Emilio De Marchi




IL SIGNOR DOTTORINO







La bella strada che costeggia il lato destro del lago di Como, poche braccia al di sopra delle acque, segue le sinuosità della scogliera, ora abbassandosi con dolce pendio fino al letto d'un torrente, che scavalca, ora elevandosi a raggiungere l'altezza d'un dosso ed ora nascondendosi fra le case di una borgata, che discendono fino al ghiaieto. Le ville e i casini con nomi allegri o mesti, secondo ricordano un voto compiuto od una sventura, sfilano quasi in catena non interrotta, dipinti, sospesi, nascosti, rannicchiati, a solatío, su per le radici dei monti, che ripidi e coperti di poco verde s'inerpicano fino all’altezza delle nubi. Sull'ora del tramonto quando l'onda ha meno dell’azzurro del sole e acquista piú del ferrigno, quando suonano campane invisibili e del sole non restano che le ultime pennellate sanguigne sulle cime delle Alpi, quando sembrano piú rumorosi i torrenti, piú querule le ondate che si frangono alla riva, piú melanconiche le note d'un piano fuggenti da una finestra aperta ove si agita un'ombra - sull'ora del tramonto qualche amico de' libri siede alla sponda a far nulla. Osserva il cielo e l'acqua, il muschio e il lichene dello scoglio, una frotta di pesciolini, e finalmente se ha una fanciulla lontana sente piú ardente che mai il desiderio di vederla in quell'ora, tra quel bisbiglio di suoni e quel miscuglio di tinte vaporose, in quella penombra che facendosi man mano piú fissa versa tanta malinconia nell’anima.


Non affatto diversi erano i pensieri che passavano nella mente del dottorino, mentre passeggiava sulla bassa ora d'un giorno di settembre lungo il tratto di strada che da Moltrasio va a Torriggia.

Dottorino era chiamato dalla gente dei dintorni or sono molti anni un giovane medico d'uno di que' paesi, studioso e valente, ma ancor piú stimato per la nobiltà del suo carattere e per l’affabilità del suo tratto.

Da due anni esercitava l'arte sua in que' luoghi fortunati, e la dolorosa via crucis della condotta era per lui piuttosto una perpetua campagna; infatti il clima è mitissimo, i malati pochi, e fra quei pochi de' ricchi stranieri venuti a mendicare al dolce far niente un po' di salute. Chi ha la fortuna d'una gioventù sana cerca alla bella natura o la consolazione d'un affanno, o l'oblio d'una colpa, o la meditazione dei casi andati, o le idee d'un libro, o lusinghe d'amore; il buon Lario, co' tremolii riflessi, colle calme profonde e col variare dei cento azzurri ha una parola per tutti. Per il povero pescatore ha invece de' buoni agoni e de' lucci saporiti e tratto tratto qualche rabbiosa tempesta, che sprigionatasi dal Bisbino, piomba tra le gole a spezzare un remo e ad uccidere un padre di famiglia. Ogni bella ha le sue stizze.

Il dottorino tornava verso casa, ma fosse la sera che gli piacesse, colle pallide luci e col molle spirare della brezza, o fossero i pensieri che gli facessero ingombro, si appoggiò a un muricciuolo che difendeva la strada in un punto solitario e fissò lo sguardo alla villa Pliniana, sulla riva opposta, che spiccava come una macchia bianca di calce nel nero bigio del ceppo e nel verdone dei boschi. Ma egli non pensava a Plinio e nemmeno al fenomeno della fontana intermittente e nemmeno alle fresche ombre e alle cascate che stillano piú che da mill'anni da que' classici tufi. Un altro giorno forse si sarebbe smarrito alla contemplazione delle ninfe e delle naiadi che insieme alle belle di Roma avevano popolato la deserta riva, care ai naviganti; ma quella sera tutta quanta la gentilezza dei pensieri si raccoglieva sull'immagine unica di Severina, che egli aveva veduto pochi istanti prima e della quale gli titillava ancora nelle orecchie il dolcissimo “buona sera!”

Chi era Severina? - La figlia del barone Adriano Siloe, venuto dalla Toscana due mesi prima ad abitare un villino svizzero, oggidí distrutto per cedere il posto a un massiccio albergo, e che per la tranquillità del sito veniva chiamato il Ritiro.

Il dottore sapeva che Severina aveva capelli castagni chiari, occhi del colore de' capelli, volto delicatissimo soffuso d'una tinta leggermente accesa, una testa fatta al pennello sottile, senza eccessi di carne e di luce, quanto bastava insomma perché Severina fosse creatura di questo mondo.

Il dottorino le sapeva queste cose per essere solito ogni giorno passar sotto il Ritiro, a cavallo, tornando dalle sue cure e fors'anche per segrete ricerche che aveva fatto. Ma perché Severina salutasse lui tutte le sere e sorridesse al suo passaggio, perché ieri avesse scosso un fazzoletto, perché oggi avesse lasciato cadere un garofano rosso dal davanzale sulla via, erano problemi che invano cercava risolvere a memoria fissando l'occhio nell'ombra.

Egli esitava a pronunziare un giudizio che fosse troppo acerbo, perché que' sorrisi e quelle grazie gli erano, dopo tutto, carissime; gli pareva anzi che un po' di franca audacia non dicesse male a una bellezza cosí solitaria; oppure s'ingegnava di supporre in lei un'anima fanciullescamente inesperta, che sconoscendo le vecchie regole del decoro sociale, si abbandonava senza rimorso alla libera manifestazione d'un sentimento vergine, tal quale veniva da natura; oppure essa era la vittima di una ferrea disciplina, condannata forse dal rigore paterno a vita serrata fra le quattro pareti, tra i libri, il pennello e il piano, ma senza un'ora di follia giovanile su per i prati, senza un'ora di conversazione con un uomo di mondo.

Il barone Adriano, giudicato a vista, era uomo freddo e forse troppo lontano per età e per indole dalla giovinezza per sentire queste necessità e per provvedervi. Il dottorino Marco l'aveva incontrato qualche volta per via, fosco in cera, curvo sotto il peso di gravi riflessioni, sdegnoso di tutto quanto lo circondava, segno d'animo superbo e meschino, sempre solo colla noiosa compagnia di sé stesso. Non lo conosceva piú in là, e meno di lui conosceva sua figlia; ma, tornato a casa, stentò a trovare il sonno e voltandosi nel letto andava sospirando come uomo còlto da scalmana.

Per quanto in seguito domandasse alle persone del paese, non gli venne dato di cucire altre notizie, perché il barone non aveva amici, sua figlia non usciva mai, e il vecchio servitore incaricato delle provvigioni parlava un napoletano burbero, ma abbastanza chiaro per dar una lezione di prudenza ai curiosi.

Tutte le sere si rinnovavano le lusinghe: anzi una volta donna Severina, posata la punta delle dita alle labbra, lanciò al lago un bacio, che fece arrossire e tremare il povero Marco; dopo il primo smarrimento, egli prese la corsa su per un viottolo alpestre, non curando i triboli e i ciottoli, cacciato da una folla di fantasmi schiamazzanti, finché cadde sfinito sul sagrato d'un tabernacolo montano; abbrancò l'erba, la strappò dalle radici, e stendendo le braccia al bigio villino che appariva di sotto fra una corona di lauri e di magnolie gridò al cospetto del cielo e della terra: Divina! Divina!

La vita gli diveniva ogni giorno piú nojosa: cogli infermi era spiccio e trasognato, cogli amici collerico, coi libri adirato: amava la solitudine, il languore, e il giacere lunghe ore sotto un noce in cima a un pascolo, cogli occhi fissi al vario movimento delle frasche, all'andare e venire dei pettirossi e dei merli, allo svolazzare voluttuoso d'una farfalla felice piú di lui, perché poteva senza pericolo discender basso basso fino a quel davanzale, dare una volta in quella cameretta destando accenti di amore e di tenerezza.

In quella dormiveglia febbrile andava sognando cento espedienti che lo potessero avvicinare a Severina: tutto gli pareva abbastanza onesto, foss'anche un assalto al suo balcone, un malanno che lo facesse cadere agonizzante sotto la finestra di lei, o un incendio, di cui egli solo avesse il dominio.

Lanciarsi tra le fiamme, salire di volo la scala correre fino a lei sbigottita, afferrarla, discendere con essa per una scala sottile e cinta dalle fiamme, deporla sopra una zolla fiorita, dirle: Tu mi devi la vita! e poi fuggire, e sparire per sempre dalla faccia della terra... ecco le dolcezze sognate nei deliri d'amore all’ombra d'un noce di duecent'anni.

Ma da sé il buon dottorino non sarebbe venuto a capo di nulla; la condizione del barone Adriano non gli permetteva neppure di sognare tanto scioccamente.

Un giorno, il vecchio servo entrò in farmacia tutt'affannato cercando del medico.

- Son qui - rispose Marco, e uscí come una saetta e corse senza perder tempo e fiato, fin alle ultime case del paese. Non osava domandare notizie, per lusingarsi alla speranza di poterle toccare il polso; camminò per un lungo tratto di via senza rompere il fascino dell'ignoto e sol quando fu al cancello della villa si fermò ad aspettare il vecchio che ansava e gli chiese:

- È malata?

- È il gondoliere di Sua Eccellenza, un veneto goloso di ostriche, che vuol morire di indigestione; Zeno dovrebbe sapere che i pesci grossi uccidono mangiando e i pesciolini lasciandosi mangiare.

Gli antichi diedero segno di somma sapienza quando figurarono amore in un fanciullo, perché nessun altro sentimento è tanto irragionevole. Il dottorino desiderava che donna Severina fosse malata, e si rattristò della burla.

Quando attraversò il giardino alla volta d'una casa rustica, appartata, udí la voce di Severina che cantava o meglio trillava sulle note alte, toccando tratto tratto i tasti bassi del pianoforte.

- Non sa la signora che vi è un malato in casa?

- Saperlo o non saperlo, è lo stesso - rispose con nebulosità sibillina il vecchio burbero arrestando i gesti in aria come usano spesso i napolitani.

Il gondoliere guarí, e fatto il solito giuramento e le solite croci contro le ostriche tornò al remo, all'acqua e al vino, specialmente sotto il Grotto del Nino o alla riva di Lemna dove lo si vendeva buono. Ma il dottorino era malato gravemente, e sparsa la voce d'una rabbiosa febbre intermittente scrisse al suo vicino collega, raccomandandogli per quindici giorni i suoi infermi e offrendogli il proprio cavallo; col permesso de' superiori aveva intenzione di andarsene lontano, e presa la via delle Alpi, penetrare nella Svizzera tedesca, spendere un migliaio di lire, salire i gioghi ghiacciati, litigare coi vetturali, colle guide, cogli osti e colle paffute montanare e ritornare finalmente piú povero, piú stracciato, piú bisognoso, ma guarito da quell'amore che minacciava la sua fortuna, e la dignità d'una famiglia illustre. Le intenzioni del signor Marco erano buone; preparata una piccola valigia aspettava il piroscafo della sera, quando il suo domestico gli consegnò un biglietto di visita dicendo: - Egli aspetta.

Il dottore lesse: Barone Commend. Adriano Siloe.



Il barone chinò la testa a un dignitoso saluto.

Egli forse non oltrepassava i cinquant'anni; vestiva elegantemente di nero; scarno era il viso ma di linee belle; alta la fronte con rari capelli, lentissimo il gesto, profonda la voce, ma che tratto tratto si faceva melodiosa quasi rispondesse a sentimenti improvvisamente piú lieti.

- Riesco importuno, signor dottore? - chiese fissando gli occhi al suolo secondo il costume e arrestandosi immobile in mezzo alla stanza.

- Ella mi onora - fu presto a rispondere il dottorino, che non sapeva spiegarsi questa visita inattesa, e aggiunse: - Se avessi saputo, sarei venuto io stesso.

- Grazie, ma la prudenza mi consigliò di prevenirla. - Il tono di voce naturale e conveniente a un uomo di tanto riguardo, parve in sulle prime misterioso e provocante al povero dottorino, onde cominciò a temer forte che il noce della montagna non avesse scosso dai rami qualche segreto.

Sedettero entrambi, e il barone, senza torcere gli occhi dal suolo come se vi leggesse quello che stava per dire, incominciò:

- Sento che ella gode bella fama non solo di medico provetto, ma anche di uomo saggio e generoso, onde, sebbene io disperi degli aiuti della scienza, tuttavia un barlume di speranza brilla ancora in me per quella scienza che ha, dirò cosí, la baldanza della gioventù. Inutilmente ho interrogato i piú sapienti medici d'Europa...

A questo preambolo recitato colla moderazione d'un uomo che pensa quel che dice e al modo migliore di dirlo, il dottorino spalancò tanto d'occhi ed entrò in maggiore curiosità; però, fatto un cenno d'umiltà innanzi a elogio sí ragguardevole, si atteggiò in modo da non perdere una sillaba sola di quelle preziose parole. Il piccolo sospetto natogli in principio, cioè che il barone avesse letto nel suo cuore l'amore per donna Severina, si sciolse da sé stesso, e Marco, osservando il colore olivigno e quasi terreo di quel viso e il corrugarsi frequente di quella fronte, pensò di aver innanzi un illustre infermo.

Ma il barone l'imbarazzò alquanto allorché gli disse: - L'ammalata è mia figlia, donna Severina. Essa è l’immagine viva di un’altra donna che nella mia giovinezza amai e venerai in appresso per piú di vent'anni di matrimonio. Morta mia moglie, mi restò Severina unico amore, unica ragione della mia vita; la mia natura essendo inclinata a melanconia, e la mia mente al dubbio d'ogni cosa, soltanto Severina poté colla soavità delle sue parole e coll'eloquenza de' suoi sguardi indurmi a poco a poco a persuasioni piú sante, o dirò meglio piú umane. Ma Severina da un anno è molto malata.

Il barone corrugò la fronte in un modo strano e trasse un lungo sospiro.

- Posso io... - mormorò premurosamente il dottore, ma anche la sua voce tremava, e a stento gli riuscí nascondere il turbamento che questa notizia aveva gettato nel suo cuore. Il barone con un segno della mano graziosamente lo interruppe ed... - È necessario - disse - che io narri prima la cagione di questa malattia, se lo permette...

- Si figuri.

- Severina fu già fidanzata a un nobile toscano, il conte Giulio - taccio per pietà il nome del casato. - Essa lo aveva conosciuto in una di quelle feste eleganti in cui le giovinette frequenti volte incominciano fra la musica, le danze e i fiori una storia che finisce in pianti e in vergogne. Giovane di acuto ingegno, bello di aspetto, di parola facile e ornata, discreto scrittore, don Giulio era ben accetto anche fra i crocchi nei quali oltre il vano cicaleccio ha pur qualche valore una parola seria e sincera. La fanciulla rispose ai primi sguardi alle prime parolette con quella commozione di tutti gli spiriti, con que' rapidi rossori e quell'immobilità pensosa degli occhi, onde per la prima volta si manifesta l'amore. Essendo però fanciulla savia e schiva dai sotterfugi, venne subito da me, e sedendo, come soleva spesso, sulle mie ginocchia, mi disse: “Papà, io amo.... La fissai e mi accorsi che amava molto. Umide erano le ciglia, accesa la fronte, trepide le labbra e in tutte le membra irrequieta, come se le scorresse l'elettrico entro i nervi.

“Intanto il conte Giulio passava due o tre volte al giorno a cavallo sotto il terrazzo della nostra villa presso Fiesole; io non so negare che in qualche tramonto non gli rispondesse una voce modulata al canto, o uno stormire insolito dei lauri sopra la cinta del giardino, o un saluto indiscreto; mi spiaceva soltanto che il contino non uscisse da quelle incertezze, per verità sconvenienti e pericolose. Ma non tardò molto. Suo padre, il venerando conte Gian Andrea, il fratello del quale fu cardinale di Gregorio XVI, venne regolarmente e come richiedevano le leggi d'onore, da me. Illustre era il casato, secondo i voti del mio cuore, o, se le piace, secondo pregiudizî di vecchia data, che io non intendo però né difendere né accusare, ma che per antica tradizione domestica hanno per me santità di legge. Tra le due famiglie si strinsero nodi di amicizia: inutile il dimostrare come i parenti esultassero, come la città ne parlasse, come Severina corresse a imaginare l'avvenire d'oro. A dieciott'anni ognuno di noi suol ricrearsi un mondo di suo genio, quasi correggendo l'opera di Dio; fatica vana per chi deve ben tosto distruggerlo colle proprie mani e inciampare e seppellirsi nelle sue rovine. Verso la fine del verno notai sulla fronte di don Giulio una nube ostinatamente fissa e in tutto lui un languore insolito, inesplicabile in un giovane della sua età, del suo ingegno, e che poteva col semplice specchiarsi in due pupille conoscere quanto la sua esistenza fosse preziosa e cara. Amava i lunghi ragionari della politica, pendeva precocemente al grave, al triste, e se pur talvolta sforzavasi richiamare gli antichi spiriti, non gli veniva affatto di nascondere interamente l'artificio delle arguzie e dei sorrisi fatui.

“Un giorno mi raccontò d'una certa causa presentata ai tribunali per la rivendicazione di non so quali terre nelle Romagne, per la quale gli era giuocoforza ritardare il matrimonio di qualche stagione; anzi per la composizione di questa causa interessante don Giulio doveva allontanarsi spesso da Firenze, e privava in tal modo Severina delle sue visite preziose.

“Com'era mio dovere, lo spiai, e non fui il primo in Firenze a scoprire la vera causa di queste titubanze. Severina ne sapeva qualche cosa? prima di me aveva scoperta l'immensa noia che travagliava il suo povero amico e ne piangeva in segreto, e veniva a chiedermi spiegazioni con voce straziante, pregandomi d'indicarle in che cosa ella fosse mancata verso don Giulio. Io, naturalmente, sperando sempre in un vicino ravvedimento, andava lusingandola con parole vaghe, le dimostrava come l'esito di quella causa fosse veramente tale da compromettere la felicità di don Giulio. Dovevo forse dirle: Asciuga gli occhi, poverina: egli ama un'altra donna?”.

- Un'altra donna! - interruppe il dottore coll'esclamazione d'uomo che stenta a credere; difatto, secondo il suo sentimento, come si poteva amare un'altra donna dopo aver conosciuto Severina?

Il barone confermò:

- Era costei, - disse, - una celebre cantante francese che in quella stagione aveva trionfato per bellezza e per arte al teatro della Pergola; don Giulio aveva fatto a fidanza della propria virtù e sebbene non venisse a quest'altro amore per malanno, sebbene lottasse per onor delle armi co' propri scrupoli, qual vantaggio per Severina? La città intanto ne sussurrava colla solita compiacenza.

“Non da padre sdegnato, ma da umile supplicante scrissi una lettera al vecchio conte, che mi rispose cortesi promesse, ma dalle quali traspariva un amaro cordoglio. Don Giulio, che non osava lasciar la mia casa, fidandosi nella nostra cecità, tornò con varie pretese sí indiscrete alle quali io non poteva cedere senza offendere Severina e l'integrità del mio nome. Evidentemente egli cercava un pretesto per rompere ogni promessa, e fra noi due si scambiarono parole asprissime. Severina n'ebbe sentore, si meravigliò che don Giulio s'arrestasse innanzi a qualche articolo di contratto nuziale, ma non mi avvidi che ella conoscesse ancora la dura verità. Perché non le giungesse sgarbatamente qualche voce della cronaca cittadina la condussi meco a Livorno, ove abbiamo una vecchia parente. Ella mi seguí docilmente, e quando ci trovammo soli, lontani dai luoghi testimoni della prima felicità, ella mi si abbandonò piangendo al collo e mi disse: Padre, perdonagli; cedi alla sua inesperienza; io lo amo...

“Terribile momento fu quello, dottore; la parola crudele mi corse alla lingua, litigò fra i denti, ma temendo che Severina non mi cadesse morta ai piedi o che smarrisse la chiara coscienza di quelle virtù per cui sua madre era tanto benedetta, preferii comparire io stesso come il gran colpevole e promisi ravvedermi. Le narrai minutamente la storia del nostro diverbio; le dissi come, impaurito per l'esito fatale di quella sciagurata causa, io secondava di malgrado quel matrimonio, ma, dal momento che ella ne soffriva, avrei fatto ampie scuse all'amico; insomma mentii per la prima volta in vita mia, ma trassi piú sicuro il respiro quando vidi tornare un sorriso di speranza sulle labbra di Severina. Ma perché l'aveva io tornata alla speranza? perché le andava promettendo che don Giulio sarebbe arrivato di giorno in giorno? io temeva dire la verità, ma qual beneficio era mai il mio infingere? Lottava come uomo che sta per affogare: ad altre mie lettere non si rispose piú da Firenze: Severina era angustiata, seccante, insistente.

“Una mattina essa sedeva al balcone, gli occhi fissi al mare, donde io avevo molte volte promesso che don Giulio sarebbe arrivato. Aveva tra le mani una lettera d'una sua amica, maritata da un anno, la quale col diritto dell'esperienza si faceva ardita di darle consolazione e avvertimenti non chiesti. Un poscritto diceva: "Egli è partito per Parigi; sei benedetta da Dio, Severina". Severina guardava fisso il mare, come se volesse scoprire lontano lontano le coste di Francia; una povera cameriera, messa alle strette, aveva narrato tutto”.

- Mio Dio! - esclamò sottovoce il dottore.

Don Giulio aveva seguito il corso della sua stella e andava incolpando me d’intolleranza e d’avarizia.

- Il barone cosí dicendo sorrise amaramente.

- Posi una mano sulla testa della fanciulla, che levati gli occhi, mi sorrise mestamente. Era bella, giovane, innamorata, semplice ne' suoi affetti come una bambina e non sapeva persuadersi di quanto le avevano narrato.

“Fissava il mare placidamente azzurro, il colore de' suoi pensieri, e non si ricordava che anche il mare ha le sue orribili tempeste nelle quali si frangono le piú belle opere degli uomini. Ella non saliva tanto alto nella considerazione del male, ma io, caro dottore, io che teneva una mano sul di lei capo, che nella vita ero passato attraverso dure esperienze, che mi vedeva offeso e tradito nella parte migliore di me, non seppi raffrenare un urlo di rabbia feroce, come di belva, a cui ella si scosse e rispose con un grido...

“Ah! dottore, odio gli uomini; odierei anche Iddio, se lo conoscessi!”.

Il povero dottorino chinava la testa mortificato, come se di quella storia egli fosse un po' colpevole: osservò di sottecchi l'aspetto del barone e n'ebbe tanta compassione che per poco non ruppe in singhiozzi.

Dopo un istante, nel quale si udí persino il rumore del pendolo sul camino, il barone ripigliò:

- Da quel giorno Severina è malata e la scienza mi rifiuta ogni consolazione. Quel giorno che ella avesse chiusi gli occhi io tornerei alla mia libertà, e...

- Non lo dica, signore...

- Non sono avvezzo a promettere senza mantenere: quel giorno mi ucciderei.

- Ringrazio Dio che il signor barone non sia tutt'affatto deluso della scienza.

- Voglio morire, s'intende, senza l'ombra d'un rimorso. - Le risposte del barone erano brevi, decise e pronunciate a testa bassa.

- Se è vero che per volontà degli uomini avvengono spesso dei miracoli, io voglio tentarne uno - disse il dottore colla sicurezza dello scienziato.

- Ella avrà piena libertà in casa mia.

Il dottorino, preso, non so come, da un vago presentimento che in quell'incontro vi fosse la mano di Dio, si fece animo e interrogò il barone sopra alcuni particolari della malattia, dicendo:

- Forse donna Severina sentí il contraccolpo di quella sventura nel sistema nervoso, o ne patirono i bronchi, o...

- Dottore - interruppe ruvidamente il barone - non ho ancora detto che Severina...

Il povero padre si coprí il volto colle mani, e ritornato a poco a poco all'abituale sua freddezza, seguitò con voce calma e quasi indifferente: - Non ho ancora detto che Severina è pazza?

Il dottorino balzò in piedi e gli parve che precipitasse la notte.


Severina era pazza! il povero padre non sapendo resistere alla pietà di quel racconto, piegò la testa sul petto e strinse i pugni quasi sfidasse il proprio destino, mentre poche lagrime gli solcarono, suo malgrado, le guancie. Il dottorino invece mosse qualche passo per la stanza, ricordò rapidamente tutte le grazie di Severina e i suoi inesplicabili sorrisi, crollò la testa sbalordita per quella notizia e stette alcun tempo incapace di trovare parole che non tradissero i suoi segreti innanzi al barone. Finalmente, usando una vecchia frase, esclamò:

- Dio solamente può consolare questi dolori.

- Dio! - replicò con asprezza il barone - difatto non può essere che un Dio quei che ce li manda.

- Sia pure! se vinceremo la prova, questo Dio sarà qualche cosa meno di noi - osservò il nostro dottorino con parole piú gonfie e che nella loro misteriosa nebulosità velavano assai bene il vero stato dell'animo suo. Ma venendo all'argomento aggiunse: - Non senza trepidazione, confesso, oso tentare anch'io un esperimento che ha già deluso i piú dotti; ma se mi regge l'animo gli è perché qualche volta gli uomini sono preziosi non per la loro speciale virtù e sapienza, ma per la condizione speciale in cui si trovano rispetto agli altri. La formica non gareggierà coll'elefante, ma nel caso di appiattarsi ognuno di noi vorrebbe essere formica.

- E quali sarebbero queste condizioni?

- Sono eventuali, né io le conosco.

Il dottorino avrebbe voluto aggiungere: l'amore è maestro, l'amore rende audaci e presuntuosi anche i piú timidi; ma tutti questi pensieri non si manifestarono che in un mesto sorriso, onde il barone che sentí tremar la mano di lui nella sua, gliela strinse cordialmente e disse: - Ella mi riconcilia quasi con gli uomini. Quando verrà a veder Severina?

- Quando ella vuole.

- Per non darle sospetto venga domattina a colazione da noi; io lo presenterò come il figlio d'un mio vecchio amico.

- Benissimo.

E cosí si lasciarono. Il dottorino, restato solo, cominciò da capo a passeggiare su e giù, in lungo e in largo per la stanza, tirato dal filo delle sue idee, inconsapevole di tutto ciò che avveniva fuori di lui, anzi in gran parte ignoto egli stesso a sé, finché stanco e col capogiro sedette presso la finestra. Sul ponte si raccoglievano già i crocchi di coloro che aspettavano il piroscafo, dei curiosi, e insieme molte belle fanciulle villeggianti, con abiti freschi e leggieri, molti stranieri dai cappellacci pesti, sul ghiaieto e sulla piazzetta molti monelli scalzi che si rincorrevano alzando il chiasso.

Lo scarlatto acceso degli scialletti di lana, che riparavano le belle spalle dalle punte della brezza, il bianco dei grembiuli e delle cuffie delle bambinaie, il bigio e il verde dei parasoli, tocchi appena da un raggio roseo, le sciarpe e i veli azzurri dei cappellini e dei cappellacci, le tende vergate delle gondole, le bandiere tricolori sulle prore risaltavano dal piano liscio dell'acque, che, splendidamente azzurre, man mano si allontanavano da questa riva mescevano allo zaffiro ombre sempre piú dense, finché finivano all'altra riva, sotto il riflesso dei macigni, in un grigiastro quasi nero.

Tutti questi colori si movevano sotto la luce fuggitiva del sole e allorché dalla punta di Torno squillò la campana si fece piú caldo il bisbiglío, il correre, l'urtarsi dei carri e dei facchini, il baciare e il baciucchiarsi delle donne, sempre piú amorose quando si abbandonano: il piroscafo si avanzava a corsa, poi rallentò l'ansia e a poco a poco, come cosa viva, venne docile e umile a bacío della sponda.

Selmo, il domestico di Marco, entrò in fretta e in furia, ma il padrone gli disse:

- Non parto piú. - Marco stette colle braccia e il volto appoggiati al davanzale, cogli occhi fissi, ma stupidamente fissi su que' colori e sul vivo agitarsi di tanti uomini e di tante cose. In ogni giovinetta gli pareva rivedere Severina; tutte le somigliavano nelle curve dei fianchi, nella dolcezza dei movimenti, nel candore del volto, nelle onde lusinghiere dei capelli; ma tutte queste avevano la coscienza della loro bellezza, dei loro dieciott'anni, e trepidavano sotto quel raggio e allo spirare di quella brezza come arboscelli che sentono la primavera. Invece Severina era pazza, peggio che morta! vive erano ancora le sue guancie, accesi gli occhi, magico il sorriso, ma da quegli sguardi e da quelle labbra scattava un pensiero scemo, vanesio, dolorosamente buffo. - O perché dissipi tanti colori e tanta bellezza, o natura? - esclamò a mezza voce battendosi la fronte.

Il suo cuore si rimpiccioliva innanzi a questa verità, ma ei l'andava contemplando e ripetendo con quella voluttà di strazio che spinge il romito a battersi il petto con un ruvido sasso.

Chiuse gli occhi e imaginò l'istante nel quale ei si sarebbe accostato alla fanciulla, a lei dalla quale avrebbe voluto prima esser lontano le cento miglia; egli avrebbe scrutato fondo in quelle pupille, e toccata quella testa con tutti i diritti che gli dava la scienza. Perché aveva accettato questo esperimento pericoloso?

- Ma alfine - disse direttamente a sé stesso - posso io amarla ancora? quelle grazie che mi fecero innamorare di lei erano funesti segni di follia, e non per me soltanto. Persistere in un sentimento che oggi ha radice soltanto in una materiale compiacenza mi sembra indegno d'uomo onesto. No, no, svegliamoci da questo sogno e contiamola fra le avventure di gioventù.

Quando il dottore riaprí gli occhi il piroscafo era già scomparso e scendeva piú fitta la sera. Gli parve riconoscere la voce del burbero napoletano che parlava sotto la sua finestra con un signore, ma mentre stava per tendere l'orecchio, due colpi secchi all'uscio lo fecero trasalire.

Era il dottor Celestino, suo collega, che dietro suo invito veniva a sostituirlo per quindici giorni. Costui aprí l'uscio con un grosso bastone e gridò fermandosi sul limitare:

- Ohe! Selmo, portami da bere.

Era un giovinotto dell'età di Marco ma per robustezza di membra e per prosperità di salute ne valeva cento. Entrò trafelato, sebbene l'ora non fosse cocente, rosso cotto in viso, colle scarpe impolverate, un cappello molle e schiacciato sulla nuca e una pipa lunga in bocca.

- Come mai? non sei tu partito? - domandò a Marco.

- Mi pare di no.

- Cosa mi hai scritto?

- L'uomo propone e Dio dispone.

- Dio ti benedica, anima mia.

- Tu non giungi importuno perché quindici giorni di riposo mi faranno bene.

- Difatto, mi hai una cera da candela benedetta. Cosa mi fai, Marcuccio? sentiamo il polso: vediamo la lingua... Sporca, sporca - e Celestino tentennava il capo. - Vuoi un mio parere?

- Sentiamolo.

- Prendi moglie.

- Credeva che mi ordinassi del reobarbaro - disse Marco ridendo.

- Questi libri ti assottigliano la vita, asinaccio.

Selmo portò del vino e dell'acqua che Celestino bevette d'un fiato come un pesce che sfuggito dal carniere si rintuffa nel fiume. Poi si spogliò del ferraiuolo, del panciotto e del colletto e col tono d'un prete che canti l'epistola ricominciò: - Questi libri ti assottigliano la vita. Cosa sperate dal vostro studiar giorno e notte? di scoprir l'arte di non morir piú? Bel servizio rendereste, in mia fede, all'egra umanità, togliendole quest'unico sfogo! ah! ah! ai tempi di Galeno si campava forse piú vecchi.

Celestino, come si vede, prendeva la vita piú alla buona e si sarebbe detto, guardandolo in viso, ch'egli avesse scoperto il segreto di crepar di salute. Egli aveva un cuor d'oro, ed essendo per natura inclinevole alla bontà, né sapendo d'altro lato sopportare il fastidio della tenerezza, la disperdeva in risate sonore, in pugni sulle spalle degli amici e in prediche stravaganti che avevano però la virtù di mettere sete al predicatore. Cosí anche il peggior vino gli sembrava discreto.

Marco in confidenza narrò all'amico la storia del suo innamoramento e della visita e dell'invito ricevuto e quando Celestino ebbe inteso il casetto strano non seppe trattenere le lagrime pel tanto ridere che ne fece, e giurò di raccontare la panzana al dottor Pellani, e al sindaco di Vercurago e al curato di Moltrasio; ma il nostro Marco, colto il momento che egli vuotava il bicchiere, gli raccomandò il piú scrupoloso silenzio.

- Come vuoi; - rispose Celestino - comunque sia puoi guadagnare de' bei soldi.

Marco tacque ma non poté nascondere un senso di dispiacere a queste parole egoistiche dell'amico, onde questi sdraiandosi sul divano, e soffiando larghi buffi di fumo esclamò:

- Ho capito, sempre magnanimo il nostro dottorino.

In compagnia cosí allegra, Marco ritrovò il retto senso della vita, il quale spesse volte sfugge a chi col fantasticare va creandosi un mondo che non esiste nella lista dei pianeti.

Al mattino seguente il dottorino camminava verso il Ritiro.

Marco, uscito allo spuntar del sole, trovò le griglie e gli usci del villino ancor chiusi e per ingannare il tempo, che gli pareva lento e nojoso, salí il sentiero che menava al tabernacolo alpestre, dove aveva molte volte pensato a Severina; e di là girò gli occhi ai monti, al lago e al campo sereno del cielo. Credeva di esser guarito, ma l'aspetto di quei luoghi ridestò nuovamente il malanno de' suoi pensieri, che gli erano brulicati in testa durante la notte. La malinconia lo sorprese e a stento frenò le lagrime al rivedere di sotto, fra il verde delle piante, il tranquillo villino dove forse a quell'ora essa dormiva e sognava. Molte volte questo abbandono dello spirito aveva funestato la vita del nostro amico, sia per una falsa coscienza della propria nullità, sia per un'inaspettata delusione, sia per un desiderio immenso di amore e di verità; dalla lotta fra il volere e l'essere scaturivano giorni di amara tristezza, di languida noja, per la quale la vita gli si rimpiccioliva alle misure di un sogno, la natura gli appariva a colori scialbi, le speranze si facevano sceme e fatue, e i grandi travagli della umanità gli stuzzicavano un sogghigno crudele. Scarsi erano questi giorni, ma egli li assaporava ora per ora in un ozioso dispetto, quasi succhiasse il sugo di una vita inutile, penoso e troppo a sé stesso, invocando l'antica sorte delle fate, lo scomparire.

Una parola amica, un guardo benevolo avrebbero bastato a ritornarlo al migliore sentimento di quegli istanti in cui egli inorgoglivasi della propria virtù, fissava il pensiero a tutte le glorie umane, lasciava che il fascino etereo delle idee e della natura lo rapisse ne' suoi giri vorticosi. Allora egli sentiva questa natura, che aveva studiato sui libri, palpitare viva dentro di sé e fuggendo il cicaleggio degli uomini soleva contemplare i vergini pascoli delle alpi, ove un popolo d'erbe e di bruchi ama e soffre; di là sentiva la divinità propagarsi e gli pareva d'esser vicino a scoprire il grido selvaggio dell'uomo nudo, adoratore della madre terra. Ma Severina gli negava questa parola amica e i suoi sguardi vitrei lo spingevano al furore.

Discese a rapidi passi, giurando in cuor suo di essere uomo serio e obbediente al proprio dovere.

Quella mattina s'era messo l'abito nero e i guanti, aveva tocca col rasojo la barba che gli scendeva in due pizzi dal mento; i capelli rovesciati sulla testa lasciavano aperta la fronte alta e senza rughe; era insomma il solito dottorino ma piú bello e piú galante.

Il barone lo accolse in un salottino arredato splendidamente, gli strinse la mano e lo fe' sedere vicino. Severina s'era già levata, secondo il solito, da una mezz'ora e attendeva alla sua toletta:

- Severina - disse il barone - non ha per nulla cambiate le abitudini della sua vita, ma colla mente ella sposta il tempo e lo arresta ora a un momento ora ad un altro del suo passato. Oggi, per esempio, mi parla di don Giulio come di persona incontrata poco prima alla festa della contessa Emma; domani mi racconta ch'egli è passato a cavallo sotto la villa e che l'ha salutata: un altro giorno siede sulle mie ginocchia e mi confessa il suo amore con tanta vivacità, con tanto rossore ch'io non reggo allo strazio. Quando io la condussi sul lago di Como sperai che il quadro diverso della natura divergesse l'ostinato corso delle sue idee; ma ella rivide nel lago il mare, e crede d'essere a Livorno al tempo in cui si ruppero i buoni accordi fra noi e don Giulio...

- Non chiede mai di don Giulio?

- No, perché va ingannandosi da sé stessa. Può avvenire che lo aspetti per qualche ora, ma subito dopo ne ragiona come di persona partita di recente. Soltanto verso sera o nei giorni piú nebulosi si raccoglie in brevi silenzî, arcigna, fosca in viso come se cercasse penetrare le nebbie d'un mistero; ma ne esce spensierata, allegra, siede al pianoforte, disegna, scrive molte lettere a Giulio.

- Poverina! - disse sospirando il dottore.

- Io conservo queste lettere ed ella, dottore, potrà, leggendole, scoprire la legge di questa ragione inferma; vedrà come raramente divaghi dal retto senso delle parole e del pensiero e conversando con lei avrà qualche cosa a imparare.

- Dunque, se don Giulio ritornasse...

- L'ho già pensato - interruppe rannuvolandosi il barone; - ma don Giulio non lo sa, e quel giorno ch'io l'incontrassi sulla mia strada non gli chiederei certamente una grazia. Severina direbbe ch'io ho insultato la sua infelicità.

- Dubito che per altra via si possa giungere a miglior risultato.

- Ho parlato ieri sera di lei a Severina: fra poco essa scenderà a colazione.

- Mi manca il cuore... - disse con fil di voce il dottorino, che si pose a notare non so che sull'album delle sue memorie.

Dalla finestra del salotto vedevasi un largo tratto di lago, di cui la riva opposta stendendosi in giro, popolata di case e di alberi, formava come un lungo braccio di golfo; dagli stipiti delle finestre sporgevano ramicelli di edera di cui era tappezzata la parete esterna, e dal piede spuntavano le teste dei fiori. Mobili intarsiati e vasi d'erbe esotiche negli spigoli, specchi e ritratti rendevano geniale quel salottino silenzioso e profumato; le farfalle venivano e posavano sulle foglie, e si sperperavano quasi scosse dal vento. In questo casino fresco e romito, dove la natura si era lasciata educare dall'arte, ove non giungeva che il rumor dell'onda, o il fruscío degli alberi o il ronzare di qualche ape lavoratrice, un uomo e una donna, giovani e innamorati, avrebbero potuto dimenticare il cielo e la terra e tentare di nuovo la virtù degli angeli.

Cosí almeno la pensava Marco, rimasto solo, mentre il barone era presso la figliola a ricevere e a dare il bacio del buon giorno. Un servo l'invitò nella sala vicina ove era preparata la tavola della colazione: dal balcone scoperse la strada per la quale egli soleva passare a cavallo, col cuore in tempesta e cogli occhi fissi a quel gruppo di oleandri. Staccò una foglia, ma la abbandonò all'aria. Così era svanita la sua felicità.

Fra cinque minuti egli l'avrebbe riveduta, ne avrebbe udita la voce armoniosa, e stretta la mano. Si sforzò di pensare alla sacra missione per cui era venuto, ai lobi del cervello, e agli autori alienisti, che aveva sfogliato, consultato quella notte; e fu sí forte il suo proposito che, quando riudí la voce del barone e uno strascico d'un vestito di seta, stette ritto in piedi senza tremiti, senza titubanze, nella placidezza solenne d'un sacerdote. Forse da un primo sguardo egli poteva scoprire un sistema, od ottenere il dono di un'ispirazione: perciò l'occhio doveva essere limpido, sereno, attento: la mente signora di tutte le sue forze; il cuore non valeva nulla questa volta.

Il barone diceva a Severina: - Tu non lo conosci, ma il figlio d'un mio amico ha diritto alle tue grazie. Caro dottore, presento mia figlia...

Il dottorino s'inchinò: avrebbe dato metà del suo sangue per una parola che lo togliesse subito d'imbarazzo, ma sebbene l'avesse pensata e preparata, alla vista di Severina vestita tutta di bianco si smarrí.

Severina gettò un grido e lasciò il braccio del padre. Severina sorrise, si fregò la faccia come per togliersi una nebbia dagli occhi; e con vivace trasporto esclamò:

- È lui? è lui?.. Ah! papà briccone, e cosí inganni la tua bambina? quando sei arrivato, Giulio...? vedi, babbo, se io avevo ragione? O mio Dio, quanta gioia!... Giulio, amico mio, anima mia!...

Severina corse verso il dottore, gli cinse il collo con ambo le braccia e posò la fronte alle di lui labbra.

Il dottorino perdette per un istante la coscienza di sé stesso, ma stette rigidamente ritto al suo posto, come una colonna.

Come ognun vede Severina era vittima di un nuovo inganno, e il barone se ne accorse subito nel riconoscere al portamento all'abito, e all'eleganza del dottore una non lontana rassomiglianza con don Giulio; ma per Severina questo inganno era già cominciato quel giorno che il dottore passando a cavallo sotto il villino, aveva rinnovato, senza saperlo, le usanze del bel contino innamorato.

Marco interrogò d'uno sguardo il barone, che a testa bassa e con voce sommessa esclamò:

- Secondiamola, per pietà.

- Non mi dici niente? - interrogò la fanciulla. - Non mi dai neppure un bacio sulla fronte? sei proprio adirato con noi?

- Perché dovrei essere adirato? - balbettò Marco e posò ad occhi chiusi un bacio su quella candida fronte.

- Avete fatto la pace, uomini seri? - esclamò Severina. - Papà non sperava piú di vederti, ma io gli andava dicendo: Verrà, verrà... e toh! eccolo qui... Dimmi, e questa causa eterna di rivendicazione...?

- È vinta - disse il barone soccorrendo il povero dottore.

- Dunque non c'è piú pericolo che per una questioncella di dote e controdote mi vogliate morta.. Come sono cattivi gli uomini d'affare...! ma tu cos'hai che non parli?

- Il signor barone... - mormorò! con voce moribonda il dottore.

- Ah! ho capito, non siete ancora assolti e benedetti: ebbene qua le vostre mani e che tutto sia finito in nome di Dio e della mia povera mamma. - Il dottore e il barone si strinsero la mano, ma non osarono mirarsi in volto. Essi tremavano.

- Ora che i nostri feudi sono rivendicati, pensiamo a far colazione perché la vostra castellana sente il pizzico della fame. Signor cavaliere errante, è pregato...

Marco sedette ed era tempo perché sembrava accasciato, e supplicò di nuovo il barone di toglierlo d'imbarazzo.

- Il nostro Giulio è alquanto turbato - disse il barone Adriano - perché ha lasciato a Firenze il suo povero padre gravemente infermo.-.

- Davvero? oh poverino!...

- Anzi - fu presto ad aggiungere Marco - la mia dimora a Livorno non sarà che di poche ore.

Severina tentennò il capo, si accigliò, raccolse la mente, ma tratta da un'altra idea piú lieta domandò: - Hai ricevuto tutte le mie lettere?

- Sí.

- Perché non mi hai risposto?

- Don Giulio aspettava da me il permesso di risponderti - osservò il barone.

- Ebbene, se ora ti faccio una domanda hai il permesso di rispondermi?

- Credo di sí - disse il dottore.

Severina si chinò quasi sulla spalla del dottore e scotendo con aria civettuola il fascio de' suoi capelli domandò sottovoce: - Mi vuoi proprio bene?

Il barone mormorò con voce cupa: - Il nostro Dio si diverte.



- Mi vuoi proprio bene? - ridomandò Severina.

- Perché lo dimandi? - chiese alla sua volta il dottore.

- Perché ho sognato brutte cose di te.

- Non credere a' sogni, che sono l'ombra de' nostri pensieri - osservò il barone.

- Cos'hai sognato di me? - domandò il dottore che desiderava scendere piú a fondo in quella fantasia.

- T'ho veduto passeggiare colla moglie di Putifarre. - Severina cosí dicendo ruppe in un riso smodato e scemo, che conturbò il nostro dottorino, nuovo a questi sbalzi e che sentiva quasi scivolare fuor di mano il filo logico di quella ragione.

- Don Giulio - riprese il barone tentennando il capo - vide ieri i nostri amici di Firenze.

- E che si dice laggiù del nostro matrimonio?

- Tutti applaudiscono - rispose Marco - ma la gioia di tutti è oggi funestata dalla malattia del mio povero babbo.

- È proprio vero che il conte Gian Andrea sia malato?

- Perché dovrei mentire sul capo di mio padre? - rispose seriamente il dottore, a cui premeva piú d'ogni altra cosa persuaderla di questo fatto e della necessità del suo ritorno, unico mezzo, per vero dire, di rompere quella rete magica nella quale erano fatalmente caduti.

- Mi meraviglio - continuò in aria di rimprovero il dottore - che per te mio padre sia semplicemente il conte Gian Andrea e che il suo pericolo ti commuova sí poco, come s'ei fosse uomo qualunque.

Severina spalancò tanto d'occhi, sospesa tra la meraviglia e l'ilarità, e pareva chiedere una spiegazione a suo padre, il quale, colta la palla al balzo, seguitò nell'istesso tono:

- Don Giulio ha ragione: una grave sventura minaccia la sua casa; rapidamente venne a Livorno per salutarti, per piangere un po' con te e lo ricevi distratta, non prendi nessuna parte al suo dolore, non ti ricordi che fra poco egli ritornerà presso il letto d'un moribondo.

Queste parole passando nella testa e nel cuore della fanciulla vi destarono un'insolita compassione, cosicché le pupille le si empierono di lagrime e brillando andavano chiedendo perdono ora dal padre, ora dal dottore; questi sentivasi struggere.

- Povero padre! - mormorò anch'essa giungendo le mani in atto di preghiera e sprofondandosi in una difficile meditazione.

- Severina - disse il barone di lí a poco - vuoi preparare un mazzo di fiori come tu sai cosí bene? i fiori piacciono agli infermi e il povero conte, sapendo che vengono dalle tue mani ti manderà una benedizione.

Severina si mosse; spiccò dalla parete un cappellino di paglia bianca, e un piccolo canestro di vimini. Non osava parlare, ma dalle contrazioni del mento e del collo vedevasi chiaramente come ella lottasse contro i singhiozzi; scese i gradini che conducevano al giardino, col grembiule agli occhi.

- Crudeli! - mormorò il dottore.

- Forse abbiamo buon filo in mano per uscir da questo labirinto - osservò il barone. - Severina oggi è inclinevole a lasciarsi persuadere, e una volta che ella, dottore, sia partito in pace, spero che non si ricorderà di lei come di persona non vista mai.

Il dottore seguiva intanto cogli occhi il muoversi di quel bianco cappellino di paglia che spiccava sotto il sole e sopra il color vario delle aiuole: per quanto ei fosse venuto disposto ai miracoli vedeva benissimo come l'opera sua, insistendo, anziché districare ingarbugliasse vieppiú la matassa.

- Ella, dottore, potrà incominciare da lontano una cura intesa piú a mitigare che non a sanare le aberrazioni di questa mente.

Il dottore non udiva e gli sortí questa frase: - Sarei ben felice di poter continuare questo pietoso inganno.

- Avventura da romanzo, caro mio.

- Certamente impossibile - aggiunse alla sua volta il dottore che gli pareva d'aver detto troppo, ma nel fondo del cuore gli spiacque che il barone trovasse avventura da romanzo un tentativo che non gli sarebbe spiaciuto provare. Forse, oltre le cento ragioni che ognun vede da sé, il barone temeva questa comedia anche per quel sentimento aristocratico, che confondendosi spesso colla dignità e col dovere, erasi fatto in lui la legge suprema della vita. Forse anche il dottore la pensava cosí perché rispose alquanto acre e imperioso: - Allora, signore, un uomo solo è qui necessario.

- No, dottore - rispose fieramente il barone - ho già espressa la mia opinione a proposito di quello sciagurato... Basta! Poiché il mio destino è superiore a qualunque volontà e a qualunque scienza, io la ringrazio, dottore, della sua buona intenzione. Non le resta che di trovar modo di licenziarsi da Severina senza irritarla, e da uomo che obbedisce suo malgrado a una suprema necessità. Perdoni, povero signore - e il barone gli stendeva la mano - ella non è stato piú fortunato degli altri, anzi mi rincresce che per un'ora abbia rappresentato una brutta parte.

- In verità, sono umiliato! - disse il dottore chinando la testa; il barone riprese il suo passeggiar lento e grave.

Intanto Severina era venuta a sedersi sulla gradinata che dal salotto scendeva al giardino col canestro pieno di verbene, di fuchsie, di basilico e d'altre erbe e frasche odorose, di cui prese a formare un mazzo. Vedendo il dottore fisso in lei gli fe' cenno colla mano d'accostarsi, e volle che sedesse sul medesimo gradino, sotto un pergolato di non so quali arrampicanti americani, tra il profumo dei fiori e colla vista innanzi del lago e dei monti.

La fanciulla era docile, graziosa e dolcissima; toccava al buon dottorino cogliere il momento opportuno per tôrre congedo da lei, senza urto, e in capo andava preparando un discorso eloquente; Sua Eccellenza, accostandosi tratto tratto gli susurrava qualche consiglio, ma la parola, la prima parola non gli voleva uscire come se fosse impiombata in cuore.

Il sole facevasi varco fra i rami di quel pergolato che un vento sottile di meriggio scuoteva a intervalli e che disegnava una scacchiera di luci e di ombre tenuissime e balzanti sulla balaustra, sui gradini, sul vestito e sul cappello di Severina; in quell'ora calda il silenzio era profondo, non interrotto che da un fruscío passeggiero di foglie, o dal ronzare di un moscone, o da qualche squillo lontano di cornetta, o da qualche scoppio di mina lontano lontano nelle vallate.

Marco cercò la manina bianca della fanciulla e fattosi coraggio in nome del proprio dovere e in considerazione del momento solenne incominciò con voce calma e quasi armoniosa:

- Perdonami, Severina, se poco fa, dimenticando la tua età e la tua naturale allegria, usai teco parole troppo aspre; ma io sono partito dal letto d'un infermo e sto per ritornare al letto d'un moribondo; tu sai chi sia quel venerando vecchio! Questa sventura tocca sí da vicino anche la tua sorte, ch'io vorrei vederti piangere con me. - Il dottore si faceva a carezzare un nodo di capelli che le scendeva sopra una spalla. - Il dovere e l'amore vogliono invece che io mi allontani subito da te; avrai tu il coraggio di restar sola? potrai dimostrarmi come una donna sappia soffrire piú dignitosamente di questi poveri uomini seri, pasciuti di vanagloria? Saprai dirmi addio senza tremare?..

Ma la voce del dottore incominciava a tremare; per quanto studiasse di resistere agli scherzi della fortuna e di consumare tutto intero il suo dovere, non poteva non sentire le voci del cuore smarrito e tocco. Il barone applaudí fra sé a quel lungo e artificioso discorso, che pronunciato veramente col calore della persuasione e della verità pareva s'insinuasse sufficientemente nel cervello di Severina; costei infatti che in quelle parole e in quell'accento aveva scoperto non so quale nuova tenerezza, fece puntello d'una mano alla testa e socchiuse voluttuosamente gli occhi.

- Sono cattiva, n'è vero? - disse abbandonandosi fanciullescamente sulle spalle di Marco.

- No, tu non sei cattiva, tu sei un angelo.

Il barone passeggiava grave e solenne nel salotto.

Impeti affannosi provò il cuore del dottore sotto il fascino di quella tentazione esagerata per la virtú d'un uomo: cosa avrebbe fatto don Giulio al suo posto? non aveva egli diritto di fare altrettanto? l'ardore che uscí dalle sue labbra entrò nelle vene di Severina che riarse negli occhi, in viso e nelle mani.

Il dottorino balzò in piedi e disse freddamente: - Addio!

Severina stese una mano, senza levar gli occhi e raccapricciò.

- Addio, signorina - ripeté quasi in atto di scusa il dottore.

- Tu parti?

- Sí.

- Quando ritornerai?

- Quando potrò.

L'infelice si fregò la fronte bagnata di sudore e un lampo sinistro brillò nel bianco della sua pupilla; il barone preso sotto braccio il dottore lo trascinò quasi fino in alto del terrazzo. Il canestrino dei fiori cadde dalle ginocchia di Severina e rotolò spargendo poche foglie fino al basso della gradinata.

Adriano susurrò a Marco: - Ella mi riconcilia cogli uomini - alle quali parole il dottore sospirò coll'affanno di chi ha l'anima aggravata e non erano ancora a mezzo del salotto quando un acutissimo grido li fe' trasalire. Marco si sciolse dal braccio del barone, che si turò con ambo le mani le orecchie.

A un secondo grido piú rantoloso il dottore precipitò fuor della stanza lasciando il suo ospite in una rigida immobilità. Scese i gradini e vide la fanciulla, che distesa, rovesciata, faceva strazio de' capelli, come se volesse strapparli; l'occhio era squallido; bieche le labbra e spaventoso il lamento; le imprigionò le mani nelle sue e gridò tre volte: - Severina! - ella colla forza d'un epilettico si svincolò dalle sue strette e afferrandolo per le spalle esclamò: - Assassino! So dove vai! tu ami un'altra donna... Uccidimi prima...

Il dottore sia che intendesse o no queste parole, girò le braccia attraverso di lei e tentennando la portò sopra i pochi gradini, fissandola in viso come se volesse ammaliarla, e appoggiandone, per meglio sorreggerla, la testa al suo petto.

Accorsero alle grida le donne di casa che tolta Severina in braccio la portarono pesa come corpo morto fino alla sua camera: all'ira era succeduto uno sfinimento di tutte le forze e un pallore letale e un sudore freddo che grondava dal viso e le inumidiva le mani. Quando fu collocata nel suo letto il dottore notò che una crisi pericolosa minacciava l'inferma e diede i primi ordini per acquetarne il sistema nervoso e per impedire che ella si facesse ancora violenza colle proprie mani. Nel pericolo Marco sapeva sempre trovare la chiara coscienza di sé, e infatti assisté le donne e le rincorò, scrisse una ricetta, mandò un servo alla farmacia, parlò, consigliò, si mosse insomma con quella sollecita prudenza che prevede il pericolo senza sgomentarsene.

Ben presto si avvide che il barone non li aveva seguiti e preso da un pauroso sospetto discese precipitosamente dabbasso dove lo trovò ancor immobile, come lo aveva lasciato, fitto al suolo l'occhio nerissimo, solcato da un'onda sanguigna e che brillava di luce tetra nell'orbita livida e profonda.

Le grida e i rantoli di Severina avevano avuto per il povero padre qualche cosa di non mai udito e dubitò che quella esistenza, mantenuta finora da un duro inganno non si fosse spezzata come una bolla di vetro compatto che il martello non rompe, ma che un leggiero contatto spesse volte frantuma.

- È morta? - domandò quando vide il dottore.

- No.

- V'è speranza che muoia?

Il dottore osservò un guardo fuggitivo del barone verso la parete donde pendeva una bella pistola cesellata e si ricordò la promessa che il signore aveva fatto a sé stesso.

- Forse non morrà - rispose quasi con freddezza il dottore; - però se in questo doloroso istante le venisse meno la protezione paterna sarei costretto a ricoverarla in un manicomio.

Il barone rabbrividí e Marco fu contento d'aver toccato una corda sensibile, anzi aggiunse con accento vibrato e solenne: - La pazzia è sempre da preferirsi alla disperazione: quella ignora sé stessa, questa...

- Questa fa dimenticare i propri doveri - seguitò il barone con voce profonda.

- Signore, ella m'intende piú che io non mi spieghi: quanto avviene intorno a noi è straordinario, ma non è quanto di piú terribile videro gli occhi miei nel breve corso della mia vita. Vidi delle povere donne di campagna piangere per fame, cinte dai loro figliuoli e non perdere mai la speranza. Esse erano forse superstiziose, ma sarebbe doloroso che la loro superstizione fosse dappiú della nostra sapienza.

Il barone si trascinò fin presso a una poltrona e sedette in modo di rivolgere le spalle al dottore, che nell'aspetto e nella voce gli aveva apparenza d'un giudice severo; posò la testa alla sponda e coprendosi il viso con ambo le mani esclamò: - Si può soffrire piú di cosí? - uno scoppio di pianto disse quanto non è concesso a noi di imaginare.

Il dottore lasciò che quelle lagrime scendessero liberamente e, sedutosi appresso, dopo cinque minuti di silenzio ripigliò senza esitazioni e come se leggesse in una pagina scritta:

- Signor barone, voglio manifestare una speranza che mi viene dalla considerazione di questi avvenimenti e da quel po' d'esperienza che ho acquistato in questi pochi anni. La mente di donna Severina non è sconvolta in modo da non lasciar nessun barlume di ragione, ma solamente spostata e fissa a momenti imaginarî o a rimembranze passate. Da un anno fu chiusa come in un anello, che oggi per la prima volta noi, senza volerlo, abbiamo spezzato. Difatti non è la prima volta che si ricorda del tradimento del conte?

- Sí, è la prima volta.

- È la prima volta che al suo furore segue tanta prostrazione di forze?

- Sí.

- Ebbene da questo pericolo può scaturire la sua salvezza e veda come io la ragioni: Severina ha perduto ogni sentimento, la febbre la percuote, il delirio l'inganna e anziché oppormi a questa guerra che le fa il male, aggiungerò le mie cure per maggiormente abbattere la natura e la fantasia vivacemente accesa. Ella fra qualche giorno uscirà dal lungo letargo, stupita, fiacca, direi quasi distrutta, ma disposta a lasciarsi ricreare; la reazione non avrà piú forza contro la mano medica e soltanto allora credo possibile dare alle sue facoltà mentali quella piega dolce, vera, e pietosa che si desidera. Insomma per venire al caso pratico, supponiamo che donna Severina si riscuota, giri gli occhi intorno, domandi con un fil di voce dove si trovi, che avvenga intorno a lei; non vede, signore, come sarà facile riconciliarla col suo passato? Le si dirà che ella è molto malata, che da tre mesi lotta fra la vita e la morte; che trasportata a stento sul lago di Como, comincia appena a riaversi; che accanto al suo letto vegliò per tre mesi suo padre, attento ad ogni suo delirio, e non solo il padre, ma il fidanzato e le amiche... Tutti questi vengono ad uno ad uno presso al suo letto, si rallegrano con lei che incominci a sorridere e a guarire; allora tutto il passato si presenterà all'inferma colla leggerezza d'un sogno, o d'un delirio... Don Giulio siede veramente vicino al suo letto, e lo può toccare con mano, ne ode la voce lacrimosa, ne sente i baci sulla fronte. Forse avremo un minuto di tentennamento fra la verità e l'apparenza, fra il passato e il presente, ma tocca alla nostra solerzia scacciare le nebbie de' suoi sogni e porle questo presente e questa realtà. Mi par di udirla: “Dunque fu un sogno!” -. “Sí, infelice, fu un sogno di moribonda” le risponderei; “tutto quanto hai sofferto non fu che un rodimento febbrile che noi colle veglie, colle cure, colle preghiere abbiamo guarito; vieni e contempla com'è bella la natura; vedi quanto ha sofferto tuo padre e il tuo sposo....

- Signor barone - esclamò levandosi in piedi - m’inganno troppo? non può avvenire quel che suppongo?

- Può avvenire.

- Perciò è nostro dovere di provare.

- Ma noi torniamo...

- Io ripeto per la terza volta una preghiera, che potrebbe essere ormai anche un comando. È necessaria la presenza del conte.

Il barone non rispose, ma dal suo volto traspariva la lotta ch’egli combatteva presso di sé fra la pietà e l'orgoglio. Il dottorino nell’entusiasmo della sua sacra missione aveva dimenticato del tutto le sue piccole follie, e in tutto il ragionamento tenuto al barone il cuore non aveva dato un sussulto, come se la causa del cuore fosse innanzi all'interesse della scienza. Forse Marco poteva ingannarsi, ma presentemente non vedeva altro rimedio che la presenza di Giulio, talché per vincere del tutto la ripugnanza del barone aggiunse: - Questo solo mi risulta, e sarei costretto a ritirarmi se mi fosse rifiutato quanto ho il diritto di avere.

- Non ci abbandoni, dottore - rispose svegliandosi di sbalzo il barone; - non ha inteso quelle strida? non ha visto quegli sguardi? Dottore, io non mi rifiuto, ma penso al modo di obbedirla.

Seguí un momento di muta riflessione per entrambi, nel quale ciascuno si raccolse piú attentamente sui piú intimi affetti.

Il barone man mano che si persuadeva della bontà di quel consiglio, e si disponeva a seguirlo, sentiva l'anima rallegrarsi come se uscisse da una rete sottilissima di rimorsi, di rammarichi, di odi e di grettezza; il dottore invece a cui sorrideva la certezza d'un miracolo, e che aveva tanto santamente adempiuto il proprio dovere, era meno disposto al compiacersi di sé stesso, e starei per dire che nel fondo del suo cuore pullulasse una radice amara.

- Si scriva dunque al conte - disse il barone, che sebbene fosse disposto a farlo, andava cercando quella via di mezzo che non conduce gli uomini alla gloria. E continuò come se parlasse a sé stesso:

- Quanto mi dice, dottore, ha tutta l'apparenza dell'utilità e sarebbe colpa d'entrambi se non si tentassero anche i rimedi eroici; ma come scriverò a don Giulio? debbo pregare o minacciare? non sarebbe piú opportuno che scrivesse per me qualche persona estranea all'offesa?

- Sia pure - disse il dottore che non vide di malanimo questo breve imbarazzo del barone.

- Se scrivere al conte fosse delle mie forze crede ella che io non l'avrei già fatto?

- È una lettera difficile, ne convengo.

- Difficilissima per me, non per una terza persona che senza preoccupazioni la scrivesse come da uomo onesto a uomo onesto; supponga che il conte sia ancora un uomo onesto.

- Si cerchi un amico comune il quale s'incarichi di questo atto di carità.

- Io vivo solo da un anno, né conosco persona piú adatta di lei, dottore...

- Io? - disse il dottore con eccessiva sorpresa.

- Chi meglio di lei può narrare al conte la miseria di Severina? come medico e amico mio si presenta a don Giulio, non in mio nome, s'intende, ma in nome della scienza e della umanità.

- Ma io, sconosciuto al conte... - balbettò il dottore.

- Un uomo che ha persuaso me, saprà persuadere anche don Giulio, ma voglio che la lettera abbia un carattere segreto, come se io non ne sapessi nulla, ed ella mi tendesse una rete amorosa.

- Ebbene, quando ella vuole...

Il dottorino che pareva alquanto umiliato alzò di subito la fronte e disse:

- Scusi, Eccellenza, ma chi sa dove il conte si trovi?

- Io lo so: da un anno lo seguo coll'occhio per tutta Europa e ciò prova che da un anno teneva in petto il desiderio di riaccostarmi a lui. Fra poco le farò avere l'indirizzo.

- Va bene! - mormorò Marco col tono di chi dica: Pazienza!

- Ella è mio ospite e padrone della mia casa.

Il barone incrociate le braccia al petto si fece a considerare il volto di Marco, che sorrise mestamente: - Dottore - disse - ella è un uomo generoso e forse in questa rara virtù sta il segreto de' suoi miracoli. Accetta la mia amicizia?

- Come onore e come ricompensa.

Si strinsero la mano commossi e mentre il barone, tocco dalle parole del suo giovane amico, sentivasi inclinato perfino a perdonare, il dottorino non pareva troppo festoso di questi trionfi, e non poteva impedire che un maligno demonio non gli soffiasse nell'orecchio una parola strana, non mai compresa, e di minaccia contro un uomo lontano, non mai conosciuto e punto invidiabile. Egli doveva invitare quest'uomo in nome dell'umanità e della scienza alle dolcezze de' baci di Severina... Diciamolo: il dottorino incominciava a odiare.

La storia della fanciullezza di Severina somiglia a quella di molte fanciulle gentili, cui la modestia cela agli occhi de' curiosi e piú a loro stesse. Le preghiere confidate alla mamma, i consigli materni, la lettura scelta, la compagnia onesta avevano fatto sí che a quella tenera età in cui la vita non è che un miscuglio dell'anima col corpo, esistessero già in lei uno spirito padrone e un corpicino obbediente come un novizio.

Quattro noci, un panino, una mela e qualche confetto e acqua di fonte saziavano Severina a dodici anni, ma gli occhi insaziabili giravano irrequieti per la campagna, per il cielo, tra la varietà dei fiori, sui vari riflessi delle acque e si fissavano estatici sugli splendori delle notti d'estate. Il suono di una cantilena, d'una campana lontana l'arrestava su' due piedi, e se squillavano a morto piangeva senza saperlo; altre volte rideva pazzamente colle sue compagne, mentre colle dita magre e lunghe andava tagliando fiori di carta o ricamando merletti sottili come la nebbia. Ma le ginocchia soffrivano del troppo star sul freddo sasso innanzi all'altare, dove ella ritiravasi all'avemaria a pregare, fissa nella vergine Maria, a cui il bagliore rossigno d'una lampada dava risalto e movimento.

Come piacciono a quest'età le finestre ad angolo acuto, i castellacci neri, le vetriate dipinte, le ombre lunghe che scappano via dai capitelli su per le pareti d'una chiesa lombarda; si potrebbe dire che ciascuno di noi passa nelle diverse età per quei medesimi sentimenti che il popolo provò nel succedersi dei secoli, e che a dodici anni si viva misticamente come san Francesco e il beato Jacopone.

Anche Severina ebbe le sue estasi e le sue visioni di angeli custodi (chi di noi non ne vide alcuno?) dei quali anzi sentí piú volte un batter d'ali, che movendo l'aria intorno al suo collo circondava tutto il corpo di una voluttuosa frescura: ogni musica aveva le cadenze dell'organo di chiesa, e nei sogni sfilavano le tredicimila vergini di santa Chiara intorno al suo letto, le quali cantando e con fiori in mano portavano a seppellire una bambina, vestita di bianco e benedetta da un raggio bianco di luna. Chi era la bambina? lei stessa, che si deliziava di quel giacere colle mani incrociate sul petto: e cosí via via cento altri simili fantasmi o sognati o pensati o ricordati in questa età in cui si sa come si muore, non come si nasce.

Ma un giorno Severina si avvide che il suo abito era stretto, se ne meravigliò e pensò con pena al perché: nello stesso tempo le parve che crescesse il bisbiglio della gente sul suo passaggio, e sebbene non osasse levare le palpebre, pure sentiva molti sguardi fitti in lei, come per delicatezza di nervi una cieca sente il colore delle cose. Certe mattine, svegliandosi avanti l'alba, sedeva sul letto, le mani in mano, i capelli sciolti, gli occhi fissi alla punta de' piedi che sporgevano da un lembo di coltre, senza un pensiero determinato, senza una volontà, col solo desiderio di piangere, ma pur sorridendo di queste sue sciocche melanconie. Stava cosí lunga pezza stringendosi colle mani le spalle, e abbracciando sé stessa strettamente per immenso bisogno di amare qualcuno. Cosí infatti cominciano ad amarci le fanciulle, prima che ci conoscano, e quando ci presentiamo loro la prima volta, esse ci guardano come gente non affatto ignota e potrebbero dire a ciascuno di noi: È un pezzo che ti sento venire.

Quando Severina conobbe don Giulio, senza ombra di peccato le si presentò l'amore, perché là dove pur le sembrava che morisse la grazia della fanciulla, le dissero incominciare la santità della madre; così la virtù lega la donna d'una catena d'anelli diversi, che essa porta come il suo piú bel monile. Ma la pazzia aveva frantumato questo monile. In Severina erano bensí rimasti tutti i sogni e tutte le speranze della fanciulla e della donna, ma orribilmente sconvolti; la natura cieca - e il dottorino se ne accorse subito - continuava contro di lei una gara vigliacca, poiché il pensiero balzano non solo non difendevasi, ma ingigantiva e sconciava i fantasmi della colpa. Così dell'antica severità non era rimasta che l'apparenza, e delle virtù una fredda abitudine, mentre l'occhio acceso e sinistramente poetico, le labbra semiaperte a bevere ogni soffio di brezza, i gridi improvvisi tradivano una povera natura che si rifaceva selvatica.

- Insensato! - disse Marco a sé stesso la notte, quando fu solo nella camera che gli ebbero assegnata. - Come si chiama questo mio amore? credo follia, ma follia indegna di ogni compassione.

Colui che costringe la vita in una precoce serietà vi muore racchiuso come una larva nel suo involucro. Severina può intendere questi miei spasimi? quel barlume di intelligenza che splende in lei, quel po' d'anima che la fa piangere e sorridere non sono per me, ma io rubo ciò che altri ha ispirato. Ecco il destino di coloro che a vent'anni sono già virtuosi fossili, i quali per amore del giusto perdono sovente il senso del dolce e dell'utile e finiscono miserandi o grotteschi.

Cosí lamentavasi fra sé il povero dottorino, girando gli occhi intorno e rimirando i mobili di quercia e il ricco padiglione di pizzo che scendeva sopra il suo letto.

Dov'era egli? perché era venuto in quel palazzo incantato? perché non posava la testa sopra i grossi libri che ragionano dell'anatomia del cuore umano? v'era anche una piaga del cuore?

Sullo scrittoio trovò un fascio di carte e un biglietto manoscritto; le une erano lettere scritte da Severina a varie persone nel corso di quell'anno fatale, e l'altro l'indirizzo del conte Giulio, Hôtel Suisse, Genève. Vi tenne gli occhi fissi, incantati, temendo che se vi ponesse la mano sopra non isparisse tutta la magia di quel palazzo e di quel sogno. Suonarono le undici e mezzo al paese vicino ed egli, immerso in una poltrona d'alto schienale, e al lume di una lucerna d’argento meditava ancora sulla sua sorte, e ricamava intorno a quell’indirizzo una storia capricciosa e galante, ma non piú lieta della sua.

La vecchia Marianna bussò dolcemente all'uscio e riferí come Severina, cessato il delirio e lo spasimo, fosse caduta in un sonno piú tranquillo; Marco le raccomandò di sorvegliarla tutta la notte e chiuse l'uscio con due giri di chiave come se avesse bisogno di segregarsi e di venire dimenticato.

La finestra dava non sul lago, ma sull'erto dosso dei monti a’ piedi de' quali sorgeva il Ritiro, un pendío piuttosto ripido, coperto di folta e boscosa vegetazione, a quell'ora tocco lentamente dal raggio della luna, sotto il quale spiccava qua un sentiero che s’inerpicava, là il bianchiccio d'un ghiaieto, piú su la figura d'un campanile ritto come un gendarme di guardia; si udivano tratto tratto susurri misteriosi di acque e di frondi secondo la direzione del vento, rauco e sommesso giungeva in quella parte il batter dell’onda contro la riva e lento, quasi pauroso, il battere delle ore. Da una finestra a lui nascosta usciva un raggio che si rifletteva nel verde lucido del boschetto di magnolie, sul quale si disegnava l'ombra mobile d’una cuffia gigantesca; quel lume usciva dalla camera di Severina posta in un angolo della villa e il dottorino esclamò: - E se ella morisse? - Ma non volle durare in queste melanconie, onde tornato allo scrittoio prese a sorte una di quelle lettere e lesse a caso: “Ti aspetto, ti aspetto! guardo il lembo ultimo del mare sperando che tu spunti di là come una rondine; se tu venissi sarei piú contenta del grillo che fa cri cri nell'angolo del focolare e della cavalletta verde che salta sull'erba. Senza di te l'anima mia è vuota, mentre vicina a te sento la voglia di cantare e di arrampicarmi sulle quercie come fanno i passeri, gli usignoli, i pettirossi e le allodole. Senza di te io sono zoppa; vieni, mio caro bastone. Se tu mi lasci sola voglio vivere sotterra vestita di ragnatele”.

Il dottorino lasciò cadere il foglio e tornò alla finestra perché il disastro di tanti sentimenti e di tante idee lo adirava; suonò in quel mentre la mezzanotte e ricorrendo col pensiero a casa sua si compiacque d'imaginare Celestino sdraiato nel suo letto, colle coltri alla rinfusa, immerso in uno di quei beatissimi sonni che Dio concede soltanto a' suoi frati. Gli parve vedere gli abiti buttati come Dio vuole sopra una sedia, i coturni distesi in mezzo alla camera, la pipa sul tavolino da notte fra gli zolfanelli, la borsa del tabacco, le poesie di Guadagnoli, il ritratto d'un'osteria e una bottiglia coperta da un bicchiere. - Lui felice! - mormorò il dottorino. - Infelici coloro che non vogliono essere quel che sono!

Frattanto senza avvedersi andava stropicciando fra le dita l'indirizzo del conte, e quando si allontanò dalla finestra sentissi il collo indurito, e un brivido nelle spalle; era stanco di pensare e cercò di impiegar meglio il tempo scrivendo la lettera al conte, come aveva promesso.

Infatti prese un foglio, bagnò la penna, si fregò la fronte e cominciò a pensare al principio che è sempre la metà d'ogni impresa; le lettere di Severina stavano sparpagliate dinanzi, e Marco quasi a suo dispetto invece di scrivere lesse a caso anche questa pagina:


“Cara contessa Emma,

“Finalmente ieri sera don Giulio si è presentato col suo venerando genitore a mio padre. Quante belle cose mi disse sottovoce, mentre i due babbi favellavano, e quante altre piú belle io gli tacqui! Mi serrò il mignolo col suo mignolo, e sarei stata contenta se un anellino di ferro mi avesse in quel momento legata a lui per sempre. Era il primo uomo, dopo mio padre, che osasse toccarmi un dito, e sentii un fluido venire da lui a me, come quando in collegio tutte in catena si provava la scossa elettrica. Davvero, n'ebbi lo stesso fremito e quell'istessa convulsione che fa ridere, che strappa le lagrime e fa gridare: ahi! ahi! Cos'è l'amore? La nostra madre superiora, te ne ricordi? soleva nelle commediole sostituire a questa brutta parola o amicizia, o stima, o gratitudine, o riverenza e cento altre parole consimili; mettine pur mille e sommate tutt'assieme e non avrai ancora il sinonimo d'amore. Questa è un'idea di Giulio, veh!- se sentissi, come ragiona!

“Ieri sera presi la mia Celeste sulle ginocchia e mi sono seduta alla riva del mare. La chiamai Celeste perché è il colore che piace ai poeti, al Padre Eterno, e a lui. Non l'hai mai vista la mia bambina? è bionda, magrina, vispa, e sapiente! quando pongo le labbra sulla pozzetta del suo collo mi sembra di succhiare tutte le debolezze di cui è ripieno il paradiso. O cara Emma, ho bisogno di parlare, di gridare, di propagarmi come una divinità antica, e invidio la pioggia d'autunno che si riversa, e bagna tutto, e scorre da per tutto e si sprofonda in tutte le screpolature della terra...”.

"Se nella mia vita" pensò il dottore, "mi fosse dato trovare una donna che sentisse razionalmente come Severina; se ella stessa guarita, volesse dire a me quanto scrive d'un ingrato, potrei io resistere all'oceano traboccante di questa felicità? mi sazierei di quest’onda? invecchierei ancora un giorno nella mia vita? Quest’amore ha istinti immortali e se l'anima dell'uomo spirasse in queste maestose imaginazioni, porterebbe seco la gioia per tutta l'eternità." Ma che penso io mai? non sono idee da matto anche queste? perché vado aizzandomi? questo silenzio mi sgomenta...".- No, no - gridò a voce alta lacerando coi denti l'indirizzo del conte, alle quali parole rispose un gemito, e un fruscio di foglie nel giardino.

Il dottore già coi nervi irritato e la fantasia tesa si sgomentò come innanzi a un grave pericolo e tese ancora l'orecchio, ma non udí che un suono di piccoli passi scricchiolanti sulla sabbia. "Chi passeggia a quest'ora?" pensò " chi sospira?". Prese la lucernetta e si accostò alla finestra: ma un buffo improvviso di vento gliela spense: sparito era anche il lume dalla camera di Severina; buio e silenzioso il giardino. Scoccò un'ora. Il dottorino corse fino al letto e vi si buttò vestito come uomo che per paura si rintani. - È questo l'amore? - domandò a sé stesso e quando a Dio piacque si addormentò.


Appena desto, coll'alacrità che ispira l'aria fresca del mattino e la luce del sole, sedette allo scrittoio e scrisse d'un getto questa lettera:


“Illustrissimo signor conte,


“Non si meravigli se uno sconosciuto si rivolge a Lei coll’autorità d'un superiore, ma io parlo in nome del dovere e della pietà. Chiamato dall’illustrissimo signor barone commendatore Adriano Siloe per esercizio del mio ministero conobbi una donna infelice, pazza da un anno, della quale non oso pronunciare il nome innanzi a lei sperando che sia ancor vivo nel suo cuore.

Forse Dio vuol servirsi di me, ultimo uomo della scienza, per guarire questa ragione che una grave sventura ha crudelmente ferito; ma io non potrei far nulla senza la presenza di V. S., perciò venga senza indugio a **** sul lago di Como e cerchi del dottore sottoscritto”.


Questa lettera mostra evidentemente come Marco obbedisse di malanimo al suo dovere, perché non bisognava, io credo, usare uno stile troppo asciutto e rigido verso una persona che si doveva persuadere e commovere. Ma il dottorino quando contemplò queste quattro righe buttate là nel peggior modo e colla peggior penna si rallegrò come se avesse riportato un trionfo sopra sé stesso o piuttosto per quel suo pregare ruvido che aveva l'aria d'una sfida.

Scrisse anche un biglietto a Celestino, dandogli sue notizie, ma prima di chiudere le lettere, quasi gli piacesse d'indugiare, visitò l'inferma. Poca luce entrava nella camera di Severina, e il dottore poté avvicinarsi al suo letto quasi senza essere scorto dalla povera Marianna che sonnecchiava nella poltrona. La febbre tormentava ancora Severina, ma già le sue forze parevano piú stremate, gli occhi piú languidi, e meno accese le guancie. L'inferma non sentí la mano che le toccò i polsi e la fronte, e solo mormorò colle labbra aride parole inintelligibili; il dottorino però interpretando il suo desiderio sollevò di una mano la testa della fanciulla e porse una tazza d'acqua ghiacciata a quelle labbra sitibonde; poi ricompose le coltri fino al mento, raccomandò il silenzio e l'oscurità e usci in punta di piedi. La malattia seguiva secondo i suoi desideri e se ne fregò le mani d'allegrezza: - Diavolo! il mondo ne avrebbe parlato...

Un servo lo fermò nel corridoio e gli consegnò un biglietto del barone che dopo aver vegliato gran parte della notte, si era buttato nel letto sul far della mattina. Il biglietto diceva brevemente: “Spero che ella avrà spedita la lettera al conte colla posta della mattina; se non lo ha fatto, non perda piú tempo”

- A che ora parte la posta della mattina?

- Alle cinque.

- Sono le otto: vieni da me fra un quarto d'ora - e il dottorino ritornò nella sua camera molto indispettito con Sua Eccellenza che dopo un anno di perditempo diventava a un tratto scrupoloso dell'ora e del minuto.


Dopo lunghe ricerche ho finalmente scoperto che la celebre cantante, per la quale don Giulio erasi fatto cosí leggiermente spergiuro, chiamavasi Adriana Saintrose, bellissima donna, una delle stelle fisse dell'Opéra. Alla Pergola, e specialmente dal primo ordine di palchi, era furiosamente applaudita tutte le sere e piú ancora lo fu, quando si seppe che fra i suoi antichi amanti erasi iscritto anche un alto personaggio della corte francese. Molti di quei signori dalla testa lucida si mantenevano dapprima in un dignitoso riserbo, temendo di aver tra le mani una prima donna comune; ma dopo che il marchese Ercole portò da Parigi la peregrina notizia, cessarono gli scrupoli, e l'entusiasmo lanciò via il tappo. Il contino Leopoldo che allora faceva le prime armi nel bel mondo possedeva un guanto rapito ad Adriana, mentre ella saliva in carrozza; reliquia, che se a uno spirito chiuso e alieno da queste delizie sembra poco meno che inutile tornava invece preziosa fra persone sensibilissime alle grazie della bellezza e dell'arte.

Adriana, da parte sua, rispondeva con tanti baci, buttati a piene mani qua e là sull'amato pubblico, e questi baci pur troppo erano colpi di sasso per molti cuori di vetro; gli animi, riscaldati da sguardi, si erano a poco a poco accesi e si era giunti al punto che ognuno credeva follia la speranza di essere prediletto.

Si disse che il conte Giulio dal suo palco di proscenio avesse già ottenuto qualche grazia, ma era un'argomentazione di coloro i quali conoscendo i gusti della Saintrose, sapevano che il conte aveva cinquanta mila lire di rendita all'anno

Però lo si disse e lo si credette, e ognuno sa che molte cose esistono in cielo e in terra, per l'unica ragione che si credono. Don Giulio, da vecchio lupo di mare, ne rise come d'una facezia e posando al serio, rispondeva che aveva ben altre faccende per la testa; ma quando suo cugino, il famoso marchese Ercole, lo invitò a una serata di gala in casa di Adriana, tentennò, preso da un certo timido imbarazzo, che forse aveva radice in qualche sentimento piú intimo e segreto.

Il buon cugino, battendogli paternamente le guancie con due dita gli disse: - Poverino, tu ardi.

- Di che?

- Di Adriana; lo dice tutto il mondo.

- Fai male a ripetere questa sciocchezza, che potrebbe compromettermi in faccia al barone Siloe

- Certamente: Adriana da parte sua non è piú prudente di me

- Chi? la Saintrose?

- Sí: ella chiede sempre del bel contino.

- Baje!,

- Te lo giuro e, poiché io sono il suo primo confidente, mi ha fatto molte volte il tuo elogio, e mi ha obbligato a trascinarti alla festa o vivo o morto.

- Se io non venissi?

- Faresti opera santa certamente - rispose il cugino sogghignando.

- Io so che voi ridereste crudelmente di me.

- Ohibò! tutti noi si direbbe: Gran uomo quel conte!

- Io vi conosco troppo, e temo piú di tutti voi i sarcasmi di questa donna olimpica. Sono uomo di spirito e non dubitate che questa sera verrò a vostro dispetto.

Non solamente la paura di sembrare uomo dappoco e novizio, ma anche una misteriosa spinta aveva persuaso don Giulio ad accettare un invito obbligantissimo e innocente.

Non era amore, ma forse una naturale compiacenza, perché Adriana aveva chiesto di lui; era quasi un senso di riconoscenza, o, sopra ogni cosa, quella curiosità dell'ignoto che attrae gli uomini come i vortici del mare inghiottono i pesci. Dopo tutto non credeva d'offendere la causa di Severina, troppo alta, troppo santa, per essere confusa con un capriccio di prima donna, con un fuoco d'artifizio, colla commedia di una sera, con un amore infine che simile al vin spumante, traboccava tutto dall'orlo, lasciando secco il bicchiere. Di quanti dolori è madre questa facile filosofia delle distinzioni!

Il marchese Ercole presentò don Giulio ad Adriana dicendo:

- Sposo novello e fra poco marito fortunato.

- Possibile? - esclamò la bella donna spalancando in aria di stupore i suoi grandi occhi di bove.

- Sissignora: amante e marito fortunato - rispose senza esitazione il conte. - Da noi è un fenomeno ancor possibile, per chi, s'intende, ha meriti speciali.

Il conte sapeva a memoria queste vecchie parti, né si smarrí innanzi al sorriso sardonico che sfiorò le labbra di Adriana, la quale, stesagli la mano, disse: - Lasciatevi complimentare.

- Credeva che diceste: lasciatevi copiare - rispose il conte con uno scoppio di risa, che toccò nel profondo del cuore la sdegnosa donna.

Fra cinque o sei che formavano un crocchio intorno alla regina della festa, s'incrociò un fuoco di fila contro il povero conte, e contro la sua precoce serietà; don Giulio sentí le punte di quella satira fine, e ricorse alla protezione della padrona di casa, che con aria grave e solenne troncò le ciarle, dicendo: - Il signor conte ha ragione: il miglior amante per una donna dev'essere il marito.

- D'un'altra... - continuò la voce rumorosa del marchese Ercole, e don Giulio, pensando a Severina e a sé stesso, provò un senso di rimorso non senza dispetto.

- Voi siete caduto fra i pirati, conte - gli disse Adriana prendendolo per una mano e indicandogli una sedia vicina. - Vi rincresce, poverino, d'essere rapito, eh?..

Don Giulio sedeva per la prima volta vicino a quella donna favolosa, che era solito vedere cinta del mitico fascino delle luci, delle gemme false e delle armonie; questa donna, che odiava gli sciocchi d'odio selvaggio, aveva cercato lui, e ora lo dominava colla pupilla mobile, eloquente e supplichevole; la voce di Adriana, era nel discorso melodiosa come nel canto, anzi aveva certi sbalzi improvvisi, certi strascichi sottovoce, certi sorrisi granulati che davano i brividi all'anima.

- Rispondete, amico - replicò quando furono lasciati in disparte - Vi rincresce d'essere rapito?

- Come posso saperlo? - rispose con un leggier tremito di voce il conte. - Io non conosco quel che valgo; sono io merce preziosa o di contrabbando?

- Uomo di poca fede e di pochissima carità. - Adriana s’impensierí, lesse a lungo i rabeschi del tappeto, e balzò rapidamente a servire il the.

Don Giulio sentiva un fruscio nelle orecchie e una vertigine al capo, come uomo che giunto all'orlo d'una cascata gira e precipita.

La conversazione di quella sera tumultuosa non concesse ad Adriana la vittoria, ma le ispirò un immenso desiderio di vincere, il conte, schermendosi a tutt'uomo, non aveva perduto un palmo di terreno, ma non poteva fuggire senza vergogna e senza pericolo.

Di fermo proposito la sera appresso stette a lungo nel palco del barone, seduto vicin vicino a Severina, quasi per ritemprarsi nella contemplazione di quella bellezza gentile e casta. Ma la Saintrose fu piú d'ogni altra sera prepotente, affascinante e strappò le lacrime ai vecchi abbonati. Don Giulio, che vedeva molti cannocchiali diretti verso di lui e Severina; che udiva costei tessere gli elogi di Adriana e che, pur troppo, non era senza esca al cuore, si domandò imperiosamente: “Che faccio?”. Per le gallerie, sulle scale venivano a congratularsi con lui, come se nel trionfo di Adriana egli avesse gran parte; qualche giovinetto, vedendolo passare, lo seguiva d’uno sguardo lungo e pieno d'invidia, onde il conte stizzito, malcontento di sé e di tutti, pensò di lasciare il teatro, che gli pareva una fornace ardente. Prese onestamente licenza da Severina e dal barone, ma nell'atrio gli fu consegnata una lettera, che alla scrittura riconobbe del suo buon cugino il marchese. Eccola in tutta la sua semplicità:



“Caro Conte,


“Scrivo sotto dettatura di una persona la quale ti prega di concederle per mezz'ora la tua carrozza dopo l'opera; prima della fine del ballo la carrozza sarà a' tuoi ordini. Il y a anguille sous roche.

ERCOLE”


E piú sotto in piccolo carattere: “Adriana”.

Don Giulio corrugò la fronte e si carezzò tre volte i baffi, come soleva nei gravi istanti della vita. Maledisse il cugino, che per suo piacere andava tendendogli queste trappole, ma subito dopo riconobbe che l'intervento di Ercole era forse un'astuzia di Adriana. La preghiera era onesta e discreta e il conte non poteva, senza vergogna, esporsi a un duro rifiuto, che il buon segretario avrebbe reso noto al mondo con qual scandalo, Dio lo sa!

Diede perciò gli opportuni ordini al cocchiere, raccomandandogli di essere di ritorno avanti la fine dello spettacolo, quindi tornò al suo palco di proscenio, mentre incominciavano le prime note del ballo; vi si rannicchiò all'ombra per paura che il barone e Severina non lo ravvisassero. Sebbene giuocato dal caso e dagli amici, tuttavia questo nascondersi, questa paura d'essere veduto tornarono agre e noiose a don Giulio, che, umiliato, se la prendeva con Adriana, col cugino, coi cicaloni, con sé stesso. Amava egli Adriana? poteva negare d'aver tremato innanzi a lei? non aveva stentatamente trovate parole per Severina, egli che vantavasi bel parlatore ed esperto nell'arte del commuovere?

Sfilarono schiere di ballerine, apparvero sulla scena mari e monti, ma il conte nel fondo del suo palco fissava gli occhi sotto la sedia, colla testa stretta fra le mani; vedeva una carrozza correre per le vie di Firenze, arrestarsi in via Tornabuoni; una donna scendeva, dava una grossa mancia al cocchiere, e insieme una lettera, un invito per domani, un colloquio insomma... Ed ecco i servi della casa a parte del segreto; tutti i servi della città e tutti i padroni di questi servi parlavano di lui e della Saintrose, e cosí lo scandalo andava allargandosi come una macchia d'olio sopra un pannolino. Non era questa appunto l'intenzione di Adriana? per ciò gli aveva chiesta la carrozza quasi volesse allearsi tutta la città per combattere lui solo, inerme, pauroso del ridicolo, vanaglorioso, e che a venticinque anni vantava il coraggio di prender moglie.

Aveva bisogno di respirare l'aria della notte e uscí a mezzo il ballo: la testa gli ardeva e il cuore, fatto piccino, soffriva come d'un doloroso presentimento. Incontrò non so quale deputato, suo amico, che gli presentò un alto personaggio russo; il conte balbettò una delle solite frasi e stava per andarsene, quando una voce argentina, nel piú armonico francese, fece rivolgere perfino l'alto personaggio.

Tutti s'inchinarono e fra sei o sette curiosi accorsi si apri una via gloriosa, per la quale passò Adriana, vestita come lo sa fare un'artista da palco scenico, che ha fretta, cioè il ricco abito di raso dell'ultimo atto, un peplo mezzo greco e mezzo parigino intorno alle spalle e una nube di garza bianca intorno alla testa. Don Giulio impallidí ma essa venne senza esitazioni a lui, gli stese la mano e distintamente: - Vi ringrazio, conte, che mi offriate la vostra carrozza; accetto, perché il carrozzone del teatro è un attentato contro l' arte...

Il conte diede la mano ad Adriana; gli occhi dei curiosi, dei portieri, dei gendarmi, dei pompieri, dei servi schierati innanzi alla porta si conficcarono su questi felici mortali, e don Giulio ne sentí veramente il bruciore come se cento lenti infuocate lo pigliassero di mira.

Il conte non poteva chiuder sola Adriana nella carrozza, né ella glielo permise: sedette vicino a lei e i cavalli scalpitarono, gettando scintille, sul difficile selciato. Trentasette cannocchiali (il marchese Ercole li contò) si fissavano in quell'istante verso Severina.




In una valle degli Appennini il conte Gian Andrea possedeva un antico castello, quasi sempre disabitato e che per il lungo disuso minacciava rovina. Ne restavano ancora intatte dieci o dodici sale, tappezzate dai ritratti di famiglia e ingombre, piú che adorne, di mobili massicci di noce, con vecchie stoffe dorate, e da una dozzina di panoplie e di alabarde.

In una di quelle sale, seduta in una vasta poltrona cardinalizia troviamo Adriana, stanca d'un lungo viaggio, percorso fra le due e le sei del mattino. Come vi sia giunta lo potrebbe dire meglio di me don Giulio, che siede a lei di fronte, immerso in gravi pensieri e coll'abito di velluto alla cacciatora coperto di polvere. Il carnevale è finito a mezzanotte e siamo alla prima mattina di quaresima: l’alba rischiara dai larghi finestroni le cornici d'oro, gli schienali delle sedie, dà al pallore dei due amanti un'espressione abbastanza medioevale.

- Messere - esclama Adriana sorridendo - siete già pentito?

- Ora che vi amo.? - risponde il cavaliere, prendendole ambo le mani.

I misteri vogliono poche parole, e quando abbiam detto che un nuovo amore ha cacciato il vecchio, non ci resta altro a spiegare per chi d'amore s'intende; gli altri credano al mistero, piú comodo e spiccio d'ogni dimostrazione.

- Mi piacciono queste vertigini - esclama accendendosi alquanto in viso Adriana. - Cos'è la vita senza le commozioni? a mezzanotte era in teatro; quattro ore di fuga attraverso boscaglie ed eccoci al mattino in pieno medioevo. Non avete liuto, conte?

- Voi avrete bisogno di riposo.

- Voglio dormire in questa sedia patriarcale. Credete voi che nessuno conosca il nostro nascondiglio?

- No: ho fatto credere a una certa causa di rivendicazione di terre, per la quale è necessaria la mia presenza. Adriana, dite almeno che credete all'amor mio: non vi pare che abbia fatto qualche cosa per voi?

- Sí, sí, vedo quanto vi costo.

- Non dico questo.

- Vi costo una dote di due milioni, se non mi sbaglio, e una fanciulla ingenua, che è quanto di piú raro esista, dopo i milioni.

- E, se ciò fosse, non merito la vostra fiducia? - Adriana, voi m'insegnate veramente cos'è l'amore.

Il cavaliere veduto da lontano sarebbe sembrato inginocchiato presso Adriana, rapito in quegli occhi, che avevano tutte le variazioni azzurrine dell'aria. Durante quell'estasi, l'intelligenza di don Giulio non aveva la virtù di oltrepassare il breve circolo di quelle pareti, in cui stringeva tutto il suo universo, e ogni legge di onore, ogni suo dovere, ogni rimorso, dileguavano come cera alla fornace, o gli sembravano leggi necessarie per il bene di tutti, ma fatali a ciascuno. Severina, nel caldo immaginare di quegli istanti, gli appariva come una di quelle sbiadite figure a guazzo, mingherline e grette, mentre Adriana brillava di tutti i colori ardenti di Tiziano.

Don Giulio tornò due o tre volte a Firenze, e credette opera generosa confessare al padre le sue intenzioni; il conte Gian Andrea, vedendolo tanto risoluto, aggrottò le ciglia e gli voltò le spalle, esclamando: - Fate voi, ma è un'indegnità. - In questo tempo Severina cominciò a notare la freddezza del conte, e nacquero i primi disaccordi col barone, disaccordi che portarono, come sappiamo, a un fiero contrasto fra i due gentiluomini e che affrettò la partenza del conte per Parigi.

A quest'uomo aveva scritto il dottore la lettera che conosciamo, ma la penna gli diventava di piombo, quando egli si accingeva a porvi il fatale indirizzo. Si imaginava già presente il conte e distrutte le care illusioni, che da un mese lo facevano tanto felice. Perché non ritardava di qualche giorno il compimento di questo sacrificio? aveva diritto il barone di comandare a lui, arbitro della salute e della felicità di Severina?

Il servo entrò.

- Cosa volete? - gli chiese il dottorino.

- Non aveva una lettera da consegnarmi?,

- Vi ha mandato qui Sua Eccellenza?

- Nossignore, ma ella stessa non mi ha pregato poco fa…

- Sí, sí... Eccola.

Il dottorino sillabò nello scriverle queste parole: Genève, Hôtel Suisse, mentre un agro sorriso gli sfiorava le labbra.

- Sua Eccellenza - disse il servo - mi disse di affrancarla

- Fate pure, galantuomo...

Il servo, presa la lettera, andò diffilato alla posta.

Marco si coprí il volto, strinse i pugni ed esclamò: - Ah, io divento perverso... Non importa, il conte almeno non verrà.

Il buon dottorino era colpevole d'un gran peccato, ma non è il caso di confessarsi ora per lui.



Secondo il consiglio del dottorino, il barone scrisse alla contessa Ippolita, una delle piú care amiche di Severina, e alla marchesa Ermanna, la vecchia zia, pregandole di venire in suo soccorso, ed esse accorsero sollecite al letto dell'inferma, che già cominciava a uscire del lungo assopimento e a dar segno di conoscenza.

Era il sesto dí che Marco dimorava al Ritiro e la malattia, precisamente come egli aveva pronosticato volgeva a buon fine: il conte Giulio, dietro le congetture del barone, doveva aver ricevuto già da tre dí la lettera del dottore e forse fra un'ora, forse fra due poteva arrivare chi sa con quale aspetto! chi sa con qual animo! Alle vaghe interrogazioni di Sua Eccellenza, il dottorino rispondeva con parole monche, sforzandosi di mettere innanzi non so quali dubbi sul carattere di don Giulio, uomo, secondo lui, di nessun valore e inabile a ogni buon'azione. Adriano, occupato nel pensiero di Severina, desideroso e nello stesso tempo pauroso d'incontrarsi in quell’uomo fatale, prestava orecchio distratto alle parole dell'amico, accorgendosi né poco né tanto del suo sguardo timido, del suo frequente smarrirsi e del colore insolitamente pallido. Sua Eccellenza, per quel resto d'orgoglio che ogni uomo porta con sé anche nel sepolcro procurava nascondere l'ansietà che lo dominava, né i servi, né altri, meno la vecchia zia, sapevano del ritorno del conte; il barone soffriva una nuova pena, l'aspettare, ma il suo contegno era sempre grave, solenne e di una immobilità marmorea

Invece una gran tempesta rumoreggiava nel cuore di Marco, il quale era certissimo che don Giulio non sarebbe giunto mai, se non per miracolo. Nessuno meglio di Marco sapeva quel che era scritto sopra la lettera mandata a Ginevra, e il buon dottorino che non si era ancora pentito del crudele scherzo giuocato a due uomini illustri, stava, covando rimorsi, ad aspettare gli eventi. A questi rimorsi non era abbastanza compenso l'amore di Severina? egli solo finalmente dominava il campo e don Giulio non era forse tal uomo da meritarsi anche di peggio?

Severina, sebbene sfinita, aveva riconosciuto la zia e l'amica, ma destandosi e smarrendosi a vicenda, stentava a raccapezzarsi del luogo e del tempo: girava gli occhi incantati, e ad una ad una andava risuscitando le memorie piú note e piú lontane, senza mai chiedere di don Giulio, come s'ei fosse scomparso dalla memoria.

La sera si avanzava. Il barone passeggiando sul terrazzo, spingeva l'occhio nella lontananza del lago già involto dall'ombra; passò l'ultimo piroscafo, né don Giulio comparve. Che avrebbe detto a Severina, se per caso domattina, nelle ore piú serene, chiedeva del suo fidanzato? Come ingannarla ancora senza mettere a estremo pericolo questa fragile intelligenza?

Intanto il dottore, venuto al letto della malata, vide che gli occhi estatici di lei si fissavano per la prima volta ne' suoi e che un leggiero rossore, come un raggio passeggiero di sole, colorava le sue guance e saliva, smarrendosi, fino alla fronte. Se non gridò per la gioja, fu per non sembrare scemo o crudele, ma sentí ch'ei rinasceva nel pensiero della fanciulla proprio secondo il suo desiderio, e gli parve di essere lí a contendere quella bella creatura a un branco di avidi ladroni. La luce che usciva dalle sue pupille in quel momento aveva un non so che del falchetto e dell'aquila.

- Don Giulio? - domandò sottovoce la vecchia marchesa, che seduta in una grande poltrona a' piedi del letto, diceva corone.

- Non è arrivato - rispose Marco.

- Noi forse lo cerchiamo invano sulla terra, e questa povera bambina... - I singhiozzi l'interruppero, ma poi seguitò: - Può darsi che anche tornando a ragione continui l'inganno di prima e che voi, dottore, suo fidanzato...

- Io? - esclamò tremando il dottorino.

- Se ella vi amasse, e se ciò fosse la sua vita?

- Ma, io povero uomo...

- Il conte aveva un milione e mezzo: io ve ne darei due, dottore, per amore di questa bambina...

- Sua Eccellenza non acconsentirebbe mai.

- Adriano ama sua figlia... e sopra la necessità non vi è che Dio.

Il dottorino a queste parole, pronunciate da una voce tremula e lagrimosa, sorrise fantasticamente e si appoggiò, per non cader ginocchioni, alla sponda del letto. E qui torna opportuno, anche a giustificazione intera del nostro buon amico, osservare come da un mese egli vivesse in un mondo meraviglioso, nel quale i suoi pensieri erano messi alla tortura e i suoi affetti esposti alle piú nude tentazioni onde non dobbiamo far gli occhiacci se qualche volta lo troviamo in colpa e in falsi giudizi. Un dí vede una solitaria bellezza fra le piante sorridere a lui e se ne accende come è ben naturale in un animo gentile; ma questa fanciulla è ricca ed è pazza ed egli cerca di fuggire; no, il destino lo spinge verso di lei, che l’abbraccia, che gli dichiara un immenso amore, che cade come morta a' suoi piedi: da una settimana veglia per lei a consultare gli oracoli della scienza ne spia ogni respiro, ogni batter di palpebre; la gelosia gli entra in cuore quel dí che egli si sente degno di Severina; qual meraviglia se tutti questi casi hanno dato al suo carattere un accento esasperato, frenetico, fanatico e se le sue idee non si svolgono secondo il corso ordinario?

Egli stesso se ne accorse alcun poco, e quando venne questa stessa notte a chiudersi nella sua camera, andava chiedendosi se per avventura egli non avesse fumato dell'oppio, o passeggiato a capo nudo sotto il sole. Severina aveva arrossito onestamente innanzi a lui; sia che ella l'amasse come conte, sia che l'amasse come dottore, nessuno poteva negare che tornando miracolosamente alla vita e alla ragione la fanciulla non si attaccasse a lui, come a un caro salvatore. - Domattina sarebbe ritornato a quel letto e alla luce chiara del dí Severina lo avrebbe riconosciuto: “Sei tu?” (il dottorino immaginava per suo conto anche il dialogo). “Sei tu, caro Giulio?- oppure, chi siete voi?” “Io son uno che vi amo, Severina!”. “Ah! Dunque fu tutto un sogno quel che io soffrii...?”. “Voi avete veduta la morte ma io ho tanto vegliato presso di voi...”. “Ah! grazie, mio caro” “Chi oserà porsi fra noi?”.

Quest'ultima frase Marco la declamò, destando perfino il rimbombo sotto la volta della camera, ed egli stesso n'ebbe vergogna e paura.

“Diavolo!” pensò “che la sua pazzia mi entri addosso?”.

Altri pensieri nol lasciavano requiare, perché la voce misteriosa della vecchia marchesa ronzava ostinatamente al suo orecchio: “Io vi darei due milioni...!!...”. Questo era il mondo della favola! che dovesse svegliarsi un bel mattino ricco sfondato? Egli aveva sempre pensato da stoico sul valore dei beni di quaggiù; ma il diavolo non aveva mai fatto tintinnare tanto da vicino il sacchetto dell'oro, come quel dí, e il suon del metallo, ognun lo sa, fa voltare anche il sordo. Essere ricco e amato! - gli pareva la somma di una filosofia nuovissima, che abbracciava in poche parole tutto l'universo, anima e corpo, la vita e la morte e andava domandandosi se egli poteva senza scrupolo stendere la mano a quel mucchietto e stringere in pugno il proprio avvenire; ma le risposte venivano facili e in folla, dal punto che tutto era per la salute di Severina.

Come si vede, questo rimuginare gli doveva mettere le fiamme al viso e lo sbalordimento al cervello; gli parve che la sua camera divenisse troppo angusta per quelle idee magnifiche, onde uscito bel bello, venne a una scaletta che metteva al giardino, sforzò dolcemente la molla d'un cancello di ferro, uscí all'aria aperta, che gli era tempo. - Non era ancor suonata mezzanotte, ma tutti dormivano in casa; nessun cane vegliava a custodia, cosicché il dottore poté passin passino attraversare il largo del giardinetto alla volta del bosco di magnolie. - Viaggiavano nel cielo certe nubi distese in figure grottesche e come agglomerate intorno a un piccolo cerchio di luna squallida squallida; l'aria sentiva ancora del fresco e dell'umido di una pioggia cessata da poco, e che aveva sí immollato il terreno che il piede vi sfondava mezzo; poco lontano risonavano i fiotti del lago, grosso in quella notte, che rompendosi contro il solido granito delle fondamenta mandava il suono di una pasta molle sbattuta da un furioso. Qua e là, negli spazi di terra luccicavano sotto quel pigro lume le pozze d'acqua, in ogni forma e misura, come i frantumi d'uno specchio.

Il dottore, che stringeva, come dicemmo, il suo destino nel pugno tornò all'idea fissa della pazzia, né gli parve improbabile questo pericolo per un uomo che si trovava al cospetto d'un domani sí meraviglioso e fantastico. Gli vennero in mente le favole di certi romanzi letti da lui in quella età che gli altri li fanno e trovò non esser falsi del tutto quei personaggi, fabbricati a Parigi, pieni di peccati e di milioni, che passeggiano la notte a meditare astuzie e trappole, che compiono le piú fiere vendette, uccidono rivali, avvelenano vecchie avare, rubano testamenti... - Ma che diavolo! - mormorava e si batteva la testa col pugno. - Son io che penso cosí?

Il dottorino sognava ad occhi aperti e del suo fantasticare avevano colpa, non solo gli avvenimenti, ma anche quel cielo a ragnatele, quelle goccie diacciate, che grondavano dalle lucide foglie delle magnolie, quel brivido che gli serpeggiava sotto pelle, quel non so che, fra la speranza ed il dubbio, che fa tentennare i piú saldi, quella fede in un amplesso vicino, in un bacio sí ardente che avrebbe fatto di una pazza una savia donna e di un uomo ragionevole forse...

Udí poco lontano il suono d'un passo e un fruscío di foglie. Ristette su due piedi, ma il cuore accelerò i suoi battiti fino allo strazio - Tende l'orecchio, traguarda fra ramo e ramo e sente un vero scricchiolío di sabbia, onde pauroso, non per natura, ma per le circostanze in cui si trovava, si rannicchiò nei rami sporgenti e aguzzò verso il tempietto del fauno che sorgeva in fondo a quel viale. Di là spuntò un'ombra, che forse era un uomo.

Forse anche l'ombra notò un agguato sul suo cammino, perché ristette ferma, senza fiatare, spiando senza dubbio nelle fitte tenebre dove stormivano le foglie. Il dottore andava almanaccando tra sé chi poteva essere l'ignoto vivo, che a quell'ora passeggiava in un giardino chiuso, non certamente il barone che era alla statura piú piccolo d'una spanna, non uno dei servi, né un ladruncolo perché al portamento, al nero cupo dell'abito e a certi rivolti candidi al collo e alle maniche, gli pareva un uomo molto ben vestito.

Si ricordò, nel tempo di un amen, d'aver già udito altra volta dalla finestra un suono di passi nel giardino e dei gemiti sommessi e subitanea, come il lampo, gli balenò un'idea, una brutta idea per la verità: - Che fosse il conte?

L'ombra rassicurata, si avanzò di buon passo direttamente e verso il dottore, che avrebbe voluto sprofondarsi sotterra.

- Chi siete? - domandò con voce strozzata Marco.

- Lode a Dio! temeva d'incontrarmi nel barone Adriano.

- Ma voi?

- Ella è forse il signor dottore? - disse sottovoce lo sconosciuto.

- Lo sono, ma vorrei cortesia per cortesia - rispose alquanto stizzito.

- Sono il conte Giulio - e nominò quel cognome che noi non possiamo trascrivere pei dovuti riguardi.

- Come sta la poveretta? - chiese di nuovo il conte; ma il dottorino, che sentiva un'ambascia insolita e come goccie d'acqua diacciata stillargli sul cuore, non rispose che con un mugolío sordo di meraviglia e di rabbia. Finalmente trovò modo di domandare alla sua volta.

- Avete forse ricevuto la mia lettera?

- Quale lettera? - disse il conte non badando al modo famigliare e duro del suo vicino.

- Vi ho scritto saranno tre dí, ma non so...

- Da quindici giorni mi trovo sul lago e da una settimana penetro tutte le notti in questo giardino, come un ladro di campagna; ella saprà che io ho tanti rimorsi da scontare...

- Lo so.

- E che cosa mi si scriveva?

Il dottore pensò un istante e franco rispose: - che ogni speranza per Severina era perduta; che non veniste piú da queste parti perché Sua Eccellenza ha giurato di uccidervi. - Il dottore nel pronunciare queste parole andava tendendo i nervi e stringendo i pugni come se volesse soffocare alcuno.

- È la grazia che cerco - disse lentamente e chinando la testa l'infelice.

Il dottore lo adocchiò, e non poté impedire che questo accento disperato non vibrasse in modo strano dentro di lui.

- Vorrei parlarle con sicurezza - disse per il primo il dottore dopo un lungo silenzio. - Dove potrò trovarla, signor conte?

- Alla riva di Molina, non lontano dall'Orrido, al di là del lago. Domandi a qualcuno ove abiti l'Inglese e glielo diranno.

- Ella traversa il lago tutte le notti?

- Verrà una notte che mi fermerò a metà.

- Ah! - esclamò Marco, con un grande respiro, sollevando gli occhi al punto piú alto del cielo, e quel grido pareva volesse significare: Io sono ben tristo!

- Non dirà d'avermi incontrato, dottore?

- No!

- Resto qualche ora a contemplare il lume di una finestra; finché quel lume risplenderà... - ma alzando le spalle il conte s'interruppe dicendo: - Buona notte, dottore. - E gli stese la mano: poi sparí per il lungo viale.


Marco era legato alla terra, né sapeva formolare un pensiero che avesse un colore e una proporzione; tentennava la testa, sorrideva a fior di labbro e all'improvviso cantare d'un gallo si scosse pauroso, girò gli occhi intorno, uscí dal suo nascondiglio, corse in punta di piedi fino al cancello, salí al buio la scaletta, precipitò nella sua camera e cadde colla testa sul guanciale.

La peggior tempesta rumoreggiava in quella povera testa: non aveva per avventura traveduto, sognato, delirato? No, il conte era vicino a due passi da Severina, a due passi da lui. Come poteva egli indifferentemente rinunciare alla felicità per cedere il posto a questo ladrone notturno? Il conte non temeva il barone, e il barone lo aspettava ansiosamente; questi due uomini non si odiavano piú.

Chi travolgeva le piú semplici leggi della natura e del cuore umano per tormentar lui, che aveva tanto fatto per Severina? Questo miracolo non avveniva per volontà di Dio, perché il barone non credeva in Dio: uno spirito maligno faceva strazio del suo cuore, e moveva gli avvenimenti come in un giuoco di scacchi. - Oh mia povera Severina! - disse sospirando - ch'io abbia a fuggire da te nel momento che, riaprendo gli occhi, mi avresti beato del tuo sguardo dolcissimo? Prima che spunti il sole, ella potrebbe svegliarsi piú serena, piú docile, piú ragionevole: “Don Giulio non è con voi?” domanderebbe alla zia e all'amica. “Dov'è don Giulio? Chiamatelo” Il momento è solenne! - Il dottore ritto in piedi nel mezzo della camera e nell'ombra accompagnava coi gesti questi pensieri tumultuosi. “Il momento è solenne! io entro... Sei tu?..E dopo? se quell'uomo si uccide? se l'inganno non durasse piú d'un giorno? che diverrei io in mezzo a questo mondo fantastico, falso di nome, fra abitudini non mie, fra gente che mi compatirebbe, o riderebbe di me.? Troppi gruppi in una volta, mio Dio!...

E pensò finché un tremendo riflesso di luce non disegnò i contorni del monte Bisbino, che sovrastava; il cielo s’era fatto lucido e netto e brillavano ancora molte stelle. Fissò gli occhi in quell’azzurro e in quelle luci, e l'arcana poesia de' suoi quindici anni risuonò a lui d'intorno quasi portata dall'aria mattutina, bisbigliata dalle foglie scosse. Qualche pettirosso provava la voce, ma la sua vicina aveva ancora troppo sonno per rispondergli. Rumori incerti, susurri, fruscii parevano accennar ai primi moti d'una natura che si sveglia, e, la calma del mattino era succeduta ai tenebrosi schiamazzi, alla pioggia e al vento della notte.

- Addio! - mormorò il dottorino, non sapendo bene egli stesso a chi fosse rivolto questo saluto.

- Addio, sí; ma prima voglio vederti.

Si vede che la risoluzione era presa; una fuga.

Era ben tempo di fuggire, e troppo grave era stato il castigo di tanto indugio. Fuggire con una dolce imagine nel pensiero, e l'orgoglio in cuore di aver compiuto una nobile azione pareva bello a chi non aveva mai pensato che un uomo possa uccidersi.

L'aspettavano ancora le Alpi, i vetturali, gli osti e le montanine della Svizzera; al di là si vendeva birra eccellente a buon mercato e alla peggio la birra istupidisce. Dopo un mese sarebbe tornato allegro come Celestino, con una lunga pipa, coperto d'una buona crosta di esperienza, che salva l’anima dalle malattie croniche.

Egli sarebbe partito al primo raggio di sole, lasciando al barone un biglietto coll'indirizzo del signor Inglese e tanti saluti in casa. Era risoluto come un gendarme, ma prima voleva rivederla una volta, il tempo d'un minuto, d'un batter d'occhio.

Pensò che a quell'ora tutti dormivano nella casa, perché la vecchia zia ritiravasi a mezzanotte, e Marianna sul far del mattino, nel tempo che ogni infermo suol essere piú tranquillo, godevasi un sonnellino.

Un corridoio e una scala di pochi gradini lo separavano da quella cameretta. che avea incominciato a venerare; l'andarvi in quell'ora e solo sarebbe sembrato altre volte alquanto indiscreto, ma egli, fuggendo per sempre, moriva per Severina e a chi muore si usa pietà.

Uscí; né tremava, né titubava. La sua ragione era tornata ai sodi principi, alla verità delle cose, ai propositi schietti e luminosi, e se concedeva un'ultima lusinga al cuore, era per meglio rabbonirlo. Giunse e stette innanzi all'uscio; era il medico e poteva entrare.

Entrò.

Marianna sonnecchiava in una poltrona accanto al caminetto, sul quale ardeva una lucerna accesa appena appena da non essere spenta. Si accostò al letto dell'inferma come aveva fatto cento volte in quei giorni, e non meno franco, e non meno onesto. Sedette sopra la sedia vicina e ascoltò il dolce respiro della dormiente. - Dorme! - disse a sé stesso per il bisogno di occuparsi in qualche argomento. Ma il misurato respiro della fanciulla a poco a poco prese il suono d'un ragionamento susurrato all'orecchio, e il dottorino si chinava per udir meglio; ma non sentiva che un alito sul viso. Il dottorino si strinse le tempia fra le due mani, e la pazzia dell'amore, della voluttà, dell'odio svolazzò e lo toccò; il pianto che da due ore ruggiva chiuso nel petto, minacciò rompere il suo silenzio, e il dottorino lottava atleticamente con un altro sé stesso piú selvaggio, piú irriverente. Entrambi erano forti, ma il selvaggio conosceva certi impeti maligni, che avrebbero ucciso un uomo, e perfino svegliata Severina.

- Ah mia bella.... - soffiò il maligno, e svincolavasi dalle strette; ma l'angelo buono lo buttava ginocchioni a piè di quel letto, fremente, ma devoto, riverente, adoratore di quella divina bellezza assopita.

Mentre il dottorino, caduto a piedi del letto, smemorato di ogni cosa andava di fantasia in fantasia, una mano fredda, ma dura come ferro, lo toccò. Levò gli occhi. Era il barone.

- Usciamo - disse freddamente il barone e si avviò verso la porta, né si arrestò che nella propria camera, seguito in silenzio dal dottorino, che senza imbarazzo, senza preoccupazioni, ma rispettoso e severo, stette innanzi a Sua Eccellenza, gli occhi fissi nel suo viso.

Il barone, chinando le palpebre come soleva fare nei grandi momenti, domandò: - Ama ella mia figlia?

La domanda era inaspettata, sebbene il dottore avesse già fiutato nell'aria la tempesta, onde balbettò, ma non rispose.

- Ella non mi risponde.

- Sono colpevole? - domandò alla sua volta il dottore per lasciare il fastidio della risposta al barone.

- Io non giudico, esamino. Quali sono le sue intenzioni, signore?

- Fuggire da questa casa.

- Grazie: almeno è onesto, se non...

- Se non ricco! - continuò con amarezza il dottore.

- Ciò che non posso concederle, o signore, è il diritto di offendermi.

- È giusto! - mormorò il dottore, chinando umilmente la testa.

Il barone prese a passeggiare innanzi al dottore, che sentiva rimbombare nel cuore ciascuno di quei passi solenni, e pesandogli il silenzio ancor piú dei rimproveri, si fece forza a dire:

- Vostra Eccellenza non vorrà essere troppo severo nel giudicarmi; io non cercai il pericolo, e innanzi al pericolo fuggo.

- Il conte è qui - esclamò Adriano alzando la voce.

- Come sa?

- Ella l'ha incontrato questa notte nel mio giardino.

- Ero sorvegliato?

- L'amore toglie il sonno agli amanti...

- Ella ci ha spiati...

- Il conte è qui forse da molto tempo, perché venne al convegno notturno, come uomo che conosce bene la sua strada. Perché ella non me l'ha detto?

- Perché... - il dottorino arrossí sebbene avrebbe potuto rispondere d'ignorarlo; ma non affatto innocente, come sappiamo, ebbe paura che il barone gli leggesse in viso il tranello della lettera falsa, ma gli occhi di Sua Eccellenza notarono quelle vampe.

- Basta, signor dottore; le risparmio la pena di una menzogna.

- Ma!...

- Ella ha interesse che il conte non ritorni...

- Cioè, interesse... - La vista del dottore cominciava a offuscarsi.

- Povera Severina, perdette un amante e ne ritrova due: da bravi, come l'aggiusteranno, messeri? è ai dadi o all'armi che si giuocherà questo cencio di dote?

Era troppo; e il dottore, sotto lo spasimo di questo sarcasmo, che gli passava il cuore, evocò quell'antica fierezza di carattere che altrimenti si potrebbe dire coscienza della propria virtù.

Non era piú la condizione casuale di un uomo, che lotti contro un sentimento ampio, indefinito, fatale, ma era lotta sincera di un uomo giusto contro un uomo ingiusto, e il conforto della propria innocenza gli ispirò una risposta vivace: - Quel che mi dice Vostra Eccellenza non mi offende, perché non mi tocca; ella non può compatire un minuto di viltà in un uomo onesto, né io mi meraviglio, sapendo come non a tutti gli uomini è dato d'essere generosi...

Gli occhi del barone si animarono e nell'arrestarsi a un tratto Sua Eccellenza non seppe celare un insolito impeto d'ira; ma trovò una fronte alta e due occhi, che non temevano i suoi.

- Chi non sa perdonare, - continuò il dottore - non intende e per verità lodo Dio che a non tutti abbia largito i tesori di un'anima capace d'intendere e di perdonar tutto. Amai donna Severina, non lo nego, e l'amava già prima di metter piede in questa casa; ma, poiché ella, signore, ha spiato i miei passi, avrà scoperto come non mi giovassi delle occasioni, che un beffardo destino mi offriva, quanto trepidassi alla vicinanza di questa creatura, che si dava tutta a me, come ad un amico, come ad un fratello; tentennai un giorno, non lo nego, ma fu sotto il fascino di alcune domande che feci a me stesso: Non sono io degno di lei? Non l'ho io ricreata? - Oggi rispondo calmo, sereno che no, e fuggo. Se paresse al signor commendatore ch'io fossi troppo pigro ad andarmene, può licenziarmi: una pena la merito e son pronto a scontarla.

Il barone andava squadrando questo giovanotto con occhio stupito, e gli impeti di un sacro orgoglio offeso salirono piú volte a suggerirgli una parola acerba, e che fosse l'ultima di un dialogo già troppo lungo e umiliante; ma la parola non venne, e invece gli parve di cedere al peso di un'eloquenza seduttrice, che gli mescolava i giudizi nel capo, e confondeva le verità piú lucenti. Non rispose subito, perché si avvide che le parole vecchie non valevano, e a trovar le convenienti, che sciogliessero il nodo e che fossero nello stesso tempo aristocratiche e giuste, non aveva la calma necessaria..

Il dottore stanco d'aspettare quest'ultima parola, che egli stesso aveva invocato, urbanamente disse: - Se il signor barone mi crede indegno di questa parola, io ubbidirò anche a un gesto...

Al fremito, che corse per tutto il corpo del barone, si sarebbe detto ch'ei fosse adirato di quella non mai finita umiliazione, o che avesse dispetto di quell'uomo, tanto pieno di giustizia.

- Cedo il posto, - seguitò Marco - a persona piú degna e piú rispettabile...

- Non è vero! - gridò infuriando Sua Eccellenza. - Questi elogi non richiesti sono per me una nuova offesa: è una gara di generosità, che mi adira.

- Il conte ha dei diritti, o, se meglio le piace, dei doveri.

- Chi intende queste contraddizioni?

- Mi sforzo d'intenderle. Amo, lo confesso, ma il mio posto non è qui.

- Sa il conte d'essere aspettato fra noi?

- Lo saprà avanti mezzodí.

- Non precipitiamo gli avvenimenti.

- Donna Severina potrebbe dimandare di lui.

- Di lui! di lui! - ripete Adriano. - Il mio sangue si ribella ancora a questo nome.

- Ancora? Non intendo...

- Ah! non intendete alla vostra volta: voi siete un uomo ben stravagante. Perdonate la confidenza colla quale vi parlo.

Il dottorino strabiliava e sentendo la voce piú conciliante e il modo col quale il barone gli parlava, piú modesto e amichevole, fissò uno sguardo curioso in quel volto pallido.

- Il conte non merita questa felicità, n'è vero?

- Non voglio giudicare...

- Severina forse... - Il barone esitò e poi alzando a un tratto la voce esclamò - Vi rincrescerebbe, dottore, s'io diventassi generoso? è invidiosa la vostra virtù?

- Ciò vuol dire?..

- Vuol dire che ogni minuto della vita c'insegna una verità: dottore, è finita la prova, e vi ritrovo, qual vi pensai, grande e degno d'una regina...

- Io?

- Voi, sí, voi. Da molto tempo vado spiando i vostri passi, le vostre veglie, e quando penso che per opera vostra Severina m'è ridonata, e che ella ha imparato ad amarvi, e che voi l'amate, come posso io preferire un uomo, che l'ha tradita, e che versò il pianto de’ suoi rimorsi nel seno d’altre donne?

- Ma il conte l'ama...

- Ami! è questa la mia vendetta.

- Ciò è impossibile. -

La nobile e dignitosa condotta del dottorino, una speciale simpatia per lui, la gratitudine naturale per il tanto bene da lui modestamente compiuto avevano risvegliato nell'animo del barone non so quali antiche memorie di tempi giovanili, allorché, levando la testa dai grossi libri della filosofia, egli discorreva fra gli uomini a cercare le orme d'una virtù, che dicevasi passata sul mondo. In quei dí, nella vivacità dei vent'anni, sorvolando ai fatti comuni della vita accidentale, e alle frequenti viltà, il barone soleva fermarsi piuttosto a contemplare in sé stesso gli elementi di una filosofia umana capace di fatti grandiosi; perciò al tornare di quelle memorie, credeva ritrovare nel dottorino quel sé stesso, che la disperazione aveva da molto tempo ucciso. In questa bassa landa dei vivi, dove l'esercizio di una semplice bontà è tenuto a vile, e dove si preferiscono le grandi massime che intontiscono alle povere opere che guariscono, dove gli uomini si fanno ogni giorno piú noiosi che utili, il barone compiacevasi di aver trovato una rupe solitaria, che aveva ancora del vecchio macigno. Se prima non se n'era accorto, la ragione si è che viveva lontano dalla gente e questi rari avanzi giacciono nascosti nella moltitudine e non li trova se non chi li desidera.

Il barone strinse la mano dell'amico e gli domandò:

- Avete capito?

- Se non è un sogno, è questa un'offerta ch'io non posso accettare...

- Temete l'ira del conte?

- Il conte è un infelice.

- Lode al vostro Dio.

- Eccellenza, - rispose con voce commossa il dottorino - vi fu un istante che io sognai questa lusinga e questa fortuna, ma cattivo consigliero è il cuore innamorato e il piú delle volte trionfa a danno della sana ragione. Quale sarebbe il mio destino s'io non fuggissi? lo dica una parola: Sarei un uomo spostato. Innanzi agli altri cesserei d'essere quel che sono, per diventare che cosa?.. un amante, un marito, un ricco fortunato e caro al cielo. Signore, per tutto ciò può pur meglio di me bastare il conte, e lasci che io torni, ove sono desiderato, fra quella gente a cui ho promesso il mio aiuto, dove il conte è inutile. - Amiamo l'equilibrio delle cose che regge il mondo. Chi mi assicura oltre a ciò che Severina non si ravveda dell'inganno? Abbiamo incominciato questa storia pietosa come una novella per le donne gentili, ma è tempo (e ne sento il bisogno) di tornare al giusto senso delle cose, di ristabilire l'ordine, anche a dispetto del cuore... Lasciamo i vecchi romanzi e facciamo della vita. - Il conte ama donna Severina, e da molte notti entra in giardino per sedersi sotto una finestra illuminata; anche qui, signore, c'è dell'infermità, e un'offesa fatta a un uomo disperato potrebbe eccitare una vendetta, in qualunque modo spaventosa sia che il conte castighi me, e sé stesso, o tutte quante le donne che gli parleranno d'amore.- Invece s'io torno al mio paesello, Celestino sarà contento, il conte tornerà giustificato dai rimorsi, ella, Eccellenza, avrà la consolazione di ricordare un uomo... non affatto indegno di vivere...

La voce gli mancò e non potè arrestare una mezza lagrima che spuntò sotto le palpebre; il barone, che stava riflettendo alle cose udite, sorreggeva il volto colla palma e tentennava la testa sforzandosi di rassegnarsi.

- Non è meglio cosí? - riprese con voce piú chiara il dottorino come se ora parlasse per conto altrui. - Il cuore non è ostinato e si lascia a poco a poco persuadere, se la ragione sa parlar come va.

- Questo signore... tornerà? - mormorò Adriano. - Non so imaginare il modo migliore di riceverlo.

- Gli scriva due linee d'invito, che io porterò; cosí avrò la coscienza di aver compiuto tutto il mio dovere, e sconterò qualche peccatuccio... - Il dottore sorrise.

- Mandiamo un servo.

- No. È necessaria una persona che narri la storia di questa malattia, e che dimostri la necessità d'un pronto ritorno, se no, il conte potrebbe pensare a un tranello.

- Per parte mia?

- So quel che mi dico, Eccellenza, quando parlo de' miei peccati: due amanti, che s'incontrarono sotto la medesima finestra, si scambiarono delle spiegazioni, ma può darsi che qualcuno abbia accusato anche Vostra Eccellenza di un delitto premeditato. - Il dottorino sorrise allegramente, e sforzò al ridere anche la patetica faccia di Sua Eccellenza.

A colazione la vecchia zia narrò come Severina allo svegliarsi avesse dimandato di don Giulio e il dottore permise che le si parlasse del prossimo arrivo del conte. - Ma Severina non si accontentò di vaghe promesse e il dottore le fece dire dalla contessa Gemma come prima di sera don Giulio sarebbe di ritorno. - La malata in questa dolce aspettazione si acquetò.

- Tutto va bene, - disse il dottore fregandosi le mani - e farò stampare questa guarigione sul bollettino medico. Chi sa che non mi faccia una gloria europea. Ho bisogno di un po' di gloria…

Il barone scrisse un breve invito per il conte e sul far del mezzodí il dottore scendeva i gradini di una scala che metteva nel lago, ove era pronta una piccola gondola. Adriano lo accompagnò fino all’ultimo gradino, muto, malinconico, come se partisse l'amico della sua infanzia, e a stento seppe balbettare: - Passerò tre ore di febbre.



Il dottorino entrò nell'elegante gondoletta e in tre colpi di remo si allontanò solo solo da quella malaugurata costa. Quando fu nel mezzo del lago, tirò i remi in barca e, lasciando che l’acqua leggermente commossa dal vento lo cullasse a suo capriccio, cercò di occuparsi in idee comuni per distrarsi, ora guardando il cielo coperto di nuvole, ora i monti e i loro contorcimenti, ora le coste interrotte dai rapidi ghiaieti.

Cosí oziando e tratto tratto movendo i remi colla noncuranza d'un pesce che scuote le pinne, venne senza accorgersene quasi a contatto d'un'altra barca, guidata da un vecchio rematore, che a' giorni suoi non aveva mai tratto a riva un carico tanto irrequieto.

Erano dieci sartine, venute da Milano a far festa sul lago, pigiate sui loro sedili di legno, con abiti quali li sa fare chi veste sí bene le altre, le une bionde, le altre brune, qualcuna né bionda né bruna, tutte con occhi ladri, delicati, e scosse in quella vecchia barcaccia dagli urti, che dava la vivacità, lo scherzo e la paura.

- Legna verde! - disse il vecchietto al dottore, accennando a quel complotto vivace, che faceva un cicalío da cento passere sopra una pianta; e il dottore fu sorpreso dalla varietà degli scialletti rossi e azzurri, dalle piume confitte in gusci di noce, o cappellini, legati sopra una piramide di capelli, come, alla lor volta, le fanciulle destate dallo scherzo del barcaiuolo, si fecero a contemplare la bella gondoletta e il bel pedagogo che andava, dicevano, a pesca d'anguille, non risparmiando le puerili esclamazioni, né le risa semplici, che scoppiavano a loro dispetto dai fazzolettini bianchi e profumati. - Marco, sebbene avesse l'animo penosamente occupato, pure fu in procinto di seguire la bella comitiva fino alla villa Pliniana, dov'erano dirette: passare un'ora fra quelle passerelle, spiegar loro l'iscrizione latina che vi è coi soliti commenti che un giovane di spirito sa cavare da una pagina di bel latino, sarebbe stata senza dubbio la consolazione di tutti i suoi mali. Qualcuna aveva sul viso una espressione profondamente erudita e avrebbe saputo cavar nuovi commenti dalla lezione, supponiamo, carezzare la barba del bravo pedagogo pescatore d'anguille; ma il braccio, seguendo l'impulso d'un pensiero piú profondo girò a poco a poco il remo e spinse la gondoletta piú in là verso la riva di Molina, dove già apparivano poche case e piú in su, a mezzo il monte, tre paesetti con ville eleganti e tra le pieghe del monte ombre e verdi cupi e su su le nude rotonde delle cime e sopra tutto il panorama una tinta di sole acquaiuolo. Che malinconia! Che voglia di piangere!

Ma il fantasticare era inutile dal momento che la barca, toccata riva, non poteva andare piú oltre (egli avrebbe cosí vagolato per sempre), onde sbarcò, chiese al primo uomo, che gli venne incontro, del signor Inglese, e, dietro le indicazioni, venne frettolosamente a un'osteria modesta, ma di bell'apparenza.

Intese come, secondo il solito di tutti i dí, milord fosse andato al vicino Orrido di Molina, dove passava qualche ora a dipingere, e senza perder tempo il dottorino prese la strada dell'Orrido, che ben conosceva, annoiato di questi indugi che prolungavano il suo martirio. Sassosa era la strada ed essendosi messo un vento straordinario, ei camminava con pena, presso a poco come chi sogna di correre e che sente le gambe intralciate.

Il cielo facevasi sempre piú spesso di nuvole e andava offuscandosi specialmente per un cumulo gigantesco, che montava dietro il montagnone - la cuffia del Bisbino; la punta di Torriggia appannavasi sotto un velo di nebbia e le case al di là, fra cui il Ritiro sfumavano come vecchie pitture sopra un muro umidiccio; stormivano gli alberi, si turbavano i ciuffi d'erba che spuntano dai crepacci, e volavano folate di polvere, onde il dottore si fermò a considerare come cosa non mai veduta, la superficie del lago senza riflessi e qua e là qualche barca peschereccia, che guadagnava la riva, le onde, che venivano attorcigliate come cannoncini e che finivano a squagliarsi fra i ciottoli in spume bianchiccie e morbide come la panna.

Qualche uccellaccio del mal augurio strapiombava da una catena all'altra dei monti, sopra le ali lunghe e immobili, e nell'aria tutta sentivasi un tempo diavolone. Per conto suo il dottore non era malcontento che la natura prendesse il colore de' suoi pensieri e stette fermo a contemplarla, finché le prime goccie non lo scossero.

Il conte vestito di un abito di flanella bigia, succinto e stretto alla vita da una cintura di cuoio, con un berretto alla staffiera orlato di nastro scozzese, veniva, con una cassettina sotto il braccio, alla volta del dottorino che, tiratosi sotto il monte, pareva un masnadiere in attesa.

- Signor conte - disse.

- Chi mi chiama? -

- Sua Eccellenza il barone Adriano Siloe mi manda; eccole un suo biglietto.

- Che? Sua Eccellenza ha scoperto...

- Ha saputo che don Giulio è da quindici giorni sul luogo.

- Da chi lo ha saputo?

- Io glielo dissi. Non si ricorda, conte, di avermi incontrato questa notte?

- Ella è il dottore? È questo l'avviso d'un'ultima disgrazia? Dica schietto, vi sono da lungo tempo preparato. - Cosí disse il conte, ma contro sua voglia impallidí.

- Ho bisogno di parlarle a lungo, né qui mi pare luogo opportuno.



Come si vede il dottore pigliava tempo a rispondere e il conte, confusamente commosso, correndo col pensiero a indovinare, balbettando rotti monosillabi, precedette il compagno verso l'osteria e sentiva dentro di sé che, se la fanciulla era morta, eterna sarebbe stata per lui la disperazione d'averla uccisa.

Cosí nel primo momento, ma poi riebbe il sopravento quell'orgoglioso cinismo, che da qualche tempo si era fatto in lui un'abitudine, molto piú che agli uomini in genere spiace sempre mostrarsi ad altrui vinti dalla propria coscienza; talché la disperazione dell'animo, che stava per rompere in furore, si sciolse in un amaro sogghigno e in un tentennamento del capo e in un levar di spalle beffardo, come chi dicesse: - Tutto è finito.

Entrarono nell'osteria, dov'erano raccolti alcuni barcaiuoli e pescatori e, quasi milord temesse che quella buona gente leggesse nel suo volto il gran delitto, si fece a ciarlare con loro, guastando l'italiano da bravo inglese, e cercò del fuoco alla pipa di Anselmo, l'oste, e comandò del vinetto bianco per sé e per il dottore. Costui andava considerandolo con meraviglia, ma piú occupato di sé, seguí il conte su per una scaletta fino a un camerone, disposto a studio di pittura, con un cavalletto e sopra un quadro coperto, presso la finestra, una tavola piena di manoscritti, di giornali, di musica e uno sparpagliamento di disegni, di schizzi e di stampe su per le pareti e per il pavimento. La bella Luisina entrò con un fiasco di una vernaccia favorita da milord, e bisogna dire che il conte si fosse dato a tristi abitudini a giudicare dall'esagerazione del fiasco. Infatti don Giulio non esitò a tracannare d'un fiato il suo bicchiere e, come se ad un tratto uscisse in una sfida, gridò: - Lo dica dunque, è morta.

- No.

- È moribonda? Sia spiccio.

- No. Donna Severina è guarita.

- La pazza?

- Non è piú pazza.

- Lo sono io? beva dottore e parlerà piú chiaro.

- Benissimo! - gridò alla sua volta il dottorino, riempiendo il bicchiere.

- Beviamo, perché il racconto è allegro e bello.

Il conte non bevve piú durante il racconto del dottore, che si fece a narrare con tranquillità tutta la storia di Severina dal giorno che egli l'aveva conosciuta e l'invito ricevuto dal barone e l'incontro colla fanciulla e i nuovi inganni, in cui era caduta e i baci e gli abbracci che egli, senza suo merito, aveva toccati e la crisi del male risolta e la sicura guarigione. Tacque affatto del suo amore e fece bene; però per acquistar lena e per rischiarare le idee, il buon dottorino, che pareva il piú allegro uomo del mondo, empí non so quante volte, dopo la prima, il suo bicchiere, non per deliberato proposito di ubbriacarsi, ma sbadatamente.

Quando don Giulio intese com'egli fosse aspettato, il suo volto s'infiammò per un precipitoso afflusso del sangue, tentennò la testa per tirarla al giusto apprendimento di quella notizia e balbettò:

- È vero?

- To'! - gridò ridendo pazzamente il dottorino - ch'io sia venuto a contar fandonie? - e picchiava troppo forte il bicchiere sulla tavola.

- Severina? - esclamò il conte balzando in piedi e fregandosi la fronte e gli occhi. - Ma non è un sogno questo? mi svegli dottore, se questo è un sogno.

Il dottorino ghignava allegramente.

Il conte pareva fuor di sé e girava per la camera, ridendo, esclamando, scarmigliandosi i capelli, frugandosi nelle tasche, come uomo che cerchi qualche cosa e che non sappia ove riesca.

Il tempo frattanto si era fatto buio e le vetriate tremavano per i forti buffi, che venivano dal bacino di Argegno; una pioggia a sbalzi picchiava rabbiosamente sui vetri e lampi rapidissimi si disegnavano facendo aureola fiammeggiante al montagnone di contro e talora nicchiando come la pupilla d'un selvaggio incatenato.

Il dottorino stentò a levarsi dalla sedia e non senza fatica venne fino alla finestra, da cui grondavano rigagnoli lunghi e giallognoli e serpeggianti, come vermiciattoli, fino a mezzo della stanza. Appoggiò la fronte, che bruciava, al vetro gelido e forse per effetto di quella vernaccia, bevuta in mal punto, dopo un lungo digiuno e un viaggio malaugurato, vide sul piano plumbeo del lago sorgere boschetti e cespi e un villino e macchie di fiori, fra i quali movevasi un bianco cappello di paglia.

Però il conte, già troppo egoista per natura, non si avvide né dei fumi, né dei barcollamenti, da cui era preso il dottore.

- Bisogna partir subito.

- Subito - rispose il dottore.

- Non permetto che ella mi segua con questo tempo,

- Si figuri - rispondeva l'altro, tanto per rispondere.

Ma nessuno di que' barcaiuoli volle prendere il remo e sfidare il tempo, neppure per qualunque offerta, segno che della vita quei filosofi avevano un concetto piú largo d'una moneta d'oro. Il conte cominciò a bestemmiare fra i denti e domandò al dottore, se sentivasi cuore d'accompagnarlo.

- Anzi è il dover mio - rispose il dottore, tanto per rispondere.

Ma questa volta milord aveva fatto i conti senza l'ostina, la bella Luisina, che, all'intendere quella disperata risoluzione, fu per cader morta o poco meno, dallo spavento; venne innanzi al bell'inglesino, e alzò la voce e le braccia, e lo cinse al collo e lo bagnò di lagrime, chiamandolo con tali nomi pietosi, che tradivano in lei quella cara amicizia, che va perdendosi nel mondo.

Spiacque a don Giulio questo contrattempo, sebbene non gli riuscissero tutt'affatto nuove queste cerimonie della bella ostina, onde con violenza aspra e ferina si sciolse da lei, che cadde davvero ginocchioni al suolo; il conte urtò nel gomito il dottore e quasi lo sospinse fino alla gondoletta, maledicendo a mezza voce le ostine, che, quando amano, amano davvero.

- È giusto che mi ricordi di te, ma domani... Presto, dottore, a poppa. Il tempo è molto brutto, ma ella conoscerà meglio di me questi venti...

Il dottore obbediva. Arrancarono i remi, e aiutati da pochi pescatori accorsi, presero il largo, ma l'onda li risospinse ancora a riva, finché accordatisi colla voce, si curvarono entrambi sui quattro remi gagliardamente, piú con rabbia che con arte, ciascuno, per ragioni sue particolari e alla sua maniera, orgoglioso di sfidare la morte. La gondoletta prese l'aire come vollero i padroni, e, quando fu a cento colpi di remo dalla sponda, cominciò a galoppare, precisamente come un poledro balzano e il conte andava gridando con voce chiara ed eroica: - Attento! l'onda è qui: su! - e la gondola montava in groppa a un'onda, che veniva per schiacciarla; il vento si portò i cappelli dei remiganti, la pioggia fitta li batteva ostinatamente nel viso e negli occhi.

Si era già al tramonto, che in quel dí aveva precipitata la corsa e al giungere della sera meschiavansi, non saprei dire, quali nuovi venti alla battaglia, cosicché l'onde squallide si gonfiavano e si sbattevano affannosamente le une contro le altre destando rombi e gemiti misteriosi. La gondola una volta dié di cozzo nella curva di un'onda e da tutte per un terzo girò sopra un fianco, schiaffeggiata le parti da fiotti, che sormontarono e che cercarono tirarla giú coi loro uncini di spuma, ma i due rematori con un grido se l'intesero, e con un po' di tabusso e di scialacquo si drizzarono. Toccavano già il mezzo del bacino sudati, grondanti d'acqua, coi capelli strabuffati, arsi in volto, coi denti stretti, e mandavano ad ogni colpo una specie di ruggito che alla sua maniera sfidava le furie delle acque e dei venti.

- Severina merita questo viaggio, n'è vero, dottore?

Cosí domandò il conte in un istante di tregua e seguitò: - Da bravo, punti a destra. Io vedo già nelle tenebre il mio paradiso...

Il dottorino man mano che entrava nell'animo del conte, scopriva come l'orgoglio e l'egoismo ispirassero tutte le sue passioni come quel riaccendersi dell'amore avesse in se piú del furore che della compassione e infatti don Giulio sentivasi spinto verso Severina da una disperazione, che, radunata per tanto tempo fra le strane avventure, assopita qualche volta ma non spenta mai, aveva minacciato rompere in follia. Questa disperazione, quando riprese nome di amore, piú che amore si poteva chiamare bufera voluttuosa che eccitava gli spiriti fieri del patrizio e l'avidità cieca dell’uomo. Ecco perché il conte, senza accorgersene, riusciva crudele contro il dottore. Questi aveva già l'esca al cuore; la vernaccia gli dava le vertigini, l'ondeggiamento della gondola gli metteva in corpo la nausea, la pioggia e il vento gelato, destando in lui i brividi della febbre, congiuravano contro la sua ragione e contro i propositi gravi che aveva promesso di mantenere: passavano degli intervalli fra queste tenebre, nei quali il dottore smarriva del tutto la coscienza di sé e, come se la testa abitasse in qualche pianeta lontano, ragionava sí, ma non colle idee di tutti i dí, esagerandole, mescolandole, addormentandosi talora in una dolorosa estasi, che non era altro se non smemoramento. Perciò alle parole del conte sentí ribollire i vecchi spiriti domati fin qui, e, perduto il sentimento del giusto e dell’utile da ubriaco, infuriò contro l'uomo che l'oltraggiava contro la sorte che l'aveva stretto fra le asse d'una gondola, e si sarebbe volentieri rovesciato nei flutti, non per volontà di morire, ma per scatenarsi contro un nemico qualunque.

Fu in questo rapido delirio ch'egli dié quattro o cinque colpi di remo a contrattempo, in risposta all'offesa del conte, il quale non immaginando quello scherzo e colto all'improvviso, fu imbarazzato nel remeggio, talché un'onda subdola, che incalzava, urtò la navicella di traverso, la spinse e la portò con una lama d'acqua, per buon tratto, all'indietro contro un'altra, che piombò sopra la prua dov'era il conte: questi, che sentí cedere l'assito, tentennò, si protese col corpo piú che poté sopra il remo sinistro, e, rinversandosi energicamente sulle calcagna, trasse la gondola da un pericoloso avallamento, sebbene fosse già stortata sul fianco e assediata da nodose spire. Un lampo rossigno, che balenò, illuminò il valoroso lottatore, bello nel suo abito bigio, e coi capelli ricciuti, che colle scosse cavalline del capo, toglieva dagli occhi; anche il dottorino lo vide e gli parve sublime.

- Conte - gridò - pare che l'inferno sia ben vicino al vostro paradiso.

- Avanti, il vento è gagliardo, ma per Severina scenderei anche negli abissi.

- Povero Orfeo! ahi! mi si è spezzato un remo.

- Maledetto! - urlò il conte, che sentí un sinistro scricchiolio e un nuovo urto alla gondola.

- Che è questo, che è questo? - ripeté.

Una spaventosa idea venne in mente al conte, a cui il contegno del dottore cominciava a parer ben stravagante.

- Conte - seguitò il dottorino con voce sguaiata - fermiamoci alla prima osteria? Luisina ci porterà della vernaccia.

Queste celie, che scaturivano quasi dal buio, fra pericoli di morte, suonarono male all'orecchio del conte, che cominciò a dubitare d'un inganno.

Il racconto udito poco prima gli parve a un tratto inverosimile, e corse col pensiero al barone; pensò che Severina fosse veramente morta e che questa fosse una trappola e una vendetta. Vendetta di chi? non d'altri che di quest'uomo venuto a sfidarlo sí bizzarramente fra la tempesta, correndo egli stesso pericolo di morte. Non aveva detto il dottore di baci e di abbracci ricevuti, senza meritarli? non aveva vegliato molte notti al letto di Severina? ch'ei l'amasse? non aveva costui contemplato a suo agio tanta bellezza? ah certi suoi sorrisi maliardi! senza dubbio il dottore era un rivale disperato.

Queste idee si accumularono nella testa del conte nel tempo che brilla un lampo, e la gelosia feroce e la vergogna dell'onta, e la paura della morte e dell'ignoto destino piombarono, come tanti nembi, nell'anima, e gli oscurarono la vista.

Il dottore taceva; era forse scomparso? il conte lavorava di braccia, la pupilla fissa innanzi a scrutare il pericolo, l'orecchio attento ai piú deboli fiati di vento, presentendo quasi coi nervi il venire di un'onda, fiutando nell'aria la via giusta, duro, ostinato, pronto a contendere quella spanna di assito alle furie e all'ira degli uomini.

Povero Marco! era ubbriaco e se ne accorse egli stesso allo scombuiamento, che nacque nel suo cervello, a certi vacillamenti delle gambe, alla spossatezza degli spiriti tutti, al tremolío della vista; le sue parole gli risonavano ancora nelle orecchie fastidiosamente, come avviene a chi si accorge d'aver detto uno sproposito e che avvilito e vergognoso non ha scuse pronte. Quel che avesse detto non sapeva raccapezzare, e di questo solo aveva un barlume, d'essere cioè un miserabile senza lealtà, senza coraggio, che aveva assalito un nemico incapace di difendersi. - Perché era dunque venuto in traccia del conte? perché aveva ingannato il barone? quale lotta orribile e grottesca si era preparata, dopo tante prove? - Aspettava seduto sulla punta della barca che il conte, abbandonati i remi, si slanciasse contro di lui a chiedergli parole piú chiare, a scongiurargli il suo amore per Severina e Dio sa la tragedia che la gelosia e l’ubbriachezza avrebbero potuto rappresentare su quella scena di flutti, nel disordine della bufera.

Si sarebbero afferrati pel corpo? avrebbero lavorato di ugne e di morsi, finché nel nome di Severina non fossero entrambi precipitati a finir la lotta nel fondo?

Il conte, che nell'affanno del remare non aveva fiato per una parola, a poco a poco, ripigliato l'andamento dell’onda, cominciò a cercare del dottore, che rannicchiato a poppa, non dava segno di vita.

- Dottore! - chiamò; e sospettò ch'ei fosse, nello scompiglio della tempesta, caduto nel lago; ma un singhiozzo lo fece trasalire, al quale seguí un altro e finalmente un pianto lamentoso, come di bimbo istizzito, con parole mozzicate, delle quali il conte non intese se non: - Scusi, sono ubbriaco.

Il dottorino infatti aveva sentita tanta compassione di sé, che piangeva per non saper far di meglio, né desiderava altro che di poter svanire come un buffo di fumo. Il conte piú attonito che irritato si ricordò della vernaccia tracannata ingordamente dal dottorino all'osteria, e, pensando che nella foga del remare gli fosse andata al capo, compatí quello sciocco ubbriacone, che pieno di vino osava sfidare tant'acqua.

- Si sente male, dottore? si consoli che il vento cala e che siamo sotto costa. Non si muova, perché Bacco e Nettuno non se l'intendono troppo bene. Ne faremo un quadretto, dottorino, per i morti miracolosi di Torno. - Il conte rideva.

Queste celie giungevano al dottore come il suono d'un lontano fruscio di foglie, perché il suo cranio era girato e raggirato fra certi anelli, che si dilatavano e si stringevano a vicenda, rapidamente, sí che talora gli sembrava di scender basso basso fino a toccare fondo e di balzarne su elasticamente come un sughero, fino al pelo dell'acqua. Il conte rideva, ma alla vista di lanterne a vento, che movevansi innanzi a un casino e al mormorio di voci non troppo lontane, il cuore tornò a picchiar forte, come al tempo dei piú ingenui amori; guidò la gondoletta a una nota scogliera, ove soleva sbarcare nelle altre sue visite notturne, e fu solo all'urto della punta contro i sassi che il dottor si svegliò di soprasalto, girò gli occhi, rammentò, comprese dov'era, si mosse quasi per istinto, e cadde, piú che non saltasse, dalla gondola all'asciutto. Il conte gli diede mano, perché non tuffasse, ma vedendo che il malanno era poco, e che il dottore, tornato in sé dopo un sonnellino di cinque minuti, balbettava scuse stracche, lo affidò alle cure della Provvidenza e prese la corsa verso il Ritiro. Il dottorino restò immobile alcun tempo cogli occhi fissi al suolo e sorrise mestamente di sé stesso; lasciata la gondola ben assicurata colla catena a un macigno, montò fino all'orlo della strada e chiamò il conte; ma il conte non c'era piú.

Cercò qua e là, come meglio poteva nell'oscurità cupa di quella strada, ma si trovò solo, troppo solo. Stette pensando al cammino che doveva prendere, se verso il paese o verso il Ritiro, e sentí proprio come due forze egualmente tenaci che lo tiravano dalle due parti.

Don Giulio venne di corsa fino al Ritiro, che distava cento passi dallo sbarco, e i servi, avvisati del suo arrivo, gli furono incontro e lo riconobbero.

- Mi attende? - disse con ansietà.

- Da due ore e colla piú grande inquietudine - rispose il vecchio napoletano.

- Dov'è?

- Di qui; a destra per la scala.

Il conte precedeva il servo, che non correva abbastanza; agli ultimi gradini gli mancò il respiro, e calmò il battimento del cuore premendovi ambo le mani. - Come il dottore aveva consigliato, si era tenuto discorso a Severina del prossimo arrivo di don Giulio, che si fingeva chiamato da Milano: ma al giungere di quel tempaccio, nacque in tutti la paura che il dottore e il conte fossero stati sorpresi per via. Il barone passeggiò per il tratto di due miglia nella camera di Severina, che, tendendo l'orecchio ad ogni soffio d'aria andava dicendo: - È qui?..

Il barone, che correva col pensiero a imaginare qualche nuova disgrazia, fatto piú livido, piú cupo stringeva le mani tanto da tagliarsi coll'unghie. Quando intese un suono di passi nel giardino e riconobbe la voce del conte, un grido che gli muggiva sordamente nel petto venne fino alla strozza, ma la superbia, lo sdegno di padre e di patrizio ve lo soffocò. Quale vergogna! sarebbe stato un grido di gioia. La vecchia zia entrò, sbattendo furiosamente le porticine e, agitando le braccia sopra la testa, disse piú che non parlasse. Severina balzò a sedere sul letto, spingendo innanzi il capo, spalancando i grandi occhi spiritati, colle chiome che si sparpagliavano, per immensa trepidazione. La contessa che l'aveva assistita in que' giorni, commossa, cadde muta, sospesa, accesa in volto a piè del letto; il barone si rintanò nel vano d'una finestra, e due, forse tre minuti secondi passarono silenziosamente e parvero lunghi come quei dell'agonia, finché suonò un passo nel corridoio. La fanciulla, ridendo scosse la testa, dilatò le pupille, portò le mani ai capelli, e, guizzando, sarebbe balzata dalle coltri, se prima non si fosse precipitato verso di lei un uomo.

Un grido acutissimo s'udí, che non pareva umano, e sparí la pazzia. Chi non avrebbe pianto?

Adriano posò la testa allo spigolo della finestra e guatò sdegnosamente l'ombra della notte; nessuno si accorse delle sue lagrime. Severina, dopo molte risa convulse e selvaggie, ruppe in lagrime e posò la testa sul guanciale, come persona stanca. Don Giulio piegò un ginocchio e, presa una mano di lei, vi pose le labbra e chiese, tremando ed esaltato, il conforto di una benedizione, che ottenne di poi.


Marco, che veniva gesticolando verso il Ritiro, assorto in penose investigazioni, delle quali non conosceva bene egli stesso la ragione, intese quel grido acutissimo, in cui pareva trasfusa tutta un'anima umana, l'amore, la gioia, e la pazzia. Si arrestò di botto, e quasi si svegliasse da un sogno, si orizzontò, ritrovò sé stesso, capí che la bella storia era finita, sorrise in atto di chi si rassegni, e mosse gli ultimi passi verso il cancello del Ritiro. Lo trovò chiuso, perché i servi, occupati altrove, non si sognavano punto di lui; sforzò colle mani le sbarre e le sentí rigide, dure, resistenti e nel loro tintinnio alquanto canzonatorie; alzò gli occhi alle finestre e vide un muoversi di lumi e un disegnarsi di ombre su per le ampie cortine; tutto era silenzio là dentro, ma era facile immaginare perché ciascuno tacesse. Immaginò alla sua maniera quella scena di aspettazione, di pianto, di slanci indomabili, di frenesie voluttuose, sebbene meste, e non seppe trattenersi dal dare una scossa a quell'inferriata.

Piovigginava ancora, e, sebbene nessuno avesse voluto di proposito escluderlo, tuttavia parve al dottore che il conte o altri si fosse vendicato dell'audacia d'un povero dottorino, che aveva fermati gli occhi e il desiderio sopra una baronessa. - Era la prima volta ch'egli si accorgeva che la figlia d'un barone è una baronessa.

Piovigginava ed egli, come un pezzente, non sapeva staccarsi da quella illustre porta, e andava cercando nell'ombra l'immagine diletta, per la quale tanto soffriva; ah poveretto! aveva fatto a fidanza sulla virtù razionale del suo ingegno e sulla fierezza stoica del suo carattere, spregiando in malo modo le esigenze del cuore. Il cuore aveva sofferto e taciuto fin lí, ma ora punto dall'ira e dalla gelosia, sorse a spaventosa ribellione; l'amore per la bella baronessa dagli occhi molli, dalle membra delicate, che egli aveva contemplata bellissima nel sonno, piú bella nel sorridere, quasi ammaliatrice nell'abbracciare nella follia e nell’abbracciare un amico, - quest'amore compresso, trascurato, reietto tornò con tutte le lusinghe delle memorie, con tutta la poesia delle imagini, con tutte l'armi di chi, desiderando vuol contrastare ad altrui un bene, e infuriò sotto la pioggia, il vento, il freddo...

- Ah l'indegno! - disse con un rantolío alla gola, puntando la testa al cancello. - Ah l'indegno! - urlò lanciandosi a corsa per quella strada buia, e piena di fango, scendendo alla ventura per i sassi della riva, finché tornò alla gondoletta, la sciolse, vi entrò e colla punta del piede la spinse in là, fra le onde, non per voglia di morire, ma perché in tanto scompiglio della ragione e del sentimento gli pareva quella una via buona ed unica.

Vi si distese come un morto nel cataletto, posò la faccia, stretta fra le palme, sull'assito e poiché, fra il rumore dell'onda e dei venti, il suo pianto non sarebbe giunto a orecchio umano, e le sue imprecazioni non a Dio, gemette e imprecò ad alta voce contro sé, il conte, gli uomini tutti meno Severina, che si figurava invece di sorprendere in quel vano tenebroso nella notte, fra l'accendersi dei lampi, e il rigoglio dei flutti.

Gli ultimi fumi della vernaccia davano alle imagini della fantasia e alle cose vere contorni nebulosi, in modo da confonderle tutte quante in un via-vai da labirinto in quadri placidi dissolventisi ad ogni tratto per trasformarsi. Poiché Severina era perduta per sempre, accese l'immaginazione a determinare il valore del bene perduto, riproducendola in tutta la sua bellezza co' suoi capelli ondeggianti, che tentava toccare, con quei tremiti di labbra, che aveva tante volte sorpreso, a cui credeva accostarsi e ne prelibava quasi la dolcezza... finché un urto piú forte alla barca gli ricordò dove fosse. La bufera stava per finire, e ne fu il segnale un fulmine che si scaricò al di sopra di Nesso: Marco balzò a sedere e vide corruscarsi tutto il lago in rapide scintille d'oro, e ripiombare poi piú tetre e spesse le tenebre.

Dove andava? la tempesta non era sdegnosa abbastanza per travolgerlo; l'ubbriachezza cessava, e sentivasi trascinato dal sonno. Parve ridicolo a sé stesso e se ne adirò. Non voleva essere eroe, non voleva morire. Giudicava il morire azione da vile, e forse aveva paura. Pensò che il genio buffo, il quale sorveglia ogni uomo serio, gli mormorasse: “Lí sotto non troverai Severina e domani ti pescheranno come un luccio” Il dottorino era lombardo, e sentiva tornare a poco a poco quell'antichissimo buon senso, che vola da queste parti e che proibisce a molti buoni di diventare eroi inutili.

Cominciò ad arrabbiarsi, e finí col ridere, - era l’ultima conclusione - e rider forte di questo povero dottorino, cullato dalle onde come Mosè, e che molle d'acqua e di vino avrebbe voluto combattere una battaglia contro una rovina di sassi e afferrare le saette per mettersele in saccoccia. Gli parve udire la voce grossa di Celestino, che rideva, onde brancicò per cercare i remi; ma quei del conte erano rimasti sulla riva e i suoi come trovarli? Girò dunque gli occhi oziosamente all'intorno, e li fissò alla riva non troppo lontana, dove campeggiava l'ombra del campanile del suo paese e vide errare dei lumi, e lo ferirono voci indistinte, che venivano di là. Ma a un tratto trasalí per una voce non tanto discosta, che gridava: - Tonio! Tonio! - e piú lo spaventò un tabusso come d’uomo che annaspi nell'acqua; guardò e vide a tre passi un cencio nero che si voltava nell'acqua e piú in là il lume d'una barca mentre la medesima voce ripeteva: - Tonio! - Si curvò sulla sponda della gondola e scrutò fra le tenebre; gli ultimi abbarbagli del lampo non erano troppo accesi per rischiarare la scena, ma un rantolo d’uomo che si anneghi, gli manifestò troppo chiaramente che Tonio non poteva rispondere. Non era tempo di vani pensieri: trasse le scarpe, e la giubba, e si rovesciò sopra un fianco della gondola, che si capovolse.

Nuotò verso il corpo, coperto tratto tratto dall'onda non ancora tranquilla; la spuma dei fiotti gli entrava negli occhi, ma guidato da un buon istinto, venne sotto al corpo, lo sollevò con una mano, lo trasse per un lungo spazio alla cieca finché, scrollando il capo, poté orientarsi sulla giusta direzione. La barca gli era sfuggita e pensò meglio fatto dirigersi alla riva. Lottava con un braccio contro le resistenze dell'acqua, che faceva gorgo intorno la sua testa non furiosamente, ma colla tremenda morbidezza di cuscini che si ammucchiano. Dietro di lui risuonò un tuffo di remi, e la medesima voce di prima: - Di qua, di qua!

La testa di Tonio ballonzava pesa sulla sua spalla e tratto tratto il cadavere tirava in giù il vivo; dico cadavere sebbene Tonio viva ancora a contarla, ma allora perduti i sensi, pieno d’acqua come una botte, rigido e stecchito pareva che avesse giurato di trascinare il dottorino alla casa dei pesci.

Andò ancora un poco come a Dio piacque, finché sentí sferzarsi il viso da una scuriada, che lo acciecò e per poco non gli sfuggí di mano la preda; l'afferrò con avidità rituffandosi piú d'una spanna, e ritornò a galla ansante, sbuffante, e alquanto disgustato di quell'acqua che non era vernaccia. E già la destra sentiva i pizzichi del granchio, e gli abiti molli e saturi pesavano come cappe di piombo e gli sovrastava minacciosa la noiosa legge che tira i pesi al centro, quando una nuova frustata attraverso il collo gli fe' gettare un grido di dolore; sentí serrarsi fra le orbite di un serpente, cioè di una corda, che gli lanciavano per la seconda volta dalla barca che, avendo a lottar colle tenebre, col vento e coll'onda non osava avanzarsi troppo per paura di schiacciare i naufraghi.

- L'ha abboccata: forza, ragazzi. - Cosí predicava la medesima voce, e il dottorino, che aveva abbrancata la fune, si sentí a un tratto tirato in rimorchio; l'acqua tagliata dalla barca veniva a gorgogliare all'orecchio di Marco, che per quel fregamento provava in tutti i nervi un voluttuoso solletico. Era tempo. Lo trassero a riva in tale stato che Tonio poteva sfidarlo alla corsa. Mentre lo portavano in un casolare vicino rinvenne alquanto, e parlava ancora d'una miriade di lumi, visti in quella dormiveglia, di voci che schiamazzavano, come se i lanzichenecchi fossero alla canonica, e di un amalgama di ciclo e di acqua che lo chiuse in una notte profonda.

Il fatto si può contar presto. Tonio, uno dei pescatori di quel paese, s'era indugiato sul lago, pigliando a gabbo certi fischi, che gli avevano zufolato: - Va' via! - onde fu colto dalla tempesta proprio nel momento che non avrebbe voluto esservi. Le sue donne a casa chiamavano già tutti i santi per nome, e i suoi amici, che l'avevano veduto un'ora prima presso Torno, avevano sfidato coraggiosamente il pericolo per venirgli incontro. Oggi a me, domani a te - dice la povera gente, e per fare una buon'azione non pensano mai a formare un comitato: perciò in dieci minuti furono nelle peste in cerca di Tonio; ma questi, che da mezz'ora nuotava in cattive acque, colla barca crepa e il timone rotto, aveva creduto migliore buttarsi a nuoto, ed era, dopo un'altra mezz'ora di lotta bestiale, ai rantoli; quando gli furono addosso il dottorino, e in seguito gli amici.

Allorché riconobbero il sor dottorino nel miracoloso salvatore di Tonio, tutto il paese fu in rumore, come se si avesse detto l'imperatore; la voce si sparse per tutte le case e prima di mattina lo sapeva il sagrestano del duomo di Como, che la contava ai preti, e via via fino all'imperial regio commissario. Ai nostri giorni l'avrebbero fatto cavaliere, ma a quei tempi avari si contentarono di parlarne coll'istesso calore che d'un omicidio e dello scandalo d'una bella signora.

Tonio guarí e dei due non saprei dire quale salvasse l'altro, perché, quando Marco aperse gli occhi, dopo una notte di febbre in casa sua, sentí una dolce consolazione e un gran piacere di essere al mondo, onde sono per credere che l'uomo soltanto, il quale abbia l'idea della sua dignità, è veramente vivo e incomincia a morire il dí che diventa inutile. Al suo fianco sedeva Celestino, che lo risvegliò del tutto dicendogli: - Raccontami qualche cosa del regno delle sirene; è vero che finiscono in coda di pesce?..che peccato! - Celestino gli somministrò un cordiale di risa sí sgangherate da riscuotere una mummia. La febbre durò tre giorni, ma Celestino assicurò che era tanta salute e non volle che si levasse da letto; dopo il quinto dí, poiché l'infermo aveva avuto giudizio, il dottore permise un bicchiere di contraveleno, cioè di quel vino che strappava le lagrime di riconoscenza verso la Divina Provvidenza, che dopo aver creato l'uomo, lo vuole allegro. Sul far della sera si bussò all'uscio.

- Chi è? - domandò Celestino.

- Sono io - rispose una voce.

- Chi è l'io?

- Sono il morto.

Entrò Tonio, un po' pallido, ma in gambe e lo seguiva la donna con un bimbo al collo, e ultima veniva la vecchia madre appoggiata alle spalle di una bambina, che di pulito aveva soltanto gli occhi. Tonio teneva per la coda un grosso luccio, uno di quelli che l’avevano aspettato a cena quella brutta notte.

- Che diavolo! - gridò Celestino. - Non è la festa delle rogazioni.

- Scusi, sor dottorino... La Ghita ha voluto venire per ringraziarlo dell'incomodo, che si è preso per me l'altra sera.

- Dov'è? è qui? - domandò la vecchia madre, che era cieca

- È qui - le rispose la fanciulla.

- Ne ho benedetti molti e sono stati fortunati.

Marco stese la mano commosso a Tonio, che gli offrí il pesce d'una libbra e tre quarti, assicurando che cotto nell'aceto doveva essere un cappone.

- Grazie, buon amico - rispose il dottorino.

Celestino voltò le spalle e andò a suonare il tamburo sui vetri: certe cose gli rimescolavano il sangue.

La vecchierella venne fino al letto e posata una mano tremante sulla testa del giovane:

- Benedetto te - esclamò - benedetti i tuoi figli e la tua sposa, quando l'avrai, perché hai salvato un padre di famiglia.

- Sicuro - disse Tonio; - se non c'era lei, la era finita per questi, come si dicono? Di' anche tu qualche cosa, Ghita, ci vuol altro che piangere...

Anche il dottorino ebbe una benedizione e, come se tutta quella felicità gli venisse da Severina. socchiuse gli occhi per rivolgere a lei un ultimo pensiero, che fu il piú venerabile e il piú delizioso. L’amore diventava religione.

Questa scena di pietà sarebbe durata a lungo, se Celestino non avesse levata la voce a sgridare Tonio, perché aveva lasciato il letto troppo presto, a sgridare la vecchia perché uscita di casa con tanti malanni in corpo e il bimbo perché aveva il naso sporco e la fanciulletta perché non si lavava la faccia. Se non si aiutava con questa sfuriata, Celestino (non state a ripeterlo) era un uomo da commettere uno sproposito, non dico piangere, ma commuoversi.

Venne il giorno che i due amici dovevano lasciarsi. Marco accompagnò Celestino per un buon tratto di via, e, man mano che si andava innanzi, le parole si facevano piú scarse, finché stettero a guardarsi in faccia, tenendosi per mano, sorridendo, ma non allegramente. Celestino aveva lasciato spegnersi la pipa.

Marco gli aveva narrata la dolorosa istoria del suo amore, e Celestino per assicurarsi che era veramente guarito gli disse: - Il barone, Severina e l'altro sono partiti ieri sera.

- Buon viaggio - rispose il dottore, ma la voce gli si affievolí.

- Troverai nel tuo scrittoio una lettera di Sua Eccellenza, che ho ricevuto ieri, ma che tenni nascosta per riguardo alla tua convalescenza. A proposito di lettere eccotene un'altra che mi ha scritto un uomo bizzarro pochi giorni or sono, e fa di leggerla mentre ritorni a casa, perché la strada è deserta e potrai riderne a crepapelle.

Celestino diede la lettera, accese la pipa, toccò vezzeggiando il ganascino all'amico e gli disse: - Stammi bene, mio bel filosofo, e guardati dai colpi di sole. - Poi se ne andò fischiando.

Il dottorino ritornò verso casa e, aperta la lettera rise di cuore nel riconoscere la propria scrittura e nel rileggere queste righe:


“Illustrissimo signor Conte,


“Non si meravigli se uno sconosciuto si rivolge a Lei coll' autorità d'un superiore....



La lettera, respinta da Ginevra per difetto di indicazione, dopo lungo giro, era venuta nelle mani di Celestino, al quale era diretta.

La lettera del barone diceva semplicemente: “Il vostro Dio meriterebbe d'esistere”, e chiudeva due biglietti da lire mille.

- M'hanno pagato! - borbottò il dottorino e fu per stracciare quei preziosi cenci di carta, ma pensò che venivano da Severina e che molte spose del suo paese non avevano un soldo di dote.

Passarono molti anni da quel giorno; la baronessa divenne contessa e dispero di ritrovarla fra i vivi; il conte ingrassò ed era nel suo pieno diritto, il barone si chiuse in biblioteca, che fu la sua prima tomba, l'epicureo Celestino, morto di colera, fu sepolto, come desiderato, colla sua pipa.

La benedizione fruttò al dottorino di campar lunghi anni sano e rubizzo, e, sebben vecchio, vive ancora contento di vivere. A chi gli domanda il segreto di questa beatitudine mostra una ricetta in latino, trovata fra le carte del suo povero amico, la quale può chiudere a guisa di morale, queste pagine non immortali. Recipe vinum bonum et pippam longam, e io la consiglio alle anime sensibili.


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