Francesco Guicciardini

STORIA D'ITALIA

Volume dodicesimo





Cap. i

Azione e preparativi del re d'Inghilterra contro la Francia; preparativi di difesa del re di Francia. Spedizione del re d'Inghilterra. Presa di Terroana. Massimiliano Cesare presso l'esercito inglese.

Succedetteno nell'anno medesimo nelle regioni oltramontane pericolosissime guerre, le quali saranno raccontate da me per la medesima cagione e con la medesima brevità con la quale le toccai nella narrazione dell'anno precedente. Origine di quei movimenti fu la deliberazione del re di Inghilterra d'assaltare, quella state, con grandissime forze per terra e per mare, il reame di Francia: della quale impresa per farsi piú facile la vittoria, avea convenuto con Cesare di dargli cento ventimila ducati, acciò che entrasse nel tempo medesimo nella Borgogna con tremila cavalli e ottomila fanti, parte svizzeri parte tedeschi; promesso ancora a' svizzeri certa quantità di danari perché facessino il medesimo, congiunti con Cesare, il quale consentiva ritenessino in pegno una parte della Borgogna insino a tanto fussino pagati interamente da lui degli stipendi loro. Persuadevasi oltre a questo il re di Inghilterra che il re cattolico suo suocero, aderendo alla confederazione di Cesare e sua, come sempre aveva asserito di volere fare, rompesse nel tempo medesimo la guerra da' suoi confini. Perciò la novella della tregua fatta da quel re col re di Francia, con tutto che l'ardore alla guerra non raffreddasse, fu ricevuta con tanta indegnazione, non solamente da lui ma da tutti i popoli di Inghilterra, che è manifesto che, se la autorità sua non avesse repugnato, sarebbe stato lo imbasciadore spagnuolo impetuosamente dalla moltitudine ammazzato. Aggiugnevasi a queste cose l'opportunità dello stato dell'arciduca, non tanto perché non proibiva che i sudditi ricevessino lo stipendio contro a' franzesi quanto perché prometteva di concedere che del dominio suo si conducessino vettovaglie all'esercito inghilese. Contro a tanti apparati e pericolosissime minaccie non ometteva il re di Francia provedimento alcuno: perché per mare preparava una potente armata per opporla a quella che si ordinava in Inghilterra, e per terra congregava esercito da ogni parte, sforzandosi sopratutto di condurre quanti piú poteva fanti tedeschi. Aveva anche fatto, prima, instanza co' svizzeri che poi che non volevano aiutarlo per le guerre di Italia, gli consentissino almeno fanti per la difesa di Francia: i quali, intenti totalmente alla stabilità del ducato di Milano, rispondevano non volergliene concedere se non tornava all'unità della Chiesa, lasciava il castello di Milano che ancora non era arrenduto, e, facendo cessione delle ragioni di quello stato, promettesse di non molestare piú né Milano né Genova. Aveva similmente il re per insospettire delle cose proprie il re di Inghilterra, chiamato in Francia il duca di Suffolch come competitore a quel regno; per il quale sdegno il re anglo fece decapitare il fratello, custodito insino allora in carcere in Inghilterra, poi che da Filippo re di Castiglia, nella navigazione sua in Spagna, era stato dato al suo padre. Né mancava al re di Francia speranza di pace col re cattolico: perché quel re, come ebbe inteso la lega fatta tra lui e i viniziani, diffidando potersi difendere il ducato di Milano, aveva mandato uno de' suoi secretari in Francia a proporre nuovi partiti; e si credeva che, considerando che la grandezza di Cesare e dello arciduca potessino alterargli il governo di Castiglia, non gli piacesse totalmente la depressione del regno di Francia. Suscitò oltre a questo Iacopo re di Scozia, suo antico collegato, perché rompesse guerra nel regno di Inghilterra; il quale, mosso molto piú dallo interesse proprio, perché le avversità di Francia erano pericolose al regno suo, si preparava con grande prontezza, non avendo dimandato dal re altro che cinquantamila franchi per comperare vettovaglie e munizioni. Nondimeno, a fare queste provisioni era il re di Francia proceduto con tardità; perché aveva volto i pensieri alla impresa di Milano, e per la negligenza solita, e per l'ardire che vanamente aveva preso per la tregua fatta col re cattolico.

Consumoronsi per il re di Inghilterra, in questi apparati, molti mesi: perché essendo i sudditi suoi stati molti anni senza guerra, ed essendo molto variati i modi di guerreggiare, e inutili gli archi e l'armadure che usavano ne' tempi precedenti, era necessitato il re fare grandissima provisione di armi di artiglierie e di munizioni, condurre come soldati esperti molti fanti tedeschi, e per necessità molti cavalli, perché il costume antico degli inghilesi era di combattere a piede. Però, non prima che del mese di luglio passorono gli inghilesi il mare; e stati piú dí in campagna presso a Bologna, andorono a campo a Terroana, terra posta in su' confini di Piccardia, e in quegli popoli che da' latini sono chiamati morini. Passò poco dipoi la persona del re, che aveva in tutto il suo esercito cinquemila cavalli da combattere e piú di quarantamila fanti: con la quale moltitudine postosi intorno luogo piccolo, e circondato, secondo l'antico costume degli inghilesi, l'alloggiamento loro con fossi con carra e con ripari di legname, e munito intorno intorno d'artiglierie, e in modo pareva fussino in una terra murata, attendevano a battere con l'artiglierie la terra da piú parti e a travagliarla con le mine; ma non corrispondendo con la virtú a tanti apparati né alla fama della ferocia loro, non gli davano l'assalto. Erano in Terroana, bene munita di artiglierie, dugento cinquanta lancie e dumila fanti, presidio piccolo ma non senza speranza di soccorso, perché il re di Francia, attendendo a raccorre sollecitamente l'esercito destinato, di dumila cinquecento lancie diecimila fanti tedeschi, guidati dal duca di Ghelleri, e diecimila fanti del regno, era venuto ad Amiens per dare di luogo vicino favore agli assediati: i quali, non temendo di altro che del mancamento delle vettovaglie, perché di queste non era stata proveduta, eccetto che di pane, Terroana a bastanza, molestavano dí e notte con l'artiglierie l'esercito inimico; dalle quali fu ammazzato il gran ciamberlano regio, e levata una gamba a Talboth capitano di Calès. Premeva il re il pericolo di Terroana; ma per avere tardi e con la negligenza franzese cominciato a provedersi, e per la difficoltà di avere i fanti tedeschi, non aveva ancora messo insieme tutto l'esercito: determinato anche in qualunque caso di non venire a giornata con gli inimici, perché se fusse stato vinto sarebbe stato in manifestissimo pericolo tutto il reame di Francia, e perché sperava nella vernata, la quale in quegli paesi freddi era già quasi vicina. Ma come ebbe congregato l'esercito, restando egli ad Amiens, lo mandò a [Vere] propinquo a Terroana, sotto Longavilla altrimenti il marchese del Rotellino, principe del sangue reale e capo de' gentiluomini del re, e la Palissa; con commissione che, fuggendo qualunque occasione di fatto d'arme, attendessino a provedere le terre circostanti, insino ad allora per la medesima negligenza male provedute, e a mettere se potevano soccorso di gente e di vettovaglia in Terroana: cosa in sé difficile, ma diventata piú difficile per la piccola concordia de' capitani; de' quali ciascuno, l'uno per la nobiltà l'altro per la lunga esperienza della milizia, arrogava a sé la somma del governo. Nondimeno, dimandando quegli che erano in Terroana soccorso di genti vi si accostorono, da una parte piú rimossa dagli inghilesi, mille cinquecento lancie; e avendo l'artiglierie di dentro battuto in modo tremila inghilesi, posti a certi passi per impedirgli, che non potettono vietargli, né potendo proibirlo loro il resto dell'esercito per lo impedimento di certe traverse di ripari e di fosse fatte da quegli di dentro, il capitano Frontaglia, condottosi alla porta, messe in Terroana ottanta uomini d'arme senza cavalli, come essi avevano dimandato, e si ritirò salvo con tutto il resto delle genti: e arebbono nel medesimo modo messovi vettovaglie se ne avessino condotte seco. Dalla quale esperienza preso animo i capitani franzesi, si accostorono un altro dí con quantità grande di vettovaglie per mettervele per la via medesima; ma gl'inghilesi presentendolo, e avendo fatto nuova fortificazione da quella parte, non gli lasciorono accostare, e da altra parte mandorono i loro cavalli e quindicimila fanti tedeschi per tagliare loro il ritorno: i quali tornando senza sospetto, e già montati per piú comodità in su piccoli cavalli, come furono assaltati si messono subito in fuga senza resistere; nel qual disordine perderono i franzesi trecento uomini d'arme, co' quali fu preso il marchese del Rotellino, Baiardo, La Foietta e molti altri uomini nominati; ed era stato fatto anche prigione la Palissa ma fortuitamente si salvò. E si crede che se avessino saputo seguitare la vittoria si aprivano quel giorno la strada a pigliare il reame di Francia; perché indietro era restata una grossa banda di lanzchenech che aveva seguitato le genti d'arme, la quale disfatta, era di tanto danno all'esercito franzese che è certo che il re, quando ebbe la prima novella, credendo che questi medesimamente fussino rotti, disperato delle cose sue, e con lamenti e pianti miserabili, già pensava fuggirsene in Brettagna: ma gli inghilesi, come ebbono messo in fuga i cavalli, pensando all'acquisto di Terroana, condusseno le insegne e i prigioni innanzi alle mura. Però, disperati i soldati che erano in Terroana essere soccorsi, né volendo i fanti tedeschi patire senza speranza insino all'ultima estremità delle vettovaglie, convennono, salvi i cavalli e le persone de' soldati, di uscirsi, se fra due dí non erano soccorsi, di Terroana. Né si dubita che l'avere tollerato l'assedio circa cinquanta dí fusse cosa molto salutifera al re di Francia.

Era, pochi dí innanzi, venuto personalmente nello esercito inghilese Massimiliano, riconoscendo quegli luoghi ne' quali, ora dissimile a se medesimo, aveva, giovanetto, rotto con tanta gloria l'esercito di Luigi undecimo re di Francia. Nel quale mentre stette si governava ad arbitrio suo.

 

Cap. ii

Invasione della Borgogna da parte degli svizzeri; accordi con la Tramoglia. Indecisione del re di Francia intorno all'opportunità della ratifica degli accordi.

Ma non travagliavano le cose del re di Francia da questa parte sola, anzi erano con pericolo maggiore molestate da' svizzeri; la plebe de' quali infiammatissima che il re di Francia cedesse alle ragioni le quali pretendeva al ducato di Milano, e però ardente, insino non lo faceva, di odio incredibile contro a lui, aveva fatto abbruciare molte case d'uomini privati di Lucerna, sospetti di favorire immoderatamente le cose del re di Francia; e procedendo continuamente contro agli uomini notati di simile suspizione, aveva fatto giurare a tutti i principali di mettere le pensioni in comune; e dipoi prese l'armi, per publico decreto, erano in numero di ventimila fanti entrati quasi popolarmente nella Borgogna: ricevuta da Cesare, il quale, o secondo le sue variazioni o per sospetto che avesse di loro, recusò, benché l'avesse promesso e al re di Inghilterra e a loro, di andarvi personalmente, artiglieria e mille cavalli. Andorono a campo a Digiuno metropoli della Borgogna, dove era la Tramoglia con mille lancie e seimila fanti; e avendo la plebe, per paura delle fraudi de' capitani che già cominciavano a trattare co' franzesi, tolto l'artiglierie in mano cominciorno a percuotere la terra: della difesa della quale dubitando non poco la Tramoglia, ricorrendo agli ultimi rimedi, accordò subitamente con loro, senza aspettare commissione alcuna dal re, di pagare loro in piú tempi quattrocentomila ducati, lasciare le fortezze di Milano e di Cremona che ancora non erano arrendute, cedere a Massimiliano Sforza le ragioni del ducato di Milano e la contea di Asti; per l'osservanza delle quali cose dette quattro statichi, persone onorate e di piú che mediocre condizione; né i svizzeri si obligorno ad altro che di ritornarsi alle case proprie, onde non erano tenuti a essere in futuro amici del re di Francia, anzi potevano quando voleano ritornare a offendere il suo reame. Ricevuti gli statichi partirno subitamente, allegando, per scusazione d'avere convenuto senza il re di Inghilterra, non avere ricevuti al tempo debito i danari promessi da lui. Fu giudicato questa concordia avere salvato il reame di Francia, perché, preso che avessino Digiuno, era in potestà de' svizzeri correre senza alcuna resistenza insino alle porte di Parigi; ed era verisimile che il re di Inghilterra, passato il fiume della Somma, venisse nella Campagna per unirsi con loro, cosa che non poteva essere impedita da' franzesi, perché non avendo a quel tempo piú di seimila fanti tedeschi, né essendo ancora arrivato il duca di Ghelleri, erano necessitati a stare rinchiusi per le terre: e nondimeno al re fu molestissima, e si lamentò sommamente del la Tramoglia per la quantità de' danari promessi, e molto piú per l'averlo obligato alla cessione delle ragioni, come cosa di troppo pregiudicio e troppo indegna della grandezza e della gloria di quella corona. Però, ancora che il pericolo fusse gravissimo se i svizzeri sdegnati ritornassino di nuovo ad assaltarlo, nondimeno, confidandosi nella propinquità del verno e nel non essere facile che tanto presto si rimettessino insieme, deliberato ancora di correre piú presto gli ultimi pericoli che privarsi delle ragioni di quel ducato, il quale amava eccessivamente, deliberò di non ratificare, ma cominciò a fare proporre loro nuovi partiti; da' quali essi alienissimi minacciavano, se la ratificazione non venisse fra certo termine, tagliare il capo agli statichi.

 

Cap. iii

Nuove vicende della guerra degli inglesi in Francia. Nuove preoccupazioni e pericoli del re di Francia. Conciliazione del re con il papa. Morte della regina di Francia.

Presa Terroana, alla quale lo arciduca pretendeva per antiche ragioni, e il re di Inghilterra diceva essere sua per averla guadagnata con giusta guerra, parve a Cesare e a lui, per spegnere i semi della discordia, di gittare in terra le mura; non ostante che ne' capitoli fatti con quegli di Terroana fusse stato proibito loro. Partí poi Cesare immediate dallo esercito, affermando che gli inghilesi, per la esperienza veduta di loro, erano poco periti della guerra e temerari. Da Terroana andò il re di Inghilterra a campo a Tornai, città fortissima e molto ricca, e affezionatissima per antica inclinazione alla corona di Francia; ma circondata dal paese dello arciduca, e però impossibile a essere soccorsa da' franzesi mentre non erano superiori alla campagna. La quale deliberazione fu molto grata al re di Francia, perché temeva non andassino a percuotere nelle parti piú importanti del suo reame, cosa che lo metteva in molte difficoltà: perché, se bene avesse già congregato esercito potente, trovandosi oltre a cinquecento lancie che aveva messe a guardia di San Quintino, dumila lancie ottocento cavalli leggieri albanesi diecimila fanti tedeschi mille svizzeri ottomila fanti del regno suo, era molto piú potente l'esercito inghilese; nel quale, concorrendovi ogni dí nuovi soldati, era publica fama trovarsi ottantamila combattenti. Però il re, non sperando molto di potere difendere Bologna e il resto del paese posto di là dalla riviera di Somma, dove temeva che gli inghilesi non si volgessino, pensava alla difesa di Abbavilla e Amiens e [del]l'altre terre che sono in sulla Somma, e a resistere che non passassino quella riviera; e cosí andarsi temporeggiando, insino che la stagione fredda sopravenisse o che la diversione del re di Scozia, nella quale molto sperava, facesse qualche effetto: camminando in questo tempo l'esercito suo lungo la Somma, per non lasciare guadagnare il passo agli inimici. Credettesi che della deliberazione degli inghilesi, indegna certamente d'uomini militari e di sí grande esercito, fusse stata cagione o i conforti di Cesare, che sperasse che, pigliandosi, potesse o allora o con tempo pervenire in potestà del nipote, al quale si pretendeva che appartenesse, o perché temessino, andando ad altro luogo, della difficoltà delle vettovaglie, o che l'altre terre alle quali andassino non fussino soccorse dagli inimici. Fece la città di Tornai, non essendo provista di genti forestiere e disperandosi del soccorso, essendo battuta con le artiglierie da piú parti, breve difesa; e si arrendé, salve tutte le robe e persone loro, ma pagando, sotto nome di ricomperarsi dal sacco, centomila ducati. Né si mostrava altrove piú benigna la fortuna de' franzesi; perché il re di Scozia, venuto in sul fiume Tuedo alle mani con l'esercito inghilese, nel quale era in persona Caterina reina d'Inghilterra, fu vinto con grandissima uccisione; perché vi furono ammazzati piú di dodicimila scozzesi, insieme con lui e con uno suo figliuolo naturale, arcivescovo di [Santo Andrea], e molti altri prelati e nobili di quel regno.

Dopo le quali vittorie, essendo già alla fine del mese di ottobre, il re anglico, lasciata guardia grande in Tornai e licenziati i cavalli e fanti tedeschi, se ne ritornò in Inghilterra, non avendo della guerra fatta con tanti apparati e con spesa inestimabile riportato altro frutto che la città di Tornai, perché Terroana, sfasciata di mura, restava in potere del re di Francia. Mosselo a passare il mare perché, non si potendo piú in quelli freddissimi paesi esercitare la guerra, era inutile il dimorarvi con tanta spesa; e pensava oltre a questo a ordinare il governo del nuovo re di Scozia, pupillo e figliuolo di una sorella sua dove era anco andato il duca di Albania che era del sangue medesimo di quel re. Per la partita del quale il re, ritenuti in Francia i fanti tedeschi, licenziò tutto il resto dello esercito, liberato dalla cura de' pericoli presenti ma non già dal timore di non ritornare l'anno seguente in maggiore difficoltà. Perché il re di Inghilterra, partito di Francia con molte minaccie, affermava volervi ritornare la state prossima; anzi, per non differire piú tanto il muovere la guerra, cominciava già a fare nuove preparazioni. Sapeva essere in Cesare la medesima disposizione di offenderlo; e temeva che il re cattolico, il quale con vari sotterfugi aveva scusato la tregua fatta per non se gli alienare totalmente, non pigliasse l'armi insieme con loro. Anzi n'aveva potenti indizi, perché era stata intercetta una lettera nella quale quel re, scrivendo allo imbasciadore residente appresso a Cesare, dimostrando l'animo molto alieno dalle parole, con le quali sempre dimostrava ardente desiderio di muovere guerra contro agli infedeli e di passare personalmente alla recuperazione di Ierusalem, proponeva che comunemente si attendesse a fare pervenire il ducato di Milano in Ferdinando nipote comune, fratello minore dello arciduca; dimostrando che, fatto questo, il resto d'Italia era necessitato di ricevere le leggi da loro, e che a Cesare sarebbe facile, congiunti massime gli aiuti suoi, pervenire, come dopo la morte della moglie era stato sempre suo desiderio, al pontificato, il quale ottenuto rinunzierebbe allo arciduca la corona imperiale: conchiudendo però che cose sí grandi non si potevano condurre a perfezione se non col tempo e con le occasioni. Era anche manifesto al re di Francia l'animo de' svizzeri, a' quali offeriva grandissime condizioni, non placarsi in parte alcuna verso lui; anzi essersi nuovamente irritati perché gli statichi dati loro dal la Tramoglia, temendo per inosservanza del re di non essere decapitati, si erano occultamente fuggiti in Germania: donde meritamente aveva paura che, o di presente o almanco l'anno prossimo, per la occasione di tanti altri suoi travagli, non assaltassino o la Borgogna o il Dalfinato.

Queste difficoltà furono in qualche parte cagione di farlo consentire alla concordia delle cose spirituali col pontefice, della quale l'articolo principale era la estirpazione totale del concilio pisano; la quale, trattata molti mesi, aveva varie difficoltà e specialmente per le cose fatte o con l'autorità di quello concilio o contro alla autorità del pontefice, le quali approvare pareva indegnissimo della sedia apostolica, il ritrattarle non era dubbio che partorirebbe gravissima confusione: però erano stati deputati tre cardinali a pensare i modi di provedere a questo disordine; e faceva qualche difficoltà il non parere conveniente concedere al re l'assoluzione dalle censure se non la dimandasse, e da altro canto il re negava volerla dimandare per non notare per scismatici la persona sua e la corona di Francia. Finalmente il re, stracco da questa molestia e tormentato dalla volontà di tutti i popoli del suo regno, i quali ardentemente desideravano il riunirsi con la Chiesa romana, mosso ancora molto dalla instanza della reina, la quale sempre era stata alienissima da queste controversie, deliberò cedere alla volontà del pontefice; neanche senza qualche speranza che, levato via questa differenza, il pontefice avesse, secondo la intenzione che artificiosamente gli aveva data, a non si mostrare alieno dalle cose sue: benché alle querele antiche fusse aggiunta nuova querela, perché il pontefice aveva per uno breve comandato al re di Scozia che non molestasse il re d'Inghilterra. Però, nell'ottava sessione del concilio lateranense, che fu celebrato negli ultimi dí dell'anno, gli agenti del re di Francia, in nome suo e prodotto il suo mandato, rinunziorono al conciliabolo pisano e aderirono al concilio lateranense; con promissione che sei prelati di quegli che erano intervenuti al pisano andrebbeno a Roma a fare il medesimo in nome di tutta la Chiesa gallicana, e che anche verrebbeno altri prelati a disputare sopra la pragmatica, con intenzione di rimettersene alla dichiarazione del concilio: dal quale, nella medesima sessione, ottennono assoluzione pienissima di tutte le cose commesse contro alla Chiesa romana. Queste cose si feciono l'anno mille cinquecento tredici in Italia in Francia e in Inghilterra.

Nel principio dell'anno seguente, non avendo a fatica gustata la letizia della unione tanto desiderata della Chiesa, morí Anna reina di Francia, reina molto prestante e molto cattolica, con grandissimo dispiacere di tutto il regno e de' popoli suoi della Brettagna.

 

Cap. iv

Consigli del pontefice agli svizzeri di maggior benevolenza verso il re di Francia, ed al re di attenersi agli accordi con loro conchiusi. Difficoltà di conciliazione fra gli svizzeri ed il re. Proroga della tregua fra il re di Francia ed il re d'Aragona.

Ridotto che fu il reame di Francia alla obbedienza della Chiesa, e cosí spento già per tutto il nome e la autorità del concilio pisano, cominciavano alcuni di quegli che avevano temuta la grandezza del re di Francia a commuoversi, e a temere che troppo non si deprimesse la sua potenza; e specialmente il pontefice. Il quale, benché perseverasse nel medesimo desiderio che da lui non fusse recuperato il ducato di Milano, nondimeno, dubitando che il re, spaventato da tanti pericoli e avendo innanzi agli occhi le cose dell'anno passato, non si precipitasse, come continuamente con volontà di Cesare trattava il re cattolico, alla concordia con Cesare (per la quale, contraendo lo sposalizio della figliuola con uno de' nipoti di quei re, gli concedesse in dote il ducato di Milano), cominciò a persuadere i svizzeri che per il troppo odio contro al re di Francia non lo mettessino in necessità di fare deliberazione non manco nociva a loro che a lui; perché sapendo anche essi la mala disposizione che contro a loro avevano Cesare e il re cattolico, l'accordo col quale conseguissino lo stato di Milano non sarebbe manco pericoloso alla libertà e autorità loro che alla libertà della Chiesa e di tutta Italia: doversi persistere nel proposito che il re di Francia non recuperasse il ducato di Milano, ma avvertire ancora che (come spesso interviene nelle azioni umane) per fuggire troppo [uno] de' due estremi non incorressino nell'altro estremo, parimente, e forse piú, dannoso e pericoloso; né per assicurarsi, sopra il bisogno, che quello stato non ritornasse nel re di Francia, essere cagione di farlo cadere in mano d'altri, con tanto maggiore pericolo e pernicie di tutti quanto ci resterebbe manco chi potesse loro resistere che non era stato chi potesse resistere alla grandezza del re di Francia. Dovere la republica de' svizzeri, avendo esaltato insino al cielo il nome suo nell'arti della guerra con tanti egregi fatti e nobilissime vittorie, cercare di farlo non meno illustre con l'arti della pace; antivedendo dallo stato presente i pericoli futuri, rimediandogli con la prudenza e col consiglio, né lasciando precipitare le cose in luogo donde non potessino restituirsi se non con la ferocia e virtú delle armi: perché nella guerra, come a ogni ora testimoniava l'esperienza, molte volte accadeva che il valore degli uomini era soffocato dalla potestà troppo grande della fortuna. Essere migliore consiglio moderare in qualche parte l'accordo di Digiuno, offerendosi massime dal re maggiori pagamenti e promissione di fare tregua per tre anni con lo stato di Milano, pure che non fusse astretto alla cessione delle ragioni; la quale essendo di maggiore momento in dimostrazione che in effetto (perché, quando al re ritornasse l'opportunità di recuperarlo, l'avere ceduto non gli farebbe altro impedimento che volesse egli medesimo), non doversi per questa difficoltà ridurre le cose in tanto pericolo. Da altra parte con efficaci ragioni confortava il re di Francia a volere piú presto, per minore male, ratificare l'accordo fatto a Digiuno che tornare in pericolo di avere, la state prossima, tanti inimici nel suo regno. Essere ufficio di principe savio, per fuggire il male maggiore abbracciare per utile e per buona la elezione del male minore; né si dovere per liberarsi da uno pericolo e uno disordine incorrere in un altro piú importante e di piú infamia: perché, che onore gli sarebbe concedere agli inimici suoi naturali, e che lo avevano perseguitato con tante fraudi, il ducato di Milano con sí manifesta nota di viltà? che riposo che sicurtà, diminuita tanto la sua riputazione, avere accresciuto la potenza di quegli che non pensavano ad altro che ad annichilare il reame di Francia? da' quali conosceva egli medesimo che nessuna promessa nessuna fede nessuno giuramento poteva assicurarlo, come con gravissimo suo danno gli dimostrava l'esperienza del tempo passato. Essere cosa dura il cedere quelle ragioni, ma di minore pericolo e di minore infamia, perché una semplice scrittura non faceva piú potenti i suoi avversari; ed essendo stata fatta questa promessa senza consentimento suo dai suoi ministri, non si potere dire che da principio fusse stata sua deliberazione, ma essere piú scusato a eseguirla quasi come necessitato dalla promessa fatta e da qualche osservanza della fede; e sapersi pure per tutto il mondo da quanto pericolo avesse quello accordo liberato allora il reame di Francia. Lodare che con altri partiti cercasse di indurre i svizzeri alla sua intenzione; ed egli, desideroso che per sicurtà del regno suo seguitasse in qualunque modo la concordia tra lui e loro, non mancare di fare con ogni studio tutti gli offici perché i svizzeri si disponessino alla sua volontà; ma quando pure stessino pertinaci, esortare paternamente lui a piegarsi, e a obbedire a' tempi e alla necessità; e per tutti gli altri rispetti, e per non levare la scusa a lui di discostarsi dalla congiunzione degli inimici.

Conosceva il re essere vere queste ragioni, benché si lamentasse che il pontefice avesse mescolato tacitamente le minaccie con le persuasioni, e confessava essere necessitato a fare qualche deliberazione che gli diminuisse il numero degli inimici; ma aveva fisso nell'animo sottoporsi piú tosto a tutti i pericoli che cedere le ragioni del ducato di Milano; confortandolo a questo medesimo il suo consiglio e tutta la corte, a quali benché fusse molestissimo che il re facesse piú guerra in Italia, nondimeno, avendo rispetto alla degnità della corona di Francia, era molto piú molesto che e' fusse cosí ignominiosamente sforzato a cederle. Simile pertinacia era nelle diete de' svizzeri; a' quali benché il re offerisse di pagare di presente quattrocentomila ducati, e poi in vari tempi ottocentomila, e che il cardinale sedunense e molti de' principali, considerando il pericolo imminente se il re di Francia si congiugnesse con Cesare e col re cattolico, fussino inclinati ad accettare queste condizioni, nondimeno la moltitudine, inimicissima del nome franzese, e che superba per tante vittorie si confidava di difendere contro a tutti gli altri príncipi uniti insieme il ducato di Milano, e appresso alla quale era già molto diminuita l'autorità di Sedunense, e sospetti gli altri capi per le pensioni solevano ricevere dal re di Francia, insisteva ostinatissimamente nella ratificazione dell'accordo di Digiuno; anzi, concitata da grandissima temerità, trattava di entrare di nuovo in Borgogna: benché, opponendosi a questo Sedunense e gli altri capi, non con manifesta autorità ma con vari artifici e modi indiretti, traportavano di dieta in dieta questa deliberazione.

Però il re di Francia, non essendo né offeso né assicurato da loro, non cessava di continuare la pratica del parentado col re cattolico; nella quale, come altra volta, era la principale difficoltà se in potestà del padre o del suocero doveva stare [la sposa] insino al tempo abile alla consumazione del matrimonio, perché ritenendola il padre nessuna sicurtà dello effetto pareva avere a Cesare: e il re, insino che gli restava qualche speranza che la fama di questo maneggio, la quale egli studiosamente divulgava, potesse per lo interesse proprio mitigare in beneficio suo gli animi degli altri, nutriva volentieri le difficoltà che vi nascevano. Venne a lui Quintana, secretario del re cattolico, quello che per le medesime cagioni vi era stato l'anno dinanzi; e dipoi passato con suo consentimento a Cesare, ritornò di nuovo al re di Francia. Alla ritornata del quale, perché si potessino con maggiore comodità risolvere le difficoltà della pace, il re e Quintana in nome del re cattolico prorogorono per un altro anno la tregua fatta l'anno passato con le medesime condizioni; alle quali si aggiunse, molto secretamente, che durante la tregua non potesse il re di Francia molestare lo stato di Milano; nel quale articolo non si includeva né Genova né Asti. La quale condizione, tenuta occulta da lui, fu publicata e bandita solennemente dal re cattolico per tutta Spagna; incerti gli uomini quale fusse piú vera, o la negazione dell'uno o l'affermazione dell'altro. Fu nella medesima convenzione riservato tempo di tre mesi a Cesare e al re di Inghilterra d'entrarvi, i quali affermava il Chintana che vi entrerebbono amendue: il che, quanto al re di Inghilterra, si diceva vanamente; ma a Cesare aveva persuaso il re d'Aragona, resoluto sempre a non volere la guerra di verso Spagna, non si potere con migliore via ottenere il maritaggio che si trattava.

 

Cap. v

I veneziani e Massimiliano Cesare si rimettono di nuovo al pontefice per un compromesso. Nuove fazioni di guerra fra veneziani e tedeschi. Condizioni ed insuccesso del lodo del pontefice. Fortunata azione di Renzo da Ceri a Crema. Vicende di guerra nel Friuli.

Accrebbe questa prorogazione il sospetto al pontefice che tra questi tre príncipi non fusse fatta o in procinto di farsi, in pernicie d'Italia, conclusione di cose maggiori. Ma non perciò partendosi dalle prime deliberazioni, che alla libertà comune fusse molto pernicioso che il ducato di Milano pervenisse in potere di Cesare e del re cattolico ma dannoso anche che e' fusse recuperato dal re di Francia, gli era molto difficile procedere, e bilanciare le cose in modo che i mezzi che giovavano all'una di queste intenzioni non nocessino a l'altra; conciossiaché l'uno de' pericoli nascesse dalla bassezza e dal timore, l'altro dalla grandezza e dalla sicurtà del re di Francia. Però, per liberare quel re dalla necessità di accordarsi con loro, continuava di confortare i svizzeri, a' quali era sospetta la tregua fatta, di comporsi con lui; e per difficultargli in qualunque evento il passare in Italia, si affaticava piú che mai per la concordia tra Cesare e il senato viniziano: il quale, giudicando che il fare tregua stabilisse le cose di Cesare nelle terre che gli restavano, si risolveva con animo costante o di fare pace o di continuare in sulle armi, non si removendo da questa generosità per accidente o infortunio alcuno. Perché, oltre a tanti danni e tanti infelici successi avuti nella guerra, e il disperare che per quello anno il re di Francia mandasse esercito in Italia, avendo ancora contraria o l'ira del cielo o i casi fortuiti che dependono dalla potestà della fortuna, era stato in Vinegia, nel principio dell'anno, uno grandissimo incendio; il quale, cominciato di notte dal ponte del Rialto e aiutato da' venti boreali, non potendo rimediarvi alcuna diligenza o fatica degli uomini, distesosi per lunghissimo spazio, aveva abbruciato la piú frequentata e la piú ricca parte di quella città. Per la interposizione del pontefice allo accordo, si fece di nuovo tra Cesare e loro compromesso in lui, non ristretto a tempo alcuno e con ampia e indeterminata potestà; ma nondimeno con secreta promessa sua, confermata con cedola di propria mano di non pronunziare se non con consentimento di ciascuno: il quale compromesso come fu fatto, comandò per breve suo all'una parte e all'altra che sospendessino l'armi. La quale sospensione fu dagli spagnuoli e tedeschi poco osservata: perché quella parte degli spagnuoli che erano alle stanze nel Pulesine e a Esti predorono tutto il paese circostante; e il viceré mandò gente a Vicenza, per trovarsi in possessione quando si desse il lodo.

Fece anche in questo tempo il Frangiapane in Friuli molti danni; e stando incauti i viniziani, i tedeschi per trattato tenuto da alcuni fuorusciti presono Marano, terra del Friuli vicina ad Aquileia e posta in sul mare: però i viniziani vi mandorono per terra Baldassarre di Scipione con certo numero di genti, e Ieronimo da Savorniano con molti paesani. I quali essendosi accampati, e strignendo anche con l'armata la terra per mare, vennono in soccorso di quella cinquecento cavalli tedeschi e dumila fanti; per la venuta de' quali, uscendo anche quegli di dentro ad assaltare le genti de' viniziani, gli roppono con non piccola uccisione e tolseno loro l'artiglieria; e fu anche, con alcuni legni, loro tolta una galea e molti altri legni: dopo la qual vittoria preseno per forza Monfalcone. Aggiunsesi alle genti di Marano, pochi dí poi, quattrocento cavalli e mille dugento lanzchenech che erano stati a Vicenza; i quali, congiunti con altri fanti e cavalli venuti nuovamente nel Friuli, correvano tutto il paese: però Malatesta da Sogliano, governatore di quella regione, con seicento cavalli e dugento fanti, e Ieronimo da Savorniano con dumila uomini del paese, che si erano ridotti a Udine, non vedendo potere resistere, passorono di là dal fiume di Liquenza, soccorrendo dove potevano. Ma essendosi divisi i tedeschi, una parte prese Feltro e correva per tutto il paese circostante; ma i viniziani, che avevano occupati tutti i passi, ne assaltorono una parte a Bassano, dove erano improvisti, ed essendo di numero minore gli messeno in fuga, ammazzati trecento fanti, di cinquecento che erano, e presi molti soldati e capitani. L'altra parte de' tedeschi era andata a campo a Osopio, situato in cima d'uno aspro monte; dove, poi che ebbeno battuta la rocca con l'artiglieria e dato piú assalti invano, si ridusseno a speranza di averla per assedio, confidatisi nello essere dentro carestia d'acqua: ma avendo a questa proveduto il beneficio celeste, perché in quegli dí furono spesse e grosse pioggie, ricominciorono di nuovo a dare la battaglia, [ma invano]; tanto che disperatisi e degli assalti e dell'assedio si levorono da campo.

Erano molestissime al pontefice queste cose, ma gli era molesto molto piú non trovare mezzo di concordia che sodisfacesse all'una parte e all'altra. Perché dalla spessa variazione delle cose, variandosi secondo i progressi di quelle le speranze, era proceduto che quando Cesare aveva consentito di lasciare Vicenza, ritenendosi Verona, i viniziani avevano recusato se non erano reintegrati di Verona; ora che i viniziani, sbattuti da tante percosse, si contentavano d'avere Vicenza sola, Cesare non contento di Verona voleva anche Vicenza. Dalle quali difficoltà stracco il pontefice, e presupponendo che la dichiarazione sua non sarebbe accettata, ma per mostrare che per lui non mancasse, pronunziò la pace tra loro, con questo: che subito da ogni parte si posassino le armi, riservandosi la facoltà di dichiarare infra uno anno le condizioni della pace, nella quale e nella sospensione delle armi fusse compreso il re cattolico: che Cesare deponesse Vicenza in sua mano e quanto egli e gli spagnuoli possedevano nel padovano e nel trevigiano, e i viniziani deponessino Crema; l'altre cose ciascuno insino alla dichiarazione possedesse secondo possedeva. Dovessesi ratificare il lodo infra uno mese da tutti, e ratificandosi pagassino i viniziani allora a Cesare venticinquemila ducati e fra tre mesi prossimi venticinquemila altri, e che non ratificandosi da tutti si intendesse il lodo essere nullo: il quale modo insolito di giudicare fu seguitato da lui per non dispiacere ad alcuna delle parti. E perché non vi era facoltà di chi ratificasse in nome del re cattolico, se bene l'oratore suo faceva fede del suo consenso, riservò tanto tempo a ratificare a ciascuno che potesse venire la facoltà: ma essendo risoluti a non ratificare i viniziani, perché arebbeno desiderato che in uno tempo medesimo si fussino pronunziate le condizioni della pace, restò vano il giudizio.

Procedevano in questo tempo prosperamente le cose loro nella difesa di Crema, vessata dentro dalla peste e dalla carestia e di fuora dallo assedio degli inimici: perché da una parte era venuto Prospero Colonna a Efenengo con dugento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e dumila fanti, e da altra parte, a Umbriano, Silvio Savello con la compagnia sua di cavalli e dumila fanti, distante l'uno luogo e l'altro due miglia da Crema: donde usciva spesso gente a scaramucciare con gli inimici. I quali mentre stanno incauti allo alloggiamento di Umbriano, Renzo da Ceri, uscito una notte con parte delle genti che erano dentro, assaltati gli alloggiamenti, gli messe in fuga, ammazzati di loro molti fanti: per il che Prospero si discostò con la sua gente: e pochi dí poi Renzo, avuta l'occasione di potere per la bassezza delle acque guadare il fiume dell'Adda, passato a Castiglione di Lodigiana, svaligiò cinquanta uomini d'arme che vi erano alloggiati; riportando tanta laude di queste sí prospere e industriose fazioni che per consenso universale fusse già numerato tra' principali capitani di tutta Italia.

Deliberorono dipoi i viniziani di recuperare il Friuli: però vi fu mandato l'Alviano, con dugento uomini d'arme quattrocento cavalli leggieri e settecento fanti. Il quale camminando alla volta di Portonon, dove era parte de' tedeschi, i suoi cavalli leggieri che correvano innanzi, scontrato fuora della terra il capitano Rizzano tedesco con dugento uomini d'arme e trecento cavalli leggieri, venuti insieme alle mani, erano ributtati; ma sopravenendo l'Alviano col resto delle genti, si cominciò una aspra battaglia, l'effetto della quale stette dubbio insino che Rizzano, ferito nella faccia, fu preso da Malatesta da Sogliano. Rifuggissi la gente rotta in Portonon, ma dubitando non potersi difendere si fuggirono; e la terra, abbandonata, fu, con morte di molti uomini del paese, messa a sacco. Andò dipoi l'Alviano alla volta di Osopio, assediato dal Frangiapane e da un'altra parte di tedeschi; i quali inteso lo approssimare suo si levorno, ma, avendo alla coda i cavalli leggieri, perderono i carriaggi e l'artiglierie. Per i quali successi essendo ritornato a ubbidienza de viniziani quasi tutto il paese, l'Alviano, poi che ebbe tentato invano Gorizia, se ne ritornò a Padova con le genti; avendo, secondo scrisse egli a Roma, tra presi e morti dugento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e dumila fanti. Ma per la partita sua i tedeschi, ingrossati di nuovo, preseno Cromonio e Monfalcone e costrinseno i viniziani a levarsi da campo da Marano, dove in uno aguato era stato preso, pochi dí innanzi, e condotto a Vinegia il Frangiapane; ma sentendo la venuta del soccorso, si levorono quasi come rotti: e poco poi, messi in fuga i loro stradiotti, fu preso Giovanni Vitturio loro proveditore, con cento cavalli. E accadevano spesso in Friuli queste variazioni per la vicinità de' tedeschi, i quali non si servivano in quel paese se non di genti comandate; le quali, poi che avevano corso e predato o sentendo la venuta delle genti viniziane, con le quali si congiugnevano molti del paese, si ritiravano presto alle loro case, ritornandovi dipoi secondo l'occasione. Mandoronvi i viniziani gente di nuovo, per il che il viceré ordinò che Alarcone, uno de' capitani spagnuoli che erano alloggiati tra Esti, Montagnana e Cologna, andasse con dugento uomini d'arme cento cavalli leggieri e cinquecento fanti nel Friuli; ma, inteso per il cammino che nel paese era stata fatta tregua per fare la vendemmia, se ne tornò al primo alloggiamento.

 

Cap. vi

Persistenza dell'avversione degli svizzeri al re di Francia e sospetti del re verso il pontefice. Sdegno del re d'Inghilterra contro il re d'Aragona per la convenzione conclusa col re di Francia. Pace fra il re d'Inghilterra e il re di Francia. Convenzione del pontefice con Massimiliano Cesare e col re d'Aragona; altra convenzione col re di Francia.

Cosí procedendo le guerre di Italia lentamente, non si intermettevano le pratiche della pace e degli accordi. Perché il re, non privato al tutto di speranza che i svizzeri consentissino di ricevere ricompenso di danari in cambio della cessione delle ragioni, sollecitava appresso a loro questo effetto con molta instanza; dal quale era la moltitudine tanto aliena che, avendo, quando fuggirono gli statichi, costretto con minaccie il governatore di Ginevra a dare loro prigione il presidente di Granopoli, mandato dal re in quella città per trattare con loro, lo esaminavano con molti tormenti per intendere se alcuno della loro nazione ricevesse piú pensione o avesse intelligenza occulta col re di Francia: non bastando né umanità né giustificazione alcuna a reprimere la loro barbara crudeltà. Né era senza sospetto il re che anche il pontefice, che per la diversità de' fini suoi era costretto navigare con grandissima circospezione fra tanti scogli, non procurasse secretamente che i svizzeri non convenissino seco senza intervento suo, non per incitargli a rompere la guerra, che da questo continuamente gli sconfortava, ma perché o restassino fermi nello accordo di Digiuno, o per paura che con questo principio non si separassino da lui. Però minacciava di precipitarsi all'accordo con gli altri, per non volere restare piú solo alle percosse di tutto il mondo: stracco ancora dalle spese eccessive e dalle insolenze de' soldati; perché avendo condotti in Francia ventimila fanti tedeschi, né potuto avergli tutti se non quando il re d'Inghilterra era a campo a Tornai, aveva, per avergli a tempo se venisse nuovo bisogno, ritenutogli in Francia; i quali facevano infiniti danni per il paese. E si doleva il re che il papa non lo volesse in Italia, e che gli altri príncipi non lo volessino in Francia.

In queste difficoltà e in tanta perplessità delle cose, cominciò ad aprirgli la via alla sua sicurtà e alla speranza di ritornare nella pristina potenza e riputazione la indegnazione incredibile che ricevette il re di Inghilterra della tregua rinnovata dal suocero, contro a quello che molte volte gli aveva promesso, di non fare piú senza suo consentimento convenzione alcuna col re di Francia; della quale ingiuria lamentandosi publicamente, e affermando essere stato ingannato dal suocero tre volte, si alienava ogni dí piú da' pensieri di rinnovare la guerra contro a franzesi. La quale cosa pervenuta a notizia del pontefice, mosso o dal sospetto che il re di Francia, in caso fusse molestato da lui, non facesse la pace e il parentado (come continuamente minacciava) con gli altri due re, o perché, pensando che a ogni modo avesse a succedere la pace tra loro, desiderasse con lo interporsene acquistare qualche grado col re di Francia, di quello che non era in potestà sua di proibire, cominciò a confortare il cardinale eboracense che persuadesse al suo re che, contento della gloria guadagnata, e avendo in memoria che corrispondenza di fede avesse trovata in Cesare, nel re cattolico e ne' svizzeri, non travagliasse piú con l'armi il reame di Francia. Certo è che, essendo dimostrato al pontefice che come il re di Francia si fusse assicurato della guerra di Inghilterra moverebbe le armi contro al ducato di Milano, rispondeva: conoscere questo pericolo, ma aversi anche a considerare il pericolo che partorirebbe da ogni banda; ed essere, in materie sí gravi, troppo difficile il bilanciare le cose sí perfettamente e trovare consiglio che fusse totalmente netto da questi pericoli: restare in ogni evento allo stato di Milano la difesa de' svizzeri, ed essere necessario, in deliberazioni tanto incerte e tanto difficili, rimetterne una parte all'arbitrio del caso e della fortuna.

Come si sia, cominciò presto, o per l'autorità del pontefice o per inclinazione propria delle parti, a nascere pratica d'accordo tra il re di Francia e il re di Inghilterra; i ragionamenti della quale, cominciati dal pontefice con Eboracense, furono trasferiti presto in Inghilterra, dove per questa cagione fu mandato dal re di Francia il generale di Normandia, ma sotto colore di trattare della liberazione del marchese di Rotellino: allo arrivare del quale fu publicata sospensione delle armi, per terra solamente, tra l'uno e l'altro re, per tutto il tempo che il generale stesse nell'isola. Accrescevasi, per nuove ingiurie, la inclinazione del re di Inghilterra alla pace: perché Cesare, che gli aveva promesso di non ratificare senza lui la tregua fatta dal re cattolico, mandò a quel re lo instrumento della ratificazione; il quale, per una lettera sua al re di Francia, ratificò in nome di Cesare, ritenendosi lo instrumento per potere usare le simulazioni e arti sue. Cominciata la pratica tra i due re, il pontefice, desideroso di farsi grato a ciascuno di loro, mandò in poste al re di Francia il vescovo di Tricarico a offerire tutta l'autorità e opera sua; il quale passò con suo consentimento in Inghilterra per l'effetto medesimo. Dimostroronsi in questa cosa da principio molte difficoltà, perché il re di Inghilterra dimandava che gli fusse dato Bologna di Piccardia e quantità grande di danari: finalmente, riducendosi la differenza in su le cose di Tornai, perché il re d'Inghilterra instava di ritenerlo e dal canto del re di Francia se ne mostrava qualche difficoltà, mandò quel re il vescovo di Tricarico in poste al re di Francia; al quale, non essendo notificato in che particolare consistesse la difficoltà, fu data commissione che in suo nome lo confortasse che, per rispetto di tanto bene, non insistesse cosí sottilmente nelle cose: sopra che il re di Francia, non volendo avere carico co' popoli suoi, per essere Tornai terra nobile e di fede molto nota verso la corona di Francia, propose la cosa nel consiglio, nel quale intervenneno tutti i principali della corte. Fu unitamente confortato ad abbracciare, eziandio con questa condizione, la pace: nonostante che in questi tempi il re cattolico, cercando con ogni industria di interromperla, proponesse al re di Francia molti partiti, e specialmente di dargli favore allo acquisto dello stato di Milano. Però, come in Inghilterra fu arrivata la risposta che il re era contento delle cose di Tornai, fu, al principio di agosto, conchiusa la pace tra i due re, durante la vita loro e uno anno dopo la morte; con condizione che Tornai restasse al re d'Inghilterra, al quale il re di Francia pagasse secentomila scudi, distribuendo il pagamento in centomila franchi per anno; fussino tenuti alla difesa degli stati l'uno dell'altro, con diecimila fanti se la guerra fusse mossa per terra, con seimila solo se per mare; che il re di Francia fusse obligato a servire il re d'Inghilterra, in ogni suo affare, di mille dugento lancie, e quel re fusse tenuto a servire lui di diecimila fanti, ma in questo caso a spese di chi ne avesse di bisogno. Furono nominati dall'uno e l'altro di loro il re di Scozia, l'arciduca e lo imperio, ma non fu nominato né Cesare né il re cattolico; nominati i svizzeri, ma con patto che qualunque difendesse contro al re di Francia lo stato di Milano o Genova o Asti fusse escluso dalla nominazione. La quale pace, fatta con grandissima prontezza, fu corroborata con parentado; perché il re d'Inghilterra concesse la sorella sua per moglie al re di Francia, con condizione riconoscesse d'avere ricevuto per la sua dote quattrocentomila scudi. Celebrossi subito lo sposalizio in Inghilterra, al quale il re non volle, per l'odio grande che aveva al re cattolico, che l'oratore suo vi intervenisse. Né era appena conchiusa questa pace che alla corte di Francia arrivò lo instrumento della ratificazione fatta da Cesare della tregua, e il mandato suo e del re cattolico per la conclusione del parentado che si trattava tra Ferdinando d'Austria e la figliuola seconda del re, che era ancora in età di quattro anni: la quale pratica, per la conclusione della pace, fu in tutto esclusa; e il re ancora, per sodisfare al re di Inghilterra, volle partisse del regno di Francia il duca di Suffolch, che era capitano generale de' fanti tedeschi condotti da lui; e nondimeno, onorato e carezzato dal re, partí bene contento.

Nel quale tempo aveva anche il pontefice fatte nuove congiunzioni; perché, pieno di artifici e di simulazioni, voleva da uno canto che il re di Francia non recuperasse lo stato di Milano, da altro intrattenere lui e gli altri príncipi quanto poteva con varie arti. Però, per mezzo del cardinale San Severino, che nella corte di Roma trattava le cose del re di Francia, aveva proposto al re che, poi che i tempi non pativano che tra loro si facesse maggiore e piú palese congiunzione, che almanco si facesse uno principio e uno fondamento in sul quale si potesse sperare aversi a fare altra volta strettissima intelligenza; e aveva mandato la minuta de' capitoli: alla quale pratica il re di Francia, ancorché dimostrasse gli fusse grata, non avendo fatto risposta sí presto, ché tardò quindici dí a risolversi, o per altre occupazioni o perché aspettasse d'altro luogo qualche risposta per governarsi secondo i progressi delle cose, il pontefice fece nuova capitolazione con Cesare e col re cattolico per uno anno, nella quale non si conteneva però altro che la difesa degli stati comuni: avendo prima il re cattolico non vanamente sospettato che egli aspirasse al regno di Napoli per Giuliano suo fratello, sopra che aveva già avuto qualche pratica co' viniziani. Né l'aveva ancora quasi conchiusa che sopravenne la risposta del re di Francia, per la quale approvava tutto quello che aveva proposto il pontefice; aggiugnendovi solamente che, poi che egli si aveva a obligare alla protezione de' fiorentini, di Giuliano suo fratello e di Lorenzo de' Medici suo nipote, il quale il papa aveva preposto alla amministrazione delle cose di Firenze, voleva che anche essi reciprocamente si obligassino alla difesa sua: la quale ricevuta, il pontefice si scusò essersi ristretto con Cesare e col re cattolico, perché, vedendo differirsi tanto a rispondere a una dimanda tanto conveniente, non aveva potuto fare non entrasse in qualche dubitazione; e nondimeno averla fatta per breve tempo, né contenersi in quella cose pregiudiziali a lui né impedirgli la perfezione della pratica cominciata tra loro. Le quali giustificazioni accettate dal re, fermorono insieme la convenzione non per instrumento, per maggiore secreto, ma per cedola sottoscritta di mano di ciascuno di loro.

 

Cap. vii

Pensieri dei príncipi e degli svizzeri intorno alla pace conchiusa dai re di Francia e di Inghilterra. Sollecitazioni del pontefice al re di Francia perché tenti l'impresa del ducato di Milano; resa della Lanterna di Genova. La politica del pontefice e nuove preoccupazioni del re di Francia.

La pace tra il re di Francia e il re d'Inghilterra, fatta con maggiore facilità e prestezza che non era stata l'opinione universale, perché niuno credette mai che tanta inimicizia potesse cosí presto convertirsi in benivolenza e in parentado, non fu forse grata al pontefice che, come gli altri, si era persuaso doverne nascere piú presto tregua che pace o, se pure, pace che avesse a essere con condizioni piú gravi al re di Francia o almanco con obligazione che per qualche tempo non assaltasse lo stato di Milano: ma dispiacque sommamente a Cesare e al re cattolico. Il quale, come non è male alcuno nelle cose umane che non abbia congiunto seco qualche bene, affermava riceverne due sodisfazioni di animo: l'una, che l'arciduca suo nipote, escluso dalla speranza di dare la sorella per moglie al re di Francia e venuto in diffidenza col re d'Inghilterra, sarebbe costretto a procedere in tutte le cose col consiglio e autorità sua; l'altra, che potendo facilmente il re di Francia avere figliuoli era messa in dubbio la successione di Angolem, col quale egli, per essere Angolem desiderosissimo di rimettere il re di Navarra nel suo stato, riteneva grandissimo odio. Soli i svizzeri, benché ritenendo il medesimo odio che per il passato contro al re di Francia, affermavano essersi rallegrati di questa concordia; perché restando, come si credeva, espedito quel re a muovere la guerra contro al ducato di Milano, arebbeno nuova occasione di dimostrare a tutto il mondo la virtú e la fede loro. Né si dubitava per alcuno che il re di Francia, cessato quasi in tutto il timore di essere molestato di là da' monti, non avesse il consueto desiderio di recuperare il ducato di Milano; ma era incerto se avesse in animo di muovere l'armi subito o differire all'anno futuro, perché la facilità appariva presente ma non apparivano segni di preparazione.

Nella quale incertitudine, il pontefice, ancoraché gli fusse molestissimo che il re recuperasse quello stato, lo confortò, molto efficacemente, che col differire non corrompesse l'occasione presente; dimostrando le cose essere male preparate a resistere, perché l'esercito spagnuolo era diminuito e non pagato, i popoli dello stato di Milano poveri e ridotti in ultima disperazione, e non vi essere chi potesse dare danari per muovere i svizzeri: le quali persuasioni avevano maggiore autorità perché, non molto innanzi che si facesse la pace col re di Inghilterra, dimostrando d'avere desiderio ch'egli recuperasse Genova, gli aveva dato qualche speranza di indurre Ottaviano Fregoso a convenire seco. Non è dubbio che in questa cosa il pontefice non procedeva sinceramente, ma si crede lo movesse o perché vedendo le cose mal proviste e dubitando che il re di Francia non facesse eziandio senza suoi conforti questa espedizione, perché aveva le genti d'arme parate e molti fanti tedeschi, volesse con tale arte preoccupare la sua amicizia, o che, procedendo con maggiore astuzia, sapesse essere vero quello che Cesare e il re cattolico affermavano e il re di Francia negava: che gli fusse proibito muovere, durante la tregua, l'armi contro allo stato di Milano; e però, persuadendosi che il re negherebbe il fare la impresa, gli paresse fargli buono concetto della sua disposizione, e prepararsi scusa se da lui ne fusse ricercato ad altro tempo. E successe la cosa secondo il disegno suo: perché il re, deliberato, o per la cagione predetta o per avere difficoltà di denari o per la propinquità del verno, di non muovere l'armi insino alla primavera, e dimostrando confidare che anche a quello tempo non gli mancherebbe il favore del pontefice, rispondeva allegando varie escusazioni della dilazione, ma tacendo sempre quella, che forse era la principale, della tregua che ancora durava. Aveva nondimeno inclinazione a tentare le cose di Genova o almanco di soccorrere la Lanterna, la quale per ordine suo era stata nell'anno medesimo rinfrescata piú volte di qualche quantità di vettovaglie, da piccoli legni i quali, fingendo di volere entrare nel porto di Genova, vi si erano accostati furtivamente; ma l'estremità del vivere era tale che, non potendo quella fortezza aspettare il soccorso, furono costretti quegli di dentro ad arrendersi a' genovesi; i quali, con dispiacere maraviglioso del re, la disfeceno insino da' fondamenti. Rimosse la perdita della Lanterna il re in tutto da' pensieri di molestare per allora Genova, ma si voltò tutto alle preparazioni di assaltare il ducato di Milano l'anno futuro: e sperava insino a qui, per la intenzione buona che gli dava il pontefice, per la disposizione che aveva dimostrato nelle pratiche col re d'Inghilterra e con i svizzeri, e per lo averlo stimolato a fare la impresa, gli avesse a essere congiunto e favorevole; massime che a lui faceva offerte grandi, e particolarmente prometteva aiutarlo ad acquistare il regno di Napoli o per la Chiesa o per Giuliano suo fratello. Ma nuove cose che sopravennono cominciorono a metterlo in qualche diffidenza di lui.

Non aveva il pontefice mai voluto comporre le cose del duca di Ferrara, se bene, nel principio della sua promozione, gli avesse dato in Roma grandissima speranza e promesso la restituzione di Reggio al ritorno di Ungheria del cardinale suo fratello; al quale poiché fu ritornato, era andato differendo con varie scuse: confermategli però le medesime promesse non solo con le parole ma con uno breve, e consentendo che egli pigliasse l'entrate di Reggio come di cosa che presto avesse a ritornare sotto il loro dominio. Ma la intenzione sua era molto diversa, e inclinata a occupare Ferrara; stimolato da Alberto da Carpi oratore cesareo, inimico acerbissimo del duca, e da molti altri che gli proponevano ora l'esempio della gloria di Giulio, fatta eterna per avere tanto ampliato il dominio della Chiesa, ora l'occasione di dare uno stato onorevole a Giuliano suo fratello: il quale, avendosi proposto speranze poco moderate, aveva spontaneamente consentito che Lorenzo suo nipote ritenesse in Firenze l'autorità della casa de' Medici. Però entrato in questi pensieri, il pontefice ottenne facilmente da Cesare, bisognoso in ogni tempo di denari, che gli desse in pegno la città di Modena per quarantamila ducati, come poco innanzi alla morte di Giulio si era trattato con lui; disegnando unire quella città con Reggio, Parma e Piacenza e concederle in vicariato o in governo perpetuo a Giuliano, con aggiugnervi Ferrara se gli venisse mai l'occasione di ottenerla. Dette questa compra sospetto non mediocre al re di Francia, parendogli segno di congiunzione grande con Cesare ed essendogli molesto che gli desse denari; benché il pontefice si scusava, Cesare avergliene concessa per denari che prima aveva avuti: e accrebbe il sospetto che, per avere ottenuto il principe de' turchi una vittoria grande contro al Sophí re della Persia, il pontefice, come per cosa pericolosa a' cristiani scrisse lettere a tutti i príncipi, confortandogli a posare l'armi tra loro per attendere a resistere o ad assaltare gl'inimici della fede. Ma quello che quasi in tutto scoperse a lui l'animo suo fu che egli mandò, sotto il medesimo pretesto, Pietro Bembo suo secretario, che fu poi cardinale a Vinegia, per disporgli allo accordo con Cesare: nel quale essendo le medesime difficoltà che per il passato, non l'avevano voluto accettare; anzi manifestorono al re di Francia la cagione della sua venuta. Donde il re, dispiacendogli che in tempo tanto propinquo a muovere l'armi cercasse di privarlo degli aiuti de' suoi confederati, rinnovò le pratiche passate col re cattolico, o perché questo terrore movesse il pontefice avergliene concessa per denari che prima aveva avuti: e accrebbe il sospetto che, per avere ottenuto il principe de' turchi una vittoria grande contro al Sophí re della Persia, il pontefice, come per cosa pericolosa a' cristiani scrisse lettere a tutti i príncipi, confortandogli a posare l'armi tra loro per attendere a resistere o ad assaltare gl'inimici della fede. Ma quello che quasi in tutto scoperse a lui l'animo suo fu che egli mandò, sotto il medesimo pretesto, Pietro Bembo suo secretario, che fu poi cardinale a Vinegia, per disporgli allo accordo con Cesare: nel quale essendo le medesime difficoltà che per il passato, non l'avevano voluto accettare; anzi manifestorono al re di Francia la cagione della sua venuta. Donde il re, dispiacendogli che in tempo tanto propinquo a muovere l'armi cercasse di privarlo degli aiuti de' suoi confederati, rinnovò le pratiche passate col re cattolico, o perché questo terrore movesse il pontefice o, non lo movendo, per conchiuderle: tanto [era] sopra ogni cosa ardente alla recuperazione del ducato di Milano.

 

Cap. viii

Attentato degli spagnuoli contro l'Alviano; nuove fazioni di guerra fra veneziani e spagnuoli nel Veneto. Nuove vicende della lotta a Crema e nel bergamasco. Attività dell'Alviano nel Veneto. Quiete nel Friuli. Tentativi dei Fieschi e degli Adorni in Genova. Dono del re del Portogallo al pontefice.

Ma in questo medesimo non erano stati in Italia altri movimenti che contro a' viniziani. Contro a' quali anche si era tentato di procedere con occultissime insidie: perché, se è vero quello che riferiscono gli scrittori viniziani, alcuni fanti spagnuoli, entrati in Padova simulando di essere fuggiti del campo degli inimici, cercavano di ammazzare l'Alviano per commissione de' capitani loro; i quali speravano che accostandosi subito con l'esercito a Padova, disordinata per la morte di uno tale capitano, averla facilmente a pigliare. Tanto sono dissimili i modi della milizia presente dalla virtú degli antichi! i quali, non che subornassero i percussori, revelavano allo inimico se alcuna sceleratezza si trattava contro a lui, confidandosi di poterlo vincere con la virtú. La quale congiurazione venuta a luce, fu degli scelerati fanti preso dai magistrati il debito supplicio. Alloggiavano le genti spagnuole, diminuite non poco di numero, tra Montagnana, Cologna ed Esti; i quali per sforzare al ritirarsi nel reame di Napoli, i viniziani ordinavano una armata, della quale avevano fatto Andrea Gritti capitano generale: la quale, destinata ad assaltare la Puglia, fu per varie difficoltà alla fine disarmata e messa in silenzio. Vennono poi gli spagnuoli alle Torri appresso a Vicenza stimolati da i tedeschi che erano in Verona di andare insieme con loro a dare il guasto alle biade de' padovani; ma avendogli aspettati in quello alloggiamento invano piú dí, perché erano ridotti a piccolissimo numero e impotenti a adempiere le promesse sotto le quali gli avevano chiamati, lasciato il disegno del guasto e ottenuti da loro mille cinquecento fanti, andorono con settecento uomini d'arme settecento cavalli leggieri e tremila cinquecento fanti spagnuoli a campo a Cittadella, nella quale terra erano trecento cavalli leggieri. Dove essendo arrivati a due ore di dí, avendo cavalcato espediti tutta la notte, batteronla subito con l'artiglieria; e il dí medesimo la preseno, con tutti quegli cavalli, per forza, al secondo assalto, e si ritornorono al primo alloggiamento propinquo a tre miglia a Vicenza: non si movendo l'Alviano, il quale, avendo avuto dal senato comandamento di non combattere, si era, con settecento uomini d'arme mille cavalli leggieri e settemila fanti, fermato in alloggiamento forte in sul fiume della Brenta, dal quale co' cavalli leggieri travagliava continuamente gli inimici. Nondimeno poi, per maggiore sicurtà dello esercito, si ritirò a Barziglione quasi in sulle porte di Padova. Ma essendo tutto il paese consumato dalle scorrerie e dalle prede che si facevano dall'uno e dall'altro esercito, gli spagnuoli, mancando loro le vettovaglie, si ritirorono a' primi alloggiamenti da' quali si erano partiti, abbandonata la città di Vicenza e la rocca di Brendala distante da Vicenza sette miglia; né si nutrivano con altri sussidi o pagamenti che con le taglie mettevano a Verona, Brescia, Bergamo e gli altri luoghi circostanti. Ritirati gli spagnuoli, l'Alviano si pose con l'esercito tra la Battaglia e Padova in alloggiamento fortissimo: donde inteso essere in Esti poca e negligente guardia, vi mandò di notte quattrocento cavalli e mille fanti; dove entrati innanzi fussino sentiti e presi ottanta cavalli leggieri del capitano Corvera, il quale si salvò nella rocca, si ritirorono allo esercito. Ma avendo i viniziani mandate nuove genti all'esercito, l'Alviano, accostatosi a Montagnana, presentò la battaglia al viceré; il quale, perché era molto inferiore di forze recusando di combattere, si ritirò nel Polesine di Rovigo: donde l'Alviano, non avendo piú ostacolo alcuno di là dallo Adice, correva ogni dí insino in sulle porte di Verona; il che fu cagione che il viceré, mosso dal pericolo di quella città, lasciati nel Pulesine trecento uomini d'arme e mille fanti, vi entrò con tutto il resto dello esercito.

Molte maggiori difficoltà erano in Crema, quasi assediata dalle genti del duca di Milano alloggiate nelle terre e ville vicine, perché dentro era la carestia, la peste smisurata, stati i soldati piú mesi senza denari, mancamento di munizioni e di molte provisioni piú volte dimandate. Però Renzo, diffidando potersi piú sostenere, aveva quasi protestato a' viniziani; e nondimeno, mostrandosegli ancora benigna la medesima fortuna, assaltò Silvio Savello che aveva dugento uomini d'arme cento cavalli leggieri e mille cinquecento fanti, e giuntogli addosso allo improviso lo roppe subito, e Silvio con cinquanta uomini d'arme fuggí in Lodi. Rifornirono dipoi un'altra volta i viniziani Crema di vettovaglie, e il conte Niccolò Scoto vi messe mille cinquecento fanti; dal quale presidio essendo accresciuto le forze e l'animo di Renzo, entrò pochi dí poi nella città di Bergamo, chiamato dagli uomini della terra, e gli spagnuoli si fuggirono nella Cappella; e nel tempo medesimo Mercurio e Malatesta Baglione preseno trecento cavalli che erano alloggiati fuora: ma andando, pochi dí poi, Niccolò Scoto con cinquecento fanti italiani da Bergamo a Crema, incontrato da dugento svizzeri, fu rotto e fatto prigione, e condotto al duca di Milano che lo fece decapitare. La perdita di Bergamo destò il viceré e Prospero Colonna; i quali, con le genti spagnuole e del duca di Milano, andativi a campo con cinquemila fanti, piantorno l'artiglierie alla porta di Santa Caterina: con le quali avendo fatto progresso grande, Renzo che vi era dentro, vedendo non si potere difendere, lasciata la terra a discrezione, accordò di potersene uscire con tutti i soldati con le loro robe, ma senza suono di trombe e con le bandiere basse. Compose il viceré Bergamo in ottantamila ducati.

Ma opera molto celebrata e piena di grande industria e celerità, mentre che queste cose a Crema e a Bergamo succedevano, fece l'Alviano nella terra di Rovigo. Nella quale essendo alloggiati piú di dugento uomini d'arme spagnuoli, e riputando di esservi sicurissimi perché tra le genti viniziane e loro era in mezzo il fiume dello Adice, l'Alviano gittato il ponte all'improviso appresso alla terra della Anguillara, e passato con gente tutta espedita il fiume con prestezza incredibile e arrivato alla terra, la porta della quale era già stata occupata da cento fanti vestiti da villani, mandati innanzi da lui sotto l'occasione che quel dí medesimo vi si faceva il mercato, entrato dentro gli fece tutti prigioni: per il quale caso gli altri spagnuoli che erano alloggiati nel Pulesine, rifuggitisi alla Badia come luogo piú forte del paese, abbandonato poi tutto il Pulesine ed eziandio Lignago, si salvorono verso Ferrara. Preso Rovigo, andò l'Alviano con l'esercito a Oppiano presso a Lignago, avendovi anche condotto per il fiume l'armata delle barche, e di quivi a villa Cerea presso a Verona; luogo dal quale, se non gli succedesse il pigliare Verona, nella quale erano dumila fanti spagnuoli e mille tedeschi, disegnava di travagliarla tutta la vernata: ma avendo notizia che verso Lignago andavano trecento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e seimila fanti degli inimici, temendo non gli impedissino le vettovaglie o lo strignessino a combattere, si levò e gli andò costeggiando, che andavano verso l'Adice; e lo passorno ad Albereto, con difficoltà grande di vettovaglie, per la molestia ricevevano da' cavalli leggieri e dalla armata delle barche. Nel quale luogo avendo inteso che l'esercito spagnuolo, ricuperato Bergamo, ritornava verso Verona, deliberato non l'aspettare, mandò le genti d'arme per terra a Padova; egli con la fanteria carriaggi e artiglierie, per fuggire le pioggie e i fanghi grandi, se ne andò di notte per il fiume dello Adice alla seconda, non senza timore di essere assaltato dagli inimici, i quali furno impediti dall'acque troppo alte: ma egli smontato in terra si condusse, con la consueta celerità, salvo a Padova, ove due dí innanzi erano entrati gli uomini d'arme; dipoi distribuí l'esercito tra Padova e Trevigi. E il viceré e Prospero Colonna, poste le genti alle stanze nel Polesine di Rovigo, andorno a Spruch, per consultare con Cesare delle cose occorrenti.

Stette questo anno medesimo piú quieto che 'l solito il paese del Friuli, essendo per la cattura del Frangiapane mancato quello instrumento il quale piú che tutti gli altri lo inquietava: e però i viniziani, conoscendo quello che importasse il ritenerlo, avevano recusato di permutarlo con Giampaolo Baglione; il quale, trattandosi prima di permutarlo con Carvagial, aveva avuto licenza dagli spagnuoli di andare a Roma, ma data la fede di ritornare prigione non si concordando la permutazione; la quale mentre che si tratta, succeduta la morte di Carvagial, Giampaolo, affermando per questo accidente rimanere libero, recusò di tornare piú in potestà di chi l'aveva fatto prigione.

E ne' medesimi dí, che fu circa la fine dell'anno, gli Adorni e i Fieschi, favoriti occultamente, secondo si credeva, dal duca di Milano, entrati di notte per trattato in Genova e venuti alla piazza del palazzo, furono scacciati da Ottaviano Fregoso; il quale co' fanti della sua guardia fattosi loro incontro fuora delle sbarre, combattendo sopra tutti gli altri valorosamente, gli messe in fuga, ricevuta una piccola ferita nella mano. Restorono prigioni Sinibaldo dal Fiesco Ieronimo Adorno e Gian Cammillo da Napoli.

Pare, oltre alle cose sopradette, degno di memoria che in questo anno medesimo Roma vidde gli elefanti, animale forse non mai piú veduto in Italia dopo i trionfi e i giuochi publici de' romani: perché mandando Emanuel re di Portogallo una onoratissima imbascieria a prestare la ubbidienza al pontefice, mandò insieme a presentargli molti doni, e tra questi due elefanti, portati a lui della India dalle sue navi; la entrata de' quali in Roma fu celebrata con grandissimo concorso.

 

Cap. ix

Sollecitazioni del re di Francia al pontefice per averne l'adesione e l'appoggio; risposta del pontefice al re. Morte del re di Francia: considerazioni dell'autore.

Ma in questi tempi medesimi, il re di Francia, intento con l'animo ad altro che a pompe e spettacoli, sollecitava tutte le altre provisioni della guerra: e desideroso di certificarsi dell'animo del pontefice, ma determinato, qualunque e' fusse, di proseguire la impresa destinata, lo ricercò che volesse dichiararsi in suo favore, riconfermando l'offerte prima fatte e affermando che, escluso dalla sua congiunzione, accetterebbe da Cesare e dal re cattolico le condizioni già recusate. Riducevagli in considerazione la potenza del regno suo, la confederazione e gli aiuti promessigli da' viniziani; essere allora piccole in Italia le forze di Cesare e del re d'Aragona, e l'uno e l'altro di questi re bisognosissimo di danari, e impotenti a pagare i soldati propri non che a fare muovere i svizzeri; i quali, non pagati, non scenderebbono de' monti loro: non desiderare altro tutti i popoli di Milano, poi che avevano provato il giogo acerbo degli altri, che di ritornare sotto lo imperio de' franzesi: né avere cagione il pontefice di provocarlo a usare contro a lui inimichevolmente la vittoria, perché la grandezza de' re di Francia in Italia e la sua propria essere stata in ogni tempo utile alla sedia apostolica, perché contenti sempre delle cose che di ragione se gli appartenevano, non avere mai, come avevano tante esperienze dimostrato, pensato a occupare il resto di Italia: diversa essere la intenzione di Cesare e del re cattolico, che mai avevano pensato se non, o con armi o con parentadi o con insidie, di occupare lo imperio di tutta Italia, e mettere in servitú, non meno che gli altri, la sedia apostolica e i pontefici romani, come sapeva tutto il mondo essere antichissimo desiderio di Cesare: però provedesse in uno tempo medesimo alla sicurtà della Chiesa alla libertà comune d'Italia e alla grandezza della famiglia sua de' Medici; occasione che mai arebbe né in altro tempo né con altra congiunzione che con la sua. Né mancavano al pontefice, in contrario, efficacissime persuasioni di Cesare e del re d'Aragona, perché si unisse con loro alla difesa d'ltalia; dimostrandogli che se, congiunti insieme, avevano potuto cacciare il re di Francia del ducato di Milano, erano molto piú bastanti a difenderlo da lui; ricordassesi dell'offesa fattagli l'anno passato, d'avere, quando l'esercito suo passò in Italia, mandato danari a' svizzeri, e considerasse che, se il re ottenesse la vittoria, vorrebbe in uno tempo e vendicarsi contro a tutti delle ingiurie ricevute e assicurarsi da' pericoli e da' sospetti futuri. Ma piú movevano il pontefice l'autorità e le offerte de' svizzeri; i quali, perseverando nel pristino ardore, offerivano, ricevendo seimila raines il mese, di occupare e difendere con seimila fanti i passi del Monsanese di Monginevra e del Finale e, essendo pagati loro quarantamila raines il mese, di assaltare con ventimila fanti la Borgogna. In queste conflittazioni ambiguo il pontefice in se medesimo, perché donde lo spronava la voglia lo ritraeva il timore, dando a ciascuno risposte e parole generali, differiva di dichiarare quanto poteva la mente sua. Ma instando, già quasi importunamente, il re di Francia, gli rispose finalmente: niuno sapere piú di lui quanto fusse inclinato alle cose sue, perché sapeva quanto caldamente l'avesse confortato a passare in Italia in tempo che si poteva senza pericolo e senza uccisione ottenere la vittoria; le quali persuasioni, per non si essere osservato il segreto tante volte ricordato da lui, erano pervenute a notizia degli altri con detrimento di tutti a due, perché e lui era stato in pericolo di non essere offeso da essi e alla impresa del re erano cresciute le difficoltà, perché gli altri avevano riordinate le cose loro di maniera che non si poteva piú vincere senza gravissimo pericolo e senza effusione di molto sangue, e che essendo nuovamente cresciuta con tanto successo la potenza del principe de' turchi, non era né conforme alla sua natura né conveniente allo officio di uno pontefice favorire o consigliare i príncipi cristiani a fare guerra tra loro medesimi; né potere altro che confortarlo a soprasedere, aspettando qualche facilità e occasione migliore, la quale quando apparisse riconoscerebbe in lui la medesima disposizione alla gloria e grandezza sua che aveva potuto riconoscere a' mesi passati. La quale risposta, benché non esprimesse altrimenti il concetto suo, non solo arebbe privato il re di Francia della speranza d'averlo favorevole ma, se gli fusse pervenuta a notizia, l'arebbe, quasi certificato che il pontefice sarebbe congiunto, e co' consigli e con l'armi, contro a lui. E queste cose si feciono l'anno mille cinquecento quattordici.

Ma interpose dilazione alla guerra già imminente la morte, solita a troncare spesso nelle maggiori speranze i consigli vani degli uomini: perché il re di Francia, mentre che dando cupidamente opera alla bellezza eccellente e alla età della nuova moglie, giovane di diciotto anni, non si ricorda della età sua e della debilità della complessione, oppresso da febbre e sopravenendogli accidenti di flusso, partí quasi repentinamente della vita presente; avendo fatto memorabile il primo dí dell'anno mille cinquecento quindici con la sua morte. Re giusto e molto amato da' popoli suoi, ma che mai, né innanzi al regno né re, ebbe costante e stabile né l'avversa né la prospera fortuna. Conciossiaché, di piccolo duca d'Orliens pervenuto felicissimamente al reame di Francia per la morte di Carlo piú giovane di lui e di due suoi figliuoli, acquistò con grandissima facilità il ducato di Milano e poi il regno di Napoli, reggendosi per piú anni quasi a suo arbitrio tutta Italia; ricuperò con somma prosperità Genova ribellata, vinse gloriosissimamente i viniziani, intervenendo a queste due vittorie personalmente. Da altra parte, giovane ancora, fu costretto da Luigi undecimo di pigliare per moglie la figliuola, sterile e quasi mostruosa, non acquistata per questo matrimonio né la benivolenza né il patrocinio del suocero; e dopo la morte sua non ammesso, per la grandezza di madama di Borbone, al governo del nuovo re pupillo, e quasi necessitato a rifuggirsi in Brettagna: preso poi nella giornata di Santo Albino, stette incarcerato due anni. Aggiugni a queste cose l'assedio e la fame di Novara, tante rotte avute nel regno di Napoli, la perdita, dello stato di Milano, di Genova e di tutte le terre tolte a' viniziani, e la guerra fattagli da inimici potentissimi nel reame di Francia; nel qual tempo vidde lo imperio suo ridotto in gravissimi pericoli. Nondimeno morí in tempo che pareva gli ritornasse la prosperità della fortuna, avendo difeso il regno suo, fatta la pace e parentado e in grandissima unione col re d'Inghilterra, e in grande speranza di recuperare lo stato di Milano.

 

Cap. x

Il nuovo re di Francia: sue doti e sue aspirazioni. Accordi con il re d'Inghilterra e con l'arciduca. Accordi coi veneziani. Confederazione fra Massimiliano Cesare, il re d'Aragona, il duca di Milano e gli svizzeri contro il re di Francia ove tenti la conquista del ducato.

A Luigi duodecimo succedette Francesco monsignore di Anguelem, piú prossimo a lui de' maschi del sangue reale e della linea medesima de' duchi di Orliens, preferito nella successione del regno alle figliuole del morto re per la disposizione della legge salica, legge antichissima del reame di Francia; per la quale, mentre che della medesima linea vi sono maschi, si escludono dalla degnità reale le femmine. Delle virtú, della magnanimità, dello ingegno e spirito generoso di costui s'aveva universalmente tanta speranza che ciascuno confessava non essere, già per moltissimi anni, pervenuto alcuno con maggiore espettazione alla corona; perché gli conciliava somma grazia il fiore della età, che era di ventidue anni, la bellezza egregia del corpo, liberalità grandissima, umanità somma con tutti e notizia piena di molte cose; e sopratutto grato alla nobiltà, alla quale dimostrava sommo favore. Assunse, insieme col titolo di re di Francia, il titolo di duca di Milano, come appartenente a sé non solo per le antiche ragioni de' duchi di Orliens ma ancora come compreso nella investitura fatta da Cesare per la lega di Cambrai: avendo a recuperarlo la medesima inclinazione che aveva avuto l'antecessore. Alla qual cosa stimolava non solamente lui ma eziandio tutti i giovani della nobiltà franzese la gloria di Gastone di Fois, e la memoria di tante vittorie ottenute da' prossimi re in Italia; benché, per non invitare innanzi al tempo gli altri a prepararsi per resistergli, la dissimulasse per consiglio de' suoi, attendendo in questo mezzo a trattare, come si fa ne' regni nuovi, amicizia con gli altri príncipi: di molti de' quali concorsono a lui subito imbasciadori, ricevuti tutti con lieta fronte, ma piú che tutti gli altri quegli del re d'Inghilterra; il quale, essendo ancora fresca la ingiuria ricevuta dal re cattolico, desiderava continuare seco l'amicizia cominciata col re Luigi. Venne e nel tempo medesimo onorata imbasceria dello arciduca, della quale fu il principale monsignore di Nassau, e con dimostrazione di grande sommissione come a signore suo soprano, per essere possessore della contea di Fiandra, la quale riconosceva la superiorità della corona di Francia.

L'una e l'altra legazione ebbe presta e felice espedizione; perché col re d'Inghilterra fu riconfermata la confederazione fatta tra lui e il re morto, co' medesimi capitoli e durante la vita di ciascuno di loro, riservato tempo di tre anni al re di Scozia di entrarvi; e con l'arciduca cessorono molte difficoltà che si giudicava per molti dovessino impedire la concordia. Perché l'arciduca, il quale, finita l'età pupillare, aveva assunto nuovamente il governo degli stati suoi, movevano a questo molte cagioni: la instanza de' popoli di Fiandra desiderosi di non avere guerra col reame di Francia, il desiderio di assicurarsi degli impedimenti che nella morte dell'avolo gli potessino essere dati da' franzesi alla successione del regno di Spagna, e il parergli pericoloso rimanere senza legame di amicizia in mezzo del re dí Francia e del re d'Inghilterra congiunti insieme; e da altra parte nel re era desiderio grande di rimuovere tutte l'occasioni che lo potessino costrignere a reggersi con l'autorità e consiglio dell'avolo paterno o materno. Fu adunque, nella città di Parigi, fatta tra loro pace e confederazione perpetua, riservando facoltà a Cesare e al re cattolico, senza l'autorità de' quali conveniva l'arciduca, di entrarvi fra tre mesi; promesso di fare lo sposalizio, trattato tante volte, tra l'arciduca e Renea figliuola del re Luigi, con dote di seicentomila scudi e del ducato di Berrí perpetuo per lei e per i figliuoli, la quale essendo allora di età tenerissima gli avesse a essere consegnata subito pervenisse alla età di nove anni, ma con patto rinunziasse a tutte le ragioni della eredità paterna e materna, e nominatamente a quelle gli appartenessino in su il ducato di Milano e di Brettagna; obligato a dargli il re aiuto di genti e di navi per andare al regno di Spagna, dopo la morte del re cattolico. Fu nominato a richiesta del re il duca di Ghelleri; e affermano alcuni che, oltre alle cose predette, fu convenuto che in nome dell'uno e dell'altro di loro andassino, fra tre mesi, imbasciadori al re d'Aragona a ricercarlo che facesse giurare a' popoli l'arciduca per principe di quegli reami (è questo il titolo di quello al quale aspetta la successione) restituisse il regno di Navarra e astenessesi da difendere il ducato di Milano. Né si dubita che ciascuno di questi due príncipi pensò piú, nel confederarsi, alla comodità che si dimostrava di presente che alla osservanza del tempo futuro: perché, quale fondamento si poteva fare nello sposalizio che si prometteva, non essendo ancora la sposa pervenuta alla età di [quattro] anni? e come poteva piacere al re di Francia che Renea divenisse moglie dello arciduca, alla quale, essendo la sorella maggiore moglie del re, era parata l'azione sopra il ducato di Brettagna? perché i brettoni, desiderosi d'avere qualche volta uno duca particolare, quando Anna duchessa loro passò al secondo matrimonio, convennono che al secondogenito de' figliuoli e discendenti di lei, pervenendo il primogenito alla corona di Francia, pervenisse quel ducato.

Trattava medesimamente il re di Francia col prefato re di prorogare la tregua fatta col re morto, ma rimossa la condizione di non molestare durante la tregua il ducato di Milano; sperando dovergli poi essere facile il convenire con Cesare; per la quale cagione teneva sospesi i viniziani che offerivano di rinnovare la lega fatta con l'antecessore, volendo essere libero a obligarsi a Cesare contro a loro. Ma il re cattolico, con tutto che in lui potesse come sempre il desiderio di non avere guerra propinqua a' confini di Spagna, pure considerando quanto sospetto darebbe la prorogazione della tregua a svizzeri, e che questo, non essendo piú né credute le sue parole né uditi i consigli suoi, sarebbe cagione che il pontefice, ambiguo insino a quel dí, si rivolgerebbe alla amicizia franzese, ricusò finalmente di prolungare la tregua se non con le medesime condizioni con le quali l'aveva rinnovata col re passato. Onde il re Francesco, escluso da questa speranza, e meno sperando che Cesare contro alla volontà e consigli di quel re avesse a convenire seco, riconfermò col senato viniziano la lega nella forma medesima che era stata fatta coll'antecessore. Rimanevano il pontefice e i svizzeri. A questi dimandò che ammettessino i suoi imbasciadori; ma essi, perseverando nella medesima durezza, ricusorno concedere il salvocondotto: col pontefice, dalla volontà del quale dipendevano interamente i fiorentini, non procedette per allora piú oltre che a confortarlo a conservarsi libero da qualunque obligazione, acciocché, quando i progressi delle cose lo consigliassino a risolversi, fusse in sua potestà l'eleggere la parte migliore: ricordandogli che mai da niuno piú che da sé arebbe, per sé e per la casa sua, né piú sincera benivolenza né piú intera fede né maggiori condizioni.

Gittati il re questi fondamenti alle cose sue, cominciò a fare studiosamente provedimenti grandissimi di danari, e ad accrescere insino al numero di quattromila l'ordinanza delle sue lancie; divulgando fare queste cose non perché avesse pensieri di molestare, per questo anno, altri ma per opporsi a' svizzeri, i quali minacciavano, in caso che egli non adempiesse le convenzioni fatte, in nome del re morto, a Digiuno, di assaltare o la Borgogna o il Dalfinato: la quale simulazione aveva appresso a molti fede di verità, per l'esempio de' prossimi re i quali aveano sempre fuggito lo implicarsi in nuove guerre nel primo anno del regno loro. Nondimeno, non si imprimeva il medesimo negli animi di Cesare e del re d'Aragona; a' quali era sospetta la gioventú del re, la facilità che aveva, sopra il consueto degli altri re, di valersi di tutte le forze del regno di Francia, nel quale aveva tanta grazia con tanta estimazione: ed erano note le preparazioni grandi che aveva lasciate il re Luigi, per le quali, poi che era assicurato del re di Inghilterra, non pareva che di nuovo deliberasse la guerra ma piú tosto che continuasse la deliberazione già fatta; perciò, per non essere oppressi allo improviso, facevano instanza di confederarsi col pontefice e co' svizzeri. Ma il pontefice, usando con ciascuna delle parti benigne parole e ingegnandosi di nutrire tutti con varie speranze, differiva per ancora il fare alcuna certa dichiarazione. Ne' svizzeri non solo continuava ma accresceva continuamente l'ardore di prima; essendosi le cagioni cominciate da' dolori publici, per lo augumento delle pensioni negato, per l'avere il re Luigi chiamato agli stipendi suoi i fanti tedeschi, per le parole ingiuriose e piene di dispregio usate contro alla nazione, augumentate da' dolori dispiaceri e cupidità private, per l'invidia che aveva la moltitudine a molti privati, i quali ricevevano doni e pensioni dal re di Francia, e perché quegli che piú ardentemente si erano opposti a' principali di coloro che seguitavano l'amicizia franzese, chiamati allora volgarmente i gallizzanti, saliti per questo col favore della plebe in riputazione e grandezza, temevano si diminuisse la loro autorità se di nuovo la republica si ricongiugnesse co' franzesi: di maniera che, non si consultando e disputando col zelo publico ma con l'ambizione e dissensioni civili, questi, prevalendo di credito a' gallizzanti, ottenevano che si recusassino l'offerte grandissime, anzi smisurate, del re di Francia. In questa disposizione adunque degli animi e delle cose, gli imbasciadori di Cesare del re d'Aragona e del duca di Milano, congregati appresso a' svizzeri, contrassono con loro, in nome de' suoi príncipi, confederazione per la difesa d'ltalia, riservato al pontefice luogo di entrarvi insino alla domenica che si dice letare, della prossima quadragesima: nella quale fu convenuto che, per costrignere il re di Francia a cedere le ragioni del ducato di Milano, i svizzeri, ricevendo ciascuno mese dagli altri confederati trentamila ducati, assaltassino o la Borgogna o il Dalfinato; e che il re cattolico movesse con potente esercito la guerra dalla parte o di Perpignano o di fonterabia nel reame di Francia, acciò che il re, costretto a difendere il reame proprio, non potesse, se pure avesse nell'animo altrimenti, molestare il ducato di Milano.

 

 

Cap. xi

Preparativi del re di Francia per la spedizione in Italia. Tentativi e speranze d'avere favorevole il pontefice, e condotta ambigua di questo. Accordi fra il re ed il doge di Genova. Inizio della spedizione in Italia.

Stette occulta insino al mese di giugno la deliberazione del re; ma finalmente, per la grandezza e sollecitudine degli apparecchi, non era piú possibile tanto movimento dissimulare. Perché erano immoderati i provedimenti de' danari, soldava numero grandissimo di fanti tedeschi, faceva condurre molte artiglierie verso Lione, e ultimamente aveva mandato in Ghienna, per soldare ne' confini di Navarra diecimila fanti, Pietro Navarra, condotto nuovamente agli stipendi suoi: perché non avendo il re d'Aragona, sdegnato contro a lui perché in gran parte se gli attribuiva l'infelice successo del fatto d'arme, voluto mai pagare per la sua liberazione la taglia postagli di ventimila ducati, la quale il re morto avea donato al marchese del Rotellino per ricompensarlo in qualche parte della taglia de' centomila ducati pagati in Inghilterra, il nuovo re, deliberando usare l'opera sua, aveva, quando pervenne alla corona, pagato la taglia per lui, e dipoi condottolo agli stipendi suoi; avendo prima il Navarra, per scarico dell'onore suo, mandato al re d'Aragona a scusarsi se abbandonato da lui cedeva alla necessità, e a rinunziare uno stato il quale possedeva per sua donazione nel regno di Napoli.

Essendo adunque manifesto a ciascuno che la guerra si preparava contro a Milano e che il re deliberava d'andarvi personalmente, cominciò il re a ricercare apertamente il pontefice che si unisse seco; usando a questo, oltre a molte persuasioni e instrumenti, il mezzo di Giuliano suo fratello, il quale nuovamente aveva presa per moglie [Filiberta] sorella di Carlo duca di Savoia e zia materna del re, dotandola co' danari del pontefice in centomila ducati: la qual cosa gli avea data speranza che il pontefice fusse inclinato alla amicizia sua, avendo contratto seco sí stretto parentado; e tanto piú che, avendo prima trattato col re cattolico di congiugnere Giuliano con una parente sua della famiglia di Cardona, pareva che piú per rispetto suo che per altra cagione avesse preposto questo matrimonio a quello. Né dubitava, Giuliano dovere cupidamente favorire questa inclinazione per desiderio di acquistare col mezzo suo qualche stato, col quale potesse sostentare le spese convenienti a tanto matrimonio e per stabilire meglio il governo perpetuo, datogli dal pontefice nuovamente, delle città di Modona, Reggio, Parma e Piacenza; il quale, non sostenuto da favore di príncipi potenti, era di poca speranza che avesse a durare dopo la morte del fratello. Ma era cominciata presto a turbarsi la speranza del re: perché il pontefice aveva conceduto al re d'Aragona le crociate del regno di Spagna per due anni, delle quali si credeva che avesse a trarre piú di uno milione di ducati; e perché udiva con tanta inclinazione Alberto da Carpi e Ieronimo Vich oratori di Cesare e del re cattolico, che erano molto assidui appresso a lui, che parevano partecipi di tutti i consigli suoi. Nutriva questa ambiguità il pontefice, dando parole grate e dimostrando ottima intenzione a quegli che intercedevano per il re, ma senza effetto di alcuna conclusione, come quello nel quale prevaleva a tutti gli altri rispetti il desiderio che il ducato di Milano non fusse piú posseduto da príncipi forestieri. Però il re, desiderando di certificarsi della sua mente, mandò a lui nuovi imbasciadori; tra' quali fu Guglielmo Budeo parigino, uomo nelle lettere umane, cosí greche come latine, di somma e forse unica erudizione tra tutti gli uomini de' tempi nostri. Dopo i quali mandò Antonio Maria Palavicino, uomo grato al pontefice. Ma erano vane queste fatiche, perché già innanzi alla venuta sua aveva occultissimamente, insino del mese di luglio, convenuto cogli altri alla difesa dello stato di Milano: ma volendo che questa deliberazione stesse secretissima insino a tanto che la necessità delle cose lo costrignesse a dichiararsi, e desiderando oltre a questo publicarla con qualche scusa, ora dimandava che il re consentisse che la Chiesa si ritenesse Parma e Piacenza, ora faceva altre petizioni acciò che, essendogli negata qualcuna delle cose dimandate, paresse che la necessità piú che la volontà lo inducesse a unirsi con gli inimici del re, ora, diffidandosi che il re gli negasse cosa alcuna di quelle che non al tutto senza colore d'onestà poteva proporre, faceva risposte varie, ambigue e irresolute.

Ma erano usate seco da altri delle medesime arti e astuzie. Perché Ottaviano Fregoso doge di Genova, temendo degli apparati potentissimi del re di Francia e avendo da altra parte sospetta la vittoria de' confederati per l'inclinazione del duca di Milano e de' svizzeri agli avversari suoi, si era per mezzo del duca di Borbone convenuto secretissimamente col re di Francia, avendo, e mentre trattava e poi che convenne, affermato sempre costantissimamente il contrario al pontefice; il quale, per essere Ottaviano congiuntissimo di antica benivolenza a lui e a Giuliano suo fratello, e stato favorito da loro nel farsi doge di Genova, gliene prestò tale fede che, avendo il duca di Milano insospettito da questa fama disposto di assaltarlo con quattromila svizzeri, che già erano condotti a Novara, e con gli Adorni e Fieschi, il pontefice fu operatore che non si procedesse piú oltre. Convenne il Fregoso in questa forma: che al re si restituisse il dominio di Genova insieme col Castelletto; Ottaviano, deposto il nome del doge, fusse governatore perpetuo del re, con potestà di concedere gli offici di Genova; avesse dal re la condotta di cento lancie, l'ordine di San Michele, provisione annua durante la sua vita; non rifacesse il re la fortezza di Codifà molto odiosa a' genovesi, e concedesse a quella città tutti i capitoli e privilegi che erano stati annullati e abbruciati dal re Luigi; desse certa quantità di entrate ecclesiastiche a Federico arcivescovo di Salerno fratello di Ottaviano, e a lui, se mai accadesse fusse cacciato di Genova, alcune castella nella Provenza. Le quali cose quando poi furno publicate non fu difficile a Ottaviano, perché ciascuno sapeva che meritamente temeva del duca di Milano e de' svizzeri, giustificare la sua deliberazione. Solamente gli dava qualche nota lo avere negato la verità tante volte al pontefice da cui avea ricevuti tanti benefici, né osservata la promessa fatta di non convenire senza suo consentimento; e nondimeno, in una lunga lettera che dipoi gli scrisse in sua giustificazione, riandate accuratamente tutte le cagioni che lo avevano mosso e tutte le scuse con le quali appresso a lui poteva difendere l'onore e il procedere suo, e il non avere disprezzato la divozione che, come a pontefice e come a suo benefattore, gli aveva, conchiuse che gli sarebbe piú difficile la giustificazione se scrivesse a uomini privati o a principe che misurasse le cose degli stati secondo i rispetti privati, ma che scrivendo a uno principe savio quanto in quella età fusse alcuno altro, e che per la sapienza sua conosceva che e' non poteva salvare lo stato suo in altro modo, era superfluo lo scusarsi con chi conosceva e sapeva quel che fusse lecito, o almanco consueto, a príncipi di fare, non solo quando erano ridotti in caso tale ma eziandio per migliorare o accrescere le condizioni dello stato loro.

Ma già le cose dalle parole e da' consigli procedevano a' fatti e alle esecuzioni: il re venuto a Lione, accompagnato da tutta la nobiltà di Francia e da' duchi del Loreno e di Ghelleri, moveva verso i monti l'esercito maggiore e piú fiorito che già grandissimo tempo fusse passato di Francia in Italia; sicuro di tutte le perturbazioni di là da' monti, perché il re d'Aragona (il quale, temendo prima che tanti provedimenti non si volgessino contro a sé, aveva armato i suoi confini, e acciò che i popoli fussino piú pronti alla difesa della Navarra l'aveva unita in perpetuo al reame di Castiglia), subito come intese la guerra procedere manifestamente in Italia, licenziò tutte le genti che aveva raccolte, non tenendo piú conto della promessa fatta quell'anno a' confederati di muovere la guerra nella Francia che avesse tenuto delle promesse fatte a' medesimi negli anni precedenti.

 

Cap. xii

Gli svizzeri alla difesa del ducato di Milano. Preoccupazione dei francesi di evitare i passi alpini custoditi dagli svizzeri. Passi alpini da Lione in Italia. Consigli del re d'Inghilterra contrari all'impresa d'Italia. I francesi, passate le Alpi, entrano nel marchesato di Saluzzo. Prospero Colonna prigione dei francesi.

Alla fama della mossa del re di Francia, il viceré di Napoli, il quale, essendo stato per molti mesi quasi in tacita tregua co' viniziani, era venuto nel vicentino per approssimarsi agli inimici, alloggiati in fortissimo alloggiamento agli Olmi appresso a Vicenza, ridusse l'esercito a Verona per andare, secondo diceva, a soccorrere il ducato di Milano; e il pontefice mandava verso Lombardia le genti d'armi sue e de' fiorentini sotto il governo del fratello eletto capitano della Chiesa, per soccorrere medesimamente quello stato, come non molti dí innanzi aveva convenuto cogli altri confederati: con tutto che, insistendo nelle solite simulazioni, desse voce mandarle solamente per la custodia di Piacenza di Parma e di Reggio, e fusse proceduto tanto oltre cogli oratori del re di Francia che il re, persuadendosi al certo la sua concordia, aveva da Lione spedito agli imbasciadori suoi il mandato di conchiudere, consentendo che la Chiesa ritenesse Piacenza e Parma insino a tanto ricevesse da lui ricompenso tale che il pontefice medesimo l'approvasse. Ma erano, per le cagioni che di sotto appariranno, tutti vani questi rimedi: era destinato che col pericolo e col sangue de' svizzeri, solamente, o si difendesse o si perdesse il ducato di Milano. Questi, non ritardati da negligenza alcuna, non dalla piccola quantità de' danari, scendevano sollecitamente nel ducato di Milano; già ne erano venuti piú di ventimila, de' quali diecimila si erano accostati a' monti; perché il consiglio loro era, ponendosi a' passi stretti di quelle vallate che dalle Alpi che dividono Italia dalla Francia sboccano ne' luoghi aperti, impedire il passare innanzi a' franzesi.

Turbava molto questo consiglio de' svizzeri l'animo del re; il quale prima per la grandezza delle sue forze si prometteva certa la vittoria; perché nell'esercito suo erano dumila cinquecento lancie, ventiduemila fanti tedeschi guidati dal duca di Ghelleri, diecimila guaschi (cosí chiamavano i fanti soldati da Pietro Navarra), ottomila franzesi e tremila guastatori condotti col medesimo stipendio che gli altri fanti. Considerava il re co' suoi capitani essere impossibile, inteso il valore de' svizzeri, rimuovergli da' passi forti e angusti se non con numero molto maggiore; ma questo non si poteva in luoghi tanto stretti adoperare, difficile fare cosa di momento in tempo breve, piú difficile dimorare lungamente nel paese tanto sterile cosí grande esercito, con tutto che continuamente venisse verso i monti copia grandissima di vettovaglie. Nelle quali difficoltà, alcuni, sperando piú nella diversione che nell'urtargli, proponevano che si mandassino per la via di Provenza ottocento lancie, e per mare Pietro Navarra coi diecimila guaschi si unissino insieme a Savona; altri dicevano perdersi, a fare sí lungo circuito, troppo tempo, indebolirsi le forze e accrescersi troppo di riputazione agli inimici, dimostrando di non avere ardire di riscontrarsi con loro. Fu adunque deliberato, non si discostando molto da quel cammino pensare di passare da qualche parte che o non fusse osservata o almeno manco custodita dagli inimici, e che Emat di Pria con [quattrocento] lancie e [cinquemila] fanti andasse per la via di Genova, non per speranza di divertire, ma per infestare Alessandria e le altre terre di qua dal Po.

Due sono i cammini dell'Alpi per i quali ordinariamente si viene da Lione in Italia: quello del Monsanese, montagna della giurisdizione del duca di Savoia, piú breve e piú diritto, e comunemente piú frequentato; l'altro che da Lione, torcendo a Granopoli, passa per la montagna di Monginevra, giurisdizione del Dalfinato. L'uno e l'altro perviene da Susa, ove comincia ad allargarsi la pianura: ma per quello di Monginevra, benché alquanto piú lungo, perché è piú facile a passare e piú comodo a condurre l'artiglierie, solevano sempre passare gli eserciti franzesi. Alla custodia di questi due passi e di quegli che riuscivano in luoghi vicini, intenti i svizzeri, si erano fermati a Susa; perché i passi piú bassi verso il mare erano tanto stretti e repenti che, essendo molto difficile il passarvi i cavalli di tanto esercito, pareva impossibile che per quegli si conducessino l'artiglierie. Da altra parte il Triulzio, a cui il re avea data questa cura, seguitato da moltitudine grandissima di guastatori, e avendo appresso a sé uomini industriosi ed esperimentati nel condurre l'artiglierie, i quali mandava a vedere i luoghi che gli erano proposti, andava investigando per qual luogo si potesse, senza trovare l'ostacolo de' svizzeri, piú facilmente passare; per il che l'esercito, disteso la maggior parte tra Granopoli e Brianzone, aspettando quel che si deliberasse, procedeva lentamente; costrignendogli anche al medesimo la necessità di aspettare i provedimenti delle vettovaglie.

Nel qual tempo venne al re, partito già da Lione, uno uomo mandato dal re di Inghilterra, il quale in nome suo efficacemente lo confortò che per non turbare la pace della cristianità non passasse in Italia. Origine di tanta variazione fu che, essendo stato molesto a quel re che 'l re di Francia si fusse congiunto con l'arciduca, parendogli che le cose sue cominciassino a procedere troppo prosperamente, avea da questo principio cominciato a prestare l'orecchie agli imbasciadori del re cattolico, che non cessavano di dimostrargli quanto a lui fusse perniciosa la grandezza del re di Francia, che per l'odio naturale, e per avere esercitato i príncipi della sua milizia contro a lui, non gli poteva essere se non inimicissimo; ma lo moveva piú la emulazione e la invidia alla gloria sua, la quale gli pareva che si accrescesse molto se e' riportasse la vittoria dello stato di Milano. Ricordavasi che egli, ancora che avesse il regno riposato e ricchissimo per la lunga pace, e trovato tanto tesoro accumulato dal padre, non aveva però se non dopo qualche anno avuto ardire di assaltare il re di Francia, solo, e cinto da tanti inimici e affaticato da tanti travagli: ora questo re, alquanto piú giovane che non era egli quando pervenne alla corona, ancora che avesse trovato il regno, affaticato ed esausto per tante guerre, avere ardire, ne' primi mesi del suo regno, andare a una impresa dove aveva opposizione di tanti príncipi: non avere egli, con tanti apparati e con tante occasioni, riportato in Inghilterra altro guadagno che la città di Tornai, con spesa nondimeno intollerabile e infinita; ma il re di Francia, se conseguisse, come si poteva credere, la vittoria, acquistando sí bello ducato, avere a tornare gloriosissimo nel regno suo: apertasi ancora la strada, e forse innanzi che uscisse d'Italia presa l'occasione, di assaltare il regno di Napoli. Co' quali stimoli e punture essendo stato facile risuscitare l'odio antico nel petto suo, né essendo a tempo di potere dargli con l'armi impedimento alcuno, e forse anche cercando di acquistare qualche piú giustificazione, aveva mandato a fargli questa imbasciata. Per la quale il re non ritardando il suo cammino, venne da Lione nel Dalfinato: ove ne' medesimi dí comparsono i lanzchenech detti della banda nera, condotti da Ruberto della Marcia; la quale banda della Germania piú bassa era, per la sua ferocia e per la fede sempre dimostrata, negli eserciti franzesi in grandissima estimazione.

A questo tempo significò Giaiacopo da Triulzi al re potersi condurre di là da' monti l'artiglierie tra l'Alpi Marittime e le Cozie, scendendo verso il marchese di Saluzzo; ove, benché la difficoltà fusse quasi inestimabile, nondimeno per la copia grandissima degli uomini e degli instrumenti, dovere finalmente succedere: e non essendo da questa parte, né in sulla sommità de' monti né alle bocche delle vallate, custodia alcuna, meglio essere tentare di superare l'asprezza de' monti e i precipizi delle valli, la qual cosa si faceva colla fatica ma non col pericolo degli uomini, che tentare di fare abbandonare i passi a' svizzeri tanto temuti, e ostinati o a vincere o a morire; massime non potendo, se si faceva resistenza, fermarsi molti dí, perché niuna potenza o apparato bastava a condurre per i luoghi tanto aspri e tanto sterili vettovaglia sufficiente a tanta gente: il quale consiglio accettato, l'artiglierie, che si erano fermate in luogo comodo a volgersi a ogni parte, si mossono subito a quel cammino. Aveva il Triulzo significato dovere essere grandissima la difficoltà del passarle, ma con l'esperienza riuscí molto maggiore. Perché prima era necessario salire in su monti altissimi e asprissimi, ne' quali si saliva con grandissima difficoltà perché non vi erano sentieri fatti, né talvolta larghezza capace dell'artiglierie se non quanto di palmo in palmo facilitavano i guastatori; de' quali precedeva copia grandissima, attendendo ora ad allargare la strettezza de' passi ora a spianare le eminenze che impedivano. Dalla sommità de' monti si scendeva, per precipizi molto prerutti e non che altro spaventosissimi a guardargli, nelle valli profondissime del fiume dell'Argentiera; per i quali non potendo sostenerle i cavalli che le tiravono, de' quali vi era numero abbondantissimo, né le spalle de' soldati che l'accompagnavano, i quali in tante difficoltà si mettevano a ogni fatica, era spesso necessario che appiccate a canapi grossissimi fussino, per le troclee, trapassate con le mani de' fanti: né passati i primi monti e le prime valli cessava la fatica, perché a quegli succedevano altri monti e altre vallate, i quali si passavano con le medesime difficoltà. Finalmente, in spazio di cinque dí, l'artiglierie si condussono in luoghi aperti del marchesato di Saluzzo di qua da' monti; passate con tante difficoltà che è certissimo che, se o avessino avuta resistenza alcuna o se i monti fussino stati, come la maggiore parte sogliono essere, coperti dalla neve, sarebbe stata fatica vana; ma dalla opposizione degli uomini gli liberò che, non avendo mai pensato alcuno potersi l'artiglierie condurre per monti tanto aspri, i svizzeri fermatisi a Susa erano intenti a guardare i luoghi per i quali viene chi passa il Monsanese, il Monginevra o per monti propinqui a quegli; e la stagione dell'anno, essendo circa il decimo dí di agosto, aveva rimosso lo impedimento delle nevi già liquefatte.

Passavano ne' dí medesimi, non senza molta difficoltà, le genti d'arme e le fanterie; alcuni per il medesimo cammino, altri per il passo che si dice della Dragoniera, altri per i gioghi alti della Rocca Perotta e di Cuni, passi piú verso la Provenza. Per la quale via passato la Palissa, ebbe occasione di fare un fatto memorabile. Perché partito da Singlare con quattro squadre di cavalli, e fatta, guidandolo i paesani, una lunghissima cavalcata, sopragiunse improviso a Villafranca, terra distante sette miglia da Saluzzo, e di nome piú chiaro che non ricerca la qualità della terra perché appresso a quella nasce il fiume tanto famoso del Po. Alloggiava in quella con la compagnia sua Prospero Colonna, senza alcuno sospetto per la lunga distanza degli inimici, ne' quali non temeva quella celerità che esso, di natura molto lento, non era solito a usare: e dicono alcuni che il dí medesimo voleva andare a unirsi co' svizzeri. Ma, come si sia, certo è che stava alla mensa desinando, quando sopragiunsono le genti del la Palissa, non sentite, insino furno alla casa medesima, da alcuno; perché gli uomini della terra co' quali la Palissa, intento a tanta preda, si era prima occultamente inteso, aveano tacitamente prese le scolte. Cosí, il quintodecimo dí di agosto, rimase prigione, non come si conveniva all'antica gloria, Prospero Colonna, tanto chiaro capitano e, per l'autorità sua e per il credito che aveva nel ducato di Milano, di momento grande in quella guerra. Fu preso, insieme con Prospero, Pietro Margano romano e una parte della compagnia sua: gli altri al primo romore dispersi in varie parti fuggirono.

 

Cap. xiii

Migliore disposizione del pontefice verso il re di Francia dopo il passaggio in Italia. Opposizione di Giulio de' Medici ai propositi di rinuncia del pontefice a città dell'Emilia. Atteggiamento d'attesa del viceré. Inclinazione degli svizzeri a trattare col re di Francia.

Variò la passata de' franzesi e il caso di Prospero Colonna i consigli di ciascuno e lo stato universalmente di tutte le cose, introducendo negli animi del pontefice del viceré di Napoli e de' svizzeri nuove disposizioni. Perché il pontefice, il quale si era costantemente persuaso che il re di Francia non potesse per la opposizione de' svizzeri passare i monti, e che molto confidava nella virtú di Prospero Colonna, perduto grandemente di animo, comandò a Lorenzo suo nipote, capitano generale de' fiorentini (al quale, perché Giuliano suo fratello, sopravenutagli lunga febbre, era rimasto in Firenze, avea data la cura di condurre l'esercito in Lombardia, e che tre dí dopo il caso di Prospero era venuto a Modena), che procedesse lentamente; il quale, pigliata occasione di volere recuperare la rocca di Rubiera, occupata da Guido vecchio Rangone, per la quale cagione gli pagò finalmente dumila ducati, consumò molti dí nel modonese e nel reggiano; e ricorrendo, oltre a questo, il pontefice alle sue arti, spedí occultissimamente Cintio... suo famigliare al re di Francia per escusare le cose succedute insino a quel dí, e cominciare per mezzo del duca di Savoia a trattare di convenire seco, acciò che da questo principio gli fusse piú facile il procedere piú oltre se la difesa del ducato di Milano succedesse infelicemente.

Ma a consiglio di maggiore precipitazione indussono il pontefice il cardinale Bibbiena e alcuni altri, mossi piú da private passioni che dallo interesse del suo principe: perché, dimostrandogli essere pericolo che, per la fama de' successi prosperi de' franzesi e per gli stimoli e forse aiuti del re, che il duca di Ferrara si movesse per ricuperare Modona e Reggio, e i Bentivogli per ritornare in Bologna, e in tanti altri travagli essere difficile combattere con tanti inimici, anzi migliore e senza dubbio piú prudente consiglio preoccupare col beneficio la benivolenza loro, e conciliarsegli, in qualunque evento delle cose, fedeli amici, gli persuasono che rimettesse i Bentivogli in Bologna e al duca di Ferrara restituisse Modena e Reggio; il che sarebbe senza dilazione stato eseguito se Giulio de' Medici, cardinale e legato di Bologna, il quale il papa, perché in accidenti tanto gravi sostenesse le cose di quelle parti e fusse come moderatore e consigliatore della gioventú di Lorenzo, aveva mandato a Bologna, non fusse stato di contraria sentenza. Il quale, mosso dal dispiacere della infamia che di consiglio pieno di tanta viltà risulterebbe al pontefice, maggiore certamente che non era stata la gloria di Giulio ad acquistare alla Chiesa tanto dominio; mosso ancora dal dolore di fare infame e vituperosa la memoria della sua legazione, alla quale non prima arrivato avesse rimesso Bologna, città principale di tutto lo stato ecclesiastico, in potestà degli antichi tiranni, lasciando in preda tanta nobiltà che in favore della sedia apostolica si era dichiarata apertamente contro a loro, mandato uomini propri al pontefice, lo ridusse con ragioni e con prieghi al consiglio piú onorato e piú sano. Era Giulio, benché nato di natali non legittimi, stato promosso da Lione ne' primi mesi del pontificato al cardinalato, seguitando l'esempio di Alessandro sesto nell'effetto ma non nel modo: perché Alessandro, quando creò cardinale Cesare Borgia suo figliuolo, fece provare per testimoni che deposono la verità, che la madre al tempo della sua procreazione aveva marito, inferendone che, secondo la presunzione delle leggi, s'aveva a giudicare che 'l figliuolo fusse piú presto nato del marito che dell'adultero; ma in Giulio i testimoni preposono la grazia umana alla verità, perché provorono che la madre, della quale, fanciulla e non maritata, era stato generato, innanzi che ammettesse agli abbracciamenti suoi il padre Giuliano, aveva avuto da lui secreto consentimento di essere sua moglie.

Variorno similmente questi nuovi casi la disposizione del viceré: il quale, non partito ancora da Verona per la difficoltà che aveva a muovere i soldati senza danari e per aspettare nuove genti promesse da Cesare, venuto a Spruch, perché era necessario lasciare sufficientemente custodite Verona e Brescia, cominciò con queste e con altre scuse a procrastinare, aspettando di vedere quel che di poi succedesse nel ducato di Milano.

Commossono e i svizzeri medesimamente queste cose; i quali, ritiratisi subito dopo la passata de' franzesi a Pinaruolo, benché dipoi, inteso che il re passate l'Alpi univa le genti in Turino, venuti a Civàs l'avessino, perché ricusava dare loro vettovaglie, [presa] e saccheggiata e dipoi, quasi in sugli occhi del re che era a Turino, fatto il medesimo a Vercelli, nondimeno, ridottisi in ultimo a Noara, prendendo dalle avversità animo quegli che non erano tanto alieni dalle cose franzesi, cominciorno apertamente a trattare di convenire col re di Francia. Nel qual tempo quella parte de' franzesi che veniva per la via di Genova, co' quali si erano uniti quattromila fanti pagati per opera di Ottaviano Fregoso da' genovesi, entrati prima nella terra del Castellaccio e poi in Alessandria e in Tortona, nelle quali città non era soldato alcuno, occuporno tutto il paese di qua dal Po.

 

Cap. xiv

Il re di Francia apprende d'aver nemico il pontefice; incertezze fra gli svizzeri; resa di Novara. I francesi sotto Milano; contegno della popolazione. Pace, subito turbata, fra il re di Francia e gli svizzeri. Il viceré muove da Verona a Parma e l'Alviano dal Polesine di Rovigo a Cremona. Il re di Francia a Marignano: le posizioni dei diversi eserciti.

Era il re venuto a Vercelli, nel quale luogo intese la prima volta il pontefice essersi dichiarato contro a lui, perché il duca di Savoia gliene significò in suo nome: la qual cosa benché gli fusse sopra modo molestissima, nondimeno, non perturbato il consiglio dallo sdegno, fece, per non lo irritare, con bandi publici comandare, e nell'esercito e alle genti che aveano occupata Alessandria, che niuno ardisse di molestare o di fare insulto alcuno nel dominio della Chiesa. Soprasedette poi piú dí a Vercelli per aspettare l'esito delle cose che si trattavano co' svizzeri, i quali non intermettendo di trattare si dimostravano da altra parte pieni di varietà e di confusione. In Novara, cominciando a tumultuare, presa occasione del non essere ancora venuti i danari a' quali era obligato il re d'Aragona, tolsono violentemente a' commissari del pontefice i danari mandati da lui, e col medesimo furore partirno di Novara con intenzione di ritornarsene alla patria; cosa che molti di loro desideravano, i quali essendo stati in Italia già tre mesi, e carichi di danari e di preda, volevano condurre salvi alle case loro sé e le ricchezze guadagnate. Ma a fatica partiti da Noara, sopravennono i danari della porzione del re d'Aragona; i quali con tutto che nel principio occupassino, nondimeno, considerando pure quanto fussino ignominiose cosí precipitose deliberazioni, ritornati alquanto a se medesimi, restituirono e questi e quegli, per ricevergli ordinatamente da' commissari: ridussonsi di poi a Galera, aspettando ventimila altri che di nuovo si dicevano venire; tremila andorno col cardinale sedunense per fermarsi alla custodia di Pavia. Perciò il re, diminuita per tante variazioni la speranza della concordia, partí da Vercelli per andare verso Milano; lasciati a Vercelli col duca di Savoia il bastardo suo fratello, Lautrech e il generale di Milano a seguitare i ragionamenti principiati co' svizzeri; e lasciata assediata la rocca di Novara, perché alla partita de' svizzeri aveva ottenuta la città: la quale, battuta dalle artiglierie, fra pochi dí si arrendette, con patto che fusse salva la vita e le robe di coloro che la guardavano.

Passò dipoi il re, al quale si arrendé Pavia, il Tesino; e il dí medesimo Gianiacopo da Triulzi si distese con una parte delle genti a San Cristofano propinquo a Milano e poi insino al borgo della porta Ticinese, sperando che la città, la quale era certo che, malcontenta delle rapine e delle taglie de' svizzeri e degli spagnuoli, desiderava di ritornare sotto il dominio de' franzesi, né aveva dentro soldati, lo ricevesse. Ma era grande nel popolo milanese il timore de' svizzeri, e verde la memoria di quello che avessino patito l'anno passato, quando per la ritirata de' svizzeri a Novara si sollevorono in favore del re di Francia; però risoluti, non ostante che desiderassino la vittoria del re, di aspettare l'esito delle cose, mandorono a pregare il Triulzio che non andasse piú innanzi, e il dí seguente mandorono imbasciadori al re, che era a Bufaloro, a supplicarlo che, contento della disposizione del popolo milanese, divotissimo alla sua corona e che era parato a dargli vettovaglie, si contentasse non facessino piú manifesta dichiarazione; la quale non gli profittava cosa alcuna alla somma della guerra, come non aveva giovato il dichiararsi loro l'anno dinanzi al suo antecessore, e a quella città era stato cagione di grandissimi danni. Andasse e vincesse gli inimici, presupponendo che Milano, acquistata che egli avesse la campagna, fusse prontissimamente per riceverlo. Alla qual cosa il re, che era prima molto sdegnato del non avere accettato il Triulzio, raccoltigli lietamente, rispose essere contento compiacergli delle dimande loro.

Andò da Bufaloro il re con l'esercito a Biagrassa; dove mentre che stava, il duca di Savoia, avendo uditi venti imbasciadori de' svizzeri mandati a lui a Vercelli, andato poi, seguitandolo il bastardo e gli altri deputati dal re, a Galera, contrasse la pace in nome del re co' svizzeri, con queste condizioni: fusse tra il re di Francia e la nazione de' svizzeri pace perpetua, durante la vita del re e dieci anni dopo la morte; restituissino i svizzeri e i grigioni le valli che avevano occupate appartenenti al ducato di Milano; liberassino quello stato dalla obligazione di pagare ciascuno anno la pensione de' quarantamila ducati; desse il re a Massimiliano Sforza il ducato di Nemors, pensione annua di dodicimila franchi, condotta di cinquanta lancie e moglie del sangue reale; restituisse a' svizzeri la pensione antica di quarantamila franchi; pagasse lo stipendio di tre mesi a tutti i svizzeri che allora erano in Lombardia o nel cammino per venirvi; pagasse a' cantoni, con comodità di tempi, quattrocentomila scudi promessi nello accordo di Digiuno e trecento altri mila per la restituzione delle valli; tenessene continuamente a' soldi suoi quattromila: nominati con consentimento comune il pontefice, in caso restituisse Parma e Piacenza, lo imperadore, il duca di Savoia e il marchese di Monferrato; non fatta menzione alcuna del re cattolico né de' viniziani né di alcuno altro italiano. Ma questa concordia fu quasi in uno dí medesimo conchiusa e perturbata per la venuta de' nuovi svizzeri; i quali, feroci per le vittorie passate e sperando non dovere della guerra acquistare minori ricchezze che quelle delle quali vedevano carichi i compagni, avevano l'animo alienissimo dalla pace, e per difficultarla recusavano di restituire le valli: in modo che, non potendo i primi svizzeri rimuovergli da questo ardore, se ne andorono in numero di trentacinquemila a Moncia per fermarsi ne' borghi di Milano; essendosi partito da loro per la via di Como, la quale strada il re studiosamente aveva lasciata aperta, Alberto Pietra, famoso capitano, con molte insegne. Cosí, non quasi prima fatta che turbata la pace, ritornorno le cose nelle medesime difficoltà e ambiguità; anzi molto maggiori, essendosi nuove forze e nuovi eserciti approssimati al ducato di Milano.

Perché il viceré finalmente, lasciato alla guardia di Verona Marcantonio Colonna con cento uomini d'arme sessanta cavalli leggieri e dumila fanti tedeschi, e in Brescia mille dugento lanzchenech, era venuto ad alloggiare in sul Po appresso a Piacenza; avendo settecento uomini d'arme secento cavalli leggieri e semila fanti, e il ponte preparato a passare il fiume. Al quale per non dare giusta causa di querelarsi, Lorenzo de' Medici, che era soggiornato industriosamente molti dí a Parma con lo esercito, nel quale erano settecento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri e quattromila fanti, [venne a Piacenza]; avendo prima, a richiesta de' svizzeri, mandati, mentre trattavano, per servirsene a raccorre le vettovaglie, quattrocento cavalli leggieri sotto Muzio Colonna e Lodovico conte di Pitigliano, condottiere l'uno della Chiesa l'altro de' fiorentini: i quali non aveva mandati tanto per desiderio di aiutare la causa comune quanto per non dare occasione a' svizzeri, se pure componevano col re di Francia, di non includere nella pace il pontefice. Da altra parte Bartolomeo d'Alviano, il quale avea data speranza al re di tenere di maniera occupato l'esercito spagnuolo che non arebbe facoltà di nuocergli, subito che intese la partita del viceré da Verona, partendosi del Polesine di Rovigo, passato l'Adice e camminando sempre appresso al Po, con novecento uomini d'arme mille quattrocento cavalli leggieri e nove [mila] fanti e col provedimento conveniente d'artiglierie, era venuto con grandissima celerità alle mura di Cremona: della quale celerità, insolita a' capitani de' tempi nostri, egli gloriandosi, soleva agguagliarla alla celerità di Claudio Nerone quando, per opporsi ad Asdrubale, condusse parte dell'esercito espedito in sul fiume del Metauro.

Cosí non solo era vario ma confuso e implicato molto lo stato della guerra. Vicini a Milano, da una parte il re di Francia con esercito instruttissimo di ogni cosa, il quale era venuto a Marignano per dare all'Alviano facilità di unirsi seco, alle genti ecclesiastiche e spagnuole difficoltà di unirsi con gli inimici: dall'altra trentacinquemila svizzeri, fanteria piena di ferocia e insino a quel dí, in quanto a franzesi, invitta: il viceré in sul Po presso a Piacenza e in sulla strada propria che va a Lodi, e col ponte preparato a passare per andare a unirsi co' svizzeri; e in Piacenza, per congiugnersi seco al medesimo effetto, Lorenzo de' Medici con le genti del pontefice e de' fiorentini: l'Alviano, capitano sollecito e feroce, con l'esercito viniziano, in cremonese, quasi in sulla riva del Po, per aiutare, o con la unione o divertendo gli ecclesiastici e spagnuoli, il re di Francia. Rimaneva in mezzo di Milano e Piacenza con eguale distanza la città di Lodi, abbandonata da ciascuno ma saccheggiata prima da Renzo da Ceri, entratovi dentro come soldato de' viniziani; il quale, per discordie nate tra lui e l'Alviano, avendo prima con protesti e quasi con minaccie ottenuto licenza dal senato, si era condotto con dugento uomini d'arme e con dugento cavalli leggieri agli stipendi del pontefice; ma non potendo cosí presto seguitarlo i soldati suoi, perché i viniziani proibivano a molti il partirsi di Padova dove erano alloggiati, si era partito da Lodi per empiere il numero della compagnia con la quale era stato condotto. Ma il cardinale sedunense, il quale prima spaventato dalle pratiche che tenevano i suoi col re di Francia e dalla vacillazione della città di Milano, si era fuggito con mille svizzeri a Piacenza e con parte delle genti del duca di Milano, e dipoi andato a Cremona a sollecitare il viceré a farsi innanzi, indirizzatosi al cammino di Milano innanzi che l'esercito franzese gli impedisse quella strada, lasciò alcuni de' suoi, benché non molto numero, a guardia di Lodi; i quali, come intesono la venuta del re di Francia a Marignano, impauriti l'abbandonorono.

 

Cap. xv

Sospetti del viceré riguardo all'esercito pontificio. Vana deliberazione degli spagnuoli e dei pontifici di passare il Po. Parole d'incitamento agli svizzeri del cardinale sedunense. Il primo giorno della battaglia fra svizzeri e francesi. Il secondo giorno ed il sopraggiungere dell'Alviano: importanza ed esito della battaglia; sue conseguenze.

Ma mentre che il viceré dimora in sul fiume del Po, e innanzi che Lorenzo de' Medici giugnesse a Piacenza, fu preso da' suoi Cintio mandato dal pontefice al re di Francia; appresso al quale essendo trovati i brevi e le lettere credenziali, con tutto che per riverenza di chi lo mandava lo lasciasse subito passare, cominciò non mediocremente a dubitare che la speranza che gli era data, che l'esercito ecclesiastico unito seco passerebbe il fiume del Po, non fusse vana; tanto piú che, ne' medesimi dí, si era presentito che Lorenzo de' Medici avea mandato occultamente uno de' suoi al medesimo re. La qual cosa non era aliena dalla verità, perché Lorenzo, o per consiglio proprio o per comandamento del pontefice, avea mandato a scusarsi se contro a lui conduceva l'esercito, [stretto] dalla necessità che avea di ubbidire al papa; ma che in quello che potesse, senza provocarsi la indegnazione del zio e senza maculare l'onore proprio, farebbe ogni opera per sodisfargli, secondo che sempre era stato ed era piú che mai il suo desiderio.

Ma come Lorenzo fu arrivato a Piacenza, si cominciò il dí medesimo, tra il viceré e lui e gli uomini che intervenivano a' consigli loro, a disputare se fusse da passare unitamente il fiume del Po per congiugnersi co' svizzeri, adducendosi per ciascuno diverse ragioni. Allegavano quegli che confortavano al passare, niuna ragione dissuadere l'entrare in Lodi, dove quando fussino si difficulterebbe all'Alviano di unirsi con lo esercito franzese e a loro si darebbe facoltà di unirsi con i svizzeri, o andando verso Milano a trovargli o essi venendo verso loro: e se pure i franzesi si riducessino, come era fama volevano fare, o fussino già ridotti in sulla strada tra Lodi e Milano, lo avere alle spalle questi eserciti congiunti gli metterebbe in travaglio e pericolo; e anche forse non sarebbe difficile, benché con circuito maggiore, trovare modo di congiugnersi con i svizzeri. Essere questa deliberazione molto utile anzi necessaria alla impresa, e per levare a' svizzeri tutte le occasioni di nuove pratiche di accordo e per accrescere loro forze, delle quali contro a sí grosso esercito avevano di bisogno, e specialmente di cavalli de' quali mancavano; ma ricercarlo, oltre a questo, la fede e l'onore del pontefice e del re cattolico, che per la capitolazione erano obligati soccorrere lo stato di Milano, e che tante volte ne avevano data intenzione a' svizzeri, i quali trovandosi ingannati diventerebbono di amicissimi inimicissimi. Ricercare questo medesimo l'interesse degli stati propri, perché perdendo i svizzeri la giornata o facendo accordo col re di Francia, non restare in Italia forze da proibirgli che e' non corresse per tutto lo stato ecclesiastico insino a Roma e poi a Napoli. Allegavansi in contrario molte ragioni, e quella massime, non essere credibile che il re non avesse a quella ora mandato genti a Lodi; le quali quando vi si trovassino, sarebbe necessario ritirarsi con vergogna e forse non senza pericolo, potendo avere in uno tempo medesimo i franzesi alle spalle e i viniziani o alla fronte o al fianco, né si potendo senza tempo e senza qualche confusione ripassare il ponte. Il quale partito se il pericolo si comprasse con degno prezzo non essere forse da recusare, ma, quando bene entrassino in Lodi abbandonato, che frutto farebbe questo alla impresa? come potersi disegnare, stando tra Milano e Lodi uno esercito sí potente, o di andare a unirsi co' svizzeri o ch'i svizzeri andassino a unirsi con loro? Né essere forse sicuro consiglio rimettere nelle mani di questa gente temeraria e senza ragione tutte le forze del pontefice e del re cattolico, dalle quali dependeva la salute di tutti gli stati loro; perché si sapeva pure che una grande parte aveva fatto la pace col re di Francia, e che tra questi e gli altri che repugnavano erano molte contenzioni. Finalmente fu deliberato che il giorno prossimo tutti due gli eserciti, espediti, senza alcuna bagaglia, passassino il Po, lasciate bene guardate Parma e Piacenza per timore dello esercito viniziano; i cavalli leggieri del quale avevano, in quegli dí, scorso e predato per il paese. La quale [deliberazione], secondo che allora credettono molti, da niuna delle parti fu fatta sinceramente; pensando ciascuno, col simulare di volere passare, trasferire la colpa nell'altro senza mettere se stesso in pericolo: perché il viceré, insospettito per la andata di Cintio e sapendo quanto artificiosamente procedeva nelle sue cose il pontefice, si persuadeva la volontà sua essere che Lorenzo non procedesse piú oltre; e Lorenzo, considerando quanto malvolentieri il viceré metteva quello essercito in potestà della fortuna, faceva di altri quel giudicio medesimo che da altri era fatto di sé. Cominciorno dopo il mezzogiorno a passare per il ponte le genti spagnuole, dopo le quali doveano incontinente passare gli ecclesiastici; ma avendo per il sopravenire della notte differito necessariamente alla mattina seguente, non solamente non passorno ma il viceré ritornò con l'esercito di qua dal fiume, per la relazione di quattrocento cavalli leggieri i quali, mandati parte dell'uno parte dell'altro esercito per sentire degli andamenti degli inimici, rapportorno che il dí dinanzi erano entrate in Lodi cento lancie de' franzesi: donde ritornati il viceré e Lorenzo agli alloggiamenti primi, l'Alviano andò coll'esercito suo a Lodi.

Il re, in questo tempo medesimo, andò da Marignano ad alloggiare a San Donato tre miglia appresso a Milano; e i svizzeri si ridussono tutti a Milano; tra i quali, essendo una parte aborrenti dalla guerra gli altri alieni dalla concordia, si facevano spessi consigli e molti tumulti. Finalmente, essendo congregati insieme, il cardinale sedunense, che ardentissimamente confortava il perseverare nella guerra, cominciò con caldissime parole a stimolargli che senza piú differire uscissino fuora il giorno medesimo ad assaltare il re di Francia, non avendo tanto innanzi agli occhi il numero de' cavalli e delle artiglierie degli inimici che perturbasse la memoria della ferocia de' svizzeri e delle vittorie avute contro a' franzesi.

- Dunque - disse Sedunense - ha la nazione nostra sostenuto tante fatiche, sottopostasi a tanti pericoli, sparso tanto sangue, per lasciare in uno dí solo tanta gloria acquistata, tanto nome, agli inimici stati vinti da noi? Non son questi quegli medesimi franzesi che accompagnati da noi hanno avute tante vittorie? abbandonati da noi sono sempre stati vinti da ciascuno? Non sono questi quegli medesimi franzesi che da piccola gente de' nostri furono l'anno passato rotti, con tanta gloria, a Novara? Non sono eglino quegli che spaventati dalla nostra virtú, confusi dalla loro grandissima viltà, hanno esaltato insino al cielo il nome degli elvezi, chiaro quando eravamo congiunti con loro, ma fatto molto piú chiaro poi che ci separammo da loro? Non avevano quegli che furono a Novara né cavalli né artiglierie, avevano la speranza propinqua del soccorso, e nondimeno, credendo a Mottino, ornamento e splendore degli elvezi, assaltatigli valorosamente a' loro alloggiamenti, andati a urtare le loro artiglierie, gli roppono, ammazzati tanti fanti tedeschi che nella uccisione loro straccorono l'armi e le braccia: e voi credete che ora ardischino di aspettare quarantamila svizzeri, esercito sí valoroso e sí potente che sarebbe bastante a combattere alla campagna con tutto il resto del mondo unito insieme? Fuggiranno, credetemi, alla sola fama della venuta nostra; non avendo avuto ardire di accostarsi a Milano per confidenza della loro virtú ma solo per la speranza delle vostre divisioni. Non gli sosterrà la persona o la presenza del re, perché, per timore di non mettere in pericolo o la vita o lo stato, sarà il primo a cercare di salvare sé e dare esempio agli altri di fare il medesimo. Se con questo esercito, cioè con le forze di tutta Elvezia, non ardirete di assaltargli, con quali forze vi rimarrà egli speranza di potere resistere loro? A che fine siamo noi scesi in Lombardia, a che fine venuti a Milano, se volevamo avere paura dello scontro degli inimici? Dove sarebbeno le magnifiche parole, le feroci minaccie usate tutto questo anno? quando ci vantavamo di volere di nuovo scendere in Borgogna, quando ci rallegravamo dello accordo del re di Inghilterra, della inclinazione del pontefice a collegarsi col re di Francia, riputando a gloria nostra quanti piú fussino uniti contro allo stato di Milano? Meglio era non avere avute questi anni sí onorate vittorie, non avere cacciato i franzesi d'Italia, essersi contenuti ne' termini della nostra antica fama, se poi tutti insieme, ingannando l'espettazione di tutti gli uomini, avevamo a procedere con tanta viltà. Hassi oggi a fare giudicio da tutto il mondo se della vittoria di Novara fu cagione o la nostra virtú o [la] fortuna: se mostreremo timore degli inimici sarà da tutti attribuita o a caso o a temerità, se useremo la medesima audacia, confesserà ciascuno essere stata virtú; e avendo, come senza dubbio aremo, il medesimo successo, saremo non solamente terrore della età presente ma in venerazione ancora de' posteri, dal giudicio e dalle laudi de' quali sarà il nome de' svizzeri anteposto al nome de' romani. Perché di loro non si legge che mai usassino una audacia tale, né che mai conseguissino vittoria alcuna con tanto valore, né che mai senza necessità eleggessino di combattere contro agli inimici con tanto disavvantaggio; e di noi si leggerà la battaglia fatta presso a Novara, dove con poca gente, senza artiglierie senza cavalli, mettemmo in fuga uno esercito poderoso e ordinato di tutte le provisioni e guidato da due famosi capitani, l'uno senza dubbio il primo di tutta Francia l'altro il primo di tutta Italia. Leggerassi la giornata fatta a San Donato, con le medesime difficoltà dalla parte nostra, contro alla persona d'uno re di Francia, contro a tanti fanti tedeschi: i quali quanto piú numero sono tanto piú sazieranno l'odio nostro, tanto maggiore facoltà ci daranno di spegnere in perpetuo la loro milizia, tanto piú si asterranno da volere temerariamente fare concorrenza nell'armi co' svizzeri. Non è certo, anzi per molte difficoltà pare impossibile, che il viceré e le genti della Chiesa si unischino con noi: però, a che proposito aspettargli? Né è necessaria la loro venuta, anzi ci debbe essere grato questo impedimento, perché la gloria sarà tutta nostra, saranno tutte nostre tante spoglie tante ricchezze che sono nello esercito inimico. Non volle Mottino che la gloria si comunicasse, non che a altri, a' nostri medesimi; e noi saremo sí vili, sí disprezzatori della nostra ferocia che, quando bene potessino venire a unirsi, volessimo aspettare di comunicare tanta laude tanto onore co' forestieri? Non ricerca la fama de' svizzeri, non ricerca lo stato delle cose che si usi piú dilazione o si facci piú consigli. Ora è necessario uscire fuora, ora ora è necessario di andare ad assaltare gli inimici. Hanno a consultare i timidi, che pensano non a opporsi a' pericoli ma a fuggirgli, ma a gente feroce e bellicosa come la vostra appartiene presentarsi allo inimico subito che si è avuto vista di lui. Però, con l'aiuto di Dio che con giusto odio perseguita la superbia de' franzesi, pigliate con la consueta animosità le vostre picche, date ne' vostri tamburi; andianne subito senza interporre una ora di tempo, andiamo a straccare l'armi nostre, a saziare il nostro odio col sangue di coloro che per la superbia loro vogliono vessare ognuno ma per la loro viltà restano sempre in preda di ciascuno.-

Incitati da questo parlare, prese subito furiosamente le loro armi, e come furono fuora della porta Romana messisi co' loro squadroni in ordinanza, ancor che non restasse molto del giorno, si avviano verso l'esercito franzese, con tanta allegrezza e con tanti gridi che chi non avesse saputo altro arebbe tenuto per certo che avessino conseguito qualche grandissima vittoria; i capitani stimolavano i soldati a camminare, i soldati gli ricordavano che a qualunque ora si accostassino allo alloggiamento degli inimici dessino subito il segno della battaglia; volere coprire il campo di corpi morti, volere quel giorno spegnere il nome de' fanti tedeschi, e di quegli massime che, pronosticandosi la morte, portavano per segno le bande nere. Con questa ferocia accostatisi agli alloggiamenti de' franzesi, non restando piú di due ore di quel dí, principiorono il fatto d'arme, assaltando con impeto incredibile le artiglierie e i ripari; col quale impeto, appena erano arrivati che avevano urtato e rotto le prime squadre e guadagnata una parte dell'artiglierie: ma facendosi loro incontro la cavalleria e una grande parte dello esercito, e il re medesimo cinto da uno valoroso squadrone di gentiluomini, essendo alquanto raffrenato tanto furore, si cominciò una ferocissima battaglia; la quale con vari eventi e con gravissimo danno delle genti d'arme franzesi, le quali furono piegate si continuò insino a quattro ore della notte, essendo già restati morti alcuni de' capitani franzesi, e il re medesimo percosso da molti colpi di picche. Quivi, non potendo piú né l'una né l'altra parte tenere per la stracchezza l'armi in mano, spiccatisi senza suono di trombe senza comandamento de' capitani, si messono i svizzeri ad alloggiare nel campo medesimo, non offendendo piú l'uno l'altro ma aspettando, come con tacita tregua, il prossimo sole; ma essendo stato tanto felice il primo assalto de' svizzeri, a' quali il cardinale fece, come furno riposati, condurre vettovaglie da Milano, che per tutta Italia corsono i cavallari a significare i svizzeri avere messo in fuga l'esercito degli inimici.

Ma non consumò inutilmente il re quel che avanzava della notte; perché, conoscendo la grandezza del pericolo, attese a fare ritirare a' luoghi opportuni e a l'ordine debito l'artiglierie, a fare rimettere in ordinanza le battaglie de' lanzchenech e de' guasconi, e la cavalleria ai suoi squadroni. Sopravenne il dí: al principio del quale i svizzeri, disprezzatori non che dello esercito franzese ma di tutta la milizia d'Italia unita insieme, assaltorono con l'impeto medesimo e molto temerariamente gli inimici; da' quali raccolti valorosamente, ma con piú prudenza e maggiore ordine, erano percossi parte dalle artiglierie parte dal saettume de' guasconi, assaltati ancora da i cavalli, in modo che erano ammazzati da fronte e dai lati. E sopravenne, in sul levare del sole, l'Alviano; il quale, chiamato la notte dal re, messosi subito a cammino co' cavalli leggieri e con una parte piú espedita dello esercito, e giunto quando era piú stretto e piú feroce il combattere e le cose ridotte in maggiore travaglio e pericolo, seguitandolo dietro di mano in mano il resto dello esercito, assaltò con grande impeto i svizzeri alle spalle. I quali, benché continuamente combattessino con grandissima audacia e valore, nondimeno, vedendo sí gagliarda resistenza e sopragiugnere l'esercito viniziano, disperati potere ottenere la vittoria, essendo già stato piú ore sopra la terra il sole, sonorono a raccolta; e postesi in sulle spalle l'artiglierie che aveano condotte seco voltorno gli squadroni, ritenendo continuamente la solita ordinanza e camminando con lento passo verso Milano: e con tanto stupore de' franzesi che, di tutto l'esercito, niuno né de' fanti né de' cavalli ebbe ardire di seguitargli. Solo due compagnie delle loro, rifuggitesi in una villa, vi furono dentro abbruciate da i cavalli leggieri de' viniziani. Il rimanente dello esercito, intero nella sua ordinanza e spirando la medesima ferocia nel volto e negli occhi, ritornò in Milano; lasciati per le fosse, secondo dicono alcuni, quindici pezzi di artiglieria grossa, che avevano tolto loro nel primo scontro, per non avere comodità di condurla.

Affermava il consentimento comune di tutti gli uomini non essere stata per moltissimi anni in Italia battaglia piú feroce e di spavento maggiore; perché, per l'impeto col quale cominciorono l'assalto i svizzeri e poi per gli errori della notte, confusi gli ordini di tutto l'esercito e combattendosi alla mescolata senza imperio e senza segno, ogni cosa era sottoposta meramente alla fortuna; il re medesimo, stato molte volte in pericolo, aveva a riconoscere la salute piú dalla virtú propria e dal caso che dall'aiuto de' suoi; da' quali molte volte, per la confusione della battaglia e per le tenebre della notte, era stato abbandonato. Di maniera che il Triulzio, capitano che avea vedute tante cose, affermava questa essere stata battaglia non d'uomini ma di giganti; e che diciotto battaglie alle quali era intervenuto erano state, a comparazione di questa, battaglie fanciullesche. Né si dubitava che se non fusse stato l'aiuto delle artiglierie era la vittoria de' svizzeri, che, entrati nel primo impeto dentro a' ripari de' franzesi, tolto la piú parte delle artiglierie, avevano sempre acquistato di terreno; né fu di poco momento la giunta dell'Alviano, che sopravenendo in tempo che la battaglia era ancor dubbia dette animo a i franzesi e spavento a i svizzeri, credendo essere con lui tutto l'esercito viniziano. Il numero de' morti, se mai fu incerto in battaglia alcuna, come quasi sempre è in tutte, fu in questa incertissimo; variando assai gli uomini nel parlarne, chi per passione chi per errore. Affermorono alcuni essere morti de' svizzeri piú di quattordicimila; altri dicevano di dieci, i piú moderati di ottomila, né mancò chi volesse ristrignergli a tremila; capi tutti ignobili e di nomi oscuri. Ma de' franzesi morirno, nella battaglia della notte, Francesco fratello del duca di Borbone, Imbricort, Sanserro, il principe di Talamonte figliuolo del la Tramoglia, Boisí nipote già del cardinale di Roano, il conte di Sasart, Catelart di Savoia, Busichio e Moia che portava la insegna de' gentiluomini del re; tutte persone chiare per nobiltà e grandezza di stati o per avere gradi onorati nello esercito. E del numero de' morti di loro si parlò, per le medesime cagioni, variamente; affermando alcuni esserne morti seimila, altri che non piú di tremila: tra' quali morirno alcuni capitani de' fanti tedeschi.

Ritirati che furono i svizzeri in Milano, essendo in grandissima discordia o di convenire col re di Francia o di fermarsi alla difesa di Milano, quegli capitani i quali prima avevano trattata la concordia, cercando cagione meno inonesta di partirsi, dimandorono danari a Massimiliano Sforza, il quale era manifestissimo essere impotente a darne; e dipoi tutti i fanti, confortandogli a questo Rostio capitano generale, si partirono il dí seguente per andarsene per la via di Como al paese loro, data speranza al duca di ritornare presto a soccorrere il castello, nel quale rimanevano mille cinquecento svizzeri e cinquecento fanti italiani. Con questa speranza Massimiliano Sforza, accompagnato da Giovanni da Gonzaga e da Ieronimo Morone e da alcuni altri gentiluomini milanesi, si rinchiuse nel castello, avendo consentito, benché non senza difficoltà, che Francesco duca di Bari suo fratello se ne andasse in Germania; e il cardinale sedunense andò a Cesare per sollecitare il soccorso, data la fede di ritornare innanzi passassino molti dí; e la città di Milano, abbandonata d'ogni presidio, si dette al re di Francia, convenuta di pagargli grandissima quantità di danari: il quale recusò di entrarvi mentre si teneva per gli inimici il castello, come se a re sia indegno entrare in una terra che non sia tutta in potestà sua. Fece il re, nel luogo nel quale aveva acquistato la vittoria, celebrare tre dí solenni messe, la prima per ringraziare Dio della vittoria, l'altra per supplicare per la salute de' morti nella battaglia, la terza per pregarlo che concedesse la pace; e nel luogo medesimo fece a perpetua memoria edificare una cappella. Seguitorno la fortuna della vittoria tutte le terre e le fortezze del ducato di Milano, eccetto il castello di Cremona e quello di Milano: alla espugnazione del quale essendo preposto Pietro Navarra, affermava (non senza ammirazione di tutti, essendo il castello fortissimo, abbondante di tutte le provisioni necessarie a difendersi e a tenersi, e dove erano dentro piú di dumila uomini da guerra) di espugnarlo in minore tempo d'uno mese.

 

Cap. xvi

Accordi fra il pontefice ed il re di Francia. I francesi contro il castello di Milano. Accordi fra il re di Francia e Massimiliano Sforza. Massimiliano Sforza in Francia.

Avuta la nuova della vittoria de' franzesi, il viceré, soprastato pochi dí nel medesimo alloggiamento piú per necessità che per volontà, potendo difficilmente per carestia di danari muovere l'esercito, ricevutane finalmente certa quantità, e in prestanza da Lorenzo de' Medici seimila ducati, si ritirò a Pontenuro, con intenzione di andarsene nel reame di Napoli. Perché, se bene il pontefice, inteso i casi successi, aveva nel principio rappresentato agli uomini la costanza del suo antecessore, confortando gli oratori de' confederati a volere mostrare il volto alla fortuna e sforzarsi di tenere in buona disposizione i svizzeri e, variando loro, che in luogo suo si conducessino fanti tedeschi, nondimeno, parendogli le provisioni non potere essere se non tarde a' pericoli suoi e che il primo percosso aveva a essere egli, perché, quando bene la riverenza della Chiesa facesse che il re si astenesse da molestare lo stato ecclesiastico, non credeva bastasse a farlo ritenere da assaltare Parma e Piacenza, come membri attenenti al ducato di Milano, e da molestare lo stato di Firenze, nel quale cessava ogni rispetto, ed era offesa sí stimata dal pontefice quanto se offendesse lo stato della Chiesa. Né era vano il suo timore, perché già il re aveva fatto ordinare il ponte in sul Po presso a Pavia per mandare a pigliare Parma e Piacenza; e prese quelle città, quando il pontefice stesse renitente all'amicizia sua, mandare per la via di Pontriemoli a fare pruova di cacciare i Medici dello stato di Firenze. Ma già, per commissione sua, il duca di Savoia e il vescovo di Tricarico suo nunzio trattavano col re; il quale, sospettoso ancora di nuove unioni contro a sé e inclinato alla reverenza della sedia apostolica per lo spavento che era in tutto il regno di Francia delle persecuzioni avute da Giulio, era molto desideroso dello accordo. Però fu prestamente conchiuso tra loro confederazione a difesa degli stati d'Italia, e particolarmente: che il re pigliasse la protezione della persona del pontefice e dello stato della Chiesa, di Giuliano e di Lorenzo de' Medici e dello stato di Firenze; desse stato in Francia e pensione a Giuliano, pensione a Lorenzo e la condotta di cinquanta lancie; consentisse che il pontefice desse il passo per lo stato della Chiesa al viceré di tornare con l'esercito nel regno di Napoli; fusse tenuto il pontefice levare di Verona e dallo aiuto di Cesare contro a' viniziani le genti sue; restituire al re di Francia le città di Parma e di Piacenza, ricevendo in ricompenso dal re che il ducato di Milano fusse tenuto a levare per uso suo i sali da Cervia, che si calcolava essere cosa molto utile per la Chiesa, e già il pontefice nella confederazione fatta col duca di Milano aveva convenuto seco questo medesimo; che si facesse compromesso nel duca di Savoia se i fiorentini avevano contrafatto alla confederazione che avevano fatto col re Luigi, e che avendo contrafatto avesse a dichiarare la pena, il che il re diceva dimandare piú per onore suo che per altra cagione. E fatta la conclusione, Tricarico andò subito in poste a Roma per persuadere al pontefice la ratificazione; e Lorenzo, acciò che il viceré avesse cagione di partirsi piú presto, ritirò a Parma e Reggio le genti che erano a Piacenza, ed egli andò al re per farsegli grato e persuadergli, secondo gli ammunimenti artificiosi del zio, di volere in ogni evento delle cose dipendere da lui. Non fu senza difficoltà indurre il pontefice alla ratificazione, perché gli era molestissimo il perdere Parma e Piacenza, e arebbe volentieri aspettato di intendere prima quel che deliberassino i svizzeri: i quali, convocata la dieta a Zurich, cantone principale di tutti gli elvezi e inimicissimo a' franzesi, trattavano di soccorrere il castello di Milano, nonostante che avessino abbandonato le valli e le terre di Bellinzone e di Lugarno ma non le fortezze, benché il re pagati seimila scudi al castellano ottenesse quella di Lugarno; ma non abbandonorono già i grigioni Chiavenna. Nondimeno, dimostrandogli Tricarico essere pericolo che il re non assaltasse senza dilazione Parma e Piacenza e mandasse gente in Toscana, e magnificando il danno che i svizzeri avevano ricevuto nella giornata, fu contento ratificare; con modificazione però di non avere egli o suoi agenti a consegnare Parma e Piacenza, ma lasciandole vacue di sue genti e di suoi officiali, permettere che il re se le pigliasse; che il pontefice non fusse tenuto a levare le genti da Verona per non fare questa ingiuria a Cesare, ma bene prometteva da parte di levarle presto con qualche comoda occasione; e che i fiorentini fussino assoluti dalla contrafazione pretensa della lega. Fu anche in questo accordo che il re non pigliasse protezione di alcuno feudatario o suddito dello stato della Chiesa, né solo [non] vietare al pontefice come superiore loro il procedere contro a essi e il gastigargli, ma eziandio obligandosi, quando ne fusse ricercato, a dargli aiuto. Trattossi ancora che il pontefice e il re si abboccassino in qualche luogo comodo insieme, cosa proposta dal re ma desiderata dall'uno e dall'altro di loro: dal re, per stabilire meglio questa amicizia, per assicurare le cose degli amici che aveva in Italia, e perché sperava, con la presenza sua e con offerire stati grossi al fratello del pontefice e al nipote, ottenere di potere con suo consentimento assaltare, come ardentissimamente desiderava, il reame di Napoli; dal pontefice, per intrattenere con questo officio, o con la maniera sua efficacissima a conciliarsi gli animi degli uomini, il re mentre che era in tanta prosperità, nonostante che da molti fusse dannata tale deliberazione come indegna della maestà del pontificato, e come se convenisse che il re, volendo abboccarsi seco, andasse a trovarlo a Roma. Alla quale cosa egli affermava condiscendere per desiderio di indurre il re a non molestare il regno di Napoli durante la vita del re cattolico; la quale, per essere egli, già piú di uno anno, caduto in mala disposizione del corpo, era comune opinione avesse a essere breve.

Travagliavasi in questo mezzo Pietro Navarra intorno al castello di Milano; e insignoritosi di una casamatta del fosso del castello per fianco verso porta Comasina, e accostatosi con gatti e travate al fosso e alla muraglia della fortezza, attendeva a fare la mina in quel luogo: e levate le difese ne cominciò poi piú altre; e tagliò con gli scarpelli, da uno fianco della fortezza, grande pezzo di muraglia e messela in su i puntelli, per farla cadere nel tempo medesimo che si desse fuoco alle mine. Le quali cose, benché, secondo il giudicio di molti, non bastassino a fargli ottenere il castello se non con molta lunghezza e difficoltà, e già s'avesse certa notizia i svizzeri prepararsi, secondo la determinazione fatta nella dieta di Zurich, per soccorrerlo; nondimeno, essendo nata pratica tra Giovanni da Gonzaga condottiere del duca di Milano, che era in castello, e il duca di Borbone parente suo, e dipoi intervenendo nel trattare col duca di Borbone Ieronimo Morone e due capitani de' svizzeri che erano nel castello, si conchiuse, con grande ammirazione di tutti, il quarto dí di ottobre; con imputazione grandissima di Ieronimo Morone, che o per troppa timidità o per poca fede avesse persuaso a questo accordo il duca con la autorità sua, che appresso a lui era grandissima; il quale carico egli scusava con allegare essere nata diffidenza tra i fanti svizzeri e gli italiani. Contenne la concordia: che Massimiliano Sforza consegnasse subito al re di Francia i castelli di Milano e di Cremona; cedessegli tutte le ragioni che aveva in quello stato; ricevesse dal re certa somma di danari per pagare i debiti suoi, e andasse in Francia, dove il re gli desse ciascuno anno pensione di trentamila ducati o operasse che fusse fatto cardinale con pari entrata; perdonasse il re a Galeazzo Visconte e a certi altri gentiluomini del ducato di Milano, che si erano affaticati molto per Massimiliano; desse a' svizzeri che erano nel castello scudi seimila; confermasse a Giovanni da Gonzaga i beni che per donazione del duca aveva nello stato di Milano, e gli desse certa pensione; confermasse similmente al Morone i beni propri e i donati dal duca e gli uffici che aveva, e lo facesse maestro delle richieste della corte di Francia. Il quale accordo fatto, Massimiliano, altrimenti il moro per il nome paterno, uscito del castello, se ne andò in Francia; dicendo essere uscito della servitú de' svizzeri, degli strazi di Cesare e degli inganni degli spagnuoli: e nondimeno, lodando ciascuno piú la fortuna di averlo presto deposto di tanto grado che di avere prima esaltato uno uomo che, per la incapacità sua e per avere pensieri estravaganti e costumi sordidissimi, era indegno di ogni grandezza.

Cap. xvii

Richieste d'aiuti dei veneziani al re di Francia. Morte dell'Alviano e onori resigli dai soldati; giudizio dell'autore. Successi dei veneziani. Veneziani e francesi contro Brescia; insuccesso dell'impresa.

Ma innanzi alla dedizione del castello di Milano vennono al re quattro imbasciadori, de' principali e piú onorati del senato viniziano, Antonio Grimanno Domenico Trivisano Giorgio Cornero e Andrea Gritti, a congratularsi della vittoria, e a ricercarlo che, come era tenuto per i capitoli della confederazione, gli aiutasse alla recuperazione delle terre loro: cosa che non aveva altro ostacolo che delle forze di Cesare, e di quelle genti che con Marcantonio Colonna erano per il pontefice in Verona; perché il viceré, poi che levato del piacentino ebbe soggiornato alquanto nel modenese, per aspettare se il papa ratificava lo accordo fatto col re di Francia, intesa la ratificazione, se ne era andato per la Romagna a Napoli. Deputò il re prontamente in aiuto loro il bastardo di Savoia e Teodoro da Triulzio con settecento lancie e settemila fanti tedeschi: i quali mentre differiscono a partirsi, o per aspettare quello che succedeva del castello di Milano o perché il re volesse mandare le genti medesime alla espugnazione del castello di Cremona, l'Alviano, al quale i viniziani non avevano consentito che seguitasse il viceré perché desideravano di recuperare, se era possibile senza aiuto d'altri, Brescia e Verona, andò con l'esercito verso Brescia. Ma essendo entrati di nuovo in quella città mille fanti tedeschi, l'Alviano, essendosi molti dí innanzi Bergamo arrenduto a' viniziani, si risolveva a andare prima alla espugnazione di Verona perché era manco fortificata, per maggiore comodità delle vettovaglie e perché, presa Verona, Brescia, restando sola e in sito da potere avere difficilmente soccorso di Germania, era facile a pigliare; ma si tardava a dare principio alla impresa, per timore che il viceré e le genti del pontefice che erano in reggiano e modanese non passassino il Po a Ostia per soccorrere Verona. Del quale sospetto poiché per la partita del viceré si restò sicuro, dava impedimento la infermità dell'Alviano; il quale, ammalato a Ghedi in bresciano, minore di sessanta anni, passò ne' primi dí di ottobre, con grandissimo dispiacere de' viniziani, all'altra vita; ma con molto maggiore dispiacere de' suoi soldati, che non si potendo saziare della memoria sua tennono il corpo suo venticinque dí nello esercito, conducendolo, quando si camminava, con grandissima pompa. E volendo condurlo a Vinegia, non comportò Teodoro Triulzio che per potere passare per veronese si dimandasse, come molti ricordavano, salvocondotto a Marcantonio Colonna; dicendo non essere conveniente che chi vivo non aveva mai avuto paura degli inimici, morto facesse segno di temergli. A Vinegia fu, per decreto publico, seppellito con grandissimo onore nella chiesa di Santo Stefano, dove ancora oggi si vede il suo sepolcro; e la orazione funebre fece Andrea Novagiero gentil uomo viniziano, giovane di molta eloquenza. Capitano, come ciascuno confessava, di grande ardire ed esecutore con somma celerità delle cose deliberate, ma che molte volte, o per sua mala fortuna o, come molti dicevano, per essere di consiglio precipitoso, fu superato dagli inimici: anzi, forse, dove fu principale degli eserciti non ottenne mai vittoria alcuna.

Per la morte dell'Alviano, il re, ricercato da' viniziani, concedette a governo dello esercito loro il Triulzio; desiderato per la sua perizia e riputazione nella disciplina militare e perché, per la inclinazione comune della fazione guelfa, era sempre stato intratenimento e benivolenza tra lui e quella republica. Il quale mentre che andava allo esercito, le genti de viniziani espugnorono Peschiera; ma innanzi l'espugnassino roppono alcuni cavalli e trecento fanti spagnuoli che andavano per soccorrerla, e di poi ricuperorno Asola e Lunà, abbandonate dal marchese di Mantova.

Alla venuta del Triulzio si pose, per gli stimoli del senato, il campo a Brescia; avvenga che l'espugnazione senza l'esercito franzese paresse molto difficile, perché la terra era forte e dentro mille fanti tra tedeschi e spagnuoli, stati costretti a partirsi numero grandissimo de' guelfi e imminente già la vernata, e il tempo dimostrarsi molto sottoposto alle pioggie. Né ingannò l'evento della cosa il giudicio del capitano: perché avendo cominciato a battere le mura con le artiglierie, piantate in sul fosso dalla parte onde esce la Garzetta, quegli di dentro che spesso uscivano fuora, spinti una volta mille cinquecento fanti tra tedeschi e spagnuoli ad assaltare la guardia della artiglieria, alla quale erano deputati cento uomini d'arme e seimila fanti, e battendogli anche con la scoppietteria, distesa per questo in su le mura della terra, gli messeno facilmente tutti in fuga, ancora che Giampaolo Manfrone con trenta uomini d'arme sostenesse alquanto lo impeto loro; ammazzorono circa dugento fanti, abbruciorno la polvere e condusseno in Brescia dieci pezzi d'artiglieria. Per il quale disordine parve al Triulzio di allargarsi con lo esercito per aspettare la venuta de' franzesi, e si ritirò a Cuccai lontano dodici miglia da Brescia; attendendo intratanto i viniziani a provedere di nuova artiglieria e munizione. Venuti i franzesi, si ritornò alla espugnazione di quella città, battendo in due diversi luoghi, dalla porta delle Pile verso il castello e dalla porta di San Gianni; alloggiando da una parte l'esercito franzese, nel quale, licenziati i fanti tedeschi, perché recusavano andare contro alle città possedute da Cesare, era venuto Pietro Navarra con [cinquemila] fanti guasconi e franzesi. Dall'altra parte era il Triulzio co' soldati viniziani; sopra il quale rimase quasi tutta la somma delle cose, perché il bastardo di Savoia ammalato era partito dell'esercito. Battuta la muraglia, non si dette l'assalto perché quegli di dentro aveano fatto molti ripari, e con grandissima diligenza e valore provedevano tutto quel che era necessario alla difesa: onde Pietro Navarra, ricorrendo al rimedio consueto, cominciò a dare opera alle mine e insieme a tagliare le mura co' picconi. Nel quale tempo Marcantonio Colonna, uscito di Verona con seicento cavalli e cinquecento fanti, e avendo incontrato in su la campagna Giampaolo Manfrone e Marcantonio Bua, che con quattrocento uomini d'arme e quattrocento cavalli leggieri erano a guardia di Valeggio, gli roppe; nel quale incontro Giulio figliuolo di Giampaolo, mortogli mentre combatteva il cavallo sotto, venne in potestà degli inimici, e il padre fuggí a Goito: occuporno di poi Lignago, ove presono alcuni gentiluomini viniziani. Finalmente, mostrandosi ogni dí piú dura e difficile la oppugnazione, perché le mine ordinate da Pietro Navarra non riuscivano alle speranze date da lui, e intendendosi venire di Germania ottomila fanti, i quali i capitani che erano intorno a Brescia non si confidavano di impedire, furno contenti i viniziani, per ricoprire in qualche parte l'ignominia del ritirarsi, convenire con quegli che erano in Brescia, che se infra trenta dí non fussino soccorsi abbandonerebbono la città, uscendone, cosí permettevano i viniziani, con le bandiere spiegate con l'artiglierie e con tutte le cose loro: la quale promessa, tale era la certezza della venuta del soccorso, sapeva ciascuno dovere essere vana, ma alla gente di Brescia non era inutile il liberarsi in questo mezzo dalle molestie. Messono dipoi i viniziani in Bré, castello de' conti di Lodrone, ottomila fanti: ma come questi sentirno i fanti tedeschi, a' quali si era arrenduto il castello di Amfo, venire innanzi, si ritirorno vilmente all'esercito. Né fu maggiore animo ne' capitani: i quali, temendo in un tempo medesimo non essere assaltati da questi e da quegli che erano in Brescia e da Marcantonio co' soldati che erano a Verona, si ritirorno a Ghedi; ove prima, già certi di questo accidente, aveano mandate l'artiglierie maggiori, e quasi tutti i carriaggi. E i tedeschi, entrati in Verona senza contrasto, proveduta che l'ebbono di vettovaglie e accresciuto il numero de' difensori, se ne ritornorono in Germania.

 

Cap. xviii

Incontro del pontefice e del re di Francia a Bologna e questioni trattate. Ritorno del re in Francia; suoi accordi con gli svizzeri. Mutamento di governo in Siena.

Aveano in questo mezzo stabilito il pontefice e il re di convenire insieme a Bologna; avendo il re accettato questo luogo, piú che Firenze, per non si allontanare tanto dal ducato di Milano, trattandosi massimamente del continuo per il duca di Savoia la concordia tra i svizzeri e lui; e perché, secondo diceva, sarebbe necessitato, passando in Toscana, menare seco molti soldati; e perché conveniva all'onore suo non entrare con minore pompa in Firenze che già vi fusse entrato il re Carlo, la quale per ordinare si interporrebbe dilazione di qualche dí, la quale al re era grave, e per altri rispetti; e perché tanto piú sarebbe stato necessitato a ritenere tutto l'esercito, del quale, ancora che la spesa fusse gravissima, non aveva insino a quel dí né intendeva, mentre era in Italia, licenziare parte alcuna. Entrò adunque, l'ottavo dí di dicembre, il pontefice in Bologna; e due dí appresso vi entrò il re, il quale erano andati a ricevere a' confini del reggiano due legati apostolici, il cardinale dal Fiesco e quello de' Medici. Entrò senza gente d'arme né con la corte molto piena; e introdotto, secondo l'uso, nel concistorio publico innanzi al pontefice, egli medesimo, parlando in nome suo il gran cancelliere, offerse la ubbidienza la quale prima non aveva prestata. Stettero dipoi tre dí insieme, alloggiati nel palagio medesimo, facendo l'uno verso l'altro segni grandissimi di benivolenza e di amore. Nel qual tempo, oltre al riconfermare con le parole e con le promesse le già fatte obligazioni, trattorono insieme molte cose del regno di Napoli; il quale non essendo allora il re ordinato ad assaltare, si contentò della speranza datagli molto efficacemente dal pontefice di essergli favorevole a quella impresa, qualunque volta sopravenisse la morte del re d'Aragona, la quale per giudicio comune era propinqua, o veramente fusse finita la confederazione che aveva seco, che durava ancora sedici mesi. Intercedette ancora il re per la restituzione di Modona e di Reggio al duca di Ferrara, e il pontefice promesse di restituirle pagandogli il duca i quarantamila ducati i quali il papa aveva pagati per Modena a Cesare, e oltre a questi certa quantità di danari per spese fatte nell'una e l'altra città. Intercedette ancora il re per Francesco Maria duca di Urbino; il quale, essendo soldato della Chiesa con dugento uomini d'arme e dovendo andare con Giuliano de' Medici all'esercito, quando poi per la infermità sua vi fu proposto Lorenzo, non solamente aveva ricusato di andarvi, allegando che quel che contro alla sua degnità avea consentito alla lunga amicizia tenuta con Giuliano, di andare come semplice condottiere e sottoposto alla autorità di altri nell'esercito della Chiesa, nel quale era stato tante volte capitano generale superiore a tutti, non voleva concedere a Lorenzo; ma oltre a questo, avendo promesso di mandare le genti della sua condotta le rivocò mentre erano nel cammino, perché già secretamente avea convenuto o trattava di convenire col re di Francia, e dopo la vittoria del re non aveva cessato per mezzo d'uomini propri concitarlo quanto potette contro al pontefice. Il quale, ricordevole di queste ingiurie, e già pensando di attribuire alla famiglia propria quel ducato, dinegò al re la sua domanda; dimostrandogli con dolcissime parole quanta difficoltà farebbe alle cose della Chiesa il dare, con esempio cosí pernicioso, ardire a' sudditi di ribellarsi: alle quali ragioni e alla volontà del papa cedette pazientemente il re; con tutto che per l'onore proprio avesse desiderato di salvare chi per essersi aderito a lui era caduto in pericolo, e che al medesimo lo confortassino molti del suo consiglio e della corte, ricordando quanto fusse stata imprudente la deliberazione del re passato d'avere permesso al Valentino opprimere i signori piccoli di Italia, per il che era salito in tanta grandezza che se piú lungamente fusse vivuto il padre Alessandro arebbe senza dubbio nociuto molto alle cose sue. Promesse il pontefice al re dargli facoltà di riscuotere per uno anno la decima parte delle entrate delle chiese del reame di Francia. Convennero ancora che il re avesse la nominazione de' benefici che prima apparteneva a' collegi e a' capitoli delle chiese, cosa molto a proposito di quegli re, avendo facoltà di distribuire ad arbitrio suo tanti ricchissimi benefici; e da altra parte, che le annate delle chiese di Francia si pagassino in futuro al pontefice secondo il vero valore e non secondo le tasse antiche, le quali erano molto minori: e in questo rimase decetto il pontefice; perché avendosi, contro a coloro che occultavano il vero valore, a fare l'esecuzione e deputare i commissari nel regno di Francia, niuno voleva provare niuno eseguire contro agli impetratori, di maniera che ciascuno continuò di spedire secondo le tasse vecchie. Promesse ancora il re di non pigliare in protezione alcuna delle città di Toscana; benché non molto poi, facendo instanza che gli consentisse di accettare la protezione de' lucchesi i quali gli offerivano venticinquemila ducati, e allegando esserne tenuto per le obligazioni dello antecessore, il pontefice, recusando di concedergliene, gli promesse di non dare loro molestia alcuna. Deliberorno oltre a queste cose mandare Egidio generale de' frati di Santo Agostino, ed eccellentissimo nelle predicazioni, a Cesare, in nome del pontefice, per disporlo a consentire a' viniziani, con ricompenso di danari, Brescia e Verona. Le quali cose espedite, ma non per scrittura (eccetto quello che apparteneva alla nominazione de' benefici e al pagamento delle annate secondo il vero valore), il pontefice, in grazia del re e per onorare tanto convento, pronunziò cardinale Adriano di Boisí fratello del gran maestro di Francia, che nelle cose del governo teneva il primo luogo appresso al re. Da questo colloquio partí il re molto contento nell'animo, e con grande speranza della benivolenza del pontefice: il quale dimostrava copiosamente il medesimo ma dentro sentiva altrimenti; perché gli era molesto come prima che 'l ducato di Milano fusse posseduto da lui, molestissimo avere rilasciato Piacenza e Parma, parimente molesto il restituire al duca di Ferrara Modona e Reggio. Benché questo, non molto poi, tornò vano: perché avendo il pontefice in Firenze, ove dopo la partita da Bologna stette circa uno mese, ricevute dal duca le promesse de' danari che s'aveano a pagare subito che fusse entrato in possessione, ed essendo di comune consentimento ordinate le scritture degli instrumenti che tra loro s'aveano a fare, il pontefice, non negando ma interponendo varie scuse e dilazioni, e sempre promettendo, ricusò di dargli perfezione.

Ritornato il re a Milano licenziò subito l'esercito, riservate alla guardia di quello stato [settecento] lancie e seimila fanti tedeschi e quattromila franzesi, di quella sorte che da loro sono chiamati venturieri; egli con grandissima celerità, ne' primi dí dell'anno mille cinquecento sedici, ritornò in Francia, lasciato luogotenente suo Carlo duca di Borbone: parendogli avere stabilite in Italia le cose sue, per la confederazione contratta col pontefice, e perché in quegli dí medesimi avea convenuto co' svizzeri. I quali, benché il re di Inghilterra [gli] stimolasse a muovere di nuovo l'armi contro al re, rinnovorno seco la confederazione, obligandosi a dare sempre in Italia e fuori, per difesa e per offesa contro a ciascuno, col nome e con le bandiere publiche, a' suoi stipendi qualunque numero di fanti dimandasse; eccettuando solamente dall'offesa il pontefice, l'imperio e Cesare: e da altra parte il re riconfermò loro le pensioni antiche, promesse pagare in certi tempi i quattrocentomila ducati convenuti a Digiuno, e trecentomila se gli restituivano le terre e le valli appartenenti al ducato di Milano. Il che ricusando di fare e di ratificare la concordia i cinque cantoni che le possedevano, cominciò il re a pagare gli altri otto la rata de' denari appartenente a loro; i quali l'accettorno, ma con espressa condizione di non essere tenuti di andare a gli stipendi suoi contro a' fanti de' cinque cantoni.

Nel principio dell'anno medesimo il vescovo de' Petrucci, antico familiare del pontefice, coll'aiuto suo e de' fiorentini cacciato di Siena Borghese figliuolo di Pandolfo Petrucci cugino suo, in mano del quale era il governo, arrogò a sé medesima autorità: movendosi il pontefice perché quella città, posta tra lo stato della Chiesa e de' fiorentini, fusse governata da uomo confidente di sé; e forse molto piú perché sperasse, quando fusse propizia la opportunità de' tempi, potere con volontà del vescovo medesimo sottoporla o al fratello o al nipote.

 

Cap. xix

Morte del re d'Aragona; giudizio dell'autore. Morte del gran capitano. Aspirazione del re di Francia alla conquista del regno di Napoli e sue speranze. Liberazione di Prospero Colonna dalla prigionia.

Rimasono in Italia accese le cose tra Cesare e i viniziani, desiderosi di ricuperare, coll'aiuto del re di Francia, Brescia e Verona: l'altre cose parevano assai quiete. Ma presto cominciorno ad apparire princípi di nuovi movimenti, che si suscitavano per opera del re di Aragona; il quale, temendo al regno di Napoli per la grandezza del re di Francia, trattava con Cesare e col re di Inghilterra che di nuovo si movessino l'armi contro a lui: il che non solamente non era stato difficile persuadere a Cesare, desideroso sempre di cose nuove, e il quale da se stesso difficilmente poteva conservare le terre tolte a viniziani; ma ancora il re di Inghilterra, potendo meno in lui la memoria dell'avere il suocero violatogli le promesse che la emulazione e l'odio presente contro al re di Francia, vi assentiva. Stimolavalo oltre a questo il desiderio che il re di Scozia pupillo fusse governato per uomini o proposti o dependenti da lui. Le quali cose si sarebbono tentate con maggiore consiglio e con maggiori forze se, mentre si trattavano, non fusse succeduta la morte del re d'Aragona; il quale, afflitto da lunga indisposizione, morí del mese di [gennaio], mentre andava colla corte a Sibilia, in Madrigalegio, villa ignobilissima. Re di eccellentissimo consiglio e virtú, e nel quale, se fusse stato costante nelle promesse, non potresti facilmente riprendere cosa alcuna; perché la tenacità dello spendere, della quale era calunniato, dimostrò facilmente falsa la morte sua, conciossiaché avendo regnato [quarantadue] anni non lasciò danari accumulati. Ma accade quasi sempre, per il giudicio corrotto degli uomini, che ne' re è piú lodata la prodigalità, benché a quella sia annessa la rapacità, che la parsimonia congiunta con la astinenza della roba di altri. Alla virtú rara di questo re si aggiunse la felicità rarissima, perpetua, se tu levi la morte dell'unico figliuolo maschio, per tutta la vita sua: perché i casi delle femmine e del genero furno cagione che insino alla morte si conservasse la grandezza; e la necessità di partirsi, dopo la morte della moglie, di Castiglia fu piú tosto giuoco che percossa della fortuna. Tutte l'altre cose furno felicissime. Di secondogenito del re di Aragona, morto il fratello maggiore, [ottenne quel reame], pervenne, per mezzo del matrimonio contratto con Isabella, al regno di Castiglia; scacciò vittoriosamente gli avversari che competevano al medesimo reame; recuperò poi il regno di Granata, posseduto dagli inimici della nostra fede poco meno di ottocento anni; aggiunse allo imperio suo il regno di Napoli, quello di Navarra, Orano e molti luoghi importanti de' liti di Africa: superiore sempre e quasi domatore di tutti gli inimici suoi. E, ove manifestamente apparí congiunta la fortuna con la industria, coprí quasi tutte le sue cupidità sotto colore di onesto zelo della religione e di santa intenzione al bene comune.

Morí, circa a uno mese innanzi alla morte sua, il gran capitano, assente dalla corte e male sodisfatto di lui: e nondimeno il re, per la memoria della sua virtú, aveva voluto che da sé e da tutto il regno gli fussino fatti onori insoliti a farsi in Spagna ad alcuno, eccetto che nella morte de' re; con grandissima approbazione di tutti i popoli, a' quali il nome del gran capitano per la sua grandissima liberalità era gratissimo e, per l'opinione della prudenza e che nella scienza militare trapassasse il valore di tutti i capitani de' tempi suoi, era in somma venerazione.

Accese la morte del re cattolico l'animo del re di Francia alla impresa di Napoli, alla quale pensava mandare subito il duca di Borbone con ottocento lancie e diecimila fanti; persuadendosi, per essere il regno sollevato per la morte del re e male ordinato alla difesa, né potendo l'arciduca essere a tempo a soccorrerlo, averne facilmente a ottenere la vittoria. Né dubitava che il pontefice, per le speranze avute da lui quando furno insieme a Bologna e per la benivolenza contratta seco nello abboccamento, gli avesse a essere favorevole; né meno per lo interesse proprio, come se gli avesse a essere molesta la troppa grandezza dello arciduca, successore di tanti regni del re cattolico e successore futuro di Cesare. Sperava oltre a questo che l'arciduca, conoscendo potergli molto nuocere l'inimicizia sua nello stabilirsi i regni di Spagna e specialmente quello di Aragona (al quale, se alle ragioni fusse stata congiunta la potenza, arebbono aspirato alcuni maschi della medesima famiglia), sarebbe proceduto moderatamente a opporsegli. Perché se bene, vivente il re morto e Isabella sua moglie, era stato nelle congregazioni di tutto il regno interpretato che le costituzioni antiche di quel reame escludenti dalla successione della corona le femmine non pregiudicavano a' maschi nati di quelle, quando nella linea mascolina non si trovavano fratelli zii o nipoti del re morto o chi gli fusse piú prossimo del nato delle femmine o almeno in grado pari, e che per questo fusse stato dichiarato appartenersi a Carlo arciduca, dopo la morte di Ferdinando, la successione, adducendo in esempio che per la morte di Martino re d'Aragona morto senza figliuoli maschi era stato, per sentenza de' giudici deputati a questo da tutto il regno, preferito Ferdinando avolo di questo Ferdinando, benché congiunto per linea femminina, al conte d'Urgelli e agli altri congiunti a Martino per linea mascolina ma in grado piú remoto di Ferdinando: nondimeno era stata insino ad allora tacita querela ne' popoli che in questa interpretazione e dichiarazione avesse piú potuto la potenza di Ferdinando e di Isabella che la giustizia; non parendo a molti debita interpretazione, che esclude le femmine possa essere ammesso chi nasce di quelle, e che nella sentenza data per Ferdinando vecchio avesse piú potuto il timore dell'armi sue che la ragione. Le quali cose essendo note al re, e noto ancora che i popoli della provincia d'Aragona di Valenza e della contea di Catalogna (includendosi tutti questi sotto il regno d'Aragona) arebbeno desiderato un re proprio, sperava che l'arciduca, per non mettere in pericolo tanta successione e tanti stati, non avesse finalmente a essere alieno dal concedergli con qualche condecevole composizione il regno di Napoli. Nel qual tempo, per aiutarsi oltre alle forze co' benefici, volle che Prospero Colonna, il quale consentiva di pagare per la liberazione sua trentacinquemila ducati, fusse liberato pagandone solamente la metà; onde molti credettono che Prospero gli avesse secretamente [promesso] di non prendere arme contro a lui, o forse di essergli favorevole nella guerra napoletana, ma con qualche limitazione o riserbo dell'onore suo.

 

Cap. xx

Si ravviva la lotta fra tedeschi e franco-veneziani. Discesa di Cesare con nuove milizie in Italia; suoi successi; intimazione ai milanesi. I francesi si restringono in Milano. Arrivo degli svizzeri. Timori di Cesare e sua ritirata dal milanese. Ritorno di svizzeri in patria. Sacco di Lodi e di Sant'Angelo. Condotta ambigua del pontefice durante l'impresa di Cesare. Presa di Brescia.

In questi pensieri costituito il re, e già deliberando di non differire il muovere dell'armi, fu necessitato per nuovi accidenti a volgere l'animo alla difesa propria: perché Cesare, ricevuti, secondo le cose cominciate a trattarsi prima col re d'Aragona, centoventimila ducati, si preparava per assaltare, come aveva convenuto con quel re, il ducato di Milano, soccorse che avesse Verona e Brescia. Perché i viniziani, fermato l'esercito, il quale, essendo ritornato il Triulzio a Milano, reggeva Teodoro da Triulzi fatto governatore, sei miglia presso a Brescia, scorrevano cogli stradiotti tutto il paese: i quali, assaltati uno dí da quegli di dentro, e concorrendo da ciascuna delle parti aiuto a' suoi, gli rimessono dopo non piccola zuffa in Brescia, ammazzatine molti di loro e preso il fratello del governatore della città. Pochi dí appresso, Lautrech, principale dell'esercito franzese, e Teodoro da Triulzi, sentito che a Brescia venivano tremila fanti tedeschi per accompagnare i danari che si conducevano per pagare i soldati, mandorno per impedire loro il passare Gianus Fregoso e Giancurrado Orsino, con genti dell'uno e l'altro esercito, alla rocca d'Anfo; le quali n'ammazzorno circa ottocento, gli altri insieme co' danari si rifuggirno a Lodrone. Mandorno di poi i viniziani in Val di Sabia dumila cinquecento fanti per fortificare il castello di Anfo, i quali abbruciorno Lodrone e Astorio.

Il pericolo che Brescia, cosí stretta e molestata, non si arrendesse costrinse Cesare ad accelerare la sua venuta; il quale, avendo seco cinquemila cavalli, quindicimila svizzeri datigli dai cinque cantoni e diecimila fanti tra spagnuoli e tedeschi, venne per la via di Trento a Verona; onde l'esercito franzese e viniziano, lasciate bene custodite Vicenza e Padova, si ridusse a Peschiera, affermando volere vietare a Cesare il passare del fiume del Mincio: ma non corrispose, come spesso accade, l'esecuzione al consiglio, perché come sentirno gli inimici approssimarsi, non avendo alla campagna quella audacia a eseguire che aveano avuta ne' padiglioni a consigliare, passato Oglio, si ritirorono a Cremona, crescendo la riputazione e lo ardire allo inimico e togliendolo a se stessi. Fermossi Cesare, o per cattivo consiglio o tirato dalla mala fortuna sua, a campo ad Asola, custodita da cento uomini d'arme e quattrocento fanti de' viniziani; ove consumò vanamente piú giorni: il quale indugio si credé certissimamente che gli togliesse la vittoria. Partito da Asola passò il fiume dell'Oglio a Orcinuovi, e gli inimici, lasciati in Cremona trecento lancie e tremila fanti, si ritirorno di là dal fiume dell'Adda con pensiero di impedirgli il passare; per la ritirata de' quali tutto il paese che è tra l'Oglio e il Po e l'Adda si ridusse a divozione di Cesare, eccettuate Cremona e Crema, l'una guardata da' franzesi l'altra da viniziani. Seguitavano Cesare il cardinale sedunense e molti fuorusciti del ducato di Milano e Marcantonio Colonna soldato del pontefice con [dugento] uomini d'arme: per le quali cose cresceva tanto piú il timore de' franzesi, la maggiore parte della speranza de' quali si riduceva se diecimila svizzeri, a' quali era stato numerato lo stipendio di tre mesi, non tardavano piú a venire. Passato l'Oglio, si accostò Cesare al fiume dell'Adda per passarla a Pizzichitone; dove trovando difficoltà venne a Rivolta, stando i franzesi a Casciano di là dal fiume. I quali il dí seguente, non essendo venuti i svizzeri e possendosi l'Adda guadare in piú luoghi, si ritirorono a Milano; non senza infamia di Lautrech, che aveva publicato e scritto al re che impedirebbe a Cesare il passo di quello fiume: al quale, passato senza ostacolo, s'arrendé subito la città di Lodi. Accostatosi a Milano a poche miglia, mandò uno araldo a dimandare la terra, minacciando i milanesi che se fra tre dí non cacciavano lo esercito franzese, farebbe peggio a quella città che non aveva fatto Federigo Barbarossa suo antecessore; il quale, non contento di averla abbruciata e disfatta, vi fece, per memoria della sua ira e della loro rebellione, seminare il sale.

Ma tra i franzesi, ritirati con grandissimo spavento in Milano, erano stati vari consigli; inclinando alcuni ad abbandonare bruttamente Milano per non si riputare pari a resistere agli inimici né credere che i svizzeri, ancorché già si sapesse essere in cammino, avessino a venire, e perché si intendeva che i cantoni o avevano già comandato o erano in procinto di comandare che i svizzeri si partissino da' servizi dell'uno e dell'altro: e pareva dubitabile che non fusse piú pronta la ubbidienza di quegli che ancora erano in cammino che di quegli che già erano cogli inimici. Altri detestavano la partita come piena di infamia; e avendo migliore speranza della venuta de' svizzeri e del potere difendere Milano, consigliavano il mettersi alla difesa, e che rimosso in tutto il pensiero di combattere e ritenuto in Milano tutti i fanti e ottocento lancie, distribuissino l'altre e quelle de' viniziani e tutti i cavalli leggieri per le terre vicine, per guardarle e per molestare agli inimici le vettovaglie. Nondimeno, si sarebbe eseguito il primo consiglio se non avessino molto dissuaso Andrea Gritti e Andrea Trivisano proveditori de' viniziani; l'autorità de' quali, non potendo ottenere altro, operò questo, che il partirsi si deliberò alquanto piú lentamente, di maniera che, già volendo partirsi, sopravennero novelle certe che il dí seguente sarebbe Alberto Petra con diecimila tra svizzeri e grigioni a Milano. Per il che ripreso animo, ma non però confidando di difendere i borghi, si fermorno nella città, abbruciati pure per consiglio de' proveditori viniziani i borghi: i quali consigliorono cosí o perché giudicassino essere necessario alla difesa di quella terra o perché, con questa occasione, volessino sodisfare all'odio antico che è tra i milanesi e i viniziani. Cacciorono ancora della città, o ritenneno in onesta custodia, molti de' principali della parte ghibellina, come inclinati al nome dello imperio per lo studio della fazione e per essere nello esercito tanti della medesima parte.

Cesare intratanto si pose con l'esercito a Lambrà, vicino a due miglia a Milano; dove essendo, arrivorno a Milano i svizzeri: i quali, mostrandosi pronti a difendere quella città, recusavano di volere combattere con gli altri svizzeri. La venuta loro rendé gli spiriti a' franzesi, ma molto maggiore terrore dette a Cesare. Il quale, considerando l'odio antico di quella nazione contro alla casa di Austria, e ritornandogli in memoria quello che, per trovarsi i svizzeri in tutti due gli eserciti oppositi, fusse accaduto a Lodovico Sforza, cominciò a temere che a sé non facessino il medesimo; parendogli piú verisimile ingannassino lui, che aveva difficoltà di pagargli, che i franzesi, a' quali non mancherebbono i danari né per pagargli né per corrompergli: e accrescevagli la dubitazione che Iacopo Stafflier, capitano generale de' svizzeri, gli aveva con grande arroganza domandata la paga; la quale, oltre alle altre difficoltà, si differiva perché, venendogli danari di Germania, gli erano stati ritenuti da' fanti spagnuoli che erano in Brescia, per pagarsi de' soldi corsi. Però commosso maravigliosamente dal timore di questo pericolo, levato subito l'esercito, si ritirò verso il fiume dell'Adda: non dubitando alcuno che se tre dí prima si fusse accostato a Milano, il quale tempo dimorò intorno ad Asola, i franzesi molto piú ambigui e incerti della venuta de' svizzeri sarebbono ritornati di là da' monti; anzi non si dubita, che se cosí presto non si partivano, o che i franzesi, non si confidando pienamente de' svizzeri per il rispetto dimostravano a quei che erano con Cesare, arebbono seguitato il primo consiglio, o che i svizzeri medesimi, presa scusa dal comandamento de' suoi superiori che già era espedito, arebbono abbandonato i franzesi.

Passò Cesare il fiume dell'Adda non lo seguitando i svizzeri; i quali, protestando di partirsi se non erano pagati tra quattro dí, si fermorno a Lodi; dando continuamente Cesare, che si era fermato nel territorio di Bergamo, speranza de' pagamenti, perché diceva aspettare nuovi danari dal re di Inghilterra, e minacciando di ritornare a Milano: cosa che teneva in sospetto grandissimo i franzesi, incerti piú che mai della fede de' svizzeri. Perché, oltre alla tardità usata studiosamente nel venire e l'avere sempre detto non volere combattere contro a' svizzeri dell'esercito inimico, era venuto il comandamento de' cantoni che partissino dagli stipendi de' franzesi; per il quale ne erano già partiti circa duemila e si temeva che gli altri non facessino il medesimo: benché i cantoni, da altra parte, affermavano al re avere occultamente comandato a' suoi fanti il contrario. Finalmente Cesare, il quale, riscossi dalla città di Bergamo sedicimila ducati, era andato sotto speranza di uno trattato verso Crema, ritornato senza fare effetto nel bergamasco, deliberò di andare a Trento. Però, significata a' capitani dell'esercito la sua deliberazione, e affermato muoversi a questo per fare nuovi provedimenti di danari, co' quali e con quegli del re di Inghilterra, che erano in cammino, ritornerebbe subito, gli confortò ad aspettare il suo ritorno: i quali, saccheggiato Lodi ed espugnata senza artiglierie la fortezza e saccheggiata la terra di Santangelo, stretti dal mancamento delle vettovaglie, si erano ridotti nella Ghiaradadda. È fama che Cesare nel medesimo parlamento, perché i cappelletti de' viniziani (sono il medesimo i cappelletti che gli stradiotti), divisi in piú parti e correndo per tutto il paese infestavano dí e notte l'esercito, stracco insieme con gli altri da tante molestie, disse a' suoi che si guardassino da' cappelletti, soggiugnendo (se è vero quel che allora si divulgò) che gli erano sempre, come si diceva di Iddio, in qualunque luogo.

Fu dopo la partita di Cesare qualche speranza che i svizzeri, co' quali a Romano si uní tutto l'esercito, passassino di nuovo il fiume dell'Adda; perché nel campo era venuto il marchese di Brandiborg, e a Bergamo il cardinale sedunense con trentamila ducati mandati dal re di Inghilterra: per il quale timore il duca di Borbone, da cui erano partiti quasi tutti i svizzeri, e i soldati viniziani erano venuti con l'esercito in sulla riva di là dal fiume. Ma diventorno facilmente vani i pensieri degli inimici, perché i svizzeri, non bastando i danari venuti a pagare gli stipendi già corsi, ritornorno per la valle di Voltolina al paese loro; e per la medesima cagione tremila fanti, parte spagnuoli parte tedeschi, passorono nel campo franzese e viniziano. Il quale, avendo passato il fiume dell'Adda, non aveva cessato di infestare piú dí con varie scorrerie e scaramuccie gli inimici, con accidenti vari, ora ricevendo maggiore danno i franzesi (i quali in una scaramuccia grossa appresso a Bergamo perderono circa dugento uomini d'arme), ora gli inimici, de' quali in uno assalto simile fu preso Cesare Fieramosca: il resto della gente, ricevuto uno ducato per uno, si accostò a Brescia; ma, essendo molto molestati da' cavalli leggieri, Marcantonio Colonna co' fanti tedeschi e con alcuni fanti spagnuoli entrò in Verona, e gli altri tutti si dissolverono.

Questo fine ebbe il movimento di Cesare, nel quale al re fu molto sospetto il pontefice; perché avendolo ricercato che, secondo gli oblighi della lega fatta tra loro, mandasse cinquecento uomini d'arme alla difesa dello stato di Milano, o almeno gli accostasse a' suoi confini, e gli pagasse tremila svizzeri, secondo allegava avere offerto ad Antonmaria Palavicino, il pontefice, rispondendo freddamente al pagamento de' svizzeri e scusando essere male in ordine le genti sue, prometteva mandare quelle de' fiorentini: le quali con alcuni de' soldati suoi si mossono molto lentamente verso Bologna e verso Reggio. Accrebbe il sospetto, che la venuta di Cesare fusse stata con sua partecipazione, l'avere creato legato a lui, come prima intese essere entrato in Italia, Bernardo da Bibbiena cardinale di Santa Maria in Portico, solito sempre a impugnare appresso al pontefice le cose franzesi; e molto piú l'avere permesso che Marcantonio Colonna seguitasse con le sue genti l'esercito di Cesare. Ma la verità fu [che al pontefice fu] molesta, per l'interesse proprio, la venuta di Cesare con tante forze, temendo che vincitore non tentasse di opprimere, secondo l'antica inclinazione, tutta Italia; ma per timore, e perché questo procedere era conforme alla sua natura, occultando i suoi pensieri, si ingegnava farsi odioso il meno che poteva a ciascuna delle parti. Però non ardí rivocare Marcantonio, non ardí mandare gli aiuti debiti al re, creò il legato a Cesare; e da altra parte, essendo già partito Cesare da Milano, operò che il legato, simulando infermità, si fermasse a Rubiera, per speculare innanzi passasse piú oltre dove inclinavano le cose: e dipoi, per mitigare l'animo del re, volle che Lorenzo suo nipote, continuando la simulazione della dependenza cominciata a Milano, gli facesse donare da' fiorentini i danari da pagare per uno mese tremila svizzeri; i quali danari benché il re accettasse, diceva nondimeno, dimostrando di conoscere le arti del pontefice, che, poiché sempre gli era contrario nella guerra né la confederazione fatta seco gli aveva giovato ne' tempi del pericolo, voleva di nuovo farne un'altra che non l'obligasse se non nella pace e ne' tempi sicuri.

Dissoluto l'esercito di Cesare, i viniziani, non aspettati i franzesi, si accostorno all'improviso una notte a Brescia con le scale, confidandosi nel piccolo numero de' difensori, perché non vi erano rimasti piú che secento fanti spagnuoli e quattrocento cavalli; ma non essendo le scale lunghe a bastanza, e resistendo valorosamente quegli di dentro, non l'ottennono. Sopravenne poi l'esercito franzese sotto Odetto di Fois, eletto nuovamente successore al duca di Borbone, partito spontaneamente dal governo di Milano. Assaltorno questi eserciti Brescia con l'artiglierie da quattro parti, acciò che gli assediati non potessino resistere in tanti luoghi: i quali si sostentorno mentre ebbono speranza che settemila fanti del contado di Tiruolo, venuti per comandamento di Cesare alla montagna, passassino piú innanzi; ma come questo non succedette, per l'opposizione fatta da' viniziani alla rocca d'Anfo e ad altri passi, essi non volendo aspettare la battaglia che, essendo già in terra spazio grande di muraglia, si doveva dare il dí seguente, convennono i soldati di uscire della terra e della fortezza, con le cose loro solamente, se infra un dí non erano soccorsi.

 

Cap. xxi

Monitorio del pontefice contro il duca di Urbino. Occupazione del ducato da parte di Lorenzo de' Medici; resa delle fortezze. Investitura di Lorenzo. Ragioni di sospetti e di malcontento del re di Francia riguardo al pontefice.

In questi tempi medesimi il pontefice, preparandosi di spogliare con l'armi del ducato di Urbino Francesco Maria della Rovere, cominciò a procedere con le censure contro a lui, publicato un munitorio nel quale si narrava che, essendo soldato della Chiesa, denegandogli le genti per le quali avea ricevuto lo stipendio, si era convenuto secretamente cogli inimici: l'omicidio antico del cardinale di Pavia, del quale era stato assoluto per grazia non per giustizia; altri omicidi commessi da lui; l'avere mandato, nel maggiore fervore della guerra tra 'l pontefice Giulio (del quale era nipote, suddito e capitano) [e il re di Francia], Baldassarre da Castiglione per condursi a' soldi del re; l'avere nel tempo medesimo negato il passo ad alcune genti che andavano a unirsi coll'esercito della Chiesa, e perseguitati, nello stato quale possedeva come feudatario della sedia apostolica, i soldati della medesima sedia fuggiti del fatto d'arme di Ravenna. Aveva il pontefice avuto nell'animo di muovergli, piú mesi prima, la guerra, movendolo, oltre alle ingiurie nuove, lo sdegno quando negò di aiutare il fratello e lui a ritornare in Firenze; ma lo riteneva alquanto la vergogna di perseguitare il nipote di colui per opera del quale era salita la Chiesa a tanta grandezza, e molto piú i prieghi di Giuliano suo fratello; il quale, nel tempo dello esilio loro, dimorato molti anni nella corte di Urbino appresso il duca Guido e, morto lui, appresso al duca presente, non poteva tollerare che da loro medesimi fusse privato di quel ducato nel quale era stato sostentato e onorato. Ma morto dopo lunga infermità Giuliano de' Medici in Firenze e diventato vano il movimento di Cesare, il pontefice, stimolato da Lorenzo nipote e da Alfonsina sua madre, cupidi di appropriarsi quello stato, deliberò non tardare piú; allegando per scusa della ingratitudine, la quale da molti era rimproverata, non solamente l'offese ricevute da lui, le pene nelle quali secondo la disposizione della giustizia incorreva uno vassallo contumace al suo signore, uno soldato il quale obligatosi e ricevuti i danari denegava le genti a chi l'aveva pagate, ma molto piú essere pericoloso il tollerare, nelle viscere del suo stato, colui il quale avendo cominciato, senza rispetto della fede e dell'onore, a offenderlo, poteva essere certo che quanto maggiore si dimostrasse l'occasione tanto piú sarebbe pronto a fare per l'avvenire il medesimo.

Il progresso di questa guerra fu che, come Lorenzo, coll'esercito raccolto de' soldati e de' sudditi della Chiesa e de' fiorentini, toccò i confini di quel ducato, la città di Urbino e l'altre terre di quello stato si dettono volontariamente al pontefice; consentendo il duca, il quale si era ritirato a Pesero, che, poi che non gli poteva difendere, si salvassino. Fece e Pesero il medesimo, come l'esercito inimico si fu accostato: perché, con tutto vi fussino tremila fanti, la città fortificata e il mare aperto, Francesco Maria, lasciato nella rocca Tranquillo da Mondolfo suo confidato e i capitani e i soldati nella terra, se ne andò a Mantova, dove prima avea mandato la moglie e il figliuolo; o non si confidando a soldati la maggiore parte non pagati o, come molti scusando il timore con l'amore affermavano, impaziente di stare assente dalla moglie. Cosí il ducato di Urbino, insieme con Pesero e con Sinigaglia, venne in quattro dí soli alla ubbidienza della Chiesa, eccettuate le fortezze di Sinigaglia e di Pesero, San Leo, e la rocca di Maiuolo. Arrendessi quasi immediate quella di Sinigaglia; e quella di Pesero, benché fortissima, battuta due dí con l'artiglierie, convenne di arrendersi se fra venti dí non era soccorsa, con condizione che in quel mezzo non vi si facesse ripari né alcuna fortificazione: il quale patto male osservato fu cagione che Tranquillo, non avendo avuto soccorso infra il termine convenuto, recusò di consegnarla, e cominciato di nuovo a tirare l'artiglierie assaltò la guardia di fuora. Ma era piú dura la sua condizione, perché, ritornatosene, avuta che fu la terra, Lorenzo a Firenze, i capitani restati nello esercito avevano fatto trincee intorno alla rocca e messo in mare certi navili per vietare non vi entrasse soccorso: però, spirato il termine, si cominciò subito a batterla; ma il dí medesimo i soldati che vi erano dentro, fatto tumulto contro a Tranquillo, lo dettono per salvare sé ai capitani, da' quali in pena della sua contravenzione fu condannato al supplicio delle forche. Arrendessi pochi dí poi la rocca di Maiuolo, luogo necessario ad assediare San Leo, perché è vicina a un miglio e situata allo opposito di quella. Intorno a San Leo furno messi duemila fanti che lo tenessino assediato, perché per il sito suo fortissimo niuna speranza vi era di ottenerlo se non per l'ultima necessità della fame; e nondimeno, tre mesi poi, fu preso furtivamente per invenzione maravigliosa di uno maestro di legname il quale, salito una notte per una lunghissima scala sopra uno dirupato che era riputato il piú difficile di quel monte, e fatta portare via la scala, dimorato in quel luogo tutta la notte, cominciò, subito che apparí il dí, a salire con certi ferramenti, tanto che si condusse insino alla sommità del monte; donde scendendo, e con gli instrumenti di ferro facilitando alcuni de' luoghi piú difficili, la notte seguente, per la medesima scala, se ne ritornò agli alloggiamenti: dove fatto fede potersi salire, ritornò la notte deputata per la medesima scala, seguitandolo cento cinquanta fanti de' piú eletti; co' quali fermatosi in sul dirupato, come fu l'alba del dí, perché era impossibile salire di notte piú alto, cominciorno per quegli luoghi strettissimi a salire uno a uno. Ed erano già montati alla sommità del monte circa trenta di loro con uno tamburino e con sei insegne, e occultatisi in terra aspettavano i compagni che montavano; ma essendo dí alto, una guardia che partiva dal luogo suo gli vidde cosí prostrati in terra, e avendo levato il romore, essi vedutisi scoperti, non aspettati altrimenti i compagni, dettono il cenno come erano convenuti a quegli del campo: i quali, secondo l'ordine dato, assaltorono subito con molte scale il monte da molte parti, per divertire quegli di dentro. I quali, correndo ciascuno a' luoghi ordinati spaventati per vedere già dentro sei insegne che scorrevano il piano del monte e avevano morto qualcuno di loro, si rinchiusono nella fortezza, che è murata nel monte: dove essendo già saliti degli altri dopo i primi, apersono la porta per la quale si entrava in sul monte; per la quale entrati gli altri che ancora non erano saliti, e cosí preso il monte, quegli che erano nella rocca, benché la fusse bene proveduta di ogni cosa, si arrenderono il secondo dí. Acquistato con l'armi quello stato, che insieme con Pesero e Sinigaglia, membri separati dal ducato di Urbino, non era di entrata di piú di venticinquemila ducati, Leone, seguitando il processo cominciato, ne privò per sentenza Francesco Maria, e di poi ne investí nel concistorio Lorenzo suo nipote; aggiugnendo, per maggiore validità, alla bolla espedita sopra questo atto la soscrizione della propria mano di tutti i cardinali. Co' quali non volle concorrere Domenico Grimanno vescovo di Urbino, e molto amico di quel duca: donde temendo lo sdegno del pontefice partí, pochi dí poi, da Roma; né vi ritornò mai se non dopo la sua morte.

Era stata molesta al re di Francia l'oppressione del duca di Urbino, spogliato per quel che aveva trattato seco: erangli piú moleste molte opere del pontefice. Perché essendosi Prospero Colonna, quando ritornava di Francia, fermato a Busseto terra de' Palavicini, e dipoi per sospetto de' franzesi venuto a Modona, dove medesimamente era rifuggito Ieronimo Morone, insospettito de' franzesi, che contro alle promesse fatte gli aveano comandato che andasse in Francia, trattavano continuamente, mentre che Prospero stette a Modona e poi a Bologna, di occupare per mezzo di alcuni fuorusciti furtivamente qualche luogo importante del ducato di Milano; concorrendo alle medesime pratiche Muzio Colonna, a cui il pontefice, conscio di queste cose, avea consentito alloggiamento per la compagnia sua nel modonese. Aveva inoltre il pontefice confortato il re cattolico (cosí dopo la morte dell'avolo materno si chiamava l'arciduca) che non facesse nuove convenzioni col re di Francia; e appresso a' svizzeri Ennio vescovo di Veroli nunzio apostolico, che poi quasi decrepito fu promosso al cardinalato, oltre a molti altri offici molesti al re confortava i cinque cantoni a seguitare l'amicizia di Cesare. Onde trattandosi nel medesimo tempo tra Cesare, il quale fermatosi tra Trento e Spruch spaventava piú i franzesi con le dimostrazioni che con gli effetti, e il re di Inghilterra e i svizzeri che di nuovo si assaltasse il ducato di Milano, temeva il re di Francia che queste [cose] non si trattassino con volontà del pontefice; del quale appariva anche in altro il malo animo, perché con varie eccezioni interponeva difficoltà nel concedergli la decima de' benefici del regno di Francia promessagli a Bologna. E nondimeno (tanta è la maestà del pontificato) il re si ingegnava di placarlo con molti offici: onde, volendo, dopo la partita di Cesare, molestare, per trarne danari, la Mirandola, Carpi e Coreggio come terre imperiali, se ne astenne per le querele del pontefice, che prima avea ricevuti i signori di quelle terre in protezione; e infestando i mori d'Affrica con molti legni il mare di sotto, gli offerse di mandare, per sicurtà di quelle marine, molti legni che Pietro Navarra armava a Marsilia di consentimento suo, per assaltare, solo per la speranza di predare, con seimila fanti i liti della Barberia. E nondimeno il pontefice, perseverando nella sentenza sua, con tutto che parte negasse parte scusasse queste cose, non consentí mai non che altro alla sua dimanda, fatta con grande instanza, di rimuovere il vescovo verulano del paese de' svizzeri; né mai rimosse Muzio Colonna del modonese, ove fingeva essere alloggiato di propria autorità, se non quando, partito Prospero da Bologna e rimaste vane tutte le cose che si trattavano, non era piú di momento alcuno la stanza sua. Al quale fu infelicissimo il partirsi, perché non molto poi, entrato con le forze de' Colonnesi e con alcuni fanti spagnuoli furtivamente di notte in Fermo, morí in spazio di pochi giorni d'una ferita ricevuta la notte medesima mentre dava opera a saccheggiare quella città.

 

Cap. xxii

Trattative fra il re di Francia e il re di Spagna. Milizie francesi nel veronese e nel mantovano; rifiuto di fanti tedeschi del Lautrech di assalire Verona. Accordi a Noion fra Francia e Spagna. Francesi e veneziani contro Verona. Il Lautrech si ritira a Villafranca; rinforzi in Verona. Pace fra Cesare e il re di Francia; accordi del re cogli svizzeri. Verona ritorna ai veneziani.

In questo stato delle cose facendo il senato veneto instanza per la ricuperazione di Verona, Lautrech, avendo nell'esercito seimila fanti tedeschi i quali a questa impresa erano convenuti pagare i viniziani, venne in sull'Adice per passare il fiume a Usolingo e accamparsi insieme coll'esercito veneto a Verona; ma dipoi, crescendo la fama della venuta de' svizzeri e per il sospetto della stanza di Prospero Colonna in Modena, cresciuto per essersi fermato nella medesima città il cardinale di Santa Maria in Portico, si ritirò non senza querela de' viniziani a Peschiera, distribuite le genti di qua e di là dal fiume del Mincio: nel quale luogo, con tutto che fussino cessati i sospetti già detti e che di Verona fussino passati agli stipendi veneti piú di dumila fanti tra spagnuoli e tedeschi e continuamente ne passassino, soprastette piú d'un mese, aspettando, secondo diceva, danari di Francia e che i viniziani facessino provedimenti maggiori di danari di artiglierie e munizioni. Ma la cagione piú vera era che aspettava quel che succedesse delle cose che si trattavano tra 'l suo re e il re cattolico. Perché il re di Francia, conoscendo quanto a quell'altro re fusse necessaria la sua amicizia per rimuoversi le difficoltà del passare in Ispagna e dello stabilimento di quegli regni, non contento a quel che prima si era concordato a Parigi, cercava di imporgli piú dure condizioni, e di pacificarsi per mezzo suo con Cesare, il che non si poteva fare senza la restituzione di Verona a' viniziani; e il re di Spagna per consiglio di [monsignore] di Ceures con l'autorità del quale, essendo nell'età di quindici anni, totalmente si reggeva, non recusava di accomodare a' tempi e alle necessità le sue deliberazioni. Però erano congregati a Noion, per la parte del re di Francia, il vescovo di Parigi il gran maestro della sua casa e il presidente del parlamento di Parigi, e per la parte del re cattolico il medesimo di Ceures e il gran cancelliere di Cesare.

L'esito delle quali cose mentre che Lautrech aspetta, si esercitavano continuamente, come è il costume della milizia del nostro secolo, le armi contro agli infelici paesani: perché e Lautrech, gittato il ponte alla villa di Monzambaino, attendeva a tagliare le biade del contado di Verona e a fare correre per tutto i cavalli leggieri, e avendo mandato una parte delle genti ad alloggiare nel mantovano, distruggeva con gravissimi danni quel paese, dalla quale molestia per liberarsi il marchese di Mantova fu contento di pagargli dodicimila scudi; e i soldati di Verona, correndo ogni dí nel vicentino e nel padovano, saccheggiorono la misera città di Vicenza. Passò pur poi Lautrech, stimolato con gravissime querele da' viniziani, l'Adice per il ponte gittato a Usolingo, e fatta per il paese grandissima preda, perché non si era mai creduto che l'esercito passasse da quella parte, si accostò a Verona per porvi il campo; avendo in questo mezzo, con l'aiuto degli uomini del paese, occupata la Chiusa, per fare piú difficile il passare al soccorso che venisse di Germania. Ma il medesimo dí che si accostò a Verona, i fanti tedeschi, o spontaneamente o subornati da lui tacitamente, ancora che sostentati già tre mesi colle pecunie de' viniziani, protestorno non volere, ove non era l'interesse principale del re di Francia, andare all'espugnazione di una terra posseduta da Cesare. Però Lautrech, ripassato l'Adice, si allontanò uno miglio dalle mura di Verona; e l'esercito veneto, nel quale erano cinquecento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e quattromila fanti, non gli parendo stare sicuro di là dal fiume, andò a unirsi con lui.

Nel qual tempo i deputati de' due re convennero, il quintodecimo dí di agosto, a Noion, in questa sentenza: che tra il re di Francia e il re di Spagna fusse pace perpetua e confederazione, per difensione degli stati loro contro a ciascuno: che il re di Francia desse la figliuola, che era di età di uno anno, in matrimonio al re cattolico, dandogli per dote le ragioni che pretendeva appartenersegli al regno di Napoli, secondo la partigione già fatta da' loro antecessori, ma con patto che insino che la figliuola non fusse di età abile al matrimonio pagasse il re cattolico, per sostentazione delle spese di lei, al re di Francia, ciascuno anno, centomila scudi; la quale se moriva innanzi al matrimonio e al re ne nascesse alcuna altra, quella con le medesime condizioni si desse al re cattolico; e in caso non ve ne fusse alcuna, Renea, quella che era stata promessa nella capitolazione fatta a Parigi; e morendo qualunque di esse nel matrimonio senza figliuoli, ritornasse quella parte del regno di Napoli al re di Francia: che il re cattolico restituisse al re antico il reame di Navarra fra certo tempo, e non lo restituendo fusse lecito al re di Francia aiutargliene recuperare, ma, secondo che poi affermavano gli spagnuoli, se prima quel re gli faceva constare delle sue ragioni: avesse Cesare facoltà di entrare in termine di due mesi nella pace, ma quando bene vi entrasse fusse lecito al re di Francia di aiutare i viniziani alla recuperazione di Verona; la quale città se Cesare metteva in mano del re cattolico, con facoltà di darla infra sei settimane libera al re di Francia che ne potesse disporre ad arbitrio suo, gli avessino a essere pagati da lui centomila scudi, e centomila altri, parte nell'atto della consegnazione, parte fra sei mesi, da' viniziani, e liberato di circa trecentomila avuti dal re Luigi quando erano confederati; e che in tal caso fusse tregua per diciotto mesi tra Cesare e i viniziani, e che a Cesare rimanesse Riva di Trento e Rovereto con tutto quello che allora nel Friuli possedeva, e i viniziani continuassero di tenere le castella che allora tenevano di Cesare insino a tanto che il re di Francia e il re di Spagna terminassero tra loro le differenze de' confini. Nominò l'una parte e l'altra il pontefice.

Per la concordia fatta a Noion non cessorno i viniziani di stimolare Lautrech che si ponesse il campo a Verona, perché erano incerti se Cesare accetterebbe la pace e perché, per la quantità de' danari che gli arebbono a pagare, desideravano il recuperarla piú presto con l'armi. Da altra parte al re di Francia, per lo stabilimento della pace con Cesare, era piú grata la concordia che la forza; e nondimeno Lautrech, non gli rimanendo piú scusa alcuna, perché i viniziani aveano copiosamente soldati fanti e fatto tutti i provedimenti dimandati da lui, né i lanzchenech ricusavano piú di andarvi insieme con gli altri, consentí alla volontà loro. Però gli eserciti passorono separatamente il fiume dello Adice, l'uno per uno ponte gittato di sopra alla città l'altro per uno ponte gittato di sotto. Dell'artiglierie dell'esercito franzese, posto alla Tomba, una parte si pose alla porta di Santa Lucia l'altra co' fanti tedeschi alla porta di San Massimo per battere poi tutti ove il muro tra la cittadella e la città si viene a congiugnere col muro della terra; acciò che, potendo in uno tempo medesimo entrare nella cittadella e nella città, quegli di dentro avessino necessità di dividersi, per rispetto del muro di mezzo, in due parti. Passò l'esercito viniziano di sotto a Verona in Campo Marzio, e si pose a Santo Michele tra 'l fiume e il canale, per levare quivi le offese e battere alla porta del Vescovo, parte piú debole e manco munita. Levoronsi ne' primi due dí con l'artiglierie l'offese, che erano assai forti e per fianco; ma con maggiore difficoltà si levorono, dal canto de' viniziani, l'offese de' tre bastioni: le quali levate, cominciò ciascuna delle parti a battere la muraglia con diciotto pezzi grossi di artiglieria e quindici pezzi mezzani per batteria, e il terzo dí erano da ciascuno degli eserciti gittate in terra settanta braccia di muraglia e si continuava di battere per farsi molto piú larga la strada; e nondimeno i viniziani, dalla parte de' quali era la muraglia piú debole, ancora che avessino abbattuti quasi tutti i bastioni e ripari, non avevano mai levato interamente le offese di dentro per fianco, perché erano tanto basse, e quasi nel fosso, che l'artiglierie o passavano di sopra o innanzi vi arrivassino battevano in terra. Tagliavasi anche nel tempo medesimo il muro co' picconi; il quale, con tutto che puntellato, anticipò di cadere innanzi al tempo disegnato da' capitani. In Verona erano ottocento cavalli cinquemila fanti tedeschi e [mille cinquecento] spagnuoli sotto il governo di Marcantonio Colonna, non piú soldato del pontefice ma di Cesare; i quali, attendendo a riparare sollecitamente e provedendo e difendendo valorosamente per tutto dove fusse necessario, dimostravano ferocia grande: con somma laude di Marcantonio, il quale, ferito benché leggiermente da uno scoppietto nella spalla, non cessava di rappresentarsi a qualunque ora del dí e della notte, a tutte le fatiche e pericoli. Già l'artiglierie piantate da' franzesi in quattro luoghi dove erano le torri, tralla porta della cittadella e la porta di Santa Lucia, aveano fatta ruina tale che ciascuna delle rotture era capace a ricevere i soldati in ordinanza; né molto minore progresso avevano fatto quelle de' viniziani: e nondimeno Lautrech dimandava nuove artiglierie per fare la batteria maggiore, abbracciando prontamente, benché reclamando invano i viniziani i quali stimolavano si desse la battaglia, qualunque occasione che si offeriva di differire. Perché era accaduto che, venendo per il piano di Verona allo esercito ottocento bariglioni di polvere in sulle carra e molte munizioni, il volere i conduttori de' buoi entrare l'uno innanzi all'altro gli fece in modo accelerare che, per la collisione delle ruote suscitato il fuoco, abbruciò la polvere insieme con le carra e co' buoi che la conducevano. Ma agli assediati si aggiugneva un'altra difficoltà, perché nella città, stata vessata dalla propinquità degli inimici già tanti mesi, cominciavano a mancare le vettovaglie; non ve ne entrando se non piccola quantità e occultamente per la via de' monti. Stando le cose di Verona [in questo termine], sopravennono [nove] mila fanti tedeschi mandati da Cesare per soccorrere quella città; i quali pervenuti alla Chiusa l'ottennero per concordia, e occuporno il castello della Corvara, passo in sul monte propinquo all'Adice verso Trento, stato nella guerra tra Cesare e i viniziani occupato dall'una parte e dall'altra piú volte. Per l'approssimarsi di questi fanti, Lautrech, o temendo o simulando di temere, levato il campo contro alla volontà de' viniziani, si ritirò a Villafranca e con lui una parte delle genti viniziane, l'altre sotto Giampaolo Manfrone si ritirorno al Boseto di là dall'Adice, col ponte preparato: né si dubitando piú che aspettava se Cesare accettava la concordia di Noion, come gli dava speranza uno mandato a lui dal re cattolico, i viniziani, disperati dell'espugnare Verona, mandorno tutte l'artiglierie grosse parte a Padova parte a Brescia. Dunque, non avendo ostacolo, i fanti tedeschi si fermorono alla Tomba dove prima alloggiava l'esercito franzese, donde una parte di loro entrò nella città, l'altra, restata fuora, attendeva a mettervi vettovaglie, le quali messe dentro si partirono; rimasti a guardia di Verona sette in ottomila fanti tedeschi, perché la maggiore parte degli spagnuoli, non potendo convenire co' tedeschi, era sotto il colonnello Maldonato passata nel campo viniziano: soccorso, a giudicio di ognuno, di piccolo momento, perché non condussono seco altri danari che ventimila fiorini di Reno mandati dal re di Inghilterra, e consumorono, mentre vi stettono, tante vettovaglie che pareggiorono quasi la quantità di quelle vi condussono. Ridotte le genti a Villafranca, dove consumavano il veronese e il mantovano, furno necessitati i viniziani, (acciocché i soldati franzesi, i quali il comandamento del re non bastava a ritenere, non se ne andassino alle stanze) a provedere che la città di Brescia donasse loro tutta la vettovaglia necessaria: spesa, ciascuno dí, di piú di mille scudi.

Finalmente le cose cominciorono a riguardare manifestamente alla pace, perché si intese che Cesare, con tutto che prima avesse instantemente procurato col nipote che non convenisse col re di Francia, anteposta ultimatamente la cupidità de' danari all'odio naturale contro al nome franzese e agli antichi pensieri di dominare Italia, aveva accettata e ratificata la pace; e deliberato di restituire, secondo la forma di quelle convenzioni, Verona. Donde seguitò un'altra cosa in beneficio del re di Francia: che tutti i cantoni de' svizzeri, vedendo deporsi l'armi tra Cesare e lui, si inclinorno a convenire seco, come prima avevano fatto i grigioni; adoperandosi molto in questa cosa Galeazzo Visconte, il quale, essendo esule e in contumacia del re, ottenne da lui per questo la restituzione alla patria e in progresso di tempo molte grazie e onori. La convenzione fu: che il re pagasse a' svizzeri, in termine di tre mesi, trecento cinquantamila ducati, e dipoi in perpetuo annua pensione: fussino obligati i svizzeri concedere, per publico decreto, agli stipendi suoi, qualunque volta gli ricercasse, certo numero di fanti; ma in questo procederono diversamente, perché gli otto cantoni si obligorono a concedergli eziandio quando facesse impresa per offendere gli stati di altri, i cinque cantoni non altrimenti che per difesa degli stati propri: fusse in potestà de' svizzeri di restituire al re di Francia le rocche di Lugano e di Lucerna, passi forti e importanti alla sicurtà del ducato di Milano; ed eleggendo il restituirle, dovesse il re pagare loro trecentomila ducati. Le quali rocche, subito fatta la convenzione, gittorono in terra.

Queste cose si feciono in Italia l'anno mille cinquecento sedici. Ma ne' primi dí dell'anno seguente, il vescovo di Trento venuto a Verona offerse a Lautrech, col quale parlò tra Villafranca e Verona, di consegnare al re di Francia, infra il termine di sei mesi statuito nella capitolazione, quella città, la quale diceva tenere in nome del re di Spagna: ma rimanendo la differenza se il termine cominciava dal dí della ratificazione di Cesare o dal dí si era riconosciuto Verona tenersi per il re cattolico, si disputò sopra questo alquanti dí; ma il dimandare i fanti di Verona tumultuosamente [denari] costrinse il vescovo di Trento ad accelerare. Però, pigliando il principio del dí che Cesare gli avea fatto il mandato, convenne consegnare Verona il quintodecimo dí di gennaio: nel qual dí, ricevuti da viniziani i primi cinquantamila ducati, e quindicimila che secondo la convenzione doveano pagare a' fanti di Verona, e da Lautrech promessa di fare condurre a Trento l'artiglierie che erano in Verona, consegnò a Lautrech quella città, riceventela in nome del re di Francia; e Lautrech, immediate, in nome del medesimo re, la consegnò al senato veneto, e per lui a Andrea Gritti proveditore; rallegrandosi sommamente la nobiltà e il popolo viniziano che di guerra sí lunga e sí pericolosa avessino, benché dopo infinite spese e travagli, avuto felice fine. Perché, secondo che affermano alcuni scrittori delle cose loro, spesono in tutta la guerra fatta dopo la lega di Cambrai cinque milioni di ducati; de' quali ne estrassono, della vendita degli offici, cinquecentomila. Ma non meno si rallegravano i veronesi e tutte l'altre città e popoli sottoposti alla loro republica; perché speravano, riposandosi per beneficio della pace, aversi a liberare da tante vessazioni e tanti mali, che cosí miserabilmente avevano, ora da una parte ora dall'altra, tanto tempo sopportati.

Indice Libri - Freenfo.net