno Signor sì, mia Nonna quando si partì per andare da vostra Moglie, disse che mi trattenessi fino al suo ritorno, ed io, non avendo altro, mi son trattenuto con quella scodella di polenta, e questa ciera di matto se ne ride, e di più m'ha uccellato, perché, in cambio di menarmi a bere, m'ha menato qui da voi.

Il Re, udendo tali parole, e vedendogli il viso così impiastricciato, rise molto sconciamente, ed avrìa pagato ogni gran cosa che vi fosse stata la Regina, onde disse al Servo che menasse Cacasenno a bere, secondo la promessa, e perché desiderava che la Regina fosse partecipe di tal simplicità, li fece cenno che a lei lo conducesse; il Servo, che intese il tutto, eseguì: e, giunti alla Regina, così diss'ella:



REGINA E CACASENNO

Regina. Perché sei così impiastricciato, il mio Cacasenno?

Cacasenno. Perché ho merendato; vorrei mo' che facesti dare venticinque bastonate a costui, perché il Re gli ha ordinato mi facci dar da bere, ed egli non l'ha obedito; di grazia, fatemi insegnare la fontana, che sono gonfio come una vescica di porco.

Regina. Invero ti sei bene rassomigliato, ed appunto non hai altra ciera adesso, che quella che tu hai detto.

E facendosi la Regina raccontar il successo da Attilio, rise assai, poi ordinò che lo conducesse a bere, e poi dalla Marcolfa. Era di già giunta la Marcolfa alle sue stanze, né ritrovando Cacasenno tutta si rammaricava; e mentre stava in tal disgusto ecco Attilio con Cacasenno; onde inteso la Marcolfa il successo della colla disse: Povera me, questa pecora balorda mi ha svergognata per la Corte; e volendogli lavar il grugno, era così tenace la colla e talmente se gli era attaccata sul viso e sulle mani, che bisognò far bollire dell'acqua per lavargliela. Prese intanto risoluzione la Marcolfa andare dal Re e Regina a chiedergli licenza per tornare con il suo Cacasenno in montagna, siccome fece; e avendo lasciato Cacasenno in custodia al Servo, trovò ambedue le Corone insieme, e giunta che fu, con fargli un bell'inchino, così disse:



MARCOLFA, RE E REGINA

Marcolfa. Serenissime Corone, ritrovando qui ambedue loro, m'è intervenuto come a quell'uccellatore, il quale, tendendo una pania, prese due uccelli. Eccomi, o Regie Corone, a chieder loro licenza per tornarmene con Cacasenno a casa, poiché il dimorar quivi porta molto incomodo alla famiglia nostra; sono quattro giorni che siamo fuori e perciò, con loro buona grazia, desidero il loro compatimento.

Re. Volendo voi tornare a casa per le ragioni addotte, me ne contento, sebbene il vostro restar quivi qualche giorno ne sarìa gustoso.

Marcolfa. In tutte le azioni moderne piace la brevità e poi il suddito non deve domesticarsi con il Prencipe alla lunga, perché talvolta non è di vena, e gl'interviene quello che successe del gatto col topo, che scherzando un pezzo, infine al topo viene strucato il capo. Mio marito usava dire che l'aver amicizia col Prencipe, è come un fuoco d'inverno: non accostarvisi tanto che ti scotti, né star tanto lontano che non ti scaldi, ma tenersi così alla mezzana.

Re. Questi accidenti mai scorreriano nella persona vostra, conoscendovi noi per donna sincera; perciò, volendo andar, di nuovo me ne contento, ogni volta che la Regina se ne compiaccia..

Regina. Mi contento, con patto che in capo d'un anno torniate a rivederci con Cacasenno. Dico bene, che se non fosse gl'interessi della famiglia che dite, vorrei veniste ad abitar con noi.

Marcolfa. Credami certo, Serenissima Regina, che se lasciassi quella nostra buon'aria scoperta di montagna, bere di quelle nostre acque, e mangiar cibi grossi, per venire ad abitare in questi luoghi serrati, ber vino e mangiar cibi delicati, in breve cadrei in qualche indisposizione; sì come, s'io abitassi in Corte, io che son donna che procedo con ogni schiettezza d'animo, non potrei compatire tanti Cortigiani interessati ed adulatori, che sogliono praticar la Corte.

Regina. E come conoscereste questi tali?

Marcolfa. Ben avendoli dipinti al naturale in alcuni terzetti, osservati da mio marito, mentre conversò in Corte: e me li son tenuti a memoria.

Regina. Questi terzetti voglio da voi sentire.

Re. Senz'altro, perché devono esser molto belli.

Marcolfa. Sono contenta di recitarli, ma vorrei vi fossero di continuo alla memoria.

Regina Diteli pure.



CAPITOLO DEL CORTIGIANO VIRTUOSO E DELL AMBIZIOSO

Scrive un Poeta, che volea dir Morte
    Chi disse Corte; ed io tengo opinione
    Ch'ei scrisse Corte, e si servì di Corte.
A questa Morte dunque due persone
    Corrono volontarie, il Virtuoso
    Cingendosi di Corte il pelliccione;
A par di questo viene l'Ambizioso,
    Con quattro cerimonie da Simone,
    S'affibbia, corre al piede baldanzoso.
Quel che lo dice, o ha detto, è un bel babbione
    Già non lo dica più, si deve usare,
    Invece di Simone, dir Simmione,
Al Virtuoso suol significare
    Quel Corte, brevi son le tue speranze,
    Studia se sai, che sempre hai da stentare.
All'Ambizioso poi quelle creanze,
    Che sono tutte finte adulazioni,
    Quel correr gli fa aver buone sostanze.
Corre alle risa, corre alle finzioni,
    Col riso al labbro dir e poi ridire,
    Corre il vigliacco alle sollevazioni.
Uno di questi, stiano un poco a udire:
    Se il Padron dice: ho fame, ed egli appunto,
    Egli è passata l'ora, or fo amanire.
Se l'altro giorno, nell'istesso punto,
    Dice il Padron: non ho fame sì presto:
    Il tempo del mangiar non è ancor giunto.
Se il padron dice: olà! eccolo lesto
    Con la berretta in man, che sia frustato,
    Che 'l veste la mattina, e vada il resto.
Un tiro in questo tal assai notato,
    Sputando il suo padron sul pavimento,
    Col piè (appena sputò) che fu scazzato.
S'è detto assai, mutiam ragionamento.
    Un utile pensiero a dir mi vaglia:
    Il Prencipe che viver vuol contento,
Si levi dall'orecchio tal canaglia.

Marcolfa Questo è il Capitolo promeso, e tanto basti.

Re. Veramente è degno di considerazione. Intanto la vostra conversazione mai non porterebbe tedio.

Regina. Non mi avete dato risposta a quello che vi ho detto di tornarci a vedere in capo dell'anno.

Marcolfa. Se mi sarà concesso tanto spazio di vita, glielo prometto senz'altro.

Re. Orsù, intendo che gl'interessi vostri non comportano stiate fuori di casa e dei monti: vi diamo quindi buona licenza di andare e stare a vostro beneplacito; Erminio, va, piglia dal nostro Banchiere duecento fiorini, e dalli qui alla Marcolfa, che gliene faccio un presente, e per dimattina fa porre all'ordine la Lettiga per farli condurre in montagna.



MAGGIORDOMO, SOLO

O gran cecità d'alcuni Signori, i quali dànno così largamente a' Buffoni; vedete trascuraggine grande di questo mio Signore: donare duecento fiorini a questo scimiotto per quattro scioccherie, e talvolta un Letterato, un Poeta, un Musico, o altro virtuoso, gli dedicherà un corso di sue laboriose fatiche in Stampa, e ne sarà appena ringraziato con una lettera piena di vento per fabbricarsi vari castelli in aria, che altro non gli portano in borsa che volontà e speranze, tutte monete da laggio, che manco sono sufficienti per comperarsi una soma di legna da scaldarsi la vernata nei loro faticosi studi.

Mentre detto Maggiordomo sen va dal Cassiere per farsi numerare li fiorini, e poi dar ordine al Lettighiero che la mattina per tempo sia in procinto per condurre a casa loro questi due personaggi, intanto la Marcolfa fece i complementi.



MARCOLFA, RE E REGINA

Marcolfa. Or qui conosco apertamente che le Regie Corone loro, non solo sono nostri Signori, e Patroni, ma certi amici sicuri benemeriti.

Re. Voi dite che ne riconoscete per certi amici; e come intendete questa parola certi, e non dite veri?

Marcolfa. Perché vi sono amici ancora incerti.

Re. Di grazia, dichiarateci questa differenza.

Marcolfa, Sentitela in questa ottava.

Tanto è il ben (disse un Dotto) che non giova,
Quant'è il mal che non noce; ognun stia all'erta.
Amico di proferta ben si trova,
Qual sempre stassi con la borsa aperta;
Ma se tu vieni all'atto della prova,
Chiacchiere e barzellette alla scoperta,
Il vero amico è quel, quand'è in grandezza,
Sovvenir e onorar quel che è in bassezza.

Re. E come si dovria fare a procacciarsi veri amici?

Marcolfa. Le vere amicizie sono quelle che sono fondate nelle azioni virtuose; ma quelle che sono fondate nelle viziose durano poco, e da amici si diventa perfidi nemici; le amicizie che si conoscono di mala pratica si devono fuggire, atteso che se un uomo pratica con un cattivo acquista anch'egli lo stesso cattivo nome, e spesso, dice il proverbio, le male amicizie fanno rompere il collo; queste tali amicizie sogliono cagionare, di un gran amore, un intensivo odio, e venendo alla pace, non si deve più seguitare intrinsichezza; perché talvolta i viziosi di mala natura perdonano, ma non si scordano; il meglio è che ognuno faccia i fatti suoi, senza intrinsicarsi; e se alle Corone loro non porto tedio, racconterolli una moralità.

Re. Di grazia, raccontatela, intanto che il Maggiordomo verrà con i duecento fiorini.

Marcolfa. Quell'anno appunto che Berta filò le braghe al gallo, riferiscono Esopo, Tansillo, Doni ed altri scrittori, che tutte le bestie sapeano parlare, e tra di loro faceano amicizie e disamicizie, insomma negoziavano di quanto era loro necessario. Nell'istesso anno trovavasi la Volpe odiata da tutti per aver ingannato con le astute malizie e ladronecci ormai tutto il mondo. Ritrovandosi priva d'amici e perseguitata a morte, s'incontrò nel Cane di razza mastina, il quale volendosi avventare addosso di essa per ucciderla, lei trovò una buca e dentro vi si nascose, nella quale entrare non poteva il Cane; tuttavia, vedendosi assediata, pensò nuova astuzia, e con le sue belle parole disse: Dimmi, il mio bel Cane galante, perché mi vuoi uccidere? Venivo per conferir teco un mio pensiero, il quale è per sortire in tuo favore; però desidero che tu deponga lo sdegno e mi ascolti. Allora il Cane, sentendosi lodare e dire che desidera trattar seco un negozio il quale risulta in suo favore, diss'egli che volentieri era per ascoltarla. La Volpe soggiunse: So, il mio Cane galante, che ti sono note tutte le furfanterie che sino al giorno d'oggi ho commesse; però ti prometto, da quella che sono, esserne pentita, e da qui avanti vivere senza offesa d'alcuno. Io ora venivo a trovarti perché so che tra tutte le bestie tu tieni il nome di fedeltà, ond'io, sperando di trovare in te fedeltà, o pietà, ti dico che io sempre ho compatito il tuo stato, poiché giorno e notte bisogna che tu sii vigilante al la casa del tuo Padrone, se vuoi vivere, e quando hai bene travagliato tutto il giorno, alla notte, in cambio di riposare, ti bisogna vegliare e invigilare; poverello, certo del tuo stato crepami il cuore di compassione. Ora, come ti ho detto, pentita di tutte le mie scelleraggini, vorrei pigliar teco amicizia, e che tu mi introducessi in tua compagnia alla guardia della casa del tuo Padrone. Tu di giorno farai la guardia, ed io la sentinella di notte. Desidero intanto ne facci motto col tuo Padrone, e mettergli in pensiero l'utile della sua casa mentre avrà due guardie amiche e confederate. Allora il buon Cane, non considerando che la pratica di così maliziosa bestia gli sarebbe tornata in danno fin della vita stessa, le disse: Esci dalla buca, che ti do la zampa da bestia onorata di non offenderti, e di parlare al mio Padrone, e far che t'accetti in mia compagnia per guardia delle sue sostanze. Allora la Volpe uscì fuori dalla buca sotto la sua parola; e intanto, questi due nuovi amici si inviorno alla casa del Cane, e giuntivi, il Contadino, che vide la Volpe, subito prese una falce e corse alla sua volta per ucciderla; la Volpe, tutta mansueta, non fuggì, non si appiattò dopo il Cane, il quale, quietata l'ira del suo Padrone, tanto li seppe ben dire, che il buon Contadino gli promise tenerli ambidue in casa per guardia, con provisione di quattro pani al giorno ed una catinella d'acqua per ciascuno, con le ossa della carne, ed altre incerte regalie che correranno alla giornata. Fatto il patto, il negozio s'incamminò per due o tre giorni con molta soddisfazione del Contadino, del Cane, e della Volpe. Questa maliziosa bestia, essendo avvezza a mangiar galline, capponi, pollastri, da lei rubati nei gallinari, non si poteva assuefare a quel pan nero pieno di mistura, onde con bella destrezza un giorno, trovandosi a ragionamento con il Cane, così cominciò a dire: Cane mio fido compagno ed amico, poiché quivi siamo insieme a ragionare, vorrei dirti quattro parole, con patto che tu mi dia la zampa di non ne far motto ad alcuno, le quali parole ritornano in nostro utile. Allora il Cane le disse: Dotti parola da vero amico d'ascoltarti, ed anco di non manifestare a niuno quello che sei per dirmi, sicché scopri pur l'animo tuo liberamente. Soggiunse la Volpe: Tu vedi, il mio Cane, il nostro misero stato; non dico che il nostro Padrone non ne osservi quanto ne ha promesso, tuttavia, per mangiar comunemente pane di mistura, siamo diventati magri come due lanterne; tu sei un bel Cane, ma la magrezza ti guasta; se tu ti vedessi, poveretto, ti si conterebbero tutte le costole; però, vorrei che pigliassi il mio consiglio. Io so benissimo che sei pratico di questa Villa, e, quando vai fuori il giorno col Padrone, hai la pratica delle case e dei Contadini; io pertanto la notte quando il padrone sta a dormire vorrei che andassimo quando ad una casa e quando ad un'altra a buscarsi un paio di galline; tu m'insegnerai i gallinari e mi farai la guardia ed io destramente anderò a far l'effetto; e poi dopo al nostro pagliaro le mangeremo. Qui nella Villa vi sono assai case, ogni notte muteremo, e così molti giorni staremo bene, e nissuno se ne potrà accorgere; tu, che non sei di sospetto, il giorno anderai a far la scoperta, poi la notte in compagnia anderemo a far l'effetto. Il Cane, a queste belle paroline, ed anco lasciandosi tirar dalla gola, calò al consentimento, ponendolo ad effetto. Poche notti stettero bene alle spese di tutta la Villa; intanto le Donne di detta Villa, discorrendo tra loro, una disse: Non sapete le mie Donne? questa notte mi è stato rubato un paio di galline. Disse un'altra: Ed io la notte passata; e così tutte lamentandosi, dissero voler tender trappole e far la guardia per vedere se potessero venire in cognizione dei malfattori. Mentre ciò ragionavano tra loro, il Cane, che andava in ronda per ispiar questi motivi, vide le preparazioni che si ordinavano contro loro, onde n'avvisò la Volpe, la quale disse: Noi non ci torneremo più; intanto ci siamo un poco ingrassati, torniamo pure al nostro pane misturato. Il Cane si mise al vivere primiero; ma la Volpe maliziosa, che non poteva stare alla vita di quel pane, essendo avvezza a scialacquare, trovò una nuova astuzia: la notte andava al gallinaro del Padrone, e mangiava una gallina. Fatto il simile per quattro notti, disse: Qui non è tempo di starsi con la mano alla cintola; se il Padrone fa rassegna delle galline a me dà la colpa, onde il Padrone, ovvero il Cane mi ammazzano senz'altra remissione. Pertanto se ne andò in casa, e trovato il Padrone, dissegli che voleva dirgli quattro parole in secreto, ed avuta parola di secretezza così disse: Veramente, Padrone, resto molto soddisfatta della virtù mia, e vengo trattata molto più che non comportano i meriti miei; tuttavia, poiché mi prometti secretezza, sono per scoprirti un furto che ogni notte si fa nel tuo gallinaro. Disse il Contadino: E che furto è questo? Rispose la Volpe: Il Cane del quale tanto ti fidi ogni notte si busca una gallina, e dove la porti e che ne faccia io non lo so. Replicò il Contadino: Ed è vero quello che dici? Verissimo, disse la Volpe, e volendoti chiarire, non far alcun motto di sospetto, vattene al gallinaro, e fa la rassegna, che vedrai la mancanza e questa sera ti farò vedere il Cane con il furto addosso. Il Contadino intanto, irato con il Cane, restò in appuntamento con la Volpe di volersene chiarire. Licenziatasi pertanto la Volpe, che non le pareva tempo di dormire, ritrovò il Cane, e tirandolo in disparte così gli disse: Il mio Cane da bene, io ti ho preso tanto amore, che un'ora non posso stare senza vederti; il nostro andare ai gallinari più non è bene, se non vogliamo lasciarci la pelle; io per me mi muoio di volontà che noi mangiamo un paio di galline. Rispose il Cane: E di quali? Replicò la Volpe: Di quelle del nostro Padrone, che per così poco numero non se ne accorgerà, ed avvedendosi negheremo, e con chiacchiere gli daremo ad intendere il bianco per nero; io questa sera le ammazzerò e le porterò sotto il pagliaro; tu colà vattene, e portale nel fosso qui sotto la nostra casa, ed io verrò e le godremo. Il Cane si mostrò ritroso un pezzo; ma l'astuta Volpe tanto l'imbrogliò che restarono d'accordo. Venuta la sera la Volpe fece vedere al Contadino il passaggio del Cane con una gallina in bocca, del che ne prese tanto sdegno che il dì seguente, dormendo il Cane sull'aia, fu miserabilmente ammazzato dal Contadino con un'archibugiata. Quando la Volpe vide così tragica risoluzione, disse: Non è più tempo di star in questo paese, perché in breve interverrebbe a me il simile, conoscendo la mia mala natura; e perché non sapeva in qual maniera uscir di quella Villa per il pericolo di perder la vita, di nuovo trovò il Contadino, e dissegli: Ora che ti sei levato davanti il Cane, che non contento del pane, ancora ti rubava le galline, pertanto, avendo tu conosciuta la mia fedeltà, desidero servirti per Cane; voglio che tu scortichi il Cane ed acconciata la sua pelle la notte me la ponghi intorno, che i ladri, credendomi il Cane avranno paura, sebbene non abbaierò, e sarà meglio, perché dicesi per proverbio: Cane che abbaia non morde, onde avranno più paura; così tu avanzerai il pane e la tua casa sarà guardata come prima. Al Contadino gli parve buon partito, e pose la pelle del Cane indosso alla Volpe, e lei maliziosamente la notte che seguitò gli mangiò un paio di galline, e con quella pelle di Cane se ne fuggì in altro paese a tramare nuove astuzie. La mattina levatosi il Contadino, e non trovando la Volpe, e vedendosi mancar le galline, di quivi scoperse quanto era successo, esserne stata cagione la maliziosa Volpe; onde disse tra sé: Mi sta molto bene; così interviene a chi piglia pratica di gente viziosa, la quale fa precipitare chiunque con loro conversa, e son sicuro che il mio povero Cane è morto per malizia di detta Volpe, che l'avrà con qualche trappola ingannato. Onde il Contadino si prese tanto disgusto di aver ucciso il suo Cane, che per molti anni gli era stato fedelissimo custode, che anch'egli in pochi giorni finì la sua vita. E questo è il fine della Favola del Contadino, Cane e Volpe, promessa di raccontare alle Regie Corone loro.

Re. Veramente, Marcolfa, la favola non solo è gustosa da sentire raccontare, ma di grandissimo utile a quelli che si lasciano sviare da pratiche viziose e di mala nominanza, le quali fanno verificare quella sentenza che disse: Le male pratiche conducono l'Uomo al macello; intanto il nostro Maggiordomo è venuto con i fiorini, godeteli per amore nostro, e ritornateci a vedere, secondo la promessa; questa notte dormirete in Palazzo e dimattina ve n'andrete in Lettiga per più comodità a casa vostra, dove Bertoldino e sua moglie vi devono con desiderio stare aspettando.

Regina. O che graziosa favola, degna di gran considerazione! alla gioventù in particolare; una sol cosa desidero saper da voi, Marcolfa: da che procede che i Prencipi hanno tanti amici.

Marcolfa Alle persone grandi tutti si mostrano amici, sì, ma sono amici d'interesse, chi per adulazione, e chi per timore. Notate queste quattro belle sentenze e ciò vi basti:

Tal in presenza ti unge, che in assenza ti punge.
Tal ti loda in presenza, che ti risloda in assenza.
Nelli stati felici, ritrovi tutti amici.
Ma se fortuna volta, ognun suona a raccolta.

Giunto il Maggiordomo sborsò a Marcolfa i duecento fiorini, e la Regina levossi dal dito uno smeraldo legato in oro e glielo consegnò acciò in nome suo lo presenti alla moglie di Bertoldino; onde Marcolfa, il tutto ricevuto, così disse:



MARCOLFA

Serenissime Corone, tra le belle cose che raccontava mio marito, questa in tal proposito parmi bellissima. Diceva che Alessandro Magno un giorno donò a Senocrate Filosofo una quantità d'Oro, ed egli lo rifiutò. Quest'azione da molti fu lodata; ma non da Alessandro, anzi sommamente biasimata, poiché le ricchezze non si devono desiderare per cupidigia, ma servirsene ne' suoi bisogni necessari, e dell'avanzo praticar la virtù della Liberalità. Onde il Filosofo ricusando il dono ingiuriò Alessandro e pose sé stesso in miseria, né giovò ad alcuno. Io intanto delli fiorini, con il smeraldo da portare a mia Nuora, ne ringrazio le Regie Corone loro, e piglio l'ultimo congedo augurandole sanità, felicità, vita lunga e prosperità, con tutti quei beni che umanamente si possono desiderare.

Restarono grandemente meravigliati il Re e la Regina dell'eloquenza di Marcolfa, né la giudicorno Donna montanara, ma sì bene abitatrice della montagna, la quale ben dava saggio che fu moglie dell'astuto Bertoldo, tanto celebre al mondo. Intanto la mattina per tempo, Marcolfa e Cacasenno furono condotti in Lettiga alla Casa loro in montagna, ed al ritorno il Lettighiero diede minuto conto alle Regie Corone dell'allegrezza che fecero al loro arrivo Bertoldino, Menghina, i Cani, i Gatti, le Galline, le Pecore, i Porci, con tutti i Montanari e bestie di quel luogo; ma molto più fu allegro Bertoldino quando sentì il suono delli fiorini d'Oro, e Menghina in ricevere il bel smeraldo, onde vinta da soverchia allegrezza non si poteva saziare di abbracciare e far mille carezze e vezzi al suo bel Cacasenno. E perché la Marcolfa, sebbene Donna abitatrice della montagna, sapeva nondimeno leggere e scrivere, alla partenza del Lettighiero gli diede un piego per presentare in nome suo al Re e alla Regina; il che fu eseguito; e giunto che fu il detto Lettighiero in Corte, presentò il piego al Re, ed appena che lo ricevé se ne andò dalla Regina, dove con grandissimo loro gusto e diletto lessero il contenuto:

Serenissime Corone, salute.

Al ritorno che fa il Lettighiero alla Corte, a me par termine di creanza dar contezza alle Regie Corone loro del nostro felice arrivo, ed insieme l'allegrezza che hanno sentito il mio Figlivol Bertoldino e Menghina mia Nuora de' donativi a noi fatti, delli quali le ne rendiamo grazie infinite. Di Cacasenno non ne scrivo, stante che il Lettighiero essendosi partito questa mattina a buonissima ora, ed egli stava in letto che dormiva. E questa servirà per picciola ricognizione, con che do fine: e con tutta la nostra famiglia le preghiamo felicità, ecc.



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