Francesco Guicciardini

STORIA D'ITALIA

Volume undicesimo





Cap. i

Vane trattative, a Roma, fra il pontefice e il duca di Ferrara. Il duca con l'aiuto dei Colonna abbandona Roma. Milizie fiorentine svaligiate da soldati veneziani. Scacco dei francesi alla villa di Paterna. Difficili condizioni del regno di Francia assalito dagli inglesi.

Rimaneva al pontefice, poi che nelle maggiori sue avversità e pericoli ebbe, con successo non sperato, ottenuta la vittoria degli inimici e ricuperato e ampliato il dominio della Chiesa, l'antica cupidità della città di Ferrara, la quale era stata la prima materia di tanto incendio: contro alla quale benché ardentemente desiderasse di volgere l'armi, nondimeno, o parendogli piú facile la via della concordia che della guerra o sperando piú nelle arti occulte che nell'opere aperte, prestò l'orecchie prima al marchese di Mantua, che lo supplicava a concedere ad Alfonso da Esti che andasse a dimandargli venia a Roma per riceverlo con qualche onesta condizione nella sua grazia, dipoi all'oratore del re d'Aragona, che pregava per lui come per parente del suo re (era Alfonso nato di una figliuola di Ferdinando vecchio re di Napoli), e perché alle cose del re era piú a proposito l'obligarselo con tanto beneficio che permettere che alla grandezza della Chiesa si aggiugnesse anche quello stato. Affaticavansi medesimamente i Colonnesi, divenuti amicissimi di Alfonso, perché, avendo il re di Francia dopo la giornata di Ravenna dimandatogli Fabrizio Colonna suo prigione, aveva, prima negando dipoi interponendo varie scuse, differito tanto a concederlo, che per la mutazione succeduta delle cose, era stato in potestà sua rendergli gratissimamente e senza alcuno peso la libertà. Andò adunque Alfonso a Roma, ottenuto salvocondotto dal pontefice, e per maggiore sicurtà la fede datagli, col consentimento del pontefice, in nome del re d'Aragona dal suo oratore, d'andare e ritornare sicuramente: dove poi che fu pervenuto, avendo il pontefice sospese le censure, ammesso nel concistorio, dimandò umilmente perdonanza; supplicando con la medesima sommissione di essere reintegrato nella sua grazia e della sedia apostolica, e offerendo volere continuamente fare tutte quelle opere che appartenevano a fedelissimo feudatario e vassallo della Chiesa. Udillo assai benignamente il pontefice, e deputò sei cardinali a trattare seco le condizioni della concordia: i quali, poi che piú dí fu disputato, gli aperseno che non intendeva il papa in modo alcuno privare la Chiesa della città di Ferrara poi che legittimamente gli era ricaduta, ma che in ricompenso gli darebbe la città d'Asti, la quale, ricevuta per la partita de' franzesi in potestà della lega, il pontefice, pretendendo appartenersi alla Chiesa tutto il di qua da Po, aveva mandato benché invano il vescovo agrigentino a prenderne il possesso. La qual cosa negando Alfonso costantemente, cominciò, per questa dimanda tanto diversa dalle speranze dategli, né meno per quel che di nuovo era succeduto a Reggio, a temere che il pontefice non lo intrattenesse artificiosamente in Roma per assaltare nel tempo medesimo Ferrara.

Aveva il pontefice invitati i reggiani, i quali in tanta confusione delle cose non mediocremente temevano, che seguitando l'esempio de' parmigiani e de' piacentini si dessino alla Chiesa, e ordinato che, perché fussino piú efficaci i conforti suoi, il duca d'Urbino con le genti venisse nel modonese. Tentava il medesimo per Cesare Vitfrust, andato personalmente in Reggio; e il cardinale da Esti, il quale assente il fratello aveva la cura del suo stato, conoscendo non potere conservare quella città, e giudicando essere meno pernicioso allo stato loro che venisse in potestà di Cesare, il quale non pretendeva a Ferrara e nelle cui cose si poteva sperare maggiore varietà, confortava i reggiani a riconoscere piú presto il nome dello imperio: ma essi, rispondendo volere seguitare l'esempio del duca che era andato al pontefice non a Cesare, introdussono nella terra le genti della Chiesa; le quali con arte occuporno ancora la cittadella, con tutto che Vitfrust vi avesse già messi alcuni de' suoi fanti. Arrendessi similmente al duca d'Urbino la Carfagnana: il quale dipoi, ritornato a Bologna, licenziò tutti i fanti; perché, essendo stato molestissimo a' collegati che il pontefice avesse occupata Parma e Piacenza, fece il cardinale sedunense intendere al duca non essere necessario che, poi che era ottenuta la vittoria contro a' comuni inimici, passasse piú innanzi. Ma dalla durezza del pontefice e dall'occupazione di Reggio insospettito non mediocremente dimandò al papa per mezzo dell'oratore spagnuolo e di Fabrizio Colonna, il quale era stato con lui in Roma continuamente, di ritornarsene a Ferrara: alla quale dimanda egli mostrandosi renitente, e affermando non nuocere il salvocondotto conceduto, per la differenza che aveva con la Chiesa, a' creditori particolari, de' quali molti lo ricercavano che amministrasse loro giustizia, risposono apertamente, l'oratore e Fabrizio, che non si persuadesse che al duca e a loro avesse a essere violata la fede; e la mattina seguente, per prevenire se il papa volesse fare nuove provisioni, Fabrizio montato a cavallo andò verso il portone di San Giovanni in Laterano, seguitandolo non molto da lontano il duca e Marcantonio Colonna. Trovò il portone guardato da molti piú che non era consueto, i quali contradicendogli che non passasse, egli piú potente di loro, aspettato il duca in sulla porta, lo condusse sicuro a Marino; ricompensato, come comunemente si credeva, il beneficio della libertà ricevuta da lui: perché niuno dubitò che il pontefice, se non fusse stato impedito da' Colonnesi, l'arebbe incarcerato. Donde, essendogli impedito il cammino per terra, ritornò non molto poi per mare a Ferrara.

Aveva anche, mentre che queste cose si facevano, procurato con Sedunense il pontefice, acceso come prima dall'odio contro alla libertà de' fiorentini, che le genti che aveano concedute al re di Francia fussino svaligiate; delle quali quelle che sotto Luca Savello erano con l'esercito, in numero di cento vent'uomini d'arme e sessanta cavalli leggieri (perché Francesco Torello con l'altre era rimasto alla custodia di Brescia), avevano, innanzi che i franzesi passassino il fiume del Po, ottenuto il salvocondotto da Sedunense e la fede da Giampaolo Baglione e quasi tutti i condottieri viniziani di potere ritornarsene in Toscana: ma essendo, secondo la norma ricevuta da essi, alloggiati a [Cremona], i soldati viniziani con consentimento di Sedunense gli svaligiorno; il quale, secondo che alcuni affermano, vi mandò, perché piú sicuramente potessino farlo, dumila fanti: atteso che insieme con essi alloggiavano le compagnie de' Triulzi e del grande scudiere, le quali per essere quasi tutte di soldati italiani aveano, medesimo, ottenuto salvocondotto di passare. Svaligiate che furno, mandò subito Sedunense a dimandare a Cristofano Moro e a Polo Cappello proveditori del senato la preda fatta, come appartenente a svizzeri; i quali non la concedendo, e andando un dí poi nel campo de' svizzeri per parlare a Sedunense, furno quasi come prigioni menati a Iacopo Stafflier loro capitano, e da lui condotti al cardinale furno costretti promettere in ricompenso della preda seimila ducati, non parendo conveniente che d'altri fusse il premio della sua perfidia: con la quale cercò anche che Niccolò Capponi oratore fiorentino, il quale ritiratosi a Casal Cervagio avea ottenuto salvocondotto da lui, gli fusse dato prigione dal marchese di Monferrato.

Stimolava in questo mezzo il senato, desideroso di attendere alla recuperazione di Brescia e di Crema, che le sue genti ritornassino; le quali il cardinale intratteneva sotto colore che andassino insieme co' svizzeri nel Piemonte contro al duca di Savoia e il marchese di Saluzzo, che aveano seguitato le parti del re di Francia. Ma essendo dipoi cessata questa cagione, per la moltiplicazione grande del numero de' svizzeri e perché manifestamente si sapeva che i soldati franzesi passavano di là da' monti, non consentiva né dinegava si partissino; il che si dubitava procedesse per instanza fatta da Cesare, acciò che essi non recuperassino quelle terre. Finalmente, essendo i svizzeri in Alessandria, i viniziani partitisi dal Bosco allo improviso passorno senza ostacolo alcuno il Po alla Cava nel Cremonese; dissimulando, come si credette, a requisizione del pontefice, il cardinale, il quale è certo gli arebbe potuti impedire. Passato il Po si divisono, parte contro a Brescia parte contro a Crema custodite per il re di Francia; ma avendo i franzesi che erano in Brescia assaltatigli alla villa di Paterna, perduti piú di trecento uomini, furno costretti a ritirarsi dentro: e i svizzeri rimasti soli nel ducato di Milano e nel Piemonte attendevano a taglieggiare tutto il paese, sicuri interamente de' franzesi. Perché se bene il re di Francia, per la affezione intensa che aveva alla ducea di Milano, malvolentieri si disponesse a lasciare del tutto le cose di Italia abbandonate, nondimeno la necessità lo costrinse a prestare fede al consiglio di coloro che lo confortorono che, differito ad altro tempo questo pensiero, attendesse per quella state a difendere il regno di Francia: conciossiaché il re d'Inghilterra, secondo le convenzioni fatte col re cattolico, aveva mandato per mare seimila fanti inghilesi a fonterabia, terra del regno di Spagna posta in sul mare Oceano, acciò che congiunti con le genti di quel re assaltassino il ducato di Ghienna, e oltre a questo cominciava a infestare con armata di mare le coste di Normandia e di Brettagna con spavento grande de' popoli; né di ritirare piú Cesare all'amicizia sua restava speranza alcuna, perché per relazione del vescovo di Marsilia, stato a lui suo imbasciadore, intendeva avere l'animo alienissimo da lui; né per altro avergli dato molte speranze e trattate seco tante cose con somma simulazione che per avere occasione di opprimerlo incauto, o almeno percuoterlo con uno colpo quasi mortale, come nella revocazione de' fanti tedeschi si gloriava d'avere fatto.

Cap. ii

Aspirazioni diverse dei collegati; favori del pontefice agli svizzeri. Avversione procuratasi dai fiorentini con la neutralità. Loro incertezza e timori di fronte ai collegati. I francesi consegnano Legnago al cardinale Gurgense, ed i veneziani occupano Bergamo. Accordi fra i collegati contro Firenze.

Assicurata adunque per questo anno Italia dall'armi del re di Francia, dalle cui genti ancora si guardavano Brescia Crema e Lignago, il Castelletto e la Lanterna di Genova, il castello di Milano quello di Cremona e alcune altre fortezze di quello stato, apparivano segni di diffidenza e disunione tra' collegati, essendo molto varie le volontà e i fini loro. Desideravano i viniziani ricuperare Brescia e Crema, debite per le capitolazioni, e per l'avere tanto sopportato de' pericoli e delle molestie della guerra; il che medesimamente desiderava per loro il pontefice: Cesare, da altra parte, dalla cui volontà non poteva finalmente separarsi il re d'Aragona, pensava d'attribuirle a sé, e oltre a questo a spogliare i viniziani di tutto quello che gli era stato aggiudicato per la lega di Cambrai. Trattavano Cesare e il medesimo re, ma con occulti consigli, che il ducato di Milano pervenisse in uno de' nipoti comuni. In contrario, s'affaticavano scopertamente il pontefice e i svizzeri perché nel grado paterno fusse restituito, come sempre si era ragionato da principio, Massimiliano figliuolo di Lodovico Sforza; il quale dopo la ruina del padre era dimorato continuamente nella Germania: mosso il pontefice perché Italia non cadesse interamente in servitú tedesca e spagnuola, [i svizzeri] perché per l'utilità propria desideravano che quello stato non fusse dominato da príncipi tanto potenti, ma da chi non potesse reggersi senza gli aiuti loro: la qual cosa dependendo quasi del tutto da' svizzeri, in potestà de' quali era quello stato, e per il terrore delle loro armi, il pontefice per confermargli in questa volontà, e per avere in tutte le cose parato questo freno col quale potesse moderare l'ambizione di Cesare e del re cattolico, usava ogni industria e arte per farsegli benevoli. Perciò, oltre all'esaltare publicamente il valore della nazione elvezia insino alle stelle e magnificare l'opere fatte per la salute della sedia apostolica, aveva per onorargli donate loro le bandiere della Chiesa e intitolatogli, con nome molto glorioso, ausiliatori e difensori della libertà ecclesiastica. Aggiugnevasi agli altri dispareri che, avendo il viceré rimesse in ordine le genti spagnuole che dopo la rotta si erano insieme con lui ritirate tutte nel reame, e movendosi per passare con esse in Lombardia, negavano il pontefice e i viniziani di riassumere il pagamento de' quarantamila ducati il mese intermesso dopo la rotta, allegando che per l'avere l'esercito franzese passato di là da' monti non erano piú sottoposti a quella obligazione, la quale terminava, secondo i capitoli della confederazione, ogni volta che i franzesi fussino cacciati di Italia; e a questo si replicava, in nome del re d'Aragona, non si potere dire cacciato il re di Italia mentre che erano in potestà sua Brescia, Crema e tante fortezze. Querelavasi oltre a questo insieme con Cesare che il pontefice, a sé proprio i premi della vittoria comune attribuendo e quel che ad altri manifestamente apparteneva usurpando, avesse, con ragioni o finte o consumate dalla vecchiezza, occupate Parma e Piacenza, città possedute lunghissimo tempo da quegli che aveano dominato a Milano come feudatari dello imperio. Appariva similmente diversità d'animi nelle cose del duca di Ferrara, ardendo il pontefice della medesima cupidità, e da altra parte desiderando il re d'Aragona di salvarlo, sdegnato ancora che (come si credeva) fusse stato tentato di ritenerlo in Roma contro alla fede data; onde il pontefice soprasedeva dal molestare Ferrara, aspettando per avventura che prima si componessino le cose maggiori: nella determinazione delle quali volendo [Cesare] intervenire, mandava in Italia il vescovo Gurgense, destinato a venirvi insino quando dopo la giornata di Ravenna si trattava la pace tra 'l pontefice e il re di Francia, perché temeva non si facesse tra loro senza avere in considerazione gli interessi suoi; ma succeduta poi la mutazione delle cose continuò nella deliberazione di mandarlo.

Venivano similmente in considerazione le cose de' fiorentini, i quali pieni di sospetto cominciavano a sentire i frutti della neutralità usata improvidamente, e a conoscere non essere sufficiente presidio l'abbondare la giustizia della causa dove era mancata la prudenza. Perché nella presente guerra non aveano offeso i collegati, né prestato al re di Francia aiuto alcuno se non quanto erano tenuti alla difesa del ducato di Milano per la confederazione fatta comunemente col re cattolico e con lui; non aveano permesso fussino molestati nel dominio loro i soldati spagnuoli fuggiti della battaglia di Ravenna (della qual cosa il re d'Aragona proprio aveva rendute grazie all'imbasciadore fiorentino), anzi aveano interamente adempiuto co' fatti le sue dimande: perché, poi che partí il concilio da Pisa, e i ministri suoi in Italia e il re medesimo aveva offerto allo imbasciadore di obligarsi a difendere la loro republica contro a ciascuno, pure che si promettesse non difendere Bologna non muovere l'armi contro alla Chiesa né dare favore al conciliabolo pisano. Ma essi, impediti dalle discordie civili a eleggere la parte migliore, né si accompagnorno col re di Francia, alle cose del quale arebbono giovato sommamente, e la neutralità, di giorno in giorno e con consigli ambigui e interrotti, osservando ma non mai unitamente deliberando né di volerla osservare dichiarando, offesono non mediocremente l'animo del re di Francia il quale da principio si prometteva molto di loro, l'odio del pontefice non mitigorno, e al re d'Aragona lasciorno senza averne alcun ricompenso godere il frutto della loro neutralità, il quale per ottenere arebbe cupidamente convenuto con loro.

Dunque il pontefice, stimolato dall'odio contro al gonfaloniere, dal desiderio antico di tutti i pontefici d'avere autorità in quella republica, faceva instanza perché si tentasse di restituire nella pristina grandezza la famiglia de' Medici: alla qual cosa, benché con lo imbasciadore fiorentino usasse parole diverse da' fatti, inclinava medesimamente, ma non già con tanto ardore, il re d'Aragona, per sospetto che in qualunque movimento non inclinassino per l'autorità del gonfaloniere al favore del re di Francia; anzi si sospettava che, eziandio rimosso il gonfaloniere, la republica governata liberamente avesse, per le dependenze fresche e antiche, la medesima affezione. Ma e la deliberazione di questa cosa si riservava, insieme coll'altre, alla venuta di Gurgense, con cui era deliberato convenissino in Mantova il viceré e i ministri degli altri collegati. Il quale mentre veniva, mandò il pontefice a Firenze Lorenzo Pucci fiorentino, suo datario (quel che poi eletto al cardinalato si chiamò il cardinale di Santi Quattro) a ricercare, insieme con l'oratore che vi teneva il viceré, che si aderissino alla lega, contribuendo alle spese contro a franzesi: questo era il colore della sua venuta, ma veramente lo mandava per esplorare gli animi de' cittadini. Sopra la quale dimanda trattata molti dí non si faceva alcuna conclusione, offerendo i fiorentini di pagare a' confederati certa quantità di danari ma rispondendo dubiamente sopra la dimanda dell'entrare nella lega e dichiararsi contro al re: della quale ambiguità era in parte cagione il credere (come era vero) che queste cose si proponessino artificiosamente, ma molto piú la risposta fatta a Trento dal vescovo Gurgense all'oratore il quale aveano mandato a rincontrarlo; perché, mostrando non tenere conto di quello gli era ricordato (Cesare, per la capitolazione fatta a Vicenza per mano sua, essere tenuto alla loro difesa) affermava, il pontefice avere in animo di molestargli, e che pagando a Cesare quarantamila ducati gli libererebbe da questo pericolo: aggiugneva durare ancora la confederazione tra Cesare e il re di Francia, però gli confortava a non entrare nella lega insino a tanto non vi entrava Cesare. Non sarebbeno stati i fiorentini alieni da ricomperare con danari la loro quiete; ma dubitando che il nome solo di Cesare, ancora che Gurgense affermasse che la volontà sua seguiterebbono gli spagnuoli, non bastasse a rimuovere la mala intenzione degli altri, stavano sospesi, per potere con consiglio piú maturo porgere gli unguenti a chi potesse giovare alla loro infermità. Era forse questo considerato prudentemente; ma procedeva o da imprudenza o dalle medesime contenzioni, o da confidare piú che non si doveva nell'ordinanza de' fanti del suo dominio, il non si provedere di soldati esercitati, i quali sarebbono stati utili a potersi piú agevolmente difendere da uno assalto subito o a facilitare almeno il convenire co' collegati, quando avessino conosciuto essere difficile lo sforzargli.

Le quali cose mentre che si trattavano era già il viceré pervenuto co' soldati spagnuoli nel bolognese; nel quale luogo mancandogli la facoltà di pagare i danari promessi a' fanti, corsono con tanto tumulto allo alloggiamento suo minacciando di ammazzarlo che a fatica ebbe tempo di fuggirsene occultamente andando verso Modona: una parte de' fanti si voltò verso il paese de' fiorentini, gli altri non mutorno alloggiamento ma stando senza legge senza ordine senza imperio; pure dopo tre o quattro dí, quietati, con una parte de' danari promessi, gli animi loro, e ritornati il viceré e tutti i fanti all'esercito, promessono aspettarlo nel luogo medesimo insino a tanto ritornasse da Mantova, ove già era pervenuto, Gurgense. Al quale, quando passava per il veronese, i franzesi che guardavano Lignago, rifiutate molte offerte de' viniziani, aveano data quella terra che da loro non si poteva piú tenere; per comandamento, secondo che si crede, fatto prima da la Palissa cosí a loro come a tutti quegli che guardavano l'altre terre, a fine di nutrire la discordia tra Cesare e i viniziani: benché questo a' soldati succedette infelicemente, perché usciti di Lignago furno, non avuto rispetto al salvocondotto ottenuto da Gurgense, depredati dalle genti viniziane che erano intorno a Brescia, ove quando ritornorno dal Bosco, ricuperato senza fatica Bergamo, si erano fermate ma non combattevano la città, perché (secondo si diceva) era stato proibito loro dal cardinale sedunense.

Nella congregazione di Mantova si determinò che nel ducato di Milano venisse Massimiliano Sforza, desiderato ardentemente da' popoli, concedendolo Cesare e il re d'Aragona, per la volontà costantissima del pontefice e de' svizzeri; e che il tempo e il modo si stabilisse da Gurgense col pontefice: al quale doveva andare per stabilire amicizia tra Cesare e lui e per trattare la concordia co' viniziani, e per mezzo dell'unione comune confermare la sicurtà di Italia dal re di Francia. Trattossi nella medesima dieta d'assaltare i fiorentini, facendone instanza, in nome suo e del cardinale, Giuliano de' Medici, e proponendo facile la mutazione di quello stato per le divisioni de' cittadini, perché molti desideravano il ritorno loro, e per occulto intendimento che (secondo affermava), v'aveano con alcune persone nobili e potenti, e perché i fiorentini, dissipata una parte de' loro uomini d'arme in Lombardia, un'altra parte rinchiusa in Brescia, non aveano forze sufficienti a difendersi contro a uno assalto tanto repentino. Dimostrava il frutto che, oltre a' danari che offeriva, risulterebbe della loro restituzione; perché la potenza di quella città, levata di mano di uno che dependeva interamente dal re di Francia, perverrebbe in mano di persone che, offese e ingiuriate da quegli re, non riconoscerebbono altra dependenza e congiunzione che quella de' collegati: del medesimo in nome del pontefice si affaticava Bernardo da Bibbiena che fu poi cardinale, mandato dal pontefice per questa cagione, ma nutrito insieme co' fratelli insino da puerizia nella casa de' Medici. Era imbasciadore appresso a Gurgense Giovanvettorio Soderini giurisconsulto, fratello del gonfaloniere; al quale né dal viceré né in nome della lega era detta o dimandata cosa alcuna, ma il vescovo Gurgense, dimostrando questi pericoli, persuadeva a convenire con Cesare secondo le dimande fatte prima, e offerendo che Cesare e il re d'Aragona gli riceverebbono in protezione: ma lo imbasciadore, [non] avendo autorità di convenire, non poteva se non significare alla republica e aspettare le risposte; né per lui né per altri si faceva instanza col viceré, né diligenza di interrompere le proposte de' Medici. E nondimeno la cosa in se medesima non mancava di molte difficoltà: perché il viceré non aveva esercito tanto potente che, se non fusse necessitato, dovesse volentieri esperimentare le forze sue; e Gurgense, per impedire che i viniziani non recuperassino Brescia o facessino maggiori progressi, desiderava che gli spagnuoli passassino quanto piú presto si poteva in Lombardia. Però si crede che se i fiorentini, ponendo da parte il negoziare con vantaggi e con risparmio, come ricercavano gli imminenti pericoli, avessino consentito di dare a Cesare i danari dimandati, e aiutato con qualche somma di danari il viceré costituito in somma necessità, arebbono facilmente schifata questa tempesta; e che Gurgense e il viceré arebbono per avventura convenuto piú volentieri con la republica, la quale erano certi che attenderebbe le cose promesse, che co' Medici i quali non potevano dare cosa alcuna se prima non ritornavano coll'armi in Firenze. Ma essendo, o per negligenza o per malignità degli uomini, abbandonata quasi del tutto la causa di quella città, fu deliberato che l'esercito spagnuolo, col quale andassino il cardinale e Giuliano de' Medici, si volgesse verso Firenze; chiamasse il cardinale, il quale il pontefice dichiarava in questa espedizione legato della Toscana, i soldati della Chiesa e quegli che piú gli paressino a proposito delle terre vicine.

Cap. iii

Milizie spagnuole, condottieri pontifici ed i Medici contro la repubblica fiorentina. Ambasceria dei fiorentini al viceré e richieste di questo. Preparativi di difesa a Firenze e tentativi di accordi col pontefice. Dispareri in Firenze per le richieste del viceré, convocazione del consiglio maggiore e discorso del gonfaloniere; deliberazione del consiglio; il viceré sotto Prato; sua inclinazione agli accordi.

Espedite le cose della dieta, il viceré tornato nel bolognese mosse subito le genti contro a' fiorentini; a' quali il non avere prima saputo quel che a Mantova si fusse deliberato aveva lasciato brevissimo spazio di tempo a fare i provedimenti necessari. Congiunsesi con lui, già vicino a' confini, il cardinale; il quale, non avendo gli spagnuoli artiglierie da battere le muraglie, aveva fatto muovere da Bologna [due] cannoni; e a lui erano venuti Franciotto Orsino e i Vitelli condottieri della Chiesa ma senza le compagnie loro, perché e a loro e agli altri soldati della Chiesa l'aveva vietato il duca di Urbino: il quale, con tutto che nella corte sua fusse stato nutrito qualche anno Giuliano de' Medici e che sempre avesse fatto professione di desiderare la grandezza loro, aveva negato, quale si fusse la cagione, di accomodargli d'artiglierie e di aiuto alcuno de' soldati e sudditi suoi, e non ostante che il pontefice a lui e a' sudditi delle terre vicine della Chiesa avesse con ampli brevi comandato il contrario.

Al viceré, subito che fu entrato nel dominio fiorentino, venne uno imbasciadore della republica; il quale dimostrando l'osservanza avuta sempre al re d'Aragona, quali fussino state l'azioni loro nella prossima guerra, e quel che il suo re potesse sperare da quella città ricevendola nella sua amicizia, lo pregò che innanzi procedesse piú oltre significasse quello che ricercava da' fiorentini, perché alle dimande convenienti e che fussino secondo le forze loro gli sarebbe liberalmente corrisposto. Rispose: non essere la sua venuta deliberata solamente dal re cattolico ma da tutti i confederati, per la sicurtà comune d'Italia; conciossiaché, mentre che il gonfaloniere stava in quella amministrazione, niuna sicurtà si poteva avere che in qualunque occasione non seguitassino il re di Francia. Perciò, in nome di tutti, dimandare che il gonfaloniere fusse privato del magistrato, e si costituisse forma di governo che non fusse sospetta a' confederati; il che non poteva essere se il cardinale e Giuliano de' Medici non erano restituiti nella patria: le quali cose consentite sarebbono facilmente concordi nell'altre. Però andasse a referire o altrimenti significasse a Firenze la mente sua, ma non volere insino venisse la risposta soprasedere.

A Firenze, intesa la venuta degli spagnuoli e persuadendosi che da altra parte gli avessino ad assaltare le forze del pontefice, era in tutta la città grandissimo spavento, temendosi della divisione de' cittadini e della inclinazione di molti a cose nuove: avevano poche genti d'arme, non fanterie se non o fatte tumultuosamente o raccolte delle loro ordinanze, la maggiore parte delle quali non era esperimentata alla guerra; non alcuno capitano eccellente nella virtú o autorità del quale potessino riposarsi; gli altri condottieri tali, che mai alla memoria degli uomini erano stati di minore espettazione agli stipendi loro. Nondimeno, provedendo sollecitamente quanto in tanta brevità di tempo potevano, raccoglievano le genti d'arme divise in vari luoghi, soldavano fanti ma tali quali si potevano avere, e scegliendo le piú utili bande di tutte l'ordinanze riducevano tutto lo sforzo a Firenze, per sicurtà della città e per provedere di quivi i luoghi dove si voltassino gli inimici. Né mancando di tentare, benché tardi, la via dell'accordo, oltre a quello che continuamente per l'oratore si trattava col viceré, scrisseno al cardinale di Volterra, che era a Gradoli in terra di Roma che trasferitosi al pontefice si ingegnasse, con offerte con prieghi con ogni arte, di placarlo. Il quale indurato (ma co' fatti contrari alle parole) rispondeva questa non essere impresa sua e farsi senza sue genti, ma che per non si provocare contro tutta la lega era stato costretto a consentirla, e comportare che il cardinale de' Medici facesse condurre l'artiglierie di Bologna: non avere potuto ovviare innanzi che la si cominciasse, molto meno poterla rimuovere poiché era già cominciata.

Il viceré intratanto disceso delle montagne a Barberino, terra lontana quindici miglia a Firenze, mandò per uno uomo suo a significare non essere intenzione della lega alterare né il dominio né la libertà della città, pure che, per la sicurtà d'Italia, si rimovesse il gonfaloniere del magistrato; desiderare che i Medici potessino godere la patria, non come capi del governo ma come privati e per vivere sotto le leggi e sotto i magistrati, simili in tutte le cose agli altri cittadini: la quale proposta essendo palese a tutta la città erano varie le opinioni degli uomini, come sono vari i giudíci, le passioni e il timore. Biasimavano alcuni che, per il rispetto di uno solo, si avesse a esporre tutta l'universalità de' cittadini e tutto il dominio a tanto pericolo; atteso che per la deposizione sua dal magistrato non si perdeva o il consiglio popolare o la libertà publica, la quale non sarebbe difficile conservare da' Medici, spogliati di riputazione e di facoltà, quando volessino eccedere il grado privato: doversi considerare in che modo potesse resistere la città all'autorità e alle forze di tanta lega; sola non essere bastante, Italia tutta inimica, perduta interamente la speranza di essere soccorsi da' franzesi; i quali, abbandonata vilmente Italia, avevano che fare a difendere il reame loro, e consci della loro debolezza avevano alle dimande fatte da' fiorentini risposto essere contenti che si facesse accordo con la lega. Altri in contrario dicevano essere cosa ridicola a credere che tanto moto si facesse per odio solamente del gonfaloniere, o perché i Medici potessino stare in Firenze come privati cittadini; altra essere la intenzione de' collegati, i quali, per avere la città unita alle voglie loro e poterne trarre quantità grandissime di danari, non avevano altro fine che collocare i Medici nella tirannide ma palliare la loro intenzione con dimande meno acerbe, le quali contenevano nondimeno l'effetto medesimo. Perché, che significare altro il rimuovere in questo tempo, con le minaccie e con lo spavento delle armi, il gonfaloniere di palagio, che lasciare la gregge smarrita senza pastore? che altro, entrare in Firenze i Medici in tanto tumulto, che alzare uno vessillo il quale seguitassino coloro che non pensavano ad altro che a spegnere il nome la memoria le vestigie del consiglio grande? il quale annullato era annullata la libertà; e come si potrebbe ovviare che i Medici, accompagnati fuora dall'esercito spagnuolo e seguitati dentro dagli ambiziosi e sediziosi, non opprimessino, il dí medesimo che entrassino in Firenze, la libertà? Doversi considerare quel che potessino partorire i princípi delle cose e il cominciare a cedere alle dimande ingiuste e perniciose; né si dovere tanto temere de' pericoli che si dimenticassino della salute della città, e quanto fusse acerbo il vivere in servitú a chi era nato e allevato in libertà. Ricordassinsi con quanta generosità si fussino, per conservare la libertà, opposti a Carlo re di Francia quando era in Firenze con esercito tanto potente; e considerassino quanto era piú facile resistere a sí piccola gente, privata di danari, senza provisione di vettovaglie, con pochi pezzi d'artiglieria, e senza comodità alcuna di potere, se si difendessino dal primo impeto, sostentare la guerra; e la quale, necessitata a dimorare breve tempo in Toscana, e mossa dalle speranze date da' fuorusciti d'avere con un semplice assalto a ottenere la vittoria, come vedesse cominciarsi vigorosamente a resistere inclinerebbe alla concordia con onestissime condizioni. Queste cose si dicevano, ne' circoli e per le piazze, tra' cittadini; ma il gonfaloniere, volendo che dal popolo medesimo si deliberasse la risposta che dal magistrato s'aveva a dare all'uomo mandato dal viceré, convocato il consiglio maggiore, adunati che furno i cittadini, parlò in questa sentenza:

- Se io credessi che la dimanda del viceré non concernesse altro che l'interesse di me solo, arei da me medesimo fatto quella deliberazione che fusse conforme al proposito mio; il quale essendo stato sempre d'essere parato a esporre la vita per beneficio vostro, mi sarebbe molto piú facile a risolvermi di rinunziare, per liberarvi da i danni e da i pericoli della guerra, il magistrato che da voi mi è stato dato: avendo massime, in tanti anni che sono seduto in questo grado, stracco il corpo e l'animo per tante molestie e fatiche. Ma perché in questa dimanda può essere che si tratti piú oltre che dell'interesse mio, è paruto a questi miei onorevoli compagni e a me che senza il consentimento publico non si deliberi quello in che consiste tanto dello interesse di ognuno, e che cosa tanto grave e tanto universale non si consigli con quel numero ordinario di cittadini co' quali sogliono trattarsi l'altre cose ma con voi, che siete il principe di questa città e a' quali solo appartiene sí poderosa deliberazione. Non voglio io confortarvi piú in una parte che in un'altra, vostro sia il consiglio vostro sia il giudicio, quel che delibererete sarà accettato e lodato da me, che vi offerisco non solo il magistrato, che è vostro, ma la persona e la propria vita; e mi attribuirei a singolare felicità se io potessi credere che questo fusse il mezzo della salute vostra. Esaminate quel che possa importare la dimanda del viceré alla vostra libertà, e Dio vi presti grazia di alluminare e di fare risolvere alla migliore parte le menti vostre. Se i Medici avessino disposizione d'abitare in questa città come privati cittadini, pazienti a' giudíci de' magistrati e delle leggi vostre, sarebbe laudabile la loro restituzione, acciò che la patria comune si unisse in un corpo comune; se altra è la mente loro avvertite al pericolo vostro, né vi paia grave sostenere spese e difficoltà per conservare la vostra libertà: la quale quanto sia preziosa conoscereste meglio, ma senza frutto, quando (io ho orrore di dirlo) ne fuste privati. Né sia alcuno che si persuada che il governo de' Medici avesse a essere quel medesimo che era innanzi fussino cacciati, perché è mutata la forma e i fondamenti delle cose: allora, nutriti tra noi quasi a uso di privati cittadini, ricchissimi di facoltà secondo il grado tenevano, né offesi da alcuno, facevano fondamento nella benevolenza de' cittadini, consigliavano co' principali le cose publiche, e si ingegnavano col mantello della civiltà coprire piú presto che scoprire la loro grandezza. Ma ora, abitati tanti anni fuora di Firenze, nutriti ne' costumi stranieri, intelligenti, per questo, poco delle cose civili, ricordevoli dello esilio e delle acerbità usate loro, poverissimi di facoltà e offesi da tante famiglie, consci che la maggiore parte anzi quasi tutta la città aborrisce la tirannide, non si confiderebbono di alcuno cittadino: e sforzati dalla povertà e dal sospetto arrogherebbero tutte le cose a loro medesimi, riducendosi non in su la benivolenza e in su l'amore ma in su la forza e in su l'armi, in modo tale che in brevissimo tempo questa città diventerebbe simile a Bologna quale era al tempo de' Bentivogli, a Siena e a Perugia. Ho voluto dire questo a quegli che predicano il tempo e il governo di Lorenzo de' Medici, nel quale benché fussino dure condizioni e fusse una tirannide (benché piú mansueta di molte altre) sarebbe stato a comparazione di questo una età d'oro. Appartiene ora a voi il deliberare prudentemente e secondo la salute della vostra patria, a me o rinunziare con animo costante e lietissimo a questo magistrato, o francamente, quando voi delibererete altrimenti, attendere alla conservazione e alla difesa della vostra libertà. -

Non era dubbio quel che avesse a deliberare il consiglio, per la inclinazione che aveva quasi tutto il popolo di mantenere il governo popolare: però, con maraviglioso consenso fu deliberato che si consentisse alla ritornata de' Medici come privati ma che si denegasse il rimuovere il gonfaloniere del magistrato; e che quando gli inimici stessino pertinaci in questa sentenza, che con le facoltà e con la vita si attendesse a difendere la libertà e la patria comune. Però, volti tutti i pensieri alla guerra e fatto provedimento di danari, mandavano gente alla terra di Prato, propinqua a dieci miglia a Firenze; la quale si credeva che prima avesse a essere assaltata dal viceré.

Il quale, poiché a Barberino ebbe raccolto l'esercito e l'artiglierie, condotte con difficoltà per l'asprezza dell'Apennino e perché, per mancamento di danari, non aveano il provedimento debito o di guastatori e di instrumenti per condurle, si accostò (come si era creduto) a Prato; dove pervenuto quando cominciava il giorno, batté il dí medesimo, per qualche ora, con falconetti la porta di Mercatale: alla quale, per essere dentro bene riparata, non fece frutto alcuno. Aveano i fiorentini messi in Prato circa dumila fanti, quasi tutti dell'ordinanze loro, gli altri raccolti in fretta d'ogni arte ed esercizi vili, pochissimi in tanto numero esperimentati alla guerra; e con cento uomini d'arme Luca Savello, condottiere vecchio ma che né per l'età né per l'esperienza era pervenuto a grado alcuno di scienza militare; e gli uomini d'arme, quegli medesimi che erano stati poco innanzi svaligiati in Lombardia. Aggiugnevasi che, per la brevità del tempo e per la imperizia di chi aveva avuto a provederlo, vi era piccola quantità di artiglierie, scarsità di munizioni e di tutte le cose necessarie alla difesa. Col viceré erano [dugento] uomini d'arme e [cinque] mila fanti spagnuoli e solamente [due] cannoni, esercito piccolo in quanto al numero e agli altri apparati ma grande in quanto al valore; perché i fanti erano tutti di quegli medesimi che con tanta laude si erano salvati della giornata di Ravenna, i quali come uomini militari, confidandosi molto nella loro virtú, dispregiavano sommamente la imperizia degli avversari: ma essendo venuti senza apparecchiamento di vettovaglie, né trovandone copioso il paese (perché, con tutto che a fatica fusse finita la ricolta, erano state condotte a' luoghi muniti), cominciorno subito a sentirne il mancamento. Dalla qual cosa spaventato il viceré inclinava alla concordia, che continuamente si trattava: che i fiorentini, consentendo che i Medici ritornassino eguali agli altri cittadini, né si parlando piú della deposizione del gonfaloniere, pagassino al viceré perché partisse del dominio fiorentino certa quantità di danari; la quale si pensava non passasse trentamila ducati. Perciò il viceré aveva consentito salvocondotto agli imbasciadori eletti per questa espedizione, e si sarebbe astenuto insino alla venuta loro di assaltare piú Prato se di dentro gli avessino dato qualche comodità di vettovaglie.

Cap. iv

Presa e sacco di Prato. Deposizione del gonfaloniere in Firenze. Accordi dei fiorentini col viceré. Riforma del governo in Firenze; restaurazione del governo de' Medici. Errori che condussero i fiorentini alla perdita della libertà. Resa del Castelletto di Genova.

Niuna cosa vola piú che l'occasione, niuna piú pericolosa che il giudicare dell'altrui professioni, niuna piú dannosa che il sospetto immoderato. Desideravano la concordia tutti i principali cittadini, assuefatti dietro agli esempli de' maggiori loro a difendere spesso la libertà dal ferro coll'oro; perciò facevano instanza che gli imbasciadori eletti subitamente andassino, a' quali oltre all'altre cose si commetteva che di Prato si facesse porgere vettovaglia all'esercito spagnuolo, acciò che il viceré quietamente aspettasse se la concordia trattata aveva effetto: ma il gonfaloniere, o persuadendosi, contro alla sua naturale timidità, che gli inimici disperati della vittoria dovessino da se stessi partirsi o temendo de' Medici in qualunque modo ritornassino in Firenze, o conducendolo il fato a essere cagione della ruina propria e delle calamità della sua patria, allungava artificiosamente la spedizione degli imbasciadori, talmente che non andorno il dí nel quale secondo la deliberazione fatta doveano andare. Dunque il viceré, astringendolo la penuria delle vettovaglie, e incerto se piú verrebbono gli imbasciadori, mutato la notte seguente l'alloggiamento dalla porta del Mercatale alla porta che si dice del Serraglio, donde si va verso il monte, cominciò a battere co' due cannoni il muro a quella vicino: eletto questo luogo perché al muro era congiunto un terrato alto, dal quale si poteva facilmente salire alla rottura del muro di sopra che si batteva, la qual facilità dal lato di fuora diventava difficoltà dal lato di dentro, perché la rottura che si faceva sopra il terrato rimaneva di dentro molto alta da terra. Roppesi a' primi colpi uno de' due cannoni, e l'altro, col quale solo continuavano di battere, per lo spesso tirare avea perduto tanto di vigore che alla muraglia pervenivano i colpi molto lenti e di piccolo effetto. Pure, poi che ebbono per spazio di molte ore fatta una apertura di poco piú che di dodici braccia, cominciorno alcuni de' fanti spagnuoli montati in sul terrato a salire alla rottura e da quella in sulla sommità del muro, dove ammazzorno due de' fanti che lo guardavano. Per la morte de' quali cominciando gli altri a ritirarsi, vi salivano già i fanti spagnuoli colle scale; e benché dentro appresso al muro fusse uno squadrone di fanti con gli scoppietti e con le picche, ordinato per non lasciare alcuno degli inimici fermarsi in sul muro e per opprimere se alcuno temerariamente saltasse dentro o in altro modo discendesse, nondimeno, come cominciorno a vedere gli inimici in sulla muraglia, messisi in fuga da loro medesimi abbandonorno la difesa; onde gli spagnuoli, stupiti che in uomini vili e inesperti potesse regnare tanta viltà e sí piccola esperienza, entrati senza opposizione dentro da piú parti, cominciorno a correre per la terra, dove non era piú resistenza ma solamente grida, fuga, violenza, sacco, sangue e uccisioni, gittando i fanti spaventati l'armi in terra e arrendendosi a' vincitori: dall'avarizia libidine e crudeltà de' quali non sarebbe stata salva cosa alcuna se il cardinale de' Medici, messe guardie alla chiesa maggiore, non avesse conservata l'onestà delle donne, le quali quasi tutte vi erano rifuggite. Morirno non combattendo, perché alcuno non combatté, ma o fuggendo o supplicando, piú di duemila uomini; tutti gli altri insieme col commissario fiorentino furno prigioni. Perduto Prato, i pistolesi, non si partendo nell'altre cose dal dominio de' fiorentini, convennono di dare vettovaglia al viceré, ricevendo promessa da lui che non sarebbono molestati.

Ma a Firenze, come si intese il caso succeduto (per il quale gli imbasciadori che andavano al viceré, essendo a mezzo il cammino, ritornorno indietro), fu negli animi degli uomini grandissima alterazione. Il gonfaloniere, pentitosi della vanità del suo consiglio, spaventato e perduta quasi del tutto la riputazione e l'autorità, retto piú presto che rettore e irresoluto, si lasciava portare dalla volontà degli altri, non provedendo a cosa alcuna né per la conservazione di se medesimo né per la salute comune; altri desiderosi della mutazione del governo, preso ardire, biasimavano publicamente le cose presenti: ma la maggiore parte de' cittadini, non assueta all'armi e avendo innanzi agli occhi l'esempio miserabile di Prato, benché amatrice del reggimento popolare, stava per timore esposta a essere preda di chi volesse opprimerla. Dalle quali cose fatti piú audaci Paolo Vettori e Antonio Francesco degli Albizi, giovani nobili, sediziosi e cupidi di cose nuove, i quali già molti mesi si erano occultamente congiurati con alcuni altri in favore de' Medici, e per convenire con loro del modo di rimettergli erano stati secretamente a parlamento in una villa del territorio fiorentino vicina al territorio de' sanesi con Giulio de' Medici, si risolverono di fare esperienza di cavare per forza il gonfaloniere del palazzo publico; e comunicato il consiglio loro con Bartolomeo Valori, giovane di simili condizioni e implicato per il troppo spendere, come era anche Paolo, in molti debiti, la mattina del secondo dí dalla perdita di Prato, che fu l'ultimo dí di agosto, entrati con pochi compagni in palazzo, dove, per il gonfaloniere che si era rimesso ad arbitrio del caso e della fortuna, non era provisione né resistenza alcuna, e andati alla camera sua, lo minacciorono di torgli la vita se non si partiva del palazzo, dandogli in tale caso la fede di salvarlo. Alla qual cosa cedendo egli, ed essendo a questo tumulto sollevata la città, scoprendosi già molti contrari a lui e nessuno in suo favore, fatti per ordine loro congregare subito i magistrati che secondo le leggi avevano sopra i gonfalonieri amplissima autorità, dimandorno che lo privassino legittimamente del magistrato, minacciando che altrimenti lo priverebbeno della vita: per il quale timore avendolo contro alla propria volontà privato, lo menorno salvo alle case di Paolo, donde la notte seguente bene accompagnato fu condotto nel territorio de' sanesi; e di quivi, simulando di andare a Roma con salvocondotto ottenuto dal pontefice, preso occultamente il cammino d'Ancona, passò per mare a Raugia; perché per ordine del cardinale suo fratello era stato avvertito che il pontefice, o per sdegno o per cupidità di spogliarlo de' suoi danari, che era fama essere molti, gli violerebbe la fede. Levato il gonfaloniere del magistrato, la città mandò subito imbasciadori al viceré, col quale per opera del cardinale de' Medici facilmente si compose: perché il cardinale si contentò che degli interessi propri non si esprimesse altro che la restituzione de' suoi, e di tutti quegli che l'avevano seguitato, alla patria, come privati cittadini, con facoltà di ricomperare infra certo tempo i beni alienati dal fisco ma rendendo il prezzo sborsato e i miglioramenti fatti da coloro ne' quali erano stati trasferiti. Ma quanto alle cose comuni, entrorono i fiorentini nella lega; obligoronsi, seguitando quello che i Medici aveano promesso per mercede del ritorno loro a Mantova, a pagare al re de' romani, secondo le dimande di Gurgense, quarantamila ducati; al viceré, per l'esercito, ottantamila, la metà di presente il rimanente fra due mesi, e per sé proprio ventimila; e che ricevuto il primo pagamento partisse subito del dominio fiorentino, rilasciando quel che aveva occupato. Feciono oltre a questo lega col re d'Aragona, con obligazione reciproca di certo numero di gente d'arme a difesa degli stati, e che i fiorentini conducessino agli stipendi loro dugento uomini d'arme de' sudditi di quel re: la qual condotta, benché non si esprimesse, si disegnava per il marchese della Palude, a cui il cardinale aveva promesso o almeno dato speranza di farlo capitano generale delle armi de' fiorentini.

Cacciato il gonfaloniere e rimossi per l'accordo i pericoli della guerra, dettono i cittadini opera a ricorreggere il governo in quelle cose nelle quali si era giudicata inutile la forma; ma con intenzione universale, eccettuatine pochissimi, e questi o giovani o quasi tutti di piccola considerazione, di conservare la libertà e il consiglio popolare. Però determinorno con nuove leggi che il gonfaloniere non si eleggesse piú in perpetuo ma solamente per uno anno, e che al consiglio degli ottanta, che si variava di sei mesi in sei mesi, con l'autorità del quale si deliberavano le cose piú gravi, acciocché sempre vi intervenissino i cittadini di maggiore qualità, fussino aggiunti in perpetuo tutti coloro che insino a quel dí avessino amministrati, o dentro o fuori, i primi onori: dentro, quegli che erano stati o gonfalonieri di giustizia o de' dieci della balía, magistrato in quella republica di grande autorità; fuori, tutti quegli che eletti nel consiglio degli ottanta, erano stati o imbasciadori a príncipi o commissari generali nella guerra; rimanendo fermi in tutte l'altre cose gli ordinamenti del medesimo governo. Le quali cose stabilite, fu eletto per il primo anno gonfaloniere Giovambatista Ridolfi, cittadino nobile e riputato molto prudente, riguardando il popolo (come si fa ne' tempi turbolenti) non tanto a quegli che per l'arti popolari gli erano piú grati quanto a uno che, con l'autorità grande che aveva nella città, massimamente appresso alla nobiltà, e con la virtú propria, potesse fermare lo stato tremante della republica. Ma troppo erano trascorse le cose, troppo potenti inimici avea la publica libertà: nelle viscere del dominio l'esercito sospetto; dentro, i piú audaci della gioventú cupidi d'opprimerla. La medesima era, benché colle parole dimostrasse il contrario, la volontà del cardinale de' Medici: il quale, insino da principio, non arebbe riputato premio degno di tante fatiche la restituzione de' suoi come privati cittadini; considerava al presente di piú che né anche questo sarebbe cosa durabile, perché insieme col nome suo sarebbono in sommo odio di tutti per il sospetto che continuamente stimolerebbe gli altri cittadini che essi non insidiassino alla libertà, e molto piú per lo sdegno che avessino condotto l'esercito spagnuolo contro alla patria, stati cagione del sacco crudelissimo di Prato, e che per il terrore dell'armi la città fusse stata costretta a ricevere cosí indegne e inique condizioni. Stimolavanlo al medesimo coloro che prima erano congiurati seco, e alcuni altri che nella republica bene ordinata non aveano luogo onorato. Ma era necessario il consentimento del viceré; il quale, aspettando il primo pagamento, che per le condizioni della città si espediva difficilmente, soggiornava ancora in Prato, né aveva, quale si fusse la cagione, l'animo inclinato che nella città si facesse nuova alterazione. Nondimeno, dimostrandogli il cardinale, e procurando che il marchese della Palude e Andrea Caraffa conte di Santa Severina, condottieri nell'esercito, [facessino il medesimo], alla città, che avea ricevuta tanta offesa, non potere piú essere se non odiosissimo il nome spagnuolo, e che in qualunque occasione aderirebbe sempre agli inimici del re cattolico, anzi essere pericolo che, come si discostasse l'esercito, non richiamasse il gonfaloniere, il quale sforzata aveva cacciato, movendolo anche il provedersi con tanta difficoltà a' danari promessi, i quali se fussino stati piú pronti arebbe fatto maggiore fondamento nel governo libero, consentí al desiderio del cardinale: il quale, composte le cose con lui, venne subito in Firenze alle case sue; ove, parte con lui parte separatamente, entrorno molti condottieri e soldati italiani, non avendo i magistrati, per la vicinità degli spagnuoli, ardire di proibire che non vi entrassino. Dipoi il dí seguente, essendo congregato nel palagio publico per le cose occorrenti un consiglio di molti cittadini, al quale era presente Giuliano de' Medici, i soldati, assaltata all'improviso la porta e poi salite le scale, occuporono il palagio, depredando gli argenti che vi si conservavano per uso della signoria. La quale, insieme col gonfaloniere, costretta a cedere alla volontà di chi poteva piú coll'armi che non potevano i magistrati colla riverenza e autorità disarmata, convocò subito, cosí proponendo Giuliano de' Medici, in sulla piazza del palagio, col suono della campana grossa, il popolo al parlamento; dove quegli che andorno, essendo circondati dall'armi de' soldati e de' giovani della città che aveano prese l'armi per i Medici, consentirono che a circa cinquanta cittadini, nominati secondo la volontà del cardinale, fusse data sopra le cose publiche la medesima autorità che aveva tutto il popolo (chiamano i fiorentini questa potestà, cosí ampia, balía): per decreto de' quali ridotto il governo a quella forma che soleva essere innanzi all'anno mille quattrocento novantaquattro, e messa una guardia di soldati ferma al palagio, ripigliorono i Medici quella medesima grandezza, ma governandola piú imperiosamente e con arbitrio piú assoluto che soleva avere il padre loro.

In tale modo fu oppressa con l'armi la libertà de' fiorentini, condotta a questo grado principalmente per le discordie de' suoi cittadini: al quale si crede non sarebbe pervenuta se (io passerò la neutralità imprudentemente tenuta, e l'avere il gonfaloniere lasciato pigliare troppo animo agli inimici del governo popolare) non fusse stata, eziandio negli ultimi tempi, negligentemente procurata la causa publica. Perché nel re d'Aragona non era da principio tanto desiderio di sovvertire la libertà quanto di rimuovere la città dall'aderenza del re di Francia e di trarne alcuna quantità di danari per pagare allo esercito; perciò, subito che i franzesi abbandonorno il ducato di Milano, commesse al viceré che, quando o le cose occorrenti lo tirassino ad altra impresa o che per altra cagione conoscesse difficile la restituzione de' Medici, pigliando la deliberazione dalle condizioni de' tempi, convenisse o no con la città, secondo che piú gli paresse opportuno. Questo era stato da principio il comandamento suo; ma di poi sdegnato contro al pontefice per quel che aveva tentato a Roma contro ad Alfonso da Esti, e insospettito per le minaccie che publicamente faceva contro al nome de' barbari, dimostrò apertamente al medesimo imbasciadore fiorentino (che al principio della guerra era andato a lui), e al viceré commesse che non tentasse di alterare il governo, o perché giudicasse essergli piú sicuro conservare il gonfaloniere inimicato dal pontefice, o perché temesse che il cardinale de' Medici, restituito, non avesse maggiore dependenza dal pontefice che da lui: ma non fu nota al viceré questa ultima deliberazione se non il dí dappoi che era stata ridotta la republica in potestà del cardinale. Per il quale discorso apparisce che se i fiorentini avessino, dopo che furno cacciati i franzesi, procurato diligentemente di assicurare mediante la concordia le cose loro, o se si fussino fortificati di armi di soldati esperti, o non si sarebbe il viceré mosso contro a loro, o trovata difficoltà nello opprimergli arebbe facilmente composto con danari. Ma era destinato non lo facessino, ancora che, oltre a quello che si poteva comprendere per i discorsi umani fussino stati ammuniti dal cielo degli imminenti pericoli: perché, non molto innanzi, uno folgore, caduto in sulla porta che da Firenze va a Prato, levò d'uno scudo antico di marmo i gigli a oro, insegna del re di Francia; un altro, caduto in sulla sommità del palagio ed entrato nella camera del gonfaloniere, non avea percosso altro che un bossolo grande d'argento nel quale si raccoglievano i partiti del sommo magistrato, e dipoi sceso nella infima parte percosse di maniera una lapide grande, che a piè della scala sosteneva la macchina dell'edificio, che uscitane illesa pareva fusse stata cavata da' periti con grandissima destrezza e architettura.

In questi tempi medesimi o poco prima, battendo i genovesi il Castelletto di Genova con l'artiglierie che aveva prestate loro il pontefice, il castellano, ricevuti diecimila [ducati] lo dette a' genovesi; non avendo speranza di essere soccorso, perché una armata spedita di Provenza innanzi che il re sapesse la rebellione di quella città per attendere a difenderla, non avendo avuto ardire di porre in terra, era ritornata indietro: ma per il re si teneva ancora la Lanterna; nella quale, ne' dí medesimi, aveano alcuni legni franzesi messe vettovaglie e altri bisogni.

Cap. v

Cessione, da parte dei francesi, di Brescia al viceré; cessione di Crema ai veneziani. Accoglienza al vescovo Gurgense a Roma. Trattative fra il vescovo e i veneziani e fra il pontefice e gli ambasciatori del re d'Aragona; la questione di Parma e di Piacenza. Confederazione fra Cesare e il pontefice ed esclusione dei veneziani dalla lega. Solenne ingresso in Milano di Massimiliano Sforza. Nuovi e vani sforzi del pontefice per la pace fra Venezia e Massimiliano Cesare.

Espedite le cose di Firenze e ricevuti i danari promessi, il viceré mosse l'esercito per andare a Brescia; intorno alla quale città, avendo mitigata la volontà de' svizzeri, combatteva l'esercito viniziano, alloggiato alla porta di San Giovanni; e battevano in un tempo la città e, con l'artiglierie piantate in sul monte opposito, la fortezza: speravano medesimamente di essere messi dentro, per mezzo di uno trattato, per la porta delle Pile; il quale venuto a luce restò vano. Ma giunto che fu l'esercito spagnuolo al castello di Gairo vicino a Brescia, Obigní, capitano de' franzesi che vi erano dentro, elesse di darla insieme con la fortezza al viceré, con patto che tutti i soldati che vi erano dentro n'uscissino salvi con le cose loro ma con le bandiere piegate e con l'armi in asta abbassate, e lasciate l'artiglierie; e si crede che Obigní anteponesse il viceré a' viniziani per comandamento avuto prima dal re che piú tosto la desse agli spagnuoli o a Cesare, non per odio contro a essi ma per suggerire materia di contenzione con Cesare e col re d'Aragona. Il medesimo consiglio aveano, innanzi che gli spagnuoli passassino in Lombardia, seguitato i franzesi che guardavano Lignago; i quali, dispregiate molte offerte de' viniziani, l'aveano dato al vescovo Gurgense: a cui, nel tempo medesimo che il viceré entrò in Brescia, si arrendé similmente Peschiera. E dimandava Gurgense la possessione di Brescia, ma al viceré piacque di ritenerla, per allora, per la lega in cui nome l'aveva ricevuta. Diverso successo ebbono le cose di Crema, intorno alla quale era Renzo da Ceri con una parte de' soldati viniziani: perché appropinquandosi quattromila svizzeri mandati da Ottaviano Sforza vescovo di Lodi, governatore di Milano, per acquistarla in nome di Massimiliano Sforza futuro duca, Benedetto Cribrario, corrotto con doni e con la promessa di essere creato gentiluomo di Vinegia, la dette a' viniziani; consentendo monsignore di Duraso preposto alla guardia della rocca, perché non confidava la sua salute alla fede de' svizzeri.

Andò dipoi il vescovo Gurgense a Roma: l'animo del quale desiderando il pontefice estremamente di conciliarsi, sforzando la sua natura, lo fece per tutto il dominio ecclesiastico ricevere con ogni specie d'onore; fatte, per tutto il cammino, a lui e a tutti coloro che lo seguitavano, lautissime spese. Ricevevanlo per tutto le terre con eccessivi anzi inusitati onori, piene le strade di quegli che gli andavano incontro, visitato in molti luoghi da nuove imbascerie di prelati e persone onorate mandate dal pontefice; e arebbe voluto che il collegio de' cardinali fusse andato a riceverlo alla porta di Roma. Ma recusando il collegio, come cosa non solo nuova ma piena di somma indignità, andorono insino in su' Prati, un mezzo miglio fuora della porta, a riceverlo in nome del pontefice il cardinale agenense e quello di Strigonia; da' quali, andando in mezzo come luogotenente di Cesare, fu menato insino alla chiesa di Santa Maria del popolo. Dalla quale, poi che da lui furno partiti i due cardinali, accompagnato da moltitudine innumerabile, si presentò al pontefice, che nella sedia pontificale in abito solenne l'aspettava nel concistorio publico: nel quale aveva, pochi dí innanzi, ricevuti molto onoratamente dodici imbasciadori de' svizzeri, mandati da tutti i cantoni a dargli publicamente l'ubbidienza e a offerire che quella nazione voleva in perpetuo difendere lo stato della Chiesa, e a ringraziarlo che a quella avesse con tanto onore donato la spada il cappello l'elmetto e la bandiera, e il titolo di difensori della libertà ecclesiastica.

Alla venuta di Gurgense si cominciò a trattare lo stabilimento delle cose comuni; di che il fondamento consisteva in rimuovere le differenze e contese particolari, acciò che Italia rimanesse ordinata in modo che, con animo e consiglio unito, si potesse resistere al re di Francia. E in questo era la piú difficile la composizione, tante volte trattata, tra Cesare e il senato viniziano: perché Gurgense consentiva che a' viniziani rimanessino Padova, Trevigi, Brescia, Bergamo, Crema ma che a Cesare restituissino Vicenza, rinunziassino alle ragioni di quelle terre che riteneva Cesare; pagassingli di presente dugentomila fiorini di Reno, e in perpetuo, ciascuno anno per censo, trentamila. Grave era a' viniziani il riconoscersi censuari di quelle terre le quali tanti anni aveano posseduto come proprie; grave il pagamento de' danari, con tutto che il pontefice offerisse prestarne loro una parte; piú grave il restituire Vicenza, allegando che, separando il ritenerla Cesare il corpo del loro stato, gli privava della comodità di passare dal capo e dall'altre membra principali all'altre membra, e perciò rimanere loro incerta e malsicura la possessione di Brescia, Bergamo e Crema. Allegavano oltre a questo, per fare la recusazione piú onesta, avere data la fede a' vicentini, quando ultimamente si arrenderono, di non separargli giammai da loro. Trattavansi altre controversie tra il pontefice e gli imbasciadori del re d'Aragona, proposte una parte piú per ricompenso delle querele degli altri che per speranza d'ottenerle. Perché il pontefice dimandava che quel re, secondo si disponeva nella confederazione, l'aiutasse ad acquistare Ferrara; dimandava lasciasse la protezione di Fabrizio e di Marcantonio Colonna, contro a' quali avea cominciato a procedere con l'armi spirituali, per avere violentata la porta lateranense, e ricettato Alfonso da Esti ribelle suo nelle terre delle quali il dominio diretto apparteneva alla Chiesa; dimandava rinunziasse alle protezioni, che avea accettate nella Toscana, de' fiorentini de' sanesi de' lucchesi e di Piombino, come fatte in diminuzione delle ragioni dello imperio e come sospette a Italia in comune e in particolare alla Chiesa, perché né agli altri potentati era utile che in Italia avesse tante aderenze, e alla Chiesa molto pericoloso che una provincia congiunta col dominio di quella dependesse dalla sua autorità. Alle quali cose replicavano gli spagnuoli: non si recusare di aiutarlo contro a Ferrara, purché, secondo l'obligazioni della medesima lega, pagasse i danari debiti all'esercito per il tempo passato e provedesse per il futuro; non essere cosa laudabile il procedere contro a Fabrizio e Marcantonio Colonna, perché [per] le dependenze che avevano e perché erano capitani di autorità, il perseguitarli sarebbe materia di nuovo incendio; non potere il re cattolico, senza pregiudicio grave dell'onore proprio, abbandonargli, né meritare tale rimunerazione le cose fatte in servigio del pontefice e suo dall'uno e l'altro di loro nella guerra contro al re di Francia. Né nascere da giusto zelo o da sospetto la querela delle protezioni di Toscana, ma perché alla sua cupidità rimanessino in preda Siena, Lucca e Piombino; accennando nondimeno che di queste si riferirebbe il re all'arbitrio di Cesare. Consentivano tutti i confederati unitamente che nel ducato di Milano entrasse Massimiliano Sforza, non consentendo per ciò Cesare di investirnelo, o di dargli nome di duca o alcuno titolo giuridico. Ma insorgeva la querela di Gurgense e degli spagnuoli, dell'occupazione di Parma e di Piacenza, in pregiudicio delle ragioni dello imperio, in troppa grandezza de' pontefici e in troppa debolezza del ducato di Milano; il quale sarebbe stato necessario fare piú potente perché aveva sempre, a essere il primo percosso da' franzesi. Non avere ne' capitoli della lega parlato il pontefice d'altro che di Bologna e di Ferrara; ora, con ragioni delle quali non apparisca alcuna autentica memoria, usurparsi quello che da grandissimo tempo in qua non avesse mai la Chiesa romana posseduto, né che anche si avesse certa notizia che l'avesse mai possedute, eziandio ne' tempi antichissimi; né mostrarsi delle donazioni degli imperadori altro che una semplice carta che poteva essere stata finta ad arbitrio di ciascuno, e nondimeno il pontefice, come in cosa manifesta e notoria, con la occasione de' tumulti di Lombardia, aversi amministrato ragione da se stesso.

Ma tutte queste dispute [non] difficilmente si risolvevano: solamente turbava tutte le cose la differenza tra Cesare e i viniziani. Affaticavasene quanto poteva il pontefice, ora confortandogli ora pregandogli ora minacciandogli; desideroso, come prima, per il bene publico di Italia, della conservazione de' viniziani, e perché sperava potere cogli aiuti loro, senza l'armi spagnuole, espugnare Ferrara. Affaticavansene gli imbasciadori del re d'Aragona, temendo che con pericolo comune non si desse causa a' viniziani di rivolgere l'animo a riunirsi col re di Francia; ma erano necessitati procedere cautamente per non provocare Cesare a fare unione co' franzesi, la quale il loro re aveva con tanta fatica separata, e perché per altre cagioni non voleva partirsi dalla amicizia sua. Affaticavansene gli imbasciadori de' svizzeri perché, obligati a difendere i viniziani convenuti a pagare loro, per questo, ciascuno anno venticinquemila ducati, desideravano non venire in necessità o di non osservare le promesse o di opporsi a Cesare in caso gli assaltasse. Finalmente, non si potendo rimuovere Gurgense dalla dimanda di riavere Vicenza né disporre i viniziani a darla, discordando ancora nelle quantità de' danari, il pontefice, il quale sopratutto desiderava, per estinguere il nome e l'autorità del conciliabolo pisano, che Cesare approvasse il concilio lateranense, protestò agli oratori loro che sarebbe costretto a perseguitare quella republica con l'armi spirituali e temporali; il quale protesto non gli movendo, venne alla confederazione con Cesare solo, perché l'oratore spagnuolo recusò di intervenirvi, o non avendo commissione dal suo re o perché quel re, ancora che avesse in animo di aiutare Cesare, cercasse di potere nutrire con qualche speranza i viniziani.

Narravasi nel proemio della confederazione, che si publicò poi solennemente nella chiesa di Santa Maria del popolo, che avendo i viniziani recusata ostinatamente la pace, e il pontefice, per le necessità della republica cristiana, protestato di abbandonargli, Cesare entrava e accettava la lega fatta l'anno mille cinquecento undici tra il pontefice il re d'Aragona e i viniziani, secondo che allora gli era stata riserbata la facoltà; prometteva aderire al concilio lateranense, annullando il mandato e revocando tutte le procure e atti fatti in favore del conciliabolo pisano; obligavasi non aiutare alcuno suddito o inimico della Chiesa, e specialmente Alfonso da Esti e i Bentivogli occupatori di Ferrara e di Bologna, e di fare partire i fanti tedeschi che erano agli stipendi d'Alfonso e Federigo da Bozzole suo feudatario. Da altra parte il pontefice prometteva aiutare Cesare contro a' viniziani con l'armi temporali e spirituali insino a tanto avesse ricuperato tutto quello che si conteneva nella lega di Cambrai: dichiaravasi, i viniziani essere in tutto esclusi dalla lega e dalla tregua fatta con Cesare, perché aveano contravenuto a l'una e a l'altra in piú modi, ed essere inimici del pontefice, di Cesare e del re cattolico, riservando nondimeno luogo di entrare nella confederazione fra certo tempo e sotto certe condizioni: non potesse il pontefice fare convenzione alcuna con loro senza consentimento di Cesare, o se Cesare non avesse prima ricuperato quel che se gli apparteneva come di sopra: non potessino né il pontefice né Cesare, senza consenso l'uno dell'altro, convenire con alcuno principe cristiano: che durante la guerra contro a' viniziani non molestasse il pontefice Fabrizio e Marcantonio Colonna, riservatogli il procedere contro al vescovo Pompeio e Giulio, e alcuni altri dichiarati rebelli: che per questa capitolazione, se bene si tollerava il possedere Parma, Reggio e Piacenza, non si intendesse pregiudicato alle ragioni dello imperio. Publicata la confederazione, Gurgense nella prossima sessione del concilio lateranense aderí al concilio in nome di Cesare e come luogotenente suo generale in Italia, annullando il mandato, gli atti fatti e le procure; e presente tutto il concilio, testificò non avere mai Cesare assentito al conciliabolo pisano, detestando ciascuno che avesse usato il nome suo.

Partí dipoi Gurgense da Roma per essere presente quando Massimiliano Sforza, venuto per commissione di Cesare a Verona, prendeva la possessione del ducato di Milano; la venuta del quale aspettare si disponevano difficilmente il cardinale sedunense e gli imbasciadori di tutta la nazione svizzera, che erano a Milano, perché volevano che nelle dimostrazioni e nella solennità degli atti che s'aveano a fare apparisse (quel che era negli effetti) i svizzeri essere quegli che aveano cacciato i franzesi di quello stato, quegli per la virtú e opera de' quali lo riceveva Massimiliano. Ottenne nondimeno il viceré, piú con l'arti e con la industria che con l'autorità, che si aspettasse. Il quale, ratificato a Firenze in nome di Cesare la confederazione fatta in Prato, e ricevuta certa somma di danari da' lucchesi accettati nella sua protezione, pervenne a Cremona: nel qual luogo l'aspettavano Massimiliano Sforza e il viceré, [donde] andorno tutti insieme a Milano, per entrare il dí deputato in quella città con le solennità e onori consueti a' nuovi príncipi: nel quale atto benché fusse disputa grande tra 'l cardinale sedunense [e il viceré], chi di loro gli avesse, all'entrare della porta, a consegnare le chiavi in segno della consegnazione del possesso, nondimeno, cedendo finalmente il viceré, il cardinale in nome publico de' svizzeri gli pose in mano le chiavi, ed esercitò quel dí, che fu degli ultimi dí di dicembre, tutti gli atti che dimostravano Massimiliano ricevere la possessione da loro. Il quale fu ricevuto con incredibile allegrezza di tutti i popoli, per il desiderio ardentissimo d'avere uno principe proprio, e perché speravano avesse a essere simile all'avolo o al padre; la memoria dell'uno de' quali per le sue eccellentissime virtú era chiarissima in quello stato, nell'altro il tedio degli imperi forestieri avea convertito l'odio in benivolenza. Le quali feste non ancora finite, si ricuperò, arrendendosi quegli che vi erano dentro, la rocca di Novara.

Non aveva la confederazione fatta in Roma interrotta del tutto la speranza della concordia tra Cesare e i viniziani. Perché il pontefice avea mandato subito a Vinegia Iacopo Staffileo suo nunzio, col quale erano andati tre imbasciadori de' svizzeri, per persuadergli alla concordia; e da altra parte il senato, per conservarsi la benivolenza del pontefice e non dare causa a Cesare di assaltargli con l'armi, aveva commesso agli imbasciadori suoi che aderissino al concilio lateranense e, subito fatta la confederazione, comandato alle genti loro che si ritirassino nel padovano; e però il viceré, non volendo turbare la speranza della pace, avea voltato l'esercito verso Milano: nondimeno perseverando le medesime difficoltà della restituzione di Vicenza e de' pagamenti de' danari erano vane queste fatiche. La qual cosa era cagione che il pontefice non assaltasse il duca di Ferrara: perché in tal caso arebbe sperato bastargli alla vittoria le forze sue e gli aiuti de' viniziani, col nome solo di accostarvi, bisognando, gli spagnuoli; altrimenti si risolveva a differire alla primavera, perché era riputato difficile l'espugnare nel tempo della vernata Ferrara, forte di sito rispetto al fiume, e la quale Alfonso aveva molto fortificata e senza intermissione alcuna fortificava.

Cap. vi

Inglesi e spagnuoli contro la Francia; occupazione del regno di Navarra da parte del re d'Aragona; minaccie del pontefice contro il re di Francia; gli inglesi abbandonano l'impresa per dissidi col re d'Aragona. Vano tentativo dei francesi di liberare il regno di Navarra. Scoperta della congiura del duca di Calabria per fuggire nell'esercito francese.

Parrà forse alieno dal mio proposito, stato di non toccare le cose succedute fuora d'Italia, fare menzione di quel che l'anno medesimo si fece in Francia; ma la dependenza di quelle da queste, e perché a' successi dell'una erano congiunti molte volte le deliberazioni e i successi dell'altra, mi sforza a non le passare del tutto tacitamente. Erano, insino al principio di maggio, passati con le navi inghilesi e spagnuole a fonterabia, ultimo termine del reame di Spagna verso la Francia in sul mare Oceano, seimila fanti inghilesi per assaltare congiuntamente con le forze spagnuole, secondo le convenzioni fatte tra 'l suocero e il genero, il ducato di Ghienna, parte, secondo gli antichi nomi e divisioni, della provincia della Aquitania; contro al quale movimento il re di Francia, non sicuro ancora dalle parti di Piccardia, preparava l'ordinanza nuova di ottocento lancie che avea fatte, e soldava delle parti piú basse della Alamagna non suddite a Cesare molti fanti: e conoscendo quanto importava alla difesa del ducato di Ghienna il reame di Navarra, il quale, dotale di Caterina di Fois, possedeva insieme con lei Giovanni figliuolo d'Alibret, suo marito, aveva chiamato alla corte Alibret suo padre e cercato con diligenza grande di congiugnerselo; alla qual cosa gli aveva dato grandissima opportunità la morte di Gastone di Fois, per causa del quale, pretendente quel regno non appartenere alle femmine ma a sé piú prossimo maschio della famiglia di Fois, aveva il re di Francia perseguitato Giovanni. Da altra parte il re cattolico, il quale aveva voltato gli occhi a quel reame, dimandava al re di Navarra che stesse neutrale tra il re di Francia e lui, consentisse per il regno il passo alle sue genti che dovevano entrare in Francia, e che per sicurtà di osservargli queste promesse gli desse in mano alcune fortezze, promettendo restituirgliene come prima fusse finita la guerra: le quali dimande conoscendo il Navarro dove tendessino, perché era noto l'antico desiderio de' re di Spagna di occupare la Navarra, eleggeva piú tosto di esporsi al pericolo incerto che accettare la perdita certa, sperando non dovergli mancare il soccorso promesso, di cavalli e [di fanti], del re di Francia, alle cose del quale era opportunissimo il ritenere la guerra in Navarra; e nel medesimo tempo, o per dare maggiore spazio di venire alle genti destinate al suo soccorso o per liberarsi se poteva da queste dimande, trattava col re d'Aragona, il quale secondo il costume suo procedeva in queste cose con grande arte. Ma non nocette piú al re di Navarra la industria e sollecitudine del re d'Aragona che la negligenza del re di Francia; il quale, avendo preso animo perché gli inghilesi passati a fonterabia non aveano, già molti dí, mosso cosa alcuna, e confidandosi che il re di Navarra potesse per alquanto di tempo con le forze proprie difendersi, procedette lentamente a mandargli il soccorso: donde avendovi il re d'Aragona, il quale aveva astutamente nutrito le speranze del Navarro, voltatevi con somma celerità le genti preparate per unirsi con gli inghilesi, il re di Navarra, non essendo preparato, disperato di potere resistere fuggí nella Bierna di là da' monti Pirenei; e il reame di Navarra abbandonato, da alcune fortezze in fuori che si guardavano per il re fuggito, pervenne senza alcuna spesa e senza difficoltà, e piú per la riputazione della vicinità degli inghilesi che per le forze proprie, in potestà del re d'Aragona. Il quale, non potendo affermare di possederlo legittimamente con altro titolo, allegava l'occupazione essere stata giuridicamente fatta per l'autorità della sedia apostolica: perché il pontefice, non saziato de' prosperi successi d'Italia, aveva poco innanzi publicata una bolla contro al re di Francia nella quale, nominandolo non piú cristianissimo ma illustrissimo, sottoponeva lui e qualunque aderisse a lui a tutte le pene degli eretici e scismatici, concedendo a ciascuno facoltà di occupare lecitamente le sostanze gli stati e tutte le cose loro; e con la medesima acerbità, sdegnato che nella città di Lione fussino stati ricettati i cardinali e gli altri prelati fuggiti da Milano, avea sotto gravissime censure comandato che la fiera solita a celebrarsi ogni anno quattro volte, con grandissimo concorso di mercatanti, a Lione, si celebrasse in futuro nella città di Ginevra, donde già il re Luigi undecimo, per beneficio del regno suo, l'aveva rimossa; e all'ultimo sottoposto allo interdetto ecclesiastico tutto il reame di Francia. Ma il re d'Aragona, poiché ebbe acquistato la Navarra, regno, benché piccolo e di piccole entrate, per il sito suo molto opportuno e di sicurtà grande alle cose di Spagna, avea fisso nell'animo di non procedere piú oltre, non riputando a proposito suo la guerra col re di Francia di là da' monti. Perciò, e nel principio della giunta degli inghilesi era stato tardo a preparare le forze sue, e dopo l'acquisto di Navarra, sollecitando gli inghilesi che unisse con loro le genti sue per andare insieme a campo a Baiona, città vicina a fonterabia e posta quasi in sul mare Oceano, proponeva altre imprese in luoghi distanti dal mare; allegando, Baiona essere talmente fortificata e talmente proveduta di soldati che niuna speranza si poteva avere di ottenerla: alle quali cose contradicendo gli inghilesi, che dispregiavano qualunque acquisto nel ducato di Ghienna senza Baiona, poiché in queste dispute fu consumato molto tempo, infastiditi gli inghilesi e riputandosi delusi, imbarcatisi senza commissione o licenza del suo principe, se ne tornorno in Inghilterra. Donde il re di Francia, rimanendo sicuro da quella parte, né temendo piú degli inghilesi che l'aveano assaltato per mare, perché, alla fine, diventò con l'armate marittime tanto potente che signoreggiava tutto il mare dalla costa di Spagna insino alle coste di Inghilterra, deliberò di tentare di ricuperare la Navarra; dandogli animo a questo, oltre alla partita degli inghilesi, l'avere per i successi avversi di Italia ridotte tutte le sue genti nel regno di Francia.

Aveva il re d'Aragona, nel tempo che agli inghilesi dava speranza di fare la guerra, e per occupare tutto il reame di Navarra, mandato alcune genti a San Giovanni Piè di Porto, ultimo confine del reame di Navarra, e posto alle radici de' monti Pirenei di verso la Francia; e dipoi cominciando ad augumentare le forze de' franzesi ne' luoghi vicini v'aveva mandato con tutto il suo esercito Federico duca d'Alva, capitano generale della guerra: ma divenuto ultimatamente molto superiore l'esercito franzese, nel quale era venuto il delfino, Carlo duca di Borbone e Longavilla, signori principali di tutta la Francia, il duca di Alva, fermatosi in alloggiamento forte tra 'l piano e il monte aveva assai se proibisse che i franzesi non entrassino nella Navarra. I quali, non potendo urtarlo in quel luogo per la fortezza del sito, deliberorno che il re di Navarra con settemila fanti del suo paese, e con lui la Palissa con trecento lancie, movendosi da Salvatierra vicina a San Giovanni Piè di Porto, dove alloggiava tutto l'esercito, passassino per la via di Valdironcales i monti Pirenei, e accostandosi a Pampalona metropoli della Navarra, nella quale i popoli, preso animo dalla vicinità de' franzesi, già facevano per il desiderio del suo re molte sollevazioni, occupassino il passo di Roncisvalle, per il quale solo si conducevano alle genti spagnuole le vettovaglie, delle quali nel luogo dove erano, per la sterilità del paese, non aveano copia alcuna. L'effetto fu che il re di Navarra e la Palissa, occupato prima il passo di... che è in sulla sommità de' monti Pirenei, sforzorno il Borghetto terra posta a piè de' monti Pirenei, difesa da Baldes capitano della guardia del re d'Aragona con molti fanti; e se colla celerità debita fussino andati a occupare il passo di Roncisvalle, bastava la fame sola a espugnare l'esercito spagnuolo, circondato da ogni parte dagli inimici e da paesi oltre a modo difficili. Ma gli prevenne la celerità del duca d'Alva; il quale, lasciati in San Gianni Piè di Porto mille fanti e tutta l'artiglieria, passò a Pampalona per il passo di Roncisvalle, innanzi che essi vi entrassino. Onde frustrati di questa speranza il re di Navarra e la Palissa, a' quali il delfino avea di nuovo mandato [quattrocento] lancie e settemila fanti tedeschi, si accostorno a Pampalona con quattro pezzi d'artiglieria, la quale con difficoltà grande per l'asprezza de' monti aveano condotta; e dipoi dato l'assalto, non l'avendo ottenuta, costretti dalla stagione del tempo, che era del mese di dicembre, e dal mancamento delle vettovaglie per la sterilità del paese, ripassorno i monti Pirenei; in su' quali, per la difficoltà de' passi e impedimenti de' paesani, furno costretti lasciare l'artiglierie: e nel tempo medesimo Lautrech, che con trecento lancie e tremila fanti era entrato nella Biscaia predando e abbruciando tutto il paese, assaltata invano la terra di San Sebastiano, ripassati i monti tornò all'esercito. Il quale, cessato il timore e la speranza da ogni parte, si dissolvé; rimanendo libero e pacifico tutto il regno di Navarra al re d'Aragona.

Nel qual tempo essendo venuto a luce che Ferdinando, che si chiamava duca di Calavria, figliuolo già di Federico re di Napoli, convenuto secretamente col re di Francia, trattava di fuggire nell'esercito franzese, non molto lontano dalla terra di Logrogno nella quale era allora il re, fu mandato da lui nella fortezza di Sciativa, solita a usarsi da' re aragonesi per carcere delle persone chiare o per nobiltà o per virtú; squartato per la medesima cagione Filippo Coppola napoletano, il quale era andato occultamente al re di Francia per queste cose; variando cosí la fortuna lo stato degli uomini che egli fusse squartato in servigio di colui dall'avolo paterno del quale il conte di Sarni suo padre era stato fatto decapitare. E faceva alle cose di Italia qualche momento l'essersi scoperta questa congiura, la quale aveva avuto origine da un frate mandato occultamente a Ferdinando dal duca di Ferrara: perché il re cattolico avendo già inclinazione di sodisfare al pontefice, si accese molto piú per questo sdegno; in modo che comandò al viceré e all'oratore suo appresso al pontefice che, quando a lui paresse, voltassino l'esercito suo contro a Ferrara, non lo ricercando di altri danari che di quegli che fussino necessari a sostentarlo. Queste cose si feciono quello anno in Italia in Francia e in Ispagna.

Cap. vii

Speranze di accordi del re di Francia e segrete trattative col vescovo Gurgense, coi veneziani e col re d'Aragona. Suoi vani tentativi di accordi con gli svizzeri. Dispareri nel consiglio del re di Francia intorno alla politica da seguirsi rispetto ai veneziani e a Cesare; sforzi del re d'Aragona per conciliare i veneziani e Cesare.

Seguita l'anno mille cinquecento tredici, non meno pieno di cose memorabili che l'anno precedente. Nel principio del quale, cessando l'armi da ogni parte, perché né i viniziani molestavano altri né alcuno si moveva contro a loro, il viceré andato con tremila fanti a campo alla rocca di Trezzo l'ottenne, con patto che con le cose loro partissino salvi quegli che vi erano dentro. Ma premevano gli animi di tutti i pensieri delle cose future, sapendosi che il re di Francia, essendo liberato dalle armi forestiere il regno suo, e preso animo dall'avere soldato molti fanti tedeschi e accresciuto non poco il numero dell'ordinanza delle lancie, niuna altra cosa piú pensava che alla recuperazione del ducato di Milano: la quale disposizione benché nel re fusse ardentissima, e desiderasse sommamente accelerare la guerra mentre che le castella di Milano e di Cremona si tenevano ancora per lui, nondimeno, considerando quanta difficoltà gli facesse l'opposizione di tanti inimici, né sicuro che la state prossima non l'assaltasse con apparati grandissimi il re d'Inghilterra, deliberava non muovere cosa alcuna se o non separava dall'unione comune qualcuno de' confederati o non si congiugnesse co' viniziani. Delle quali cose che qualcuna potesse succedere se gli erano, insino l'anno precedente, presentate varie speranze. Perché il vescovo Gurgense, quando da Roma andava a Milano, udito benignamente nel cammino uno familiare del cardinale di San Severino, mandatogli in nome della reina di Francia, aveva dipoi mandato secretamente in Francia uno de' suoi, proponendo che il re s'obligasse ad aiutare Cesare contro a' viniziani, contraessesi il matrimonio tra la seconda figliuola del re con Carlo nipote di Cesare, alla quale si desse in dote il ducato di Milano; cedesse il re alla figliuola e al futuro genero le ragioni le quali pretendeva avere al regno di Napoli, e perché la sicurtà di Cesare non fussino le semplici parole e promesse, che di presente venisse in potestà sua la sposa; e che ricuperato che avesse il re il ducato di Milano fussino tenute da Cesare Cremona e la Ghiaradadda. Sperava medesimamente il re potersi congiugnere i viniziani, sdegnati sommamente quando il viceré occupò Brescia e molto piú per le cose convenute poi a Roma tra 'l pontefice e Cesare: perciò, insino allora, aveva fatto venire occultissimamente alla corte Andrea Gritti, il quale, preso a Brescia, dimorava ancora prigione in Francia; e operato che Gianiacopo da Triulzi, in cui molto confidavano i viniziani, mandasse a Vinegia, sotto simulazione d'altre faccende, un suo secretario. Offerivasigli similmente qualche speranza di convenire col re di Aragona; il quale, come era consueto trattare spesso le cose sue per mezzo di persone religiose, aveva occultamente mandato in Francia due frati, acciocché, dimostrando avere zelo del bene publico, cominciassino a trattare con la reina qualcosa attenente alla pace, o universale o particolare, intra i due re: ma di questo era piccola speranza, sapendo il re di Francia che egli si vorrebbe ritenere la Navarra, e a lui essendo molto duro e pieno di somma indignità abbandonare quel re, che per ridursi alla amicizia sua e sotto la speranza de' suoi aiuti era caduto in tanta calamità.

Ma niuna cosa piú premeva al re di Francia che il desiderio di riconciliarsi i svizzeri, conoscendo da questo dependere la vittoria certissima, per l'autorità grandissima che aveva allora quella nazione per il terrore delle loro armi, e perché pareva che avessino cominciato a reggersi non piú come soldati mercenari né come pastori ma vigilando, come in republica bene ordinata e come uomini nutriti nell'amministrazione degli stati, gli andamenti delle cose, né permettendo si facesse movimento alcuno se non secondo l'arbitrio loro. Però concorrevano in Elvezia gli imbasciadori di tutti i príncipi cristiani; il pontefice e quasi tutti i potentati italiani pagavano annue pensioni per essere ricevuti nella loro confederazione, e avere facoltà di soldare per la difesa propria, quando n'avessino di bisogno, soldati di quella nazione: dalle quali cose insuperbiti, e ricordandosi che coll'armi loro avea prima Carlo re di Francia conquassato lo stato felice d'Italia, e che coll'armi loro Luigi suo successore aveva acquistato il ducato di Milano, recuperata Genova e vinti i viniziani, procedevano con ciascuno imperiosamente e insolentemente. E nondimeno al re di Francia, oltre a' conforti di molti particolari della nazione e il persuadersi che gli avessino a muovere l'offerte grandissime di danari, dava speranza che avendo quegli che governavano Milano convenuto cogli oratori de' svizzeri, in nome di Massimiliano Sforza, di dare loro, come prima egli avesse ricevuta la possessione del ducato di Milano e delle fortezze, ducati cento cinquantamila, e per spazio di venticinque anni quarantamila ducati ciascuno anno, ricevendolo essi sotto la sua protezione e obligandosi a concedere de' loro fanti a' suoi stipendi, nondimeno non avevano mai i cantoni ratificato. Perciò, nel principio dell'anno presente, con tutto che prima avesse tentato invano che gli imbasciadori, i quali intendeva mandare a trattare di queste cose, fussino uditi, consentí per poterlo fare di dare loro libere le fortezze di Valdilugana e di Lugarna, per ottenere con questo prezzo la udienza loro. Con tanta indignità cercavano i príncipi grandi l'amicizia di quella nazione. Venne adunque per commissione del re [monsignore] della Tramoglia a Lucerna, nel qual luogo era chiamata la dieta per udirlo; e benché raccolto con lieta fronte conobbe presto essere, in quanto al ducato di Milano, vane le sue fatiche; perché pochi dí innanzi sei de' cantoni avevano ratificato e suggellato i capitoli fatti con Massimiliano Sforza, tre avevano deliberato di ratificare, gli altri tre mostravano di stare ancora ambigui. Però, non parlando piú delle cose di Milano, proponeva che almanco aiutassino il re a recuperare Genova e Asti, che nella capitolazione fatta con Massimiliano non si includevano. Alle quali dimande il Triulzio per dare favore fece instanza di potere andare alla dieta, sotto colore di trattare cose sue particolari; e gli fu concesso il salvocondotto, ma con condizione che non trattasse di cosa alcuna attenente al re di Francia: anzi, come fu giunto a Lucerna, gli fu fatto comandamento che non parlasse né in publico né in privato con la Tramoglia. Finalmente, con consentimento comune, furono ratificati da tutti i cantoni i capitoli fatti col duca di Milano, denegate tutte le dimande del re di Francia, e aggiunto che non se gli concedesse soldare fanti di quella nazione per servirsene né in Italia né fuora d'Italia.

Perciò il re, escluso da' svizzeri, conosceva essere necessario il riconciliarsi o con Cesare o co' viniziani, i quali nel tempo medesimo trattavano ancora [con] Cesare: perché, crescendo negli animi de' collegati il sospetto della riconciliazione loro col re di Francia, consentiva Gurgense che essi ritenessino Vicenza. Ma dando animo al senato quelle medesime ragioni che facevano timore agli inimici, negavano volere piú fare la pace se non si restituiva loro Verona, ricompensando Cesare con maggiore somma di danari: nella qual dimanda trovando difficoltà, inclinati tanto piú all'amicizia franzese, convennono col secretario del Triulzio di confederarsi col re, riferendosi alle prime capitolazioni fatte tra loro, per le quali se gli dovevano Cremona e la Ghiaradadda; ma il secretario espresse nella capitolazione che niente fusse valido se infra certo tempo non si approvava dal re. Nel consiglio del quale erano varie dispute, quale fusse piú da desiderare, o la riconciliazione con Cesare o la confederazione co' viniziani. Questa piú approvavano Rubertet, secretario di grande autorità, il Triulzio e quasi tutti i principali del consiglio, allegando quel che l'esperienza presente aveva, con tanto danno, dimostrato della incostanza di Cesare, l'odio che aveva contro al re e il desiderio di vendicarsi; penetrando massime, da autori non leggieri, essere state in questo tempo qualche volta parole sue, che aveva fissa nell'animo la memoria di diciassette ingiurie ricevute da' franzesi, e che essendogli venuta la facoltà di vendicarle tutte non voleva perderne la occasione; né per altro effetto trattarsi queste cose da lui se non o per avere, per mezzo della riconciliazione fraudolenta, maggiore comodità di nuocere, o almeno per interrompere quel che si sapeva trattarsi co' viniziani o per raffreddare le preparazioni della guerra; né si potere scusare né meritare compassione chi una volta ingannato da uno tornava incautamente a confidarsi di lui. Replicava in contrario il cardinale di San Severino, mosso, come dicevano gli avversari, piú per lo studio delle parti contro al Triulzio che per altre cagioni (perché in Milano aveva sempre, insieme co' fratelli, seguitata la parte ghibellina): niuna cosa potere essere piú utile al re che, col congiugnersi con Cesare, rompere l'unione degli inimici, massime facendosi la congiunzione per mezzo tale che si potesse sperare dovere essere durabile; essendo proprio de' príncipi preporre nelle loro deliberazioni sempre l'utilità alla benivolenza agli odii e all'altre cupidità. E quale cosa potere a Cesare fare beneficio maggiore che l'aiuto presente contro a viniziani? la speranza d'avere a succedere il nipote nel ducato di Milano? Separato Cesare dagli altri, non potere, per l'interesse del nipote e per gli altri rispetti, opporsi alla autorità sua il re cattolico; né cosa alcuna potere piú spaventare il pontefice che questa: e per contrario essere piena di indignità la confederazione co' viniziani, avendo a concedere loro Cremona e la Ghiaradadda, membri tanto propri al ducato di Milano, per la recuperazione de' quali aveva il re concitato tutto il mondo; e nondimeno, se non si divideva la unione degli altri, non bastare a conseguire la vittoria la congiunzione co' viniziani. Prevaleva finalmente questa sentenza per l'autorità della reina desiderosa della grandezza della figliuola; pur che si potesse ottenere che insino alla consumazione del matrimonio si conservasse appresso alla madre, la quale obligasse la fede sua di tenerla in nome di Cesare come sposa destinata al nipote, e di consegnarla al marito come prima l'età fusse abile al matrimonio: ma certificato poi il re, Cesare non essere per convenire con questa limitazione, piú tosto queste cose essere state proposte da lui artificiosamente per dargli causa di procedere piú lentamente negli altri pensieri, rimosso l'animo da questa pratica, rivocò Asparot fratello di Lautrech, partito già dalla corte per andare a Gurgense con questa commissione. Da altra parte, crescendo il timore dell'unione tra il re e i viniziani, il re d'Aragona confortava Cesare alla restituzione di Verona, proponendogli il trasferire, co' danari che arebbe da' viniziani e con l'esercito spagnuolo, la guerra nella Borgogna. Il medesimo sentiva Gurgense, il quale, sperando potere colla presenza muovere Cesare, ritornò in Germania: seguitandolo non solo don Petro Durrea, venuto seco, ma ancora Giovambatista Spinello conte di Carriati, imbasciadore del medesimo re appresso a' viniziani; avendo prima indotto il senato, acciocché nuove difficoltà non interrompessino le speranze che si trattavano, a fare tregua con Cesare per tutto il mese di marzo, data la fede dagli oratori predetti che Cesare restituirebbe Verona, pur che a lui fussino promessi in certi tempi dugento cinquantamila ducati e ciascuno anno ducati cinquantamila.

Cap. viii

Morte di Giulio II: giudizio dell'autore. Occupazione di Piacenza e di Parma da parte del viceré. Elezione di Leone X; sue promesse di benevolenza verso i cardinali scismatici. Magnifica incoronazione del nuovo pontefice.

In questa agitazione di cose e in tempi tanto gravi sopravenne la infermità del pontefice, pieno (perché dall'avere ottenuto le cose desiderate non si diminuiscono ma si accrescono sempre i disegni) di maggiori voglie e concetti che forse fusse stato innanzi, per tempo alcuno. Perché aveva deliberato di fare, al principio della primavera, la impresa tanto desiderata di Ferrara; la quale città, essendo abbandonata da tutti gli aiuti, e dovendovi andare oltre alle genti sue l'esercito spagnuolo, si credeva avesse a fare piccola resistenza: aveva comperato secretamente, per prezzo di trentamila ducati da Cesare la città di Siena per il duca d'Urbino; al quale, per conservarsi intera la gloria d'avere pensato schiettamente alla esaltazione della Chiesa, non avea, da Pesero infuora, voluto mai concedere cosa alcuna dello stato ecclesiastico; conveniva prestare a Cesare quarantamila ducati, ricevendone in pegno Modena; minacciava i lucchesi che ne' travagli del duca di Ferrara avessino occupato la Garfagnana, instando la dessino a lui; e sdegnato col cardinale de' Medici per parergli che aderisse piú al re cattolico che a sé, e per conoscere di non potere disporre come si aveva presupposto di quella città, già aveva nuovi disegni e nuove pratiche per alterare lo stato di Firenze: sdegnato col cardinale sedunense, perché di stati e di beni di diverse persone nello stato di Milano aveva attribuito a sé entrata di piú di trentamila ducati l'anno, gli aveva tolto il nome del legato e chiamatolo a Roma: aveva, acciò che le cose del duca di Urbino in Siena, per la intelligenza de' vicini, fussino piú stabili, condotto di nuovo Carlo Baglione, per cacciare Giampaolo di Perugia congiuntissimo di affinità co' figliuoli di Pandolfo Petrucci, successori della grandezza paterna: voleva costituire in Genova nuovo doge Ottaviano Fregoso, rimosso Ianus di quella degnità; consentendo a questo gli altri Fregosi perché, per il grado il quale v'avevano tenuto i suoi maggiori, pareva che piú a lui si appartenesse: pensava assiduamente come potesse o rimuovere di Italia o opprimere con l'aiuto de' svizzeri, i quali soli magnificava e abbracciava, l'esercito spagnuolo, acciò che, occupato il regno napoletano, Italia rimanesse (queste parole uscivano frequentemente della bocca sua) libera da' barbari; e a questo fine aveva impedito che i svizzeri non si confederassino col re cattolico. E nondimeno, come se in potestà sua fusse percuotere in un tempo medesimo tutto il mondo, continuando nel solito ardore contro al re di Francia, con tutto che avesse udito uno messo della reina, concitava il re di Inghilterra alla guerra; al quale aveva ordinato che, per decreto del concilio lateranense, si trasferisse il nome del re cristianissimo; sopra la qual cosa era già scritta una bolla, contenendosi in essa medesimamente la privazione dalla degnità e dal titolo di re di Francia, concedendo quel regno a qualunque lo occupasse. In questi tali e tanti pensieri, e forse ancora in altri piú occulti e maggiori (perché nello animo tanto feroce non era incredibile concetto alcuno quantunque vasto e smisurato), l'oppresse, dopo infermità di molti giorni, la morte. Dalla quale sentendosi prevenire, fatto chiamare il concistorio, al quale per la infermità non poteva intervenire personalmente, fece confermare la bolla publicata prima da lui contro a chi ascendesse al pontificato per simonia, e dichiarare la elezione del successore appartenere al collegio de' cardinali e non al concilio, e che i cardinali scismatici non vi potessino intervenire: a' quali disse che perdonava l'ingiurie fatte a sé, e che pregava Dio che perdonasse loro le ingiurie fatte alla sua Chiesa. Supplicò poi al collegio de' cardinali che, per fare cosa grata a sé, concedessino la città di Pesero in vicariato al duca di Urbino; ricordando che per opera principalmente di quel duca era stata, alla morte di Giovanni Sforza, ricuperata alla Chiesa. In niuna altra cosa dimostrò affetti privati o propri; anzi, supplicando instantemente madonna Felice sua figliuola, e per sua intercessione molti altri, che creasse cardinale [Guido] da Montefalco perché erano nati di una medesima madre, rispose apertamente non essere persona degna di quel grado: e ritenendo in tutte le cose la solita costanza e severità, e il medesimo giudicio e vigore d'animo che aveva innanzi alla infermità, ricevuti divotamente i sacramenti ecclesiastici, finí, la notte innanzi al vigesimo primo dí di febbraio essendo già propinquo il giorno, il corso delle fatiche presenti. Principe d'animo e di costanza inestimabile ma impetuoso e di concetti smisurati, per i quali che non precipitasse lo sostenne piú la riverenza della Chiesa, la discordia de' príncipi e la condizione de' tempi, che la moderazione e la prudenza. Degno certamente di somma gloria se fusse stato principe secolare, o se quella cura e intenzione che ebbe a esaltare con l'arti della guerra la Chiesa nella grandezza temporale avesse avuta a esaltarla con l'arti della pace nelle cose spirituali: e nondimeno, sopra tutti i suoi antecessori, di chiarissima e onoratissima memoria; massimamente appresso a coloro i quali, essendo perduti i veri vocaboli delle cose, e confusa la distinzione del pesarle rettamente, giudicano che sia piú officio de' pontefici aggiugnere, con l'armi e col sangue de' cristiani, imperio alla sedia apostolica che l'affaticarsi, con lo esempio buono della vita e col correggere e medicare i costumi trascorsi, per la salute di quelle anime, per la quale si magnificano che Cristo gli abbia costituiti in terra suoi vicari.

Morto il pontefice, il viceré di Napoli, andato co' soldati spagnuoli verso Piacenza, costrinse quella città a ritornare, come già soleva, sotto l'imperio de' duchi di Milano: l'esempio de' piacentini seguitorno, per il medesimo terrore, i parmigiani. Da altra parte, il duca di Ferrara, ricuperate subito le terre di Romagna, si accostò a Reggio; ma non si movendo dentro cosa alcuna non ebbe ardire di fermarvisi, perché l'esercito spagnuolo si era disteso ad alloggiare tra Piacenza e Reggio. Niuno altro movimento fu nello stato della Chiesa, né sentí Roma o il collegio de' cardinali alcuna di quelle difficoltà che avea sentite nella morte de' due prossimi pontefici: però, finite secondo l'uso l'esequie, entrorono pacificamente nel conclave ventiquattro cardinali; avendo prima conceduto che il figliuolo del marchese di Mantova, che era appresso a Giulio per statico, libero dalla fede data, potesse ritornarsene al padre.

Nel conclave fu la prima cura moderare con capitoli molto stretti l'autorità del futuro pontefice, esercitata, come dicevano, dal morto troppo impotentemente: benché non molto poi (come degli uomini alcuni non hanno ardire di opporsi al principe, altri appetiscono di farselo benevolo) gli annullorno da loro medesimi quasi tutti. Elessono il settimo dí, non discrepando alcuno, in pontefice Giovanni cardinale de' Medici, il quale assunse il nome di Leone decimo, di età d'anni trentasette; cosa, secondo la consuetudine passata, maravigliosa, e della quale fu principale cagione la industria de' cardinali giovani, convenutisi molto prima tacitamente insieme di creare il primo pontefice del numero loro. Sentí di questa elezione quasi tutta la cristianità grandissimo piacere, persuadendosi universalmente gli uomini che avesse a essere rarissimo pontefice, per la chiara memoria del valore paterno e per la fama, che risonava per tutto, della sua liberalità e benignità; stimato casto e di integerrimi costumi; e sperandosi che a esempio del padre avesse a essere amatore de' letterati e di tutti gl'ingegni illustri: la quale espettazione accresceva l'essere stata fatta l'elezione candidamente, senza simonia o sospetto di macula alcuna. E pareva già che Iddio cominciasse ad approvare questo pontificato, perché il quarto dí dalla elezione vennono in sua potestà i cardinali privati di Santa Croce e di San Severino. I quali, intesa la morte di Giulio, andavano per mare a Roma, accompagnati da... Solier imbasciadori del re di Francia; ma intesa nel porto di Livorno, ove erano sorti, essere eletto il cardinale de' Medici in nuovo pontefice, confidatisi nella sua benignità, e specialmente Sanseverino nella amicizia stretta che aveva avuto seco e col fratello, impetrato salvocondotto, dal capitano di Livorno, il quale non si stendeva oltre a' limiti della sua giurisdizione, discesono in terra, e dipoi, non ricercata altra sicurezza, spontaneamente andorno a Pisa: nella quale città raccolti onoratamente, e dipoi condotti a Firenze, erano onestamente custoditi, di maniera che non aveano facoltà di partirsi: cosí desiderando il pontefice. Il quale, mandato il vescovo d'Orvieto, gli confortò con parole molto benigne che, per sicurtà loro e per pace della Chiesa, soprasedessino in Firenze insino a tanto si determinasse in che modo avessino a andare a Roma; e che, essendo stati privati giuridicamente e confermata la privazione nel concilio lateranense, non andassino piú in abito di cardinali, perché facendo segni d'umiliarsi, faciliterebbono a lui il ridurre, secondo che aveva in animo di fare, in porto le cose loro.

Fu la prima azione del nuovo pontificato la incoronazione sua, fatta secondo l'uso degli antecessori nella chiesa di San Giovanni Laterano, con tanta pompa, cosí dalla famiglia e corte sua come da tutti i prelati e da molti signori che vi erano concorsi e dal popolo romano, che ciascuno confessò non avere mai veduto Roma, dopo le inondazioni de' barbari, dí piú magnifico e piú superbo che questo. Nella quale solennità portò il gonfalone della Chiesa Alfonso da Esti; il quale, ottenuta la sospensione dalle censure, era andato a Roma, con speranza grande di comporre, per la mansuetudine del pontefice, le cose sue: portò quello della religione di Rodi Giulio de' Medici, armato, in su uno grosso corsiere; inclinato dalla volontà sua alla professione dell'armi ma tirato da' fati alla vita sacerdotale, nella quale avesse a essere esempio maraviglioso della varietà della fortuna. E fece questo dí piú memorabile e di maggiore ammirazione il considerare che colui che ora pigliava, con sí rara pompa e splendore, le insegne di tanta degnità era stato nel dí medesimo, l'anno dinanzi, fatto miserabilmente prigione. Confermò questa magnificenza appresso al volgo la espettazione che si aveva di lui, promettendosi ciascuno che Roma avesse a essere felice sotto uno pontefice ornato di tanta liberalità e di tanto splendore; perché era certo essere stati spesi da lui in questo dí centomila ducati: ma gli uomini prudenti desiderorno maggiore gravità e moderazione, giudicando né convenire tanta pompa a' pontefici, né essere secondo la condizione de' tempi presenti il dissipare inutilmente i danari accumulati dal precessore.

Cap. ix

Tregua fra il re di Francia e il re d'Aragona. Preoccupazioni in Italia per la conclusione della tregua. Ragioni che spingono il re di Francia alla nuova impresa d'Italia. Confederazione fra i veneziani e il re di Francia.

Ma né la mutazione del pontefice né altri accidenti bastavano a stabilire la quiete d'Italia, anzi già apertamente cominciavano a indirizzarsi le cose alla guerra. Perché Cesare, alieno totalmente dalla restituzione di Verona, parendogli rimanere privato della facilità di entrare in Italia, con tutto che fusse stata prolungata la tregua per tutto aprile, disprezzò le condizioni dell'accordo trattato a Milano; e infastidito della instanza che gli facevano gli oratori del re cattolico, disse al conte di Carriati che, per la inclinazione che da lui si dimostrava a' viniziani, conveniva che fusse chiamato piú presto imbasciadore viniziano che spagnuolo: ma augumentò molto piú questa disposizione la tregua la quale tra i re cristianissimo e cattolico fu fatta, per uno anno, solamente per le cose di là da' monti; per la quale al re di Francia, liberato da' sospetti di verso Spagna, si dava facilità grandissima di rinnovare la guerra nel ducato di Milano. Aborriva in ogni, tempo il re cattolico d'avere la guerra di là da' monti co' franzesi, perché non essendo potente di danari, e per questo costretto ad aiutarsi delle forze de' signori e de' popoli di Spagna, o non aveva gli aiuti pronti o bisognava che nel tempo della guerra stesse con loro quasi come in subiezione: ma in questo tempo massimamente era confermato il suo antico consiglio, perché colla quiete si stabiliva meglio il regno nuovamente acquistato di Navarra, ma molto piú perché, essendo dopo la morte della reina Isabella non piú re ma governatore di Castiglia, non aveva tanto fondata ne' tempi turbolenti l'autorità sua; e aveva veduto l'esperienza frescamente nella difesa di Navarra, della quale se bene fusse stato felice il fine non era però che, per la lentezza de' soccorsi, non si fusse ridotto in molti pericoli. A' quali non volendo piú ritornare, contrasse, non sapendo ancora la morte del pontefice, la tregua; con tutto che non fusse publicata innanzi sapesse l'elezione del nuovo. E allegava, per giustificazione di questa inaspettata deliberazione, essergli stata violata la lega dal pontefice e da' viniziani, perché dopo la giornata di Ravenna non avevano mai voluto pagare i quarantamila ducati, come erano tenuti mentre che il re di Francia possedeva cosa alcuna in Italia: egli solo avere pensato al bene comune de' confederati né attribuito a sé i premi della vittoria comune, né possedere in Italia una piccola torre piú di quello che possedeva innanzi alla guerra; ma il papa avere pensato al particolare e fatte sue proprie le cose comuni, occupato Parma, Piacenza e Reggio, né pensato ad altro che a occupare Ferrara; la quale sua cupidità aveva disturbato l'acquistare le fortezze del ducato di Milano e la Lanterna di Genova: avere egli interposta tutta la sua diligenza e autorità per la concordia tra Cesare e i viniziani, ma il pontefice essersi per gli interessi propri precipitato a escludergli dalla lega; nella qualcosa avere fatto imprudentemente gli oratori suoi, che non avendo consentito, perché cosí sapeano essere la mente sua, che e' fusse nominato nel capitolo nel quale si introduceva la confederazione, l'avessino lasciato nominare in quello nel quale si escludevano i viniziani; né avere in questo maneggio corrisposto i viniziani al concetto che si aveva della prudenza loro, avendo tenuto tanto conto di Vicenza che, per non perderla, non avessino voluto liberarsi da' travagli della guerra: essergli impossibile nutrire, senza i pagamenti che gli erano stati promessi, l'esercito che aveva in Italia, e manco essergli possibile sostenere tutta la guerra a' confini de' regni suoi, come conosceva desiderare e procurare tutti gli altri: né dissimulare il pontefice il desiderio già indirizzato di torgli il regno di Napoli. E nondimeno non muoverlo queste ingiurie a pensare di abbandonare la Chiesa e gli altri di Italia, quando trovasse la corrispondenza conveniente, i quali sperava che, commossi da questa tregua col re, sarebbeno piú pronti a convenire seco per la difesa comune. Inserí nello instrumento della tregua il nome di Cesare e del re di Inghilterra, con tutto che con loro non avesse comunicato cosa alcuna; e fu cosa ridicola che ne' medesimi dí che la si bandiva solennemente per tutta Spagna venne uno araldo a significargli, in nome del re d'Inghilterra, gli apparati potentissimi che e' faceva per assaltare la Francia e a sollecitare che egli medesimamente movesse, secondo che aveva promesso, la guerra dalla parte di Spagna.

La tregua fatta in questo modo spaventò sommamente in Italia gli animi di coloro a' quali era molesto lo imperio de' franzesi, tenendosi quasi per certo da tutti che il re di Francia non avesse a tardare a mandare l'esercito di qua da' monti e che, per l'ostinazione di Cesare alla pace, i viniziani avessino a unirsi seco; a' quali resistere pareva molto difficile, perché l'esercito spagnuolo, ancora che dallo stato di Milano afflitto da spese infinite avesse tratto alcuna volta qualche somma di danari, non aveva piú modo a sostentarsi. Del nuovo pontefice non si comprendeva ancora quale fusse la intenzione: perché, benché secretamente desiderasse che la potenza del re di Francia avesse per termine i monti, nondimeno, nuovo nel pontificato, e confuso non meno che gli altri dalla tregua fatta dal re cattolico nel tempo che si credeva avesse applicati i pensieri alla guerra, stava coll'animo molto sospeso; sdegnato ancora che, ricercando con grande instanza che alla Chiesa fussino restituite Parma e Piacenza, il darne speranza era pronto, l'esecuzione procedeva lentamente; desiderando tutti gli altri conservarle al ducato di Milano, e per avventura sperando che il desiderio di recuperarle lo inducesse alla difesa di quello stato. Parevano piú certo e piú potente presidio i svizzeri ma, considerando non potersi né da Massimiliano Sforza né da altri pagare i danari che, secondo le convenzioni, erano necessari al muovergli, si temeva che nel maggiore bisogno ricusassino di scendere nello stato di Milano.

Da altra parte il re di Francia, fatta che ebbe la tregua, deliberò di mandare l'esercito in Italia, dandogli speranza alla vittoria le ragioni dette di sopra; alle quali s'aggiugneva il sapere che i popoli dello stato di Milano, vessati da tante taglie e rapine de' svizzeri e dagli alloggiamenti e pagamenti fatti agli spagnuoli, desideravano ardentemente di ritornare sotto il dominio suo, avendo, per l'acerbità degli altri, conosciuto essere, in comparazione loro, desiderabile lo imperio de' franzesi. Anzi molti gentiluomini particolari di quel ducato, per messi propri, indiritti chi al re chi al Triulzio (il quale il re, acciocché di luogo piú propinquo trattasse co' milanesi, avea mandato a Lione), confortavano a non differire a mandare l'esercito; promettendo, subito che avesse passato i monti, di pigliare scopertamente l'armi per lui. Né mancavano gli stimoli assidui del Triulzio e degli altri fuorusciti che, secondo il costume di chi è fuori della patria, proponevano la impresa dovere essere molto facile, massimamente congiugnendosi seco i viniziani. E lo costrigneva ad accelerare il confidare di prevenire, colla fine di questa, il principio della guerra del re di Inghilterra: la quale non poteva cominciare se non dopo il corso di qualche mese, perché quel regno, essendo già molti anni stato in pace, era sproveduto d'armadure, d'artiglierie e quasi di tutte le cose necessarie alla guerra, non aveva cavalli da combattere perché gli inghilesi non conoscono altra milizia che la pedestre, e quella non essendo esperimentata, era necessitato, perché voleva passare in Francia potentissimo, soldare numero grande di fanti tedeschi: cose che senza lunghezza di tempo non si potevano spedire. Costrigneva similmente il re, ad accelerare, il timore che le fortezze non si perdessino per mancamento di vettovaglie; e specialmente la Lanterna di Genova, la quale pochi dí innanzi non gli era succeduto di rinfrescare per una nave mandata a questo effetto: la quale da Arbinga, insino dove era stata accompagnata da tre navi e da uno galeone, entrata nell'alto mare col vento prospero, per la forza del quale passata per mezzo de' legni genovesi si era accostata al castello, surta in sull'ancore e dato il cavo alla fortezza, già cominciava a scaricare le vettovaglie e le munizioni che avea portate; ma Andrea Doria, quel che poi fu tanto felice e famoso in sul mare, entrato con pericolo grande, con una nave grossa della quale era padrone, tra la Lanterna e la nave franzese, e tagliato il cavo dato alla fortezza e i cavi delle ancore, combattendo egregiamente e nel combattere ferito nel volto, la conquistò.

Deliberato adunque il re non differire il dare cominciamento alla guerra (al qual fine, per essere parato a ogni occasione, avea prima mandato molte lancie ad alloggiare nella Borgogna e nel Dalfinato) ristrinse le cose trattate già molti mesi co' viniziani, ma allentate alquanto dall'una parte e dall'altra, perché e il re aveva tenuto sospeso ora la speranza della pace con Cesare ora il dimandare essi pertinacemente Cremona e la Ghiaradadda, e nel senato erano stati vari pareri. Perché molti di autorità grande nella republica proponevano la concordia con Cesare, dimostrando essere piú utile alleggerirsi al presente da tante spese e liberarsi da' pericoli, per potere piú prontamente abbracciare l'occasioni che si offerissino, che, essendo la republica affaticata e indebolite le sostanze de' privati, implicarsi in nuove guerre in compagnia del re di Francia; della amicizia del quale quanto fusse fedele e sicura avevano sí fresca l'esperienza: nondimeno, parendo alla maggiore parte rare volte potere venire tale occasione di recuperare l'antico stato loro, e che la concordia con Cesare, ritenendosi Verona, non gli liberasse dalle molestie e da' pericoli, si risolverono a fare la confederazione col re di Francia, lasciato da parte il pensiero di Cremona e della Ghiaradadda. La quale per Andrea Gritti, che già sosteneva piú la persona di imbasciadore che di prigione, fu conchiusa nella corte del re: nella quale, presupposta la liberazione di Bartolomeo da Alviano e di Andrea Gritti, si obligorono i viniziani di aiutare, con ottocento uomini d'arme mille cinquecento cavalli leggieri e diecimila fanti, il re di Francia contro a qualunque se gli opponesse, alla recuperazione di Asti di Genova e del ducato di Milano; e il re si obligò ad aiutare loro insino a tanto ricuperassino interamente tutto quello possedevano, innanzi alla lega di Cambrai, in Lombardia e nella marca trivisana; e che al re s'appartenessino Cremona e la Ghiaradadda. La quale confederazione subito che fu stipulata, andorno a Susa Giaiacopo da Triulzi e Bartolomeo d'Alviano, l'uno per andare poi per la via piú sicura a Vinegia, l'altro per unire quivi l'esercito destinato alla guerra, che era mille cinquecento lancie ottocento cavalli leggieri e quindicimila fanti (ottomila tedeschi, gli altri franzesi); tutti sotto il governo di [monsignore] della Tramoglia, deputato dal re, perché le cose procedessino con maggiore riputazione, suo luogotenente.

Cap. x

Dubbi del re di Francia per il contegno e gli atti del pontefice. Cauto contegno di questo. Ambiguo contegno del viceré. Prime irrequietudini in Milano per l'avvicinarsi dei francesi. La partenza del viceré dalla Trebbia e suo improvviso ritorno. Suo atteggiamento d'attesa degli avvenimenti.

Faceva in questo tempo medesimo il re, con sommi prieghi, instanza col pontefice che non gli impedisse la recuperazione del suo ducato, offerendogli non solamente che dopo la vittoria non procederebbe piú oltre ma che sempre farebbe la pace ad arbitrio suo. Le quali cose benché il pontefice udisse benignamente e che, acciò che con maggiore fede fussino ricevute le parole sue, usasse a trattare col re l'opera e il mezzo di Giuliano suo fratello, nondimeno molte cose lo facevano sospetto al re: la memoria delle cose precedenti al pontificato; l'avere il pontefice, subito che fu assunto, mandato a lui Cintio suo familiare con uno breve e con umane commissioni, ma tanto generali che arguivano non avere l'animo inclinato a lui: l'avere il pontefice consentito che Prospero Colonna fusse eletto capitano generale del duca di Milano, il che Giulio, per l'odio contro a' Colonnesi, aveva sempre vietato. Insospettivalo molto piú, che il pontefice aveva significato al re di Inghilterra volere continuare nella confederazione fatta con Cesare col re cattolico e con lui, e alle comunità de' svizzeri aveva scritto quasi dimostrando di esortargli alla difesa d'Italia; né dissimulava volere continuare con loro la confederazione fatta da Giulio, per la quale, ricevendo ogni anno ventimila ducati da lui, si erano obligati alla protezione dello stato ecclesiastico. Era anche segno del suo animo il non avere ricevuto in grazia il duca di Ferrara, ma differita con varie scuse la restituzione di Reggio insino a tanto che a Roma venisse il cardinale suo fratello; il quale, per fuggire le persecuzioni di Giulio e l'instanza del re di Francia che andasse al concilio pisano, se ne era andato ad Agria suo vescovado in Ungheria. Ma piú che di alcuna di queste cose rendeva sospetto il pontefice l'avere, benché piú occultamente gli fusse stato possibile, confortato il senato viniziano a convenire con Cesare, cosa tutta contraria all'intenzione del re; il quale aveva ancora interpetrato in mala parte che 'l papa, dimostrando di muoversi non per altro che per l'officio pontificale, gli aveva scritto uno breve esortatorio a non muovere l'armi, a inclinare a finire la guerra con onesta composizione, cosa che per se stessa il re non arebbe biasimata se, per il medesimo desiderio della pace, avesse confortato il re di Inghilterra a non molestare la Francia.

E certamente non era vano il sospetto del re, perché il pontefice desiderava sommamente che i franzesi non avessino piú sedia in Italia, o perché gli paresse piú utile per la sicurtà comune o per la grandezza della Chiesa o perché gli risedesse nell'animo la memoria delle offese ricevute dalla corona di Francia: alla quale se bene il padre e gli altri suoi maggiori fussino stati deditissimi, e n'avessino in vari accidenti riportato comodità e onore, nondimeno era piú fresco che i suoi fratelli ed egli erano stati cacciati di Firenze per la venuta del re Carlo; e che questo presente re, favorendo il governo popolare, o gli aveva sempre dispregiati o se alcuna volta si era dimostrato inclinato a loro l'aveva fatto per usargli come instrumenti a tirare per questo sospetto i fiorentini a convenzioni utili a sé proprio, dimenticandosi di loro interamente. Aggiugnevasi per avventura lo sdegno di essere stato, dopo la giornata di Ravenna, menato prigione a Milano e che il re aveva comandato fusse condotto in Francia. Ma quantunque, o per queste cagioni o per altre, avesse questa disposizione, il non vedere i fondamenti potenti, come arebbe desiderato, a resistere lo faceva procedere cautamente e dissimulare quanto poteva il concetto suo, udendo sempre cupidamente le dimande e le instanze che gli erano fatte contro al re.

Perché i svizzeri, inclinatissimi a muoversi per difendere il ducato di Milano, offerivano muoversi con numero molto maggiore purché gli fusse porta quantità mediocre di danari; la quale, per la impotenza degli altri, non si poteva sperare se non dal pontefice. Ma del viceré erano incerti i consigli, varie e occulte le parole: perché ora offeriva al pontefice di opporsi a' franzesi, discendendo egli medesimamente apertamente nella causa, mandando a unirsi con lui le sue genti e pagando per tre mesi quantità non piccola di fanti; e perché piú facilmente si credesse, chiamati i suoi soldati del parmigiano e del reggiano, si era fermato con l'esercito in sul fiume della Trebbia, ed essendo ancora alcuni de' suoi soldati alla guardia di Tortona e di Alessandria, i quali mai non avea mossi; ora affermava avere ricevuto comandamento del suo re, nel tempo medesimo che gli significò l'avere fatta la tregua, di ridurre l'esercito nel reame di Napoli. Altrimenti parlava Ieronimo Vich oratore appresso al pontefice, confermandosi in questo con quello che prometteva il suo re: che pigliando il pontefice la difesa di Milano, egli, non avendo rispetto alla tregua fatta, romperebbe la guerra in Francia; il che diceva essergli lecito senza violare la fede data. Perciò molti credettono che quel re, temendo che per la tregua fatta niuno fusse per opporsi al re di Francia, avesse comandato al viceré che, in caso non vedesse gli altri concorrere caldamente alla difesa del ducato di Milano, che cercando di non provocare con ingiurie nuove il re di Francia, riducesse l'esercito a Napoli: per la qual cagione medesima dimostrava al re d'avere l'animo inclinato alla pace, offerendo di indurvi eziandio Cesare e il re di Inghilterra; e per renderlo manco acerbo seco, in caso recuperasse Milano, gli faceva promessa quasi certa che 'l suo esercito non se gli opporrebbe. Perciò il viceré, avendo in animo di partirsi, richiamò i soldati che sotto il marchese di Pescara erano in Alessandria e in Tortona, significando (come fu fama) nel tempo medesimo al Triulzio la sua deliberazione, acciò che il re di Francia ricevesse in grazia la partita. Ma non eseguí subito questo consiglio, perché i svizzeri, ardentissimi alla difesa del ducato di Milano, aveano per publico decreto mandati cinquemila fanti e davano speranza di mandarne numero molto maggiore; anzi dimostrando, il contrario, mandò Prospero Colonna a trattare co' svizzeri in qual luogo si avessino a unire insieme contro a' franzesi, o perché avesse ricevuto avviso a Cesare essere stata molestissima la tregua fatta, o dal suo re nuove commissioni che seguitasse la volontà del pontefice; il quale, combattendo in lui da una parte la piccola speranza dall'altra la propria inclinazione, perseverava ancora nelle medesime perplessità. E nondimeno, essendo i svizzeri venuti nel tortonese, ove Prospero aveva data intenzione che il viceré verrebbe a unirsi, interponendo varie scuse, gli ricercò che venissino a unirsi in sulla Trebbia: dalla quale domanda essi comprendendo la diversità della volontà dalle parole, risposono ferocemente non ricercare questo il viceré per andare a mostrare la fronte agli inimici ma per voltare con sicurtà maggiore le spalle, non importare niente a' svizzeri se aveva timore di combattere co' franzesi, quel medesimo stimare il suo andare il suo stare il suo fuggirsi; essi bastare soli a difendere il ducato di Milano contro a ciascuno.

Ma già tumultuava tutto il paese: il conte di Musocco figliuolo di Giaiacopo era, non si opponendo alcuno, entrato in Asti e poi in Alessandria; i franzesi, partiti da Susa, si facevano innanzi; il duca di Milano, non essendo stato a tempo a entrare in Alessandria, si uní co' svizzeri appresso a Tortona; ove essendo stato significato loro apertamente dal viceré che aveva deliberato di partirsi, se ne andorono a Novara. I milanesi, alla fama della partita del viceré, mandorono imbasciadori a Novara a scusarsi con lui se, non avendo chi gli difendesse, per fuggire gli ultimi mali convenissino co' franzesi; il quale dimostrò di accettare benignamente la loro escusazione, anzi gli commendò che alla salute della patria comune pietosamente pensassino. In sulla quale occasione Sacramoro Visconte, deputato all'assedio del castello, rivoltatosi alla fortuna de' franzesi, vi messe dentro vettovaglie.

Partí adunque il viceré dalla Trebbia con tutto l'esercito, nel quale erano mille dugento uomini d'arme e ottomila fanti, per ritornarsene nel reame, come disperate le cose di Lombardia, e però pensando solamente alla salvazione dell'esercito: ma il dí medesimo, mentre che camminava, ricevute tra Piacenza e Firenzuola lettere da Roma, voltate subitamente le insegne, tornò nel medesimo alloggiamento. La cagione fu che il pontefice, al quale erano state quasi ne' dí medesimi restituite Piacenza e Parma, deliberato di tentare se per mezzo de' svizzeri si potesse difendere il ducato di Milano, dette occultissimamente a Ieronimo Morone, imbasciadore del duca appresso a sé, quarantaduemila ducati per mandare a' svizzeri; ma sotto nome, se pure pervenisse a notizia di altri, che ventimila fussino per conto delle pensioni, ventiduemila per quello che i tre cantoni pretendevano dovere avere dallo antecessore, il quale aveva sempre ricusato di pagargli.

Per la ritornata del viceré in sulla Trebbia e per la fama della venuta di nuovi svizzeri, i milanesi, pentitisi di essersi mossi troppo presto, davano speranza a Massimiliano Sforza di ritornare sotto il dominio suo, ogni volta che i svizzeri e l'esercito spagnuolo si unissino in sulla campagna. Le quali speranze per nutrire, il viceré, appresso al quale era Prospero Colonna, gittava il ponte in sul Po, promettendo continuamente di passare ma non lo mettendo a effetto; perché, pensando principalmente alla salute dell'esercito, deliberava procedere secondo i successi delle cose, parendogli molto pericoloso dovere avere alla fronte i franzesi, alle spalle l'esercito veneto; il quale, occupata già la città di Cremona e gittato il ponte alla Cava in sul Po, gli era vicino.

 

Cap. xi

Prime imprese dei veneziani, e dedizioni di città del ducato di Milano ai francesi. Fazioni vittoriose dei tedeschi nel veronese. Genova ridotta alla devozione del re di Francia.

Era Bartolomeo d'Alviano andato da Susa, per lungo circuito, a Vinegia; dove, avendo ne' loro consigli, poi che della rotta di Ghiaradadda ebbe, senza contradizione, riferita la colpa nel conte di Pitigliano, parlato magnificamente della presente guerra, fu eletto dal senato per capitano generale, con le medesime condizioni con le quali aveva quel grado ottenuto il conte di Pitigliano e, per avventura, il dí medesimo (tanto spesso si ride la fortuna della ignoranza de' mortali) nel quale, quattro anni innanzi, era venuto in potestà degli inimici: onde subito andato all'esercito, che si raccoglieva a San Bonifazio nel veronese, essendo seco Teodoro da Triulzi come luogotenente del re di Francia, si accostò con grandissima celerità, il dí medesimo che l'esercito franzese si mosse da Susa, alle porte di Verona; nella quale città avevano congiurato alcuni per riceverlo dentro. Ma il dí seguente entrorno in Verona, per il fiume dell'Adice, cinquecento fanti tedeschi; ed essendo venuto a luce quel che dentro si trattava, l'Alviano, perduta la speranza di ottenerla, deliberò, contro all'autorità del proveditore veneto, di andare verso il fiume del Po, per impedire gli spagnuoli o, secondo i progressi delle cose, unirsi co' franzesi. Né significò questa deliberazione al senato se non poi che, per uno alloggiamento, si fu discostato da Verona: perché, con tutto che allegasse dependere interamente la somma del tutto da quel che succederebbe del ducato di Milano e, procedendo in quello avversamente a' franzesi le cose, vano essere e non durabile ciò che in altro luogo si tentasse o ottenesse, e però doversi quanto era possibile aiutare quivi la vittoria del re di Francia, nondimeno temeva, né vanamente, che il senato non contradicesse, non tanto per desiderio che prima s'attendesse alla recuperazione di Verona e di Brescia quanto perché alcuni degli altri condottieri dannavano il passare il fiume del Mincio, se prima de' progressi de' franzesi non s'aveva piú particolare notizia; dimostrando, se sopravenisse qualche sinistro, quanto sarebbe difficile il ritirarsi salvi, avendo a passare per il veronese e mantuano, paesi o sudditi o divoti a Cesare. Arrenderonsigli, impaurite da' suoi minacci, Valeggio e la terra di Peschiera: onde, spaventato, il castellano dette la rocca, ricevuta piccolissima quantità di danari per sé e per alcuni fanti tedeschi che vi erano dentro. Entrorno ne' dí medesimi in Brescia, in favore de viniziani, alcuni de' principali della montagna con molti paesani, e nondimeno l'Alviano, benché pregato dagli imbasciadori bresciani che lo trovorno a Gambera, e facendone instanza il proveditore viniziano, non volle consentire di andare a Brescia, per dimorarvi pure un dí solo a fine si recuperasse la fortezza, guardata in nome del viceré: tanto era l'ardore di proseguire senza alcuna intermissione la prima deliberazione. Con la quale celerità venuto alle porte di Cremona, e trovando che nel medesimo tempo vi entrava, pure in favore del re di Francia, Galeazzo Palavicino chiamato da alcuni cremonesi, non volendo comunicare ad altri la gloria d'averla ricuperata, roppe e messe in preda le genti sue; ed entrato dentro svaligiò Cesare Fieramosca, che con trecento cavalli e cinquecento fanti del duca di Milano vi era rimasto a guardia. Né accadeva perdere tempo per la recuperazione della fortezza, perché sempre era stata tenuta per il re di Francia, proveduta poco innanzi di vettovaglie da Renzo da Ceri; il quale nel ritornare a Crema, ove era preposto alla guardia, avendo scontrati a Serzana dugento cavalli d'Alessandro Sforza gli aveva rotti: donde fermatosi alla Cava in sul Po, col ponte ordinato per passare, non proibí che i suoi soldati non molestassino alcuna volta le terre del pontefice. Andò di poi a Pizichitone; avendo già, per la mutazione di Cremona, Sonzino, Lodi e l'altre terre circostanti alzate le bandiere de' franzesi. Ma prima, subito che recuperò Cremona, aveva mandato Renzo da Ceri a Brescia con una parte delle genti, per provedere allo stabilimento di quella città e alla ricuperazione della fortezza; e molto piú per raffrenare i successi prosperi de' tedeschi. Perché, quasi subito che egli si discostò da Verona, Roccandolf, capitano de' fanti tedeschi, e con lui Federigo Gonzaga da Bozzole, usciti di Verona con secento cavalli e duemila fanti, erano andati a San Bonifazio, ove l'Alviano aveva lasciati sotto Sigismondo Caballo e Giovanni Forte trecento cavalli leggieri e secento fanti; i quali, sparsi per il paese senza alcuna disciplina militare, sentita la venuta degli inimici, si erano fuggiti a Cologna; ove i tedeschi seguitandogli, entrati per forza nella terra, fattigli tutti prigioni, la saccheggiorno e abbruciorno: il medesimo feciono poi a Soavi, roppono il ponte fatto da' viniziani in sull'Adice, e arebbono con l'impeto medesimo occupata Vicenza se non vi fusse entrato dentro subitamente numero grandissimo di paesani. I quali progressi faceva di maggiore considerazione l'essersi divulgato che dal contado di Tiruolo venivano a Verona nuovi fanti.

Nel qual tempo medesimo si accostò per mare a Genova l'armata del re di Francia, con nove galee sottili e altri legni; e per terra, col favore de' rivieraschi della loro parte e con altri soldati condotti co' danari del re, Antoniotto e Ieronimo fratelli degli Adorni, mossisi con grandissima occasione, per la discordia nata poco innanzi tra' Fieschi e il doge di Genova, con cui erano stati prima uniti contro agli Adorni: perché, o per quistione nata a caso o per sospetto sopravenuto, Ieronimo, figliuolo di Gianluigi dal Fiesco, uscendo del palagio publico, era stato ammazzato da Lodovico e da Fregosino fratelli del doge. Per la quale ingiuria, Ottobuono e Sinibaldo suoi fratelli, ritiratisi alle loro castella, e poco dipoi convenutisi col re di Francia e cospirando con gli Adorni, si accostorno da altra parte con quattromila fanti a Genova. Non era il doge potente a resistere per se stesso alla parte Gattesca e Adorna congiunte insieme, né per la celerità degli avversari poteva essere a tempo il soccorso che aveva chiesto al viceré; e inclinò del tutto le cose, che mille fanti de' suoi fermatisi in su' monti vicini, non potendo resistere al numero maggiore, furno rotti. Onde il doge, insieme con Fregosino, avendo a fatica avuto tempo di salvare la propria vita, fuggí per mare, lasciato Lodovico, l'altro fratello, alla custodia del Castelletto, e i vincitori entrorno in Genova: dove i fratelli de' Fieschi, traportati dall'impeto della vendetta, feciono ammazzare e dipoi, legato crudelmente alla coda di un cavallo, strascinare per tutta la città Zaccheria fratello del doge, rimasto prigione alla battaglia fatta in su' monti; il quale era insieme cogli altri intervenuto alla morte del fratello. Cosí ridotta Genova alla divozione del re di Francia, fu fatto in nome suo governatore Antoniotto Adorno; e l'armata franzese forní di gente e di vettovaglie la Lanterna, e di poi saccheggiata la Spezie si fermò a Portovenere.

Cap. xii

I francesi, dopo vari assalti alla città, si accampano a due miglia da Novara. Parole di Mottino agli svizzeri per esortarli ad assalire gli alloggiamenti nemici. Vittoria degli svizzeri e copiosi frutti di essa. Vicende della guerra dei veneziani.

Non rimaneva piú niente al re di Francia, alla recuperazione intera degli stati perduti l'anno dinanzi, che Novara e Como; le quali due città sole si tenevano ancora in nome di Massimiliano Sforza in tutto il ducato di Milano. Ma era, con infamia grande di tutti gli altri, destinata la gloria di questa guerra non a' franzesi non a' fanti tedeschi non all'armi spagnuole, non alle viniziane, ma solamente a' svizzeri: contro a' quali l'esercito franzese, lasciato in Alessandria presidio sufficiente per sostenere le cose di là dal Po, si accostò a Novara; feroce per tanti successi, per la confusione degli inimici rinchiusi dentro alle mura, e per il timore già manifesto degli spagnuoli. Rappresentavasi, oltre a queste cose, alla memoria degli uomini quasi come una immagine e similitudine del passato: questa essere quella medesima Novara nella quale era stato fatto prigione Lodovico Sforza padre del duca presente; essere nel campo franzese quegli medesimi capitani... della Tramoglia e Gianiacopo da Triulzi, e appresso al figliuolo militare alcune delle medesime bandiere e de' medesimi capitani di quegli cantoni che allora il padre venduto aveano. Onde la Tramoglia avea superbamente scritto al re che nel medesimo luogo gli darebbe prigione il figliuolo, nel quale gli aveva dato prigione il padre. Batterno i franzesi impetuosamente con l'artiglierie le mura, ma in luogo donde lo scendere dentro era molto difficile e pericoloso, e dimostrando tanto di non gli temere i svizzeri che mai patirno si chiudesse la porta della città di verso il campo. Gittato in terra spazio sufficiente della muraglia, dettono quegli di fuora molto ferocemente la battaglia, dalla quale si difesono con grandissimo valore quegli di dentro; onde i franzesi, ritornati agli alloggiamenti, inteso che il dí medesimo erano entrati in Novara nuovi svizzeri, e avendo notizia aspettarsi Altosasso, capitano di fama grande, con numero molto maggiore, disperati di poterla piú spugnare, si discostorno il dí seguente due miglia di Novara, sperando oramai di ottenere la vittoria piú per i disordini e mancamento di danari agli inimici che per l'impeto dell'armi. Ma interroppe queste speranze la ferocia e ardentissimo spirito di Mottino uno de' capitani de' svizzeri; il quale, chiamata la moltitudine in sulla piazza di Novara, gli confortò con ferventissime parole che non aspettato il soccorso di Altosasso, il quale doveva venire il prossimo dí, andassino ad assaltare gli inimici a' loro alloggiamenti. Non patissino che la gloria della vittoria, la quale poteva essere propria, fusse comune, anzi diventasse tutta d'altri; imperocché, come le cose seguenti tirano a sé le precedenti, e l'augumento cuopre la parte augumentata, non a essi ma a quegli che sopravenivano si attribuirebbe tutta la laude.

- Quanto la cosa disse Mottino - pare piú difficile e piú pericolosa tanto riuscirà piú facile e piú sicura, perché quanto piú sono gli accidenti improvisi e inaspettati tanto piú spaventano e mettono in terrore gli uomini. Niente meno aspettano i franzesi, al presente, che 'l nostro assalto: alloggiati pure oggi, non possono essere alloggiati se non disordinatamente e senza fortezza alcuna. Solevano gli eserciti franzesi non avere ardire di combattere se non aveano appresso i fanti nostri; hanno, da qualche anno in qua, avuto ardire di combattere senza noi ma non mai contro a noi: quanto spavento, quanto terrore, quando si vedranno furiosamente e improvisamente assaltati da coloro la virtú e ferocia de' quali soleva essere il cuore e la sicurtà loro! Non vi muovino i loro cavalli, le loro artiglierie; perché altra volta abbiamo esperimentato quanto essi medesimi confidino in queste cose contro a noi. Gastone di Fois, tanto feroce capitano, con tante lancie con tanti cannoni, non ci dette egli sempre alla pianura la via quando, senza cavalli senza altre armi che le picche, scendemmo, due anni sono, insino alle porte di Milano? Hanno seco ora i fanti tedeschi, e questo è quello che mi muove, che mi accende: avendo in un tempo medesimo occasione di dimostrare a colui che, con tanta avarizia con tanta ingratitudine, dispregiò le nostre fatiche il nostro sangue, che mai fece, né per sé né per il regno suo, peggiore deliberazione; e dimostrare a coloro che pensorno l'opera loro essere sufficiente a privarci del nostro pane, non essere pari i lanzchenech a' svizzeri, avere la medesima lingua la medesima ordinanza, ma non già la medesima virtú la medesima ferocia. Una sola fatica è, di occupare l'artiglierie, ma l'alleggerirà non essere poste in luogo fortificato, l'assaltarle all'improviso, le tenebre della notte. Assaltandole impetuosamente, è piccolissimo spazio di tempo quello nel quale possono offenderti; e questo, interrotto dal tumulto dal disordine dalla subita confusione. L'altre cose sono somma facilità; non ardiranno i cavalli venire a urtare le nostre picche; molto meno, quella turba vile de' fanti franzesi e guasconi verranno a mescolarsi con noi. Apparirà in questa deliberazione non meno la prudenza nostra che la ferocia. È salita in tanta fama la nostra nazione che non si può piú conservare la gloria del nostro nome se non tentando qualche cosa fuora dell'espettazione e uso comune di tutti gli uomini; e poi che siamo intorno a Novara, il luogo ci ammunisce che non possiamo in altro modo spegnere l'antica infamia, pervenutaci quando con Lodovico Sforza militavamo alla medesima Novara. Andiamo adunque, con l'aiuto del sommo Dio, persecutore degli scismatici degli scomunicati degli inimici del suo nome. Andiamo a una vittoria, se saremo uomini, sicura e facile; della quale quanto pare che sia maggiore il pericolo tanto sarà il nome nostro piú glorioso e maggiore: quanto sono maggiore numero gli inimici che noi, tanto piú ci arricchiranno le spoglie loro. -

Alle parole di Mottino gridò ferocemente tutta la moltitudine, approvando ciascuno col braccio disteso il detto suo; e dipoi egli, promettendo la vittoria certa, comandò che andassino a riposarsi e procurare le persone loro, per mettersi, quando col suono de' tamburi fussino chiamati, negli squadroni. Non fece mai la nazione de' svizzeri né la piú superba né la piú feroce deliberazione: pochi contra molti, senza cavalli e senza artiglierie contro a uno esercito potentissimo di queste cose, non indotti da alcuna necessità, perché Novara era liberata dal pericolo, e aspettavano il dí seguente non piccolo accrescimento di soldati, elessono spontaneamente di tentare piú tosto quella via nella quale la sicurtà fusse minore ma la speranza della gloria maggiore che quella nella quale dalla sicurtà maggiore risultasse gloria minore. Uscirno adunque con impeto grandissimo, dopo la mezza notte, di Novara, il sesto dí di giugno, in numero circa diecimila, distribuitisi con questo ordine: settemila per assaltare l'artiglierie, intorno alle quali alloggiavano i fanti tedeschi; il rimanente per fermarsi, con le picche alte, all'opposito delle genti d'arme. Non erano, per la brevità del tempo e perché non si temeva tanto presto di uno accidente tale, stati fortificati gli alloggiamenti de' franzesi; e al primo tumulto, quando dalle scolte fu significata la venuta degli inimici, il caso improviso e le tenebre della notte dimostravano maggiore confusione e maggiore terrore. Nondimeno, e le genti d'arme sí raccolsono prestamente agli squadroni e i fanti tedeschi, i quali furno seguitati dagli altri fanti, si messono subitamente negli ordini loro. Già con grandissimo strepito percotevano l'artiglierie ne' svizzeri che venivano per assaltarle, facendo tra loro grandissima uccisione, la quale si comprendeva piú tosto per le grida e urla degli uomini che per beneficio degli occhi, l'uso de' quali impediva ancora la notte; e nondimeno con fierezza maravigliosa, non curando la morte presente né spaventati per il caso di quegli che cadevano loro allato, né dissolvendo l'ordinanza, camminavano con passo prestissimo contro all'artiglierie: alle quali pervenuti, si urtorno insieme ferocissimamente, essi e i fanti tedeschi, combattendo con grandissima rabbia l'uno contro all'altro, e molto piú per l'odio che per la cupidità della gloria. Aresti veduto (già incominciava il sole ad apparire) piegare ora questi ora quegli, parere spesso superiori quegli che prima parevano inferiori, di una medesima parte in un tempo medesimo alcuni piegarsi alcuni farsi innanzi, altri difficilmente resistere altri impetuosamente insultare agli inimici: piena da ogni parte ogni cosa di morti, di ferite, di sangue. I capitani fare ora fortissimamente l'ufficio di soldati, percotendo gli inimici difendendo se medesimi e i suoi, ora fare valorosissimamente l'ufficio di capitani, confortando, provedendo, soccorrendo, ordinando, comandando. Da altra parte, quiete e ozio grandissimo dove stavano armati gli uomini d'arme; perché, cedendo al timore ne' soldati l'autorità i conforti i comandamenti i prieghi l'esclamazioni le minaccie del la Tramoglia e del Triulzio, non ebbono mai ardire di investire gli inimici che aveano innanzi a loro, e a' svizzeri bastava tenergli fermi perché non soccorressino i fanti loro. Finalmente, in tanta ferocia in tanto valore delle parti che combattevano, prevalse la virtú de' svizzeri; i quali, occupate vittoriosamente l'artiglierie e voltatele contro agli inimici, con esse e col valore loro gli messono in fuga. Con la fuga de' fanti fu congiunta la fuga delle genti d'arme, delle quali non apparí virtú o laude alcuna. Solo Ruberto della Marcia, sospinto dall'ardore paterno, entrò con uno squadrone di cavalli ne' svizzeri per salvare Floranges e Denesio suoi figliuoli, capitani di fanti tedeschi, che oppressi da molte ferite giacevano in terra; e combattendo con tale ferocia che non che altro pareva cosa maravigliosa a' svizzeri, gli condusse vivi fuori di tanto pericolo. Durò la battaglia circa due ore, con danno gravissimo delle parti. De' svizzeri morirno circa mille cinquecento, tra quali Mottino, autore di cosí glorioso consiglio; percosso, mentre ferocemente combatteva, nella gola da una picca. Degli inimici, numero molto maggiore: dicono alcuni diecimila; ma de' tedeschi fu morta la maggiore parte nel combattere: de' fanti franzesi e guasconi fu morta la maggiore parte nel fuggire. Salvossi quasi tutta la cavalleria, non gli potendo perseguitare i svizzeri, i quali se avessino avuti cavalli gli arebbono facilmente dissipati: con tanto terrore si ritiravano. Rimasono in preda a' vincitori tutti i carriaggi, ventidue pezzi d'artiglieria grossa e tutti i cavalli diputati per uso loro. Ritornorno i vincitori quasi trionfanti, il dí medesimo, in Novara; e con tanta fama per tutto il mondo che molti aveano ardire, considerato la magnanimità del proposito, il dispregio evidentissimo della morte, la fierezza del combattere e la felicità del successo, preporre questo fatto quasi a tutte le cose memorabili che si leggono de' romani e de' greci. Fuggirono i franzesi nel Piemonte; donde, gridando invano il Triulzio, passorno subitamente di là da' monti.

Ottenuta la vittoria, Milano e l'altre terre che si erano aderite a' franzesi mandorno a dimandare perdono, il quale fu conceduto, ma obligandosi a pagare quantità grande di danari; i milanesi dugentomila ducati, gli altri secondo le loro possibilità; e tutti si pagavano a' svizzeri, a' quali della vittoria acquistata colla virtú e col sangue loro si doveva giustamente non meno l'utilità che la gloria. I quali, per ricôrre tutto il frutto che si poteva, entrorono poi nel marchesato di Monferrato e nel Piamonte, incolpati d'avere ricettato l'esercito franzese; dove, parte predando parte componendo i miseri popoli, ma astenendosi da violare la vita e l'onore, feciono grandissimi guadagni. Né furno del tutto gli spagnuoli privati de' premi della vittoria: perché essendo ricorsi al viceré, dopo il fatto d'arme, Ianus prossimamente cacciato di Genova e Ottaviano Fregosi, de' quali ciascuno ambiva di essere doge, il viceré, preposto Ottaviano, per il quale s'affaticava sommamente, per l'antica amicizia, il pontefice, e ricevuta da lui promessa di pagare, come fusse entrato in Genova, [cinquanta] mila ducati, gli concedette tremila fanti sotto il marchese di Pescara; esso col resto dell'esercito andò a Chiesteggio, dimostrando, se fusse necessario, di passare piú innanzi; ma come il marchese e Ottaviano si appropinquorno a Genova, i fratelli Adorni conoscendosi impotenti a resistere se ne partirono: e Ottaviano, entrato dentro, fu creato doge di quella città. La quale nell'anno medesimo vedde preposti al suo governo i franzesi, Ianus Fregoso, gli Adorni e Ottaviano.

Ma Bartolomeo d'Alviano, come ebbe sentita la rotta dell'esercito del re di Francia, temendo di non essere subito seguitato dagli spagnuoli, si ritirò senza dilazione a Pontevico; lasciati, per non perdere tempo, per la strada alcuni pezzi di artiglieria che si conducevano piú tardamente. Da Pontevico, lasciato Renzo da Ceri in Crema e abbandonata Brescia, perché era inutile diminuire l'esercito, nel quale erano rimasti secento uomini d'arme mille cavalli leggieri e cinquemila fanti, procedendo colla medesima celerità, e con tanto timore e disfavore del paese che qualunque piccola gente gli avesse seguitati si sarebbono rotti da loro medesimi, si condusse alla Tomba presso all'Adice, non si essendo mai riposato in luogo alcuno se non quanto lo costrigneva la necessità del ricreare gli uomini e i cavalli. Fermossi alla Tomba, essendo cessata la paura perché niuno lo seguitava, dove dette opera di fare condurre a Padova e a Trevigi quanta piú quantità potette di biade del veronese; e nel tempo medesimo mandò Giampaolo Baglione, con sessanta uomini d'arme e mille dugento fanti, a Lignago. Il quale, ricevuto subito dagli uomini della terra ove non era presidio alcuno, dette la battaglia alla rocca guardata da cento cinquanta fanti tra spagnuoli e tedeschi, battutala prima con l'artiglierie, da quella parte che è volta in verso la piazza. Nel quale assalto non so che potesse piú, o la virtú o la fortuna: perché mentre si combatteva, cominciata per sorte ad ardere la munizione per alcuni instrumenti di fuochi artificiati gittati da quegli di fuora, abbruciò una parte della rocca; nel qual tumulto entrati dentro, parte per il muro rotto parte con le scale, i fanti che davano la battaglia, preso il capitano spagnuolo, ammazzorno o feciono prigioni tutti quegli che vi erano dentro. Preso Lignago, gittò l'Alviano il ponte in sull'Adice; e dipoi, essendogli stata data da alcuni veronesi speranza di tumultuare contro a' tedeschi, andò ad alloggiare alla villa di San Giovanni distante quattro miglia da Verona; donde accostatosi la mattina seguente alla porta che si dice di San Massimo, piantò con grandissimo furore l'artiglierie alla torre della porta e al muro congiunto a quella, attendendo se in questo tempo nascesse dentro qualche tumulto. Rovinate circa quaranta braccia di muraglia oltre alla torre, la quale cadde di maniera che fece uno argine fortissimo alla porta, dette molto ferocemente la battaglia. Ma in Verona erano trecento cavalli e tremila fanti tedeschi sotto Roccandolf, capitano di molto nome, i quali valorosamente si difendevano; dalla rottura del muro al discendere in terra era non piccolo spazio di altezza; né per i veronesi si faceva, secondo le speranze date, movimento: onde l'Alviano, vedendo la difficoltà dell'espugnarla, ritirò i fanti suoi dalle mura, e già aveva cominciato a discostare l'artiglierie. Ma mutata in un momento sentenza (credettesi per imbasciata ricevuta da quegli di dentro), fatti ritornare i fanti alla muraglia, rinnovò con maggiore ferocia che prima l'assalto. Ma erano le medesime che prima le difficoltà dell'ottenerla, la medesima tiepidezza in coloro che l'aveano chiamato; in modo che disperata del tutto la vittoria, ammazzati nel combattere piú di dugento uomini de' suoi, tra' quali Tommaso Fabbro da Ravenna conestabile di fanti, levate con maravigliosa prestezza dalle mura l'artiglierie, ritornò il dí medesimo allo alloggiamento dal quale la mattina si era partito: non lodata in questo dí né per il consiglio né per l'evento, ma celebrata sommamente per tutta Italia, la sua celerità, che in un giorno solo avesse fatto quel che con fatica gli altri capitani in tre o quattro giorni sogliono fare. Dette poi il guasto al contado, tentando se con questo timore poteva costrignere i Veronesi ad accordarsi. Ma già veniva innanzi lo esercito spagnuolo: perché il viceré, intesa che ebbe la perdita di Lignago, né ritardato piú, per il prospero successo, dalle cose di Genova, dubitando che, o per timore del guasto o per la mala disposizione de' cittadini, Verona non aprisse le porte a' viniziani, deliberò soccorrere senza dilazione le cose di Cesare. Però passato alla Stradella il fiume del Po, e arrendutesegli senza difficoltà le città di Bergamo e di Brescia e similmente la terra di Peschiera, si pose a campo alla rocca guardata da dugento cinquanta fanti; la quale, con tutto che secondo l'opinione comune si fusse potuta difendere ancora qualche dí, venne per forza in sua potestà, rimanendo prigione il proveditore viniziano e i fanti che non furno ammazzati nel combattere. Ritirossi l'Alviano, per l'approssimarsi degli spagnuoli, ad Alberé di là dallo Adice; richiamati, per riempiere il piú poteva l'esercito, non solamente alcuni fanti che erano nel Polesine di Rovigo ma quegli ancora che aveva lasciati in Lignago. E poco dipoi, essendosi i fanti tedeschi uniti a San Martino col viceré, e andando, recuperato Lignago, a Montagnana, i viniziani, a' quali in quelle parti non rimaneva piú altro che Padova e Trevigi, intenti a niuna altra cosa che alla conservazione di quelle città, ordinorno che l'esercito si distribuisse in quelle: in Trevigi dugento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e dumila fanti sotto Giampaolo Baglione, appresso al quale erano Malatesta da Sogliano e il cavaliere della Volpe; in Padova l'Alviano col rimanente dell'esercito. Il quale, attendendo a fortificare, i bastioni fatti ristaurando e a molte opere imperfette perfezione dando, faceva, oltre a questo, acciò che gli inimici non potessino accostarvisi se non con gravissimo pericolo e difficoltà, e con moltitudine grandissima di guastatori, spianare tutte le case e tagliare tutti gli alberi, per tre miglia dintorno a Padova.

Cap. xiii

Atto di sottomissione dei cardinali scismatici. Aiuti del pontefice a Cesare. Apprensioni dei veneziani e loro pronte decisioni.

Ma mentre che le cose dell'armi procedevano in questa forma, il pontefice si affaticava con somma industria per stirpare la divisione della Chiesa introdotta dal concilio pisano; la qual cosa dependendo totalmente dalla volontà del re di Francia, si ingegnava con molte arti di placare l'animo suo, affermando essere falsa la fama divulgata dello essere stati mandati da lui danari a' svizzeri, e dimostrando non avere altro desiderio che della pace universale e di essere padre comune di tutti i príncipi cristiani. Dolergli sopra modo che la dissensione sua colla Chiesa privasse lui della facoltà di dimostrargli quanto naturalmente fusse inclinato alla amicizia sua, perché per l'onore della sedia apostolica e della persona sua propria era necessitato a procedere separatamente con lui, insino a tanto che, essendo ritornato alla ubbidienza della Chiesa romana, gli fusse lecito riceverlo come re cristianissimo e abbracciarlo come figliuolo primogenito della Chiesa. Desiderava il re, per gli interessi propri, la unione del suo regno colla Chiesa, dimandata instantemente da tutti i popoli e da tutta la corte, e alla quale era molto stimolato dalla reina; e conosceva, oltre a questo, non potere mai sperare congiunzione col pontefice nelle cose temporali se prima non si componevano le differenze spirituali. Però, o prestando fede o fingendo di prestarne alle sue parole, gli mandò imbasciadore per trattare queste cose il vescovo di Marsilia: alla venuta del quale il pontefice fece, per decreto del concilio, restituire la facoltà di purgare la contumacia, per tutto novembre prossimo, a' vescovi franzesi e altri prelati contro a' quali, come scismatici, l'antecessore aveva rigidissimamente proceduto per via di monitorio; e la mattina medesima nella quale cosí si determinò fu letta nel concilio una scrittura, sottoscritta di mano di Bernardino Carvagial e di Federico da San Severino, nella quale, non si nominando cardinali, approvavano tutte le cose fatte nel concilio lateranense, promettevano di aderire a quello e di ubbidire il pontefice, onde in conseguenza confessavano essere stata legittima la privazione loro dal cardinalato; la quale, fatta da Giulio, era stata confermata, esso vivente, dal medesimo concilio. Erasi trattato prima di restituirgli, ma differito per la contradizione degli oratori di Cesare e del re d'Aragona, e de' cardinali sedunense ed eboracense, i quali detestavano come cosa indegna della maestà della sedia apostolica e di pessimo esempio, il concedere venia agli autori di tanto scandolo e di uno delitto tanto pernicioso e pieno di tanta abominazione; ricordando la costanza di Giulio ritenuta contro a loro, né per altro che per il bene publico, insino all'ultimo punto della vita. Ma il pontefice inclinava alla parte piú benigna, giudicando piú facile spegnere in tutto il nome del concilio pisano con la clemenza che col rigore, e per non esacerbare l'animo del re di Francia, il quale instantemente supplicava per loro; né lo riteneva odio particolare, non essendo stata la ingiuria fatta a lui, anzi, innanzi al pontificato, stati congiuntissimi i fratelli ed egli con Federico. Per le quali ragioni, seguitando il proprio giudicio, aveva fatto leggere innanzi a' padri del concilio la scrittura della loro umiliazione, e dipoi statuí il dí alla restituzione; la quale fu fatta con questo ordine: entrorno Bernardino e Federico in Roma occultamente di notte, senza abito e insegne di cardinali; e la mattina seguente, dovendo presentarsi innanzi al pontefice residente nel concistorio, accompagnato da tutti i cardinali, eccettuati il svizzero e l'inghilese che ricusorno di intervenirvi, passorno, prima vestiti da semplici sacerdoti colle berrette nere, per tutti i luoghi publici del palagio di Vaticano, nel quale la notte erano alloggiati; concorrendo moltitudine grandissima a vedergli, e affermando ciascuno dovere [essere], questo vilipendio cosí publico, acerbissimo tormento alla superbia smisurata di Bernardino e alla arroganza non minore di Federico. Ammessi nel concistorio, dimandorno genuflessi, con segni di grandissima umiltà, perdono al pontefice e a cardinali, approvando tutte le cose fatte da Giulio e nominatamente la loro privazione, e la elezione del nuovo pontefice come fatta canonicamente e dannando il conciliabolo pisano come scismatico e detestabile. Della quale loro confessione poiché fu estratta autentica scrittura e sottoscritta di loro mano, levati in piede, feciono riverenza e abbracciorono tutti i cardinali, i quali non si mosseno da sedere: e dopo questo, vestiti in abito di cardinali, furono ricevuti a sedere nello ordine medesimo nel quale sedevano innanzi alla loro privazione: ricuperata con questo atto solamente la degnità del cardinalato, ma non le chiese e l'altre entrate che solevano possedere, perché molto prima, come vacanti, erano in altri state trasferite.

Sodisfece in questo atto, se non in tutto, almeno in parte, il pontefice al re di Francia; ma non gli sodisfaceva nell'altre azioni, perché sollecitamente procurava la concordia tra Cesare e i viniziani, come cosa per gli accidenti seguiti non difficile a ottenere: perché si credeva che Cesare, invitato dalle occasioni di là da' monti, inclinasse, per potere piú speditamente attendere alla recuperazione della Borgogna per il nipote, ad alleggerirsi di questo peso; e molto piú si sperava che lo desiderassino i viniziani, spaventati per la rotta de' franzesi e perché sapevano che il re di Francia, essendo imminenti molti pericoli al regno proprio, non poteva piú l'anno presente pensare alle cose d'Italia. Sentivano appropinquarsi l'esercito spagnuolo e doversi unire con quello le genti che erano in Verona, essi esausti di danari, deboli di soldati, specialmente di fanti, avere soli a resistere senza che apparisse scintilla alcuna di lume propinquo: e nondimeno rispondeva costantissimamente il senato, non volere accettare concordia alcuna senza la restituzione di Vicenza e di Verona. Ricercò in questo tempo Cesare il pontefice che gli concedesse dugento uomini d'arme contro a' viniziani; la quale dimanda, benché gli fusse molestissima, dubitando che il concedergli non fusse molesto al re di Francia, né gli parendo a proposito di Cesare o suo diventare sospetto a' viniziani per una causa di sí piccola importanza, nondimeno, perseverando Cesare ostinatamente, gli mandò il numero dimandato, sotto Troilo Savello, Achille Torello e Muzio Colonna; non volendo, col recusare, fare segno di non volere perseverare nella confederazione contratta col pontefice passato, e parendogli non essere ritenuto da obligo alcuno co' viniziani: i quali, oltre che l'esercito loro, quando l'Alviano era appresso a Cremona, aveva, poco amichevolmente, predato per il parmigiano e piacentino, non aveano mai eletti imbasciadori a prestargli secondo l'uso antico l'ubbidienza, se non da poi che i franzesi, vinti, erano ritornati di là da' monti. Spaventò questa deliberazione i viniziani, non tanto per l'importanza di tale sussidio quanto per timore che da questo principio il pontefice non procedesse piú oltre, riputandolo ancora per segno manifestissimo che mai piú avesse a separarsi dagli inimici; e nondimeno non variorno da' primi consigli, anzi, disposti mostrare quanto potevano il volto alla fortuna, commessono al proveditore di mare che era a Corfú che, raccolti quanti piú legni potesse, assaltasse i luoghi marittimi della Puglia: benché poco di poi, considerando meglio quel che importasse provocare tanto il re d'Aragona, per la potenza sua e perché aveva sempre dimostrato confortare Cesare alla concordia, rivocorno come piú animosa che prudente questa deliberazione.

Cap. xiv

Indecisioni dei tedeschi; fortunata impresa di Renzo da Ceri. Propositi degli Adorni e del duca di Milano di mutare il governo in Genova passata, dopo Novara, sotto l'influenza spagnuola. Fallita impresa di tedeschi e di spagnuoli contro Padova. Fazioni di guerra nei territori di Bergamo e di Crema. Azioni di tedeschi di spagnuoli e di soldati del pontefice contro Venezia.

Soggiornava il viceré a Montagnana, non determinato ancora quello s'avesse a fare; perché erano alti i concetti de' tedeschi, difficili le imprese, che sole rimanevano a fare, o di Padova o di Trevigi, e le forze molto inferiori alle difficoltà, perché in tutto l'esercito non erano oltre a mille uomini d'arme non molti cavalli leggieri e diecimila fanti tra spagnuoli e tedeschi: la quale deliberazione avendosi finalmente a referire alla volontà del vescovo Gurgense, che fra pochi dí doveva essere all'esercito, s'aspettava la sua venuta. Nel qual tempo essendo in Bergamo un commissario spagnuolo che riscoteva la taglia di venticinquemila ducati, imposta a quella città quando si arrendé al viceré, Renzo da Ceri vi mandò da Crema una parte de' suoi soldati; i quali entrativi di notte con aiuto di alcuni della terra, preso il commissario con quella parte di danari che aveva riscossi, se ne ritornorno a Crema.

Fecesi similmente, in questi medesimi dí, preparazione per turbare di nuovo le cose di Genova; essendo conformi a questo le volontà del duca di Milano e de' svizzeri. A' quali ricorsi Antoniotto e Ieronimo Adorni, avevano ricordato al duca la dipendenza che i padri loro aveano avuta con Lodovico suo padre, che con le spalle degli Adorni aveva recuperato e tenuto molti anni quieto il dominio di Genova, del quale era stato fraudolentemente spogliato da' dogi Fregosi; e avere gli Adorni partecipato della mala fortuna degli Sforzeschi, perché nel tempo medesimo che Lodovico avea perduto il ducato di Milano erano stati gli Adorni cacciati di Genova, però essere conveniente che similmente partecipassino della buona: durare la medesima benivolenza, la medesima fede; né dovere essere imputati se, non uditi in luogo alcuno abbandonati d'ogni speranza, erano, non spontaneamente ma per necessità, ricorsi a quel re dal quale prima erano stati scacciati. Ricordassesi da altra parte dell'odio antico de' Fregosi, quante ingiurie e quanti inganni avessino fatti, al padre Batista, e il cardinale Fregosi, l'uno dopo l'altro dogi di Genova; e considerasse come potevano avere convenienza o confidarsi di Ottaviano Fregoso, il quale oltre all'antico odio ricusava d'avere superiore in quella città. A' svizzeri avevano proposti stimoli di utilità, di sicurtà, di onore: pagare, se per opera loro fussino restituiti alla patria, quantità di danari pari a quella che aveva pagata il Fregoso agli spagnuoli; essersi per la virtú loro conservato il ducato di Milano e a essi appartenerne il patrocinio, perciò dovere considerare quanto fusse contrario alla sicurtà di quello stato che Genova, città vicina e tanto importante, dominasse un doge dependente interamente dal re di Aragona; ed essere stato molto indegno del nome e della gloria loro l'avere permesso che Genova, frutto della vittoria di Novara, fusse ceduta in utilità degli spagnuoli, i quali, mentre che i svizzeri andavano con tanta ferocia a percuotere nelle palle fulminate dalle artiglierie de' franzesi, mentre che, per dire meglio, correvano incontro alla morte, sedevano oziosi in sulla Trebbia, aspettando come da una vedetta, secondo il successo delle cose, o di vituperosamente fuggire o di fraudolentemente rubare i premi della vittoria acquistata coll'altrui sangue. Da queste cagioni accesi, moveva già il duca le genti sue e i svizzeri quattromila fanti; ma le minaccie del viceré contro al duca e l'autorità del pontefice, a cui sommamente erano a cuore le cose di Ottaviano, gli fece desistere.

Era in questo mezzo il viceré andato alla Battaglia, luogo distante da Padova sette miglia; dove Carvagial, cavalcando inavvertentemente con pochi cavalli a speculare il sito del paese, fu preso da Mercurio capitano de' cavalli leggieri de' viniziani. Al qual tempo, venuto il vescovo Gurgense all'esercito, si consultava quello si dovesse fare; e proponeva Gurgense l'andare a campo a Padova, dimostrando sperare tanto nella virtú de' tedeschi e degli spagnuoli contro agli italiani che avessino finalmente a superare tutte le difficoltà. Essere poco meno laboriosa l'espugnazione di Trevigi, ma diversissimo il premio della vittoria; perché l'ottenere solamente Trevigi era alla somma delle cose di piccolo momento, ma per la spugnazione di Padova assicurarsi interamente le terre suddite a Cesare dalle molestie e da' pericoli della guerra, e privarsi di ogni speranza i viniziani d'avere mai piú a ricuperare le cose perdute. In contrario sentivano il viceré e quasi tutti gli altri capitani, giudicando piú tosto impossibile che difficile lo sforzare Padova, per le fortificazioni quasi incredibili, munitissima d'artiglierie e di tutte le cose opportune alla difesa, e proveduta molto abbondantemente di soldati; e nella quale erano venuti, come l'altre volte aveano fatto, molti giovani della nobiltà viniziana. Dicevano la terra essere grandissima di circuito, e per questo, e per la moltitudine de' difensori e per l'altre difficoltà, bisognare circondarla e combatterla con due eserciti; e nondimeno, non che altro, non n'avere un solo sufficiente, non essendo grande il numero de' loro soldati e, di questi, i tedeschi, insoliti a sopportare malvolentieri la tardità de' pagamenti, non troppo pronti: non abbondare di munizioni, e avere carestia di guastatori, cosa molto necessaria a tanto ardua espugnazione. Ma fu finalmente necessario che le ragioni addotte dal viceré e dagli altri cedessino alla volontà del vescovo Gurgense. Per la quale, l'esercito accostandosi a Padova andò ad alloggiare a Bassanello, in sulla riva destra del canale, discosto un miglio e mezzo da Padova; nel qual luogo essendo molto infestato il campo da alcuni cannoni doppi piantati in su uno bastione della terra passato il canale, alloggiorno alquanto piú lontani dalla terra; donde mandati i fanti alla chiesa di Sant'Antonio, a mezzo miglio appresso a Padova, cominciorno, per accostarsi con minore pericolo, a lavorare le trincee appresso alla porta di Sant'Antonio. Ma l'opere erano grandissime, ed estremo in paese, donde tutti gli abitatori erano fuggiti, il mancamento de' guastatori: però il lavorare procedeva lentamente; né senza pericolo, perché i soldati, uscendo spesso fuora, e di dí e di notte, all'improviso, facevano danno a quegli che lavoravano. Aggiugnevasi la penuria della vettovaglia perché, essendo solo una piccola parte della terra circondata dagli inimici, gli stradiotti avendo comodità di uscire dall'altre parti della città, correndo liberamente per tutto il paese, impedivano tutto quello che si conduceva al campo; impedito anche da certe barche armate messe a questo effetto da' viniziani nel fiume dell'Adice, perché gli uomini portati da quelle non cessavano, ora in questo luogo ora in quell'altro, di infestare tutta la campagna. Per le quali difficoltà proposto di nuovo dal viceré lo stato delle cose nel consiglio, ciascuno apertamente giudicò essere minore infamia ricorreggere la deliberazione imprudentemente fatta col levare il campo che, perseverando nell'errore, essere cagione che ne risultasse maggiore danno accompagnato da vergogna maggiore. La quale opinione riferita dal viceré in presenza di molti capitani a Gurgense, che aveva recusato di intervenire nel consiglio, rispose che, per non essere sua professione la disciplina militare, non si vergognava di confessare di non avere giudicio nelle cose della guerra; e che se aveva consigliato l'andare a campo a Padova non era proceduto perché in questa deliberazione avesse creduto a se medesimo, ma avere creduto e seguitato l'autorità del viceré, il quale e per lettere e per messi propri n'aveva confortato piú volte Cesare, e datogli speranza grandissima d'ottenerla. Finalmente, non si rimovendo né per le querele né per le dispute le difficoltà, anzi crescendo a ogn'ora la disperazione dello spugnarla, si levò il campo, poi che diciotto dí era stato alle mura di Padova; ed essendo nel levarsi e poi nel camminare infestato continuamente da' cappelletti, si ritirò a Vicenza, vota allora d'abitatori e preda di chi era superiore alla campagna.

Ottennono in questo mezzo le genti del duca di Milano, in sussidio delle quali il viceré avea mandato Antonio de Leva con mille fanti, Pontevico, a guardia della qual terra erano dugento fanti de' viniziani; i quali, non spaventati né dalle artiglierie né dalle mine e avendo sostenuto valorosamente l'assalto, furno alla fine di uno mese costretti ad arrendersi per mancamento di vettovaglie. E circa questo tempo medesimo Renzo da Ceri, uscito di Crema, roppe Silvio Savello; il quale, mandato dal duca di Milano, andava colla sua compagnia e quattrocento fanti spagnuoli a Bergamo: e poco dipoi, essendo ritornato a Bergamo un commissario spagnuolo a riscuotere danari, Renzo vi mandò trecento cavalli e cinquecento fanti; i quali presono insieme il commissario e la rocca, nella quale si era fuggito co' danari riscossi, essendovi dentro pochissimi difensori. Per la qual cosa si mossono da Milano, per ricuperare Bergamo, sessanta uomini d'arme trecento cavalli leggieri e settecento fanti con dumila uomini del monte di Brianza sotto Silvio Savello e Cesare Fieramosca; i quali avendo scontrati nel cammino cinquecento cavalli leggieri e trecento fanti mandati da Renzo a Bergamo, gli messono in fuga facilmente: per il che gli altri che prima aveano occupato Bergamo l'abbandonorno, lasciata solamente guardia nella rocca posta in sul monte fuora della città, la quale si dice la Cappella.

Soggiornorno alquanti dí il viceré e Gurgense a Vicenza, mandata una parte degli spagnuoli sotto Prospero Colonna a saccheggiare Basciano e Morostico, non per alcuno delitto loro ma perché colle sostanze degli infelici popoli si andasse il piú che si poteva sostentando l'esercito, al quale mancavano i pagamenti; perché Cesare stava sempre oppresso dalle medesime difficoltà, il re d'Aragona solo non poteva sostenere tanto peso, e il ducato di Milano, gravato eccessivamente da' svizzeri, non poteva porgere ad altri cosa alcuna. A Vicenza stava l'esercito con grandissima incomodità, per le molestie continue de' cappelletti, i quali scorrendo dí e notte tutto il paese, impedivano il condurvi le vettovaglie se non accompagnate da grossa scorta; la quale, perché avevano pochissimi cavalli leggieri, era necessario facessino gli uomini d'arme. E però, per fuggire questo tormento, Gurgense se ne andò co' fanti tedeschi a Verona, male sodisfatto del viceré; il quale seguitandolo a minori giornate si fermò ad Alberé in su l'Adice, dove soprastette qualche giorno per dare comodità a' veronesi di fare la semente e la vendemmia: non cessando però le molestie de' cappelletti, i quali in su le porte di Verona tolseno a' tedeschi i buoi che conducevano l'artiglieria. Avea prima pensato il viceré di distribuire l'esercito alle stanze nel bresciano e nel bergamasco, e nel tempo medesimo molestare Crema, che sola tenevano i viniziani di là dal fiume del Mincio; e questo, divulgato, aveva assicurato i paesi circostanti in modo che il padovano era pieno d'abitatori e di robe: per la qual cosa, il viceré che non aveva altra facoltà di nutrire l'esercito che le prede, mutato consiglio e chiamati i fanti tedeschi, andò a Montagnana e a Esti; donde andato alla villa di Bovolenta e fatta grandissima preda di bestiami, abbruciorno i soldati quella villa e molti magnifici palazzi che erano all'intorno. Da Bovolenta, invitandogli la cupidità del predare, e dando loro animo l'essere i fanti de' viniziani distribuiti alla guardia di Padova e di Trevigi, deliberò il viceré, benché contradicendo Prospero Colonna come cosa temeraria e pericolosa, approssimarsi a Vinegia. Però, passato il fiume del Bacchiglione e saccheggiata Pieve di Sacco, popoloso e abbondante castello, e dipoi andati a Mestri e di quivi condotti a Marghera in sull'acque salse, tirorno, acciocché fusse piú chiara la memoria di questa spedizione, con dieci pezzi d'artiglieria grossa verso Vinegia; le palle dei quali pervennono insino al monasterio del tempio [di San] Secondo: e nel tempo medesimo predavano e guastavano tutto il paese, del quale erano fuggiti tutti gli abitatori; facendo iniquissimamente la guerra contro alle mura, perché, non contenti della preda grandissima degli animali e delle cose mobili, abbruciavano con somma crudeltà Mestri, Marghera e Leccia Fucina e tutte le terre e ville del paese, e oltre a quelle tutte le case che aveano piú di ordinaria bellezza o apparenza: nelle quali cose non appariva minore la empietà de' soldati del pontefice e degli altri italiani, anzi tanto maggiore quanto era piú dannabile a loro che a' barbari incrudelire contro alle magnificenze e ornamenti della patria comune.

Cap. xv

Affrettata e difficile ritirata delle truppe tedesche nel Veneto. Inaspettata rotta dei veneziani sotto Vicenza.

Ma in Vinegia, vedendo il dí fummare e la notte ardere tutto il paese, per gli incendi delle ville e palagi loro e sentendo dentro alle case e abitazioni proprie i tuoni dell'artiglierie degli inimici, non piantate per altro che per fare piú chiara la sua ignominia, erano concitati gli animi degli uomini a grandissima indegnazione e dolore; parendo a ciascuno acerbissimo oltre a misura che tanto fusse mutata la fortuna che, in cambio di tanta gloria e di tante vittorie ottenute per il passato, in Italia e fuori, per terra e per mare, vedessino al presente uno esercito, piccolo a comparazione dell'antiche forze e potenza loro, insultare sí ferocemente e contumeliosamente al nome di cosí gloriosa republica. Dalle quali indegnità violentata la deliberazione di quel senato, ostinato insino a quel giorno di fuggire, quantunque grandi speranze gli fussino proposte, il fare esperienza della fortuna, acconsentí alle persuasioni efficaci di Bartolomeo d'Alviano che, chiamati tutti i soldati e commossi tutti i villani della pianura e delle montagne, si tentasse di impedire il ritorno agli inimici; la qual cosa l'Alviano dimostrava molto facile, perché essendo temerariamente trascorsi tanto innanzi, e messisi in mezzo tra Vinegia, Trevigi e Padova, non potevano, e massime essendo caricati di tanta preda, ritirarsi senza gravissimo pericolo, per la incomodità delle vettovaglie e per l'impedimento de' fiumi e de' passi difficili. E già gli spagnuoli, sentito il movimento che si faceva, accelerando il camminare erano pervenuti a Cittadella, la quale non avendo potuto occupare perché vi erano entrati molti soldati, alloggiorno di sotto a Cittadella appresso alla Brenta, per passare alla villa Conticella, nel qual luogo si poteva guadare. Ma gli ritenne da tentare di passare l'opposizione dell'Alviano, il quale si era posto dall'altra parte con le genti ordinate negli squadroni e con l'artiglierie distese in su la riva del fiume, provedendo sollecitamente non solo a quel luogo ma a piú altri, donde, se non avessino avuto resistenza, sarebbe stato facile il passare. Ma il viceré, continuando nelle dimostrazioni di volere passare dalla parte di sotto, alla quale l'Alviano avea voltate tutte le forze sue, passò la notte seguente senza ostacolo al passo detto di Nuovacroce, tre miglia sopra a Cittadella, donde si indirizzorno con celerità grande verso Vicenza; ma l'Alviano, volendo opporsi al passo del fiume del Bacchiglione gli prevenne. Unironsi seco appresso a Vicenza dugento cinquanta uomini d'arme e dumila fanti venuti da Trevigi sotto Giampaolo Baglione e Andrea Gritti; ed era il consiglio de' capitani viniziani non combattere a bandiere spiegate in luogo aperto con gli inimici, i quali venivano verso Vicenza, ma guardando i passi forti e i luoghi opportuni impedire loro il camminare, a qualunque parte si volgessino. A questo effetto aveano mandato Giampaolo Manfrone, con quattromila comandati, a Montecchio; a Barberano per impedire la via de' monti, cinquecento cavalli con molti altri paesani; e fatto occupare da' villani tutti i passi che andavano nella Magna, fortificatigli con fosse con tagliate con sassi e con alberi attraversati per le strade. A guardia di Vicenza lasciò l'Alviano, con sufficiente presidio, Teodoro da Triulzi; egli col resto dell'esercito si fermò all'Olmo, luogo vicino a Vicenza a due miglia, in sulla strada che va a Verona: impedito talmente quel passo e un altro vicino, con tagliate e con fossi e con l'artiglierie distese a' luoghi opportuni, che era quasi impossibile il passarlo. Cosí, impedito il cammino destinato verso Verona, era similmente difficile agli spagnuoli che camminavano lungo i monti allargarsi per il paese paludoso e pieno d'acque, difficile pigliare la via del monte, stretta e occupata da molti armati; in modo che, circondati dagli inimici quasi da ogni parte, alla fronte alle spalle e per fianco, e seguitati continuamente da moltitudine grande di cavalli leggieri, non aveano deliberazione se non difficile e molto pericolosa. Alloggiorono, sopravenendo la notte, da poi che alquanto fu scaramucciato, vicini a un mezzo miglio allo alloggiamento de viniziani; ove, consultato la notte i capitani quel che, intra tante difficoltà e pericoli, dovessino fare, elessono per meno pericoloso volgere le insegne verso la Magna, per ritornarsene per la via di Trento a Verona; benché, per la lunghezza del cammino e per la piccola guardia v'aveano lasciata, presupponevano quasi per certo che prima vi entrerebbono i viniziani. Cosí si mossono, in sul fare del dí, verso Bassano, voltando le spalle agli inimici, di che niuna cosa è piú spaventosa e piú perniciosa agli eserciti, e, ancora che camminassino ordinatamente, con tanto piccola speranza di salute che stimavano il perdere tutti i carriaggi e i cavalli meno utili, essere il minore male che potesse loro succedere. Non s'accorse della levata loro, fatta tacitamente senza suono di trombe e di tamburi, cosí presto l'Alviano, perché la nebbia foltissima che era la mattina gli impediva la vista: ma come prima se ne fu accorto, gli seguitò con tutto l'esercito, nel quale si dicevano essere mille uomini d'arme mille stradiotti e semila fanti; infestandogli sempre da ogni parte gli stradiotti e numero infinito di villani, che scendendo dalle montagne gli percotevano con gli archibusi, onde col pericolo augumentava sempre la difficoltà del camminare, maggiore per la moltitudine de' carri e de' carriaggi e per la quantità grande della preda, e perché procedevano per istrade anguste e affossate, le quali non aveano avuta comodità di allargare colle spianate; ma gli conservava ordinati, benché camminassino con passo accelerato, oltre alla virtú de' soldati, la sollecita diligenza de' capitani: e nondimeno, essendo proceduti in tante angustie circa due miglia, pareva a essi stessi difficillimo il continuare molto cosí.

Ma non fu paziente la temerità degli inimici ad aspettare che si maturasse sí bella occasione, condotta già quasi alla sua perfezione. L'Alviano, impotente come sempre a raffrenare se medesimo, assaltò, non tumultuosamente ma con l'esercito ordinato a combattere e con l'artiglierie, il retroguardo degli inimici, guidato da Prospero Colonna. Piú certa fama è che, tardando l'Alviano ad assaltargli,... Loredano uno de' proveditori, con ferventi parole lo morse: perché non dava dentro? perché lasciava andarne salvi gli inimici già rotti? dalle quali parole precipitato il ferocissimo capitano, dette furiosamente il segno della battaglia. Altri affermano essere stato autore del fatto d'arme Prospero Colonna, per consiglio del quale il viceré avere piú tosto [tentato] sperimentare la fortuna incerta del combattere che seguitare per altro modo la speranza piccolissima di salvarsi. E aggiungono che, avendo fatto segno di volere ritornare verso Vicenza, l'Alviano avea fatto fermare ne' borghi di Vicenza Giampaolo Baglione colle genti venute da Trevigi, esso col resto dell'esercito si era fermato a Creazia, due miglia appresso a Vicenza, ove è uno piccolo colle donde comodamente si potevano usare contro agli inimici l'artiglierie; a' piedi di quello una valle capace dell'esercito in ordinanza, alla quale si perveniva per una sola strada stretta appresso a' colli, e quasi circondata da paludi: il quale luogo Prospero conoscendo essere piú incomodo agli inimici, confortò che in quel luogo s'assaltassino. Comunque si sia, Prospero, cominciando virilmente a combattere, e mandato a chiamare il viceré che guidava la battaglia, e movendosi nel tempo medesimo, per comandamento del marchese di Pescara, i fanti spagnuoli da una parte e i tedeschi dall'altra, percossi con grandissimo impeto i soldati de' viniziani, gli messono in fuga quasi subitamente; perché i fanti non sostenendo la ferocia dello assalto, gittate le picche in terra, cominciorno vituperosamente subito a fuggire: essendo i primi esempio agli altri di tanta infamia i fanti romagnuoli, de' quali era colonnello Babone di Naldo da Bersighella. La medesima bruttezza seguitò il resto dell'esercito, niuno quasi combattendo o mostrando il volto agli avversari: smarrita non che altro, per la fuga cosí subita, la virtú dell'Alviano; il quale lasciò senza combattere la vittoria agli inimici, a' quali rimasono l'artiglierie e tutti i carriaggi. Dissiporonsi i fanti in diversi luoghi; degli uomini d'arme fuggí una parte alla montagna, una parte si salvò in Padova e in Trevigi, dove anche rifuggirono l'Alviano e il Gritti. Furno ammazzati Francesco Calzone, Antonio Pio capitano vecchio, insieme con Gostanzo suo figliuolo, Meleagro da Furlí e Luigi da Palma, e poco meno che morto Paolo da Santo Angelo, il quale si salvò pieno di ferite. Presi Giampaolo Baglione e Giulio figliuolo di Giampaolo Manfrone, Malatesta da Sogliano e molti altri capitani e uomini onorati; e con peggiore fortuna il proveditore Loredano, perché combattendosi tra due soldati di qual di loro dovesse essere prigione, uno di essi bestialmente l'ammazzò. Rimasono in tutto, fra morti e presi, circa quattrocento uomini d'arme e quattromila fanti, perché a molti fu impedito il fuggire dalla palude: e fece nella fuga, il danno maggiore che Teodoro da Triulzi, chiuse le porte di Vicenza, acciò che i vinti e i vincitori alla mescolata non vi entrassino, non vi ammesse alcuno; onde molti, mettendosi a passare, annegorno nel fiume vicino, e tra questi Ermes Bentivoglio e Sacramoro Visconte. Questa fu la rotta che ricevettono, il settimo dí d'ottobre, i viniziani appresso a Vicenza; memorabile per l'esempio che dette a' capitani che ne' fatti d'arme non confidassino de' fanti italiani non esperimentati alle battaglie stabili, e perché, quasi in uno istante di tempo, andò la vittoria a coloro che aveano piccolissima speranza di salute: la quale arebbe messo in pericolo o Trevigi o Padova, benché in questa l'Alviano in quello il Gritti si fussino rifuggiti con le reliquie dell'esercito; ma ripugnava, oltre alla fortezza delle terre, la stagione dell'anno già vicina alle pioggie, né potere i capitani disporre ad arbitrio loro i soldati, non pagati, a nuove imprese. E nondimeno i viniziani, afflitti da tanti mali e spaventati da accidente tanto contrario alle speranze loro, non mancavano di provedere quanto potevano a quelle città: nelle quali, oltre agli altri provedimenti, mandorno, come erano consueti ne' pericoli piú gravi, molti della gioventú nobile.

Cap. xvi

Il pontefice arbitro nel compromesso fra i veneziani e Cesare. Continuano le azioni di guerra fra i veneziani e le milizie di Cesare. Nuovi tentativi degli Adorni e dei Fieschi contro Genova; questioni fra fiorentini e lucchesi; resa dei castelli di Milano e di Cremona e tentativo dei genovesi contro la Lanterna tenuta dai francesi.

Dall'armi, dopo la giornata, si ridussono le cose a' pensieri della concordia, trattata appresso al pontefice; al quale era andato il vescovo Gurgense, sotto nome principalmente di dargli l'ubbidienza in nome di Cesare e dell'arciduca; seguitandolo Francesco Sforza duca di Bari, per fare l'effetto medesimo in nome di Massimiliano Sforza suo fratello. E benché Gurgense rappresentasse come l'altre volte la persona di Cesare in Italia, nondimeno, pretermesso il fasto consueto, era entrato in Roma modestamente né voluto usare per il cammino le insegne del cardinalato, mandategli insino a Poggibonzi dal pontefice. Alla venuta del cardinale Gurgense fu fatto compromesso da lui e [da] gli oratori viniziani, di tutte le differenze tra Cesare e la loro republica, nel pontefice; ma compromesso piú tosto in nome e in dimostrazione che in effetto e in sostanza, perché niuno volle compromettere nell'arbitro sospetto, per l'importanza della cosa, se non ricevuta promessa da lui separatamente e secretamente di non lodare senza suo consentimento. Fatto il compromesso, sospese per uno breve l'offese tralle parti; il che, benché fusse accettato da tutti con lieta fronte, fu dal viceré male osservato, perché venuto tra Montagnana ed Esti, non avendo dopo la vittoria fatto altro che prede e correrie, e mandata una parte de' soldati nel Pulesine di Rovigo, faceva in tutti questi luoghi molti danni, ora scusandosi che erano territorio di Cesare ora dicendo aspettare avviso da Gurgense. Né ebbe il compromesso piú felice il fine che avesse avuto il mezzo e il principio, per le difficoltà che nel trattare le cose si scopersono; perché Cesare non consentiva alla concordia se non ritenendo parte delle terre e per l'altre ricevendo quantità grandissima di danari, e per contrario i viniziani dimandavano tutte le terre e offerivano piccola somma di danari. E si credeva che il re cattolico, benché palesemente dimostrasse di desiderare, come già aveva fatto, questa concordia, ora occultamente la dissuadesse; interpretandosi che, per difficultarla piú, avesse nel tempo medesimo lasciato Brescia in mano di Cesare: la quale il viceré, affermando ritenerla per renderlo piú inclinato alla pace, non gli aveva insino a quel dí voluto consentire. Le cagioni si congetturavano variamente, o perché avendo offeso tanto i viniziani giudicasse non potere avere piú con loro sincera amicizia o perché conoscesse la riputazione e grandezza sua in Italia dependere da mantenere vivo quell'esercito; il quale, per carestia di danari, non poteva nutrire se non opprimendo e taglieggiando i popoli amici, e correndo e predando per il paese degli inimici.

Lasciò adunque imperfetta la cosa il pontefice; e poco dipoi i tedeschi occuporno furtivamente per mezzo di fuorusciti Marano, terra marittima nel Friuli, e poi presono Montefalcone: e benché i viniziani, desiderosi di recuperare Marano, propinquo a sessanta miglia a Vinegia, l'assaltassino per terra e per mare, nondimeno, essendo in ogni luogo simile la loro fortuna, furono da ciascuna delle parti danneggiati. Solamente, in questo tempo, Renzo da Ceri con somma laude sostentava alquanto il nome delle armi loro: il quale, con tutto che in Crema, dove era a guardia, fusse peste e carestia non leggiere, e che, essendo le genti spagnuole e milanesi distribuitesi, per la stagione del tempo, alle stanze per le terre circostanti, si potesse dire quasi assediata, assaltato all'improviso Calcinaia, terra del bergamasco, svaligiò Cesare Fieramosca con quaranta uomini d'arme e dugento cavalli leggieri della compagnia di Prospero Colonna; e pochi dí poi, entrato di notte in Quinzano, prese il luogotenente del conte di Santa Severina e vi svaligiò cinquanta uomini d'arme, e in Trevi dieci uomini d'arme di quegli di Prospero.

L'altre cose di Italia procedevano in questo tempo medesimo quietamente: eccetto che gli Adorni e i Fieschi con tremila uomini del paese, e forse con favore occulto del duca di Milano, presa la Spezie e altri luoghi della riviera di levante, si accostorno alle mura di Genova; ma succedendo le cose infelicemente, si partirno quasi come rotti, perduta parte delle genti che v'aveano menate e alcuni pezzi di artiglierie. Apparirono anche in Toscana princípi di nuovi scandoli: perché i fiorentini cominciorno a molestare i lucchesi, confidandosi che per timore del pontefice ricomprerebbono la pace con la restituzione di Pietrasanta e di Mutrone, e allegando non essere conveniente godessino il beneficio di quella confederazione, la quale, prestando occultamente aiuto a' pisani, aveano violata. Della qual cosa querelandosi i lucchesi col pontefice e col re cattolico, in cui protezione erano, e non vedendo resultarne alcuno rimedio, furno contenti finalmente, per fuggire i maggiori mali, farne compromesso nel pontefice; il quale, avuta similmente autorità da' fiorentini, pronunziò che i lucchesi, i quali prima aveano restituita al duca di Ferrara la Garfagnana, lasciassino quelle terre a' fiorentini, e che tra loro fusse in perpetuo pace e confederazione.

Alla fine di questo anno, le castella di Milano e di Cremona, avendo prima, perché cominciavano a mancare le vettovaglie, patteggiato di arrendersi se infra certo tempo non erano soccorse, vennono in potestà del duca di Milano; il quale in quello di Milano messe a guardia parte fanti italiani parte svizzeri. Né altro si teneva piú per il re di Francia in Italia che la Lanterna di Genova; la quale i genovesi tentorno, nella fine dell'anno medesimo, di gittare in terra colle mine, accostandosi a quella con uno puntone di legname lungo trenta braccia e largo venti, capace di trecento uomini, fasciato tutto, per resistere a' colpi delle artiglierie, di balle di lana: cosa di grande artificio e invenzione, ma che tentata, come fanno spesso simili macchine, non succedette.

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