Francesco Guicciardini

STORIA D'ITALIA

Volume sesto





Cap. i

Lamentele del re di Francia per la inosservanza de' patti conclusi con l'arciduca Filippo; politica ambigua de' re di Spagna. Preparativi di guerra del re di Francia. Espugnazione di Castelnuovo da parte degli spagnuoli. Consalvo s'avvia verso Gaeta. Pietro Navarra prende Castel dell'Uovo. Altre vicende della guerra.

Pervenute al re di Francia le novelle di tanto danno, in tempo che piú poteva in lui la speranza della pace che i pensieri della guerra, commosso gravissimamente per la perdita di uno reame tanto nobile, per la ruina degli eserciti suoi ne' quali era tanta nobiltà e tanti uomini valorosi, per i pericoli ne' quali rimanevano l'altre cose che in Italia possedeva, né meno per riputarsi grandissimo disonore di essere vinto da' re di Spagna senza dubbio meno potenti di lui, e sdegnato sommamente di essere stato ingannato sotto la speranza della pace, deliberava di attendere con tutte le forze sue a recuperare l'onore e il regno perduto e vendicarsi con l'armi di tanta ingiuria. Ma innanzi procedesse piú oltre si lamentò efficacissimamente con l'arciduca, che ancora non era partito da Bles, dimandandogli facesse quella provisione che era conveniente se voleva conservare la sua fede e il suo onore: il quale, essendo senza colpa, ricercava con grandissima instanza i suoceri del rimedio, dolendosi sopra modo che queste cose fussino cosí succedute, con tanta sua infamia, nel cospetto di tutto il mondo. I quali, innanzi alla vittoria, avevano con varie scuse differito di mandare la ratificazione della pace, allegando ora non trovarsi tutt'a due in uno luogo medesimo, come era necessario avendo a fare congiuntamente le espedizioni, ora di essere occupati molto in altri negozi; come quegli che erano mal sodisfatti della pace, o perché il genero avesse trapassato le loro commissioni o perché, dopo la partita sua di Spagna, avessino conceputo maggiore speranza dello evento della guerra, o perché fusse paruto loro molto strano ch'egli avesse convertita in se medesimo la parte loro del reame e senza avere certezza alcuna, per l'età tanto tenera degli sposi, che avesse ad avere effetto il matrimonio del figliuolo: e nondimeno non negando, anzi sempre dando speranza di ratificare ma differendo, si avevano riservato libero, piú tempo potevano, il pigliare consiglio secondo i successi delle cose. Ma intesa la vittoria de' suoi, deliberati di disprezzare la pace fatta, allungavano nondimeno il dichiarare all'arciduca la loro intenzione, perché quanto piú tempo ne stesse ambiguo il re di Francia tanto tardasse a fare nuove provisioni per soccorrere Gaeta e l'altre terre che gli restavano. Ma stretti finalmente dal genero, determinato di non partire altrimenti da Bles, vi mandorono nuovi imbasciadori; i quali, dopo avere trattato qualche giorno, manifestorono finalmente non essere la intenzione de' loro re di ratificare quella pace, la quale non era stata fatta in modo che fusse per loro né onorevole né sicura: anzi, venuti in controversia con l'arciduca, gli dicevano essersi i suoceri maravigliati assai che egli nelle condizioni della pace la volontà loro trapassata avesse; perché, benché per onore suo il mandato fusse stato libero e amplissimo, che egli si aveva a riferire alle istruzioni, che erano state limitate. Alle quali cose rispondeva Filippo non essere state manco libere le istruzioni che il mandato; anzi, avergli alla partita sua efficacemente detto, l'uno e l'altro de' suoceri, che desideravano e volevano la pace per mezzo suo, e avergli giurato, in sul libro dello evangelio e in su l'immagine di Cristo crocifisso, che osserverebbono tutto quello che da lui si conchiudesse; e nondimeno non avere voluto usare sí ampia e sí libera facoltà se non con partecipazione de' due uomini che seco mandati avevano. Proposeno gli oratori con le medesime arti nuove pratiche di concordia, mostrandosi inclinati a restituire il regno al re Federigo; ma conoscendosi essere cose non solo vane ma insidiose, perché tendevano ad alienare dal re di Francia l'animo di Filippo intento a conseguire quel reame per il figliuolo, il re proprio, in publica udienza, fece loro risposta, denegando volere prestare orecchi in modo alcuno a nuovi ragionamenti se prima non ratificavano la pace fatta e facevano segni che fussino dispiaciuti loro i disordini seguiti; aggiugnendo parergli cosa non solo maravigliosa ma detestanda e abominevole che quegli re, che tanto d'avere acquistato il titolo di cattolici si gloriavano, tenessino sí poco conto dell'onore proprio, della fede data, del giuramento e della religione, né avessino rispetto alcuno all'arciduca, principe di tanta grandezza nobiltà e virtú, e figliuolo ed erede loro: con la quale risposta avendo il dí medesimo fattigli partire dalla corte, si volse con tutto l'animo alle provisioni della guerra; disegnando farle maggiori, e per terra e per mare, che già gran tempo fa fussino state fatte per alcuno re di quel reame. Deliberò adunque di mandare grandissimo esercito e potentissima armata marittima nel regno di Napoli; e perché in questo mezzo non si perdesse Gaeta e le castella di Napoli, mandarvi con prestezza, per mare, soccorso di nuove genti e di tutte le cose necessarie; e per impedire che di Spagna non vi andasse soccorso, il che era stato causa di tutti i disordini, assaltare con due eserciti per terra il regno di Spagna, mandandone uno nel contado di Rossiglione, che è contiguo al mare Mediterraneo, l'altro verso fonterabia e gli altri luoghi circostanti posti in sul mare Oceano; e con una armata marittima molestare, nel tempo medesimo, la costiera di Catalogna e di Valenza. Le quali espedizioni mentre che con grandissima sollecitudine si preparano, Consalvo, intento alla espugnazione delle castella di Napoli, piantò l'artiglierie contro a Castelnuovo alle radici del monte di San Martino, onde di luogo rilevato si batteva il muro della cittadella, la quale situata di verso il detto monte era di mura antiche fondate quasi sopra terra; e nel tempo medesimo Pietro Navarra faceva una mina per ruinare le mura della cittadella; e similmente si battevano le mura del castello dalla Torre di San Vincenzio, stata presa pochi dí prima da Consalvo. Era allora Castelnuovo in forma diversa dalla presente, perché ora, levata via la cittadella, comincia dove erano le mura di quella un circuito nuovo di mura che si distende per la piazza del castello insino alla marina; il quale circuito, principiato da Federigo e alzato da lui insino al bastione, fabbricato di muraglia forte e bene fondata, è molto difficile a minare, per essere contraminato bene per tutto e perché la sommità dell'acqua è molto vicina alla superficie della terra. Ed era il disegno di Consalvo, presa che avesse la cittadella, accostandosi alla scarpa del muro del castello, sforzarsi di rovinarlo con nuove mine; ma dalla temerità o dalla mala fortuna de' franzesi gli fu presentata maggiore occasione. Perché, poi che alla mina condotta alla sua perfezione fu fatto dare il fuoco da Pietro Navarra, aperse l'impeto della polvere il muro della cittadella; e nel tempo medesimo i fanti spagnuoli che stavano in battaglia aspettando questo, parte per la rottura del muro parte salendo con le scale da piú bande, entrorono dentro: e da altra parte i franzesi, usciti del castello, per non gli lasciare fermare nella cittadella andorono incontro a loro: dalle forze de' quali in poco tempo soprafatti, ritirandosi nel rivellino, gli spagnuoli alla mescolata con loro vi entrorono dentro, e spingendosi col medesimo impeto alla via della porta, dove non era allora il nuovo torrione il quale fece poi fabbricare Consalvo, accrebbono ne' franzesi, già inviliti, tanto il terrore che in meno d'una mezza ora, perduto al tutto l'animo, detteno il castello con le robe, delle quali vi era rifuggita quantità grandissima, e persone loro, a discrezione: ove restò prigione il conte di Montorio e molti altri signori. E riuscí questo acquisto piú opportuno, perché il dí seguente arrivò per soccorrerlo, da Genova, una armata di sei navi grosse e di molti altri legni carichi di vettovaglie d'armi e di munizioni, e con dumila fanti. In su l'approssimarsi della quale, l'armata spagnuola che era nel porto di Napoli si ritirò a Ischia; dove, intesa che ebbe la perdita di Castelnuovo, la seguitò l'armata franzese: ma avendo la spagnuola, per non essere sforzata a combattere, affondato innanzi a sé certe barche, poiché s'ebbono tirato qualche colpo d'artiglieria, l'una andò a Gaeta, l'altra assicuratasi per la partita sua ritornò al molo di Napoli.

Espugnato Castelnuovo, Consalvo intento allo acquisto di tutto il reame, non aspettato l'esercito di Calavria, il quale per levarsi tutti gli impedimenti del venire innanzi s'era fermato a conquistare la valle d'Ariano, mandò Prospero Colonna nello Abruzzi; ed egli, lasciato Pietro Navarra alla espugnazione di Castel dell'Uovo, si dirizzò col resto dello esercito a Gaeta: nella espugnazione della quale consisteva la perfezione della vittoria, perché la speranza e la disperazione de' franzesi dependeva totalmente dalla salvazione o dalla perdita di quella città, forte, marittima, e che ha porto tanto capace e sí opportuno alle armate mandate da Genova e di Provenza. Né erano perciò i franzesi ristretti in Gaeta sola, ma oltre a' luoghi circostanti che si tenevano per loro tenevano nello Abruzzi l'Aquila la Rocca d'Evandro e molte altre terre: e Luigi d'Ars, raccolti molti cavalli e fanti e fattosi forte col principe di Melfi in Venosa, molestava tutto il paese vicino; e Rossano, Matalona e molte altre terre forti, che erano di baroni della parte angioina, si conservavano costantemente alla divozione del re di Francia.

Faceva in questo tempo Pietro Navarra certe barche coperte, con le quali, accostatosi al muro di Castel dell'Uovo piú sicuramente, fece la mina dalla parte che guarda Pizzifalcone, non s'accorgendo quegli che erano dentro dell'opera sua; per la quale, dato il fuoco, balzò con grande impeto in aria una parte del masso insieme con gli uomini che vi erano sopra; per il qual caso spaventati gli altri fu subito presa la fortezza, con tanta riputazione di Pietro Navarra e con tanto terrore degli uomini che (come sono piú spaventevoli i modi nuovi dell'offese perché non sono ancora escogitati i modi delle difese) si credeva che alle sue mine muraglia o fortezza alcuna resistere piú non potesse. Ed era certamente cosa molto orribile che con la forza della polvere d'artiglieria, messa nella cava o veramente nella mina, si gittassino in terra grandissime muraglie. La quale specie d'espugnazione era stata la prima volta usata in Italia da' genovesi, co' quali, secondo che affermano alcuni, militava per fante privato Pietro Navarra, quando l'anno mille quattrocento ottantasette s'accamporono alla rocca di Serezanello tenuta da' fiorentini; ove con una cava fatta in simile modo aperseno parte della muraglia; ma non conquistando la rocca, per non essere la mina penetrata tanto sotto i fondamenti del muro quanto era necessario, non fu seguitato per allora l'esempio di questa cosa.

Ma approssimandosi Consalvo a Gaeta, Allegri, che aveva distribuito quattrocento lancie e quattromila fanti, di quegli che s'erano salvati della rotta, tra Gaeta, Fondi, Itri, Traietto e Rocca Guglielma, gli ritirò tutti in Gaeta; e vi entrorno insieme i príncipi di Salerno e di Bisignano il duca di Traietto il conte di Consa e molti baroni del regno, che prima si erano uniti con lui. Dopo la ritirata de' quali, Consalvo, insignoritosi di tutte quelle terre e della rocca di San Germano, alloggiò col campo nel borgo di Gaeta, col quale, poco poi, avendo presa la valle d'Ariano, si uní l'esercito di Calavria; e piantate le artiglierie batté con impeto grande dalla parte del porto e dalla parte del monte detto volgarmente il Monte di Orlando, congiunto e supereminente alla città, e il quale, cinto dipoi di mura da lui, era stato allora con ripari e con bastioni di terra fortificato da' franzesi: e avendo tentato invano, con due assalti non ordinati, di entrarvi, s'astenne finalmente di dare la battaglia ordinata, il dí che avevano determinato di darla, riputando la espugnazione difficile per il numero e virtú de' difensori, e considerando che quando bene l'esercito suo fusse per forza entrato nel monte si riduceva in maggior pericolo, perché sarebbe stato esposto alle artiglierie piantate nel monasterio e altri luoghi rilevati che erano in sul monte. Continuava nondimeno di battere con l'artiglierie e molestare la terra: stretta similmente dalla parte del mare, perché innanzi al porto erano diciotto galee spagnuole, delle quali era capitano don Ramondo di Cardona. Ma pochi dí poi arrivò una armata di sei caracche grosse genovesi sei altre navi e sette galee, carica di vettovaglie e di molti fanti, in sulla quale era il marchese di Saluzzo, mandato, per la morte del duca di Nemors, per nuovo viceré dal re di Francia, sollecito quanto era possibile alla conservazione di Gaeta, e perciò, parte in su questi legni parte in su altri che giunsono poco poi, vi mandò in pochi dí mille fanti corsi e tremila guasconi: per la venuta della quale armata l'armata spagnuola fu costretta a ritirarsi a Napoli; e Consalvo, disperando di potere farvi piú frutto alcuno, ridusse le genti a Mola di Gaeta e al Castellone, donde teneva Gaeta come assediata di largo assedio; avendovi perduto, parte nello scaramucciare parte nel ritirarsi, molti uomini, tra' quali fu ammazzato dall'artiglieria di dentro don Ugo di Cardona. Ma gli succedevano nel tempo medesimo prosperamente tutte le altre cose del regno: perché Prospero Colonna aveva preso la Rocca d'Evandro e l'Aquila, e tutte l'altre terre dello Abruzzi ridotte alla divozione spagnuola; e la Calavria quasi tutta la medesima ubbidienza seguitava, per l'accordo che nuovamente aveva fatto il conte di Capaccio con loro; né vi rimaneva altro che Rossano e Santa Severina, ove era assediato il principe di Rossano.

Cap. ii

Successi de' fiorentini nella guerra contro Pisa. Trattative del Valentino coi pisani e sua ambizione al dominio della Toscana. Politica ambigua del pontefice e del Valentino verso il re di Francia. Aspirazione del pontefice e del Valentino agli stati di Giangiordano Orsini.

Nel qual tempo non erano l'altre parti d'Italia vacue totalmente di sospetti e di fatiche. Perché i fiorentini, insino innanzi alle percosse che i franzesi ebbono nel reame, temendo le forze e gl'inganni del pontefice e del Valentino, avevano oltre a essersi proveduti d'altre armi condotto a' soldi loro e per governare tutte le loro genti, benché senza titolo, il baglí d'Occan capitano riputato nella guerra, con cinquanta lancie franzesi; persuadendosi che, per essere uomo del re di Francia e menando con volontà del re le cinquanta lancie che aveva da lui in condotta, quegli de' quali temevano avessino a procedere con piú rispetto, e che oltre a questo in ogni bisogno loro avessino a essere piú pronti gli aiuti regi: alla giunta del quale, raccolte insieme tutte le genti, tagliorono la seconda volta le biade de' pisani; non però per tutto il paese, perché l'entrare nel Valdiserchio non era senza pericolo, essendo quella valle situata tra monti e acque e in mezzo tra Lucca e Pisa. Espedito di dare il guasto, andò il campo a Vico Pisano, il quale si ottenne senza difficoltà: perché il baglí, minacciando cento fanti franzesi che v'erano dentro che e' sarebbono puniti come inimici del re e promettendo loro il soldo di uno mese, fu operatore che se n'uscissino; per la partita de' quali furono costretti quegli di Vico Pisano arrendersi liberamente. Preso Vico, si circondò subito la Verrucola dove erano pochi difensori, perché non vi entrasse nuova gente; e condottevi di poi per quegli monti aspri con difficoltà grande l'artiglierie, quegli di dentro aspettati pochi colpi s'arrenderono, salvo l'avere e le persone. È il sito del monte della Verrucola, nella sommità del quale era stata fabbricata una piccola fortezza, nelle guerre lunghe che si fanno nel contado di Pisa, di molta importanza; perché, vicino a Pisa a cinque miglia, non solo è opportuno a infestare il paese circostante, e insino in sulle porte di quella città, ma ancora a scoprire tutte le cavalcate e genti che n'escono; e il quale, in questa guerra, e da Paolo Vitelli e da altri era invano piú volte stato tentato. Ma la confidenza che i pisani aveano avuta che avesse a difendere Vico Pisano, senza l'acquisto del quale non potevano i fiorentini mettersi a campo alla Verrucola, era stata cagione che non l'aveano proveduta sufficientemente. Spaventò molto i pisani la perdita della Verrucola; e nondimeno, ancora che e' ricevessino tanti danni, avessino pochissimi soldati forestieri mancamento di danari carestia di vettovaglie, non si piegavano a ritornare all'ubbidienza de' fiorentini, mossi principalmente dalla disperazione di ottenere venia per la coscienza dell'offese gravissime fatte loro. La quale disposizione era necessario che conservassino, con grandissima diligenza e infinite arti, coloro che nel governo erano di maggiore autorità; perché pure a' contadini, senza i quali non erano sufficienti a difendersi, pareva grave il perdere le sue ricolte: perciò attendevano a nutrirgli con varie speranze, e insieme quegli del popolo che vivevano piú delle arti della pace che della guerra; con lettere finte e con diverse invenzioni mostrando (e le cose vere alle false mescolando, e ciò che in Italia di nuovo succedeva a proposito loro interpretando) che ora questo ora quell'altro principe in aiuto loro si moverebbono. Né erano però in queste estremità senza qualche aiuto e soccorso da' genovesi e da' lucchesi antichi inimici del nome fiorentino, e similmente da Pandolfo Petrucci poco grato de' benefici ricevuti; ma, quello che importava piú, erano eziandio nutriti, con qualche aiuto occulto ma con molto maggiori speranze, dal Valentino. Il quale, avendo lungamente avuto desiderio di insignorirsi di quella città, offertagli da' pisani medesimi, ma astenutosene per non offendere l'animo del re di Francia, ora, preso ardire dalle avversità sue nel regno di Napoli, trattava, con consentimento paterno, con gli imbasciadori pisani, i quali per questo erano stati mandati a Roma, di accettarne il dominio, distendendo, oltre a questo, i pensieri suoi a occupare tutta Toscana. Della qual cosa benché i fiorentini e i sanesi avessino grandissima sospezione, nondimeno, essendo impedito il bene universale dagli interessi particolari, non si tirava innanzi l'unione proposta dal re di Francia tra i fiorentini, bolognesi e sanesi; perché i fiorentini ricusavano di farla senza la restituzione di Montepulciano, come da principio era stato trattato e promesso, e Pandolfo Petrucci, avendone l'animo alieno benché le parole sonassino in contrario, allegava che il restituirlo gli conciterebbe tanto odio del popolo sanese che e' sarebbe necessitato a partirsi di nuovo di quella città, e però essere piú beneficio comune differire qualche poco per farlo con migliore occasione che, per restituirlo di presente, facilitare al Valentino l'occupare Siena; e cosí non negando ma prolungando si ingegnava che i fiorentini accettassino la speranza per effetto: le quali scuse, rifiutate da essi, erano per opera di Francesco da Narni, fermatosi per comandamento del re in Siena, accettate e credute nella corte di Francia.

Ma non era l'intenzione del pontefice e di Valentino di mettere mano a queste imprese se non quanto dessino loro animo i progressi dell'esercito che si preparava dal re di Francia, e secondo che da essi fusse deliberato dell'aderirsi piú all'uno re che all'altro: sopra che si facevano per essi in questo tempo vari pensieri, differendo quanto potevano il dichiarare la mente sua, non inclinata, se non quanto il timore fusse per costrignergli, al re di Francia, perché l'esperienza veduta nelle cose di Bologna e di Toscana gli privava di speranza di fare col favore suo maggiori acquisti. Perciò avevano cominciato, innanzi alla vittoria degli spagnuoli, ad alienarsi con la volontà ogni dí piú da lui, e dopo la vittoria, preso maggiore animo, non avevano piú il rispetto solito alla volontà e autorità sua; e ancora che avessino, subito dopo le rotte de' franzesi, affermato di volere seguitare la parte del re di Francia e fatto dimostrazione di soldare genti per mandarle ne reame, nondimeno tirati dalla cupidità di nuovi acquisti, né potendo levare gli occhi né rimuovere l'animo dalla Toscana, ricercandogli il re che si dichiarassino apertamente per lui, rispondeva il pontefice con tale ambiguità che ogni dí diventava piú sospetto, il figliuolo ed egli; la simulazione e dissimulazione de' quali era tanto nota nella corte di Roma che n'era nato comune proverbio che 'l papa non faceva mai quello che diceva e il Valentino non diceva mai quello che faceva. Né era ancora finita la contenzione loro con Giangiordano. Perché se bene il Valentino, temendo la indegnazione del re, si fusse, quando ricevé il comandamento suo, astenuto da molestarlo, nondimeno il pontefice, dimostrandone dispiacenza grandissima, non avea mai cessato di fare instanza col re che o gli concedesse l'acquistare con l'armi tutti gli stati di Giangiordano o costrignesse lui a riceverne ricompenso, dimostrando muoverlo a questo non l'ambizione ma giustissimo timore della sua vicinità, perché, essendosi trovato nelle scritture del cardinale Orsino uno foglio bianco sottoscritto di mano propria di Giangiordano, arguiva che nelle cose trattate alla Magione avea avuto contro a sé la medesima volontà e intelligenza che gli altri Orsini. Nella qual cosa il re, avendo per fine piú l'utilità che l'onestà, avea proceduto diversamente secondo la diversità de' tempi, ora dimostrandosi favorevole come prima a Giangiordano ora inclinato a sodisfare in qualche modo al pontefice. Però, avendo Giangiordano ricusato di deporre Bracciano in mano dell'oratore franzese che risedeva a Roma, dimandò il re che questa controversia fusse rimessa in sé, con patto che Giangiordano si trasferisse fra due mesi in Francia né si innovasse insino alla sua determinazione cosa alcuna; alla qual cosa acconsentí Giangiordano per necessità, perché avea sperato per i meriti paterni e suoi dovere essere in tutto liberato da questa molestia, e il pontefice piú per timore che per altro, essendo stata fatta la domanda nel tempo che l'arciduca in nome de' re di Spagna contrasse la pace. Ma mutata per la vittoria degli spagnuoli la condizione delle cose, il papa, vedendo il bisogno che il re aveva di lui, dimandava tutti gli stati suoi, offerendo quella ricompensa che fusse dichiarata dal re; il quale aveva, per la medesima cagione, indotto Giangiordano, benché malvolentieri, a consentirvi e a promettere di dargli, per sicurtà d'eseguire quel che il re dichiarasse, il figliuolo: perché la intenzione sua era non dare questi stati al pontefice se nel tempo medesimo non si congiugneva nella guerra napoletana apertamente con lui. Ma avendo recusato quegli di Pitigliano, dove il figliuolo era, di darlo a monsignore di Trans oratore del re, il quale era andato a Portercole per riceverlo, Giangiordano medesimo, che era ritornato, andò a Portercole a offerire all'oratore la propria persona; il quale accettatolo, impudentemente lo fece mettere in su una nave; benché, subito che 'l re n'ebbe notizia, comandò fusse liberato.

 

Cap. iii

Forze del re di Francia in Italia. Sospetti del re per la politica sempre ambigua del pontefice e del Valentino.

Acceleravano intanto le provisioni ordinate per usarle di qua e di là da' monti. Perché in Ghienna erano andati, per rompere la guerra verso fonterabia, monsignore di Alibret e il marisciallo di Gies con quattrocento lancie e cinquemila fanti tra svizzeri e guasconi; e nella Linguadoca, per muovere la guerra nella contea di Rossiglione, il marisciallo Ruis brettone con ottocento lancie e ottomila fanti, parte svizzeri parte franzesi; e nel tempo medesimo si moveva l'armata per infestare la costa di Catalogna e del regno di Valenza. E in Italia aveva espedito il re per capitano generale dell'esercito monsignore della Tramoglia, a cui allora per consentimento di tutti si dava il primo luogo, nell'armi, di tutto il reame di Francia; e aveva mandato il baglí di Digiuno a fare muovere ottomila svizzeri; e le genti d'arme e l'altre fanterie sollecitavano di camminare: non essendo però l'esercito tanto potente come da principio aveva disegnato, non perché fusse raffreddato l'ardore del re, né perché lo ritenesse o la impotenza o il desiderio di spendere meno, ma perché si conducesse nel regno di Napoli, come era giudicato molto utile, con maggiore celerità, e in parte perché Allegri, significandogli lo stato delle cose di là, aveva affermato essere piú gagliarde le reliquie dello esercito che in fatto non erano e piú ferme le terre e i baroni che ancora si tenevano a sua divozione, e perché aveva ricercato aiuto di gente da tutti quegli che in Italia gli aderivano; onde i fiorentini gli concederono il baglí d'Occan con le cinquanta lancie pagate da loro e cento cinquanta altri uomini d'arme, cento uomini d'arme per uno dettono il duca di Ferrara i bolognesi e il marchese di Mantova, il quale chiamato dal re v'andava in persona, e cento altri i sanesi. Le quali genti, aggiunte a ottocento lancie e cinquemila guasconi che conduceva in Italia la Tramoglia, e agli ottomila svizzeri che si aspettavano e a' soldati che erano in Gaeta, facevano il numero di mille ottocento lancie tra franzesi e italiane, e di piú di diciottomila fanti; oltre a' quali si era mossa l'armata marittima molto potente, sotto monsignore di... : di maniera che si confessava per ciascuno non essere memoria che alcuno re di Francia, computato le forze preparate per terra e per mare e di qua e di là da' monti, avesse mai fatto piú potente e maggiore preparazione.

Ma non era riputato sicuro che l'esercito regio passasse Roma se prima il re non era sicuro del pontefice e del Valentino, avendo causa giustissima di sospettarne per molte ragioni e per molti indizi, e perché per lettere intercette molto prima di Valentino a Consalvo si era compreso essere stato trattato tra loro che se Consalvo espugnava Gaeta, assicurato in caso tale delle cose del regno, passasse innanzi con l'esercito, occupasse Pisa il Valentino, e che uniti insieme Consalvo ed egli assaltassino la Toscana: e perciò il re, passato già l'esercito in Lombardia, faceva instanza grandissima che e' dichiarassino per ultimo la mente loro. I quali se bene udivano e trattavano con tutti, nondimeno giudicando essere il tempo comodo a fare mercatanzia de' travagli degli altri, aveano maggiore inclinazione a congiugnersi con gli spagnuoli; ma gli riteneva il pericolo manifesto che l'esercito franzese non cominciasse ad assaltare gli stati loro, e cosí, che avessino a cominciare a sentire danni e molestie donde disegnavano di conseguire premi ed esaltazione: nella quale ambiguità permettevano che ciascuna delle parti soldasse scopertamente fanti in Roma, differendo il piú potevano a dichiararsi. Ma essendo finalmente ricercatine strettamente dal re, offerivano che il Valentino si unirebbe con l'esercito suo con cinquecento uomini d'arme e dumila fanti, consentendogli il re non solamente le terre di Giangiordano ma eziandio l'acquisto di Siena; e nondimeno quando s'approssimavano alla conclusione variavano dalle cose trattate, introducendo nuove difficoltà, come quegli che per potere, secondo la loro consuetudine, pigliare consiglio dagli eventi delle cose, erano alieni dal dichiararsi. Però fu introdotta un'altra pratica, per la quale il pontefice, proponendo di non volere dichiararsi per alcuna delle parti per conservarsi padre comune, consentiva dare allo esercito franzese passo per il dominio della Chiesa, e prometteva durante la guerra nel regno di Napoli non molestare né i fiorentini né i sanesi né i bolognesi; le quali condizioni sarebbeno state finalmente, perché l'esercito passasse senza maggiore indugio nel reame, accettate dal re, ancora che conoscesse non essere questo partito né con onore né con sicurtà sua e di quegli che da lui in Italia dependevano: perché certezza alcuna non aveva che, se a' suoi nel reame sinistro alcuno sopravenisse, che il pontefice e il Valentino non se gli scoprissino contro; ed era oltre a questo mal sicuro che, uscite che fussino le genti sue di terra di Roma, essi, tenuto poco conto della fede, non assaltassino la Toscana, la quale per la sua disunione e per gli aiuti dati al re restava debole e quasi disarmata. E che avessino a tentare o questa o altra impresa era verisimile, poiché d'avere a conseguire di tanta occasione guadagni immoderati presupposto s'aveano.

Cap. iv

Morte del pontefice; malattia del Valentino; giubilo di Roma per la morte del pontefice. Il Valentino si riconcilia con i Colonnesi. Torbidi in Roma. Ritorno di signori spodestati in terre dello stato pontificio e del Valentino. Accordi del Valentino col re di Francia. Il conclave e l'elezione di Pio III.

Ma ecco che nel colmo piú alto delle maggiori speranze (come sono vani e fallaci i pensieri degli uomini) il pontefice, da una vigna appresso a Vaticano, dove era andato a cenare per ricrearsi da' caldi, è repentinamente portato per morto nel palazzo pontificale e incontinente dietro è portato per morto il figliuolo: e il dí seguente, che fu il decimo ottavo dí d'agosto, è portato morto secondo l'uso de' pontefici nella chiesa di San Piero, nero enfiato e bruttissimo, segni manifestissimi di veleno; ma il Valentino, col vigore dell'età e per avere usato subito medicine potenti e appropriate al veleno, salvò la vita, rimanendo oppresso da lunga e grave infermità. Credettesi costantemente che questo accidente fusse proceduto da veleno; e si racconta, secondo la fama piú comune, l'ordine della cosa in questo modo: che avendo il Valentino, destinato alla medesima cena, deliberato di avvelenare Adriano cardinale di Corneto, nella vigna del quale doveano cenare (perché è cosa manifesta essere stata consuetudine frequente del padre e sua non solo di usare il veleno per vendicarsi contro agl'inimici o per assicurarsi de' sospetti ma eziandio per scelerata cupidità di spogliare delle proprie facoltà le persone ricche, in cardinali e altri cortigiani, non avendo rispetto che da essi non avessino mai ricevuta offesa alcuna, come fu il cardinale molto ricco di Santo Angelo, ma né anche che gli fussino amicissimi e congiuntissimi, e alcuni di loro, come furono i cardinali di Capua e di Modona, stati utilissimi e fidatissimi ministri), narrasi adunque che avendo il Valentino mandati innanzi certi fiaschi di vino infetti di veleno, e avendogli fatti consegnare a un ministro non consapevole della cosa, con commissione che non gli desse ad alcuno, sopravenne per sorte il pontefice innanzi a l'ora della cena, e, vinto dalla sete e da' caldi smisurati ch'erano, dimandò gli fusse dato da bere, ma perché non erano arrivate ancora di palazzo le provisioni per la cena, gli fu da quel ministro, che credeva riservarsi come vino piú prezioso, dato da bere del vino che aveva mandato innanzi Valentino; il quale, sopragiugnendo mentre il padre beeva, si messe similmente a bere del medesimo vino. Concorse al corpo morto d'Alessandro in San Piero con incredibile allegrezza tutta Roma, non potendo saziarsi gli occhi d'alcuno di vedere spento un serpente che con la sua immoderata ambizione e pestifera perfidia, e con tutti gli esempli di orribile crudeltà di mostruosa libidine e di inaudita avarizia, vendendo senza distinzione le cose sacre e le profane, aveva attossicato tutto il mondo; e nondimeno era stato esaltato, con rarissima e quasi perpetua prosperità, dalla prima gioventú insino all'ultimo dí della vita sua, desiderando sempre cose grandissime e ottenendo piú di quello desiderava. Esempio potente a confondere l'arroganza di coloro i quali, presumendosi di scorgere con la debolezza degli occhi umani la profondità de' giudíci divini, affermano ciò che di prospero o di avverso avviene agli uomini procedere o da' meriti o da' demeriti loro: come se tutto dí non apparisse molti buoni essere vessati ingiustamente e molti di pravo animo essere esaltati indebitamente; o come se, altrimenti interpretando, si derogasse alla giustizia e alla potenza di Dio; la amplitudine della quale, non ristretta a' termini brevi e presenti, in altro tempo e in altro luogo, con larga mano, con premi e con supplíci sempiterni, riconosce i giusti dagli ingiusti.

Ma Valentino, ammalato gravemente in palazzo, ridusse intorno a sé tutte le sue genti; e avendo prima sempre pensato di fare, alla morte del padre, parte col terrore delle sue armi parte col favore de' cardinali spagnuoli, che erano undici, eleggere uno pontefice ad arbitrio suo, aveva al presente molto maggiore difficoltà che prima non s'era immaginato a questo e a tutti gli altri disegni, per la sua pericolosissima infermità: per il che si querelava con grandissima indegnazione che, avendo pensato molte volte in altri tempi a tutti gli accidenti che nella morte del padre potessino sopravenire, e a tutti pensato i rimedi, non gli era mai caduto nella mente potere accadere che nel tempo medesimo avesse egli a essere impedito da sí pericolosa infermità. Però, bisognandogli accomodare i consigli suoi non a disegni fatti prima ma alla necessità sopravenuta, parendogli non potere sostenere in un tempo medesimo l'inimicizia de' Colonnesi e degli Orsini e temendo non si unissino insieme contro a lui, si risolvé a fidarsi piú presto di quegli i quali aveva offesi solamente nello stato che di quegli i quali aveva offesi nello stato e nel sangue; e per questo, riconciliatosi prestamente co' Colonnesi e colla famiglia della Valle seguace della medesima fazione, e invitandogli a tornare negli stati propri, restituí loro le fortezze, le quali con spesa grande erano state fortificate e ampliate da Alessandro. Ma non bastava questo né alla sicurtà sua né a quietare la città di Roma, ove ogni cosa era piena di sospetti e di tumulti. Perché Prospero Colonna era venutovi e tutta la parte colonnese avea prese l'armi; e Fabio Orsino, venuto alle case loro in Montegiordano, aveva con turba grande di partigiani degli Orsini abbruciati alcuni fondachi e case di mercatanti e cortigiani spagnuoli (contro al nome della quale nazione erano concitati gli animi quasi di ciascuno, per la memoria delle insolenze che avevano usate nel pontificato d'Alessandro), e sitibondo del sangue del Valentino congregava molti soldati forestieri, e sollecitava Bartolomeo d'Alviano, che allora era agli stipendi de' veneziani, che venisse a vendicarsi, insieme con gli altri della famiglia loro, di tante ingiurie. Il Borgo e i Prati erano pieni di gente del Valentino; e i cardinali, giudicando non potere sicuramente congregarsi nel palazzo pontificale, si congregavano nel convento della chiesa della Minerva: nel qual luogo, fuora del costume antico, si cominciorono, ma piú tardi che 'l consueto, a fare le esequie d'Alessandro. Temevasi della venuta di Consalvo a Roma, massimamente perché Prospero Colonna avea lasciato a Marino certo numero di soldati spagnuoli, e perché per la riconciliazione del Valentino co' Colonnesi si era creduto che egli avesse convenuto di seguitare la parte spagnuola. Ma molto piú si temeva che non vi venisse l'esercito franzese, proceduto insino a quel dí lentamente perché i consigli publici de' svizzeri, spaventati per gl'infelici successi avuti da quella nazione nel regno di Napoli, erano stati molto sospesi innanzi concedessino a' ministri del re che soldassino de' fanti loro, e ricusando per la medesima cagione quasi tutti i capitani e fanti eletti di andarvi, erano stati soldati piú tardamente e dipoi stati lenti nel camminare. Ma per la morte del pontefice l'esercito, governato dal marchese di Mantova con titolo di luogotenente del re, e in compagnia sua, quanto all'effetto ma non in nome, dal baglí di Occan e da Sandricort (perché la Tramoglia ammalato s'era fermato a Parma) non aspettati i svizzeri, s'era condotto nel territorio di Siena con intenzione di andare a Roma, perché cosí avea commesso il re, ed eziandio che andasse a Ostia l'armata di mare che era a Gaeta, per impedire (secondo dicevano) se Consalvo volesse andare con l'esercito a Roma per costrignere i cardinali a eleggere ad arbitrio suo il nuovo pontefice. Soggiornorono nondimeno qualche dí tra Buonconvento e Viterbo, perché avendo, per le turbolenze di Roma, i mercatanti fatto difficoltà d'accettare le lettere di cambio mandate di Francia, i svizzeri condotti in quel di Siena recusavano, se prima non erano pagati, passare piú avanti.

Nel qual tempo non erano minori i tumulti nel territorio di Roma, e in molti altri luoghi dello stato della Chiesa e del Valentino. Perché gli Orsini e tutti i baroni romani ritornavano agli stati loro; i Vitelli erano tornati in Città di Castello; e Giampaolo Baglione aveva, sotto speranza d'un trattato, assaltato Perugia, e benché messo in fuga dagli inimici fusse stato costretto a partirsene, nondimeno tornatovi di nuovo con molta gente e con gli aiuti scoperti de' fiorentini, datovi uno assalto gagliardo, v'entrò dentro, non senza qualche uccisione degli inimici e de' suoi. Aveva e la terra di Piombino pigliato l'armi, e benché i sanesi si sforzassino di occuparla vi ritornò, col favore de' fiorentini, il vecchio signore. Il medesimo facevano negli stati loro il duca d'Urbino, i signori di Pesero, di Camerino e di Sinigaglia. Solamente la Romagna, benché non stesse senza sospetto de' viniziani, i quali a Ravenna molta gente riducevano, stava quieta, e inclinata alla divozione del Valentino; avendo per esperienza conosciuto quanto fusse piú stato tollerabile a quella regione il servire tutta insieme sotto un principe solo e potente che quando ciascuna di quelle città stava sotto un signore particolare, il quale né per la sua debolezza gli potesse difendere né per la povertà beneficare, piú tosto, non gli bastando le sue piccole entrate a sostentarsi, fusse costretto a opprimergli. Ricordavansi ancora gli uomini che, per l'autorità e grandezza sua e per l'amministrazione sincera della giustizia, era stato tranquillo quel paese da' tumulti delle parti, da' quali prima soleva essere vessato continuamente con spesse uccisioni d'uomini. Con le quali opere s'avea fatti benevoli gli animi de' popoli; e similmente co' benefici fatti a molti di loro, distribuendo soldi nelle persone armigere, uffici, per le terre sue e della Chiesa, nelle togate, e aiutando le ecclesiastiche nelle cose beneficiali appresso al padre: onde né l'esempio degli altri, che tutti si ribellavano, né la memoria degli antichi signori gli alienava dal Valentino. Il quale benché fusse oppressato da tante difficoltà, pure e gli spagnuoli e i franzesi facevano instanza grande, con molte promesse e offerte, di congiugnerselo: perché oltre al valersi delle sue genti speravano di guadagnare i voti de' cardinali spagnuoli per la futura elezione. Ma egli, benché per la reconciliazione fatta co' Colonnesi si fusse creduto che si fusse aderito agli spagnuoli, nondimeno non l'avendo indotto a quella altro che il timore che non si unissino con gli Orsini, e allora, secondo affermava, dichiarato di non volere essere tenuto a cosa alcuna contro al re di Francia, deliberò di seguitare la parte sua; perché, e in Roma, ove aveva sí vicino l'esercito, e negli altri suoi stati, poteva piú e nuocergli e giovargli che non potevano gli spagnuoli. Però, il primo dí di settembre, convenne col cardinale di San Severino e con monsignore di Trans oratore regio contraenti in nome del re, promettendo le genti sue all'impresa di Napoli, e a ogn'altra impresa contro a ciascuno eccetto che contro alla Chiesa; e da altra parte gli agenti predetti obligorno il re alla sua protezione con tutti gli stati possedeva, e ad aiutarlo alla recuperazione di quegli che aveva perduti. Dette oltre a questo il Valentino speranza di voltare i voti della maggiore parte de' cardinali spagnuoli al favore del cardinale di Roano; il quale, pieno di grandissima speranza d'avere a ottenere il pontificato con l'autorità co' danari e con l'armi del suo re, subito dopo la morte del pontefice si era partito di Francia per venire a Roma, menando seco oltre al cardinale di Aragona il cardinale Ascanio; il quale, cavato due anni innanzi della torre di Borges, era poi stato intrattenuto onoratamente nella corte e carezzato molto da Roano, sperando che nella prima vacazione del pontificato gli avesse a giovare molto l'antica riputazione e l'amicizie e dependenze grandi che egli soleva avere nella corte romana: fondamenti non molto saldi, perché né il Valentino poteva disporre totalmente de' cardinali spagnuoli, intenti piú, secondo l'uso degli uomini, all'utilità propria che alla remunerazione de' benefici ricevuti dal padre e da lui, e perché molti di loro, avendo rispetto a non offendere l'animo de' suoi re, non sarebbono trascorsi a eleggere in pontefice uno cardinale franzese; né Ascanio, se avesse potuto, arebbe consentito che Roano conseguitasse il pontificato, a perpetua depressione ed estinzione d'ogni speranza che avanzava a sé e alla casa sua.

Non si era dato ancora principio alla elezione del nuovo pontefice; non solo per essersi cominciate a celebrare piú tardi che 'l solito l'esequie del morto, innanzi alla fine delle quali, che durano nove dí, non entrano, secondo la consuetudine antica, i cardinali nel conclave, ma perché, per levare l'occasioni e i pericoli dello scisma in tanta confusione delle cose e in sí importante divisione de' príncipi, avevano i cardinali presenti consentito che si desse tempo a venire a' cardinali assenti: i quali benché fussino venuti, teneva sospeso il collegio il sospetto che l'elezione non avesse a essere libera, rispetto alle genti del Valentino e perché l'esercito franzese, ridotto finalmente tutto tra Nepi e l'Isola e che voleva distendersi insino a Roma, recusava di passare il fiume del Tevere se prima non si creava il nuovo pontefice, o per timore che la parte avversa non isforzasse il collegio a eleggere a modo suo o perché il cardinale di Roano volesse cosí, per piú sicurtà sua e per speranza di favorirsene al pontificato. Le quali cose, dopo molte contenzioni, recusando il collegio di volere altrimenti entrare nel conclave, pigliorono forma: perché il cardinale di Roano dette a tutto il collegio la fede sua che l'esercito franzese non passerebbe Nepi e l'Isola, e il Valentino consentí d'andarsene a Nepi e poi a Civita Castellana, mandati nel campo franzese dugento uomini d'arme e trecento cavalli leggieri sotto Lodovico dalla Mirandola e Alessandro da Triulzi; e il collegio, ordinati molti fanti per la guardia di Roma, dette autorità a tre prelati preposti alla custodia del conclave d'aprirlo se sentissino alcuno tumulto, acciò che, restando qualunque de' cardinali libero d'andare dove gli paresse, ciascuno perdesse la speranza di sforzargli. Entrorno finalmente i cardinali nel conclave, trentotto in numero; ove la disunione, solita in altri tempi a partorire dilazione, fu causa che accelerando creassino fra pochi dí il nuovo pontefice. Perché, non concordi della persona che avessino a eleggere, per l'altre loro cupidità e principalmente per la contenzione che era tra i cardinali dependenti dal re di Francia e i cardinali spagnuoli o dependenti da' re di Spagna, ma spaventati dal pericolo proprio, essendo le cose di Roma in tanti sospetti e tumulti, e dalla considerazione degli accidenti che, in tempi tanto difficili, sopravenire per la vacazione della sedia potevano, si inclinorono, consentendovi ancora il cardinale di Roano, al quale ogni dí piú mancava la speranza di essere eletto, a eleggere in pontefice Francesco Piccoluomini cardinale di Siena; il quale, perché era vecchio e allora infermo, ciascuno presupponeva dovere in brevissimo tempo terminare i suoi dí: cardinale certamente di intera fama, e giudicato per l'altre sue condizioni non indegno di tanto grado. Il quale, per rinnovare la memoria di Pio secondo, suo zio, e da cui era stato promosso alla degnità del cardinalato, assunse il nome di Pio terzo.

 

Cap. v

Torbidi in Roma per l'inimicizia fra il Valentino e gli Orsini. Gli Orsini al soldo degli spagnoli. Contegno di Giampaolo Baglioni verso il re di Francia. Pace fra gli Orsini e i Colonnesi. Il Valentino assalito dagli Orsini si rifugia in Vaticano e, quindi, in Castel Sant'Angelo. Morte di Pio III ed elezione di Giulio II.

Creato il pontefice, l'esercito franzese, non avendo piú causa di soprastare, indirizzandosi al cammino prima destinato, passò subito il fiume del Tevere; e nondimeno, né per la creazione del pontefice né per la partita dell'esercito, si quietavano i movimenti di Roma. Perché aspettandovisi l'Alviano e Giampaolo Baglione, che congiunti nel perugino facevano genti, il Valentino, oppresso ancora da grave infermità, temendo della venuta loro, era con centocinquanta uomini d'arme altrettanti cavalli leggieri e ottocento fanti ritornato in Roma, avendogli conceduto il salvocondotto il pontefice, il quale sperò potere piú facilmente fermare le cose con qualche composizione; ma essendo tra le medesime mura il Valentino e gli Orsini accesi da sete giustissima del suo sangue, e accumulando continuamente nuove genti, perché, se bene avevano dimandato contro a lui espedita giustizia al pontefice e al collegio de' cardinali, facevano il fondamento principale di vendicarsi in sull'armi, almeno come prima fussino giunti Giampagolo Baglione e l'Alviano, Roma e il Borgo, dove alloggiava il Valentino, quasi continuamente tumultuavano.

La quale contenzione non solamente turbava il popolo romano e la corte ma nocé, come si crede, molto alle cose franzesi. Perché preparandosi gli Orsini per andare, espediti che fussino delle cose del Valentino, agli stipendi o del re di Francia o de' re di Spagna, e giudicandosi dovere essere di non piccolo momento alla vittoria della guerra l'armi loro, erano invitati con ampie condizioni da ciascuna delle parti; ma essendo naturalmente piú studiosi del nome franzese, il cardinale di Roano condusse, in nome del suo re, Giulio Orsino, il quale contrasse seco in nome di tutta la casa, eccettuato l'Alviano a cui fu riserbato luogo con onorate condizioni. Ma si turbò ogni cosa per la venuta sua, perché se bene nel principio rimanesse quasi concorde col medesimo cardinale, nondimeno, ristrettosi quasi in uno momento con l'oratore spagnuolo, condusse co' suoi re sé e tutta la famiglia Orsina, eccetto Giangiordano, con cinquecento uomini d'arme e provisione di sessantamila ducati ciascuno anno. Alla quale deliberazione lo indusse principalmente, secondo che esso, creduto in questo da molti, costantemente affermava, lo sdegno che 'l cardinale, acceso piú che mai dalla cupidità del pontificato, favorisse il Valentino per la speranza di conseguire per mezzo suo la maggiore parte de' voti de' cardinali spagnuoli: benché il cardinale, scaricando la colpa che si dava a sé con imputazione di altri, dimostrasse di persuadersi esserne stati autori i viniziani, i quali, per desiderio che 'l re di Francia non ottenesse il reame di Napoli, non solo a questo effetto avessino consentito che egli si partisse da' soldi loro, promettendo, secondo si diceva, di riservargli il luogo medesimo, ma ancora avessino, perché il principio de' pagamenti fusse piú pronto, prestato all'oratore spagnuolo quindicimila ducati; il che se bene non era al tutto certo, non si poteva almeno negare lo imbasciadore viniziano essersi interposto manifestamente in questa pratica. Altri affermavano esserne stata cagione l'avere ottenute piú ampie condizioni dagli spagnuoli, perché si obligorono a dare stati nel regno di Napoli a lui e agli altri della casa, ed entrate ecclesiastiche al fratello e, quel che da lui era stimato molto, a concedergli, finita che fusse la guerra, sussidio di dumila fanti spagnuoli, per la impresa la quale aveva in animo di fare contro a' fiorentini in favore di Piero de' Medici.

Credettesi che Giampaolo Baglioni, che era venuto a Roma insieme con l'Alviano, cosí come, seguitando l'esempio suo, trattava in uno tempo medesimo di condursi co' franzesi e con gli spagnuoli lo seguitasse similmente nella deliberazione. Ma il cardinale di Roano, attonito della alienazione degli Orsini, per la quale si conosceva essere ridotte in dubbio le speranze prima quasi certe de' franzesi, lo condusse subito, concedendogli qualunque condizione dimandò, agli stipendi del suo re con cento cinquanta uomini d'arme, benché sotto nome de' fiorentini, perché cosí volle Giampagolo per essere piú sicuro di ricevere a tempi debiti i pagamenti: i quali si aveano a compensare in quello che dovevano al re per virtú delle loro convenzioni. E nondimeno Giampagolo, ritornato a Perugia per mettere in ordine le genti, e ricevuti ducati quattordicimila, governandosi piú secondo i successi delle cose comuni o secondo le passioni e interessi suoi che secondo quello che conviene all'onore e alla fede de' soldati, e differendo l'andare all'esercito franzese con varie scuse, non si mosse da Perugia; il che il cardinale di Roano interpretò essere proceduto perché Giampaolo, imitando la fede poco sincera de' capitani d'Italia, avesse, insino quando fu condotto, promesso a Bartolomeo d'Alviano e agli spagnuoli di cosí fare.

Con la condotta degli Orsini si congiunse la pace tra loro e i Colonnesi, stipulata nell'ora medesima nella abitazione dell'oratore spagnuolo, nel quale e nell'oratore viniziano rimessono concordemente tutte le differenze. Per l'unione de' quali il Valentino impaurito, avendo deliberato di partirsi di Roma e già movendosi per andare a Bracciano, perché Giangiordano Orsino aveva data la fede al cardinale di Roano di condurvelo sicuro, Giampaolo e gli Orsini, disposti di assaltarlo, non avendo potuto per il ponte di Castel Sant'Angelo entrare nel Borgo, usciti di Roma e condotti con lungo circuito alla porta del Torrone, la quale era chiusa, l'abbruciorono, ed entrati dentro cominciorono a combattere con alcuni cavalli del Valentino; e benché in aiuto suo concorressino molti soldati franzesi i quali non erano partiti ancora di Roma, nondimeno essendo maggiori le forze e grande l'impeto degli inimici, e facendo le genti sue, il numero delle quali era prima molto diminuito, segno di abbandonarlo, fu costretto insieme col principe di Squillaci e alcuni de' cardinali spagnuoli rifuggirsi nel palagio di Vaticano; donde si ritirò subito in Castel Sant'Angelo, ricevuta con consenso del pontefice la fede dal castellano, il quale era quel medesimo che a tempo del pontefice passato, di lasciarnelo, ogni volta volesse, partire salvo: e le sue genti tutte si dispersono. Fu ferito in questo tumulto, benché leggiermente, il baglí di Occan, e il cardinale di Roano ebbe quello giorno molto timore di se medesimo.

Rimossa per questo accidente la materia degli scandoli si rimossono medesimamente di Roma i tumulti, di maniera che quietamente si cominciò a dare opera alla elezione del nuovo pontefice: perché Pio, non ingannando la speranza conceputa nella sua creazione da' cardinali, era, ventisei dí dopo l'elezione, passato a vita migliore. Dopo la morte del quale essendosi differito dal collegio de' cardinali alquanti dí l'entrare in conclave, perché vollono che prima uscissino di Roma gli Orsini, rimastivi per fare il numero delle genti della condotta loro, si stabilí fuori del conclave la elezione; perché il cardinale di San Piero a Vincola, potente di amici di riputazione e di ricchezze, aveva tirati a sé i voti di tanti cardinali che, non avendo ardire di opporsegli quegli che erano di contraria sentenza, entrando in conclave già papa certo e stabilito, fu, con esempio incognito prima alla memoria degli uomini, senza che altrimenti si chiudesse il conclave, la notte medesima, che fu la notte dell'ultimo dí di ottobre, assunto al pontificato. Il quale, o risguardando al nome suo primo di Giuliano o, come fu la fama, per significare la grandezza de' suoi concetti o per non cedere, eziandio nella eccellenza del nome, ad Alessandro, assunse il nome di Giulio; secondo, tra tutti i pontefici passati, di tale nome. Grande fu certamente la maraviglia universale che il pontificato fusse stato deferito, con tanta concordia, a uno cardinale il quale era notissimo essere di natura molto difficile e formidabile a ciascuno; e il quale, inquietissimo in ogni tempo e che aveva consumato la età in continui travagli, aveva per necessità offeso molti ed esercitato odii e inimicizie con molti uomini grandi. Ma apparirono da altra parte manifestamente le cagioni per le quali, superate tutte le difficoltà, fu esaltato a tanto grado. Perché, per essere stato lungamente cardinale molto potente, e per la magnificenza con la quale aveva sempre trapassato tutti gli altri e per la grandezza rarissima del suo animo, non solo aveva amici assai ma autorità molto inveterata nella corte, e otteneva nome di essere precipuo difensore della degnità e libertà ecclesiastica. Ma molto piú ve lo promossono le promissioni immoderate e infinite fatte da lui a cardinali a príncipi a baroni e a ciascuno che gli potesse essere utile a questo negozio, di quanto seppono dimandare. Ed ebbe oltre a ciò facoltà di distribuire danari e molti benefici e degnità ecclesiastiche, cosí delle sue proprie come di quelle di altri, perché alla fama della sua liberalità molti concorrevano spontaneamente a offerirgli che usasse a proposito suo i danari il nome gli uffici e i benefici loro; né fu considerato per alcuno essere molto maggiori le sue promesse di quello che poi, pontefice, potesse o dovesse osservare, perché aveva lungamente avuto nome tale d'uomo libero e veridico che Alessandro sesto, inimico suo tanto acerbo, mordendolo nell'altre cose, confessava lui essere uomo verace: la quale laude egli, sapendo che niuno piú facilmente inganna gli altri che chi è solito e ha fama di mai non gli ingannare, non tenne conto, per conseguire il pontificato, di maculare. Assentí a questa elezione il cardinale di Roano, perché, disperando di potere ottenere il pontificato per sé, sperò che, per le dependenze passate, avesse a essere amico del suo re come insino allora era stato riputato. Assentivvi il cardinale Ascanio riconciliato prima con lui, deposta la memoria delle antiche contenzioni che avevano avute insieme quando, cardinali tutt'a due innanzi al pontificato di Alessandro, seguitavano la corte romana; perché conoscendo, meglio che non aveva fatto il cardinale di Roano, la sua natura, sperò che diventato pontefice avesse ad avere la inquietudine medesima o maggiore di quella che aveva avuta in minore fortuna, e concetti tali che gli potrebbono aprire la via a ricuperare il ducato di Milano. Assentironvi similmente, se bene prima n'avessino l'animo alienissimo, i cardinali spagnuoli: perché, vedendo concorrervi tanti altri e perciò temendo non essere sufficienti a interrompere la sua elezione, giudicorono essere piú sicuro il mitigarlo consentendo che esasperarlo negando, e confidando in qualche parte nelle promesse grandi che ottennono da lui; e indotti dalle persuasioni e da' prieghi del Valentino, ridotto in tale calamità che era necessitato a seguitare qualunque pericoloso consiglio, e ingannato non meno che gli altri dalle speranze sue; perché gli promesse di collocare la figliuola in matrimonio a Francesco Maria della Rovere prefetto di Roma, suo nipote, confermargli il capitanato delle armi della Chiesa e, quello che importava piú, aiutarlo a recuperare gli stati di Romagna, i quali già tutti, dalle fortezze in fuora, si erano alienati dalla ubbidienza sua.

Cap. vi

L'azione dei veneziani in Romagna. La questione di Faenza fra il pontefice ed i veneziani. Faenza si dà ai veneziani. Il Valentino in potere del pontefice. Conferma della legazione pontificia in Francia al card. di Roano.

Le cose della quale provincia, piena di molte novità e mutazioni, tormentavano con vari pensieri l'animo del pontefice, conoscendosi per allora impotente a disporla ad arbitrio suo, e con difficoltà potendo tollerare che la grandezza de' viniziani vi si ampliasse. Perché, come in Romagna si era inteso la fuga del Valentino in Castel Santo Agnolo e l'essersi dissipate le genti che erano seco, quelle città che prima cupidamente l'avevano aspettato, perduta la speranza della sua venuta, cominciorno a prendere diversi partiti. Cesena era tornata alla divozione antica della Chiesa; Imola, essendo stato il castellano della rocca per opera di alcuni principali cittadini ammazzato, stava sospesa, desiderando alcuni il dominio della Chiesa altri desiderando di ritornare sotto i Riari primi signori. La città di Furlí, stata posseduta lungamente dagli Ordelaffi innanzi che per concessione di Sisto pontefice pervenisse ne' Riari, aveva richiamato Antonio della medesima famiglia; il quale, avendo prima tentato di entrarvi con favore de' viniziani ma dipoi temendo che essi, per occuparla per sé, non usassino il nome suo, ricorrendo a' fiorentini vi era ritornato con aiuto loro. In Pesero era ritornato Giovanni Sforza, in Rimini Pandolfo Malatesta; l'uno e l'altro chiamati dal popolo: ma Dionigi di Naldo, soldato antico del Valentino, richiesto dal castellano di Rimini andò in soccorso suo; però, essendosene fuggito Pandolfo, la città ritornò sotto il nome del Valentino. Faenza sola era perseverata nella divozione sua piú lungamente; ma privata alla fine della speranza del suo ritorno, rivolgendosi alle reliquie de' Manfredi suoi antichi signori, chiamò Astore, giovane di quella famiglia ma naturale, perché non vi erano de' legittimi. Ma i viniziani, aspirando al dominio di tutta la Romagna, avevano, subito dopo la morte di Alessandro, mandati a Ravenna molti soldati, co' quali una notte all'improviso assaltorono con grande impeto la città di Cesena; il popolo della quale difendendosi virilmente, essi, che erano andativi senza artiglierie e sperando piú nel furto che nella forza, si ritornorono nel contado di Ravenna, intenti a tutte le cose che potessino dare loro occasione di distendersi in quella provincia. La quale si presentò loro prontamente, per la discordia tra Dionigi di Naldo e i faventini: perché essendo molestissimo a Dionigi che i faventini ritornassino sotto i Manfredi, da' quali si era ribellato quando il Valentino assaltò quella città, chiamati i viniziani, dette loro le fortezze di Valdilamone che erano guardate da lui; i quali poco dipoi messono nella rocca di Faenza trecento fanti, introdottivi dal castellano corrotto con danari. Occuporono similmente, nel tempo medesimo, il castello di Furlimpopolo e molte altre castella della Romagna, e mandorono una parte delle loro genti a pigliare la città di Fano; ma il popolo costantemente si difese per la Chiesa. Furono ancora introdotti in Arimini con volontà del popolo, avendo prima convenuto con Pandolfo Malatesta di dargli in ricompenso la terra di Cittadella nel territorio padovano, provisione annua e condotta perpetua di gente d'arme; e si voltorono dipoi con sommo studio alla oppugnazione di Faenza, perché i faventini, non spaventati per la perdita della rocca (la quale perché è edificata in luogo basso, e perché subito con uno fosso profondo avevano separata dalla città, poteva poco nuocergli), resistevano virilmente, affezionati al nome de' Manfredi, e sdegnati che dagli uomini di Valdilamone avesse a essere promesso ad altri il dominio di Faenza. Ma impotenti a difendersi da loro medesimi, perché i viniziani sotto Cristoforo Moro proveditore avevano accostato l'esercito e l'artiglierie alla terra e occupato i luoghi piú importanti del contado, ricercavano aiuto da Giulio già assunto al pontificato: al quale era molestissima questa audacia, ma essendo nuovo in quella sedia e senza forze e senza danari, né sperando aiuto né dal re di Francia né di Spagna, occupati in maggiori pensieri, e perché recusava di congiugnersi con alcuno di loro, non poteva provedervi se non con l'autorità del nome pontificale. La quale per fare esperienza quanto valesse appresso al senato viniziano, insieme col rispetto della amicizia tenuta lungo tempo da lui con quella republica, mandò il vescovo di Tivoli a Vinegia a lamentarsi che, essendo Faenza città della Chiesa, non si astenessino di fare questo disonore a uno pontefice il quale, innanzi che ascendesse a quel grado, era stato sempre congiuntissimo con la loro republica, e dal quale, salito ora a maggiore fortuna, potevano sperare frutti abbondantissimi della antica benivolenza.

È credibile che nel senato non mancassino di quegli medesimi che avevano già dissuaso lo implicarsi nelle cose di Pisa, il ricevere in pegno i porti del reame di Napoli e il dividere col re di Francia il ducato di Milano, i quali considerassino quel che potesse partorire il diventare ogni dí molto piú esosi e sospetti a molti, e aggiugnere all'altre inimicizie quella de' pontefici; ma essendo stati i consigli ambiziosi favoriti da successi tanto felici, e però spiegate tutte le vele al vento sí prospero della fortuna, non erano udite le parole di quegli che consigliavano il contrario. Però, fu con grande unione risposto allo imbasciadore del pontefice avere sempre quel senato sommamente desiderato che il cardinale di San Piero in Vincola ascendesse al pontificato, per l'amicizia lunghissima confermata con offici e benefici innumerabili dati e ricevuti da ciascuna delle parti, né essere da dubitare che colui che avevano tanto osservato quando era cardinale non osservassino ora molto piú quando era pontefice; ma non conoscere già in quello che offendessino la sua degnità abbracciando l'occasione, la quale se gli era offerta, di avere Faenza, perché quella città non solamente non era posseduta dalla Chiesa ma la Chiesa medesima si era spontaneamente spogliata di tutte le sue ragioni, avendone nel concistorio trasferito nel duca Valentino sí pienamente il dominio. Ricordargli che, eziandio innanzi a questa concessione, non avevano alla memoria degli uomini posseduto mai i pontefici Faenza, anzi di tempo in tempo l'avevano conceduta a nuovi vicari, non vi riconoscendo altra superiorità che il censo; il quale offerivano prontamente di pagare, in caso vi fussino obligati: né già i faventini desiderare il dominio della Chiesa anzi, aborrendolo, avere insino all'estremo adorato il nome del Valentino, e mancata di questo ogni speranza essersi precipitati a chiamare i bastardi della famiglia de' Manfredi. Supplicarlo finalmente che, pontefice, volesse conservare verso il senato viniziano il medesimo amore che aveva avuto quando era cardinale.

Arebbe il pontefice, poi che fu certificato dell'animo de' viniziani mandato il duca Valentino in Romagna, il quale raccolto da lui, subito che ascese al pontificato, con grande onore e dimostrazione di benivolenza, alloggiava nel palagio pontificale, ma se ne astenne, dubitando che l'andata sua la quale da principio sarebbe stata grata a tutti i popoli non fusse ora molto odiosa, poiché già tutti si erano ribellati da lui. Restava solamente a' faventini il ricorso de' fiorentini: i quali, malcontenti che una città tanto vicina pervenisse in potestà de' viniziani, vi avevano da principio mandato dugento fanti e nutritigli con grande speranza di mandarvi altre genti, per dare loro animo a sostenersi tanto che il pontefice avesse tempo a soccorrergli; ma vedendo che il pontefice non era disposto a pigliare l'armi, e che né l'autorità del re di Francia, il quale aveva da principio confortato i viniziani a non molestare gli stati del Valentino, era bastante a raffrenargli, non volendo soli implicarsi in guerra con inimici tanto potenti, s'astennono dal mandare loro maggiori aiuti. Però i faventini, esclusi di ogni speranza, e avendo già l'esercito viniziano, il quale era alloggiato alla chiesa della Osservanza, cominciato a battere con l'artiglierie le mura della città, commossi ancora per essersi scoperto uno trattato e presi alcuni che avevano congiurato di mettere dentro i viniziani, dettono loro la città; i quali si convennono di dare ad Astore certa sovvenzione, benché piccola, per la sua vita. Avuta Faenza, i viniziani arebbono occupato facilmente Imola e Furlí, ma per non irritare piú il pontefice, che maravigliosamente si risentiva, mandate le genti alle stanze deliberorono per allora non procedere piú oltre: avendo occupato in Romagna, oltre a Faenza e Arimini co' suoi contadi, Montefiore, Santarcangelo, Verrucchio, Gattea, Savignano, Meldola, Porto Cesenatico, Russi e, del territorio d'Imola, Tosignano, Solaruolo e Montebattaglia. Tenevansi per il Valentino in Romagna solamente le rocche di Furlí di Cesena di Furlimpopolo e di Bertinoro, le quali egli, con tutto che molto desiderasse di andare in Romagna, arebbe, perché non fussino occupate da' viniziani, consentito di darle in custodia al pontefice, con obligazione di riaverle da lui quando fussino assicurate; ma il pontefice, non essendo ancora superata dalla forza della dominazione l'antica sua sincerità, aveva recusato, dicendo non volere spontaneamente accettare l'occasioni che lo invitassino a mancargli della fede. Finalmente, per opporsi in qualche modo a' progressi de' viniziani, molestissimi per il pericolo dello stato ecclesiastico al pontefice, desideroso oltre a questo che il Valentino si partisse da Roma, fu convenuto con lui (interponendosi in questa convenzione oltre al nome del pontefice il nome del collegio de' cardinali) che 'l Valentino per mare se n'andasse alla Spezie e di quivi, per terra, a Ferrara e dipoi a Imola, ove si conducessino cento uomini d'arme e cento cinquanta cavalli leggieri che ancora seguitavano le sue bandiere. Con la quale resoluzione essendo andato a Ostia per imbarcarsi, il pontefice, pentitosi di non avere accettato le fortezze e già disposto, in qualunque modo potesse averle, a ritenerle per sé, mandò a lui i cardinali di Volterra e di Surrento, a persuadergli che per ovviare che quelle terre non andassino in mano de' viniziani fusse contento deporle in lui, sotto la medesima promessa che si era trattata in Roma: ma recusando il Valentino di farlo, il pontefice sdegnato lo fece ritenere in sulle galee in sulle quali era già montato, e dipoi con onesto modo menare alla Magliana, donde, giubilando tutta la corte e tutta Roma della sua retenzione, fu condotto in palazzo, ma onorato e carezzato, benché con diligente guardia, perché il pontefice, temendo che i castellani, disperati della salute sua, non vendessino le fortezze a' viniziani, cercava d'avere da lui i contrasegni con umanità e con piacevolezza. Cosí la potenza del duca Valentino, cresciuta quasi subitamente non manco con la crudeltà e con le fraudi che con l'armi e con la potenza della Chiesa, terminò con piú subita ruina; esperimentando in se medesimo di quegli inganni co' quali il padre ed egli avevano tormentati tanti altri. Né ebbono migliore fortuna le sue genti, che condotte in quel di Perugia, con speranza che da' fiorentini e altri fusse fatto loro salvocondotto, scoprendosi alle spalle le genti de' Baglioni de' Vitelli e de' sanesi, si ridusseno, per salvarsi, in sul paese de' fiorentini; dove essendosi distese tra Castiglione e Cortona, e ridotte al numero di quattrocento cavalli e pochi fanti, furono per ordine de' fiorentini svaligiate, e fatto prigione don Michele che le guidava. Il quale fu poi da loro conceduto al pontefice, che lo dimandò con somma instanza, avendo in odio tutti i ministri di quel pontificato, per essere egli stato fidatissimo ministro ed esecutore di tutte le sceleratezze del Valentino; benché (come per natura si mitigava facilmente verso coloro contro a' quali era in potestà sua lo incrudelire) non molto dipoi lo liberasse.

Partissi in questo tempo da Roma il cardinale di Roano per ritornarsene in Francia, ottenuta da Giulio, piú per non avere avuto ardire di dinegarla che per libera volontà, la confermazione della legazione di quel reame; ma non lo seguitò già il cardinale Ascanio, con tutto che quando partí di Francia avesse promesso al re con giuramento di ritornarvi: dal quale giuramento si era prima fatto occultamente assolvere dal pontefice. Ma l'esempio dell'essere stata la sua credulità schernita dal cardinale Ascanio non fece il cardinale di Roano piú cauto nelle cose di Pandolfo. Il quale, ricevutolo in Siena con grandissimo onore e insinuatosegli con grande astuzia e con artificiosi consigli, e promettendogli la restituzione di Montepulciano a' fiorentini, gli persuase tanto della sua fede e della devozione verso il re che 'l cardinale, come fu in Francia, oltre all'affermare non avere trovato in tutta Italia uomo piú saggio di Pandolfo, fu operatore che 'l re concedesse che Borghese suo figliuolo, mandato in Francia per sicurtà dell'osservanza delle promesse paterne, se ne ritornasse a Siena. -

 

Cap. vii

Sfortuna dei francesi nella guerra contro la Spagna. Cessazione delle operazioni alla frontiera franco spagnola. La lotta al Garigliano. Infermità nell'esercito francese e discordia fra i capitani. Sconfitta dei francesi; resa di Gaeta. Le cause della sconfitta francese.

Queste furono le mutazioni che succederono in Italia per la morte del pontefice. Ma in questi tempi medesimi l'imprese cominciate con tanta speranza dal re di Francia di là da' monti erano ridotte in molta difficoltà. Perché l'esercito andato a' confini di Guascogna, per mancamento di danari e per poco governo di chi lo comandava, si era prestamente risoluto; e l'armata di mare, avendo scorso con piccolo frutto per i mari di Spagna, si era ritirata nel porto di Marsilia. E l'esercito andato verso Perpignano, ne' progressi del quale il re molto confidava essendo continuamente bene proveduto di tutte le cose necessarie, si era posto a campo a Sals, fortezza vicina a Nerbona posta a' piedi de' monti Pirenei nel contado di Rossiglione, la quale essendo bene difesa faceva gagliarda resistenza; e ancoraché da' franzesi fusse valorosamente combattuta, e usate tutte le diligenze di battere le mura con l'artiglierie e di rovinarle con le mine, nondimeno non potettono mai ottenerla: anzi, essendosi congregato per soccorrerla grandissimo esercito di tutti i regni di Spagna a Perpignano, ove era venuta la persona del re, e unitesi a questo esercito, per la resoluzione de' franzesi che erano stati mandati verso fonterabia, le genti che erano andate a difendere quella frontiera, e tutti insieme movendosi per assaltare l'esercito franzese, i capitani conoscendosi inferiori si ritirorno col campo verso Nerbona, essendo già stati intorno a Sals circa quaranta dí. Dietro a' quali entrorno gli spagnuoli ne' confini del re di Francia; e prese alcune terre di piccola importanza, essendo i franzesi fermatisi a Nerbona stativi pochi dí, si ritirorono ne' terreni loro per comandamento del suo re, che avendo conseguito quel che è il proprio fine di chi è assaltato nutriva malvolentieri la guerra di là da' monti, conscio che i suoi regni potentissimi a difendersi dal re di Francia erano deboli a offenderlo: né molti dí poi, interponendosene il re Federigo, feciono insieme tregua per cinque mesi, per le cose oltramontane solamente. Perché Federigo, essendogli data intenzione dal re di Spagna di consentire alla restituzione sua nel regno di Napoli, e sperando che il medesimo avesse a consentire il re di Francia, appresso al quale, indotta a compassione, si affaticava molto per lui la reina di Francia, aveva introdotto tra loro pratiche di pace: per le quali, mentre che ardeva la guerra in Italia, andorno in Francia imbasciadori del re di Spagna, governandosi con tanto artificio che Federigo si persuadeva che la difficoltà della sua restituzione, contradetta estremamente da' baroni della parte angioina, consistesse principalmente nel re di Francia.

Essendo adunque ridotte tutte le guerre de' due re nel regno di Napoli, erano volti a quella parte gli occhi e i pensieri di ciascuno. Perché i franzesi, partiti da Roma e passati per le terre di Valmontone e de' Colonnesi, per le quali furono concedute loro volontariamente le vettovaglie, camminavano per la campagna ecclesiastica inverso San Germano; ove Consalvo, messa guardia in Roccasecca e in Montecasino, si era fermato, non con intenzione di tentare la fortuna ma di proibire che non passassino piú innanzi, il che per la fortezza del sito sperava agevolmente potere fare. Arrivati i franzesi a Pontecorvo e a Cepperano, si uní con loro il marchese di Saluzzo con le genti di Gaeta; avendo prima, per l'occasione della partita di Consalvo, ricuperato il ducato di Traietto e il contado di Fondi insino al fiume del Garigliano. Fu la prima fatica dello esercito franzese la oppugnazione di Roccasecca; dalla quale, dato che v'ebbono invano uno assalto, si levorono, ma divenutine in tanto dispregio che publicamente si affermava, nell'esercito spagnuolo, quel giorno avere assicurato il reame di Napoli da' franzesi. I quali per questo, diffidandosi di spuntare gli inimici dal passo di San Germano, deliberorno voltarsi al cammino della marina; e perciò, poiché furono stati due dí fermi in Aquino, preso da loro, lasciati settecento fanti in Rocca Guglielma, ritornati indietro a Pontecorvo, andorno per la via di Fondi ad alloggiare alla torre posta in su il passo del fiume del Garigliano, nel quale luogo è fama essere già stata la città antichissima di Minturne: alloggiamento non solo opportuno per gittare il ponte e passare il fiume, come era la loro intenzione, ma comodissimo in caso fussino necessitati a soggiornarvi, imperocché avevano Gaeta e l'armata di mare alle spalle, Traietto, Itri, Fondi e tutto il paese insino al Garigliano a sua divozione. Riputavasi che nel passare l'esercito franzese il fiume consistesse momento grande alla vittoria, perché, essendo Consalvo tanto inferiore di forze che non poteva opporsi in sulla campagna aperta, rimaneva libero a' franzesi il cammino insino alle mura di Napoli; alle quali si sarebbe medesimamente accostata l'armata, che non aveva opposizione alcuna per mare. Perciò Consalvo, partitosi da San Germano, era venuto dall'altra parte del Garigliano, per opporsi con tutte le forze sue perché i franzesi non passassino: confidandosi di poterlo proibire, per il disavvantaggio e difficoltà che hanno gli eserciti nel passare, quando gli inimici si oppongono, i fiumi che non si guadano. Ma, come spesso accade, riuscí piú facile quello che prima si riputava piú difficile, e per contrario piú difficile quel che da tutti era stimato dovere essere piú facile: perché i franzesi, ancora che gli spagnuoli si sforzassino di vietarlo, gittato il ponte, guadagnorono il passo del fiume per forza delle artiglierie, piantate parte in sulla ripa dove alloggiavano, piú alta alquanto che la ripa opposita, parte in sulle barche levate dalla armata e condotte contro al corso dell'acqua. Ma avendo il dí seguente cominciato a passare si opposeno loro gli spagnuoli, e assaltando quegli che già erano passati, con grande animosità, gli rimessono sino a mezzo il ponte; e arebbeno seguitatigli piú oltre se dal furore delle artiglierie non fussino stati costretti a ritirarsi. Morí in questo assalto dalla parte de' franzesi il luogotenente del baglí di Digiuno, e dell'esercito spagnuolo Fabio figliuolo di Pagolo Orsino, giovane tra i soldati italiani di non piccola espettazione. Fu fama che se i franzesi, quando cominciorono a passare, fussino proceduti innanzi virilmente, che sarebbono rimasti quel dí superiori; ma mentre che procedono lentamente e con dimostrazione di timidità non solo perderono l'occasione della vittoria di quel giorno ma si debilitorono in gran parte la speranza del futuro, perché dopo quel dí le cose andorono sempre per loro poco felicemente; e già tra' capitani era piú presto confusione che concordia e, secondo il costume de' soldati franzesi verso i capitani italiani, poca obedienza al marchese di Mantova luogotenente regio: in modo che egli, o per questa cagione o perché veramente fusse, come allegava, ammalato, o perché dalla esperienza fatta prima a Roccasecca e poi il dí che si tentò di passare il ponte avesse perduto la speranza della vittoria, si partí dello esercito; lasciato di sé nel re di Francia concetto maggiore di fede che di animo o di governo nell'esercizio militare. Dopo la partita del quale, i capitani franzesi, che erano i principali il marchese di Saluzzo il baglí di Occan e Sandricort, fatto prima alla testa del ponte di là dal fiume uno riparo con le carrette, vi fabricorno uno bastione capace di molti uomini, per il quale non potevano gli inimici assaltargli quando passavano il ponte.

Ma gli ritardavano a procedere piú oltre altre difficoltà, causate parte per colpa loro parte per la virtú e tolleranza degli inimici parte per l'iniquità della fortuna. Perché Consalvo, intento a impedirgli piú con l'occasione della vernata e del sito del paese che con le forze, si era fermato a Cintura, casale posto in luogo alquanto eminente lontano dal fiume un miglio poco piú; e la fanteria e l'altre genti alloggiate all'intorno, ma con molta incomodità perché, alloggiando in luogo solitario e dove sono rarissime le case e le capanne de' contadini e de' pastori, non vi era quasi coperto alcuno, e il terreno, per la bassezza naturale di quella pianura e perché i tempi erano molti piovosi, pieno di acqua e di fango: però i soldati che non avevano luogo di alloggiare ne siti piú alti, conducendo quantità grande di fascine, si sforzavano coprire con esse il terreno dove alloggiavano. Per le quali difficoltà e perché l'esercito era mal pagato, e per avere i franzesi guadagnato del tutto il passo del fiume, fu consiglio di alcuni capitani di ritirarsi a Capua, acciò che le genti patissino manco, e per levarsi dal pericolo in che pareva che si stesse continuamente essendo inferiori di gente agli inimici. Il quale consiglio fu magnanimamente rifiutato da Consalvo, con quella voce memorabile: desiderare piú tosto di avere, al presente, la sua sepoltura un palmo di terreno piú avanti che, col ritirarsi indietro poche braccia, allungare la vita cento anni; e cosí resistendo alle difficoltà con la costanza dello animo, ed essendosi fortificato con uno fosso profondo e con due bastioni fatti alla fronte dello alloggiamento dello esercito, si manteneva opposito a' franzesi. I quali, benché avessino fatto il bastione, non tentavano di muoversi perché, essendo il paese tutto inondato per le pioggie e per l'acque del fiume (è questo luogo chiamato da Tito Livio, per la vicinità di Sessa, l'acque sinuessane, e forse sono le paludi di Minturne nelle quali C. Mario fuggendo Silla si occultò), non potevano procedere innanzi se non per via stretta, piena di fango altissimo e dove era sfondato tutto il terreno, né senza pericolo di essere assaltati per fianco dalla fanteria spedita degli spagnuoli che alloggiava molto vicina. Ed erano per sorte quella vernata i tempi freddissimi e asprissimi e con nevi e pioggie quasi continue, molto piú che non era il solito di quello paese e di quella stagione, onde pareva che la fortuna e il cielo fussino congiurati contro a' franzesi: i quali, soprasedendo, non solo consumavano il tempo inutilmente ma ricevevano dalla dilazione, per la natura loro, quasi quel medesimo nocumento che dal veleno che opera lentamente ricevono i corpi umani. Perché se bene alloggiavano con minore incomodità che non alloggiavano gli spagnuoli, perché le reliquie di uno teatro antico, alle quali avevano congiunti molti coperti di legname, e le case e l'osterie vicine ne coprivano una parte, e il luogo intorno alla torre essendo alquanto piú alto che il piano di Sessa era manco offeso dalle acque, e si era anche la maggiore parte della cavalleria ridotta in Traietto e nelle terre circostanti, nondimeno, non resistendo per natura i corpi de' franzesi e de' svizzeri alle fatiche lunghe e alle incomodità come resistono i corpi degli spagnuoli, raffreddava continuamente l'impeto e la caldezza degli animi loro. E si augumentavano queste difficoltà per la avarizia de' ministri proposti dal re sopra le vettovaglie e sopra i pagamenti de' soldati; i quali, intenti al guadagno proprio né pretermettendo alcuna specie di fraude, lasciavano diminuire il numero, né tenevano il campo abbondante di vettovaglie. Per le quali cagioni già molte infermità sopravenivano nell'esercito: e il numero de' soldati, benché a' pagamenti fusse quasi il medesimo, era in quanto allo effetto molto minore, essendosi anche delle genti italiane risoluta per se stessa qualche parte. I quali disordini faceva maggiori la discordia de' capitani, per la quale non si governava l'esercito né con lo ordine né con la obbedienza conveniente. Cosí i franzesi, impediti dall'asprezza della vernata, soggiornavano oziosamente in sulla ripa del Garigliano; non si facendo, né per gli inimici né per loro, fazione alcuna eccetto che leggiere battaglie, non importanti alla somma delle cose, nelle quali pareva che quasi sempre prevalessino gli spagnuoli. E accadde anche, in questi dí medesimi, che i fanti i quali erano stati lasciati da' franzesi alla guardia di Rocca Guglielma, non potendo sostenere le molestie che dalle genti che guardavano Roccasecca e le terre circostanti quotidianamente sostenevano e però ritornandosene all'esercito, furono nel cammino rotti da quelle.

Ma essendo sute già molti dí le cose in quello stato, sopragiunsono all'esercito spagnuolo con le compagnie loro Bartolomeo da Alviano e gli altri Orsini: per la venuta de' quali essendo accresciute le forze di Consalvo, in modo che aveva nello esercito novecento uomini d'arme mille cavalli leggieri e novemila fanti spagnuoli, cominciò a pensare non di stare piú alla difesa ma di offendere gl'inimici; dandogli maggiore animo il sapere che i franzesi, superiori molto di cavalli ma non di fanti, si erano tanto sparsi per le terre vicine che già gli alloggiamenti loro occupavano poco manco che dieci miglia di paese, in modo che intorno alla torre del Garigliano erano rimasti il marchese di Saluzzo viceré e gli altri capitani principali con la minore parte dello esercito, e quella, benché vi fusse sopravenuta copia di vettovaglie, ampliandovisi ogni dí piú le infermità, per le quali erano morti molti e tra gli altri il baglí di Occan, diminuiva continuamente. Però deliberando di tentare di passare il fiume furtivamente, il che succedendo non si dubitava della vittoria, dette la cura allo Alviano, autore, secondo dicono alcuni, di questo consiglio, che fabricasse il ponte secretamente. Per ordine del quale essendo stato con molto silenzio fabricato, in uno casale appresso a Sessa, uno ponte in sulle barche, condottolo di notte al Garigliano e gittatolo al passo di Suio, quattro miglia sopra il ponte de' franzesi, dove per loro non si teneva guardia alcuna, subito che il ponte fu gittato, che fu la notte del vigesimo settimo dí di dicembre, passò tutto l'esercito, e in esso la persona di Consalvo; i quali la notte medesima alloggiorono nella terra di Suio contigua al fiume, occupata da' primi che passorono. E la mattina seguente, dí pure di venerdí, felice agli spagnuoli, avendo ordinato Consalvo che il retroguardo che era alloggiato tra la rocca di Mondragone e Carinoli, quattro miglia di sotto al ponte de' franzesi, andasse ad assaltare il ponte loro, si dirizzò con la vanguardia guidata dall'Alviano e con la battaglia, che erano passate seco, a seguitare i franzesi. I quali, avendo la notte medesima avuto notizia che gli spagnuoli, gittato il ponte, già passavano, occupati da grandissimo terrore, come quegli che avendo deliberato di non tentare insino sopravenisse benigna stagione piú cosa alcuna, e persuadendosi che negli inimici fusse la medesima negligenza e ignavia, si commossono tanto piú per questo ardire e accidente improviso; e però, se bene, piú presto trepidando, come si fa ne' casi subiti, che consigliando o deliberando, il viceré, al quale molti levatisi da Traietto e de' luoghi circostanti dove erano sparsi, si riducevano, avesse per proibire il passo inviato Allegri con alcuni fanti e cavalli verso Suio, nondimeno, occortisi che erano tardi, ed essendo superiore in ogni discorso e considerazione il timore, si levorono tumultuosamente a mezzanotte dalla torre del Garigliano per ritirarsi a Gaeta, lasciatavi la maggiore parte delle munizioni e nove pezzi grossi d'artiglieria, e insieme rimanendovi i feriti e moltitudine grande di ammalati. Ma Consalvo, intesa la levata loro, seguitandogli con l'esercito, spinse innanzi Prospero Colonna co' cavalli leggieri, acciò che essendo travagliati da loro fussino costretti a camminare piú lentamente. I quali essendo giunti alle spalle di essi, alla fronte di Scandi, cominciorono insieme a scaramucciare, non intermettendo i franzesi di camminare e nondimeno fermandosi spesso, per non si disordinare, a' ponti e a' passi forti; donde dopo essersi alquanto sostenuti si ritiravano, sempre con ricevere qualche danno: ed era l'ordine del procedere loro, l'artiglierie innanzi a tutti, la fanteria dipoi e in ultimo luogo i cavalli, de' quali quegli che erano gli ultimi combattevano continuamente con gl'inimici. Cosí essendo proceduti, ora fermandosi ora leggiermente combattendo, insino al ponte che è innanzi a Mola di Gaeta, la necessità costrinse il viceré a fare fermare una parte delle sue genti d'arme in su quel passo, per dare spazio di discostarsi alle sue artiglierie; le quali, non potendo procedere con la celerità con la quale procedevano le genti, già cominciavano a mescolarsi con loro. Però appiccata in quello luogo una battaglia grande, sopragiunse poco dipoi il retroguardo spagnuolo, che passato il fiume senza resistenza alcuna, con le barche medesime del ponte che era stato rotto da' franzesi, camminava verso Gaeta per la strada diritta; essendo Consalvo, col resto dell'esercito, andato sempre per la costiera. Combattessi al ponte di Mola per alquanto spazio di tempo ferocemente; sostenendosi i franzesi, benché pieni di molto timore, principalmente per la fortezza del sito, e assaltandogli gli spagnuoli, a' quali già pareva essere in possessione della vittoria, molto impetuosamente. Finalmente i franzesi non potendo piú resistere, e temendo non fusse tagliata loro la strada da una parte delle genti la quale Consalvo aveva mandata per la costiera a questo effetto, cominciorono con disordine a ritirarsi; e seguitandogli continuamente gli inimici, arrivati al capo di due vie, delle quali l'una va a Itri l'altra a Gaeta, si messono in manifesta fuga; restandone morti molti, tra' quali Bernardino Adorno luogotenente di cinquanta lancie, lasciate l'artiglierie con tutti i cavalli del suo servigio, che erano stati condotti di Francia, piú di mille; e restandone molti prigioni: gli altri fuggirono in Gaeta, seguitati vittoriosamente insino alle porte di quella città. E nel tempo medesimo Fabrizio Colonna, mandato da Consalvo, poiché ebbe passato il fiume, con cinquecento cavalli e mille fanti alla volta di Ponte Corvo e delle Frace, col favore della maggior parte delle castella e degli uomini del paese, svaligiò le compagnie di Lodovico della Mirandola e di Alessandro da Triulzi. Furono, oltre a questi, presi e spogliati per il paese molti di quegli i quali, alloggiati a Fondi a Itri e ne' luoghi circostanti, inteso essersi gittato il ponte dagli spagnuoli, non erano andati a unirsi con l'esercito alla torre del Garigliano ma per salvarsi avevano, sparsi, preso tumultuosamente il cammino in diversi luoghi. Maggiore infortunio ebbono Piero de' Medici, che seguitava il campo de' franzesi, e alcuni altri gentiluomini; i quali, essendo nella levata dello esercito dal Garigliano saliti in su una barca, con quattro pezzi di artiglieria per condurgli a Gaeta, per troppo peso e perché ebbono i venti contrari, alla foce del fiume andata sotto la barca, annegorono tutti. Alloggiò la notte seguente Consalvo con l'esercito a Castellone e a Mola; e accostatosi il dí seguente a Gaeta, ove oltre a' capitani franzesi erano rifuggiti i príncipi di Salerno e di Bisignano, occupò subito il borgo e il monte che era stato abbandonato da' franzesi. I quali, benché in Gaeta fusse gente bastante a difenderla e a sufficienza vettovaglie, e il luogo opportuno a essere con l'armate di mare soccorso, nondimeno inviliti, né disposti a tollerare il tedio dello aspettare gli aiuti incerti, voltorono subito l'animo ad accordarsi; e perciò, essendo di consentimento degli altri andati a trattare con Consalvo il baglí di Digiuno, Santa Colomba e Teodoro da Triulzi, convennono, il primo dí dell'anno mille cinquecento quattro, di consegnare Gaeta e la fortezza a Consalvo, avendo facoltà d'uscire con le robe loro salvi, per terra e per mare, fuora del reame di Napoli, e che Obigní e gli altri prigioni fussino da ogni parte liberati; ma questo non fu sí chiaramente capitolato che non avesse Consalvo occasione di disputare che, per virtú di tale convenzione, non si intendevano liberati i baroni del regno napoletano.

Questa è la rotta che ebbe l'esercito del re di Francia appresso al fiume del Garigliano, in sulla ripa del quale era stato fermo circa cinquanta dí; causata non meno da' disordini propri che dalla virtú degli inimici; e rotta molto memorabile, perché ne seguitò la perdita totale di sí nobile e potente reame e la stabilità dello imperio degli spagnuoli; e piú memorabile ancora, perché essendovi entrati i franzesi molto superiori di forze agli inimici, e abbondantissimi di tutte le provisioni terrestri e marittime che sono necessarie alla guerra, furono debellati con tanta facilità, e senza sangue e pericolo alcuno de' vincitori; e perché, con tutto che pochi ne morissino per il ferro degli inimici, fu per vari accidenti piccolissimo il numero di quegli che si salvorno di tanto esercito. Conciossiacosaché de' fanti i quali nella fuga salvorono le persone loro, e di quegli ancora che fatto l'accordo si partirono per terra da Gaeta, ne morí una parte per la strada consumati da' freddi e dalle infermità; e quegli di loro che giunsono a Roma vivi vi si condussono la piú parte ignudi e miserabili, donde molti ne morirono per gli spedali, e la notte, per il freddo e per la fame, per le piazze e per le strade. E quel che ne fusse cagione, o il fato avverso a' franzesi (né meno avverso alla nobiltà che alla gente plebea) o le infermità contratte per le incomodità sostenute intorno al Garigliano, molti di quegli che, fatto che fu l'accordo, si erano per mare partiti da Gaeta, ove lasciorno la maggiore parte de' loro cavalli, morirono o in cammino o subito che furono arrivati in Francia: tra' quali fu il marchese di Saluzzo, Sandricort e il baglí della Montagna e molti gentiluomini. Fu considerato che, oltre a quello che si poteva attribuire alla discordia e al poco governo de' capitani franzesi e alla asprezza de' tempi, e il non essere i franzesi e i svizzeri abili quanto gli spagnuoli a tollerare con l'animo il tedio della lunghezza delle cose né col corpo le incomodità e le fatiche, due cose principalmente aveano impedita al re di Francia la vittoria. L'una, la lunga dimora che fece l'esercito, per la morte del pontefice, in terra di Roma, dalla quale fu causato che prima sopravenne la vernata, e che prima Consalvo condusse agli stipendi suoi gli Orsini, che essi entrassino nel regno; perché non si dubita che se vi fussino entrati nella stagione benigna sarebbe stato necessitato Consalvo, allora molto inferiore di forze né favorito dalla rigidità de' tempi, abbandonata la maggiore parte del reame, a ritirarsi in pochi luoghi forti: l'altra, l'avarizia de' commissari regi, i quali fraudando il re ne' pagamenti de' soldati, e disordinando per la medesima intenzione le vettovaglie, furono non piccola cagione della diminuzione di quello esercito; perché il re aveva con grandissima prontezza fatta provisione tale di tutte le cose necessarie che è certo che al tempo della rotta erano in Roma, per ordine suo, quantità grande di danari e apparato grande di vettovaglie; e se bene all'ultimo, per le moltissime querele de' capitani e di tutto l'esercito, vi fusse maggiore larghezza del vivere, nondimeno prima ve ne era stata strettezza tale che questo disordine, aggiunto all'altre incomodità, era stato cagione di tante infermità e della partita di molta gente e dell'essersi molti distesi ne' luoghi circostanti: dalle quali cose finalmente procedette la ruina dello esercito. Perché come alla sostentazione di uno corpo non basta solamente il bene essere del capo ma è necessario che gli altri membri faccino lo ufficio suo, cosí non basta che il principe sia senza colpa delle cose se ne' ministri suoi non è proporzionatamente la debita diligenza e virtú.

Cap. viii

Pace fra i veneziani ed i turchi; soddisfazione degli uni e degli altri; patti dell'accordo.

Nell'anno medesimo che queste cose tanto gravi in Italia succederono si fece la pace tra Baiseth otomanno e i viniziani, la quale da ciascuna delle parti fu abbracciata cupidamente. Perché Baiseth, principe di ingegno mansueto e molto dissimile alla ferocia del padre, e dedito alle lettere e agli studi de' libri sacri della sua religione, aveva per natura l'animo alienissimo dalle armi: però, avendo cominciata la guerra con potentissimi apparati terrestri e marittimi, e occupato ne' primi due anni, nella Morea, Naupatto (oggi è detto Lepanto), Modone, Corone e Giunco, non l'aveva continuata poi con la medesima caldezza; movendolo forse, oltre al desiderio della quiete, il sospetto che o i pericoli propri o l'amore della religione non concitassino contro a lui i príncipi cristiani: perché e il pontefice Alessandro aveva mandato alcune galee sottili in aiuto de' viniziani, e insieme con loro aveva sollevato con danari Uladislao re di Boemia e di Ungheria a muovere la guerra ne' confini de' turchi; e i re di Francia e di Spagna mandorono ciascuno di loro, ma non nel tempo medesimo, l'armata sua a congiugnersi con quella da' viniziani. Ma piú cupidamente ancora fu accettata la pace de' viniziani, a' quali si interrompeva per la guerra, con gravissimo detrimento publico e privato, il commercio delle mercatanzie le quali dagli uomini loro si esercitavano in molte parti di levante; e perché, essendo la città di Vinegia consueta a trarre ciascuno anno delle terre suddite a' turchi copia grandissima di frumento, dava loro non piccole difficoltà l'essere privati di tale comodità; ma molto piú perché, soliti ad accrescere lo imperio loro nelle guerre con gli altri príncipi, niuna cosa avevano piú in orrore che la potenza degli otomanni, da' quali qualunque volta avevano avuta guerra insieme erano stati battuti: perché e Amurato avolo di Baiseth aveva occupato la città di Tessalonica, oggi Salonich, appartenente al dominio veneto, e poi Maumeth suo padre, avendo avuto sedici anni continua guerra con essi, tolse loro l'isola di Negroponte, una parte grande del Peloponneso oggi detta la Morea, Scudri e molte altre terre in Macedonia e in Albania. In modo che, sostenendo la guerra co' turchi con gravissime difficoltà e spese smisurate e senza speranza di conseguirne frutto alcuno, e oltre a questo temendo tanto piú di non essere assaltati nel tempo medesimo dagli altri príncipi cristiani, erano sempre desiderosissimi di avere la pace con loro. Fu lecito a Baiseth, per le condizioni dell'accordo, ritenersi tutto quello che aveva occupato; e i viniziani, ritenendosi l'isola di Cefalonia anticamente detta Leucade, furno costretti a restituirgli l'isola di Nerito, oggi denominata Santa Maura.

Cap. ix

Commercio de' portoghesi coll'Oriente e danno derivatone a' veneziani. Cristoforo Colombo e la scoperta delle nuove terre a occidente. Errori degli antichi rivelati dalle nuove scoperte.

Ma non aveva dato tanta molestia a' viniziani la guerra de' turchi quanta molestia e detrimento dette l'essere stato intercetto dal re di Portogallo il commercio delle spezierie, le quali i mercanti e i legni loro conducendo da Alessandria, città nobilissima, a Vinegia, spargevano con grandissimo guadagno per tutte le provincie della cristianità. La quale cosa, essendo stata delle piú memorabili che da molti secoli in qua siano accadute nel mondo, e avendo, per il danno che ne ricevé la città di Vinegia, qualche connessità con le cose italiane, non è al tutto fuora del proposito farne alquanto distesamente memoria.

Coloro i quali speculando, con ingegno e considerazioni maravigliose, il moto e la disposizione del cielo n'hanno dato notizia a' posteri, figurorno che, per la rotondità del cielo, discorra dall'occidente all'oriente una linea distante in ogni sua parte egualmente dal polo settentrionale e dal polo meridionale, detta da loro linea equinoziale perché quando il sole è sotto sono allora eguali il dí e la notte; la longitudine della quale linea divisono con la immaginazione in trecento sessanta parti, le quali chiamorono gradi; cosí come il circuito del cielo per mezzo de' poli è medesimamente gradi trecento sessanta. Dietro alla norma data da questi, i cosmografi, misurando e dividendo la terra, figurorono in terra una linea equinoziale che cade perpendicolarmente sotto la linea celeste figurata dagli astrologi; dividendo similmente quella e il circuito della terra con una linea cadente perpendicolarmente sotto i poli, in latitudine di gradi trecento sessanta: di maniera che dal polo nostro al polo meridionale posono distanza di gradi cent'ottanta, e da ciascuno de' poli alla linea equinoziale gradi novanta. Queste cose furono dette in generale da' cosmografi. Ma quanto al particolare dell'abitato della terra, data quella notizia che aveano di una parte della terra che è sotto al nostro emisperio, si persuasono che quella parte della terra che è sotto alla torrida zona, figurata in cielo dagli astrologi (nella quale zona si contiene la linea equinoziale) come piú prossima al sole, fusse per la calidità sua inabitabile, e che dal nostro emisperio non si potesse procedere alle terre che sono sotto la torrida zona né a quelle che di là da essa verso il polo meridionale consistono; le quali Tolemeo, per confessione di tutti principe de' cosmografi, chiamava terre e mari incogniti. Onde ed esso e gli altri presupposono che chi dal nostro emisperio volesse passare al seno arabico e al seno persico, o a quelle parti della India che prima feciono note agli uomini nostri le vittorie di Alessandro magno, fusse costretto andarvi o per terra, o approssimato che si fusse per il mare Mediterraneo quanto poteva a essi, fare per terra il rimanente del cammino. Queste opinioni e presuppositi essere stati falsi ha dimostrato a' tempi nostri la navigazione de' portogallesi. Perché avendo cominciato, già molti anni sono, i re di Portogallo a costeggiare, per cupidità di guadagni mercantili, l'Africa, e condottisi a poco a poco insino all'isole del Cavoverde dette dagli antichi, secondo l'opinione di molti, l'isole [Esperide], e che sono gradi [quattordici distanti dallo equinoziale verso il polo artico], preso di mano in mano maggiore animo, venuti con lungo circuito navigando verso il mezzodí al capo di Buona Speranza, promontorio piú distante che alcun altro della Affrica dalla linea equinoziale, e il quale dista da quello gradi [trentotto], e da quello volgendosi allo oriente, hanno navigato per l'oceano insino al seno arabico e al seno persico; ne' quali luoghi i mercatanti di Alessandria solevano comperare le spezierie, parte nate quivi ma che la maggiore parte vi sono condotte da [le isole Molucche] e altre parti della India, e di poi per terra, per cammino lungo e pieno di incomodità e di molte spese, condurle in Alessandria, e quivi venderle a' mercatanti viniziani; i quali condottele a Vinegia ne fornivano tutta la cristianità, ritornandone loro grandissimi guadagni: perché avendo soli in mano le spezierie costituivano i prezzi ad arbitrio loro, e co' medesimi legni co' quali le levavano di Alessandria vi conducevano moltissime mercatanzie, e i medesimi legni i quali portavano in Francia in Fiandra in Inghilterra e negli altri luoghi le spezierie tornavano medesimamente a Vinegia carichi di altre mercatanzie: la quale negoziazione augumentava medesimamente molto l'entrate della republica, per le gabelle e passaggi. Ma i portogallesi, condottisi per mare da Lisbona, città regia di Portogallo, in quelle parti remote, e fatto amicizia nel seno persico co’ re di Caligut e di altre terre vicine, e dipoi di mano in mano penetrati ne' luoghi piú intimi e edificate in progresso di tempo fortezze ne' luoghi opportuni, e con alcune città del paese confederatisi altre fattesi con l'armi suddite, hanno trasferito in sé quel commercio di comperare le spezierie che prima solevano avere i mercatanti di Alessandria; e conducendole per mare in Portogallo le mandano poi, eziandio per mare, in quegli luoghi medesimi ne' quali le mandavano prima i viniziani. Navigazione certamente maravigliosa e di spazio di miglia [sedicimila], per mari al tutto incogniti, sotto altre stelle sotto altri cieli; con altri instrumenti, perché passata la linea equinoziale non hanno piú per guida la tramontana, e rimangono privati dell'uso della calamita; né potendo per tanto cammino toccare se non a terre non conosciute, diverse di lingua di religione e di costumi, e del tutto barbare e inimicissime de' forestieri: e nondimeno, non ostante tante difficoltà, s'hanno fatta in progresso di tempo questa navigazione tanto familiare che, ove prima consumavano a condurvisi [dieci] mesi di tempo, la finiscono oggi comunemente, con pericoli molto minori, in [sei] mesi.

Ma piú maravigliosa ancora è stata la navigazione degli spagnuoli, cominciata l'anno mille quattrocento novanta..., per invenzione di Cristoforo Colombo genovese. Il quale, avendo molte volte navigato per il mare Oceano, e congetturando per l'osservazione di certi venti quel che poi veramente gli succedette, impetrati dai re di Spagna certi legni e navigando verso l'occidente, scoperse, in capo di [trentatré] dí, nell'ultime estremità del nostro emisperio, alcune isole, delle quali prima niuna notizia s'aveva; felici per il sito del cielo per la fertilità della terra e perché, da certe popolazioni fierissime infuora che si cibano de' corpi umani, quasi tutti gli abitatori, semplicissimi di costumi e contenti di quel che produce la benignità della natura, non sono tormentati né da avarizia né da ambizione; ma infelicissime perché, non avendo gli uomini né certa religione né notizia di lettere, non perizia di artifici non armi non arte di guerra non scienza non esperienza alcuna delle cose, sono, quasi non altrimenti che animali mansueti, facilissima preda di chiunque gli assalta. Onde allettati gli spagnuoli dalla facilità dell'occuparle e dalla ricchezza della preda, perché in esse sono state trovate vene abbondantissime d'oro, cominciorno molti di loro come in domicilio proprio ad abitarvi. E penetrato Cristoforo Colombo piú oltre, e dopo lui Amerigo Vespucci fiorentino e successivamente molti altri, hanno scoperte altre isole e grandissimi paesi di terra ferma; e in alcuni di essi, benché in quasi tutti il contrario e nell'edificare publicamente e privatamente, e nel vestire e nel conversare, costumi e pulitezza civile, ma tutte genti imbelli e facili a essere predate: ma tanto spazio di paesi nuovi che sono - senza comparazione maggiore spazio che l'abitato che prima era a notizia nostra. Ne' quali distendendosi con nuove genti e con nuove navigazioni gli spagnuoli, e ora cavando oro e argento delle vene che sono in molti luoghi e dell'arene de' fiumi, ora comperandone per prezzo di cose vilissime dagli abitatori, ora rubando il già accumulato, n'hanno condotto nella Spagna infinita quantità; navigandovi privatamente, benché con licenza del re e a spese proprie, molti, ma dandone ciascuno al re la quinta parte di tutto quello che o cavava o altrimenti gli perveniva nelle mani. Anzi è proceduto tanto oltre l'ardire degli spagnuoli che alcune navi, essendosi distese verso il mezzodí [cinquantatré] gradi sempre lungo la costa di terra ferma, e dipoi entrati in uno stretto mare e da quello per amplissimo pelago navigando nello oriente, e dipoi ritornando per la navigazione che fanno i portogallesi, hanno, come apparisce manifestissimamente, circuito tutta la terra. Degni, e i portogallesi e gli spagnuoli e precipuamente Colombo, inventore di questa piú maravigliosa e piú pericolosa navigazione, che con eterne laudi sia celebrata la perizia la industria l'ardire la vigilanza e le fatiche loro, per le quali è venuta al secolo nostro notizia di cose tanto grandi e tanto inopinate. Ma piú degno di essere celebrato il proposito loro se a tanti pericoli e fatiche gli avesse indotti non la sete immoderata dell'oro e delle ricchezze ma la cupidità o di dare a se stessi e agli altri questa notizia o di propagare la fede cristiana: benché questo sia in qualche parte proceduto per conseguenza, perché in molti luoghi sono stati convertiti alla nostra religione gli abitatori.

Per queste navigazioni si è manifestato essersi nella cognizione della terra ingannati in molte cose gli antichi. Passarsi oltre alla linea equinoziale, abitarsi sotto la torrida zona; come medesimamente, contro all'opinione loro, si è per navigazione di altri compreso, abitarsi sotto le zone propinque a' poli, sotto le quali affermavano non potersi abitare per i freddi immoderati, rispetto al sito del cielo tanto remoto dal corso del sole. Èssi manifestato quel che alcuni degli antichi credevano, altri riprendevano, che sotto i nostri piedi sono altri abitatori, detti da loro gli antipodi. Né solo ha questa navigazione confuso molte cose affermate dagli scrittori delle cose terrene, ma dato, oltre a ciò, qualche anzietà agli interpreti della scrittura sacra, soliti a interpretare che quel versicolo del salmo, che contiene che in tutta la terra uscí il suono loro e ne' confini del mondo le parole loro, significasse che la fede di Cristo fusse, per la bocca degli apostoli, penetrata per tutto il mondo: interpretazione aliena dalla verità, perché non apparendo notizia alcuna di queste terre, né trovandosi segno o reliquia alcuna della nostra fede, è indegno di essere creduto o che la fede di Cristo vi sia stata innanzi a questi tempi o che questa parte sí vasta del mondo sia mai piú stata scoperta o trovata da uomini del nostro emisperio.

Cap. x

Dolore e cruccio del re e della corte di Francia pel cattivo esito della campagna in Italia. Timori de' partigiani dei francesi; inazione di Consalvo. Fuga del Valentino presso Consalvo e sua prigionia in Ispagna. Tregua tra il re di Francia e i re di Spagna. Rapine di soldati spagnuoli nel reame di Napoli.

Ma ritornando al proposito della nostra narrazione, e alle cose che dopo l'essersi arrenduta agli spagnuoli Gaeta nell'anno mille cinquecento quattro succederono, le novelle della rotta ricevuta al Garigliano, e di tanti disordini che appresso seguitorono, empierono di lagrime e di pianti quasi tutto il regno di Francia, per la moltitudine de' morti e specialmente per la perdita di tanta nobiltà; donde la corte tutta, con gli abiti e con molti altri segni di dolore, appariva piena di mestizia e di afflizione; e si sentivano per tutto il reame le voci degli uomini e delle donne che maladivano quel dí nel quale prima entrò ne' cuori de' suoi re, non contenti di tanto impero che possedevano, la sfortunata cupidità di acquistare stati in Italia. Ma sopra tutto era tormentato l'animo del re per la disperazione d'avere piú a ricuperare uno regno sí nobile, e per tanta diminuzione della estimazione e autorità sua: ricordavasi delle magnifiche parole le quali aveva dette tante volte contro al re di Spagna, e quanto si fusse vanamente promesso degli apparati fatti per assaltarlo da tante bande; ma accresceva il dolore e la indegnazione sua il considerare che, essendo state fatte da sé con somma diligenza e senza risparmio alcuno tante provisioni, e avendo guerra con inimici poverissimi e bisognosi di ogni cosa, fusse stato per la avarizia e per le fraudi de' ministri suoi sí ignominiosamente superato. E però, esclamando insino al cielo, affermava con efficacissimi giuramenti che, poiché era con tanta negligenza e perfidia servito da' suoi medesimi, che giammai commetterebbe piú guerra alcuna a' suoi capitani ma andrebbe personalmente a tutte le imprese. Ma lo tormentava e cruciava ancora piú il conoscere quanto, per la perdita di uno tale esercito e per la morte di tanti capitani e di tanta nobiltà, fussino indebolite le forze sue; in modo che, se o da Massimiliano fusse stato fatto qualche movimento nel ducato di Milano o se l'esercito spagnuolo uscito del reame di Napoli fusse passato piú innanzi, diffidava esso medesimo sommamente di potere difendere quello stato, massime congiugnendosi ad alcuno di questi Ascanio Sforza lo imperio del quale era desiderato ardentemente da tutti i popoli.

Ma del re de' Romani non si maravigliò alcuno che non si destasse a tanta opportunità, essendo lo inveterato costume suo scambiare il piú delle volte i tempi e le occasioni. Ma di Consalvo si persuadeva ciascuno il contrario: donde stavano quelli che in Italia aderivano a' franzesi in grandissimo terrore che egli, con la speranza che all'esercito vincitore non avessino a mancare danari né occasioni, senza dilazione seguitasse la vittoria, per sovvertire lo stato di Milano e mutare in cammino le cose di Toscana: il che se avesse fatto si credeva fermamente che il re di Francia, esausto di danari e sbattuto d'animo, arebbe senza fare alcuna resistenza ceduto a questa tempesta; essendo massime l'animo delle sue genti alienissimo dal passare in Italia e avendo quelle che tornorono da Gaeta passato i monti, sprezzati i comandamenti regi che furono presentati loro a Genova. E si vedeva chiaramente che il re, senza pensiero alcuno alle armi, era tutto intento a trattare concordia con Massimiliano; né meno intento a continuare le pratiche co' re di Spagna, per le quali, non intermesse nell'ardore della guerra, erano stati sempre, e ancora erano, oratori spagnuoli nella sua corte. Ma Consalvo, che da qui innanzi chiameremo piú spesso il gran capitano, poiché con vittorie sí gloriose si aveva confermato il cognome datogli dalla iattanza spagnuola, non usò tanta occasione: o perché, trovandosi al tutto senza danari e debitore dell'esercito suo di molte paghe, gli fusse impossibile muovere con speranze di guadagni futuri o di pagamenti lontani le genti sue, che dimandavano danari e alloggiamenti, o perché fusse necessitato procedere secondo la volontà de' suoi re o perché non gli paresse bene sicuro, se prima non cacciava gli inimici di tutto il regno di Napoli, levarne l'esercito; perché Luigi d'Ars uno de' capitani franzesi, il quale dopo la giornata fatta alla Cirignola si era, con reliquie tali delle genti rotte che non erano in tutto da disprezzare, fermato a Venosa, e il quale mentre che gli eserciti stavano in sulle ripe del Garigliano aveva occupato Troia e San Severo, teneva sollevata tutta la Puglia; e alcuni de' baroni angioini ritiratisi agli stati loro si difendevano, seguitando scopertamente il nome del re di Francia: e si aggiunse che poco dopo la vittoria si ammalò di pericolosa infermità; per la quale non potendo andare in alcuna espedizione personalmente, mandò con parte delle genti l'Alviano a debellare Luigi d'Ars.

Per la quale sua o deliberazione o necessità di non seguitare per allora, fuora del reame di Napoli, la vittoria restavano l'altre cose d'Italia piú presto in sospetto che in travaglio: perché i viniziani stavano, secondo l'usanza loro, sospesi ad aspettare l'esito delle cose; e a' fiorentini pareva acquistare assai se, nel tempo che totalmente disperavano del soccorso del re di Francia, non fussino assaltati dal gran capitano; e il pontefice, differendo ad altro tempo i suoi vasti pensieri, si affaticava perché il Valentino gli concedesse le fortezze di Furlí di Cesena e di Bertinoro, che sole per lui si tenevano nella Romagna, perché Antonio degli Ordelaffi aveva, pochi dí innanzi, ottenuta con premi quella di Forlimpopolo dal castellano. Consentí Valentino dare al pontefice i contrasegni di quella di Cesena: con i quali andato Pietro d'Oviedo spagnuolo per riceverla in nome del pontefice, il castellano, dicendo essergli disonore ubidire al padrone suo mentre che era prigione, e meritare di essere punito chi avesse presunto di fargli tale richiesta, l'aveva fatto impiccare. Donde il pontefice, escluso dalla speranza di poterle ottenere senza la liberazione del Valentino, convenne seco (della quale convenzione fu espedita per maggiore sicurtà una bolla nel concistoro) che il Valentino fusse posto nella rocca di Ostia, in assoluta potestà di Bernardino Carvagial spagnuolo, cardinale di Santa Croce, di liberarlo ogni volta che avesse restituito al pontefice le fortezze di Cesena e di Bertinoro e che della rocca di Furlí avesse consegnati i contrassegni al pontefice, e data sicurtà di banchi in Roma per quindicimila ducati; perché quel castellano prometteva di restituirla ricevuti che avesse i contrassegni e la quantità predetta, per sodisfazione delle spese le quali affermava d'avere fatte. Ma altra era la mente del pontefice; il quale, benché non volesse rompere palesemente la fede data, avea in animo di prolungare la sua liberazione, o per timore che, liberato, operasse che 'l castellano di Furlí negasse di dare la rocca o per la memoria delle ingiurie ricevute dal padre e da lui o per l'odio che ragionevolmente gli portava ciascuno. Della qual cosa sospettando il Valentino, ricercò secretamente il gran capitano che gli desse salvocondotto di potere sicuramente andare a Napoli, e che gli mandasse due galee per levarlo da Ostia; le quali cose essendo consentite da Consalvo, il cardinale di Santa Croce, che avea il medesimo sospetto, subito che ebbe notizia che oltre alla sicurtà data in Roma de' quindicimila ducati i castellani di Cesena e di Bertinoro aveano consegnato le fortezze, gli dette senza saputa del pontefice facoltà di partirsi. Il quale, non aspettate le galee che doveva mandargli il gran capitano, se ne andò occultamente per terra a Nettunno, onde in su una piccola barchetta si condusse alla rocca di Mondracone, e di quivi per terra a Napoli; ricevuto da Consalvo lietamente e con grande onore. In Napoli, stando spesso a segreti ragionamenti con Consalvo, lo ricercò che gli desse comodità di andare a Pisa, proponendogli che, fermandosi in quella città, ne risulterebbe grandissimo beneficio alle cose de' suoi re: il che dimostrando Consalvo di approvare, e offerendogli le galee per portarlo, e dandogli facoltà di soldare nel reame i fanti che e' disegnava di condurre seco, lo nutrí in questa speranza insino a tanto che ebbe risposta da' suoi re conforme a quello che avea disegnato di fare; consultando ciascuno dí con lui sopra le cose di Pisa e di Toscana, e offerendosi l'Alviano di assaltare nel tempo medesimo i fiorentini, per il desiderio che avea della restituzione de' Medici in Firenze. Ma essendo preparate già le galee e i fanti per partire il dí seguente, il Valentino, poiché la sera ebbe parlato lungamente con Consalvo, e da lui con dimostrazione grande di amore avuto licenza e abbracciato nel partirsi, procedendo con quella simulazione medesima che si diceva avere usata già contro a Iacopo Piccinino Ferdinando vecchio d'Aragona, subito che uscí della camera fu per comandamento suo ritenuto nel castello, e mandato all'ora medesima alla casa dove alloggiava a tôrre il salvocondotto che, innanzi partisse da Ostia, gli avea fatto; con tutto che allegasse che, avendogli comandato i suoi re che lo facesse prigione, prevaleva il comandamento loro al suo salvocondotto, perché la sicurtà data di propria autorità dal ministro non era valida piú che si fusse la volontà del signore. Soggiugnendo oltre a questo essere stata cosa necessaria il ritenerlo, perché, non contento di tante iniquità che per l'addietro aveva commesse, procurava di alterare per l'avvenire gli stati d'altri, macchinare cose nuove seminare scandoli e fare nascere in Italia incendi perniciosi. E poco dipoi lo mandò in su una galea sottile prigione in Ispagna, non servito da altri de' suoi che da uno paggio, ove fu incarcerato nella rocca di Medina del Campo.

Fecesi circa a questi tempi medesima tregua per terra e [per] mare, cosí per le cose d'Italia come di là da' monti, tra 'l re di Francia e i re di Spagna; alla quale, desiderata molto dal re di Francia, acconsentirno volentieri i re di Spagna perché giudicorno essere meglio stabilire per questo mezzo, con maggiore sicurtà e quiete, l'acquisto fatto che per mezzo di nuove guerre; le quali essendo piene di molestia e di spese hanno spesse volte fine diverso dalle speranze. Le condizioni furono che ciascuno ritenesse quello possedeva: fusse libero per tutti i regni e stati di ciascuna delle parti il commercio a' sudditi loro, eccetto che nel reame di Napoli: con la quale eccezione ottenne per via indiretta il gran capitano quel che gli era proibito direttamente, perché nelle frontiere de' luoghi tenute da' franzesi, che erano solamente in Calavria Rossano, in Terra d'Otranto Oira e in Puglia Venosa, Conversano e Casteldelmonte, pose genti che proibissino che alcuno o de' soldati o degli uomini di quelle terre non conversassino in luogo alcuno posseduto dagli spagnuoli; la quale cosa gli ridusse prestamente in tale strettezza che vedendo Luigi d'Ars e gli altri soldati e baroni di quelle terre che gli uomini, non potendo tollerare tante incomodità, deliberavano d'arrendersi agli spagnuoli, se ne partirono. E nondimeno il reame di Napoli, benché per tutto ne fussino stati cacciati gli inimici, non godeva i frutti della pace. Perché i soldati spagnuoli, creditori già delle paghe di piú di uno anno, non contenti che 'l gran capitano, perché si sostentassino insino che avesse proveduto a' danari, gli aveva alloggiati in diversi luoghi ne' quali vivevano a spese de' popoli, ma prestate indiscretissimamente ad arbitrio loro (al che i soldati hanno dato nome di alloggiamento a discrezione), rotti i freni dell'ubbidienza erano, con grandissimo dispiacere del gran capitano, entrati in Capua e in Castell'a mare, onde recusando di partirsi se non si numeravano loro gli stipendi già corsi, né a questo, perché importavano quantità grandissima di danari, potendo provedersi senza aggravare eccessivamente il reame esausto per le lunghe guerre e consumato, erano miserabili le condizioni degli uomini, non essendo meno grave la medicina che la infermità che si cercava di curare: cose tanto piú moleste quanto piú erano nuove e fuora degli esempli passati. Perché se bene dopo i tempi antichi, ne' quali la disciplina militare s'amministrava severamente, i soldati erano stati sempre licenziosi e gravi a' popoli, nondimeno, non disordinate ancora in tutto le cose, vivevano in gran parte de' soldi loro né passava a termini intollerabili la loro licenza. Ma gli spagnuoli primi in Italia cominciorno a vivere totalmente delle sostanze de' popoli, dando cagione e forse necessità a tanta licenza l'essere dai suoi re, per l'impotenza loro, male pagati: dal quale principio ampliandosi la corruttela, perché l'imitazione del male supera sempre l'esempio come per il contrario l'imitazione del bene è sempre inferiore, cominciorno poi e gli spagnuoli medesimi e non meno gli italiani a fare, o siano pagati o non pagati, il medesimo; talmente che con somma infamia della milizia odierna, non sono piú sicure dalla sceleratezza de' soldati le robe degli amici che degli inimici.

Cap. xi

Il pontefice ottiene Forlí. Vicende della guerra di Firenze contro Pisa. Vani tentativi de' fiorentini di ridurre con la benevolenza l'inimicizia de' contadini pisani. Richieste d'aiuto de' pisani a Genova.

La tregua fatta tra i re di Francia e di Spagna, con opinione che non molto di poi avesse a seguitare la pace, e in qualche parte la cattura del Valentino quietorono del tutto le cose della Romagna. Perché essendo prima Imola venuta per volontà de' capi di quella città in potestà del pontefice, né senza volontà del cardinale di San Giorgio nutrito da lui con vana speranza di restituirla a' Riari suoi nipoti; ed essendo, in quegli dí, per la morte d'Antonio degli Ordelaffi, entrato in Furlí Lodovico suo fratello naturale, sarebbe quella città venuta in mano de' viniziani, a' quali Lodovico conoscendosi impotente a tenerla l'offeriva, ma le condizioni de' tempi gli spaventorno da accettarla per non accrescere maggiore indegnazione nel pontefice: il quale non avendo chi se gli opponesse ottenne la terra, fuggendosene Lodovico, e finalmente, pagati i quindicimila ducati, la cittadella; la quale il castellano, fedele al Valentino, non consentí mai di dargli se prima per uomini propri mandati a Napoli non ebbe certezza della sua incarcerazione.

Cosí essendosi fermate le guerre per tutte l'altre parti d'Italia, non cessorono per ciò, al principio di quella state, secondo il consueto, l'armi de' fiorentini contro a' pisani. I quali, avendo condotti di nuovo a' soldi loro Giampagolo Baglione e alcuni capitani di genti d'arme Colonnesi e Savelli, e unite maggiori forze che 'l solito, gli mandorno a guastare le ricolte de' pisani; procedendo a questo con maggiore animo, perché non dubitavano dovere essere impediti dagli spagnuoli, non solo perché i re di Spagna non aveano nominati i pisani nella tregua, nella quale era stato lecito a ciascuno de' re nominare gli amici e aderenti suoi, ma perché il gran capitano, dopo la vittoria ottenuta contro a' franzesi, se bene prima avesse dato molte speranze a' pisani, era proceduto con termini mansueti co' fiorentini, sperando potergli forse succedere con queste arti il separargli dal re di Francia, e con tutto che da poi fusse escluso da questa speranza nondimeno, non volendo col provocargli dare loro causa che maggiormente si precipitassino a tutte le volontà di quel re, avea per mezzo di Prospero Colonna fatta, benché non altrimenti che con semplici parole, quasi una tacita intelligenza con loro che se accadesse che 'l re di Francia assaltasse di nuovo il reame di Napoli non l'aiutassino, e da altra parte che da lui non fusse dato aiuto a' pisani se non in caso che i fiorentini mandassino l'esercito con l'artiglierie alla espugnazione di quella città, la quale desiderava non recuperassino mentre che seguitavano l'amicizia del re di Francia. Distesesi l'esercito de' fiorentini non solo a dare il guasto in quelle parti del contado di Pisa nelle quali per l'addietro si era dato ma ancora in San Rossore e in Barbericina, dipoi in Valdiserchio e in Val d'Osoli, luoghi congiunti a Pisa; dove quando l'esercito era stato meno potente non si era potuto andare senza pericolo: il quale come fu dato, andati a campo a Librafatta ove era piccolo presidio, costrinsono in pochi dí quelli che vi erano dentro ad arrendersi liberamente. Né si dubita che quello anno i pisani sarebbono stati costretti per la fame a ricevere il giogo de' fiorentini se non fussino suti sostentati da' vicini, e massimamente da' genovesi e da' lucchesi (perché Pandolfo Petrucci, prontissimo a confortare gli altri e larghissimo al promettere di concorrere alle spese, era tardissimo agli effetti): co' danari de' quali Rinieri della Sassetta soldato del gran capitano, ottenuta licenza da lui, e alcuni altri condottieri condussono per mare dugento cavalli; e i genovesi vi mandorno uno commissario con mille fanti; e il Bardella da Porto Venere, corsale famoso nel mare Tirreno, e che pagato da' predetti avea titolo di capitano de' pisani, metteva in Pisa continuamente, con uno galeone e alcuni brigantini, vettovaglie. Onde i fiorentini, giudicando necessario che oltre alle molestie che si davano per terra si proibisse loro l'uso del mare, soldorno tre galee sottili del re Federigo che erano in Provenza: con le quali come don Dimas Ricaiensio capitano loro si approssimò a Livorno il Bardella si discostò, con tutto che alcuna volta, presa l'occasione de' venti, conducesse qualche barca carica di vettovaglie alla foce d'Arno, onde facilmente entravano in Pisa. La quale nel tempo medesimo si molestava per terra: perché l'esercito fiorentino presa che ebbe Librafatta, distribuitosi in campagna in piú parti di quello contado, si ingegnava di proibire la coltivazione delle terre per l'anno futuro, e di impedire che per la via di Lucca e del mare non vi entrassino vettovaglie; e dando alla fine della state il guasto a' migli e altre biade simili, delle quali quel paese produce copiosamente. Né stracchi i fiorentini da tante spese, né giudicando impossibile cosa alcuna che desse loro speranza di pervenire al fine desiderato, si ingegnorono con nuovo modo di offendere i pisani, tentando di fare passare il fiume d'Arno, che corre per Pisa dalla torre della Fagiana vicina a Pisa a [cinque] miglia, per alveo nuovo, nello stagno che è tra Pisa e Livorno: onde si toglieva la facoltà di condurre cosa alcuna dal mare per il fiume d'Arno a Pisa; né avendo l'acque, che piovevano per il paese circostante, esito, per la bassezza sua, di condursi alla marina, rimaneva quella città quasi come in mezzo di una palude; né per la difficoltà di passare Arno arebbeno per l'avvenire potuto correre i pisani per le colline, interrompendo il commercio da Livorno a Firenze; e acciò che quella parte di Pisa per la quale entrava e usciva il fiume non rimanesse aperta agli insulti degli inimici sarebbeno stati i pisani necessitati a fortificarla. Ma questa opera, cominciata con grandissima speranza e seguitata con spesa molto maggiore, riuscí vana: perché, come il piú delle volte accade che simili cose, benché con le misure abbino la dimostrazione quasi palpabile, si ripruovano con l'esperienza (paragone certissimo quanto sia distante il mettere in disegno dal mettere in atto), oltre a molte difficoltà non prima considerate, causate dal corso del fiume, e perché avendo voluto ristrignerlo abbassava da se medesimo rodendo l'alveo suo, apparí il letto dello stagno nel quale aveva a entrare, contro a quello che aveano promesso molti ingegnieri e periti di acque, essere piú alto che il letto di Arno. E dimostrandosi, oltre a quello che per l'ardente desiderio di ottenere Pisa si aspettava, la malignità della fortuna contro a' fiorentini, essendo andate le galee soldate da loro a Villafranca per pigliare una nave de' pisani carica di grani, nel ritornarsene, combattute da' venti appresso a Rapalle, furno costrette a dare in terra; salvandosi con fatica il capitano e gli uomini che le guidavano.

Aggiunsono i fiorentini alla esperienza dell'armi e del terrore, per non lasciare intentata cosa alcuna, l'esperienza della benignità e della grazia; perché con nuova legge statuirono che qualunque cittadino o contadino pisano andasse fra certo tempo ad abitare alle sue possessioni o alle sue case conseguisse venia di tutte le cose commesse, con la restituzione de' suoi beni. Per la quale abilità pochi sinceramente uscirno di Pisa, ma molti, quasi tutti persone inutili, con volontà degli altri se ne partirono, alleggerendo in uno tempo medesimo la carestia che premeva la città, e conseguendo comodità di potere in futuro con quelle entrate aiutare quegli che vi erano rimasti, come occultamente facevano.

Diminuirno per queste cose in qualche parte le necessità de' pisani, ma non perciò tanto che per la somma povertà e per la carestia non fussino in grandissime angustie; ma avendo ogni altra cosa meno in orrore che 'l nome de' fiorentini, se bene qualche volta titubassino gli animi de' contadini, deliberavano patire, prima che arrendersi, qualunque estremità. Perciò offersono di darsi a' genovesi, co' quali aveano combattuto tante volte dello imperio e della salute, e da' quali la potenza loro era stata afflitta anticamente. Proposono questa cosa i lucchesi e Pandolfo Petrucci, desiderando, per fuggire quotidianamente spese e molestie, obligare i genovesi a difendere Pisa, e offerendo, perché piú facilmente vi consentissino, sostenere per tre anni qualche parte delle spese. Alla qual cosa benché molti in Genova repugnassino, e specialmente Giovanluigi dal Fiesco, accettando la città, feceno instanza che 'l re di Francia, senza la volontà del quale non erano liberi di prendere tale deliberazione, lo concedesse; dimostrandogli quanto fusse pericoloso che i pisani, esclusi da questa quasi unica speranza, si dessino a' re di Spagna, onde con grandissimo suo pregiudicio e Genova starebbe in continua molestia e pericolo, e la Toscana, quasi tutta, sarebbe necessitata a seguitare le parti di Spagna: le quali cagioni benché da principio movessino tanto il re che quasi cedesse alla loro dimanda, nondimeno, essendo dipoi considerato nel suo consiglio che, cominciando i genovesi a implicarsi per se medesimi in guerre e in confederazioni con altri potentati e in cupidità di accrescere imperio, sarebbe cagione che, alzandosi continuamente co' pensieri a cose maggiori, aspirerebbono dopo non molto ad assoluta libertà, denegò loro espressamente l'accettare il dominio de' pisani; ma non vietando, con tutte le querele gravissime co' fiorentini, che perseverassino di aiutargli.

Cap. xii

Il re di Francia, per le difficoltà della conclusione della pace, licenzia gli ambasciatori spagnuoli. Patti conclusi dal re di Francia con Massimiliano e con l'arciduca. Morte di Federigo d'Aragona. Morte di Elisabetta di Castiglia: disposizioni del suo testamento.

Trattavasi in questo tempo medesimo strettamente la pace tra il re di Francia e i re di Spagna; i quali simulatamente proponevano che il regno si restituisse al re Federigo o al duca di Calavria suo figliuolo, a' quali il re di Francia cedesse le sue ragioni, e che al duca si maritasse la reina vedova nipote di quel re, che era già stata moglie di Ferdinando giovane d'Aragona. Né era dubbio il re di Francia essere alienato tanto con l'animo dalle cose del regno di Napoli che per sé arebbe accettato qualunque forma di pace, ma nel partito proposto lo ritenevano due difficoltà: l'una, benché piú leggiera, che pure si vergognava abbandonare i baroni che per avere seguitato la parte sua erano privati de' loro stati, a' quali erano proposte condizioni dure e difficili; l'altra, che piú lo moveva, che, dubitando che se i re di Spagna avendo altrimenti nell'animo proponessino a qualche fine con le solite arti questa restituzione, temeva che, consentendovi, la cosa non avesse effetto, e nondimeno alienarsi l'animo dello arciduca, il quale, desiderando di avere il regno di Napoli per il figliuolo, faceva instanza che la pace fatta altre volte da sé andasse innanzi. Però rispondeva generalmente, desiderarsi da sé la pace ma essergli disonorevole cedere le ragioni che aveva in quel regno a uno aragonese; e da altra parte continuava le pratiche antiche col re de' romani e con l'arciduca: le quali come fu quasi certo dovere avere effetto, per non le interrompere con la pratica incerta de' re di Spagna, dimostrando per maggiore suo onore muoversi per le difficoltà che toccavano a' baroni, chiamati a sé gli imbasciadori spagnuoli, e sedendo nella sedia reale presente tutta la corte, con cerimonie solenni e solite usarsi rare volte, si lamentò che quei re con le parole mostravano desiderio della pace dalla quale erano colla intenzione molto distanti; e perciò, non essendo cosa degna da re consumare il tempo in pratiche vane, essere piú conveniente che si partissino del regno di Francia.

Dopo la partita de' quali vennono oratori di Massimiliano e dello arciduca per dare perfezione alle cose trattate; nelle quali, perché si indirizzavano a maggiori fini, interveniva il vescovo di Sisteron, nunzio residente ordinariamente in quella corte per il pontefice, e il marchese del Finale mandato propriamente da lui per questa negoziazione: la quale essendo molte altre volte stata ventilata, e dimostrandosi l'utilità molto grande a tutti questi príncipi, ebbe facilmente conclusione che il matrimonio, trattato prima, di Claudia figliuola del re di Francia con Carlo primogenito dello arciduca avesse effetto; aggiugnendo, per maggiore corroborazione, che fusse confermato col giuramento e con la soscrizione del re di Francia, di Francesco monsignore d'Angolem, il quale, non nascendo al re figliuoli maschi, era il piú prossimo alla successione, e di molti altri signori principali del regno di Francia: che annullate per giuste e oneste cagioni tutte le investiture dello stato di Milano concedute insino a quel dí, Massimiliano ne concedesse la investitura al re di Francia per sé e per i figliuoli maschi, in caso n'avesse, e non avendo maschi fusse per favore del matrimonio predetto conceduta a Claudia e a Carlo, e morendo Carlo innanzi al matrimonio consumato fusse conceduta a Claudia e al secondogenito dell'arciduca, in caso ch'ella si maritasse a lui: che tra il pontefice il re de' romani e il re di Francia e l'arciduca si intendesse fatta confederazione a difesa comune e a offesa de' viniziani, per recuperare le cose che occupavano di tutti: che Cesare passasse in Italia personalmente contro a' viniziani, e poi potesse passare a Roma per la corona dell'imperio: che per la investitura, il re di Francia, come ne fusse espedito il privilegio, pagasse a lui sessantamila fiorini di Reno e sessantamila altri fra sei mesi; e ciascuno anno, nella festa della Natività del Signore, un paio di sproni d'oro: che a' re di Spagna fusse lasciato luogo di entrarvi infra quattro mesi, ma non dichiarato se, in caso non vi entrassino, fusse lecito al re di Francia di assaltare il regno di Napoli: che il re di Francia non aiutasse piú il conte palatino, il quale, stimolato da lui e sostentato dalla speranza de' soccorsi suoi, era in guerra grave col re de' romani: esclusi i viniziani, benché gli oratori loro fussino dal re sempre molto gratamente uditi e che 'l cardinale [di Roano], per liberargli di ogni sospetto, promettesse continuamente, con molto efficaci parole e giuramenti, che mai il suo re contraverrebbe alla confederazione che aveva con loro. Queste cose si contennono nelle scritture stipulate solennemente; oltre alle quali si trattò che Cesare e il re convenissino insieme in quel luogo che altre volte si determinasse, promettendo il re che allora libererebbe di carcere Lodovico Sforza, dandogli onesto modo di vivere nel regno di Francia; la salute del quale si vergognava pure Cesare di non procurare, ricordandosi quanto per le promesse fattegli e per la speranza avuta vanamente in lui si fusse accelerata la sua rovina. Però, e quando il cardinale di Roano andò a trovarlo a Trento aveva operato che gli fusse rimesso molto della strettezza con la quale prima era tenuto, e ora faceva instanza che liberamente potesse stare nella corte del re o in quella parte di Francia che al re piú sodisfacesse. Promesse ancora il re, a instanza sua, la restituzione de' fuorusciti del ducato di Milano, sopra la quale erano state nella pratica di Trento molte difficoltà. La quale capitolazione, essendo tanto utile per lo arciduca e per Massimiliano, si credeva che, non ostante le spesse sue mutazioni, avesse a andare innanzi; essendovi compreso il pontefice, ed essendo grata al re di Francia, non tanto per cupidità che avesse allora di nuove imprese quanto per desiderio di ottenere la investitura di Milano, e di assicurarsi di non essere molestato da Cesare e dal figliuolo.

Morí quasi ne' dí medesimi il re Federigo a Tors, privato al tutto di speranza d'avere piú per accordo a recuperare il regno di Napoli: benché prima ingannato, come è cosa naturale degli uomini, dal desiderio si fusse persuaso essere piú inclinato a questo il re di Spagna che il re di Francia, non considerando essere vano sperare nel secolo nostro sí magnanima restituzione di uno tanto regno, essendone stati esempli sí rari eziandio ne' tempi antichi disposti molto piú che i tempi presenti agli atti virtuosi e generosi, né pensando essere alieno da ogni verisimile che chi aveva usato tante insidie per occuparne la metà volesse, ora che l'aveva conseguito tutto, privarsene: ma nel maneggio delle cose si era accorto non essere minore difficoltà nell'uno che nell'altro, anzi doversi piú disperare che chi possedeva restituisse che chi non possedeva consentisse.

Nella fine di questo anno medesimo morí Elisabeth reina di Spagna, donna d'onestissimi costumi e in concetto grandissimo, ne' regni suoi, di magnanimità e di prudenza: alla quale apparteneva propriamente il regno di Castiglia, parte molto maggiore e piú potente di Spagna, pervenutagli ereditaria per la morte di Enrico suo fratello, ma non senza sangue e senza guerra. Perché se bene era stato creduto lungamente che Enrico fusse per natura impotente al coito, e che perciò non potesse essere sua figliuola la [Beltramigia], partorita dalla sua moglie e nutrita molti anni da lui per figliuola, e che per questa cagione Elisabeth, vivente Enrico, fusse stata riconosciuta per principessa di Castiglia, titolo di chi è piú prossimo alla successione, nondimeno levandosi alla morte sua in favore della Beltramigia molti signori della Castiglia, e aiutandola con l'armi il re di Portogallo suo congiunto, venute finalmente le parti, appresso a..., alla battaglia, fu approvata dal successo della giornata per piú giusta la causa d'Elisabeth: conducendo l'esercito Ferdinando d'Aragona suo marito, nato ancora esso della casa de' re di Castiglia e congiunto a Elisabeth in terzo grado di consanguinità; e il quale essendo poi succeduto, per la morte di Giovanni suo padre, nel regno di Aragona, si intitolavano re e reina di Spagna. Perché, essendo unito al regno d'Aragona quello di Valenza e il contado di Catalogna, era sotto l'imperio loro tutta la provincia di Spagna la quale si contiene tra i monti Pirenei, il mare Oceano e il mare Mediterraneo, e sotto 'l cui titolo, per essere stata occupata anticamente da molti re mori, si comprende, come ciascuno di essi faceva uno titolo da per sé, il titolo di molti regni; eccettuato nondimeno il regno di Granata che, allora posseduto da' mori, fu dipoi gloriosamente ridotto da loro sotto lo imperio di Castiglia, e il piccolo regno di Portogallo e quello di Navarra molto minore, che avevano re particolari. Ma essendo il regno di Aragona, con la Sicilia, la Sardigna e l'altre isole appartenenti a quello, proprio di Ferdinando, si reggeva da lui solo, non vi si mescolando il nome o l'autorità della reina. Altrimenti si procedeva in Castiglia, perché essendo quel regno ereditario di Elisabeth e dotale di Ferdinando si amministrava col nome con le dimostrazioni e con gli effetti comunemente, non si eseguendo cosa alcuna se non deliberata ordinata e sottoscritta da tutt'a due; comune era il titolo di re di Spagna, comunemente gli imbasciadori si spedivano, comunemente gli eserciti s'ordinavano, le guerre comunemente s'amministravano, né l'uno piú che l'altro si arrogava della autorità e del governo di quello reame. Ma per la morte di Elisabeth senza figliuoli maschi apparteneva la successione di Castiglia, per le leggi di quel regno, che attendendo piú alla prossimità che al sesso non escludono le femmine, a Giovanna figliuola comune di Ferdinando e di lei, moglie dell'arciduca: perché la figliuola maggiore di tutte, che era stata congiunta a Emanuel re di Portogallo, e uno piccolo fanciullo nato di quella erano molto prima passati all'altra vita. Onde Ferdinando, non aspettando piú a lui, finito il matrimonio, l'amministrazione del regno dotale, aveva a ritornare al piccolo regno suo di Aragona, piccolo a comparazione del regno di Castiglia per la strettezza del paese e dell'entrate e perché i re aragonesi, non avendo assoluta l'autorità regia in tutte le cose, sono in molte sottoposti alle costituzioni e alle consuetudini di quelle provincie, molto limitate contro alla potestà de' re. Ma Elisabeth, quando fu vicina alla morte, nel testamento dispose che Ferdinando mentre viveva fusse governatore di Castiglia; mossa o perché, essendo sempre vivuta congiuntissima con lui, desiderava si conservasse nella pristina grandezza o perché, secondo diceva, conosceva essere piú utile a' suoi popoli il continuare sotto il governo prudente di Ferdinando, né meno al genero e alla figliuola; a' quali, poiché alla fine aveano similmente a succedere a Ferdinando, sarebbe beneficio non piccolo che insino a tanto che Filippo, nato e nutrito in Fiandra ove le cose si governano diversamente, pervenisse a piú matura età e a maggiore cognizione delle leggi delle consuetudini delle nature e de' costumi di Spagna, fussino conservati loro sotto pacifico e ordinato governo tutti i regni, mantenendosi in questo mezzo come uno corpo medesimo la Castiglia e l'Aragona.

Cap. xiii

Prime controversie fra il pontefice e Venezia per le terre di Romagna. Pubblicazione delle convenzioni fra Massimiliano e l'arciduca, e il re di Francia. Vicende della guerra de' fiorentini contro Pisa: fazione al ponte a Cappellese. Giampaolo Baglione abbandona il soldo de' fiorentini.

La morte della reina partorí poi nuovi accidenti in Spagna; ma in quanto alle cose d'Italia, come di sotto si dirà, piú tranquilla disposizione e occasione di nuova pace. Continuossi nell'anno mille cinquecento cinque la medesima quiete che era stata nell'anno dinanzi, e tale che, se non l'avessino qualche poco perturbata gli accidenti che nacquono per rispetto de' fiorentini e de' pisani, si sarebbe questo anno cessato totalmente da' movimenti delle armi, essendo una parte de' potentati desiderosa della pace; gli altri piú inclinati alla guerra, impediti per varie cagioni. Perché al re di Spagna, che cosí continuava per ancora il titolo suo, occupato ne' pensieri che gli succedevano per la morte della reina, bastava conservarsi per mezzo della tregua fatta il regno napoletano; e il re di Francia stava coll'animo molto sospeso, perché Cesare, seguitando in questo come nell'altre cose la sua natura, non aveva mai ratificato la pace fatta; e il pontefice, desideroso di cose nuove, non ardiva né poteva muoversi se non accompagnato dall'armi di príncipi potenti; e a' viniziani non pareva piccola grazia se in tante cose trattate contro a loro, e in tanto mala disposizione del pontefice, non fussino molestati dagli altri. L'animo del quale per mitigare aveano, piú mesi innanzi, offertogli di lasciare Rimini e tutto quello che dopo la morte di Alessandro pontefice aveano occupato in Romagna, purché consentisse che ritenessino Faenza col suo territorio; mossi dal timore che aveano del re di Francia e perché Cesare, ricercatone da Giulio, mandato uno imbasciadore a Vinegia, gli avea confortati che restituisseno le terre della Chiesa: ma avendo il pontefice, secondo la costanza del suo animo e la natura libera di esprimere i suoi concetti, risposto che non consentirebbe ritenessino una piccola torre ma che sperava di recuperare innanzi alla sua morte Ravenna e Cervia, le quali città non meno ingiustamente che Faenza possedevano, non si era proceduto piú oltre. Ma nel principio di questo anno, essendo divenuto maggiore il timore, offersono per mezzo del duca d'Urbino, amico comune, di restituire quel che aveano occupato che non fusse de' contadi di Faenza e di Rimini, se il pontefice, che sempre avea negato di ammettere gli oratori loro a prestare l'ubbidienza, consentisse ora di ammettergli. Alla quale dimanda benché il pontefice stesse alquanto renitente, parendogli cosa aliena dalla sua degnità né conveniente a tante querele e minaccie che avea fatte, nondimeno astretto dalle molestie de' furlivesi degli imolesi e de' cesenati, che privati della maggiore parte de' loro contadi tolleravano grande incomodità, né vedendo per altra via il rimedio propinquo, poiché le cose tra Cesare e il re di Francia procedevano con tanta lunghezza, finalmente acconsentí a quel che in quanto agli effetti era guadagno senza perdita, poiché né con parole né con scritture non avea a obligarsi a cosa alcuna. Andorno adunque, ma restituite prima le terre predette, otto imbasciadori de' principali del senato, eletti insino al principio della sua creazione, numero maggiore che mai avesse destinato quella republica ad alcuno pontefice che non fusse stato viniziano; i quali, prestata l'ubbidienza con le cerimonie consuete, non riportorono per ciò a Vinegia segno alcuno né di maggiore facilità né d'animo piú benigno del pontefice.

Mandò in questo tempo il re di Francia, desideroso di dare perfezione alle cose trattate, il cardinale di Roano ad Agunod terra della Germania inferiore; nella quale, occupata nuovamente al conte palatino, l'aspettavano Cesare e l'arciduca. Alla venuta del quale si publicorno e giurorno solennemente le convenzioni fatte, e il cardinale pagò a Cesare la metà de' danari promessi per la investitura, de' quali doveva ricevere l'altra metà come prima fusse passato in Italia; e nondimeno e allora accennava e poco di poi dichiarò non potervi passare, l'anno presente, per l'occupazioni che avea nella Germania: onde tanto piú cessavano i sospetti delle guerre, perché senza il re de' romani non avea il re di Francia inclinazione a tentare cose nuove.

Rimanevano accesi solamente in Italia i travagli quasi perpetui tra i fiorentini e i pisani. Tra' quali, procedendosi con guerra lunga né a impresa alcuna determinata ma secondo l'occasioni che ora all'una ora all'altra parte si dimostravano, accadde che uscí di Cascina, nella qual terra i fiorentini facevano la sedia della guerra, Luca Savello e alcun'altri condottieri e conestabili de' fiorentini, con quattrocento cavalli e con molti fanti, per condurre vettovaglie a Librafatta e per andare a predare certe bestie de' pisani che erano di là dal fiume del Serchio in sul lucchese; non tanto per la cupidità della preda quanto per desiderio di tirare i pisani a combattere, confidandosi, per essere piú forti di loro in campagna, di rompergli: e avendo messe le vettovaglie in Librafatta e fatta la preda disegnata, ritornavano indietro lentamente per la medesima via, per dare tempo a' pisani di venire ad assaltargli. Uscí, ricevuto avviso della preda fatta, subito di Pisa Tarlatino capitano della guerra ma, per la prestezza del muoversi, con non piú che con quindici uomini d'arme quaranta cavalli leggieri e sessanta fanti, dato ordine che gli altri lo seguitassino; e avendo notizia che alcuni de' cavalli de' fiorentini erano corsi insino a San Iacopo appresso a Pisa andò verso loro: i quali si ritirorono per unirsi con l'altre genti le quali si erano fermate al ponte a Cappellese in sul fiume dell'Osole, vicino a Pisa a [tre] miglia, aspettando quivi le bestie predate e i muli co' quali aveano condotta la vettovaglia, che venivano dietro; ed essendo tutti di là dal ponte, il quale i primi fanti aveano occupato e muniti gli argini e i fossi. Aveagli Tarlatino seguitati insino appresso al ponte, né si accorse prima essersi fermate in quel luogo tutte le genti degli inimici che era condotto tanto innanzi che senza manifesto pericolo non poteva tornare indietro. [Però] deliberò di assaltare il ponte; dimostrato a' suoi che quello a che la necessità gli costrigneva non era senza speranza grande di potere vincere: perché nel luogo stretto ove pochi potevano combattere non poteva loro nuocere il numero maggiore degli inimici, in modo che quando bene non potessino passare il ponte, si difenderebbono facilmente tanto che sarebbe a tempo di soccorrergli il popolo di Pisa, il quale avea mandato a sollecitare; ma che passando il ponte sarebbe facilissima la vittoria, perché, essendo stretta la strada di là dal fiume che corre tra 'l ponte e il monte, la moltitudine degli inimici interrotta da' somieri e dalle bestie predate si disordinerebbe agevolmente da se medesima, ridotta in luogo impedito e a combattere e a fuggire. Succederono i fatti secondo le parole. Egli primo, spronato furiosamente il cavallo, assaltò il ponte, ma costretto a discostarsi, fece un altro il medesimo e dipoi il terzo; al quale essendo stato ferito il cavallo, il capitano ritornato con impeto grande ad aiutarlo passò, con la forza dell'armi e con la ferocia del cavallo, di là dal ponte, dandogli luogo i fanti che lo difendevano. Feciono il medesimo quattro altri de' suoi cavalli. I quali tutti mentre che di là dal ponte combattono co' fanti degli inimici in uno stretto prato, alcuni fanti de' pisani passato il fiume con l'acqua insino alle spalle, e da altra parte passando per il ponte, già abbandonato, senza ostacolo i cavalli, e cominciando a giugnere l'altra gente che sparsa e senza ordine veniva da Pisa, ed essendo i soldati de' fiorentini ridotti in luogo stretto e confusi tra loro medesimi e ripieni di grandissima viltà (piú ancora gli uomini d'arme che i fanti), né avendo capitano di autorità che gli ritenesse o riordinasse, si messono in manifesta fuga, lasciando la vittoria quegli che molto piú potenti di forze camminavano ordinatamente in battaglia a quegli che in pochissimo numero erano venuti alla sfilata, con intenzione piú presto di appresentarsi che di combattere; restando tra morti presi e feriti molti capitani di fanti e persone di condizione: e quegli che fuggirono furono la piú parte svaligiati nella fuga da' contadini del paese di Lucca.

Disordinoronsi per questa rotta molto nel contado di Pisa le cose de' fiorentini; perché essendo rimasti in Cascina pochi cavalli non potettono proibire per molti dí che i pisani insuperbiti per la vittoria non corressino e predassino tutto il paese. E quello che importò piú, entrato per questo caso Pandolfo Petrucci in isperanza che facilmente si potesse interrompere che i fiorentini non dessino quella state il guasto a' pisani, i quali combattendo con le solite difficoltà erano, benché molto parcamente, aiutati da' genovesi e da' lucchesi, perché i sanesi somministravano loro piú consigli che danari o vettovaglie, procurò che Giampaolo Baglioni, del quale i fiorentini per essere stati causa principale del suo ritorno in Perugia confidavano molto, durante la condotta sua recusò di continuare ne' soldi loro, allegando che essendo a' medesimi stipendi Marcantonio e Muzio Colonna, e Luca e Iacopo Savello, che tutti insieme aveano maggiore numero di soldati che non avea egli, non vi stava senza pericolo per la diversità delle fazioni: e perché avessino piú breve spazio di tempo a provedersi ritardò quanto potette prima che totalmente scoprisse il suo pensiero. E perché alla escusazione sua fusse prestata maggiore fede, promesse a' fiorentini di non pigliare l'armi contro a loro: di che perché fussino meglio sicuri lasciò, come per pegno, a' soldi loro Malatesta suo figliuolo di molto tenera età, con quindici uomini d'arme. Egli, per non rimanere del tutto senza condotta, si condusse con settanta uomini d'arme co' sanesi: i quali perché erano inabili a sopportare tanta spesa, i lucchesi partecipi di questo consiglio soldorno con settanta uomini d'arme Troilo Savello, soldato prima de' sanesi.

Cap. xiv

Timori de' fiorentini per accordi fra Pandolfo Petrucci Giampaolo Baglione e Bartolomeo d'Alviano. I fiorentini ricorrono al re di Francia, che pone condizioni troppo gravose. Il gran capitano ordina di non offendere i fiorentini. L'Alviano contro i fiorentini. I fiorentini comandati da Ercole Bentivoglio sconfiggono le genti dell'Alviano.

Per la partita improvisa di Giampaolo e per il danno ricevuto al ponte a Cappellese, i fiorentini, rimasti con poca gente, non dettono per quello anno il guasto a' pisani: anzi erano necessitati a pensare rimedio a maggiori pericoli. Perché essendosi svegliato in Pandolfo e in Giampaolo l'antico umore, trattavano secretamente col cardinale de' Medici di turbare lo stato de' fiorentini; facendo il fondamento principale in Bartolomeo d'Alviano, il quale dimostrandosi discorde col gran capitano, venuto in terra di Roma, riduceva a sé con varie speranze e promesse molti soldati. I quali consigli si dubitava non penetrassino insino al cardinale Ascanio, con ordine, succedendo felicemente le cose di Toscana, di assaltare, con le forze unite de' fiorentini e degli altri che assentivano a questo movimento, il ducato di Milano, sperando che assaltato facesse facilmente mutazione, per le poche genti d'arme che vi erano de' franzesi, perché fuora erano moltissimi nobili, per la inclinazione de' popoli al nome sforzesco, e perché il re di Francia, essendosi per grave infermità sopravenutagli ridotto tanto allo stremo che per molte ore fu disperata totalmente la sua salute, se bene dipoi si fusse alquanto discostato dal punto della morte, pareva in modo condizionato che poco si sperava della sua vita. E quegli che consideravano piú intrinsecamente sospettavano che Ascanio, il quale era in questi tempi frequentato molto in Roma dallo oratore viniziano, avesse occulta intelligenza non solo col gran capitano ma ancora co' viniziani; i quali sarebbono stati piú pronti che per il passato e con maggiore confidenza all'offesa de' franzesi, perché il re di Francia, essendo venuto in nuovi sospetti e diffidenze col re de' romani e col figliuolo, e considerando, dopo la morte della reina di Spagna, quanta sarebbe la grandezza dell'arciduca, alienatosi apertamente da loro, aiutava contro all'arciduca il duca di Ghelleri acerrimo inimico suo, e inclinava a fare particolare intelligenza col re di Spagna. Ma (come sono fallaci i pensieri degli uomini e caduche le speranze) mentre che tali cose si trattano, il re di Francia del quale era quasi disperata la vita andava continuamente recuperando la salute, e Ascanio morí all'improviso di peste in Roma. Per la morte del quale essendo cessato il pericolo dello stato di Milano, non si interroppono perciò del tutto i disegni del molestare i fiorentini: per i quali si convennono insieme al Piegai, castello tra i confini de' perugini e de' sanesi, Pandolfo Petrucci Giampaolo Baglione e Bartolomeo d'Alviano, non piú con speranza di essere potenti a rimettere i Medici in Firenze ma perché l'Alviano, entrando in Pisa con volontà de' pisani, molestasse per sicurtà di quella città i confini de' fiorentini; con intenzione di procedere piú oltre secondo l'opportunità dell'occasioni. Le quali preparazioni cominciando a venire a luce, temevano i fiorentini della volontà del gran capitano, essendo certi che la condotta dell'Alviano col re di Spagna continuava insino al novembre prossimo, e perché non si credeva che senza suo consentimento Pandolfo Petrucci tentasse cose nuove; il quale, non avendo mai voluto pagare i danari promessi al re di Francia e circonvenutolo spesso con varie arti, totalmente dal re di Spagna dependeva. E accrebbe il sospetto de' fiorentini, che temendo il signore di Piombino, il quale era sotto la protezione del re di Spagna, di non essere assaltato da' genovesi, Consalvo, per sicurtà sua avea mandato a Piombino, sotto Nugno del Campo, mille fanti spagnuoli, e nel canale tre navi due galee e alcuni altri legni; le quali forze condotte in luogo tanto vicino a' fiorentini davano loro causa di temere che non si unissino con l'Alviano, come esso affermava essergli stato promesso. Ma la verità era che, avendo il re di Spagna dopo la tregua fatta col re di Francia, per diminuire le spese, commesso, insieme con la limitazione delle condotte degli altri, che la ricondotta dell'Alviano si riducesse a cento lancie, egli sdegnato non solo negava di ricondursi ma affermava essere libero dalla condotta prima, perché non gli erano pagati gli stipendi corsi e perché il gran capitano avea ricusato di osservargli la promessa fatta di concedergli, dopo la vittoria di Napoli, dumila fanti per usargli contro a' fiorentini in favore de' Medici. Ed era naturalmente il cervello dell'Alviano cupido di cose nuove e impaziente della quiete.

Ricercorono i fiorentini, per difendersi da questo assalto, il re di Francia, obligato per i capitoli della protezione a difendergli con quattrocento lancie, che ne mandasse dugento in aiuto loro; il quale, mosso piú dalla cupidità de' danari che da' prieghi o dalla compassione degli antichi collegati, rispose non volere dare loro soccorso alcuno se prima non gli numeravano trentamila ducati dovutigli per l'obligo della protezione; e benché i fiorentini, allegando essere aggravati da infinite spese necessarie alla loro difesa, lo supplicassino di alcuna dilazione, perseverò ostinatamente nella medesima sentenza: di maniera che piú giovò alla salute loro chi era sospetto e ingiuriato che chi era confidente e beneficato. Conciossiaché 'l gran capitano, desideroso che non si turbasse la quiete d'Italia, o per non interrompere le pratiche della pace cominciate di nuovo tra i due re o perché già, per l'occasione della morte della reina e i semi della discordia futura tra il suocero e il genero, avesse qualche pensiero d'appropriarsi il reame di Napoli, non solo faceva ogni diligenza per indurre l'Alviano alla ricondotta (il quale, per comandamento avuto dal papa che o licenziasse le genti o uscisse del territorio della Chiesa, era venuto a Pitigliano) ma gli aveva, come a feudatario e come a soldato del suo re, comandato che non procedesse piú innanzi, sotto pena di privazione degli stati che aveva nel reame, d'entrata di settemila ducati; e a' pisani, ricevuti non molto prima da lui secretamente nella protezione del suo re, e al signore di Piombino aveva significato che non lo ricevessino; e offerto a' fiorentini essere contento che usassino per la difesa loro i fanti suoi che erano in Piombino, i quali voleva che stessino sotto l'ubbidienza di Marcantonio Colonna loro condottiere. Ricercò similmente Pandolfo Petrucci che non fomentasse l'Alviano, e proibí a Lodovico, figliuolo del conte di Pitigliano, a Francesco Orsino e a Giovanni da Ceri suoi soldati che non lo seguitassino.

E nondimeno l'Alviano, con cui erano Gianluigi Vitello Giancurrado Orsino trecento uomini d'arme e cinquecento fanti venturieri, procedendo, benché lentamente, sempre innanzi e avendo vettovaglia dai sanesi, era per la Maremma de' sanesi venuto nel piano di Scarlino, terra sottoposta a Piombino, presso a una piccola giornata a' confini de' fiorentini, dove gli sopragiunse un uomo mandato dal gran capitano a comandargli di nuovo che non andasse a Pisa e non offendesse i fiorentini: al quale avendo replicato che era libero di se medesimo poiché il gran capitano non gli avea osservato le cose promesse, andò ad alloggiare appresso a Campiglia, terra de' fiorentini; ove si fece leggiera scaramuccia tra lui e le genti de' fiorentini che facevano la massa a Bibbona. Venne poi in su la Cornia, tra' confini de' fiorentini e di Sughereto; ma con disegni e speranze molto incerte, rappresentandosegli a ogn'ora maggiore difficoltà: perché né da Piombino aveva piú vettovaglie, né gli mandavano fanti, secondo la intenzione che gli era stata data, Giampagolo Baglione e i Vitelli, le deliberazioni de' quali si accomodavano volentieri agli esiti delle cose; vedeva ritenersi Pandolfo Petrucci da favorire come prima le cose sue, né era bene certo che i pisani per non disubbidire al gran capitano volessino riceverlo: per le quali cagioni, e perché continuamente si trattava la ricondotta sua, ma con maggiore speranza perché non ricusava piú di stare contento alle cento lancie, si ritirò al Vignale, terra del signore di Piombino, dando nome di aspettarne da Napoli l'ultima determinazione. Ma avuto in questo tempo da' pisani il consentimento di riceverlo in Pisa, partitosi dal Vignale, dove era stato alloggiato dieci dí, la mattina de' diciassette d'agosto si scoperse con l'esercito in battaglia alle Caldane, un miglio sotto a Campiglia, con intenzione di combattere quivi con l'esercito fiorentino, il quale vi era andato ad alloggiare il dí davanti, ma era accaduto che avendo per spie venute del campo suo presentito qualche cosa della sua mossa s'era la notte medesima ritirato alle mura di Campiglia: ove conoscendo l'Alviano non gli potere assaltare senza disavvantaggio grande, si voltò al cammino di Pisa per la strada della Torre a San Vincenzio, che è distante da Campiglia cinque miglia. Da altra parte le genti de' fiorentini, governate da Ercole Bentivoglio, il quale, come era peritissimo del paese, non desiderava per l'opportunità del sito altro che di fare la giornata seco in quello luogo, si dirizzorono per la via che va da Campiglia alla Torre medesima di San Vincenzio; avendo fatto due parti de' cavalli leggieri, l'una delle quali seguitava l'esercito dell'Alviano molestandolo continuamente alla coda, l'altra andava innanzi a incontrare gli inimici per la via medesima, per la quale veniva dietro l'esercito fiorentino: e questi, arrivati alla Torre innanzi che vi arrivassino le genti dello Alviano e attaccatisi con quegli che venivano innanzi, da' quali essendo facilmente ributtati, si andorono ritirando alla volta dello esercito, che era già presso a mezzo miglio. Ove fatta relazione che la piú parte degli inimici era già passata la Torre, Ercole, camminando lentamente, si condusse appunto alla coda loro nella rovina di San Vincenzio, dove avevano fatto testa gli uomini d'arme e i fanti loro, e come fu in sul piano del passo, investitigli quivi per fianco valorosamente con la metà dello esercito, poiché ebbe combattuto per buono spazio, gli piegò: nel quale primo assalto fu in modo rotta la fanteria loro e spinta insino al mare che mai piú rifece testa. Ma la cavalleria che si era ritirata una arcata, passato il fosso di San Vincenzio verso Bibbona, rifatta testa e ristrettasi, assaltò con grande impeto le genti de' fiorentini e le ributtò ferocemente insino al fosso: però Ercole tirò innanzi il resto delle genti, e ridotto quivi da ogni banda tutto il nervo dello esercito si combatté per grande spazio ferocemente, non inclinando ancora la vittoria a parte alcuna; sforzandosi l'Alviano, che facendo officio non manco di soldato che di capitano aveva avuto con uno stocco due ferite nella faccia, di spuntare da quel passo gl'inimici, il che succedendogli sarebbe restato vincitore. Ma Ercole, che piú dí innanzi aveva affermato che se la battaglia si conduceva in quel luogo otterrebbe con industria e senza pericolo la vittoria, fece piantare in su la ripa del fosso della Torre sei falconetti che conduceva seco; co' quali avendo cominciato a battere gli inimici, e vedendo che per l'impeto delle artiglierie cominciavano già ad aprirsi e disordinarsi, intento a questa occasione in su la quale s'aveva sempre promessa la vittoria, gli investí con grande impeto da piú parti con tutte le forze dello esercito, cioè co' cavalli leggieri per la via della marina, con le genti d'arme per la strada maestra e con la fanteria dal lato di sopra per il bosco; col quale impeto senza alcuna difficoltà gli ruppe e messe in fuga, salvandosi l'Alviano, non senza fatica con pochissimi cavalli corridori, co' quali fuggí a Monteritondo in quel di Siena: il resto della sua gente, da San Vincenzio insino in sul fiume della Cecina, quasi tutta fu presa e svaligiata; perdute tutte le bandiere e salvatisi pochissimi cavalli.

 

Cap. xv

Dopo vivi contrasti, a Firenze si delibera di porre il campo a Pisa. Fallimento dell'impresa per la debolezza delle milizie; i fiorentini levano il campo da Pisa.

Questo esito ebbe il movimento di Bartolomeo d'Alviano, stato piú negli occhi degli uomini per le sue lunghe pratiche e per la iattanza delle sue parole piene di ferocia e di minaccie che per forze o fondamento stabile che avesse la impresa sua. Da questa vittoria preso animo Ercole Bentivoglio e Antonio Giacomini, commissario del campo, confortorono con veementi lettere e spessi messi i fiorentini che l'esercito vincitore si accostasse alle mura di Pisa, fatte prima con piú prestezza fusse possibile le provisioni necessarie per espugnarla; sperando che, per trovarsi in molte difficoltà ed essere mancata loro la speranza della venuta dell'Alviano, e come pare che ogni cosa ceda alla riputazione della vittoria, avesse con non molta difficoltà a ottenersi: nella quale speranza gli nutriva molto qualche intelligenza che avevano in Pisa con alcuni. Ma in Firenze, dimandando il magistrato de' dieci, magistrato proposto alle cose della guerra, consiglio di quello fusse da fare a quegli cittadini co' quali erano consueti di consultare le faccende importanti, fu dannata unitamente da tutti questa deliberazione; perché presupponevano che ne' pisani fusse la consueta durezza, e che essendo esperimentati tanti anni nella guerra non bastasse a superargli il nome e la reputazione della vittoria avuta contro ad altri, per la quale non erano in parte alcuna diminuite le forze loro, ma bisognasse vincergli, come in ogni altro tempo, con le forze, delle quali solamente temono gli uomini bellicosi: e questo apparire pieno di molte difficoltà. Perché essendo la città di Pisa circondata, quanto altra città d'Italia, da solidissime muraglie, e bene riparata e fortificata e difesa da uomini valorosi e ostinati, non si poteva sperare di sforzarla se non con grosso esercito e con soldati che non fussino inferiori di virtú e di valore; il quale anche non sarebbe bastante a vincerla d'assalto o con breve oppugnazione, ma che sarebbe necessitato di starvi intorno molti dí, per accostarsi sicuramente e col prendere de' vantaggi, e quasi piú presto straccandogli che sforzandogli. Repugnare a queste cose la stagione dell'anno, perché né si poteva con prestezza mettere insieme altro che fanteria tumultuaria e collettizia, né accostarvisi con intenzione di fermarsi molto, per la inclemenza dell'aria corrotta da' venti del mare, che diventano pestiferi per i vapori degli stagni e delle paludi, e perniciosa agli eserciti, come era accaduto quando fu campeggiata da Paolo Vitelli; e perché il paese di Pisa comincia insino di settembre a essere sottoposto alle pioggie, dalle quali per la bassezza sua è soprafatto tanto che in quel tempo difficilmente vi si sta intorno. Né in tanta ostinazione universale potersi fare fondamento in trattati o intelligenze particolari, perché o riuscirebbono cose simulate o maneggiate da persone che non arebbono facoltà d'eseguire quello che promettessino. Aggiugnersi che benché al gran capitano non fusse stata data la fede publica, nondimeno avergli pure Prospero Colonna, benché come da sé, quasi con tacito consentimento loro, dato intenzione che per questo anno non si andrebbe con artiglieria alle mura di Pisa; e però aversi a tenere per certo che, commosso da questo sdegno e per le promissioni fatte molte volte a' pisani e perché alle cose sue non espediva questo successo de' fiorentini, si opporrebbe a questa impresa; e avere modo facile di impedirla, potendo in poche ore mettere in Pisa quegli fanti spagnuoli che erano in Piombino, come molte volte avea affermato che farebbe quando si tentasse di espugnarla. Essere piú utile usare l'occasione della vittoria dove, se bene il frutto fusse minore, la facilità senza comparazione fusse maggiore, né perciò non senza notabile profitto. Nessuno essersi piú opposto e opporsi continuamente a' disegni loro, nessuno avere piú impedito la recuperazione di Pisa, nessuno piú procurato di alterare il presente governo, che Pandolfo Petrucci; egli avere confortato il Valentino a entrare armato nel dominio fiorentino, egli essere stato principale consultore e guida dello assalto di Vitellozzo e della rebellione d'Arezzo, essersi mediante i suoi consigli congiunti con lo stato di Siena i genovesi e i lucchesi a sostentare i pisani, egli avere indotto Consalvo a pigliare la protezione di Piombino e a intromettersi di Pisa e a ingerirsi nelle cose di Toscana; e chi altri essere stato stimolatore e fautore di questo moto dell'Alviano? Doversi voltare l'esercito contro a lui, predare e scorrere tutto il contado di Siena, dove non si farebbe resistenza alcuna: potere succedere, con la reputazione dell'armi loro contro a lui, qualche movimento nella città, dove aveva molti inimici; e almeno non essere per mancare occasione di occupare qualche castello importante in quel contado, da tenerlo come per cambio e per pegno di riavere Montepulciano; e quello che non avevano fatto i benefici potersi sperare che facesse questo risentimento, di farlo per lo avvenire procedere con maggiore circospezione all'offese loro. Doversi nel medesimo modo correre poi il paese de' lucchesi, co' quali essere stato pernicioso usare tanti rispetti. Cosí potersi sperare di trarre della vittoria acquistata onore e frutto, ma andando all'oppugnazione di Pisa non si conoscere altro fine che spesa e disonore. Le quali ragioni allegate concordemente non raffreddorno però lo ardore che aveva il popolo (che si governa spesso piú con l'appetito che con la ragione) che vi si andasse a porre il campo; accecato anche da quella opinione inveterata che a molti de' cittadini principali, per fini ambiziosi, non piacesse la recuperazione di Pisa. Nella quale sentenza essendo non meno caldo di tutti gli altri Piero Soderini gonfaloniere, convocato il consiglio grande del popolo, al quale non solevano referirsi queste deliberazioni, dimandò se pareva loro che si andasse col campo a Pisa: dove essendo co' voti quasi di tutti risposto che vi si andasse, superata la prudenza dalla temerità, fu necessario che l'autorità della parte migliore cedesse alla volontà della parte maggiore. Però si attese a fare le provisioni con incredibile celerità, desiderando prevenire non manco il soccorso del gran capitano che i pericoli de' tempi piovosi.

Con la quale celerità, il sesto dí di settembre, si accostò l'esercito con seicento uomini d'arme e settemila fanti sedici cannoni e molte altre artiglierie alle mura di Pisa, ponendosi tra Santa Croce e Santo Michele, nel luogo medesimo dove già si pose il campo de' franzesi; e avendo la notte seguente piantate prestissimamente le artiglierie, batterono il prossimo dí con impeto grande dalla porta di Calci insino al torrone di San Francesco dove le mura fanno dentro uno angolo: e avendo, da levata di sole, al quale tempo cominciorno a tirare l'artiglierie, insino a venti una ora rovinate piú di trenta braccia di muraglia, si fece dove era rovinato una grossa scaramuccia, ma con poco profitto, per non essere tanto spazio di muro in terra quanto sarebbe stato necessario a una terra dove gli uomini si erano presentati alla difesa col consueto animo e valore. Però la mattina seguente, per avere piú muro aperto, si cominciò un'altra batteria in luogo poco distante, restando in mezzo dell'una e dell'altra batteria quella parte della muraglia che già era stata battuta da' franzesi; e gittato in terra tanto muro quanto parve che fusse abbastanza, volle Ercole spingere le fanterie, che erano ordinate in battaglia, a dare gagliardamente lo assalto all'una e l'altra parte del muro rovinato; ove i pisani, lavorandovi, secondo il solito, con non minore animo le donne che gli uomini, aveano, mentre si batteva, tirato uno riparo con uno fosso innanzi. Ma non era nelle fanterie italiane, e raccolte tumultuariamente, tanto animo e tanta virtú. Però, cominciando per viltà a recusare di appresentarsi alla muraglia quello colonnello di fanti a' quali, per sorte gittata tra loro, aspettava il primo assalto, né l'autorità né i prieghi del capitano e del commissario fiorentino, né il rispetto dell'onore proprio né dell'onore comune della milizia italiana, furono bastanti a fargli andare innanzi. L'esempio de' quali seguitando gli altri che avevano ad appresentarsi dopo loro, si ritirorono le genti agli alloggiamenti: non avendo fatto altro che, col farsi i fanti italiani infami per tutta Europa, corrotta la felicità della vittoria ottenuta contro all'Alviano, e annichilata la reputazione del capitano e del commissario, che appresso a' fiorentini era grandissima, se contenti della gloria acquistata avessino saputo moderare la prospera fortuna. Ritirati agli alloggiamenti, non fu dubbia la deliberazione del levare il campo; massime che il dí medesimo erano entrati in Pisa, per comandamento avuto dal gran capitano, secento fanti spagnuoli di quegli che erano a Piombino. Però il dí seguente l'esercito fiorentino si ritirò a Cascina, con grandissimo disonore, e pochi dí poi entrorno di nuovo in Pisa mille cinquecento fanti spagnuoli; i quali, poiché non era necessario il presidio loro, dato che ebbono per suggestione de' pisani uno assalto invano alla terra di Bientina, continuorono la navigazione sua in Ispagna: dove erano mandati dal gran capitano, perché già era fatta la pace tra il re di Francia e Ferdinando re di Spagna.

Cap. xvi

Matrimonio di Ferdinando d'Aragona con Germana di Fois e patti di pace tra Ferdinando e il re di Francia. Ippolito d'Este fa levare gli occhi al fratello naturale don Giulio per gelosia d'amore.

Alla quale, rimosse tutte le difficoltà che prima avevano impedito, cioè il rispetto dell'onore del re di Francia e il timore di non alienare da sé l'animo dell'arciduca, aveva trovato modo facile la morte della reina di Spagna: perché e il re di Francia, essendogli molestissima la troppa grandezza sua, era desideroso di interrompergli i suoi disegni; e il re di Spagna, avendo notizia che l'arciduca, disprezzando il testamento della suocera, aveva in animo di rimuoverlo dal regno di Castiglia, era necessitato a fondarsi con nuove congiunzioni. Però si contrasse matrimonio tra lui e madama Germana di Fois, figliuola di una sorella del re di Francia, con condizione che il re gli desse in dote la parte che gli toccava del reame di Napoli; obligandosi il re di Spagna a pagargli in dieci anni settecentomila ducati per ristoro delle spese fatte, e a dotare in trecentomila ducati la nuova moglie. Col quale matrimonio essendo accompagnata la pace, fu convenuto: che i baroni angioini e tutti quegli che avevano seguitato la parte franzese fussino restituiti senza pagamento alcuno alla libertà alla patria e a loro stati degnità e beni, nel grado medesimo che si trovavano essere nel dí che tra franzesi e spagnuoli fu dato principio alla guerra, che si dichiarò essere stato il dí che i franzesi corsono alla Tripalda; intendessinsi annullate tutte le confiscazioni fatte dal re di Spagna e dal re Federigo: fusse liberato il principe di Rossano i marchesi di Bitonto e di Giesualdo, Alfonso e Onorato Sanseverini e tutti gli altri baroni che erano prigioni degli spagnuoli nel regno di Napoli: che il re di Francia deponesse il titolo del regno di Ierusalem e di Napoli: che gli omaggi e le recognizioni de' baroni si facessino respettivamente alle convenzioni sopradette, e nel medesimo modo si cercasse l'investitura dal pontefice; e morendo la reina Germana in matrimonio senza figliuoli la parte sua dotale si intendesse acquistata a Ferdinando, ma sopravivendo a lui ritornasse alla corona di Francia: fusse obligato il re Ferdinando ad aiutare Gastone conte di Fois, fratello della nuova moglie, al conquisto del regno di Navarra quale pretendeva appartenersegli, posseduto con titolo regio da Caterina di Fois e da Giovanni figliuolo di Alibret suo marito: costrignesse il re di Francia la moglie vedova del re Federigo a andare, con due figliuoli che erano appresso a sé, in Spagna, dove gli sarebbe assegnato onesto modo di vivere; e non volendo andarvi, la licenziasse del regno di Francia, non dando piú né a lei né a' figliuoli provisione o intrattenimento alcuno: proibito all'una parte e all'altra di fare contro a' nominati da ciascuno di loro; i quali nominorono tutt'a due in Italia il pontefice, e il re di Francia nominò i fiorentini: e, a corroborazione della pace, che tra i due re si intendesse essere perpetua confederazione a difesa degli stati; essendo tenuto il re di Francia con mille lancie e con seimila fanti, e Ferdinando con trecento lancie dumila giannettari e seimila fanti. Dopo la qual pace fatta, della quale il re d'Inghilterra promesse per l'una parte e per l'altra l'osservanza, i baroni angioini che erano in Francia, licenziatisi dal re, il quale per la tenacità sua usò loro alla partita piccoli segni di gratitudine, andorono quasi tutti con la reina Germana in Spagna; e Isabella, stata moglie di Federigo, licenziata del regno dal re di Francia perché ricusò di mettere i figliuoli in potestà del re cattolico, se ne andò a Ferrara.

Nella quale città, essendo poco innanzi morto Ercole da Esti e succedutogli nel ducato Alfonso suo figliuolo, accadde, alla fine dell'anno, uno atto tragico simile a quegli degli antichi tebani, ma per cagione piú leggiera, se piú leggiero è l'impeto sfrenato dell'amore che l'ambizione ardente del regnare. Perché essendo Ippolito da Esti cardinale innamorato ardentemente d'una giovane sua congiunta, la quale con non minore ardore amava don Giulio fratello naturale di Ippolito, e confessando ella medesima a Ippolito tirarla sopra tutte l'altre cose a sí caldo amore la bellezza degli occhi di don Giulio, il cardinale infuriato, aspettato il tempo comodo che Giulio fusse a caccia fuora della città lo circondò in campagna, e fattolo scendere da cavallo gli fece da alcuni suoi staffieri, bastandogli l'animo a stare presente a tanta sceleratezza, cavare gli occhi come concorrenti del suo amore: donde tra' fratelli poi seguitorono gravissimi scandoli. Cosí si terminò l'anno mille cinquecento cinque.

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