Carlo Goldoni

 

LA SPOSA PERSIANA

 



DEDICA

A SUA ECCELLENZA

LA SIGNORA DUCHESSA

D.NA MARIA VITTORIA SORBELLONI

NATA PRINCIPESSA OTTOBONI



Fra tutti gli auguri, de' quali piene sono le Teste degli Uomini, quello certamente è più ragionevole, che dal buon principio di qualche cosa fa sperar bene nel proseguimento, e nel fine. Chi sa dirmi, se la presente edizione, che ora incominciasi delle Commedie mie, col nuovo impegno da me composte, potrà sperare fortuna eguale alle cinquanta stampate, nella edizione Fiorentina comprese? Un buon augurio me lo promette: la prima Commedia di questo mio Nuovo Teatro Comico è la fortunatissima Sposa Persiana: il primo Nome che la illustra, che la protegge, è quello di V E. Da due principi sì buoni son giustamente animato a sperare un ottimo accoglimento dal Pubblico a questo secondo corso delle opere mie, e a presagire all'Editore onoratissimo, che ne intraprende la Stampa, un esito fortunato. Non ho I'ardire di credere, che questa possa dirsi Commedia buona, siccome di niuna delle mie posso animosamente presumerlo; e perciò Fortunata piacquemi di chiamarla, giacché la fortuna per certo, e non il merito I'ha fatta soffrire piacevolmente per trentaquattro sere la prima volta in questa nostra Città, e grata la rese egualmente in ogni altra parte, in cui ebbe la sorte di essere rappresentata. Per compimento felicissimo di sua Fortuna le tocca in sorte la protezione di V E., il che poi mi anima sempre più a credere fermamente, che la Persiana non solo andrà fastosa per un simile fregio, ma tutte quelle, che dopo di essa verranno quindi alla luce, precedute da una protettrice sì illustre, sì magnanima e grande.

II Nome vostro, Nobilissima Dama, noto era prima all’Europa; per il sangue Eccelso degli Ottoboni, da cui nata siete, per quello illustre de’ Sorbelloni, a cui vi ha la sorte ed il merito felicemente unita; ma indi da Voi stessa vi siete assai più resa cognita, ed illustrata. Voi avete una mente sì illuminata, ed un talento, ed un genio per le lettere sì fecondo, che in ogni genere di sapere potete farvi distinguere, ed ammirare; e la Città di Milano, Magnifica in tutto, e per le Scienze, e per le belle Arti famosa, conta Voi per uno de’ suoi maggiori ornamenti. Piacquevi però di dare un saggio al Pubblico della vostra letteratura con un’opera amena, grata, piacevole; ma che da me, e da chiunque sia del mestiere, non può essere, che ammirata, e giudicata difficile al maggior segno. Parlo io, Nobilissima Dama, della Traduzione delle Commedie del valoroso Monsieur Destouches, celebre Autor Francese. Parrà facile a qualcheduno il tradurre, ma io, che ho sino ad ora settantacinque Commedie immaginate, e scritte, troverei più difficile una straniera sola tradurre perfettamente, anziché nella foggia mia altre quattro comporne. Chi scrive a talento suo, soddisfa il proprio genio, e cerca di uniformarsi a quello della sua Nazione. Ma per tradurre perfettamente da lingua a lingua, conviene entrare nello spirito delle due Nazioni, conoscere la forza dell’Originale, e 1’equivalente della versione. Piacquemi infinitamente ad un tal proposito ciò che lessi nel Chambers, all’Articolo Traslazione: "I traslatori, o traslatatori, sovente procurano di scusarsi a spese della loro lingua, e ne chieggon perdono per Lei, come s’ella non fosse ricca, e copiosa abbastanza per esprimere tutta la forza, e le bellezze dell’originale".

Voi non avete d’uopo di una simile scusa, poiché conoscete assai bene la riccbezza della lingua nostra Italiana, e nello scriverla perfettamente vi meritaste gli Elogi del Novellier Fiorentino, il quale prodigo non suol essere delle sue lodi, e molto meno in questo; ma siccome, a fronte del Dialetto nostro, scarso é quello degli Francesi, e i modi loro e le loro Frasi hanno cotal suono, che alle orecchie nostre non tornerebbe in acconcio, Voi saggiamente, ponendo in fronte ai quattro Tomi della traduzione vostra l’insegnamento d’Orazio:

Nec verbum verbo curabis reddere fidus

Interpres etc.

rendendovi padrona del sentimento dell’Autore, dell’intenzione sua, del carattere e della Scena, l’adattaste sì bene all’intelligenza, ed allo stile degl’Italiani, che senza la prevenzione, passar potrebbono per opere originali.

Io peraltro, se mi lasciassi sedurre dall’amor proprio, dovrei farmi rincrescere una simile traduzione. Sono parecchi anni, che in questo genere di Teatrali Componimenti fatico per l’onor mio, e per quello della mia Nazione, alla quale hanno giustamente per più d’un Secolo insultato gli Oltramontani, e dell’Opera mia imperfetta larga mercede ho quinci, e quindi riscossa, se non di grosse monete, d’aggradimento almeno, e di festevoli gratulazioni. La Fortuna Teatrale, gelosa forse de’ suoi Francesi, ha eccitato la mano di V E. a mantenere il decoro loro in Italia; onde sia il Destouches, da una nostra Dama tradotto, argine al corso della mia felice carriera; ma rallegromi fra me stesso, che il valoroso Francese non comparirebbe con sì bel fasto in Italia s’egli non fosse da un’italiana penna tradotto, e purché trionfi anche in ciò il valore della nostra Nazione, son pronto a cedere tutto quel po’ di gloria, che mi ho acquistato, ad una Dama sì benemerita.

Non è solo alla Repubblica letteraria, Nobilissima Dama, che nota resa vi abbiano i vostri studi, e le vostre belle Virtù, ma da tutti gli ordini delle persone vi fate distinguere, e venerare, ed amare. Nelle piacevoli conversazioni Voi non ostentate sapere niente di più di quello, che all’occasione convenga. La vostra Filosofia sa rendervi egualmente seriosa nel Gabinetto, e gioconda in una festevole compagnia; amate i libri e non isfuggite i spettacoli, e fra quelli, e questi, che discretamente vi allettano, il miglior tempo impiegate alla soave cura de’ Figli vostri. Questi sono il primiero oggetto delle vostre attenzioni, e 1’educazione, ch’essi hanno dall’amor vostro, e dalla vostra Virtù non può che renderli degni di Voi, e di quel sangue, da cui son nati. La cognizione, che avete delle scienze, e delle belle arti, non può lasciarvi ingannare nella scelta de’ buoni maestri, e Voi medesima, oltre allo studio delle lingue straniere, che da Voi stessa loro comunicate, potete nelle più difficili facoltà renderli bastantemente istruiti; e coll’esempio vostro, e colla vigilanza, con cui al loro bene vegliate, si renderanno un giorno oggetti degni di ammirazione. Milano aspetta in ogni uno di loro novelli fregi alla Gloria di sua nazione; Roma fra questi attende un successore di Alessandro Ottavo, Sommo pontefice della stirpe vostra degli Ottoboni, illustri Figli di questa Serenissima Repubblica Veneziana.

Fra le vostre seriose cure, fra i vostri geniali trattenimenti non isdegnate di ammettere quest’umile produzione del mio scarso talento; e me onorando dell’alta protezione vostra, concedetemi benignamente, che possa a Voi dedicare colla Commedia, che vi offerisco, la mia ossequiosa servitù, e tutto me stesso.

Di V. E. Umiliss. Dev. Obblig. Servidore

CARLO GOLDONI

 

L’AUTORE A CHI LEGGE

 Eccomi a dar principio alla stampa del nuovo corso di mie Commedie, scritte per il Teatro che dicesi di San Luca in Venezia, della Nobilissima Casa Patrizia de’ Vendramini.

Quantunque questa Commedia, che ha per titolo la Sposa Persiana, sia stata la terza da me composta nel primo anno del nuovo impegno, voglio ch’ella occupi il primo luogo, in grazia, non dirò del suo merito, ma della sua fortuna. Alcuni vi furono fra i spettatori, che, non contenti di repplicatamente vederla, mi vollero far l’onore di scriverla dai Palchetti; il che riuscì loro di fare in più, e più volte, che provati si sono. Videsi, dopo, passare di mano in mano copiata, e ricopiata, a tal segno, che pochi eran quelli, che non l’avessero, tutti però scorretta, come l’avean potuta rapir di volo e sempre più rovinata nel ricopiarla. Più volte mi hanno minacciata la stampa, a Trento, a Lucca, ed altrove; ma si è avuto qualche rispetto per me.

Finalmente comparve in questa Città stampata, senza data di tempo, e luogo, piena zeppa d’errori più di qualunque altra, che vedevasi manoscritta, colla maggior parte de’ versi stroppiati, coi sentimenti stravolti, a tal segno, che se per mia disgrazia, non foss’ella impressa dalle repplicate sue recite nella memoria delle persone, mi avrebbe sonoramente posto in ridicolo. Dicesi, ch’ella sia stata stampata a Napoli; la verità si è, che in faccia mia, che a dispetto mio fu in Venezia venduta, e introdotta non si sa come. Buon per me, che conosciuta la difformità con cui si fa comparire, pochi l’hanno comprata, e dalle mie mani l’aspettano. Per altro non si ha rispetto alcuno per i poveri Autori, e credesi, che rapir loro un originale non sia peccato, con obbligo di restituzione, per l’onore, e per l’interesse.

Lettor Carissimo, ecco qui la Sposa Persiana nello stato medesimo, in cui fu da me sulle scene esposta, se non che, ascoltando le voci oneste de’ buoni Amici, purgata l’ho intieramente di qualche equivoco, che offendeva le orecchie più delicate. Gli equivoci sono tollerabili nelle Commedie, quando si può credere, che i meno maliziosi li abbiano a interpretare col senso buono, e Dio mi guardi dallo scandolo degl’Innocenti. Ho sudato, e suderò sempre per questo, per togliere dal Teatro nostro scorretto l’oscenità, la malizia; e se lo spirito comico mi seduce, lascio volentieri correggermi, e a chi lo fa gli son grato.

Dopo la Commedia mia intitolata Moliere, altre in verso non ne aveva composte; ma ricordandomi, che quel tal verso rimasto, a imitation dei Francesi piacque moltissimo su quei Teatri, ne’ quali videsi rappresentata, m’invogliai ritentar di farlo in un’altra, cercando argomento, a cui, più della Prosa, fosse conveniente il Verso.

Feci un salto assai grande; balzai sino in Persia, e di là trassi argomento per la costruzione di una Commedia; non lo presi già dalla Storia, sapendo io, che un tal fonte riserbato dev’essere per le Tragedie, per i Drammi per Musica, e per quell’anfibio componimento, che Tragicomedia si chiama. Ho inventata la favola di Persone d’un rango inferiore; un Finanziere, un Capitano sono i principali Soggetti: questi non eccedono il grado della Commedia, e gli altri tutti sono o inferiori, o dipendenti, o soggetti. Evvi una Vecchia, che forma il ridicolo; e se le persone più nobili parlano con gravità, eccedente allo stile delle Commedie nostre, ciò accade in grazia della Nazione Orientale, che anche nelle persone basse comparisce austera, e feroce. Questa è una Commedia fondata sulla passione; altre ne ho fatte di un simile stile, e sono state gradite. Né il primo sono io stato a farlo, ma dai Francesi moderni ciò si è tentato, ed anche in Francia la Passione della Commedia fu bene accolta. I Spagnuoli, gl’Inglesi ne sono amanti, e l’esperienza m’insegna, che gl’Italiani ancora la sentono volentieri.

È stata onorata di qualche critica la presente Commedia, né qui voglio fare un’apologia fuor di proposito, lasciando in libertà ciascheduno d’intenderla a piacer suo. Nella Commedia intitolata il Festino, che fu l’ultima in quell’anno rappresentata, e sarà l’ultima del Tomo Secondo, ho a bella posta introdotto le varie critiche della Persiana qua e là raccolte, e i personaggi medesimi della Commedia questa e qualchedun’altra difendono.

Vari nimici ho avuti ed ho tuttavia, che parlano, e scrivono, e contro di me s’avventano o per passione, o per invidia, o per interesse, ed io li ho compatiti sempre, e li compatisco, né mai ho voluto rispondere alle loro miserabili inezie. Quello, che più degli altri mi ha fatto maravigliare, si è un moderno Autore di una Tragedia Italiana intitolata Teonoe, il quale nella dedicatoria, o sia prefazione di cotal opera, introduce, fuor di proposito, ragionamento sulla Commedia, condanna il verso, che dicesi Martelliano, e arriva a chiamar me, e quei, che si credono seguaci miei, gente nata per infamia dell’arte.

Non può negarsi, che la Teonoe non sia verseggiata con una dolcezza di metro, e con una forza di sentimenti ammirabile. L’Autore suo degnissimo è Scolaro del celeberrimo Signor Marchese Maffei di gloriosissima ricordanza. Si conosce, ch’egli ha procurato imitarlo, copiando i pensieri della sua Merope, e i versi medesimi trascrivendo; ma in alcuni tratti, mi si conceda il dirlo, ha superato il Maestro.

Io gli auguro di buon cuore lunga vita, e miglior salute, acciò possa egli arricchire i Teatri nostri di belle erudite Tragedie. Il talento suo felicissimo arriverà ben presto a conoscere i difetti di questa sua prima imperfetta opera, e si asterrà principalmente per l’avvenire di terminare una Tragedia in tal modo, che sarebbe riprensibile in Commedia ancora; tanto più, che il Matrimonio di Teonoe con Icaro non è necessario, terminandosi l’azione completa col discoprimento delle due Figliuole di Testore. Vedrà col tempo quanto sia meglio scemar il numero degl’inutili versi, delle repetizioni, e specialmente degli Argomenti; ed io son certo, che arriverà egli ad essere un giorno il decoro della Tragedia Italiana.

In quanto a me se non mi degna dell’approvazione sua, pazienza. Ho cinque lettere del Maffei suo Maestro, suo Nume, che parlano di me in altra guisa; nell’opera sua de’ Teatri antichi e moderni scrive di me in maniera, che rende onore al mio nome. So che il Marchese Maffei, ed il Martelli furono nemici in vita per occasione del verso dal secondo inventato; ma condannato un tal verso dal Maffei giustamente nella Tragedia, disse a me medesimo, che intesa la recita del mio Moliere piaciuto eragli nella Commedia; e tanto è vero ciò, che asserisco, che a lui medesimo vivente, l’ho ricordato nella dedica di tal Commedia a lui fatta nel Tomo Secondo della edizione mia Fiorentina. Riescitomi sì bene il verso nella Persiana lo ritentai nel Filosofo Inglese, che fu egualmente felice, onde arrivatane la notizia al prefato Signor Marchese Maffei, così mi scrive in una sua lettera, che colle altre conservo, in data de’ 24 Febbraro 1754: Dal Signor Luciato ricevo il suo quarto Tomo; gliene rendo mille grazie, e ne fo parte la sera agli Amici. Sento con sommo piacere 1’eccessivo applauso, che si fa alla sua ultima Commedia. Se si stamperà, la voglio di foglio in foglio. Continui pure così e supereremo tutte l’opposizioni ecc.

L’approvazione del Maestro dovrebbe bastare per vincere l’opposizione dello Scolaro. In un’altra de’ 7 Maggio 1753, così mi scriveva il Signor Maffei: Le confido, che ho fatto una solenne risposta al Concina, ed a quel suo libro, nel quale afferma che I’arte è infame, e infami tutti quelli, che hanno mano in Teatro, e che non debbono partecipare de’ Sacramenti, In questa risposta nomino Lei, e il Fagiuoli e gli do per esempio di Commedie oneste, e morigerate, ecc. Ed in altra de’ 15 Ottobre 1753: Io vorrei sapere come mandarle il mio libro de’ Teatri antichi, e moderni (osservo ora la data della sua da Venezia, onde lo spedirò). Vedrà in questo, come ho difeso l’onesto uso de’ Teatri, e la riputazione di chiunque s’adopera in essi, così maltrattata dal Padre Concina. Non mi son dimenticato di lei, né di far onor al suo nome ecc. In fatti non è poco onore per me, che così abbia pensato e scritto delle opere mie un Letterato insigne, uno, dirò di più, che se ascoltate avesse le violenze dell’amor proprio, come alcuni altri fanno, con più gelosia avrebbe per se medesimo custodito il vanto di riformatore del Teatro Comico ancora, giacché nella sua gioventù mostrò aspirarvi, e si provò di esserlo colle sue lodabilissime due Commedie.

Io non intesi già, introducendo il verso, di voler bandire la prosa dalle Commedie, ma nell’una e nell’altra maniera ho avuto animo di comporre, secondo la natura degli argomenti. Accadde però, che il Popolo s’invaghì di sì fatta maniera di cotal verso, che le Commedie in prosa disperavano quasi di essere compatite. Tutto in un tratto s’intesero tutte le scene di questa Metropoli risuonare coi versi alla Martelliana foggia rimati, ed io, a mio dispetto, sono stato indi costretto, per compiacere l’Universale, e per giovare all’utile del mio Teatro scrivere in tali versi parecchie altre Commedie. Dissi fra me medesimo: si sazierà il mondo di versi, e rime, come il dolce divien col tempo anche ai ghiotti per abbondanza stucchevole. Infatti sentii gridar sul finire dell’anno scorso: Prosa, prosa, che sazi siamo del verso. Ritornai quest’anno alla Prosa, ma non volli poi né tampoco lasciar il verso del tutto. Piace l’alternativa, ma, non saprei dire il perché, veggio che le Commedie in verso rimato hanno avuto maggior fortuna. Una fra queste si è quella, che rappresentasi nel tempo, che sto il presente ragionamento al Lettore scrivendo, di cui non è fuor di proposito, che io favelli. Appena diedi alle scene la presente Sposa Persiana, ed ebbe il bell’incontro già detto, desiderava l’Universale veder la continuazione delle Avventure d’Ircana. Siccome non è ella in questa prima Commedia il Soggetto Protagonista, ma lo è la Sposa, così su questa appoggiai la Catastrofe, e non credei necessario, come non lo è di fatto, pensar più oltre ad Ircana. Il Popolo interessato per essa, non so se per il carattere, che rappresenta, o per il merito singolarissimo dell’eccellente Attrice, la Valorosa Signora Catterina Bresciani, mi andava continuamente eccitando per una seconda Commedia, che desse una continuazione, ed un fine, che in qualche modo consolasse la sventurata Ircana. Non potei farlo ne’ due anni passati per certe indiscrete etichette Comiche di Prima, e Seconda Donna, che ora sono sventate, e spero in questa compagnia, per cui scrivo, non abbiano più a risorgere. Ho dunque una Commedia composta in quest’anno, il di cui titolo è Ircana, in seguito della Sposa Persiana, col verso istesso rimato. L’incontro anche di questa è fortunatissimo, ed a suo tempo sarà stampata. Viviamo, Lettor carissimo, tu per leggere, io per comporre.

CARLO GOLDONI

 

 

Personaggi

Machmut, finanziere

Tamas, figliuolo di Machmut

Ormano, tartaro, uomo d’armi

Fatima, figliuola di Osmano, sposa di Tamas

Ircana, schiava favorita di Tamas

Alì, amico di Tamas

Curcuma, custode delle schiave di Tamas

Ibraima

Zama schiave di Tamas

Altre schiave, che non parlano

Quattro eunuchi neri

Quattro servi di Machmut

Seguito di serve, e schiavi di Osmano, fra quali danzatori, e suonatori di tamburini, ed altri strumenti orientali.

 

La scena si rappresenta in Ispaan, città capitale del regno di Persia, in casa di Machmut, in un atrio che introduce al serraglio di Tamas.



ATTO PRIMO

 

Scena I

Tamas, ed Alì.

 

Tamas:

Non mi annoiare, Alì: son dal dolore oppresso;

Odio gli altrui consigli, odio perfin me stesso.

L’oppio, che pur sai, quanto suole alterar gli spirti,

Nulla giovommi; oh pensa... Vanne; non voglio udirti.

Alì:

Si, me ne andrò: che importa a me, che voi parliate?

Io sarò sempre Alì, ancor quando crepiate;

E sarò sempre stato vostro fedele amico,

Ancor, che de’ miei detti non ve ne caglia un fico.

Tamas:

Come parli? Che stile inusitato, e nuovo?

Fra tai sconce parole, Alì, più non ritrovo.

Pregio è di noi Persiani il parlar grave, e bene:

Ridicolo costume in Ispaan sconviene.

Come favelli? Hai d’oppio la dose caricata?

Alì:

Si, amico; doppia dose per voi ne ho trangugiata:

Per voi, che pur vorrei colla letizia mia

Scotere da cotesta letal malinconia.

L’oppio, quel succo amaro, ch’è agli Europei veleno,

Di cui nell’Asia nostra s’empion le genti il seno,

Gioia mi desta in petto inusitata, e strana.

Tamas, gioite meco.

Tamas:

Ogni tua cura è vana:

Gioir non mi farebbe né scettro, né corona;

Vedi se potrà farlo un ebrio, che ragiona.

Alì:

Ebrio son io, nol niego, pel sonnifero amaro,

Non pel vietato vino, dolce al palato, e caro;

E pur (ve lo confido) in quattro ier di sera

Un orcio ne bevemmo nella caravanzera

Tamas:

Cosa tu mi confidi da me con sdegno udita;

Vino non bevvi mai pel corso di mia vita.

Ciò, che il pubblico offende, per ragion del divieto,

Dee l’anime bennate offendere in segreto.

E dove non arriva la forza di chi regge,

Vincola nei recessi dell’onesta la legge.

Alì:

Si, giovine bennato, alma di virtù piena,

Alma, ch’esser tranquilla dovrebbe, e più serena;

Poiché se un giovin pio ripieno ha il cor di doglie,

Chi fia che ad imitarlo nella bontà s’invoglie?

Tamas:

In te cresce de’ spirti l’alterazion funesta;

Per tai ragionamenti ora importuna è questa.

Lasciami, te ne priego.

Alì:

Io non vi lascio al certo,

Se il duol, che avete in seno, non mi mostrate aperto;

Non vi darò consigli, non vi sarò molesto;

Altro da voi non bramo.

Tamas: Altro non vuoi?

Alì: Che questo.

Tamas:

Sai tu, che a padre mio sposa mi ha destinata

La figliuola di Osmano?

Alì:

Ella era appena nata,

E voi d’un lustro appena; senz’ara, e senza Nume

Foste legati insieme, giusta il Perso costume.

Tamas:

Empio costume, e rio, che il maggior ben ci fura;

Che toglie a noi l’arbitrio, e offende la natura.

Ecco, amico, la fonte del mio dolore estremo;

La sposa oggi s’aspetta, l’ora s’appressa, io tremo.

Alì:

Ed io, ridete amico, ed io sarei contento,

Non se una sola sposa aspettassi, ma cento.

Tamas:

Vanne, lo dissi, il veggio, hai la ragion perduta.

Alì:

Vado... È brutta la sposa?

Tamas:

Non so, non l’ho veduta.

Sai pur che le fanciulle serbansi ritirate,

E scopronsi allo sposo dopo esser maritate.

Ma tu deliri, vanne.

Alì:

Un’altra cosa sola.

Tamas:

Teco non vuo’ parlare.

Alì:

Udite una parola.

Tamas:

Che sofferenza! Parla.

Alì:

Fra 1’ebrio, e fra l’astuto

Vuo’ domandarvi: avete forse il cor prevenuto?

Tamas:

Ah sì, d’Ircana mia, della mia schiava acceso,

Soffrir non potrò mai d’un altro nodo il peso.

Nel rimirarla intesi tosto ferirmi il petto,

E crebbe a dismisura in sei lune l’affetto.

L’alma quei suoi begli occhi a vagheggiare avvezza,

Odia d’ogni altra il nome, ogni beltà disprezza.

ALÌ

Tamas, il mio consiglio...

Tamas:

Vattene, io non l’ascolto.

Alì:

Vado, ma prima udite i sensi d’uno stolto,

D’uno, che in fretta in fretta vi dice il suo pensiere,

E l’oppio a digerire sen va sull’origliere.

Vi lodo, se costanza v’empie per una il petto,

Ma in Oriente non si usa preferirla al diletto.

Chi assicurar voi puote, che Fatima, la sposa,

Non abbia agli occhi vostri a comparir vezzosa?

Chi sa, che nel mirarla non siate anche pentito

D’aver troppo tardato ad esserle marito?

Miratela, e poi dite: "oh la mia schiava è bella;

Ircana sol mi piace, non voglio altre, che quella".

Almeno sospendete di dir, che v’hanno ucciso,

Fino, che non vediate la nuova sposa in viso.

Astrologo non siete; chi sa come sia fatta?

Di Tartare, e Giorgiane bellissima è la schiatta.

Tartaro è il padre suo; in Ispaan dimora,

Ma serberà la figlia il natio sangue ancora.

Miratela con pace. Quest’è il consiglio mio:

Tenetela, s’è bella, se non vi piace... Addio (parte).

 

 

Scena II

Tamas solo.

 

Quest’ultime parole non son d’ebrio, o di stolto;

Ragion trovo in que’ detti, e la ragion m’ha colto.

È ver, m’accese Ircana d’amor quasi improvviso,

Ma non mirai finora d’altra più bella il viso.

Noi non godiam quel bene, che agli Europei vien dato;

Donna mirar non sua, è al Maomettan vietato.

Itali, Galli, Ispani, Angli, Germani e Greci

Non pon, qual noi possiamo, otto tenerne o dieci;

Ma per le vie scoperte mirarle a cento a cento,

E vagheggiarle almeno possono a lor talento.

E pur serba l’Europa fra gli abitanti suoi,

Chi un serraglio infelice suol invidiare a noi,

Come se d’un legame, che a lor molesto è reso,

Non si dovesse a noi moltiplicare il peso.

Chi sa che rimirando Fatima a faccia a faccia,

Beltade in lei non trovi, che mi diletti e piaccia?

Avrà questa d’Ircana non men le grazie sue,

Potrò, se ambe son vaghe, amarle tutte due.

Ma che pretenda Ircana esser sola il mio Nume,

Oltre il dover di figlio, offende anche il costume.

Sì, mirerò la sposa, sì, mirerolla in pace:

D’Alì mio fido amico il consiglio mi piace.

 

Scena III

Ircana, e detto.

 

Ircana:

Tamas, perché sì lento a riveder ritorni

Quella, che per te solo mena felici i giorni?

Sai pur, che oltre il vederti non provo altro contento,

Un secolo mi sembra lungi da te un momento.

Tamas:

Molto non è, che al bagno io ti lasciai, mia vita;

Tosto più dell’usato sei fuor dell’acque uscita,

Ircana:

Ah son tre giorni interi, ch’io piango, e mi dispero.

Barbaro tu mi lasci.

Tamas:

No, [non] sarà mai vero.

D’amarti fin ch’io viva sacra ti do parola.

Bastati?

Ircana:

No.

Tamas:

Che brami?

Ircana:

Voglio, che mi ami sola.

Tamas:

Oh ciel!

Ircana:

Lo vedi, ingrato? Lo vedi se m’inganni?

Lo so perché sospiri, [lo so] perché t’affanni.

Non mi tenere occulto ciò, che pur troppo ho inteso,

Oggi verrà la sposa, sei di vederla acceso.

Venga, ma non si speri, che abbia a servirla Ircana;

Di Machmut tuo padre cotal lusinga è vana.

Egli mi ha compra, è vero, dal genitor crudele,

Schiava servir io deggio al mio signor fedele;

Ma tu non mi dovevi accendere nel petto

D’amor, di gelosia, d’ambizion l’affetto.

Dopo lusinghe tante, schiava negletta, oppressa,

Saprei svenarmi in faccia della tua sposa istessa.

Tamas:

Fra noi tal è il costume di chi suddito nasce;

Fatima, ed io dal padre fummo legati in fasce.

Io lei non vidi, ed ella non mi ha veduto ancora,

Chi sposasi in tal guisa, rade volte si adora;

Ed io, che del tuo bello ho l’alma prevenuta,

Amar come potrei sposa non pria veduta?

Consolati, ben mio, se umile al genitore,

Darò ad altra la mano, tuo sarà sempre il core.

Ircana:

Eh che mal si divide da chi ha la destra in pegno,

De’ forsennati il cuore con un affetto indegno.

Sì mi sovvien, che spesso la crudel genitrice,

"Figlia (diceami) un giorno esser potrai felice,

Se schiava in un serraglio avrai del tuo signore

Unita alle altre belle una porzion del cuore".

Ma detestando allora il barbaro costume,

Tai l’innocente labbro voti mandava al Nume:

"Faccia Macon, ch’io trovi signor, che mi ami sola,

O tolgami dal petto lo spirto, e la parola".

Tamas:

Sensi d’alma bennata, voti di cor sincero;

Sì, ti amerò: te sola...

Ircana:

Non lo dir, non lo spero.

Tamas:

Ma se lo giuro...

Ircana:

Taci.

Tamas:

Lo giuro al Ciel...

Ircana:

Gli audaci

Beltà rende spergiuri, amor rende mendaci.

Vedrai la sposa in volto, di me sarà più bella:

Ella sarà tua donna, io svergognata ancella.

Va’ pur la sposa accogli; far lo dei, non lo niego;

Sol d’una grazia almeno non mi privar ti priego.

Aprimi queste porte, dove rinchiusa io sono;

Dammi, d’amore in vece, la libertade in dono.

Tamas:

Ah crudel, sì penosa parti la mia catena!

Ircana:

Tu lo sai, se finora n’ebbi diletto, o pena.

La libertà ti chiedo, non per lusinga insana,

Ma per morire, ingrato, dagli occhi tuoi lontana;

Ma per lasciarti in pace accanto alla consorte,

Senza, che ti funesti l’orror della mia morte.

Tamas:

Ah, che ogni tua parola è a questo cuor ferita:

Non lascierotti, Ircana, non morirai mia vita.

In faccia al genitore armerò il cuor d’orgoglio;

Venga l’odiata sposa, dirò, che non la voglio.

Se del figliuolo il padre desia mirar la prole,

Abbiala; ma col mezzo delle tue fiamme sole.

In altra guisa aspetti vedermi all’Ottomano

Tra le persiane genti andar col ferro in mano...

Ircana:

Dunque?

Tamas:

Non più; se temi, se del mio amor diffidi,

Tamas, che pietà merta, tu crudelmente uccidi.

In questo punto istesso, del genitore al piede

Vo a svelare il secreto di mio amor, di mia fede.

Se usar vorrà la forza (egli non è sovrano,

E un re la vita togliermi potrebbe, e non la mano),

Pregherò, finché giova, parlerò con rispetto;

Ma poi... sì, di te sola sarò, te lo prometto (parte).

 

Scena IV

Ircana sola.

Nulla intentato io voglio lasciar per un tal bene,

Per l’unico fra’ beni, che a noi sperar conviene.

Donna fra’ Maumettani, sia schiava, o sia consorte,

Deve qual rea cattiva viver tra ferree porte;

E rendersi può solo il carcer men penoso

Dall’amor di colui, che è signor nostro, e sposo.

Ma se l’amor d’un solo si parte in più donzelle,

Essere non mi basta nel numero di quelle;

Anzi pria di vedermi con altre donne amata,

Voglio essere più tosto, o morta, o disprezzata.

 

Scena V

Curcuma, e detta.

 

Curcuma:

Ircana, ove t’aggiri? Posso io bene aspettarti,

Non vieni questa mane a pulirti, a lisciarti?

Perché prima di tutte uscir dal bagno fuori?

E andar per il serraglio senza unti, e senza odori?

Se il tuo Tamas ti vede, oh si, gli parrai bella!

Con questi giovinotti vi vol arte, sorella:

Sono le tue compagne lisciate come specchi,

E tu senz’artifizio accorlo ti apparecchi?

Ircana:

S’adorni e si profumi, e s’unga, e si colori

Chi di natura ha d’uopo di corregger gli errori.

Incolta, qual mi vedi, sparuta, e senza incanto,

Tamas finor trattenni, né mai gli piacqui tanto.

Sì, Curcuma, tel dico, ora gli piacqui a segno,

Che d’esser di me sola prese il più saldo impegno.

A te fido l’arcano; son lieta, e son contenta

E la temuta sposa or più non mi spaventa.

Curcuma:

Sì, qualche volta, è vero, l’amante si diletta

Nel vagheggiar di furto la femina negletta,

Ma quando con il tempo la mira a parte a parte,

Scopre i difetti, e credi, necessaria è un po’ d’arte.

Sia pur la donna bella, non abbia in beltà eguali,

Scoloransi sovente le rose naturali.

Una passione, un detto, un mal de’ nostri usati

Tinge di verde, e giallo i visi delicati:

Ma allor, che dalla mano fia la beltà accresciuta,

La donna è sempre bella, ancor quando è svenuta.

Ircana:

Orsù, più d’esser bella calsemi veder lui

Per tempo, e i dolci accenti udir dai labbri sui.

Curcuma:

E t’ha promesso amarti?

Ircana:

Sacra mi die’ parola

(Questo è quel che mi cale) d’amarmi sempre, e sola.

Curcuma:

Figlia, se tal promessa a te fia poi serbata,

Poi dir, che la fenice in Persia hai ritrovata;

Che un uom di donna sola contentisi è un portento:

Vorrebbero i Persiani possederne anche cento.

Oh maledetta legge, fatta dall’uomo ingrato,

Che rende di noi donne sì misero lo stato!

Compagne son dell’uomo le donne in altro clima;

Servito è il sesso nostro, e si onora, e si stima;

E se d’[un] uomo solo dee contentarsi, almeno

Posto è da pari legge anche ai mariti il freno.

Ircana:

Chi sa? La dura legge spero per me corretta.

Curcuma:

Ma se la nuova sposa Tamas in breve aspetta?

Ircana:

Tamas in questo punto, del genitore al piede,

Spinto dalle mie fiamme, a ricusarla andiede.

Curcuma:

E se volesse il padre?...

Ircana:

Tu mi tormenti invano.

Esser dee mio quel core.

Curcuma:

E sarà tua la mano?

Ircana:

Sì, lo spero: tu mi ami, e so, che di te niuna

Brama più del mio cuore la pace, e la fortuna.

Curcuma, è questi il giorno d’usar l’ingegno, e l’arte,

Per esser con il tempo d’ogni mio bene a parte.

Anzi con questa gemma, che Tamas mi ha donata,

Una d’amor vuo’ darti caparra anticipata.

Custode delle donne, sei per l’etade in pregio,

Dal signor nostro intesi lodar più d’un tuo fregio.

Tu puoi del di lui cuore spiar gli occulti arcani:

Per madre mia ti eleggo, io son nelle tue mani.

Curcuma:

Figlia, perché lo merti, al desir tuo mi unisco,

Non già per questa gemma, che per amor gradisco;

E se le mie parole, e i cauti miei consigli

Non basteranno, e i’ veda all’amor tuo perigli,

Di pentole, e di vetri piena ho la stanza mia:

Zitto, Ircana figliuola, faremo una malia.

Una malia faremo sì forte, e portentosa,

Che strugga in pochi giorni e l’amante e la sposa.

Ircana:

No, l’amante.

Curcuma:

Sta cheta; l’amante sino a tanto

Che della nuova sposa viva giulivo a canto;

Indi fedel tornando sia d’ogni mal guarito,

D’esserti impazïente, non più signor, marito.

Ircana:

Hai tal poter?

Curcuma:

Sì, cara, vedrai portenti strani,

Vedrai quel che san fare di Curcuma le mani.

Dacché l’età primiera mi abbandonò, tre lustri

Amar mi feci ancora con sughi, ed erbe industri;

Con serpi, sangue, e pietre certa bevanda fassi,

Che innamorar farebbe anche le piante, e i sassi.

Dell’oro, e dell’argento vi entra in cotal mistura:

Averne, quanto puoi, dal tuo signor procura;

Recalo alle mie mani, e ne vedrai 1’effetto.

Figlia, senza interesse l’amor mio ti prometto (parte).

 

Scena VI

Ircana sola.

Ah voglia il ciel, che mai abbiasi a usar tal’arte:

Laddove amor fa d’uopo, rigor non abbia parte.

Sguardi, parole, amplessi, vezzi, sospiri e pianti

Son le malìe, che han forza sul cuore degli amanti.

Ma allor, che un’altra donna venga con forza eguale

A disputarmi un cuor, che per natura è frale,

Se a sostenere il dritto il mio valor fia poco,

L’arte, l’ardir, l’inganno e le malìe avran loco.

Tutto tentar io voglio, sino la morte istessa;

Pria di vedermi in faccia d’una rival depressa

Oh genitori ingrati, che al ciel mandaste i voti,

Non per mirar, canuti, della figlia i nipoti,

Ma sol, perché, accresciuto alla beltade il vezzo,

Al comprator poteste vendermi a maggior prezzo!

Ma se destin crudele nascer mi fe’ da gente

Che per il proprio sangue tenero amor non sente,

Se per costume indegno esser dovea venduta

Ah nel serraglio almeno fossi del re venuta.

Sì, nell’Haram spazioso, anche fra mine, e mine

Distinguer si farebbono al Sofi (mie pupille;

Sia vaga, o non sia vaga, incolta qual io sono,

Dato avrei forse io sola il successore al trono.

Ma a un Killientar venduta, venduta a un finanziere,

Avrò chi mi contrasti nel merto, e nel potere?

No, no, questo non fia, Tamas, è mio soltanto;

Regnar nel di lui cuore è mia gloria, è mio vanto.

Picciolo regno ancora mi basta, e mi consola,

Purché in quel cuore io possa sempre regnarvi, e sola

(parte).

 

Scena VII

Machmut accompagnato da quattro Officiali,

che attendono gli ordini suoi.

Olà, ciascun s’impieghi: i schiavi, i servi, i cuochi;

Si preparin le mense, i vasi, i cibi, i giuochi.

Tosto al caffè; prepara oltre il costume adorno

II picciolo banchetto, che usasi a mezzo il giorno.

Latte, poponi ed altre frutta del mio giardino,

Confezioni, sorbetti, oppio purgato, e fino,

Thè non manchi; si dia tabacco a chi ne brama,

Siavi per tutto il vaso, che kalïam si chiama:

Il kalïam, quel vaso, che fra noi si accostuma,

Con cui sì dolcemente l’uom si riposa, e fuma.

Canti vi sieno, e danze, vi sien poeti egregi,

Che della nuova sposa formin poema ai pregi;

Quindi nell’ampia sala, di lumi intorno piena,

Al seguito festivo diasi superba cena.

Del terso e bianco riso sodo pilò sia fatto,

Di burro, e droghe carco, nel color contrafatto.

Sieno in minuti pezzi nello schidion girati,

D’aromati nutriti i migliori castrati.

Lepri, maiali ed altre carni vietate immonde

Non sianvi alla mia mensa; cerchinle i ghiotti altronde.

Del bove in acqua pura al più l’uso permetto,

Salse bandisco, e sughi, e ogni manicaretto,

Lasciando agli Europei la follia, ch’io deploro,

Di accellerar coi cibi il fin de’ giorni loro.

Ma Tamas viene; andate; gli ordini udiste in parte,

Supplisca ad ogni altr’uopo l’uso, l’ingegno e l’arte

(partono i servi).

Merita ben tal sposa, che dote reca, e onore,

Che il suocero l’accolga con pompa, e con splendore.

Ah voglia il ciel, che il figlio con pari ardor la miri.

Ma temo, è mesto in viso; par che pianga, e sospiri.

 

Scena VIII

Tamas e detto.

 

Tamas:

Signor, a’ piedi vostri...

Machmut:

Perché sì mesto in viso?

Lungi non è la sposa, n’ebbi testé l’avviso.

Accoglierla a momenti dovrai fra le tue braccia.

E ti disponi a farlo torvo? turbato in faccia?

Tamas:

Signor pria che la sposa giunga fra i muri nostri,

Eccomi a voi prostrato, eccomi a’ piedi vostri

(s’inginocchia).

Machmut:

Alzati... Olà, che dici? Sei tu di lei pentito?

È tardi; ella ti aspetta, esser le dei marito.

Tamas:

Ma se il mio cor...

Machmut:

T’accheta, nel vincolarsi il figlio

Prenda dal genitore, non dal suo cor, consiglio.

Tamas:

E se l’odiassi?

Machmut:

Degna d’amor Fatima io stimo,

Ma se la sposa odiassi, tu non saresti il primo.

Tamas:

Che nozze! che sponsali! che barbaro costume!

L’approvano le leggi, e lo comporta il Nume?

Machmut:

Sì, di Maccone stesso, d’Alì, ch’indi si onora,

E dei dodici Imanni, che venner dopo ancora,

Questa è la legge: a noi tener non è vietato

Schiave quante vogliamo nel serraglio privato.

Non è dall’Alcorano aver più mogli escluso,

Ma prenderne una sola è fra Persiani in uso.

E questa non s’apprezza dal vezzo, o dai colori,

Ma dal poter del padre, dai schiavi e dai tesori.

Costei che a te in isposa da me fu destinata,

Da genitor guerriero, carco di glorie, è nata:

Ricchi smanigli e gemme, schiavi ti reca in dote:

Queste son beltà vere, l’altre a me sono ignote.

Tamas:

Dunque per gemme, e schiavi, per vesti, perle ed oro,

Perder dovranno i figli di libertà il tesoro?

Machmut:

Odi, vuo’ consolarti. Fatima la tua sposa

Ricca non è soltanto, ma è bella, ed è vezzosa.

Donne, che l’han veduta uscir dal bagno fuora,

Giuran, che beltà pari non han veduto ancora.

D’alta statura, e grave, lunghi capelli e neri,

Non tinti di sandracca, ma nel color sinceri,

Guancie vermiglie, e piene, bocca del riso amica,

Seno, che imprigionato suol tenere a fatica;

Non ha, qual si accostuma nell’ultime pendici

Del tartaro confine, pendenti alle narici;

Ma vagamente adorna i crini, il collo, il petto,

Spira dolcezza, e amore in maestoso aspetto.

D’uopo non ha la bella d’usar candido impiastro

Sulla mano di neve, sul piede di alabastro:

Nel portamento altera, piena di brio, di foco...

Parti che molto io dica, e pur dissi anche poco.

Mirala, e dimmi poi, se fia tal peso grave,

Se può sposa sì vaga valer per cento schiave.

Che l’ami, e che l’adori non dico, e non comando;

Mirala, e ciò mi basta, questo è quel che io domando

(Parte).

 

Scena IX

Tamas solo.

E vi sarà d’Ircana donna più bella ancora?

Di Fatima il ritratto nell’udirlo innamora.

Gli occhi, le guancie, il crine, la mano, il viso, il petto...

Tanta beltà innocente raccolta in un oggetto?

Tamas... vediamla; alfine il padre lo domanda;

E il domandar del padre vuol dir, che lo comanda.

Ma Ircana mia?... Qual torto le fo, se un’altra io miro?

Non mi trarrà per questo dal petto un sol sospiro.

E se beltà sì rara poi mi accendesse il cuore,

Resister chi potrebbe alla forza d’amore?

Fuggasi... No, si vegga; finora Ircana è quella,

Che agli occhi miei d’ogni altra parve più vaga, e bella.

Svelisi in suo confronto beltà tanto lodata,

E delle due si vegga, chi è vinta, e superata.

Questa non è incostanza, non è mancar di fede,

È un desio... ma neppure; è il padre che lo chiede.

È ver che il padre istesso disubbidir giurai;

Ma in onta delle leggi giurar non si può mai.

Sia forza, sia consiglio, seguo del padre i detti,

Ma terrò in guardia il cuore, non cangierò gli affetti.

Ircana, sì, ti adoro, sì, tu sarai più bella;

Ma lascia, che rimiri le luci ancor di quella;

E se negli occhi suoi non vedo il tuo splendore,

In te cresciuto il merto, crescerà in me l’ardore (parte).

 

 

ATTO SECONDO

Scena I

Ircana e Curcuma.

Ircana:

Ah Curcuma, e fia vera la nova dolorosa?

Tamas andò egli istesso ad incontrar la sposa?

Curcuma:

Questi occhi lo han veduto, e, qual da giovinetta

Conservo (grazie al cielo) la vista ancor perfetta.

Ircana:

Ohimè!

Curcuma:

Non vi affliggete, di già ci siamo intese;

M’impegno, che la sposa viva non dura un mese,

Ho tutto preparato, rospi, cicute, e fieli,

E d’animali immondi sangue, cervella e peli;

Delle spinose piante nutrite in Carmania

Che avvelenano i venti, ne ho sempre in mia balìa.

Ho l’antimonio, il sale, il solfo e l’orpimento,

E mancami soltanto dell’oro, e dell’argento.

Ircana:

Eccome, prendi questo (si strappa uno smaniglio).

Curcuma:

Piano non lo strappate;

Spiacemi, che d’un fregio la bella man spogliate.

E pur fia necessario scioglierlo in una tazza.

(Sciogliere lo smaniglio? Affé, non son sì pazza) (da sé).

Ircana:

Ma incontro alla sua sposa è volontario andato

Tamas, o da suo padre a forza strascinato?

Curcuma:

Non so; ma l’ho veduto montar sul suo destriere,

Tutto coperto d’oro, che a mirarlo è un piacere,

Al lato era del padre, intorno avea parenti,

Preceduto da turba di servi, e di stromenti.

L’eunuco Bulganzar (quel sozzo eunuco nero,

Che se far lo potesse, farebbe altro mestiero)

Egli si è ritrovato in mezzo alla brigata,

Allor che fu la sposa dal giovine incontrata,

Là dove il Sanderut vicin, con l’acque sue

Tra Zulfa ed Ispaan parte il terreno in due;

Fatima, d’ogn’intorno da schiave circondata.

Sedea sopra un camello colla faccia velata.

Con tante ricche vesti, con tante perle, ed oro,

Che abagliava la vista, avea seco un tesoro.

Però la sopraveste ch’avea la sposa intorno,

E parte delle gioie onde il bel crine è adorno,

Bulganzar mi assicura, che fur, due giorni sono,

Da Machmut mandate alla sua nuora in dono.

Tale è in Persia è costume, ahi troppo dolorosa

Disparità, che passa tra una schiava, e una sposa!

Curcuma, tu mi uccidi, tu m’empi di dispetto,

Vedrai morire Ircana con uno stile in petto.

Curcuma:

Sì, quando al fianco vostro Curcuma non aveste,

E di costei, che vi ama, fidar non vi poteste.

O Tamas vi è fedele, e Fatima sen riede,

O ch’io ben ben lo concio, quando manco sel crede.

In ogni guisa certa io son del vostro bene...

Sentite i gridi, i suoni; ecco la sposa viene.

Ircana:

Ah non voglio vederla; ah non fia mai, che a quella

Fia destinata Ircana servir schiava, ed ancella.

Al figlio lo protesta, e al genitore istesso;

Dieci siam nel serraglio d’età pari, e di sesso.

Di me conto non facci, meco non usi orgoglio;

Schiava di Tamas sono, donna servir non voglio.

Digli, che non mi cale d’esser tra ferree porte,

Che Ircana non paventa onte, minaccie, e morte (parte).

 

Scena II

Curcuma sola.

La compatisco in parte, ma in parte la condanno;

Perché per una sposa prendersi tanto affanno?

Esser vuol sola sola? Un uom tutto per lei?

D’un che ne avesse trenta io mi contenterei.

Ma Curcuma infelice! la bella età sen vola,

Né trovo chi mi voglia, né in compagnia, né sola.

Quel disgraziato eunuco mi fa sì gran dispetto!

Mi segue e mi tormenta... eunuco maledetto!

Oh se valer potesse delle malìe la forza,

Vorrei di questo viso mutar l’antica scorza,

E liscie ritornando tuttor le carni mie,

Non offrirei per altre usar le stregarie.

Quest’è l’acciecamento di chi ci ascolta, e crede:

Spera 1’effetto in lui di quel, che in noi non vede.

Ho avuto uno smaniglio col parlar destro, e scaltro,

E certo non diffido d’avere anche quell’altro;

Uno smaniglio solo a Ircana disconviene.

Su queste nere mani starebbero pur bene!

Ma vuo’ veder la sposa; ella ne avra de’ belli!

Oh se potessi averne un paio anche di quelli!

Chi sa? La donna antica, se il bel fiore ha perduto,

Senno acquista col tempo, e fa il pensiere arguto.

Vedrò s’ella ha bisogno punto dell’arti mie,

Di lisci, di profumi, d’inganni, e di malie.

La vita che mi resta (già che ho d’amar finito)

Vuo’ saziar l’ambizione, la gola, e l’appetito.



Scena III

Machmut, Fatima coperta d’un velo, ed Osmano, preceduti da vari instrumenti; e seguito di schiavi, che portano su vari bacini la dote delta Sposa.

 

Osmano:

Figlia, questo che premi, del tuo sposo il suolo:

Fuor del paterno impero, devi obbedir lui solo.

Finor t’increbbe forse il giogo de’ parenti,

Tanto più ai figli in odio, quanto a lor bene intenti;

Ma non pensar per questo orgoglïosa, altera,

D’aver, per esser donna, la libertade intera.

Passi da un giogo all’altro; qual più pesante, e stretto

A te non saprei dirlo, che tu mel dica aspetto.

Pur se soave il brami, sta in tua balía; contenta

Il tuo destino incontra, il tuo dover ramenta.

L’obbedienza, che usasti ai genitor severi,

Usala in avvenire dello sposo agl’imperi;

Che se obbedisti il padre talor con qualche stento,

Nell’obbedir lo sposo troverai più contento.

Amalo, e coll’amore anche il servir sia misto,

Se vuoi del di lui cuore formar l’intero acquisto.

Schiave avrà il tuo consorte, l’uso comun ti è noto,

Non esca dal tuo labbro contro di loro un voto;

Ma vincerle procura, accanto al tuo diletto,

In amore, in dolcezza, in virtude, in rispetto;

Ed ei, trovando il merto col casto nodo unito,

Amerà con costanza gli amplessi di marito.

Figlia, ti lascio; osserva, ecco quanto potei

Per formarti la dote trar dagli erari miei.

Ma più di gemme, e d’oro, nei mali, e nei perigli,

Vaglianti per tua scorta questi ultimi consigli.

Ama quel che amar lice, non quel che giova, e piace;

Serba, promovi, e cura la domestica pace:

Misura con l’onesto e l’utile, e il diletto,

Prima il ciel, poi lo sposo: soffri, conosci; ho detto (parte).

 

Scena IV

Machmut, Fatima, e li suddetti.

 

Machmut:

Olà, parta ciascuno; in libertà qui resti

Dello sposo la sposa ai primi sguardi onesti.

Figlia, che con tal nome posso chiamarti anch’io,

Se unita fra momenti sarai col sangue mio,

Non so quale a’ tuoi occhi recato abbia diletto

Quel che or mirasti appena sposo tuo giovinetto.

Non brilla ad esso in volto gran vezzo, e gran bellezza,

Ma la beltade in uomo non è quel che si apprezza.

Valor, sangue, decoro, virtù, costanza, e amore.

Questo è quel, che di donna rende felice il cuore.

L’amor non nasce a un tratto, col tempo in sen si accende:

Male, se a’ primi colpi un debil cuor si arrende.

Se il figlio mio non langue, tosto che può mirarti,

Usa di sposa amante, i vezzi, i sguardi, e l’arti.

Soffri da prima il gelo, o lo vedrai fra poco

Ardere ai tuoi bei lumi, ardere al tuo bel foco.

Vietare io non potei, per legge, o per costume,

Ch’egli non rimirasse di qualche schiava il lume.

Ma spero (e lo vedrai) che sol di te contento,

Ogni straniero fuoco nel suo cor sarà spento

(Fatima si va contorcendo).

No, non ti dia ciò pena. Fatima, tel prometto

Che t’amerà; sii certa; eccolo il giovinetto.

Sola con lui ti lascio; scopriti, e lo consola;

Fagli gustar il dolce di qualche tua parola.

Se un dardo da’ tuoi lumi entro il suo cuor sia spinto,

Fatima, non temere, egli ti adora, hai vinto (parte).

 

Scena V

Fatima sola.

Misera me, che sento? Qual rio serpe geloso

Prevenuto ha il momento da scoprirmi allo sposo?

Negletta s’io mi vedo per una schiava audace,

Come tacer penando? come soffrirlo in pace?

E se un divorzio ingrato mi torna al genitore,

Qual menerei mai vita tra il dispetto e il rossore?

Ah mi lusingo ancora! Eccolo; giusti Dei,

Piacessi agli occhi suoi, come egli piace ai miei.

 

Scena VI

Tamas, e detta.

 

Tamas:

(Eccomi al gran cimento. Ah quel ch’io temo in quella

È, che d’Ircana sia più vezzosa, e più bella

E tanto in lei sorpassi beltà, grazia, e costumi,

Ch’io resister non possa al poter de’ suoi lumi.

Arder mi sento in seno... e l’ho veduta appena...

Scoprasi il volto ignoto; escasi ormai di pena) (da sé).

Sposa, a voi si presenta tal, che ha per voi rispetto,

E pari aver desia alla stima l’affetto.

Quest’è il primier momento, che ad uom scoprir vi lice:

Svelatevi a’ miei lumi; fatemi omai felice.

Fatima:

Dolce obbedire a sposo, che può volere, e prega;

Squarcierò il velo ingrato, che disciogliersi niega.

Ecco la sposa vostra, ecco la vostra ancella (si scuopre),

Che v’ama, che v’adora.

Tamas: (No, che non è più quella)

(da sé).

Fatima:

Signor, se questi luci a voi non sembran vaghe,

Se in me non v’è beltade, che il genio vostro appaghe,

Non disprezzate almeno le fiamme d’una sposa,

Che a voi destina il cielo.

Tamas:

(Ircana è più vezzosa) (da sé).

Fatima:

(Misera, son perduta; ogni speranza è estinta) (da sé).

Tamas:

(Fatima è bella, è vero, ma nel confronto è vinta) (da sé).

Fatima:

(Vezzi di sposa amante, arte di moglie onesta,

Deh non mi abbandonate in occasion funesta) (da sé).

Tamas:

(Ma che farò? Mi duole darle un sì rio tormento)

(da sé).

Fatima:

Tamas, nel vostro volto veggo un fier turbamento;

Quelle nozze, a cui fummo dal genitor costretti,

Non han delle alme nostre preparati gli affetti

E s’io tosto in mirarvi arder d’amor m’intesi,

Forse nel vostro petto fuoco di sdegno accesi.

Colpa, voi lo vedete, mia non è, se vi spiaccio,

La destra ambi porgemmo obbediente al laccio.

V’amo, Tamas, v’adoro, ma non per questo io voglio

Obbligarvi ad amarmi con vezzi, e con orgoglio.

Solo in mercé d’amore grazia vi chiedo, e spero;

Anima generosa, parlatemi sincero.

Ditemi se m’odiate, per mio infelice aspetto,

O se beltà più vaga v’abbia ferito il petto.

Tamas:

Fatima, non lo niego; a forza i’ son marito,

Questo sen, questo cuore, è ver, fu già ferito.

Pregai che in libertade fosse di noi la mano,

Per mio, per vostro bene; ed il pregar fu vano.

II genitor meschiando le lusinghe all’impero

M’empié l’alma di foco, di speranza il pensiero.

Sperai ne’ vostri lumi trovar cotal valore,

Che avesse a mio dispetto ad involarmi il cuore;

E mi credei che il danno di perdere il mio bene

Costar non mi dovesse tanti sospiri, e pene.

Vi scopriste, v’ammiro: bella e vezzosa siete;

Ma cancellar quell’altra dal cuor non mi potete.

Fatima:

Né cancellarla io spero, né in me vuo’ che si dica,

Che in vece d’una sposa, trovaste una nemica.

Ma di me sventurata, signor, che sarà mai?

Tamas:

Fatima, non so dirlo; ancor non ci pensai.

Fatima:

Sposi noi siamo, è vero, ma niun de’ nostri petti

Può esaminar gli ardori, può discoprir gli affetti.

Celisi in faccia al mondo, che il volto mio vi spiace,

Io soffrirò, che amiate la mia rivale in pace.

Tamas:

Bella virtù, che merta amante a voi più grato!

Fatima, lo confesso, compiango il vostro stato;

Poco chiedete, in premio d’un cor di virtù pieno,

E il poco, che chiedete, posso accordar nemeno.

Fatima:

Misera me! Vorreste col rossor d’un rifiuto

Rendermi d’una schiava vergognoso tributo?

Che gelosia le puote rendere una consorte,

Fra tante, e tante donne rinchiuse in queste porte?

Teme che io le comandi? Non lo farò, il prometto.

Ha timor, che io l’insulti? No, le userò rispetto.

La servirò (se lice servire ad una moglie,

Senza oltraggiar l’amato signor di queste soglie).

Che vol di più? Lo dica; farlo vi do parola.

Tamas:

Gelosa è del cuor mio; brama regnarvi sola.

Fatima:

Sola? Di sì bel regno l’arbitra non io sono,

Voi sugli affetti vostri, dar le potete il trono.

Sola nel vostro cuore fate che regni in pace;

Usi pietà, non ira, con chi lo vede, e tace.

Soffra, che possa almeno errar fra queste mura

Confusa fra le donne, nate di stirpe oscura;

Ed a soffrir le insegni, senza esserne sdegnosa,

L’esempio avanti agli occhi d’una non vile, e sposa

(piange).

Tamas:

(Muove pietà col pianto, misera donna oppressa.

Se la vedesse Ircana, pietà ne avrebbe anch’essa)

(da sé).

Fatima:

Da voi sposata appena, se lungi mi scacciate,

Pensate a qual destino, signor, mi condannate.

È ver che ripudiata donna talor si sposa,

Ma espiar le conviene la macchia vergognosa.

Colpa non ho, che vaglia a meritar disprezzi,

Non v’è ragion, per cui nodo fra noi si spezzi.

Pien di furore, e sdegno il padre mio, la morte,

Per vendicar la figlia, vorrebbe del consorte;

Ed io, che di adorarvi, misera, ancor mi vanto,

Per voi, non per me stessa, mi struggerei nel pianto

(piange).

Tamas:

Fatima, non piangete, a voi torno a momenti.

(Che stile inusitato! che amor! che dolci accenti!

Ah voglia il ciel, che Ircana m’oda, s’arrenda, e taccia.

Se nega? se persiste? Non so quel che mi faccia) (parte).

 

 

Scena VII

Fatima sola.

 

Padre mio, se veduta m’avessi in tal periglio,

Diresti, che seguito non abbia il tuo consiglio?

Potea soffrir di più? Di più soffrir mi resta?

Bella consolazione per una sposa è questa!

Nel momento primiero, che scopromi allo sposo,

Veggolo nel mirarmi immobile, e ritroso.

Misera, e quand’io spero m’accolga fra le braccia,

Volge le luci altrove, e non mi guarda in faccia!

Oltre al dover, son prima a scioglier la favella,

Non ha rossore a dirmi, che la sua schiava è bella,

Che l’ama, e che pretender per contentar l’audace,

Sagrificar la sposa, e rimandarla in pace.

Vile non son; de’ torti sento nell’alma il peso,

Veggo l’amor di sposa, veggo l’onore offeso.

Ma che giovar poteami con un che mi disprezza,

Con un che può scacciarmi, lo sdegno, e la fierezza?

Quel che non fa la pace, quel che non fa l’amore,

Coi sposi monsulmani far non puote il furore.

Dissimular conviene, soffrir la crudeltade

Per moverlo col tempo a dolcezza, a pietade;

E celando nel petto la gelosia cruciosa,

Agli occhi del crudele rendermi meno odiosa.

Per me di morte istessa più barbaro è il dolore

Di cedere a una schiava del mio diletto il cuore;

Ma perché ciò non segua, dir degg’io di volerlo,

E guadagnar lo sposo, mostrando compiacerlo.

 

Scena VIII

Curcuma, e detta.

 

Curcuma:

Sposa gentil, e vaga, degna d’eterna lode,

Curcuma a voi s’inchina, delle donne custode.

Fatima:

Sì, cara mia, prendete, d’aggradimento in segno,

Questo di vero affetto amichevole pegno (s’abbracciano).

Curcuma:

Siete gentil davvero; bella siete, e graziosa.

(E parmi, che esser debba discreta e generosa) (da sé).

Fatima:

Ditemi: quante schiave Tamas ha in suo potere?

Curcuma:

(Principia dalle schiave). Dieci ne suole avere

(Principia dalle schiave lo dice da sé).

Fatima:

Son belle? son vezzose?

Curcuma:

Oibò, non ve n’è alcuna

Che delle grazie vostre possa vantarne una.

Fatima:

Però non mi crediate soggetta a gelosia:

Codesta in un serraglio sarebbe una follia.

Curcuma:

Certamente (con ironia).

Fatima:

Ma pure bramo sapere anch’io

Qual sia la più diletta, fra voi, del signor mio.

Curcuma:

Vi dirò; veramente, ha per me qualche affetto,

Ma statene sicura, non abbiate sospetto.

Se meco qualche volta accendersi lo veggo,

Gli batto su le mani, lo sgrido, e lo correggo.

Fatima:

Né per il grado vostro, né per la vostra etade,

Si può temer.

Curcuma:

No, dite, perché amo l’onestade.

Fatima:

Tamas non ha di voi, chi più gli punga il cuore?

Curcuma:

Eh disgraziato! Basta; non vuo’ darvi dolore.

Fatima:

Via, lo so, d’una schiava egli è perduto amante:

Ditemi, come ha ricco di grazie il bel sembiante?

Curcuma:

Eh! mi fareste dire; con voi, la mia fanciulla,

Le grazie di colei non vagliono per nulla.

Avete, gioia mia, un viso che innamora,

E alle mie mani poi sarà più bello ancora.

Di lisci, e di pomate io son maestra antica;

Tutte per farsi belle mi vorrebbono amica.

Fatima:

Sinora io non usai, sien brutte, o sieno belle,

Su queste guancie mie di mascherar la pelle.

Lo farei, se credessi di render più gradito

L’infelice mio volto agli occhi del marito;

Ma inutil la bellezza, inutile è l’amore,

Con un, che ad altra amante abbia donato il cuore.

Curcuma:

Proviam?

Fatima:

No; non mi piace.

Curcuma:

Le mani almen potete...

Ah quante belle gemme su queste mani avete!

Fatima:

Ecco un altro costume, di cui farei di meno:

S’ornano inutilmente le dita, il collo, il seno.

Curcuma:

Affé, per caricarvi troppi denari han speso;

Io, cara, m’esibisco di allegerirvi il peso.

Fatima:

No, no, tener le deggio di notte al chiaro lume.

Anche sì bella pompa delle spose è in costume.

Vanità senza frutto, far pompa di splendore,

Quando tra le gramaglie piagne dolente il cuore.

Curcuma:

Voi, più d’un apparato di gioje strepitoso,

Bramate di godere la gioia dello sposo!

Fatima:

Sì, il di lui cor sospiro.

Curcuma:

Ogni lusinga è vana.

II di lui cor, figliuola, l’ha donato ad Ircana.

Fatima:

Voi di costei sarete fida compagna, e amica.

Curcuma:

Io? Non passa un momento, che non la maledica.

Fatima:

Perché?

Curcuma:

Perché è superba, inquieta, fastidiosa:

Non vuol servir da schiava, vuol comandar da sposa.

E se voi non farete quel che insegnarvi io voglio,

Colei col piè sul collo vi terrà per orgoglio.

Fatima:

(Scoprasi, non mi fido). Dite, madonna, come

Trattar dovrei la schiava, quella, che Ircana ha nome?

Curcuma:

Par, che quell’anellino non istia ben con quelli;

Scomparisce, meschino, fra tanti a lui più belli.

Fatima:

Meglio sarebbe dunque, che al dito lo levassi,

Ed alla mia custode in dono io lo recassi.

Curcuma:

Meglio sarebbe.

Fatima:

Ho inteso, domani lo faremo.

Curcuma:

Quel che può farsi adesso perché il differiremo?

Fatima:

Perché il mio genitore questa sera al convito

Voglio che me lo veda con l’altre gemme in dito.

Curcuma:

Bene bene, domani sarò di bon mattino

A darvi l’ova fresche, e a prender l’anellino.

Fatima:

Ma intanto non potreste darmi d’amor consiglio,

Per reggermi più franca a fronte d’un periglio?

Curcuma:

Figlia, il Consiglio è questo: la quiete non sperate,

D’una rivale ardita se voi non vi disfate;

E per disfarvi d’una, che ha il cor del suo signore

Armarvi è necessario di sdegno, e di furore.

Ma sdegno di parole, furor d’ingiurie è poco;

Altro vi vuol che pianti per terminare il gioco.

Chiedete il mio consiglio? Eccolo: vi rispondo

Che con un thè la schiava mandasi all’altro mondo.

Fatima:

Ed io rispondo a voi, perfida vecchia indegna,

Che all’anime ben nate a tradir non s’insegna.

Sul cuor del mio consorte non ho rival sospetta;

E quando ancor l’avessi non ne farei vendetta.

Usa pomate, e lisci, usa veleni, e stili

Con le schiave tue pari, empie, ribalde, e vili.

Gemme per te non serbo, serbo per te nel petto

Il disprezzo che merti, la noia, ed il dispetto (parte).

 

 

Scena IX

Curcuma, poi Ircana.

 

Curcuma:

Sì? Saprò vendicarmi. A me? Non son chi sono,

Se tu non me la paghi; mai più te la perdono.

Ircana:

Dimmi: è colei la sposa?

Curcuma:

Sì.

Ircana:

Che ti pare? è bella?

Curcuma:

Con voi sembra un vapore in faccia di una stella.

Ircana:

Come è vezzosa?

Curcuma:

Niente.

Ircana:

Parla bene?

Curcuma:

Nemmeno.

Altro non ha di bello, che delle gioie al seno.

Ircana:

Delle gemme non parlo; il viso?

Curcuma:

Scolorito.

Altro non ha di bello, che delle gemme in dito.

Ircana:

Posso io dunque sperare, che Tamas la disprezzi?

Curcuma:

Sì, quando egli le gemme non preferisca ai vezzi.

Ircana:

Tamas gioie non cura.

Curcuma:

Ma sono belle assai.

Ircana:

Di me parlotti forse?

Curcuma:

Parlommi, e m’irritai.

Ircana:

Che disseti l’audace?

Curcuma:

Ch’ella è la sposa, e voi

Dovete obbedïente servire a’ cenni suoi.

Ircana:

Tamas dov’è?

Curcuma:

Nol vidi.

Ircana:

Cercalo, o cielo! io fremo.

Obbedirla? servirla? Curcuma, io sudo, io tremo.

Curcuma:

Le dissi...

Ircana:

Eccolo: parti.

Curcuma:

Dissi, che voi...

Ircana:

T’invola.

Curcuma:

Voi siete la padrona...

Ircana:

Va’ via, lasciami sola.

Curcuma:

Affé, se avrà il coraggio d’alzar la testa un poco...

Vo’ a porre in questo punto le pentoline al foco (parte).

 

Scena X

Ircana, poi Tamas.

 

Ircana:

Vedrem sin dove arriva l’amore, o la incostanza

D’un cor, che nel mio seno ebbe finor sua stanza.

Tamas:

Ircana.

Ircana:

E ben, che rechi?

Tamas:

Odimi...

Ircana:

Ti confondi?

Parte la sposa tua? Resta con te? Rispondi.

Tamas:

Partirà, se lo vuoi, ma che nol voglia, io spero.

Ircana:

Speri che non lo voglia?

Tamas:

Frena lo spirto altero.

La vidi; ella ti cede in merto, ed in bellezza;

Ma soffri, che io tel dica...

Ircana:

Mi supera in dolcezza!

E non è scarso pregio, ancorché non sia vaga,

Donna, che facilmente di parole s’appaga (con ironia).

Le sciocche non invidio; io son femina audace.

Eleggi delle due; sciegli qual più ti piace... (altera).

Tamas:

Ho scelto; e tu lo sai, crudel, se preferita

Ti ho alla sposa non solo, ma al padre, ed alla vita.

Questa, che a torto insulti, questa, che aborri tanto,

Ha di stimarti il pregio, vuol di piacerti il vanto.

Sa, che ti adoro, e il soffre; sa che mi piaci, e loda,

Che io serbi fede, e sembra, che per te esulti, e goda.

Giura le fiamme nostre soffrir senza fatica;

Non la temer rivale, l’avrai compagna, e amica.

Che ti par?

Ircana:

Non lo credo.

Tamas:

T’inganni, idolo mio.

Ircana:

Son donna, e delle donne l’arte conosco anch’io.

Tamas:

Che puoi temer?

Ircana:

Che finga non essere gelosa,

E di vendetta in seno covi la serpe ascosa.

Tamas:

No, non può darsi. In viso troppo è modesta, e umile.

Ircana:

Questo delle alme accorte, questo è l’usato stile.

Tamas, tu non sai quanto sotto un placido aspetto

Facilmente s’asconda la rabbia, ed il dispetto.

Quando ho lo sdegno in viso, tu me lo vedi in faccia;

Se mi conosco offesa, dubbio non vi è, che io taccia;

Palese è il mio disdegno, palese è la vendetta,

Chi simula, e non parla, tempo, e comodo aspetta.

Fatima è mia nemica, lo so, non mi lusingo;

Ella di amarmi finge, io l’odio, e non lo fingo.

Tu, se di lei ti cale, vibrami un ferro in petto,

E se di me ti preme, scacciala a suo dispetto.

Tamas:

Vedila, Ircana, almeno; odi parlar quel labro.

Ircana:

Misero! Ti ha incantato la bocca di cinabro?

No, vederla non voglio.

Tamas:

Dunque...

Ircana:

O Fatima, o io,

Fuori di queste mura, o fuor del mondo. Addio (parte).

 

Scena XI



Tamas solo.

A qual misero stato femina, o ciel, mi pone?

Oltre del proprio foco non ode altra ragione.

Dunque, per compiacerla, crudo sarò a tal segno;

E del mio amore in vece, Fatima avrà il mio sdegno?

Ma se d’amor col manto l’odio nel sen coprisse?

Fatima è donna... e donna, l’altra è pur che lo disse.

E la ragione istessa, che fa temer di quella

Può rendermi d’Ircana sospetta la favella.

No, per sei lune avvezzo è il mio cuore ad amarla,

Né aver mentito un giorno poss’io rimproverarla.

Questa mi ha date prove certissime di fede,

Fatima è dolce in viso, ma il cor non le si vede.

Potria mentir; ma intanto, la scaccierò? Non deggio.

La torrò meco? Oh Dio! Perdersi Ircana io veggio.

Chi mi consiglia? ah dove trovo un amico vero?

Alì, mio caro Alì, dov’è il tuo cor sincero?

L’oppio, per cui brillava, ora lo tiene oppresso;

Ed io tra dubbi, e pene non conosco me stesso.

A te volgo la faccia, tempio in Arabia antico,

A cui peregrinando va il grande, e va il mendico.

Kabàche nella Meca, tra barbari e divoti,

De’ Turchi, e Persiani hai le preghiere, e i voti.

Giuro venir io stesso, d’oro munito, e spoglie,

Con cento schiavi e cento a baciar le tue soglie.

Passar indi a Medina dalla Meca prometto,

‘Ve nella ferrea cassa sta sepolto Maometto.

Tutto farò pel solo desio d’aver mia pace.

Fatima fa pietade, ed Ircana mi piace (parte).

 

 

ATTO TERZO

 

Scena I

Ibraima, Zama ed altre Schiave.

 

Ibraima:

Vedesti ancor la sposa?

Zama:

Poc’anzi l’ho veduta.

Ibraima:

Come ti piace?

Zama:

Assai.

Ibraima:

A me pure è piacciuta.

Parlar non le potei, ma sembrami gentile.

Zama:

Si conosce dal volto, ch’è affettuosa, umile.

Ibraima:

E pure, udisti Ircana?

Zama:

In lei parla lo sdegno.

Ibraima:

E Curcuma?

Zama:

La vecchia ha tal costume indegno,

Che a te di me parlando, te esalta, e me deprime;

E meco fa lo stesso, quando di te si esprime.

Ibraima:

Prego di cuore il cielo, che ami il padron la sposa,

E umilïata resti Ircana orgogliosa.

Zama:

E vedasi costei, cui servitude è grave,

Al bagno, ed alla mensa servir colle altre schiave.

Ibraima:

Qual merto aver presume la lusinghiera astuta?

Ella è, quali noi siamo schiava al signor venduta.

Zama:

E ancor per poco prezzo. Machmut l’ebbe alle mani

Per cento mamoède, che forman due tomani.

Ibraima:

Per me ne hanno sborsato quatordeci i meschini,

Che formano dugento gialli, europei zecchini.

Zama:

Lo so, che Machmut, avido di comprarmi,

Saziar non si potea di soppiato in mirarmi.

Pare a lodar volesse in me qualche bellezza,

Ma il costume ti è noto; chi vuol comprar disprezza.

Vidi però, che all’uso di Persia contrattando,

Le man col padre mio sotto il manto celando,

Le punta delle dita, le dita or curve, or tese

Tanto alternò, che alfine a dir "basta" s’intese;

E co la mano aperta, che suol valer per cento,

Mostrossi il padre mio del prezzo esser contento.

Ibraima:

Ma non aperse il pugno, che conta mille.

Zama:

Alfine

Noi siam Circasse, e siam del più colto confine.

E Ircana non è degna né men di starci a fronte.

Ibraima:

E soffrirem da lei busse, minaccie ed onte?

Affé se mi ci metto...

Zama:

Se mi ci metto anch’io...

Ibraima:

Vuo’ svellerle le chiome.

Zama:

Vuo’ fare il dover mio.

Ora che vi è la sposa non conta più nïente;

Finito avrà l’audace di far l’impertinente.

 

 

 

Scena II

Fatima, e dette.

 

Fatima:

(Desio mirarla in viso questa rival sì bella;

Qui con le schiave unite vi sarà forse anch’ella) (da sé).

Ibraima:

Vedi? (a Zama).

Zama:

La sposa (a Ibraima).

Ibraima:

O bella!

Zama:

Mira che luci oneste!

Fatima:

(La schiava fortunate qual mai sarà di queste?) (da sé).

Ibraima:

Via; faciamole onore (a Zama).

Zama:

Sì, l’obligo lo vuole (a Ibraima).

Ibraima:

Signora, che coi lumi splendete al par del sole,

Che a Venere in bellezza potete muover guerra,

Che avete nel bel ciglio l’arbitrio della terra,

Possano i cari figli, che voi darete al mondo

Regger dell’universo coi loro cenni il pondo.

Zama:

Di quelle lunghe chiome possano ai fili neri

In numero esser pari de’ figliuoli gl’imperi.

Venuta dalle stelle a noi per ornamento,

II lume, la ricchezza scemaste al firmamento,

Degna, che Persia tutta vi veneri e v’adori,

Regina delle donne, bell’idolo de’ cuori.

Fatima:

Donne, l’usato stile d’Oriente io non ammetto;

Adulazion mi spiace, candor bramo, ed affetto.

Al ver quest’alma avvezza, del ver s’appaga, e gode.

Serbate a chi l’apprezza l’iperbolica lode.

Ibraima:

Senti? Questa è virtude (a Zama).

Zama:

Virtude, che innamora (a Ibraima).

Fatima:

(Qual sia Ircana fra queste, non ben discerno ancora) (da sé).

Ibraima:

Sposa del signor nostro, che di lui donna siete,

Usate il poter vostro, e di me disponete.

Fatima:

(Questa non è) (da sé).

Zama:

Signora, sempre più in me si desta

Il desio di servirvi.

Fatima:

(Non è nemeno questa.

Fra quelle, che stan chete forse saravvi anch’ella

Ma pur niuna di quelle parmi superba, e bella) (da sé).

 

Scena III

Ircana, e dette.

 

Ircana:

Olà, qual ozio è questo? Le schiave in concistoro?

Itene immantinente ai giardini, al lavoro.

Fatima:

(Eccola, me l’addita quell’altero sembiante) (da sé).

Ibraima:

Frenate quell’orgoglio (a Fatima e parte).

Zama:

Punite l’arrogante (fa lo stesso).

Ircana:

(Chi è costei, che non parte?) (da sé).

Fatima:

(Numi, Consiglio, aita) (da sé).

Ircana:

(Ah sì la veggio; è questa la rivale abborrita.

Fuggasi) (da sé).

Fatima: Ircana.

Ircana:

A nome chi sei tu, che m’appelli?

Fatima:

Di Tamas la consorte questa è, con cui favelli.

Ircana:

E ben? che dir vorresti? che io son tua schiava?

Fatima:

Invano

Temi, che usar io voglia teco il poter sovrano.

Non servono con l’altre le schiave, che han l’onore

D’aver incatenato del signor loro il cuore.

Ircana:

Né comandare è dato a sposa non amata,

Per obbedire il padre, dal giovane sposata.

Fatima:

È ver, non lo contrasto; tu sei la più felice.

Vuoi, che io ti serva? Imponi!

Ircana:

A te servir non lice.

Donna fra suoni, e canti al talamo venuta,

Schiava obbedir non deve da’ parenti venduta.

Fatima:

Tal legge in un serraglio rare volte si osserva

Spesso il signor confonde colla sposa la serva.

Ircana:

E chi tal legge soffre mal volentier, sen rieda,

Pria che all’onta privata la pubblica succeda.

Fatima:

L’onte sfuggir non cura chi soffre, e non s’aggrava.

Ircana:

Donna, che soffre i torti è più vil di una schiava.

Fatima:

Qual torto, se non mi ama sposo, di te invaghito?

Ircana:

Non vi è ragion, che approvi le ingiurie d’un marito.

Fatima:

Con tai ragion condanni te sol di contumace.

Ircana:

Condanno te, se resti, se lo sopporti in pace.

Fatima:

Ma se ne’ lumi tuoi merto maggiore io vedo,

Se Tamas compatisco, se amo il tuo ben...

Ircana:

Nol credo.

Fingi ben, lo conosco, fingi soffrir suoi lacci,

Ma tanto più t’accendi, quanto più fremi, e tacci.

Chi sa sotto quel ciglio qual covisi lo sdegno,

Qual della mia rovina si mediti il disegno?

Fatima, donne siamo; parliam tra noi sincere,

Ciascuna in modi vari sa fare il suo mestiere,

Io d’un amor schernito non soffrirei gli affanni

Tu, se il tuo cuor lo soffre, o sei stolta, o m’inganni.

Fatima:

Stolta sarò.

Ircana:

Non dice d’esserlo chi è in diffetto.

Fatima:

Dunque?

Ircana:

Dunque tu celi colla pace il dispetto.

Fatima:

E tu con labro sciolto ad insultare avvezzo

Aggiungi all’altrui danno con l’ingiurie il disprezzo.

Vuoi, che lo sdegno io nutra? tu pur lo nutri in seno,

Ma con parole audaci non ne fo pompa almeno.

Ircana:

Taci; or siamo scoperte, sei mia nemica.

Fatima:

Ed io

Dovrei a chi m’insulta giurar lo sdegno mio.

Ma non temer, son tale, che a chi m’insulta ancora

Non posso il cor sincero serbar nemico un’ora.

Ircana:

Segno di tua viltade.

Fatima:

T’inganni; un segno è questo,

Che dell’anime vili la vendetta detesto,

E se la virtù stessa vuoi che per te mi aggrave,

Segno è, che non mi cale di altercar colle schiave.

Ircana:

Schiava son io che puote far tremare un’altera.

Fatima:

Anche di gallo il canto fa tremar una fera.

Ircana:

O parti, o Tamas d’una di noi vedrà la morte.

Fatima:

Veggala; ambe moriamo; ma dentro a queste porte.

Ircana:

Perfida!

Fatima:

Io non t’insulto.

Ircana:

Più il tuo tacer m’affanna.

Fatima:

Non la mia sofferenza, il tuo furor condanna.

Ircana:

Parto perché il tuo volto mi provoca, e m’uccide;

Più della morte ho in odio donna, che freme, e ride (parte).

 

Scena IV



Fatima sola.

No, non vogl’io pentirmi d’aver sofferto in pace,

Senza cambiar le offese, senza insultar l’audace.

L’ira sfogar col labbro con chi c’insulta è segno,

Che sopra la ragione, predomina lo sdegno.

È la viltà un estremo, temeritade è l’altro;

Prudenza è il mezzo onesto, in un nobile, e scaltro:

Nobile che gl’insulti sdegna, conosce, e prova;

Scaltro, che per virtude sa simular, se giova.

Era di quell’indegna ogni superbo detto

Aspra mortal ferita d’una consorte al petto;

Ma a lei giovar potea più, che a me l’irritarmi

Empia per questo Ircana tentò di provocarmi,

Ed io l’ira celando, senza mostrarla in viso,

Le ingiurie, e le minaccie ricompensai col riso:

Tamas, che l’abbia offesa dir non potrà, se affetto

Tenero le promisi, e le mostrai rispetto.

Pietà più facilmente sperare alle mie pene

Posso nel di lui cuore... Eccolo, che a me viene.

 

Scena V

Tamas, e detta.

 

Tamas:

(Eccola quell’audace; creduto ah non l’avrei...

Onte, insulti ad Ircana? Provi gli sdegni miei) (da sé).

Fatima:

Sposo?

Tamas:

T’accheta, e parti.

Fatima:

A me che parta? Oh cielo!

Tamas, alla tua sposa?

Tamas:

Torna a riporti il velo.

Fatima:

Come?

Tamas:

Divorzio io chiedo.

Fatima:

Senza ragion?

Tamas:

Ragione?

È il mio voler, t’accheta: femmina invan s’oppone.

Fatima:

Io vi dissento; è legge nell’Alcoran firmata,

Che non sia moglie a forza senza ragion scacciata.

Al Cadì si ricorra, egli, che il dritto regge,

Esamini le colpe, interpetri la legge.

Tamas:

Che parli di Cadì, di legge, e d’Alcorano?

Io son nei tetti miei l’interpetre, e il sovrano.

Fatima:

Ah signor qual mia colpa v’arma a sì ria vendetta?

Tamas:

Non merta l’amor mio colei, che nol rispetta.

Fatima:

Che dir volete? Ircana...

Tamas:

Sì, l’insultasti, audace.

Fatima:

Ah non è ver.

Tamas:

T’accheta; non è Ircana mendace.

Fatima:

Ella che l’insultassi può sostenere? L’afferma

Francamente il suo labbro?

Tamas:

E Curcuma il conferma.

Fatima:

Curcuma? scellerata! Quella, che un rio veleno...

Tamas:

Doveva alla mia schiava dar, per tua legge, al seno.

Ma il cielo...

Fatima:

Ah non è vero.

Tamas:

Perfida!

Fatima:

Ah son tradita.

Tamas:

Indegna d’uno sposo, indegna della vita.

Togliti agli occhi miei; non vi sarà chi invano

Teco d’unirmi ardisca col cuore, o con la mano;

E se volesse il padre, a forza, e a mio dispetto,

Ti caccerei, ribalda, questo pugnale in petto

(sfodra un pugnale).

Fatima:

Aita...

 

Scena VI

Machmut, e detti.

 

Machmut:

Olà, che tenti?

Tamas:

Minaccio, e non ferisco.

Machmut:

Chi minacci?

Tamas:

Un’indegna.

Machmut:

Sei tu? (a Fatima). (Non lo capisco) (da sé).

Fatima:

Son io quell’infelice, che ha la gran colpa in seno

D’aver alla sua bella...

Tamas:

Preparato il veleno.

Fatima:

Ah mi fulmini il cielo! orrida sepoltura

M’apra quindi la terra, se ciò fia ver.

Tamas:

Spergiura!

Machmut:

Fatima, ti allontana.

Fatima:

Pietà!

Tamas:

Parti.

Fatima:

Obbedisco.

Miratemi signore, m’insulta, ed io languisco (a Machmut).

Soglion le spose in Persia, per gelosia di schiave,

Chiedere esse il divorzio, e a me par duro, e grave

Poiché se per destino seco mi sono unita,

Mi han per destino ancora, quegli occhi suoi ferita.

Vendetta non domando, vendetta non procuro;

Veleni non conosco, tocco la fronte, e il giuro.

Pietà chiedo allo sposo, se invan gli chiedo affetto:

Ecco la sua pietade, m’alza un pugnale al petto.

Morirei pria di dirlo al Muftì, o al Divano,

Lo dico al genitore, che per il figlio è umano.

Bramo la di lui pace, bramo, che mi ami, e viva;

Io morirei più tosto ch’essere di lui priva.

Signor, voi padre siate di me qual dello sposo,

Nuora non abbandoni il suocero amoroso.

Attenderò il decreto, pene, supplicii, e morte;

Tutto, fuor che staccarmi dal mio crudel consorte (parte).

 

Scena VII

Machmut e Tamas.

Machmut:

Misera, sventurata!

Tamas:

Colei...

Machmut:

Taci, e m’ascolta.

Tamas:

Non conoscete il cuore...

Machmut:

Rispettami una volta!

Tamas:

Vi ascolterò.

Machmut:

Tu celi sotto ragion mendace

L’amor, che nutri in seno per una schiava audace.

Di questo amore indegno niun ti contrasta il foco;

Si tollera, si tace, e per te ancora è poco?

Tace, e tollera un padre, lo fa la sposa istessa;

Tu il genitore insulti, vuoi la consorte oppressa...

Tamas:

Una consorte indegna...

Machmut:

Taci.

Tamas:

Che per vendetta...

Machmut:

Taci.

Tamas:

Non parlo.

Machmut:

Ardito! m’ascolta, e mi rispetta.

Che far puote in un giorno, anzi in poch’ore appena,

Al talamo guidata, figlia di rossor piena?

A preparar veleni, a meditar fierezza,

Tempo vi vuole, e un’alma ai tradimenti avvezza.

Sciocchi pretesti indegni d’alma ribalda e nera,

Sedotta da una schiava, che le comanda altera!

Empio, col ferro in mano minacci una donzella?

Ecco perché l’Europa barbari noi appella;

Non per le leggi nostre, non per il culto al Nume,

Non perché di scienza in noi non siavi il lume;

Ma perché un uom lascivo, pien di scorrette voglie

Al piacer d’una schiava sagrifica una moglie.

Tamas:

Permettete, ch’io parli?

Machmut:

Oh traccotanza estrema!

Non lo permetto ancora; odimi, audace, e trema.

Trema del tuo destino, trema del tuo periglio:

Odi a che mi esponesti, ingratissimo figlio.

Non si conosce in Persia nobiltà de’ natali!

Fuor della regia stirpe, tutti siam nati eguali,

E quel più si distingue fra noi, che ha più fortuna,

Quel, che ha gli onori in casa, e le ricchezze aduna.

Lo sai che il padre mio per Angli, Ispani, e Galli

Con le sue man pescava le perle, e i coralli;

Ei col denaro, a forza di sudori acquistato,

Mi ha questo pingue officio di finanzier comprato;

Ed io per le gabelle, esposto a gente ardita,

Mille soffersi ingiurie, ed arrischiai la vita.

Or tu, che unico sei, d’ogni mio bene erede,

Cui, dopo me, comprata ho la medesma sede,

Tu, ingratissimo figlio, anzi che sollevarmi,

Con onte, e con insulti vorrai precipitarmi?

Sai pur, che ogni pretesto serve al giudice avaro

A togliere in Oriente le cariche, e il denaro.

E sai che facilmente soggetto è a tal periglio

Anche il padre innocente, per le colpe del figlio.

Tu minacciar la sposa? Tu con il ferro in mano,

Minacciar la figliuola del terribile Osmano?

Sai tu qual pena avresti, se incauto l’uccidevi?

(E ucciderla pur troppo, s’i’ non venia, potevi).

Ecco la legge: un reo, che abbia talun svenato,

Conducesi da’ schiavi al tribunal legato;

Fatto il processo in breve, confessor ovver convinto,

Consegnasi ai parenti dell’infelice estinto;

Ed essi, con tormenti inusitati, e strani,

Dell’uccisor nel sangue si lavano le mani.

Anche le donne stesse, per legge altrui celate,

Sono per tai tragedie in libertà lasciate,

Con l’ugne, e con i denti straccian le carni, e i crini

Avide di vendetta, fiere più de’ mastini.

Di’, che ti pare? Ircana merta d’avere il vanto

Che il suo signor per lei s’accenda, e arrischi tanto?

Tamas:

Posso parlar, signore?

Machmut:

Parla, sì, tel concedo.

Tamas:

Padre, se per Ircana...

Machmut:

Osmano quel ch’io vedo (osservando verso la scena).

Tamas:

Se per Ircana il petto...

Machmut:

Parti.

Tamas:

Ma dunque invano

Potrò sperar, signore....

Machmut:

Lasciami con Osmano.

Tamas:

(Non so che dir; dal padre il cor mi si divide,

Fatima mi tormenta, ed Ircana mi uccide) (da sé e parte).

Machmut:

Parmi commosso, oh cielo! Tamas, lo sai, se ti amo,

Ma il periglioso laccio veder troncato io bramo.

 

Scena VIII

Osmano, e Machmut.

 

Osmano:

Che ha Fatima, che piange?

Machmut:

Non lo chiedesti a lei?

Osmano:

Mostra di non saperlo.

Machmut:

Io più nol chiederei.

Osmano:

Odimi: due poeti del seguito festoso

Cantano della sposa le lodi, e dello sposo;

Ma in mezzo ai loro canti, in mezzo ai loro accenti,

Framischiano sovente le satire pungenti.

Fatima (un di quei dice), Fatima è mia sovrana,

Ma dovrà star soggetta alla mia schiava Ircana.

Fatima un sol rassembra (l’altro poeta disse),

Ma un sole, a cui minaccia l’altro pianeta ecclisse.

Io loro avrei d’un colpo tronca la testa, e il canto;

Rispettai le tue soglie, l’ira frenai; ma intanto,

Dimmi tu, che il saprai, chi è quest’ardita Ircana;

Che potrebbe a mia figlia comandar da sovrana?

Machmut:

Ah indegni, scellerati satirici cantori,

Che or fanno i maldicenti, or fan gli adulatori,

E quando dicon bene, e quando dicon male,

Sempre in lor l’interesse alla ragion prevale!

Possano andar raminghi per l’Asia, e mal pasciuti,

Come in Europa sono in obbrobrio venuti,

Sbanditi dare genti cotai spiriti inquieti,

Derise, e svergognate le satire, e i poeti.

Odimi, Osmano, il vero celar fia cosa vana

Mio figlio ama una schiava, il di cui nome è Ircana.

Osmano:

Che ami una schiava, è poco; ne ami anche dieci, è nulla;

Sposa soffrir lo deve, sia donna, o sia fanciulla.

Basta, che non ardisca per un amore insano

Tenere a lei soggetta la figliuola di Osmano.

Machmut:

No, non temer.

Osmano:

Se invano temer ciò si dovesse,

Non sentiriansi i vati cantar satire espresse;

Le donne dagli eunuchi han preso l’argomento,

E Fatima è ormai resa l’altrui divertimento.

Machmut:

Da un padre, e da un amico chiedo consiglio, e aita.

Osmano:

Odimi: a quante schiave questa superba è unita?

Machmut:

Quelle del genitore non son quelle del figlio.

Le sue dieci saranno.

Osmano:

Eccoti il mio Consiglio.

Dieci donne son troppe; vendi l’audace Ircana.

Cesserà ogni periglio, quando è costei lontana.

Machmut:

Facciasi.

Osmano:

Ogni dimora può assassinare il cuore

Di un figlio affascinato.

Machmut:

Si cerchi il compratore.

Osmano:

Come è costei?

Machmut:

Vezzosa.

Osmano:

Giovine?

Machmut:

Giovinetta.

Osmano:

Lavora?

Machmut:

Nel ricamo l’ho trovata perfetta.

Osmano:

La comprerò.

Machmut:

A qual prezzo?

Osmano:

Vederla, e si contratti.

Machmut:

Fra due, che giusti sono brevi saranno i patti.

Olà... Curcuma io voglio (esce un eunuco, e parte).

Osmano:

Chi è costei?

Machmut:

La custode.

Osmano:

Queste son ne’ serragli maestre d’ogni frode.

 

Scena IX

Curcuma, e detti.

 

Curcuma:

Eccomi: (oh me meschina!) un uom, che mi ha veduta.

Presto, pria, che si dica, che ho l’onestà perduta (vuol coprirsi).

Machmut:

Odimi.

Curcuma:

Si, signore (coprendosi).

Machmut:

Qual timore improviso?

Curcuma:

Non v’è un uomo? mi sento i rossori sul viso.

Machmut:

Vieni; l’età canuta ti salva dal rigore.

Curcuma:

Eh, se sono canuta, è per troppo calore.

Machmut:

Odimi.

Curcuma:

Dite pure.

Machmut:

Eh scopriti, schifosa.

Curcuma:

Signor sì; sono stata sempre un po’ vergognosa.

Machmut:

Fa, che Ircana a me venga, e se venir non vuole.

Usa la forza, quando non vaglian le parole;

Legata dagli eunuchi, guidala al mio cospetto.

Eseguisci il comando, sollecita ti aspetto.

Curcuma:

Legata? strascinata? oh povera ragazza!

Più tosto son qua io...

Machmut:

Vanne: sei vecchia, e pazza.

Curcuma:

Oh questo maltrattarmi, signor padron mio caro,

Dirmi che sono vecchia è un boccon troppo amaro.

Per le fatiche il viso par un po’ crespo, e vecchio,

Ma sono le mie carni lustre come uno specchio (parte).

 

Scena X

Machmut, e Osmano.

 

Machmut:

(Giovine sventurato!) (da sé).

Osmano:

Machmut, che pensi?

Machmut:

Ah penso

Qual dolore il mio figlio proverà crudo, intenso!

Osmano:

Dagli una sciabla, un arco, dagli un agil destriero,

Meco in tre giorni al campo dilegua ogni pensiero;

Stanco di tollerare la neghittosa pace,

II Perso valoroso vuole attaccare il Trace;

Poiché, quantunque uniti sien sotto l’Alcorano,

Sono i più fier nemici il Perso, e l’Ottomano.

L’una e l’altra nazione venera, il sai, Maometto,

Ma abbiam noi per Alì forse maggior rispetto.

E quei nel nostro Impero, che ci governa, e regge,

Col parer degl’Omani interpreta la legge.

Venera il Turco Omar, Albumelech, Osmano,

Diviso in due partiti il popol monsulmano.

Articoli di legge tengono in aspra guerra,

Due principi fra loro formidabili in terra.

Machmut:

Tu nel parlar di guerra perdi te stesso: osserva:

Ecco la schiava.

Osmano:

A forza guidano la proterva.

 

Scena XI

Ircana tenuta legata da due eunuchi, e detti.

 

Ircana:

Ah signor, perché in lacci? Misera! in che peccai?

Che da me si pretende?

Machmut:

Chetati, e lo saprai.

Ircana:

Fammi coprire almeno dinnanzi a uno straniero.

Machmut:

(Mirala qual ti sembra?) (ad Osmano).

Osmano: (Ha il portamento altero) (a Machmut).

Machmut:

Piaceti?

Osmano:

Non mi spiace.

Machmut:

Se la vuoi contrattiamo.

Osmano:

Sotto il manto le mani (pongono le mani sotto le vesti).

Machmut:

Prestamente accordiamo.

Ircana:

(Ah che il crudel mi vende! In tal modo fu fatto

Già da Machmut istesso col padre mio il contratto) (da sé).

Misera me! lasciate, perfidi, un’infelice (tenta liberarsi dalle catene).

Tamas più non m’ascolta, sperar più non mi lice.

Machmut:

Basta cosi, son pago.

Osmano:

Avrai tosto il contante;

Avrai zecchini cento, del nuovo giorno innante.

Ircana:

Ah per pietà, signore, a qual destin funesto?... (a Machmut).

Machmut:

Schiava mia più non sei, il tuo signore è questo (parte).

Osmano:

Seguimi (ad Ircana).

Ircana:

Ah pria di trarmi lungi da questo tetto,

Pensate, che di Tamas son io l’unico affetto.

Osmano:

E tu pensa, ch’io sono padre della sua sposa;

Ti tratterò qual merti, femina orgogliosa (parte).

Ircana:

Ahimé? che intesi mai? Ahimé, l’amor, la vita...

Tamas, Tamas, mio bene, io parto; io son tradita

(parte cogli eunuchi).



 

ATTO QUARTO

 

Scena I

Tamas, tenendo per mano Curcuma.

 

Tamas:

Vieni qui, scellerata.

Curcuma:

Aiuto; io non so nulla;

Portatemi rispetto, che sono ancor fanciulla.

Tamas:

Presto: Ircana dov'è?

Curcuma:

Ve lo dirò, aspettate.

(Se gliela dico tutta, m'accoppa a bastonate) (da sé).

Tamas:

Dov'è Ircana, dich'io?

Curcuma:

Ircana? (tremante).

Tamas:

Oh me tapino!

Presto: me l’han rapita? (sdegnato).

Curcuma:

Eh, signor no: è in giardino.

Tamas:

Vanne a lei...

Curcuma:

Sì signore... (vuol partire).

Tamas:

Fermati.

Curcuma:

Ahimé! ci sono.

Tamas:

Anderò io a vedere (in atto di partire).

Curcuma:

Signor, chiedo perdono.

Tamas:

Come? non è in giardino?

Curcuma:

Non è (tremando).

Tamas:

Vecchia, m'inganni?

Curcuma:

Sempre mi dite vecchia, e non ho ancor trent'anni.

Tamas:

Io troncherò ben presto il corso a' giorni tuoi:

Ti ucciderò, ribalda.

Curcuma:

Via uccidetemi, e poi?...

Tamas:

Parla.

Curcuma:

Io non so nulla.

Tamas: Dov’è Ircana?

Curcuma:

Non so...

Tamas:

Non è più nel serraglio?

Curcuma:

Ho paura di no.

Tamas:

Ah indegna, scellerata: Ircana se ne andrà

Senza che tu lo sappia? (minacciandola).

Curcuma:

Eh signor, vi sarà.

Tamas:

Si, vi sarà; ma dove?

Curcuma:

Là dentro. (Oh me meschina!) (da sé).

Tamas:

Vado, se non la trovo, ti vo' conciar, bambina (in atto di partire).

Curcuma:

Eh sì, la troverete. (Oh se fuggir potessi!)

Tamas:

Ma non ti credo; olà (torna indietro, chiama gli eunuchi).

Curcuma:

(È meglio ch'io confessi).

Tamas:

Legatela colei (agli eunuchi).

Curcuma:

Ah signor...

Tamas:

Non tardate (agli eunuchi).

Curcuma:

Legate con modestia, le man non mi toccate (agli eunuchi).

Tamas:

Resti costei legata fin ch'io ritorni: vecchia,

Se Ircana non ritrovo, a morir ti apparecchia (parte).

Curcuma:

Signore... Ah sul mio dorso qualche flagello aspetto!

Mi ha fatta legar stretta, e poi vecchia mi ha detto.

Ma voi, cani arrabbiati, con tante corde rie

Perché queste legate tenere carni mie?

Tanti che pagherieno averle un po' toccate,

E voi, brutti visacci, così le strappazzate?

Ah se pietade avete di me, povera donna...

(un eunuco le parla all'orecchie).

Che dici sciagurato? Non è ver, non son nonna.

Non ho nemmen figliuoli, ma ben se scamperò

Fuori di questo imbroglio, spero che ne averò.

 

Scena II

Tamas, e detta.

 

Tamas:

Perfida! (furiosamente, con arma alla mano).

Curcuma:

Ahimé meschina!

Tamas: Presto a colei sien date

Sulle piante de' piedi trecento bastonate

Viva poi sotterrata fino alla gola, i cani

Vengano il capo indegno a lacerarle in brani.

Curcuma:

E poi...

Tamas:

Poi d'ingannarmi avrai finito, insana.

Curcuma:

E poi voi non saprete dove sia ita Ircana.

Tamas:

A forza di tormenti dir lo dovrai.

Curcuma:

Pazienza!

Ma son donna capace di dirvelo anche senza.

Tamas:

Presto

(gli eunuchi credendo dica a loro, vogliono legar Curcuma).

Curcuma:

Fermi bricconi, e ben, che cosa ci è?

Ei non l’ha detto a voi presto, l’ha detto a me.

Sì, signor, presto parlo; Ircana se n'è andata;

Machmut l’ha venduta, e Osmano l’ha comprata;

E quei, che l’han condotta a così bel mercato

Son questi scellerati, che mi hanno assassinato.

Tamas:

Ah traditori indegni!

(con un pugnale ferisce uno degli eunuchi, e tutti fuggono).

Curcuma:

(Affé, gli sta a dovere.

Ah se fuggir potessi!)

Tamas:

Perfida, in tuo potere

Non era il custodirla, difenderla, avvisarmi?

Il ciel nelle mie mani ti lasciò per sfogarmi (minacciandola).

Curcuma:

Ah ci sono!

 

Scena III

Alì, e detti.



Tamas:

Deh, amico, venite in mio soccorso.

Curcuma:

(Io non so, se ferita m'abbia la testa, o il dorso).

Tamas:

Ircana mia... (ad Alì)

.

Alì:

La vidi (parla confuso, come se fosse briaco).

Tamas:

Ohimé! da voi veduta?

Dove?

Alì:

Per via.

Tamas:

Ma quando?

Alì:

Ora.

Tamas:

Perché?

Alì:

Venduta.

Tamas:

Ah ciel! penar mi fate i cenni, e le parole.

L'oppio che rende audaci, instupidir poi suole.

Curcuma:

(Ah di me si scordasse!) (da sé)

Tamas:

Chi l’ha comprata?

Alì:

Osmano.

Tamas:

Chi la scorta?

Alì:

Due schiavi.

Tamas:

Colle catene?

Alì:

A mano.

Tamas:

Vado.

Curcuma:

(Sen va) (con letizia).

Tamas:

Deh, amico, pietà d'un uomo tradito.

Deh, non mi abbandonate; andiam.

Alì:

Sono stordito.

Tamas:

Maledetto sia l'oppio; solo ne andrò.

Curcuma:

(Buon viaggio.

Di me non si ricorda, quest'è un buon avantaggio) (da sé).

Tamas:

Perfida, non mi scordo: ripiglierem l'istoria (a Curcuma, e parte).

Curcuma:

Obligata davvero della buona memoria.

 

Scena IV

Alì, e Curcuma.

 

Alì:

Caffè (a Curcuma).

Curcuma:

Non mi guardate, portatemi rispetto.

Alì:

Tempo già fu; sei vecchia.

Curcuma: (Che tu sia maledetto!

Ma se m'ha detto vecchia, non vo' scandalizzarmi,

È amico del padrone, potrebbe anche giovarmi).

Sì, signor, ve lo porto (va prendere il caffè, e prima gli accomoda due guanciali nel mezzo della scena per sedere).

Alì:

Troppo ne ho trangugiato.

Ho dormito sei ore, né ben son risvegliato.

Desta il caffè, mi duole per Tamas, un amico

Dee seguitar... ma invano star in piè m'affatico

(s'alza, e poi torna a sedere).

Se oppio farò cotanto entrar per la mia gola

Mi toglierà col tempo il moto, e la parola.

È ver, che talor giova a noi dell'oppio l'uso,

Ma stolidi ci rende il replicato abuso.

Favole della Grecia agli Europei narrate,

Credo sieno i veleni amici a Mitridate.

Curcuma:

Ecco il caffè, signore, caffè in Arabia nato

(Alì beve il caffè mentre ella ragiona),

E dalle caravane in Ispaan portato.

L'arabo certamente sempre è il caffè migliore,

Mentre spunta da un lato, mette dall'altro il fiore.

Nasce in pingue terreno, vuol ombra, e poco sol;

Piantare ogni tre anni l’arboscello si suole.

II frutto non è vero, che esser debba piccino,

Anzi deve esser grosso, basta sia verdolino.

Usarlo indi conviene di fresco macinato,

In luogo caldo, e asciutto con gelosia guardato.

Alì:

Caffè buono, e ben fatto (rendendo la tazza).

Curcuma:

A farlo vi vuol poco;

Mettervi la sua dose, e non versarlo al fuoco.

Far sollevar la spuma, poi abbassarla a un tratto,

Sei sette volte almeno, il caffè presto è fatto.

Alì:

Sciolti del tutto ancora i spirti miei non sono.

Recatemi tabacco.

Curcuma:

Signor, chiedo perdono.

Volete il kalïam?

Alì:

Sì il kalïam mi aggrada,

Curcuma:

(Per farmi un protettore vo cercando la strada;

E ver, che sperar posso qualche cosa dal merto,

Ma quel delle finezze è il segreto più certo) (parte).

Alì:

Tamas mi sta nel cuore; misero! in tal periglio

Non recargli un amico, né aiuto, né consiglio?

Di me che dirà mai? l'unico pregio antico

È del vero Persiano l'esser fedele amico.

Al par dell'Alcorano, che ci governa, e regge

Dell'ospitalitade si venera la legge;

Ed io, che son di lui ospite, e amico, e sono

Beneficato ancora, ingrato or l'abbandono (s'alza),

Cerchisi... O ciel! che miro? Tamas...

 

Scena V

Tamas, guidando Ircana, col ferro in mano, conducendola nel serraglio, e detto.

 

Tamas:

Andiam, mia vita (parte con Ircana correndo).

Alì:

Ecco l’amico vostro, eccomi in vostra aita...

Tutto di sangue è tinto, il misero infelice.

Vorrei... ma ad un amico là penetrar non lice

(vorrebbe seguitar Tamas, poi s'arresta).

 

Scena VI

Curcuma, e detto.

 

Curcuma:

Pietà, misericordia.

Alì:

Vecchia, che cosa è stato?

Curcuma:

Vecchia, quel, che volete, il padrone sdegnato

Minaccia, mi vuol morta; or ora viene qui,

A voi mi raccomando. Ihi, ihi, ihi (piangendo).

Alì:

Celati.

Curcuma:

E se mi trova?

ALI

A me lascia la cura.

Curcuma:

Ah non vorrei canuta venir per la paura (parte).

Alì:

Anche fra' suoi spaventi pensa all’irsute chiome.

Femina più che morte, odia di vecchia il nome.

 

 

Scena VII

Tamas, e detto.

 

Tamas:

Quell'indegna dov'è? Perfida! spera invano

Sottrarsi dalla morte, fuggir dalla mia mano.

Alì:

Perché cotanto sdegno contro una vecchia insana?

Tamas:

Ella con tradimento pose fra' lacci Ircana.

Alì:

La liberaste alfine.

Tamas: È ver, con mano ardita

Ricuperai la donna, ed arrischiai la vita.

Alì:

Di chi è il sangue, che nero, vi lorda e vesti, e mano?

Tamas:

Di due schiavi svenati del mio suocero Osmano.

Alì:

Egli lo sa?

Tamas:

Non vi era; ma avuti avrà gli avvisi

D'Ircana sprigionata, de' suoi custodi uccisi.

Alì:

La fierezza d'Osmano?...

Tamas:

Non la temo.

Alì:

Vedete: (guardando alla porta del serraglio)

Vuol femmina velata venir, se il concedete.

Tamas:

È Fatima colei?

Alì:

Fatima vostra sposa?

 

Tamas:

Quella, che agli occhi miei è più di morte odiosa.

Alì:

Par, che per me s'arresti (in atto di partire).

Tamas: Fermate.

Alì: No, sì ardito

Non son di dispiacere, o alla moglie, o al marito.

Permettete signore... (in atto di partire).

Tamas:

Peggio per lei se viene.

Alì:

A voi serbar prudenza, partire a me conviene (parte).

 

Scena VIII

Fatima, Tamas, poi Osmano colla sciabla alla mano.

 

 

Fatima:

Sposo?

Tamas:

Che cerchi?

Osmano:

Ah, mori... (drizzando un colpo a Tamas).

Tamas:

Nelle mie stanze?

Osmano:

Indegno!

Le stanze del Soffì non tratterrian mio sdegno.

Si, mori, scellerato (volendolo ferire).

Fatima: Ah caro padre! (si frappone).

Osmano:

Ah figlia!

Qual destin ti conduce? qual follia ti consiglia?

Scostati, forsennata; lascia, che l'empio mora,

O d'essere tuo padre potrò scordarmi ancora.

Fatima:

Scordati d'esser padre, ma Fatima non osa

Scordar con quel di figlia il bel nome di sposa.

Tamas:

Lascia che avvanzi il passo quell'aggressore ardito,

O io più facilmente mi scordo esser marito (a Fatima)

Fatima:

Ambi stendete il ferro, a me date la morte.

In me sfoghi lo sdegno il padre, ed il consorte.

Osmano:

Perfido! (avventandosi contro Tamas)

Fatima:

Ecco il mio petto (si pone dinanzi al padre).

Osmano:

Ingrata! (ritirandosi)

Tamas: (ad Osmano)

II colpo arresti?

I Tartari famosi, gli eroi persian son questi?

Eccomi: io non ti temo, odio ho per te, e dispetto;

Ruota quel ferro, audace, a piè fermo ti aspetto.

Osmano:

Perfido! insulti ancora? l'ira non ha più freno:

Scostati temeraria.. (a Fatima). Indegno! (contro Tamas).

Fatima: (come sopra)

Eccoti il seno.

Tamas:

E che t'arresta? Dimmi, l’amor di genitore,

O, di un giovine a fronte, il codardo timore?

Osmano:

Giuro a Maccon! tai onte ha da soffrire Osmano,

Che ben dodici volte fe' fuggir l'Ottomano,

Che fin su le pendici del Caucaso gelato

Frenò l'Indica gente, lo Scita ha debellato?

Odimi, figlia, e mi oda quel che ami a suo dispetto;

Dei seguaci di Marte l'onore anima il petto.

Mia figlia più non sei, se la mia gloria oscuri,

Se l'onte, e le minaccie del genitor procuri;

E se non sei più figlia, odio la tua pietade,

E sesso non rispetto, non rispetto l'etade.

L'ira, l'onor m'infiamma, tra gli insulti infierisco;

Parti, resta, frapponti, nulla mi cal, ferisco

(s'avventa contro Tamas).

Fatima:

Ohimè!

(sviene, e cade sui guanciali dove prima si è seduto Alì).

Osmano:

Sei tu ferita? morta sei tu caduta?

Tamas:

Né spenta, né ferita; è pel timore svenuta.

Osmano:

Mirala, cuor di tigre, mirala, in quale stato

La misera è ridotta per uno sposo ingrato!

Ohimè, che una tal vista l'alma mi opprime a segno,

Che ho i spirti confusi fra l’amore, e lo sdegno.

Mira un padre avvilito dall'amor d'una figlia.

A te qual nuovo eccesso la crudeltà consiglia?

Stupido la rimiri? né men cerchi un'aita,

Per ridonarle i spirti, per richiamarla in vita?

Perfido, se ti cale, ch'ella ti lasci, e mora,

Svenala, scellerato, svena suo padre ancora (getta la spada).

Tamas:

Di sangue non mi pasco, non son disumanato,

Non odio, che me stesso, io sono un disperato (parte).

Osmano:

Fatima, figlia; oh Numi! conosco or come fura

Tutti gli affetti a un padre l’affetto di natura.

Ecco la mia figliuola, eccolo il mio tesoro.

Gente, aita; chi porge a Fatima ristoro?

 

Scena IX

Curcuma, e detti.

 

Curcuma:

È partito?

Osmano:

Deh vieni.

Curcuma:

È partito il padrone?

Osmano:

Sì, soccorri la sposa.

Curcuma:

Che le ha fatto il guidone'?

Osmano:

Vedila, se respira; cuor non ho di mirarla.

Curcuma:

Eh sì, signore, è viva; sarà bene slacciarla.

Osmano:

Basti tu?

Curcuma:

Sì signore (oh queste gioie belle

Non mi escon dalle mani se mi cavan la pelle)

(leva le gioie a Fatima, e le ripone).

Osmano:

Non rinviene?

Curcuma:

Mi pare, ma con tal peso intorno

Rinvenir non potrebbe né meno in tutto il giorno

(seguita a cavarle le gioie).

 

Scena X

Machmut, e detti.

 

Machmut:

Stelle! Osmano?

Osmano:

Machmut, vedi mia figlia al suolo.

Machmut:

Morta?

Osmano:

No, tramortita per eccesso di duolo,

Machmut:

Tamas mio figlio io viddi da fier dolore oppresso.

Osmano:

Di Fatima l’affanno vien da tuo figlio istesso.

Ma s'ella non cadeva sugli occhi miei svenuta,

La testa di tuo figlio fora al mio piè caduta.

Machmut:

Di mio figlio?

Curcuma:

Signori, par che riprenda fiato.

(Rinvenga quando vuole, il meglio l’ho intascato).

Fatima:

Ohimè!

Osmano:

Figlia?

Fatima:

Consorte? (verso Machmut).

Machmut:

Il suocero son io.

Osmano:

Volgiti al genitore.

Fatima:

Dov'è lo sposo mio?

Osmano:

Pensa alla tua salute non a quell'alma ingrata.

Curcuma:

Con un po' di marito è bella, e risanata.

Fatima:

Tamas dov'è? (a Machmut).

Machmut:

Non lungi.

Fatima:

Vive? (ad Osmano).

Osmano:

Si, per tuo zelo,

Perché tu lo salvasti.

Fatima: Ah benedetto il cielo!

Benedetta la mano del genitor pietoso,

Che in grazia d'una figlia, ha salvato lo sposo,

Vive poi? Deh signore, Tamas, il caro figlio,

Respira, o langue, è in libertà, o in periglio? (a Machmut).

Machmut:

Si, respira, sta lieta.

Osmano:

Ancor l’ami cotanto?

Machmut:

Ira ho contro il mio figlio, e tu mi movi al pianto.

Curcuma:

In tant'anni, ch'io faccio di custode il mestiero

Quest'è la prima volta, che vedo un amor vero.

Fatima:

Dove son le mie gioie? (a Curcuma).

Curcuma:

Son qui, ve le ho serbate.

(Credea fra tanti affanni se le avesse scordate) (da sé).

Machmut:

Itene a riposare (a Fatima)

Fatima: Tamas?

Machmut:

Non dubitate,

A voi verrà fra poco.

Fatima:

Oh Dio! non m'ingannate.

Padre, suocero, io sono d'amor sì ardente, accesa,

Che già di lui mi scordo ogni onta, ed ogni offesa.

Io stessa non intendo, come in un giorno appena,

S'abbia per un oggetto a provar tanta pena;

Come improvvisa forza di mal inteso amore

Abbia da render dolci anche i disprezzi a un cuore.

Ma se di tal portento vera cagion non trovo,

Posso narrar gli effetti di quell'ardor, ch'io provo.

Tosto, che in me ragione si sprigionò, che in seno

Principiar le passioni a conoscere il freno

Piacquemi, che la madre, che la balia amorosa,

Mi dicesser sovente: figlia, sarai la sposa.

E più della coltura del viso, e delle chiome,

Mi piacea dello sposo sentir i priegi, e il nome.

Tamas m'avea invaghita, pria d'averlo veduto.

Tre lustri l’ho adorato, posso dir, sconosciuto;

E quando il giovinetto s'offerse al mio sembiante,

Principiai a godere, non ad essere amante.

Trista d'amor mercede, misera, ottenni, è vero;

Ma poco gel non scioglie fiamma del nume arciero.

L'onta, che in altra avrebbe il poco ardor scemato,

In me, d'amor ripiena, l'ha spinto, e l'ha aumentato;

E quanto del crudele crescea meco il rigore,

In me crescea la brama di guadagnargli il cuore.

Fino la sua diletta, fin la rivale audace,

Per non sdegnar lo sposo, vidi e soffersi in pace;

Colla speranza in petto, che l’anime consola,

Si cangierà col tempo, ed amerà me sola.

Ah genitor, col ferro, se non mi avevi allato,

Tutte le mie speranze, tu distruggevi, irato.

Misera figlia, e sposa, che far potea di meno,

Che offrir per il consorte al genitor il seno?

Morta sarei piuttosto, che vedova trovarmi,

Per quella mano istessa, che mi guidò a sposarmi.

L'onor, la tenerezza, l’amore, e la pietade,

La fralezza del sesso, e quella dell'etade

Mi tolsero ad un tratto il lume, e le parole,

Caddi, qual fior sul campo colto dai rai del sole.

II ciel mi serba in vita, e non mi serba invano,

Tamas darammi il cuore, come mi diè la mano.

Possibil [che] in vedermi pronta a morir per lui,

Non abbia a dir pentito: Fatima ingrato io fui?

Fatima, per me offristi alle ferite il petto

Eccoti in ricompensa qualche tenero affetto?

Si, mi basta anche un segno d'amor, di tenerezza;

Tutto contenta un'alma alle sventure avvezza.

Dimmi, sol, che non m'odi, dimmi ch'io sono... Oh Dio!

Padre, suocero, ah dite: dov'è lo sposo mio?

Perché tarda a vedermi? perché non vien l'ingrato?

Ohimè! Tamas sarebbe tradito, assassinato?

Che vive mi diceste. Creder lo deggio a voi,

Perdonate a una sposa l’ardir de' dubbi suoi.

L'amor è, che me rende impazïente ardita,

A rintracciar io stessa il mio ben, la mia vita (parte).

 

Scena XI

Machmut, Osmano, e Curcuma.

 

Machmut:

Seguila (a Curcuma).

Curcuma:

Sì, signore. Poverina, è pietosa;

Anch'io son per natura tenera, ed amorosa (parte).

Machmut:

Osmano, se ti lascio, forza è d'amore.

Osmano:

Io stesso

Teco verrò.

Machmut:

Fra donne non si chiede l’accesso.

Osmano:

V'è mia figlia.

Machmut:

E vi sono giovani schiave, ancelle.

Osmano:

E la perfida Ircana si asconderà fra quelle.

Machmut:

Nol so.

Osmano:

Sappilo, e rendi la schiava a me venduta,

O con quella del figlio temi la tua caduta.

Machmut:

Non minacciate, Osmano, ché alle minaccie avvezzo

Machmut non è mai stato; v'amo, vi stimo, e apprezzo.

Calmi di vostra figlia mirar contento il cuore,

Lo merta sue virtude, lo merta il suo dolore.

Tutto farò per lei contro mio figlio istesso

D'Ircana o viva, o estinta, voi avrete il possessor

Ma vel ridico in pace, l’amico rispettate.

Quando parlate meco, Osman, non minacciate (parte).

Osmano:

Basta, che tu m'inganni, o che il tuo figlio indegno

Provochi, temerario, il mio foco, il mio sdegno:

Fatima non fia sempre vostra difesa, e scudo:

Né tratterrà il mio ferro tenero petto ignudo.

Da questo brando mio, che unqua sofferse un torto,

Qual si sia l'offensore, cadrà svenato, e morto.

E s'io morir dovessi, per vendicarmi ancora,

Salva la gloria mia, salvo l'onor, si mora (parte).





ATTO QUINTO

 

Scena I

Notte oscura.

Ircana, e Curcuma, ambe in spoglie virili alla foggia degli eunuchi.

 

Ircana:

Tremo.

Curcuma:

Venite meco; la notte si fa oscura

Non ci conosceranno, non abbiate paura.

Abbiam spoglie cambiato, come si cambia il bruco;

Femmina facilmente può passar per eunuco.

Quest'abito è di quello, cui Tamas ha ferito

Il vostro è di colui, che col veleno è ito.

Ircana:

Ma tu, che di malìe maestra ti facesti,

Perché non usar quelle, anzi che queste vesti?

Curcuma:

Oh quando il fato avverso vuol favorire i tristi,

Nascono di quei casi, che non si son previsti;

Tamas, pien di furore, nella mia stanza è entrato,

Le pentole m'ha rotto, e tutto ha rovesciato.

Ircana:

Tamas adunque infido, per soggezion d'Osmano

Strinse la sposa al seno? strinse a colei la mano?

Curcuma:

E di più vi direi qualche altra bella cosa;

Ma sotto queste spoglie sono ancor vergognosa.

Ircana:

Vadasi.

Curcuma:

Non per questo s'ha da fuggir, mia cara,

Ma per quel sciropetto, che Osmano vi prepara.

Tamas vi ha liberata, ma tal prodezza è questa,

Che al giovine imprudente costò quasi la testa,

E se nol difendeva Fatima, col suo petto,

Andava il meschinello a ritrovar Maometto.

Ciò lo commosse alquanto, l’ira calmò nel cuore,

Per Fatima provando pietà, se non amore.

Ma i vecchi indemoniati, contro di voi feroci,

Vi voglion stritolare, come si fa le noci;

Onde, se non fuggite, Tamas è già perduto,

E perderete il resto, senza sperare aiuto.

Ircana:

Partir senza vendetta? Ah questa è maggior pena

D'una barbara morte, d'una crudel catena.

Curcuma:

Se di vendetta un giorno poteste lusingarvi,

Io stessa vi direi: pensate a vendicarvi;

Ma se diventa Osmano vostro signor, cospetto!

Ha un ciglio rabbuffato, ha un ceffo maledetto!

E voi, che di natura siete delicatina,

Vi manda all'altro mondo senz'altra medicina.

Ircana:

Fuggasi, giacché il fato ha tronca ogni speranza

Ecco l'indegno frutto di soverchia baldanza.

Era pur meglio in pace, di Tamas mio signore

Colla novella sposa godere diviso d cuore.

Ah no: lo dissi, il dico, e l’ho fissato in mente,

O sola, o abbandonata, o goder tutto, o niente.

Ah maledetto il punto, che qui Fatima venne!

Fosse spirata almeno allor quando si svenne!

Ed io colle mie mani, per onta, e per dispetto

Avessi a quell’indegna strappato il cuor dal petto.

O sarei morta, e avrei di tormentar finito,

O Tamas fra meco per amor mio fuggito.

Or la rivale è viva, io fuggo invendicata,

Da Tamas, non so bene, se amata, o disamata.

Curcuma:

Orsù l'ora s'appressa d’andarsene bel bello,

Sorella. Ah no, sorella; caro eunuco fratello.

Vedete a che m'espongo per compassion di voi.

(Curcuma non è pazza, anch’ella ha i fini suoi) (da sé).

Ircana:

Tamas creder mi fece, che foste a me nemica.

Curcuma:

Ecco smentito il falso; ecco, se sono amica;

Per voi l'onore arrischio, la vita, ed ogni cosa.

(Ma parto, e meco porto le gioie della sposa) (da sé).

Ircana:

Ohimè! dimmi qual traccia noi nel fuggir terremo?

Curcuma:

Fuori dell’uscio appena Bulganzar troveremo;

Egli che sa le vie, sa gli usi, e sa il costume,

De' platani fra l'ombre si terrà lungo il fiume;

E fatto chetamente un miglio di cammino

In Zulfa troveremo per noi miglior destino.

Zulfa è città vicina ad Ispaan è vero,

Ma del commercio in grazia soffre più dolce impero.

Colà ci son gli Armeni ricchissimi mercanti;

Essi ci compreranno a danari contanti;

E vuo' che scommettiamo, così per oppinione,

A chi faran di noi maggior esibizione.

Ircana:

Ah voglia il ciel non sia peggior la mia caduta!

Ma tutto arrischiar dee donna, che è già perduta.

L'ora del partir nostro guarda, che invan non passi.

Curcuma:

No, no: più certo è il colpo, quando più tardo fassi.

Gioie ne avete prese?

Ircana:.

Fatto ho un fardello in fretta.

Curcuma:

Dove l'avete?

Ircana:

In tasca.

Curcuma:

Dar mel potete.

Ircana:

Aspetta;

Eccolo; dove sei?

Curcuma: Son qui; datelo pure.

Ircana:

Bada!

Curcuma:

Non dubitate: le mie man son sicure.

Ircana:

Parmi di sentir gente;

Curcuma:

Pare anche a me.

Ircana:

Chi viene?

Curcuma:

Per ora in qualche parte nasconderci conviene.

Ircana:

Dove?

Curcuma:

Venite meco

(va ritirandosi in modo, che Ircana non la trovi).

Ircana:

Ma dove? io non ti trovo.

Curcuma:

(Se posso fuggir sola colle gioie, mi provo) (da sé; parte).

Ircana:

Curcuma? ah me infelice! Curcuma? ah, che è fuggita!

Ecco un lume, ecco un uscio; mi celo: ah son tradita!

(si ritira).

 

Scena II

Tamas, poi Ibraima, e Zama.

 

Tamas:

Che confusion d'affetti, che turba di pensieri

Mi si affollano in mente, ora pietosi, or fieri!

Mi si nasconde Ircana; Fatima piange, e prega

Tamas, per lei tu vivi, e il [tuo] cor non si piega?

Ancor mi sta nel core la mia diletta Ircana;

E l’amerò costante anche da me lontana.

E genitor severo rendala pure a Osmano

Saprò col ferro in pugno levargliela di mano,

E se l’ardir trarrammi al fin de' giorni miei

Non morirò scontento, se morirò per lei.

Ma s'ami Ircana, ad essa tutto si serbi il core,

Fatima è però degna di rispetto, e d'amore;

E se non è per anche in poter mio l’amarla,

Movasi un grato sposo almeno a rispettarla.

Olà, Fatima sappia, che meco or la desio (alle schiave).

Ibraima:

(Volesse il ciel, meschina!) (da sé, e parte).

Zama:

(Ah prego il ciel anch'io!) (da sé, e parte).

 

Scena III

Tamas sedendo.

 

Fatima i primi segni abbia d'un giusto amore,

Ma non usurpi a Ircana una porzion del cuore.

All’obbligo di sposo, che a me la sposa appella

Gratitudine aggiunge altra ragion novella.

Fatima con disprezzo trattar no, non conviene;

Ma sarà sempre Ircana il mio sole, il mio bene (siede).

 

Scena IV

Ircana, e detto.

 

Ircana:

Tamas la sposa invita? Ah tolgano gli Dei

Ch'io vegga una rivale gioir sugli ochi miei!

T'amo, ma se non posso unir teco mia sorte

Pria che altri ti possegga voglio darti la morte.

Si, questa man, che regge del tuo bel core il freno

Passi prima il tuo petto, poi mi ferisca il seno

(s'avventa con un pugnale contro Tamas).

 

Scena V

Fatima, e detti.

 

Fatima:

Guardati... (forte da lontano a Tamas).

Tamas:

Oh giusto ciel! ah qual destra inumana?

Fatima:

Alzati

(alla voce di Fatima s'alza in tempo, e Ircana cade sull’origliere).

Ircana:

Non toccarmi.

Tamas:

Stelle, che vedo?... Ircana?

Tanta di sangue hai sete?

Ircana:

Sì, ma dal ferro istesso

Anche Ircana svenata ti giacerebbe appresso.

Tamas:

Perfida, in ricompensa di tanto amor tal sdegno?

Va', il feroce tuo cuore di mia pietade è indegno.

Fatima:

(Fatima, è questi il tempo colla pietà e l’amore

Di guadagnar lo sposo, d’incatenargli il core) (da sé).

Tamas?...

Tamas:

So, che vuoi dirmi; è la seconda volta

Questa, che tu mi salvi.

Fatima:

No le mie voci ascolta.

Questo, che Ircana opprime eccessivo furore

Non è che un tristo avvanzo d'un eccesso d'amore.

Da questo amor tiranno, oppressa al par di lei,

Tamas, te lo confesso, non so quel ch'io farei.

Tamas:

Tu in suo favor mi parli, perché a colei mi doni?

Fatima:

No perché tu l'adori, ma perché le perdoni.

Tamas:

Odila, Ircana.

Ircana:

Io l'odo; odo di scaltra i detti,

Che guadagnar procura con dolcezza gli affetti.

Tamas:

Quell’ostinato orgoglio mi stancherà.

Fatima:

Non vedi,

Ch’ella d'amor delira? Tu a Fatima non credi? (ad Ircana).

Ora mi crederai. Signor, costei m'insulta,

Non deve una tua sposa esser derisa, e inulta.

D'una rivale ardita chiedo al tuo cuor vendetta,

La pretendo, la voglio (a Tamas).

Ircana: (a Fatima)

Ora ti credo.

Fatima: (Ad Ircana)

Aspetta.

Sì vendetta vogl'io, ma non di stragi, e sangue,

Nulla giovar mi puote mirar femmina esangue

(a Tamas). Se compensar mi vuoi della tua vita a dono,

Concedimi d'Ircana, non la morte, il perdono

(ad Ircana).Ecco di te, spietata, qual vendetta desio,

Bastami, che arrossisca il tuo cuore del mio.

Ircana:

(Ah, costei mi avvilisce!) (da sé).

Tamas:

Alma di virtù piena,

Degna sei di pietade, degna d’amor (a Fatima).

Ircana:

(Che pena!) (da sé).

Tamas:

Il genitore

(veggendo venir Machmut di lontano, avvisa Ircana).

Ircana:

Oh cielo! mi scopre; io son perduta.

Fatima:

Fuggi da queste soglie, fin che sei sconosciuta (piano ad Ircana).

Vattene, ardito eunuco, e più venir non osa,

Dove uniti si stanno collo sposo la sposa.

Vattene! (scaccia Ircana con arte, perché non sia veduta da Machmut).

 

Scena VI

Machmut, Fatima e Tamas.



Machmut:

Chi è l’audace? (a Fatima).

Fatima:

Perdona, s'io lo celo.

Sono importuni i servi talor per troppo zelo.

Tamas:

(Qual duro cor spietato potria negar d'amarla?

Mirabile se tace, adorabil se parla) (da se).

Machmut:

Sposi, sperar in voi posso un amor sincero?

Fatima:

Signor, Tamas m'adora.

Machmut:

Tamas, è vero?

Tamas: È vero.

Machmut:

Grazie, o numi del cielo, mi scordo ogni tormento,

Toglietemi la vita; sì, morirò contento.

Figlio, per la tua sposa dunque spiegasti il core?

Tamas:

Sì, che Fatima è degna di rispetto, e d'amore,

Padre amarla prometto, ed amerò lei sola.

Fatima:

Labbro, che mi ristora!

Tamas:

Voce, che mi consola!

Machmut:

Ma non vorrei, parlando... e pur parlarne è forza,

Figlio, se onesta fiamma le triste fiamme ammorza,

Perché Ircana nascondi?

Tamas:

Io non l’ascondo.

Machmut:

Invano

La cercai pel serraglio, e la pretende Osmano.

Fatima:

Più di lei non si parli.

Machmut:

Il padre tuo sdegnato...

Fatima:

Anche di lui lo sdegno spero mirar placato.

 

Scena VII

Osmano, e detti.

 

Osmano:

Machmut, tu pensi invano, ch'io rieda a' miei contorni,

Se Ircana alle mie mani colle tue man non torni.

Entrare ad uom non lice di donne entro le mura,

Violar non vo' la legge, che il vieta, e le assicura;

Ma da' Tartari miei precipitate il tetto,

Pubblico renderassi delle schiave l’aspetto;

Indi usciran tremanti dalle rovine, o vinte

Dal rossor, dal timore, vi rimarranno estinte.

Machmut:

Odilo (a Fatima).

Fatima:

Ah genitore!

Osmano:

La schiava non s'asconda.

Machmut:

Figlio, rispondi almeno (a Tamas).

Tamas:

Fatima gli risponda.

Fatima:

Padre, mirate ormai lieta la figlia in viso,

Miratela ripiena di giubilo improviso;

Arde lo sposo mio d'amor, non più d'orgoglio,

Tamas, padre, m'adora, godete...

Osmano:

Ircana io voglio.

Fatima:

Che vi cal d'una schiava, che Tamas più non cura?

Che l’amor, che la pace a Fatima non fura?

Pianga le colpe andate vicina, ovver lontana,

Gl'insulti, e le vendette scordate.

Osmano:

Io voglio Ircana.

Fatima:

Ma se...

Osmano:

Ma se ritarda Machmut al nuovo giorno,

I Tartari, che meco condotti ho qui d'intorno,

Di lui, non che dei muri, faran strage inaudita;

Salvati, figlia, meco, o perderai la vita.

Fatima:

(Misera me!) (da sé).

Osmano:

Tu sdegni d'udir minaccie invano (a Machmut).

Coi scherni, e cogl’insulti non sa tacere Osmano.

Tamas:

Ma invano si pretende con onte, e con furore

Di Tamas, di Machmut, vil che si renda il cuore.

Se tu del re non temi le guardie, e i moschettieri,

Se alle violenze avezzi sono i Tartari alteri,

Da noi, da' schiavi nostri, da' nostri servi armati,

Difesi moriremo, ma non invendicati.

Machmut:

Sì, figlio, a valor s'usi, quando il pregar non giova.

Osmano:

Del valor che vantate, su, si venga alla prova.

Olà (chiama).

Fatima:

Deh, padre amato...

Osmano:

Chetati, figlia insana.

 

Scena VIII

Ircana, e detti.

 

Ircana:

Cessin le stragi, e l'onte; ecco, spietato, Ircana (ad Osmano).

Non la nasconde il padre, non la nasconde il figlio,

Fe' sol, che mi celassi, di Fatima il consiglio.

Amo questo inimico ancor della mia pace,

Voglio morir per lui, se il viver mio gli spiace.

Eccomi, che pretendi? d'avermi in tua balia?

No, non mi avrai, lo giuro, se val la destra mia.

Per non soffrir tuoi lacci, barbaro, al tuo cospetto,

Mi passerò io stessa con questo ferro il petto

(tenta di uccidersi).

Fatima:

Ferma (le trattiene il colpo).

Osmano:

No, non mi curo d'averti viva, o estinta,

Purché da' lacci miei, perfida, tu sii cinta

O si confessi almeno, che quel che chiedo, e voglio,

È ragione, è dovere, non vïolenza, o orgoglio.

Machmut:

Niun ti negò, che Ircana a te non si dovesse;

Ma chi sapea, che in spoglia viril si nascondesse?

Prendila.

Ircana:

Io mi ferisco.

Fatima:

Fermati; e voi m'udite,

Uditemi, se in core pietade, amor sentite:

Io sono offesa, io sono, a cui sola si aspetta

D'una rivale ardita pretendere vendetta.

Non basta il suo rimorso, non basta il suo rossore,

Rapirmi dello sposo può un'altra volta il core.

Fra queste donne or speri di rimanere invano;

Ti ha Machmut venduta, e ti ha comprata Osmano.

Passar deve una schiava del suo primier signore

Dal poter rinunciato a quel del compratore.

E il compratore, in cui paterno amor consiglia,

Della comprata schiava faccia un dono alla figlia.

Sì, Machmut ti vende, Tamas ti lascia, e oblia,

Osmano a me ti dona; Ircana, ora sei mia.

Della signora tua la legge odi, ed osserva:

Restar tu qui non devi schiava fra noi, né serva.

Vattene al tuo destino felice, od infelice,

Libera torna in pace alla tua genitrice.

Suocero, padre, sposo, siete di ciò contenti?

Ah sì, basta; supplisce il silenzio agli accenti.

Tu liberasti il piede, libera il cor nel seno,

Se non sarai signora, non sarai schiava almeno.

Di Tamas non avrai in tuo potere il core,

Ma nol vedrai tu stessa arder d'un altro amore.

Vanne, non aspettare che altro da noi si dica;

Prendi congedo, e parti, il ciel ti benedica;

Soffrir da me, trafitta con sofferenza amara,

Quella virtù, che forse non ben conosci, impara.

Ircana: (sospirando, confusa parte).

Machmut:

Figlia, la tenerezza il cor m'opprime.

Fatima:

Oh Dei!

Tamas, tu non mi guardi?

Tamas:

Ah l'idolo mio tu sei!

Fatima:

E tu, padre, che dici?

Osmano:

Ah!

Fatima:

Sì, lo sdegno è stinto

L'amor vero trionfa, io son felice, ho vinto.

 

Scena ultima

Alì, e detti.

 

Alì:

Tamas, la real guardia...

Tamas:

Dei due schiavi svenati

Vuol, che io paghi la pena?

Machmut:

No, figlio, ho già pagati

Quatrocento tomani, che erano un monte d'oro.

Tamas:

Ah genitor, perdono.

Machmut:

Sì, tu vali un tesoro.

Ma non tradir te stesso, la sposa, e il genitore.

Tamas:

Di quanti mali è fonte uno scorretto amore!

Alì:

Udite, non è cosa da trascurar cotesta...

Tamas:

Parla, amico.

Alì:

La guardia che ogni or fra l'ombre è desta

Sotto spoglie virili donna trovò fugace.

L’arrestò, la scoperse, ed è Curcuma audace.

Fatima:

Le mie gioie?

Alì:

Di gioie seco avea due fardelli

Con pendenti, smanigli, auree collane, e anelli.

Di Fatima un di questi d'essere ha confessato;

L'altro disse ad Ircana averlo trafugato...

Fatima:

Misera Ircana! ah tosto (le mie gemme non curo)

Per le sue si proveda, che involate le furo.

Alì:

Son nelle man sicure del Rabdar a maggiore,

Che non trovando il furto, sarebbe il debitore,

La vecchia, al nuovo sole, formato il suo processor

Pagherà colla morte il gravissimo eccesso,

Poiché per tai delitti il rigor, la fierezza,

Forma la nostra pace, la nostra sicurezza.

Fatima:

E non per questo solo la puniranno i Numi,

Ma per i rei dissegni e i perfidi costumi.

Machmut:

Orsù, non più di colpe parlisi, ovver di sdegno,

Di renderci giulivi amor prenda l'impegno.

Rinovisi la gioia, rinovisi il convito,

Facciasi de' congiunti, e degli amici invito.

Osman, sei tu contento?

Osmano:

Lo sono.

Machmut: (a Tamas)

E tu sei lieto?

Tamas:

Lieto son io, se il core di Fatima è quïeto.

Fatima:

Felicità maggiore bramare io non potrei,

Grazie alla pietà vostra, grazie agli eterni Dei!

Esser da sposa amata, ne' tetti suoi sovrana

È l'unico tesoro della Sposa Persiana.

Donne, voi che miraste l’orïental costume,

D'esser nel vostro regno grazie rendete al Nume

Ma del prezioso dono di vostra libertate,

Felicissime donne, almen non abusate,

E se l’aspra catena l’Europa a voi non diede,

Non la ponete almeno delli mariti al piede.

L’utile mio consiglio deh non vi muova a sdegno,

Se piace, o se dispiace diano le mani il segno.

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