Giovanni Battista Ramusio

NAVIGAZIONI ET VIAGGI

Volume primo



All'eccellentiss. M. Ieronimo Fracastoro
Gio. Battista Ramusio


Fu costume degli antichi, continovato insino ai tempi nostri, che quelli che le lor composizioni o in prosa o in verso desideravano di mandare in luce, le dedicassero a uomini che potessero far giudicio di quelle, o vero ad amici che le desiderassero di leggere, o vero a quelli che con lo splendor del nome loro le facessero aver maggior credito e riputazione. La qual usanza volendo io osservare in questa mia fatica - quale ella si sia - ch'io ho preso in raccogliere e metter insieme alcuni scrittori delle cose dell'Africa e dell'India, non truovo uomo a chi la debba piú convenientemente raccomandare, che mi sodisfaccia nelle cose sopradette, salvo che l'Eccel. Vostra, perciocbé nessuno penso che la possa meglio di lei giudicare, o che con maggiore affezione la desideri di leggere, o che col chiaro nome suo gli acquisti e piú credito e piú lunga memoria. Prima perché essa, cb'è tanto instrutta della geografia quanto altri ch'io conosca, giudicando ch'io in ciò avessi a recar qualche giovamento agli uomini, fu quella che da principio m'indusse con la sua auttorità a questa impresa, e ancora con molte ragioni altre fiate me ne confortò per mezo de' suoi savi discorsi e dolci ragionamenti avuti col magnifico conte Rimondo dalla Torre, che con tanto suo diletto l'ascoltava disputare sí dottamente de' moti de' cieli e del sito della terra. Poscia, perché ho voluto lasciare a' nostri posteri con questa mia fatica quasi una testimonianza della nostra lunga e santa amicizia, non potendo meglio al debito della riverenza ch'io le debbo e all'agezione ch'essa mi porta sodisfare, essendo certissimo che le sarà cara e la leggerà volentieri.
Ma se voglio poi adempire il desiderio ch'io ho, che questa mia fatica resti qualche tempo viva appresso degli uomini, con qual miglior modo lo posso fare che col raccomandarla al chiaro nome vostro? Il qual tengo per fermo che dopo la morte del corpo abbia da rimanere immortale, conciosiacosaché l'Eccel. Vostra sia stata quella che sola a' tempi nostri abbia rinovato il divino modo dello scrivere degli antichi circa le scienzie, non imitando o da libro a libro mutando e trascrivendo o dichiarando - come molti fanno - le cose d'altri, ma piú tosto, con la sottilità dell'ingegno suo diligentemente considerando, abbia recato al mondo molte cose nuove prima non udite né punto d'altrui imaginate: come nell'astronomia alcuni nuovi e certissimi moti de' cieli e la sottilissima ragion degli omocentrici; in filosofia il secreto modo per lo qual si crea in noi la intelligenza e la non conosciuta via di cercar le cause mirabili ch'a tutti i passati secoli erano state occulte, come e della concordia e discordia naturale che in molte cose esser veggiamo; in medicina le cause delle contagiose infermitadi e gli exquisiti e presentanei rimedi di quelle, lasciando adietro il divino poema della sua "Sifilide", il quale, benché nella gioventú da lei fusse scritto come per giuoco, nondimeno è pieno di tante belle cose di filosofia e di medicina, e di sí divini concetti vestito, e dipinto di tanti vari e poetici fiori, che gli uomini de' tempi nostri non dubitan punto di agguagliarlo all'antiche poesie e averlo nel numero di quelli che meritano di vivere ed esser letti per infiniti secoli.
Gli stati, le signorie, le ricchezze e cose simili concedute dalla fortuna furon sempre riputate - sí come veramente sono - instabili e di poca vita, dove il tesoro dell'animo, e massimamente del pregio ch'è quello di V. Eccell., si sa certo ch'è saldo e che resiste ad ogni ingiuria e violenza di tempo e si sforza a mal suo grado di farsi eterno e immortale. E che questo cb'io dico sia vero,. chi vorrà discorrer la vita d'infiniti gran principi e signori stati in Italia e in altre parti del mondo e, per dir meglio, di quelli che furon poco avanti a' nostri tempi, troverà cbiaramente di molti, anzi. della maggior parte, che il medesimo sepolcro che coperse il corpo oscurò parimente il nome loro, e pur di molti dotti scrittori morti già molti secoli vive ancora la memoria negli uomini e ogni ora piú fresca fiorisce. Giudico adunque, per quel fine ch'io debbo sopra il tutto desiderare, di aver fatto ottima elezione. oltracbé io sono anche stato indotto da un certo instinto di naturale affezione e osservanza verso gli uomini ornati di lettere e della scienza delle celesti e naturali cose ripieni, parendomi che in sé ritenghino non so che di divino che sopra gli altri uomini gli fa degni di onore e di maraviglía.
Ma la cagione che mi fece affaticar volentieri in questa opera fu che, vedendo e considerando le tavole della "Geografia" di Tolomeo, dove si descrive l'Africa e la India, esser molto imperfette rispetto alla gran cognizione che si ha oggi di quelle regioni, ho stimato dover esser caro e forse non poco utile al mondo il mettere insieme le narrazioni degli scrittori de' nostri tempi che sono stati nelle sopradette parti del mondo e di quelle han parlato minutamente; alle quali aggiugnendo la descrizion delle carte marine portoghesi, si potrian fare altretante tavole che sarebbero di grandissima satisfazione a quelli che si dilettano di tal cognizione, perché sarian certi dei gradi, delle larghezze e lunghezze almanco delle marine di tutte queste parti, e de' nomi de luoghi, città e signori che vi abitano al presente, e potrian conferirle con quel tanto che ne hanno scritto gli auttori antichi. Nella qual opera quanto un debile e piccolo ingegno come è il mio abbia durato di fatica, massimamente per la diversità delle lingue nelle quali detti auttori banno scritto, non voglio ora dirlo, accíoché non para che con parole aggrandisca le fatiche e vigilie mie: ma i benigni lettori, a ciò pensando, spero che per se medesimi in qualche parte lo conosceranno. E se pur noi abbiamo mancato in molti luoghi - il che confesso esser il vero -, non è però proceduto dalla poca diligenza nostra, ma píú tosto perché il valor dell'ingegno non ha potuto pareggiarsi all'ardore della buona volontà. Oltraché gli esemplari che mi son venuti alle mani erano estremamente guasti e scorretti, cosa che averia sbigottito ogni forte e gagliardo intelletto, se non fusse stato sostenuto dalla considerazione del piacere ch'erano per dover pigliar tutti gli studiosi delle cose di geografia, e massimamente di questa parte dell'Africa scritta da Giovan Lioni; della quale a' tempi nostri non si sa che per alcuno altro auttore ne sia stata data notizia, o almeno cosí copiosamente e con tanta certezza. Ma che dico io del piacere che ne aranno li dotti e studiosi? Chiè colui che possa dubitare che ancor molti dei signori e principi non si abbiano a dilettare di cosí fatta lezione? Ai quali piú che ad alcuno altro appartiene il saper i secreti e particolarità della detta parte del mondo e tutti i siti delle regioni, provincie e città di quella, e le dependenzie che hanno l'uno dall'altro i signori e popoli che vi abitano. Perché, ancora che ne possino esser informati e instrutti da altri che abbino quei paesi trascorsi, gli scritti e ragionamenti de' quali essi leggendo e udendo hanno già fatto giudicio esser molto copiosi, son certissimo che, leggendo questo libro e considerando le cose in esso comprese e dichiarate, conosceranno quelle lor narrazioni a comparazione di questa esser brievi, manche e di poco momento, tanto sarà il frutto ch'a piena satisfazione d'ogni lor desiderio ne trarranno i lettori.
Questo nostro auttore ebbe molta pratica nelle corti de' príncipi di Barberia e fu con essi in molte espedizioni ne' tempi nostri, della cui vita dirò quello che ne ho ritratto da persone degne di fede, che nella città di Roma l'han conosciuto e praticato. Costui duncbe fu Moro, nato in Granata, e nell'acquisto che di quel regno fece il Re Catolico essendo con tutti i suoi fuggito in Barberia e nella città di Fessa avendo dat'opera agli studi delle lettere arabe, nella qual lingua compose molti libri d'istorie che fin ora non si son vedute e anche un libro di grammatica, che diceva maestro Iacob Mantíno ebreo, medico eccellente della nostra età, avere appresso di se, andò peragrando tutta la Barberia, regni di Negri, Arabia, Soria, sempre scrivendo tutto ciò che vedeva e intendeva. Ultimamente nel pontificato di papa Leone preso sopra l'isola del Zerbi da alcune fuste di corsari e condotto a Roma, fu donato a Sua Santità, la quale, avendo veduto e inteso che si dilettava delle cose di geografia e già ne avea scritto un libro che seco portava, assai benignamente lo raccolse e l'accarezzò molto e diedegli una buona provisione, acciò ch'egli non si partisse, e appresso l'esortò e indusse a farsi cristiano e gli pose i due suoi nomi, cioè Giovanni e Leone. Cosí abitò poi in Roma lungo tempo, dove imparò la lingua italiana e leggere e scrivere, e tradusse questo suo libro meglío che egli seppe di arabo. Il qual libro scritto da lui medesimo, dopo molti accidenti che sariano lunghi a raccontare, pervenne nelle nostre mani; e noi con quella maggior diligenza che abbiamo potuto ci siamo ingegnati con ogni fedeltà di farlo venir in luce, nel modo che ora si legge.


Tommaso Giunti alli lettori

Io non credo che da molti anni in qua sia stata persona alcuna che meriti d'esser piú lodata e celebrata di quel che fu la buona memoria di M. Gio. Bat. Ramusio, perché, lasciando noi stare da parte cb'egli fosse pieno di lettere, e costumato quanto altro io conoscesse giamai, e d'una singolar bontà per la quale era sommamente amato in questa città e da tutti gli uomini di giudicio, fu ancora di cosí nobile e singolar intelletto che, mosso dal desiderio solamente di giovare alla posterità col darle notizia di tanti e sí lontani paesi e in gran parte non conosciuti mai dagl'antichi, raccolse da diverse parti tre bellissimi volumi, con incredibile díligenzia e con somma accortezza, i quali col suo indrizzo e governo furono da noi publicati col mezzo delle stampe nostre. E ben poteva egli ciò fare molto compíutamente, essendo tanto oltra nelle scienzie e nella cognizione ch'aveva della lingua greca e latina quanto fosse alcuno altro, e intendente anco della geografia, la cui notizia s'aveva esso acquistata parte dal continuo e diligente studio che egli poneva nel leggere i buoni autori che ne hanno trattato e parte dallo avere nella sua giovinezza praticato molt'anni in diversi paesi e provincie, mandatovi per onorati servizii di questa eccellentiss. Republica; dove gli avenne che fece medesimamente acquisto della lingua francese e della spagnuola, avendole cosí ben familiari come la sua propria natia, ed essene servito nel tradurre molte relazioni stampate in questo e negli altri volumi. Le quali fatiche cosí giudiziose e onorate se non usciron fuori la prima volta sotto il suo nome, avenne per la sua singolar e infinita modestia, che in ciascuna sua azione continuamente era solito d'usare, di modo che vivendo non comportò mai che vi fusse posto, come uomo ch'era lontano da ogni ambizione e aveva l'animo indrizzato solamente a giovare altrui.
Ma io, che mentre egli visse l'amai infinitamente sopra ciascuno altro e morto l'amerò infino che durerà la vita mia, sí come ho desiderato, cosí anco son tenuto a far tutte quelle cose le quali io stimi che sieno per acquistargli alcuna fama, non posso e non debbo in queste sue utili e onorate fatiche ormai tener piú celato il nome suo, del quale ora vederete ornati questi volumi. Da' quali si può avere piena e vera notizia, oltra le cose dell'Africa e del paese del Prete Ianni e delle Indie Orientali, delle parti anco del mondo che sono verso levante e greco tramontana fin sotto il nostro polo, e di quelle verso ponente a' nostri tempi da Spagnuoli e Francesi ritrovate, le quali non furono giamai in tanto spazio de secoli né sapute né conosciute dagli antichi: onde si può chiaramente comprendere che d'ogni intorno questo globo della terra è maravigliosamente abitato, né vi è parte alcuna vacua, ne per caldo o gíelo priva d'abitatori.
E veramente che noi possiamo dire che la sua morte è stata cagione agli uomini intendenti di gran perdita, attento cb'egli aveva in animo di produr tuttavia in questa materia cose utili e giovevoli a' begli intelletti, percioché, ancora che per i suoi molti meriti con questa Republica fusse, come uomo eccellente, stato eletto Segretario del Consiglio illustrissimo de' Signor Dieci, nel quale ufficio molti anni con beneficio publico s'esercitò in cose gravissime e importanti, pure, rubbando talora il tempo al tempo medesimo, dispensava sempre qualche ora a pro di coloro che, essendo prodi uomini, desiderano di sapere quelle cose ch'essi non sanno. Cosí Iddio n'avesse concesso grazia che vivendo lui fosse stata scoperta e pienamente conosciuta quella parte ch'è verso mezodí sotto il polo antartico, che egli averia fatto ogni opera di averne le relazioni e li viaggi per potere un giorno dar fuori anco il quarto volume, talché non avesse fatto piú di bisogno leggere né Tolomeo né Strabone ne Plinio né alcun altro degli antichi scrittori intorno alle cose di geografia.
Ora non resta dirvi altro se non che voi lodiate la diligenzia e fatica di questo uomo raro, dandogli quell'onore e lode che se gli deve, poi che con tanto vostro piacere e sodisfazione vi ha dato col suo sapere cosí grande e cosí chiaro lume nelle cose della geografia. E noi, dal lato nostro, vi promettiamo di non mancar mai in tutte quelle cose che noi conosceremo che v'abbiano da portare e diletto e giovamento, secondo il desiderio nostro, conosciuto oggimai da gran parte del mondo.


Della descrizione dell'Africa e delle cose notabili che quivi sono per Giovani Lioni Africano


PRIMA PARTE

Africa onde detta.

L'Africa nella lingua arabica è appellata Ifrichia, da faraca, verbo che nella favella degli Arabi suona quanto nella italiana "divide", e perché ella sia cosí detta sono due opinioni. L'una delle quali è percioché questa parte della terra è separata dalla Europa per il mar Mediterraneo e dall'Asia per il fiume del Nilo; l'altra è che questo tal nome sie derivato da Ifrico, re dell'Arabia Felice, il quale fu il primo che venisse ad abitarla. Costui, rotto in battaglia e scacciato dai re d'Assiria, non potendo far ritorno al suo regno col suo esercito velocemente passò il Nilo, e avendo dirizzato il cammino verso ponente, non si fermò prima che nelle parti vicine a Cartagine pervenne. E di qui è che gli Arabi non tengono quasi per Africa altro che la regione di Cartagine, e per tutta Africa comprendono la parte occidentale solamente.


Termini di Africa.
Secondo i medesimi Africani (quelli dico che hanno buona cognizione di lettere e di cosmografia) l'Africa, incominciando dai rami del lago del diserto di Gaogà, cioè da mezzogiorno, finisce dalla parte di oriente al fiume Nilo e si estende verso tramontana per insino ai piè di Egitto, cioè dove entra il Nilo nel mare Mediterraneo. Dalla parte di tramontana termina pure all'entrata del Nilo nel detto mare, estendendosi verso ponente fino allo stretto delle colonne di Ercole. Da quella di ponente si estende dal detto stretto sopra il mare Oceano fino a Nun, ultima città di Libia sul detto mare. E dalla parte del mezzogiorno comincia pure nella detta Nun e si sporge sopra l'Oceano, il quale fino ai diserti di Gaogà cinge e abbraccia tutta l'Africa.


Divisione di Africa.

Appresso i nostri scrittori l'Africa è divisa in quattro parti, cioè in Barberia, in Numidia, in Libia e nella terra de' negri. La Barberia incomincia da oriente dal monte Meies, che è la ultima punta di Atlante, appresso Alessandria circa trecento miglia. E dalla parte di tramontana ha fine al mare Mediterraneo, pigliando il principio dal monte Meies, e si estende in fino allo stretto delle sovradette colonne di Ercole. E dalla parte di ponente il termine incomincia dal detto stretto e passa oltra sul mare Oceano fino all'ultima punta di Atlante, cioè dove ha capo dalla parte occidentale sopra l'Oceano, vicino al luogo nel quale è la città chiamata Messa. E dalla parte di mezzogiorno finisce appresso il monte Atlante e nella faccia del detto monte che riguarda il mare Mediterraneo. Questa è la piú nobile parte dell'Africa, nella quale sono le città degli uomini bianchi, che per ordine di ragione e di legge si governano.
La seconda parte da' Latini è detta Numidia e dagli Arabi Biledulgerid, che sono i paesi dove nascono i datteri. Dal lato di levante incomincia da Eloacat, città discosta dall'Egitto circa cento miglia, e si estende verso ponente per insino a Nun, posta sul mare Oceano; e di verso tramontana compie al monte Atlante, cioè nella faccia che guarda verso mezzogiorno. Nella parte di mezzogiorno termina e confina nell'arena del diserto di Libia. E gli Arabi communemente chiamano i paesi che producono i datteri con un medesimo nome, percioché essi sono tutti in uno sito.
La terza parte, che nella lingua latina è appellata Libia e nell'arabica non altrimente che Sarra, cioè diserto, comincia dalla parte di oriente dal Nilo, cioè dal confino di Eloachat, e si estende verso occidente fino al mare Oceano; e dalla parte di tramontana confina con Numidia, cioè pure in quei paesi dove nasce il dattero. Dal lato di mezzogiorno confina con la terra de' negri, incominciando di verso levante dal regno di Gaogà, e si porge verso ponente insino al regno di Gualata, che è sul mare Oceano.
La quarta parte, che è la terra de' negri, dalla parte di oriente incomincia dal regno di Gaogà e procede verso occidente insino a Gualata; e dalla parte di tramontana confina con i diserti di Libia, e dal lato di mezzogiorno termina al mare Oceano: luoghi incogniti appresso di noi, ma pure molta notizia ne abbiamo da mercatanti che vengono da quella parte al regno di Tombutto. Per mezzo della terra dei negri passa il fiume detto Niger, il quale comincia da un diserto appellato Seu, cioè dalla parte di levante uscendo d'un lago grandissimo, e si rivolge verso ponente infino che esso entra nel mare Oceano. E secondo che affermano i nostri cosmografi, il Niger è un ramo del Nilo, il quale si perde sotto la terra e ivi esce formando quel lago. Alcuni dicono che 'l detto fiume incomincia uscire dalla parte d'occidente da certi monti e correndo verso oriente si converte in un lago. Il che non è vero, percioché noi navigammo dal regno di Tombutto dalla parte di levante scorrendo per l'acqua fino al regno di Ghinea o fino al regno di Melli, i quali due a comparazione di Tombutto sono verso ponente. E i piú belli regni dei negri sono quelli che giaciono sopra il fiume Niger.
E avertite che, come vogliono i detti cosmografi, la terra de' negri che è dove il Nilo passa, cioè dalla parte di ponente, e si estende verso levante insino al mare Indico e di verso tramontana confina alcune sue parti nel mar Rosso, cioè quella parte che è fuori dello stretto dell'Arabia Felice, questa parte non esser reputata parte d'Africa per molte ragioni, che in lunge opere si contengono, e i Latini la chiamano Etiopia. Da lei vengono certi religiosi frati, i quali hanno i lor visi segnati col fuoco, e si veggono per tutta l'Europa e specialmente in Roma. Questa parte è signoreggiata da un capo a modo di imperadore, a cui gli Italiani dicono Prete Gianni. E la maggior parte di cotal regione è abitata da cristiani; nondimeno v'è un signore maumettano che molto terreno ne possede.


Divisioni e regni delle dette quattro parti d'Africa.

La Barberia si divide in quattro regni. Il primo è il regno di Marocco, il quale è diviso in sette regioni: ciò sono Hea, Sus, Guzula e il territorio di Marocco, Duccala, Hazcora e Tedle. Il secondo regno è Fessa, il quale sotto di lui ha altretante regioni, e queste sono Temezne, il territorio di Fez, Azgar, Elabath, Errifi, Garet, Elcauz. Il terzo regno è quello di Telensin, che ha sotto di sé tre regioni: i Monti, Tenez ed Elgezair. Il quarto regno è quello di Tunis, a cui sono sottoposte quattro regioni: Bugia, Costantina, Tripoli di Barberia, Ezzab, che è una buona parte di Numidia. La region di Bugia fu sempre in combattimento, percioché alcune volte ella fu posseduta dal re di Tunis, altre la tenne il re di Telensin. Vero è che a' dí nostri si fece un regno da per sé, fino a tanto che dal conte Pietro Navarro per nome di Ferrando re di Spagna fu presa la principale città.


Divisione di Numidia, cioè dei paesi dove nascono i datteri.

Questa parte nell'Africa è men nobile di tutte l'altre, onde i nostri cosmografi non le hanno dato titolo di regno, percioché le abitazioni di lei sono molto lontane l'una dall'altra. Per cagione di esempio, Tesset città di Numidia fa cerca quattrocento fuochi, ma è discosta da ogni abitazione per li diserti di Libia cerca trecento miglia: adunque ella non merita titolo di regno. Io nondimeno vi narrerò i nomi dei terreni abitati, quantunque alcuni luoghi si truovano che sono al modo dell'altre regioni, come è lo stato di Segelmese, che è nella parte di Numidia la quale risponde verso Mauritania, e lo stato di Zeb riguardante verso il regno di Bugia, e Biledulgerid, che si estende verso il regno di Tunis. Ora, serbandomi molte cose nella seconda parte dell'Africa, incominciando dalla parte occidentale i nomi sono questi: Tesset, Guaden, Ifren, Hacca, Dare, Tebelbeth, Todga, Fercale, Segellomesse, Benigomi, Feghig, Teguat, Tsabit, Tegorarin, Mesab, Teggort, Guarghela. Zeb è provincia nella quale si contengono cinque città: queste sono Pescara, Elborgiu, Nesta, Taolacca e Deusen. Biledulgerid signoreggia altretante città: Teozar, Cafeza, Nefreoa, Elchama e Chalbiz. Doppo questa verso levante è l'isola di Gerbe, Garion, Messellata, Mestrata, Teoirraga, Gademis, Fizzan, Augela, Birdeua, Eloachet. Questi sono i nomi dei luoghi famosi di Libia incominciando dal mare Oceano, cioè, come s'è detto, dall'occidente e terminando ne' confini del Nilo.


Divisione dei diserti che sono fra Numidia e la terra negra.

Questi diserti appresso noi non sono appellati con nome alcuno, quantunque siano divisi in cinque parti e sia ogni parte nominata dal popolo che vi abita e in quella ha il suo vivere, cioè dai Numidi, i quali sono eziandio divisi in cinque parti. Queste sono Zanega, Guanziga, Terga, Lenta e Berdeoa. V'hanno appresso alcune campagne che dalla malignità o bontà del terreno particolari nomi prendono, come Azaoad, diserto cosí detto per la sterilità e seccaggine ch'è in lui, e Hair, diserto ancora esso, ma nomato dalla bontà e temperanza dell'aere.


Divisione della terra negra per ciascun regno.

Ancora la terra negra è divisa in molti regni, di quali nondimeno alcuni sono incogniti e lontani dal commerzio nostro. Per il che di quelli dirò ove sono stato io e ho avuta lunga pratica, e di quegli altri ancora da' quali partendosi i mercatanti che le lor mercanzie contrattavano nel paese dove io era, me ne diedero buona informazione. Né voglio tacer d'esser stato in quindici regni di terra negra, e tre volte piú ce ne sono rimasi di quelli dove io non fui, ciascuno assai noto e vicino a' luoghi ne' quali mi trovava. I nomi di questi regni, togliendo il principio dall'occidente e seguendo verso oriente e verso mezzogiorno, sono tali: Gualata, Ghinea, Melli, Tombutto, Gago, Guber, Agadez, Cano, Casena, Zegzeg, Zanfara, Guangara, Burno, Gaogà, Nube. Questi sono quindici regni i quali per la maggior parte sono posti sul fiume Niger, e per quelli fanno la strada loro i mercatanti che partono di Gualata per andare al Cairo. Il cammino è lungo, ma molto sicuro. Sono questi regni discosti l'uno dall'altro, e dieci di loro sono o da qualche diserto dell'arena separati o dal fiume Niger. Ed è da sapere che anticamente ogni regno da per sé era posseduto da un signore, ma a' tempi nostri tutti i quindici regni sono sottoposti al dominio di tre re, cioè del re di Tombutto, e questo ne possede la maggior parte, del re di Borno, il quale ne ha la minore, e l'altra parte è in potere del re di Gaogà. Egli è vero che 'l signore di Duccala ve ne tiene pure un piccolo stato. Confinano con questi regni dalla parte di mezzogiorno molti altri regni, cioè Bito, Temiam, Dauma, Medra, Gorhan; e di loro i signori e gli abitanti sono ricchi e assai pratichi, amministrano giustizia e vi tengono buon governo. Gli altri sono di peggior condizione che le bestie.


Abitazioni di Africa, e la significazione di questa voce "barbar".

Dicono i cosmografi e gli scrittori delle istorie l'Africa anticamente esser stata per ogni sua parte disabitata fuori che la terra negra, e hassi per cosa certa che la Barberia e la Numidia è stata priva d'abitatori molti secoli. Quelli che vi abitano, cioè bianchi, sono appellati el barbar, nome derivato, secondo che alcuni dicono, da barbara, verbo che nella lingua loro tanto significa quanto nella italiana "mormorare". Percioché la favella degli Africani tale è appresso gli Arabi quali sono le voci degli animali, che niuno accento formano eccetto il grido. Alcuni altri vogliono che barbar sia nome replicato, percioché bar nel linguaggio arabico dinota diserto. E dicono che ne' tempi che 'l re Africo fu rotto dagli Assirii, o come si fosse dagli Etiopi, egli fuggendo verso Egitto e tuttavia essendo seguitato da' nimici, non sapendo come difendersi chiedeva alle sue genti che lo consigliassero qual partito potesse prendere per la salute loro. Al quale essi altra risposta non davano se non gridando: "el bar bar", cioè "al diserto, al diserto", volendo inferire che per loro non si conosceva altro rimedio fuori che passando il Nilo ridursi nel diserto di Africa. E questa ragione è conforme con quelli che affermano la origine degli Africani procedere dai popoli dell'Arabia Felice.


Origine degli Africani.

Cerca la origine degli Africani sono i nostri istorici non poco tra lor differenti. Alcuni dicono ch'essi discesero da' Palestini, percioché anticamente scacciati dagli Assirii fuggirono verso l'Africa, e sí come la trovarono buona e fruttifera, cosí vi si fermarono. Altri sono di oppenione che la origine loro venisse da' Sabei, popolo dell'Arabia Felice, come s'è detto, innanzi che fossero scacciati o dagli Assirii o dagli Etiopi. Altri vogliono che gli Africani siano stati degli abitanti di alcune parti di Asia. Onde dicono che essendo lor mossa guerra da certi loro nemici, se ne vennero fuggendo verso Grecia, la quale era a que' tempi disabitata; ma seguitandogli i nimici, essi furono costretti a passare il mare della Morea, e pervenuti in Africa quivi si fermarono, e i nimici in Grecia. Questo si dee intender solamente intorno alla origine degli Africani bianchi, cioè di quelli che abitano nella Barberia e nella Numidia. Gli Africani veramente della terra negra dipendono tutti dalla origine di Cus figliuolo di Cam, che figliuolo fu di Noè. Adunque, qual sia la differenza tra gli Africani bianchi e tra i neri, eglino tuttavia discendono quasi da una medesima origine, conciosiacosaché, se essi vennero da' Palestini, i Palestini medesimamente sono del legnaggio di Mesraim figliuolo di Cus, e se procedettero da' Sabei, Saba eziandio fu figliuolo di Rama, e Rama nacque pure di Cus. Sono molte altre oppenioni cerca ciò, le quali, per non esser cosa molto necessaria, mi parve di pretermettere.


Divisione degli Africani bianchi in piú popoli.

I bianchi dell'Africa sono divisi in cinque popoli: Sanhagia, Musmuda, Zeneta, Haoara e Gumera. Musmuda abitano nel monte Atlante, cioè nella parte occidentale, incominciando da Heha insino al fiume di Servi. Abitano eziandio in quella parte del medesimo Atlante la quale riguarda verso mezzogiorno, e in tutte le pianure che v'hanno d'intorno. Questi tengono quattro provincie, le quali sono Heha, Sus, Guzula e la region di Marocco. I Gumera similmente abitano ne' monti di Mauritania, cioè ne' monti riguardanti sul mare Mediterraneo, e occupano tutta la riviera detta Rif, la quale ha principio dallo stretto delle Colonne e segue verso il levar del sole per insino a' confini del regno di Telensin, quello che da' Latini è chiamato Cesaria. Questi due popoli abitano separatamente dagli altri popoli, i quali sono communemente mescolati e sparsi per tutta l'Africa, ma si conoscono nella guisa che si conosce il natio dal forestiere, e sempre tra loro medesimi guerreggiano e stanno in continove battaglie, massimamente gli abitanti di Numidia. Dicono molti autori che questi cinque popoli sono di quelli che sogliono per loro abitazioni avere i padiglioni e le campagne. Affermano adunque che negli antichi tempi, avendo costoro fatta lunga guerra insieme, quelli che rimasero perditori, divenuti vassalli de' vincitori, furono mandati ad abitar nelle ville, e i vettoriosi si fecero padroni della campagna e là ridussero le loro magioni. E la ragione è quasi provata, percioché molti di quelli che abitano nella campagna usano la medesima lingua degli abitatori delle ville: per cagione di esempio, i Zeneti della campagna favellano nella guisa che fanno i Zeneti delle ville, e il simile aviene degli altri. I tre popoli detti di sopra dimorano nella campagna di Temesna, cioè Zeneta, Haoara, Sanhagia. Alcuna volta si stanno in pace e alcuna volta combattono aspramente, mossi mi cred'io dall'antica parzialità.
Alcuni di questi popoli ebbero regno per tutta l'Africa, come Zeneti, che furono quelli che scacciarono la casa d'Idris, dalla quale erano discesi i veri signori di Fez ed edificatori di questa città; la stirpe di costoro è detta Mecnasa. Venne dipoi un'altra famiglia di Zeneti di Numidia, appellata Magraoa, la quale scacciò Mecnesa del regno di che essi avevano scacciati i signori. E d'indi a poco tempo i medesimi Zeneti furono similmente scacciati da alcuni che vennero dal diserto di Numidia, e questi furono d'una prole di Zanhagi, detta Luntuna. Essi ruinorono tutta la regione di Temesna e distrussero ogni spezie di popolo che in quella si trovava, eccetto quelli che erano della origine loro, i quali posero ad abitare in Duccala. Questa cotal famiglia edificò la città di Marocco. Avvenne poi, secondo le mutazioni della fortuna, che un grande uomo nelle cose della lor fede e predicatore appresso loro molto estimato, chiamato Elmahdi, si ribellò e fatto certo trattato con gli Hargia, che furono della stirpe di Musmoda, scacciò questa famiglia di Luntuna e fecevisi signore. Doppo la morte del quale fu eletto uno dei suoi discepoli, detto Habdul Mumen da Banigueriaghel, legnaggio di Sanhagia, e rimase il regno della famiglia di costui cerca centoventi anni, la qual famiglia signoreggiò quasi tutta l'Africa. Ella poi fu privata del regno da Banimarini, che furono della famiglia di Zeneti, i quali durarono cerca centosettanta anni. Cessò il dominio per opera di Baniguatazi, stirpe di Luntuna. Questi Banimarini sempre hanno fatto guerra con Banizeijan re di Telensin, che sono della origine di Zenhagi e della stirpe di Magraoa. Guerreggiarono ancora con Hafaza i re di Tunis, i quali vennero dalla origine di Hantata, stirpe di Musmoda.
Vedesi adunque come ciascuno dei cinque popoli sono stati in travagli e hanno avuto che fare in quelle regioni. Vero è che 'l popolo di Gumera e di Haoara non ebbe mai titolo di dominio, quantunque esso abbia pure signoreggiato in alcune parti particolari, come nelle croniche degli Africani si legge, e il tempo che questo signoreggiò fu dapoi che egli entrò nella setta di Maumetto. Percioché per adietro ogni popolo tenne separatamente il suo albergo nella campagna, e ciascuno di questi popoli favoreggiava la parte loro. E avendo tra loro compartiti i lavorii necessarii al vivere umano, i padroni della campagna si danno al governo e al levamento delle bestie, gli abitatori delle ville attendono alle arti manuali e a lavorare i terreni. E tutti questi cinque popoli comunemente sono divisi in seicento stirpi, sí come nell'arboro della generazion degli Africani si contiene, di che appo loro ne fu scrittore un certo Ibnu Rachu, il quale io lessi piú volte. Tengono eziandio molti istorici che 'l re il quale è oggidí di Tombutto, e quello che fu di Melli, quello di Agudez, sono della origine del popolo di Zanaga, cioè pur di quegli che abitano nel diserto.


Diversità e conformità della lingua africana.

Tutti i cinque popoli, i quali sono divisi in centinaia di legnaggi e in migliaia di migliaia d'abitazioni, insieme si conformano in una lingua, la quale comunemente è da loro detta aquel amarig, che vuol dire "lingua nobile". E gli Arabi di Africa la chiamano lingua barberesca, che è la lingua africana natia, e questa lingua è diversa e differente dalle altre lingue. Tuttavia in essa pur truovano alcuni vocaboli della lingua araba, di maniera che alcuni gli tengono e usangli per testimonianza che gli Africani siano discesi dall'origine dei Sabei, popolo, come s'è detto, dell'Arabia Felice. Ma la parte contraria afferma che quelle voci arabe che si truovano nella detta lingua furono recate in lei dapoi che gli Arabi entrarono nell'Africa e la possederono. Ma questi popoli furono di grosso intelletto e ignoranti, intanto che niun libro lasciarono che si possa addurre in favore né dell'una né dell'altra parte. Hanno ancora qualche differenza tra loro non solo nella prononzia, ma eziandio nella significazion di molti e molti vocaboli. E quelli che sono piú vicini agli Arabi e piú usano la domestichezza loro, piú similmente tengono de' loro vocaboli arabi nella lingua. E quasi tutto il popolo di Gumera usa la favella araba, ma corrotta, e molti della stirpe della gente di Haoara parlano pure arabico, e tuttavia corrotto; e ciò aviene per aver lunghi tempi avuta conversazione con gli Arabi.
Nella terra negra favellasi in diverse lingue, una delle quali è da lor detta sungai, e questa serve a molte regioni, come è in Gualata, in Tombutto, in Ghinea, in Melli e in Gago. L'altra lingua essi chiamano guber, la quale è usata in Guber, in Cano, in Chesena, in Perzegzeg e in Guangra. Un'altra è tenuta nel regno di Borno ed è somigliante a quella che si costuma in Gaogà. Un'altra ve n'è ancora serbata nel regno di Nube, e questa partecipa dello arabico e del caldeo e della favella degli Egizii. Quantunque in tutte le città d'Africa, intendendo delle maritime poste sul mare Mediterraneo insino al monte Atlante, tutti quelli che vi abitano generalmente parlino nel linguaggio arabico corrotto, eccetto che in tutto il tener del regno di Marocco e in Marocco propio si favella nella lingua barberesca, e né piú né meno nei terreni di Numidia, cioè fra i Numidi che sono a Mauritania e a Cesaria vicini, percioché quelli che s'accostano al regno di Tunis e al regno di Tripoli tutti universalmente tengono e usano la corrotta lingua arabica.


Arabi abitanti nelle città d'Africa.

Nello esercito che mandò Otmen califa terzo nell'anno 400 di legira venne nell'Africa un grandissimo numero di Arabi, che furono, tra nobili e altri, dintorno a ottantamila persone; i quali sí come molte regioni acquistarono, cosí quasi tutti i principali e nobili tornarono alla Arabia. Rimase quivi con gli altri il general capitano dello esercito, il cui nome era Hucba Hicbnu Nafich, il quale già aveva edificata e fermata la città del Cairaoan, percioché egli stava in continuo timore che le genti della rivera di Tunis non lo tradissero, che qualche soccorso non venisse dall'isola di Sicilia e con quello gli movessero guerra. Per il che, con tutta la quantità del tesoro ch'egli acquistato si avea ritiratosi verso il diserto nella terra ferma, lontano da Cartagine cerca a centoventi miglia, fabbricò la detta città del Cairaoan e comandò a' suoi capi e ministri di quelli che seco restarono, che abitassero ne' luoghi piú forti e atti alla difesa loro, e dove non v'avessero rocche e fortezze ve le edificassero. Il che fu fatto e gli Arabi, rimasi sicuri, diventarono cittadini di quel paese e si mescolarono tra gli Africani, i quali allora, perché da Italiani furono molti anni signoreggiati, la lingua italiana ritenevano, e per questa cagione seco usando e vivendo corruppero a poco a poco la loro natia araba, la quale partecipò di tutte le favelle africane: cosí di due diversi popoli uno se ne fermò. Vero è che gli Arabi ebbero sempre in costume e hanno tuttavia di notar la origine loro dal canto del padre, come si usa tra noi, e i Barberi fanno il somigliante, in maniera che non v'è uomo di cosí bassa nazione che non aggiunga al suo nome il cognome della sua origine, o arabo o barbero che egli si sia.


Gli Arabi che nell'Africa in luogo di case abitano nei padiglioni.

Sempre i pontefici maumettani vietarono agli Arabi di passar con le loro famiglie e con i lor padiglioni il Nilo, fino agli anni 400 di legira, nel quale ebbero licenza da un califa scismatico: e ciò per cagione che uno, che amico e vassallo era del detto califa, si ribellò e regnò nella città del Cairaoan e in tutta quasi la Barberia, doppo la morte del quale rimase per qualche tempo il regno nella casa sua. Percioché, sí come io ho letto nelle istorie africane, nel tempo d'Elcain califa e pontefice di quella casa essi allargarono i loro regni, e crebbe la setta loro intanto che 'l detto califa mandò un suo schiavo e consigliere, il cui nome fu Gehoar di nazion schiava, con grandissimo esercito verso ponente, il quale acquistò tutta la Barberia e la Numidia e procedette per insino alla provincia di Sus, riscotendo i tributi e l'utile dei detti regni. Il che fatto avendo, al suo signore ritornò, al quale ripose in mano l'oro e tutto quello ch'egli di questi paesi aveva tratto. Per il che il califa, avendo conosciuto il valore e veduto il felice successo di costui, fece pensiero di metterlo in una impresa maggiore e dissegliene. A cui egli rispose: "Signor mio, io ti prometto che, sí come io t'ho fatto acquistar queste regioni di ponente, cosí sarò cagione che avrai l'imperio di tutti i regni del levante, cioè dell'Egitto, della Soria e di tutta l'Arabia, vendicando le offese e gli oltraggi che sono stati fatti ai tuoi antecessori dalla casa di Lhabas. Né cessarò di metter la persona mia in tutte le difficultà e pericoli, per insino a tanto che io t'abbia rimesso nel seggio antico dei tuoi nobili e generosi avoli e progenitori illustri del sangue tuo". Inteso il califa l'animo e la promessa del suo vassallo, fatto uno esercito di ottantamila combattenti, lui con molto oro e con molta vettovaglia licenziò.
Partitosi adunque il fedele e animoso schiavo, drizzò lo esercito per lo diserto che è fra la Barberia e lo Egitto, né prima giunse in Alessandria che il locotenente dell'Egitto si ritirò verso Bagaded, per essere insieme con Eluir califa. Laonde Gehoar fra lo spazio di pochi giorni e con piccolo impedimento acquistò tutte le regioni dell'Egitto e della Soria. Tuttavia non dimorava senza sospetto, dubitando non il califa di Bagaded, venendone di là con gli eserciti dell'Asia, gli desse qualche grande stretta e lo riducesse a pericolo di perder le difese e gli eserciti della Barberia. Per il che si diliberò di fare una fortezza nella quale, se il bisogno occorresse, potessero ricoverarsi le genti e sostener l'impeto dei nimici. Fece adunque edificare una città tutta circondata di mura, nella quale vi faceva star di continuo uno de' piú fidati a guardia con una parte del suo esercito. Alla città pose nome Elchaira, la quale poscia per l'Europa fu detta Cairo. Questa di giorno in giorno e di borghi e d'abitazioni di dentro e d'intorno è ita accrescendo, per sí fatto modo che in tutte le parti del mondo un'altra simile non si truova.
Ora Gehoar, vedendo che 'l califa di Bagaded non faceva contra di lui alcuno apparecchio di battaglia, allora avisò il suo signore come tutte le regioni per lui acquistate gli prestavano obbedienza, e che le cose erano ridotte in pace e ben difese e guardate. Perciò, quando paresse alla sua felicità di trasferirsi con la persona nello Egitto, valerebbe piú la presenza di lui allo acquisto di ciò che restava, che centinaia di migliaia di combattenti, e sarebbe cagione che 'l califa di Bagaded lasciando il ponteficato e il regno se ne fuggisse. Come questa bella e magnanima esortazione pervenne all'orecchie del signore, esso, senza altrimente considerare a quello che potrebbe avenire in contrario, insuperbito dalle lusinghe della seconda fortuna preparò un grosso esercito e partissi, lasciando per governatore e general capitano di tutta la Barberia un principe del popolo di Zanhagia, il quale gli era non pure amico, ma domestico servitore. Subito che 'l califa giunse al Cairo, ricevuto riverentemente dal suo schiavo, indrizzando l'animo a grandi imprese espedí grande esercito contra il califa di Bagaded. Avenne fra tanto che 'l governatore da lui lasciato della Barberia gli si ribellò e offerse obbedienza al califa di Bagaded, il quale, di ciò allegro, gli mandò larghi privilegi e fecelo re di tutta l'Africa. Questo nel Cairo inteso da Elchain, l'ebbe per amarissima novella, parte perché egli si trovava fuori del suo regno e parte perché aveva consumato tutta la quantità dell'oro e delle cose opportune ch'egli aveva portato seco; né sapendo a che partito appigliarsi spesse volte malediceva il consiglio del suo vassallo.
Era appresso di lui un suo secretario, dotto uomo e di bello e pronto intelletto, il quale, sentendo il ramarico del signore e antiveggendo la repentina rovina che soprastava al suo capo se presto riparo non se li poneva, lo cominciò a confortare e a consigliare in queste parole: "Signore, i mutamenti della fortuna sono varii, né perciò vi dovete voi diffidar della vostra virtú per lo nuovo accidente da lei avenuto: percioché, quando voi vorrete accostarvi a quello che io, che fedelissimo vi sono, bene e lealmente saprò consigliarvi, io non dubito che non riabbiate in brevissimo tempo tutto quello che per ribellione è stato da voi alienato, e appresso non otteniate l'intento vostro. Il che farete senza pagar soldato niuno, anzi io voglio che piú tosto lo esercito che vi porrò nelle mani paghi voi, per le cagioni che io vi dirò". Il signore ciò udendo si rallegrò, e domandollo in che modo questo si potesse fare. Ed egli allora seguitò: "Signor mio, voi dovete sapere che gli Arabi sono accresciuti in tanto numero che oggimai l'Arabia non gli può caper tutti, e le rendite a pena non sono bastevoli per le loro bestie, percioché la sterilità è grande, ed essi non solamente patiscono disagio d'abitazioni, ma di vivere ancora. Per il che spesse fiate sarebbono passati nell'Africa, se a loro fosse stato concesso da voi. Date adunque a costoro licenza di poter fare questo passaggio, e io vi metterò nelle mani una gran quantità d'oro". Detto fin qui dal secretario, il signor fu poco lieto di questo consiglio, considerando che gli Arabi sarebbono cagione della rovina dell'Africa, in modo che non se la goderebbe né il suo ribello né egli. D'altra parte, avendo riguardo che ad ogni modo il regno era perduto, giudicò che fosse men male a toccare una buona quantità di danari, sí come colui gli prometteva, e insieme vendicarsi del suo nimico, che perder parimente l'una cosa e l'altra. Disse adunque al consigliere che egli facesse fare uno bando, che a ciascun Arabo che volesse pagare un ducato e non piú per testa fosse lecito di passar nell'Africa con libera e larga licenza, ma sotto obligazione e giuramento d'esser nimici del detto suo ribello. Il che fatto, si messe a questo passaggio cerca dieci lignaggi di Arabi, che fu la metà dell'Arabia Diserta; vi fu ancora alcuna stirpe di quegli dell'Arabia Felice. Il numero di coloro che erano atti a combattere fu intorno a cinquantamila; le donne, i fanciulli e le bestie furono quasi infiniti. Del che fu tenuto diligente conto da Ibnu Rachic, istorico africano di cui di sopra dicemmo.
Ora fra pochi giorni gli Arabi, avendo passato il diserto che abbiam detto esser tra l'Egitto e la Barberia, prima si fermarono all'assedio di Tripoli di Barberia ed entrarono nella città per forza e la saccheggiarono, occidendo tutti quelli che occider poterono; di qui se n'andarono a Cabis città e la distrussero. Finalmente assediarono Elcairaoan, nella qual città il ribello, avendosi provisto di vettovaglie e di quanto facea bisogno, sostenne assai bene l'assedio otto mesi, in capo dei quali presero la città per forza e la saccheggiarono, e lui doppo molti strazii ammazzarono. Divisero poi gli Arabi tra loro quelle campagne e in esse abitarono, imponendo per ciascuna città gravissime taglie e gravezze.
Cosí rimasero signori di tutto il circuito dell'Africa per insino a tanto che successe nel regno di Marocco Iusef figliuolo di Ieffin, che fu primo re di Marocco. Costui con tutto il suo potere si rivolse a dare aiuto a quanti erano o parenti o amici del morto ribello, né cessò prima che levò dalle città il dominio degli Arabi. Gli Arabi tuttavia dimoravano nelle campagne, assassinando e rubbando ciò che potevano. In tanto i parenti del ribello regnavano in diversi luochi. Ma succedendo al regno di Marocco Mansor, quarto re e pontefice della setta del Muoachedin, sí come i suoi antecessori erano stati in favore dei parenti del ribello e gli avevano tornati in stato, cosí egli ebbe in animo d'esser loro contra e di torgli il dominio di mano. Per il che, astutamente composta con loro la pace, indusse gli Arabi a far lor guerra, e vennegli fatto con poca difficultà il vincergli. Mansor dipoi condusse seco tutti i maggiori e principali degli Arabi nei regni di ponente, e diè a' piú nobili per loro abitazione Duccala e Azgar; a quegli che di minor condizione erano assegnò Numidia. Ma in processo di tempo questi, che erano sí come schiavi di Numidi, ricovrarono la loro libertà e a mal grado loro dominarono quella parte di Numidia nella quale diede loro l'abitazione Mansor, e ogni giorno i confini allargavano. Quelli che abitarono Azgar e alcuni altri luoghi in Mauritania tutti furono ridotti alla servitú, percioché gli Arabi fuora del diserto sono come i pesci fuori dell'acqua. Sarebbono bene essi volentieri andati ai diserti, ma loro vietava il passo il monte Atlante, tenuto e posseduto da Barberi. D'altra parte non potevano uscire per la campagna, percioché di lei gli altri Arabi erano padroni. Laonde, ponendo giú la superbia, si diedero a pascolar le bestie e a lavorare il terreno, pure abitando, invece di pagliai e di case rusticane, ne' padiglioni. S'aggiunse alla loro miseria esser tenuti di pagare ciascun anno ai re di Mauritania certi tributi. Quelli di Duccala, aiutati dalla loro moltitudine, furono liberi da ogni tributo.
Una parte d'Arabi era rimasa in Tunis, percioché il Mansor aveva rifiutato di menargli seco. Questi, venuto a morte Mansor, presero Tunis e di quelle regioni s'impatroniron. E durò il dominio loro per insino a tanto che si sollevarono alcuni della famiglia di Abu Haf, co' quali gli Arabi s'accordarono di lasciar loro la signoria, con questo che lor dessero la metà dei tributi e dei frutti che si cavavano del regno. Il qual patto e accordo dura per fino a' nostri dí; ma i re di Tunis non gli possono contentar tutti, percioché è maggior la moltitudine degli Arabi che l'entrata e l'utile di tutto il regno. Onde, compartendone a una parte, questa è obligata di tener pacifica la campagna, il che fa, e non noce a niuno. Gli altri, che di tal provisione sono privi, si danno alle rapine, alle occisioni e al peggio che ponno, e stanno le piú volte imboscati: come passa un viandante sbucano fuori, e spogliatolo e di drappi e di danari l'amazzano, di maniera che mai non si trova la via sicura. E i mercadanti che vogliono andar da Tunis a qualche loco loro opportuno menano seco per loro sicurtà una compagnia d'archibugieri, e passano tuttavia per due non piccole difficultà: l'una è di pagare agli Arabi provigionati dai re una grossissima gabella; l'altra peggiore assai è che il piú delle volte sono assaliti da quest'altri Arabi, e talvolta, non giovando la difesa che seco menano, sono ad un medesimo tempo spogliati dell'avere e della vita.


Divisione degli Arabi venuti ad abitar nell'Africa, i quali sono detti Arabi barberi.

Gli Arabi ch'entrarono nell'Africa sono tre popoli: il primo si dimanda Chachin, il secondo è appellato Hilel e il terzo dicono Mahchil. Chachin si divide in tre lignaggi: Etbegi, Sumait e Sahid. Etbegi eziandio si divide in tre parti: Dellegi, Elmuntefig e Sobair, e queste parti si dividono in infinite generazioni. Hilel ancora è diviso in quattro: Benihemir, Rieh, Sufien e Chusain; e Benihemir si parte in Huroa, Hucba, Habru, Muslim; e Rieh in Deuuad, Suaid, Asgeh, Elcherith, Enedr e Garfa; e queste sei parti si dividono similmente in infinite generazioni. Mahchil si divide in tre: Mactar, Hutmen e Hassan. Mactar si divide in Ruche e Selim. Hutmen si divide in altretante: Elhasin e Chinana. Hassan si divide in Deuihessen, Deuimansor, Deuihubaidulla; Deuihessen in Dulein, Uodei, Berbus, Racmen e Hamr; Deuimansor in Hemrun, Menebbe, Husein e Abulhusein; Deuihubeidulla eziandio si divide in Garagi, Hedegi, Tehleb e Geoan. E tutte queste sono divise in infinite, delle quali sarebbe cosa non pur difficile, ma impossibile a ricordarsi.


Divisione delle abitazioni dei detti Arabi, e il numero loro.

Etbegi furono i piú nobili e i principali degli Arabi, e quelli quali Almansor condusse ad abitare in Duccala e ancora nelle pianure di Tedle. Questi a' nostri dí molto sono stati molestati, quando dai re di Portogallo e alcuna volta dai re di Fez; e sono cerca a centomila uomini da guerra, e la metà è a cavallo. Sumait rimasero ne' diserti di Libia, i quali rispondono verso i diserti di Tripoli, e rade volte vengono alla Barberia, percioché non hanno né dominio né luogo in quella, ma stannosi sempre coi lor camelli nel diserto; e sono intorno a ottantamila atti alla milizia, e la piú parte a piè. Sahid abitano similmente nei deserti di Libia; costoro sogliono tener domestichezza e conversazion nel regno di Guargala, hanno infiniti bestiami, e forniscono di carne tutte le città e luoghi che confinano coi loro diserti; ma ciò nel tempo della state, percioché il verno non si partono dal diserto. Sono di numero appresso centocinquantamila, ma pochi cavalli hanno. Dellegi abitano in diversi luoghi: la maggior parte tiene i confini di Cesaria e i confini del regno di Bugia, e questi hanno tributi dai signori loro vicini; la parte minore occupa nelle pianure di Acdesen i confini di Mauritania insieme col monte Atlante: questi danno tributo al re di Fez. Elmuntafic abitano nelle pianure di Azgar, e sono da' moderni chiamati Elchaluth; essi ancora danno tributo al re di Fez, e possono fare da ottomila cavalli molto bene in ordine. Sobaich, dico i maggiori e di piú valore, abitano ne' confini del regno del Gezeir e sono provigionati dai re di Telensin, e hanno nella Numidia molte terre loro soggette; sono poco meno di tremila cavalli e molto pronti nella milizia. Questi ancora sogliono il verno, perché hanno molta copia di camelli, ripararsi nel diserto. L'altra parte abita nelle pianure che sono fra Sala e Mecnesa: tengono pecore e buoi, lavorano il terreno e danno tributo pure al re di Fez. Essi son da quattromila cavalli bene e ottimamente in ordine.


Hilel popolo e l'abitazion d'esso.

Hilel è la maggiore stirpe di questo popolo, e Benihamir, i quali abitano ne' confini del regno di Telensin e di Oran, e vanno discorrendo per lo diserto di Tegorarin. Questi sono provigionati dal re di Telensin; sono uomini di molta prodezza e molto ricchi, fanno cerca seimila cavalli belli e bene in ordine. Hurua posseggono i confini di Mustuganim: sono uomini salvatichi e ladri, e vanno male in arnese. Non si discostano dal diserto, percioché non hanno né soldo né dominio nella Barberia; fanno intorno a duomila cavalli. Hucba hanno le abitazioni loro ne' confini di Meliana, e hanno qualche poco di provisione dal re di Tenes; ma pure sono genti assassine e lontane da ogni umanità. Questi fanno cerca a millecinquecento cavalli. Habru abitano nelle pianure che sono fra Oran e Mustuganim, sono lavoratori de' campi e tributari al re di Telensin; possono essere appresso cento cavalli. Muslim abitano nel diserto di Masila, il qual si estende verso il regno di Bugia, e sono essi ancora ladri e assassini; hanno tributi da Masila e da alcune altre terre. Riech abitano ne' diserti di Libia che sono verso Costantina, e questi hanno gran dominio in una parte di Numidia; sono divisi in sei parti, sono tutti prodi nell'armi e nobili, vanno bene in ordine e sono provigionati dal re di Tunis, e compiono il numero di cinquemila cavalli. Suaid abitano nei diserti che si dilatano verso il regno di Tenes, e hanno gran riputazione e dominio; il re di Telensin dà loro provisione, sono nobili, valenti e bene in assetto d'ogni cosa. Asgeh sono soggetti di molti Arabi, e c'è gran quantità di loro che abitano in Garit insieme con Hemram popolo; ve n'è un'altra parte la quale abita con gli Arabi di Duccala in luogo vicino di Azefi. Elcherit abitano nelle pianure di Heli in compagnia di Saidima, e hanno tributo dal popolo di Heha; sono uomini vili e male agiati. Enedr abitano pure nella pianura di Heha. E tutti gli Arabi di Heha fanno cerca quattromila cavalli; tuttavia sono ancora essi disagiati d'arnesi. Garsa abitano in diversi luoghi, non hanno capo, e sono mescolati con altri popoli, massimamente col popolo di Manebba e di Hemram. Costoro portano i datteri da Segelmesa al regno di Fez, e d'indi traggono le vettovaglie necessarie e a Segelmesa le conducono.


Mahchil popolo e le sue abitazioni e numero.

Ruche, prole di Mactar, abita ne' confini dei diserti vicini a Dedes e Farcala. Questi sono poveri, percioché hanno pochi dominii; sono tuttavia valenti uomini a piè, tanto che si recano a gran vergogna che uno a piè si lasci vincere da due a cavallo, né è alcuno cosí tardo in camminare che non possa per suo piacere andare a paro di qualsivoglia cavallo, quantunque avesse a fornire un lungo cammino. Sono cerca cinquecento cavalli e ottomila uomini a piè, cioè da guerra. Selim abitano appresso Dara fiume, discorrono per lo diserto, sono ricchi, e una volta l'anno vanno con lor mercanzie a Tombutto. Sono eziandio favoriti dai re di quello, e in Derha hanno molti poderi e terreni copiosissimi e un numero grande di camelli; fanno quasi tremila cavalli. Elhasim abitano accanto il mare Oceano ne' confini di Messe, e sono cerca cinquecento cavalli; vanno pessimamente in ordine, e una lor parte abita in Asgar: quelli di Messe hanno la libertà, ma questi di Asgar sono sudditi al re di Fez. Chinana abitano con Elchaluth, e sono sottoposti al medesimo re di Fez; sono uomini forti e molto ben forniti; fanno duemila cavalli. Deuihessem si divide ancora in Duleim, Burbus, Uodei, Deuimansor, Deuihubeidulla. Duleim abitano nel diserto di Libia insieme con Zanaga popolo africano, e questi tali non hanno dominio né censo niuno, per il che sono poveri e gran ladri. Vengono sovente alla provincia di Dara per fare iscambio di bestie con datteri, vanno male in ordine, e sono cerca diecimila persone, quattrocento a cavallo e il resto a piè. Burbus abitano pure nel diserto di Libia, il quale è verso la provincia di Sus, e sono molti e poveri; ma hanno molti camelli e signoreggiano Tesset, la quale non basta loro per ferrare quei pochi cavalli che hanno. Uodei abitano nei diserti posti fra i Guaden e Gualata. Questi hanno il dominio di Guaden, e ancora certo tributo dal signore di Gualata in terra negra; sono di numero quasi infinito, percioché sono estimati quasi sessantamila buoni da guerra, ma hanno pochi cavalli. Racmen tengono il diserto vicino di Haccha; hanno ancora essi dominio, e sogliono per loro bisogne andare il verno a Tesset; sono cerca dodicimila combattenti, ma hanno similmente pochi cavalli. Hamr abitano nel diserto di Taganot, hanno qualche poco di provigione dalla communità di Tagauost, vanno discorrendo per lo diserto per insino a Nun, e sono cerca a ottomila uomini da guerra.


Deuimansor.

Dehemrun, stirpe di Deuimansor, abitano ne' diserti che riguardano a Segelmesse, discorrono per lo diserto di Libia insino a Ighid, hanno tributo dal popolo di Segelmesse, dal popolo di Todga, da quello di Tebelbet e da quello di Dara; hanno molti terreni di datteri, possono vivere a guisa di signori e stanno in gran riputazione. Questi fanno cerca tremila cavalieri. Tra loro sono di molti Arabi, uomini vili, ma hanno cavalli e abbondano di bestiame, como Garfa Esgeh. E questo popolo di Hemrum ha un'altra parte, la quale ha dominio di certi terreni e casali in Numidia e discorre fino al diserto di Fighig; e tutti quei terreni e casali le danno molti e gravi tributi. Costoro ne' tempi della state vengono a starsi nella provincia di Garit, ne' confini di Mauritania, da quella parte ch'è verso oriente. Sono uomini nobili e di somma prodezza, perciò i re di Fez sogliono quasi tutti pigliar moglie tra le lor donne, di maniera che hanno con esso loro amicizia e parentado. Menebbe abitano pure nel medesimo diserto, e tengono il dominio di Matgara e di Reteb, provincie in Numidia. Questi ancora sono uomini valenti e hanno certa provisione dal popolo di Segelmesse, e fanno cerca duomila cavalli. Husein, lignaggio ancora essi di Deuimansor, abitano fra' monti di Atlante, e hanno sotto la loro signoria molti monti abitati e città e castelli, che furon lor dati dai viceré di Marin, percioché essi, quando quei re a regnare incominciarono, diedero lor buono e perfetto aiuto. È il dominio di questi fra il regno di Fez e Segelmesse, e il capo loro tiene una città detta Garseluin. Vanno pure per lo diserto di Eddahra, e sono ricchi e prodi uomini; fanno cerca seimila cavalli; vanno ancora in lor compagnia molte volte Arabi, ma tengongli per vasalli. Abulhusein parte abitano ne' diserti di Eddahra, e hanno poco dominio nel diserto; ma la maggior parte di loro è a tal miseria ridotta che essi non hanno facultà niuna di potersi mantener ne' loro padiglioni nel diserto. È vero che in quel di Libia hanno fabricate certe piccole terricciuole, ma pure si vivono miseri e combattuti dalla fame e danno tributo a loro parenti.


Deuihubeidulla.

Charragi è una parte di Deuihubeidulla, e questi abitano nel diserto di Benegomi e di Fighig; posseggono molti terreni nella Numidia. Hanno provisione dal re di Telensin, il quale s'affatica quasi di continuo di ridurli a vita pacifica e onesta, percioché essi sono ladri e assassinano quanti aggiunger possono. Fanno cerca quattromila cavalli, e nella state hanno per costume di trasferir l'abitazion loro ne' confini di Telensin. Hedegi abitano in un diserto vicino a Telensin, il quale è detto Hangad; non hanno né dominio né provisione alcuna, ma vivono solamente d'assassinamenti e di rubberie, e sono cerca cinquecento cavalli. Tehleb abitano nella pianura di Elgezair, e vanno discorrendo per lo diserto insino a Tegdeat; hanno sotto il dominio loro la città di Elgezair e la città di Teddelles, ma ne' tempi nostri queste due città furono lor tolte da Barbarossa che faceva il re. Allora il popolo di Tehleb fu distrutto, che era nobile e molto valoroso nella milizia. Furono questi cerca tremila cavalli. Gehoan abitano separatamente, l'una parte insieme con Garagi e l'altra con Hedegi, ma sono loro come vasalli, il che sopportano con buona pazienza.
Ora voglio che sappiate che i dui primi popoli, cioè Schachim e Hilel, sono Arabi dell'Arabia Diserta discesi dalla origine d'Ismael figliuolo di Abraham, e il terzo popolo, cioè Mahchil, è dell'Arabia Felice e dipende dalla origine di Saba. E appresso i maumettani è tenuto che quegli ismaeliti siano piú nobili di questi di Saba. E percioché tra loro s'è guerreggiato lungamente cerca la maggioranza della nobiltà, è avenuto che essi, cosí da una parte come dall'altra, hanno composti alcuni dialogi in versi ne' quali ciascuno racconta la virtú, i benefici e i buoni costumi del suo popolo. È da sapere ancora che gli antichi Arabi, i quali furono prima che nascessero gli ismaeliti, sono chiamati dagli istorici africani Arabi ariba, cioè Arabi arabici; e quegli che sono della origine d'Ismael vengono appellati Arabi mustahraba, cioè Arabi inarabati, il che tanto è quanto nella lingua degli Italiani Arabi per accidente, percioché essi non sono natii arabi. Gli Arabi che andorono dipoi ad abitar nell'Africa si dicono Arabi mustehgeme, il che dinota Arabi imbarberati, percioché avevano fatto l'abitazion loro con straniera nazione insino a tanto che, corrompendo la lor lingua, cangiarono costumi e diventarono barberi.
Questo è quanto m'è rimaso nella memoria dei lignaggi e division degli Africani e Arabi per dieci anni che io non ho né letto né veduto libro alcuno delle istorie loro. Ma se alcuno desidera di saperne piú abbondevolmente, potrà ciò veder nell'opera di Hibnu da me sopradetto.


Costumi e modi di vivere degli Africani che abitano nel diserto di Libia.

I cinque sopradetti popoli, cioè Zenaga, Guenziga, Terga, Lemta e Berdeua, tutti sono dai Latini chiamati Numidi, e vivono a un istesso modo, il che è senza regola o ragione alcuna. L'abito loro è un pannicello stretto di lana grossa, il quale cuopre la minima parte della loro persona, e alcuno usa di portare in capo, o rivoltovi d'intorno, un drappo di tela negra quasi alla foggia di dolipano. I maggiori e principali, per esser segnalati dagli altri, portano indosso una gran camicia con le maniche larghe e fatta di tela azurra e di bambagio, la quale vien loro recata da mercatanti che vengono dalla terra negra. Non cavalcano altri animali che camelli, sopra certe selle che essi pongono nello spazio che è fra la gobba e il collo de' detti camelli. E bella cosa è a veder questi tali quando cavalcano, percioché alcuna volta mettono le gambe una sopra l'altra, e ambedue poscia sopra il collo del camello; altre volte pongono i piè in certi staffili senza staffe, e in luogo di sproni adoperano un ferro il quale è attaccato in un pezzo di legno lungo un braccio, ma con questo ferro altra parte non pungono che le spalle del camello. I camelli che sono da cavalcare hanno tutti communemente forato il naso, nella guisa che hanno alcuni bufoli che nell'Italia si trovano, e nel luogo forato sogliono mettere una capezza di cuoio, con la quale volteggiano e reggono i camelli come si fa con la briglia i cavalli. Nel dormire usano alcune stuore intessute di giunchi molto sottili, e i padiglioni sono fatti di pelo di camello e d'altre lane aspre, le quali nascono fra i graspi dei datteri. Cerca al mangiare, chi non gli ha veduti non potrebbe creder la pazienza che essi portano in sofferir la fame. Costoro non hanno in costume né di mangiar pane né cibo fatto di niuna sorte, ma si nutriscono del latte dei loro camelli, ed è l'usanza loro di bersi la mattina una grande scodella di quel latte, cosí caldo come egli esce delle camelle. La sera poi è la cena loro certa carne secca bollita in latte e in botiro, la quale come è cotta, ciascuno se ne piglia la sua parte in mano, e mangiato che hanno beono quel brodo, adoprando in ciò le mani in vece di cocchiari. Dipoi beonsi una tazza di latte, e questo è il fine della cena. E mentre dura loro il latte non si curano altrimente di acqua, massimamente la primavera, in tutto il tempo della quale si trova alcuno fra loro che non s'ha lavato né mani né viso: e questo aviene sí perché in quella stagione essi non vanno alla campagna ove è l'acqua, avendo come s'è detto il latte, e sí ancora perché i camelli, quando mangiano l'erbe, non sogliono bere acqua. La vita loro fino al dí che muoiono è posta tutta o in cacciare o in rubbare i camelli dei loro nimici, né si fermano in un luogo per maggiore spazio di tre o quattro giorni, il che è quanto i camelli mangiando consumano l'erba che vi si trova.
Questi, ancora che detto abbiamo che vivono senza regola e senza ragione, hanno nondimeno per ciascun dei lor popoli un principe a modo di re, al quale rendono onore e gli obbediscono assai. Ben sono ignoranti e senza cognizione non pur di lettere, ma né di arte né di virtú alcuna. E fra un popolo a gran fatica trovar si può un solo giudice che tenga ragione, di modo che, se alcuno è astretto da qualche litigio o da ricevuto spiacere, per trovare il padiglione del giudice gli convien cavalcar cinque e sei giornate. Percioché essi non danno opera agli studi, né per cagione d'imparar si vogliono dipartir dai diserti loro, e i giudici malvolentieri vengono tra questa canaglia, per non poter sopportare i costumi e i modi del vivere. Ma quei che vi vengono sono molto bene salariati, percioché danno per ciascun d'essi all'anno mille ducati, e piú e meno, secondo che al povero giudicio loro paiono piú e meno sufficienti. I gentili uomini di questo popolazzo portano pure in capo, com'io ho detto, un drappo negro e con una parte di quello cuoprono il viso, ascondendo ogni sua parte eccetto gli occhi: e ciò portano continuamente, laonde, quando mangiar vogliono, per ogni volta che si mettono il mangiare in bocca scuoprono la bocca, e mangiato che hanno se la tornano a coprire. Adducono esser di questo uso la ragione che, sí come è vergogna all'uomo di mandare il cibo fuora, cosí è vergogna quando lo mette dentro. Le lor femine sono molto compresse e carnute, ma non molto bianche. Hanno le parti di dietro pienissime e grasse, cosí le poppe e il petto; dove si cigne sono sottilissime. Sono donne piacevoli cosí in ragionar come in toccar le mani, e alle volte usano cortesia di lasciarsi baciare, ma è dannoso il passar piú innanzi, perché mossi da sí fatte cagioni s'ammazzano l'un l'altro senza perdono niuno. E in cotesto sono piú savi di alcuni di noi, che per modo alcuno non vogliono portar le corna. Sono ancora questi popoli molto liberali, come che per la seccaggine di que' luoghi nessuno passa per li padiglioni loro, ed essi non vengono alle strade maestre. Ma le carovane che passano per li diserti loro sono tenute di pagare ai lor principi certa gabella, la quale è per ciascuna soma di camello un pannicello, che può importare il valor d'un ducato.
Io fra gli altri con la carovana vi passai già alcuni anni, e come arrivammo sul piano di Araoan, il principe di Zanaga ci venne incontra accompagnato da cinquecento uomini, tutti sopra camelli, e fattoci pagar l'ordinario, invitò tutta la carovana a girsene con esso lui nei lor padiglioni e a dimorarvisi per cagione di riposo due o tre dí. Ma perché questi padiglioni erano fuori del nostro cammino discosti cerca ottanta miglia, e i nostri camelli erano molto carichi, per non allungar la via non volevano i mercanti accettar l'invito. E il principe, per ritenerci, dispose in tutto che i camelleri andassero con le some seguitando il camino, e che i mercatanti seco fussero al suo alloggiamento. Al quale come giunti fummo, subito il buono uomo fece amazzar molti camelli e giovani e vecchi, e insieme altretanti castrati e certi struzzi che essi per la strada aveano presi. Ma gli fu fatto intender da mercatanti che non si dee amazzar camelli, e oltre a ciò che essi non usano, massimamente nella presenza d'altrui, mangiar carne di castrati. Ed egli rispose che appresso loro si aveva per vergogna di amazzar ne conviti animali piccioli solamente, e specialmente a noi che eravamo forestieri, né piú stati negli alloggiamenti loro. Mangiammo adunque di quello che ci fu posto dinanzi. La somma del convito fu di carni arroste e lesse; gli struzzi furono arrosti, e recatici alla mensa in certe teglie cariche d'erbe e di buona quantità di spezie della terra negra. Il pane era fatto di miglio e di panico, schiacciato e molto sottile. Ultimamente ci furono portati datteri in molta abbondanza e vasi grandi pieni di latte. Il signore ancora egli volle onorare il convito della sua presenza insieme con alcuni de' suoi piú nobili e parenti di lui, ma da noi separati mangiarono. Fece venire ancora alcuni religiosi, e quei litterati che si trovavano a seder con lui. E mentre si mangiò niun di loro toccò mai pane, ma solo presero delle carni e del latte. Per il che accorgendosi il principe, a certi nostri atti, che noi di ciò eravamo rimasi stupefatti molto e pieni di maraviglia, ci rispose con parole piacevoli, dicendo che eglino erano nati in quegli diserti ne' quali non nasceva grano, perciò si nudrivano di quello che produceva il loro terreno, e che del grano si provedevano ciascun anno per onorare i forestieri che passavano di là; ma che bene era il vero che solevano mangiar del pane i giorni di certe feste solenni, sí come il dí della pasqua e i dí de' sacrifici. Ora egli ci tenne nei suoi alloggiamenti due dí sempre faccendoci carezze e onorandoci. Il terzo giorno diede licenza a tutti e volle in persona accompagnarci insino alla carovana. E vi dico con verità che le bestie che 'l signore fece occider per lo nostro mangiare valevano dieci tanti rispetto al valor delle gabelle che gli pagammo. E negli effetti e nel parlare si poteva conoscer che egli era nobile e cortese signore, quantunque né esso intendeva la nostra lingua né noi avevamo notizia della sua, e ciò che egli a noi diceva e che rispondevamo era per via d'interprete. La vita e i costumi che avete inteso di questo popolo è simigliante agli altri quattro che sono sparsi per gli altri diserti di Numidia.


Vivere e costumi degli Arabi abitanti in Africa.

Gli Arabi, sí come sono di diversi luoghi, cosí hanno diversi modi e costumi di vivere. Quelli che abitano fra Numidia e Libia vivono vita misera e piena di molta povertà, né sono in ciò differenti dai sopra detti popoli africani abitanti in Libia, ma sono per altro di piú animo. Fanno mercanzie de' lor camelli nella terra de' negri, e tengono cavalli in gran numero: e questi sono quelli che nella Europa si dicono cavalli barberi. Di continuo si danno alle caccie, sí come di cervi, d'asini selvatichi, di struzzi e d'altri animali. Né è da tacer che la maggior parte degli Arabi di Numidia sono versificatori e compongono lunghi canti, descrivendo in quelli le lor guerre e caccie e anche cose d'amor, con grande eleganzia e dolcezza, e i lor versi sono fatti con rime nel modo de' versi vulgari d'Italia. Sono uomini liberali, ma non hanno facultà di poter mantener riputazione e usar cortesia, percioché in quei diserti sono carichi d'ogni disagio. Costoro vestono secondo il costume dei Numidi, fuori che le lor donne hanno qualche differenza nel vestire delle donne dei detti Numidi. I diserti ove abitano questi Arabi erano prima tenuti da popoli africani; ma quando la loro generazione entrò nell'Africa, allora con guerra scacciò di là i Numidi, ed ella si rimase ad abitar ne' deserti vicini ai paesi dei datteri, e i Numidi andarono a far le loro abitazioni ne' diserti che sono propinqui alla terra negra.
Gli Arabi che abitano dentro di Africa, cioè fra il monte Atlante e 'l mar Mediterraneo, sono piú agiati e piú ricchi degli altri, massimamente cerca il vestire e cerca ai fornimenti dei loro cavalli e alla bellezza e grandezza dei padiglioni. Hanno ancora cavalli molto piú belli, ma non sono cosí veloci nel corso come quei del diserto. Questi Arabi fanno lavorare i loro terreni e vi cavano grandissima copia di grano. Hanno di pecore e di buoi un numero quasi infinito, e per questa cagione non si possono fermare in un luogo solo, percioché un terreno non basta a pascer tante bestie. Sono eziandio piú barberi quasi e vili di natura di quei del diserto, ma sono nondimeno liberali, e una parte di loro, la quale abita nel regno di Fez, è soggetta e tributaria del re.
Quegli che abitano d'intorno al regno di Marocco e in Duccala un tempo vissero liberi da ogni gravezza, insino a tanto che i Portogalesi ebbero dominio di Azafi e di Azemor: allora tra loro si sollevarono parti e domestiche discordie, per le quali il re di Fez una parte ne roinò e un'altra il re di Portogallo, senza che la carestia, che in questi anni fu in Africa, gli oppresse in modo che i miseri Arabi volontariamente andarono in Portogallo, offerendosi per ischiavi a chiunque desse loro nutrimento. Cosí di essi niuno in Duccala rimase.
Ma gli Arabi i quali abitano nei diserti vicini al regno di Telensin e ne' diserti vicini a Tunis, tutti vivono nel modo che vivono i loro signori, percioché ciascun principe ha molto buone e larghe provisioni dai re, e queste distribuisce e va compartendo fra il suo popolo, per vietar le discordie e tenerlo in pace e in amica unione. Costoro hanno vaghezza di andar bene in ordine e tenere i cavalli molto ben guarniti, e i lor padiglioni sono belli e grandi. Sogliono il tempo della state andare a' confini di Tunis a pigliar le provisioni loro, e l'ottobre si forniscono di ciò che fa lor bisogno, sí come di vettovaglie, di panni e d'arme, e con queste ritornando nei diserti vi rimangono tutto il verno. Poscia la primavera si sollazzano nelle caccie, con cani e falconi seguitando ogni sorte di fiere e di uccelli. E io molte volte ho alloggiato con loro e mi sono valuto di molte cose, e hogli veduti nei lor padiglioni piú forniti di panni, di rami, di ferri e di ottoni che non sono molti nelle cittadi. Tuttavia non è da fidarsi di questi tali, percioché rubbano e assassinano volentieri; e pur sono assai cortesi: amano la poesia e nella lor lingua commune dettano versi elegantissimi, ancora che il linguaggio oggi sia corrotto, e un poeta di qualche nome è molto grato ai signori e dannogli di gran premi, né vi potrei dire quanta purità e grazia essi abbiano nei lor versi.
Le donne di costoro vanno secondo il paese molto ben vestite. Gli abiti sono camicie negre con larghe maniche, sopra le quali portano un lenzuolo del medesimo colore o pure azurro, e se lo involgono e aggroppano di maniera che, venendone gli orli su le spalle, di qua e di là è ritenuto da certe fibbie d'argento fatte assai maestrevolmente. Usano di aver nell'orecchie molti anelli pur d'argento, e cosí nelle dita delle mani, e similmente con alcuni cerchietti si cingono le gambe e le calcagna, come è costume degli Africani. Portano ancora queste donne certi pannicini su la faccia, i quali sono forati dirimpetto agli occhi, e quando essi veggono un uomo che non sia loro parente, con que' pannicini ascondono subito il viso e non parlano, ma quando sono fra mariti e parenti tengono sempre il drappicino alzato. E come gli Arabi si vanno mutando di luoco in luoco, cosí pongono le lor donne a seder sopra li camelli su certe selle per ciò fatte a modo di ceste, ma coperte con bellissimi tapeti, e sono tanto piccole che non vi può capere altro che una femina sola. E i giorni che sono eletti per combattere menano similmente seco le donne per confortarle e far che men temano. Sogliono ancora queste donne, avanti che elle vadano a marito, dipingersi la faccia, il petto e tutte le braccia insieme con la mano e le dita, percioché ciò tengono per cosa molto gentile. Questa cotale usanza hanno presa dagli Arabi africani, nel tempo che essi vennero ad abitar tra loro, che prima non l'avevano. Ma tra cittadini e nobili della Barberia non si costuma ciò fare, anzi le lor donne si mantengono nella medesima bianchezza con la quale nacquero. È vero che alle volte prendono certe tinte fatte col fumo di galla e di zaffrano, e con quelle tingendosi la metà della guancia formanvi una cosa tonda come uno scudo, e fra le ciglia fanno quasi uno triangolo, e sul mento non so che assomiglia a una foglia d'oliva, e alcune ancora tingono tutte le ciglia. E percioché questa foggia è lodata dai poeti arabi e dalle persone nobili, la tengono per leggiadra e per gentile. Ma non portano questi loro abbellettamenti piú che due o tre giorni, percioché tutto lo spazio che gli hanno non possono comparer dinanzi ai loro parenti, eccetto al marito e a' figliuoli, conciosiaché esse ciò fanno per incitar la lussuria, parendo a quelle di accrescere in cotal modo molto fieramente le loro bellezze.


Gli Arabi che abitano ne' diserti che sono fra Barberia ed Egitto.

La vita di questi è piena di miseria, percioché i paesi nei quali abitano sono sterili e asperi. Tengono pecore e camelli, ma per la piccola quantità dell'erba poco fruttano. E per quanto si estende la lunghezza di quelle campagne non c'è luogo alcuno da potervi seminar niuna sorte di grano, eccetto che si truovano in quei diserti certe terricciuole a modo di casali, nelle quali vi sono alcuni piccoli poderetti di datteri, e vi si semina pure qualche poca parte di grano, ma è sí poca che non potrebbe esser meno. Il che è cagione che gli abitanti di questi casali ricevino da loro continovi impacci e travagli. E se bene alle volte costumano di dar loro camelli e pecore all'incontro di datteri e di grani, nondimeno ciò, per la poca quantità, a tanta moltitudine non basta. Per la qual cosa aviene che ad ogni tempo si truovano molti figliuoli dei detti Arabi appresso i Siciliani, lasciati loro per pegno e securtà di grano che i poveri uomini pigliano in credenza. E se fra certo termine convenuto nei mercati non pagano la somma dei danari che sono debiti, i creditori tengono i figliuoli per ischiavi, e volendogli i padri riscuotere converrebbe accattar tre volte maggior quantità del debito, di modo che sono costretti a lasciarvegli. Dal che procede che questi Arabi sono i peggiori e i piú terribili assassini che siano nel mondo, e quanti forestieri vengono nelle mani loro, poi che gli hanno spogliati di ciò che lor trovano, gli vendono ai Siciliani. A tanto che da cent'anni in qua non è passata carovana nessuna per la rivera del mare che cinge il detto diserto nel quale è l'abitazione di questi Arabi, ma quando ve ne passa alcuna, ella suole andar per la terra ferma, discosto dal mare cerca cinquecento miglia.
Io fuggendo dalle loro mani corsi tutta quella rivera per mare con tre legni di mercatanti, e come questi ne viddero vennero correndo al porto, mostrando di voler con noi fare alcuni mercati che ci sarebbono a utile. Ma non ci fidando di loro, niuno volle smontar nel terreno prima che essi per sicurtà alcuni lor figliuoli diedero in poter nostro. Il che fatto, comprammo alquanti di lor castrati e botiro e si partimmo di subito, temendo per ogni poco di esser sovragiunti da corsali di Sicilia e di Rhodo. Costoro infine sono brutti, mal vestiti, asciutti e macilenti per la gran fame, e tali che pare che la maladizione d'Iddio sia ad ogni tempo stata data sopra questa dannata e pessima generazione, senza da quella partirsi mai.


Soaua, cioè quegli che attendono alle pecore, gente africana che segue lo stile degli Arabi.

Sono molti lignaggi d'Africani i quali tengono esercizio di levar pecore e buoi, né in altro si travagliano tutto dí. E la maggior parte di essi abitano a piè del monte Atlante, e ancora fra il detto monte. Questi, dovunque si trovino, sono sempre tributari o dei re o degli Arabi; tolgo fuori quelli che abitano in Temesna, i quali sono liberi e hanno gran potere. Parlano nella lingua africana, e alcuni tengono l'araba per la vicinanza e conversazione che essi hanno di continuo con gli Arabi che abitano in le campagne di Urbs, in li confini di Tunis.
V'è un altro popolo, che abita dove confina Tunis con i paesi dei datteri, il qual popolo molte volte ebbe ardimento di far guerra al re, come avenne negli anni poco adietro, ne' quai il figliuolo del detto re, partitosi da Costantina per riscuotere i tributi dal detto popolo, fu dal principe di quello assalito, il quale gli s'era fatto incontro con duemila cavalli, e combattendo ruppe la gente del figliuolo del re e ucciselo, togliendone i carriaggi: e ciò che v'era l'anno di legira 915. Doppo questa rotta il medesimo popolo cominciò a essere in buon nome e in molta riputazione appresso tutti. E molti di quegli Arabi che erano al servigio del re di Tunis, fuggendo da luoghi al re sottoposti, se ne vennero ad abitar coi vincitori, in modo che il principe è divenuto un de' maggiori e de' piú famosi signori che abbia tutta l'Africa.


Fede degli antichi Africani.

Gli Africani negli antichi tempi furono quasi idolatri, come sono i Persi, i quali adorano il fuoco e il sole, e tenevano belli e ornati tempi ad onore dell'uno e l'altro, e in quei di continovo ardeva il fuoco, dí e notte guardato che non si spegnesse, nella guisa che nel tempio della dea Veste si soleva osservare appresso i Romani. Il che nelle croniche degli Africani e dei Persi diffusamente si contiene. È vero che gli Africani di Numidia e di Libia adoravano i pianeti e a quelli sacrificavano; e alcuni degli Africani negri ebbero in venerazion Guighimo, che nella lor lingua significa il Signor del cielo: e questa buona mente ebbero senza essere informati né da profeta né da dottore alcuno. E d'indi a certo tempo furono introdotti nella legge giudaica, nella quale vi stettero molti anni, in fin tanto che alcuni regni de negri si fecero cristiani, e tanto rimasero nella fede di Cristo che si sollevò la setta di Maumetto, 268 di legira. Allora, andati a predicare in quelle parti alcuni discepoli di Maumetto, con le loro persuasioni tirarono gli animi degli Africani a quella legge, di maniera che tutti i regni dei negri che confinano con Libia diventarono maumettani. Pure oggidí v'è qualche regno nel quale ci sono rimasi fin ora, e rimangono, cristiani: solo quelli che erano giudei e da cristiani e da Africani furono totalmente distrutti. Quegli altri che abitano vicino al mare Oceano sono tutti gentili e adorano gli idoli, e questi hanno veduti, e ancora avuta qualche pratica con loro, molti Portogallesi.
Gli abitanti di Barberia rimasero essi ancora lungo tempo idolatri, e dugentocinquanta anni avanti il nascimento di Maumetto diventarono cristiani, percioché quella parte dove è Tunis e Tripoli fu dominata da certi signori pugliesi e siciliani, e la rivera di Cesaria e di Mauritania similmente fu signoreggiata da Gotti. In que' tempi eziandio molti signori cristiani, fuggendo dal furor di questi Gotti e lasciando adietro le natie e dolci contrade d'Italia, vennero ad abitar vicini a' terreni di Cartagine, dove poscia vi fecero dominio. Ma è da saper che questi cristiani di Barberia non tenevano l'osservanza e l'ordine della Chiesa romana, ma s'aderivano alle regole e alla fede degli arriani, e di quelli fu santo Agostino. Gli Arabi adunque, quando essi vennero per acquistar la Barberia, trovarono i cristiani già padroni e signori di quelle regioni, per che fecero insieme di molte battaglie. In fine piacque a Iddio di dare agli Arabi la vittoria, onde gli arriani si fuggirono, e chi andò in Italia e chi in Ispagna. Ma, doppo la morte di Maumetto cerca dugento anni, quasi tutta la Barberia divenne maumettana. Egli è vero che molte fiate queste genti ribellarono, e negando la fede di Maumetto amazzarono i lor sacerdoti e governatori; ma i pontefici, ogni volta che ciò udirono, subito mandarono eserciti contro ai detti Barberi. E questo intravenne fin che giunsero in Barberia gli scismatici, cioè quelli che fuggirono dalli pontefici di Bagaded: allora la fede di Maumetto fermò il piede. Tuttavia sempre furono e sono ancora rimase tra lor medesimi molte eresie e differenzie. Ma della legge di Maumetto, cioè delle cose di piú importanza, e della diversità che è fra gli Africani e quegli di Asia, col favor d'Iddio io penso trattarne pienamente in un'altra opera: in tanto forniremo questa.


Lettere usate dagli Africani.

Gli istorici arabi hanno per ferma oppenione che gli Africani non tenessero altra sorte di lettera che la latina, e dicono che quando gli Arabi acquistarono l'Africa, massimamente la Barberia, dove fu ed è la civiltà di Africa, essi altra lettera non vi trovarono che la latina. Confessano bene che gli Africani hanno una lingua differente e propria loro, ma che essi usano communemente le lettere latine, sí come fanno nell'Europa i Tedeschi. E quante istorie tengono gli Arabi degli Africani, tutte sono tradotte della lingua latina, opere antiche, e alcune scritte nel tempo degli arriani e alcune avanti. E gli autori di quelle sono nominati, ma i lor nomi mi sono usciti di mente. E penso che queste tali opere siano molto lunghe, percioché gli interpreti loro sogliono dire: "La tal cosa si contiene a settanta libri". Vero è che gli Arabi non tradussero le dette opere secondo gli ordini degli autori, ma pigliarono la somma dal nome dei signori, e di qui disposero e compartirono i tempi per li detti signori e principi, accordandogli con i tempi dei re di Persia o di quei degli Assiri o dei Caldei o dei re d'Israel. E ne' tempi che i scismatici regnarono nell'Africa, cioè quegli che fuggirono dai pontefici di Bagaded, essi comandarono che si devessero abbruciar tutti i libri delle istorie e delle scienze degli Africani, percioché pareva loro che i detti fossero cagione che gli Africani rimanessero nell'antica superbia, e che facessero ribellar e renegar la fede de Maumetto.
Alcuni altri nostri istorici dicono che gli Africani avevano proprie lettere, ma dapoi che i Romani dominarono la Barberia, e d'indi a molti tempi ne furono signori i cristiani che fuggirono della Italia e i Gotti, allora essi perderono le lettere loro. Percioché fa di mestiero ai soggetti seguitar le usanze dei padroni, se essi vogliono piacere a quelli: come sotto al dominio degli Arabi è avenuto ai Persi, i quali similmente hanno perdute le loro lettere, e tutti i loro libri furono abbruciati pur per comandamento dei pontefici macomettani, percioché estimavano che i Persi, mentre avevano i libri che conteneano le scienze naturali e le leggi e la fede degl'idoli, non potessero esser buoni e catolici maumettani. Abbruciate adunque l'opere, proibirono lor le scienzie, e il somigliante fecero i Romani e i Gotti quando, come s'è detto, signoreggiarono la Barberia. E parmi che per testimonio di ciò possa bastare che in tutta la Barberia, cosí per le città di mare come della campagna, cioè di quelle che sono anticamente edificate, quanti epitafi si veggono sopra le sepolture o nei muri di qualunque edificio, tutti sono in latine lettere e niuno altramente. Né io per tutto ciò crederei che gli Africani quelle tenessero per proprie lettere né che in quelle avessero scritto, percioché non è da dubitar che quando i Romani, che fur loro nimici, dominarono quei luoghi, essi, come è costume de' vincitori e per maggior lor disprezzo, levassero tutti i lor titoli e le lor lettere e vi mettessero i loro, per levar insieme con la dignità degli Africani ogni memoria e sola vi rimanesse quella del popolo romano. Sí come volevano eziandio degli edifici de' Romani fare i Gotti, o come volsero far gli Arabi di quelli dei Persi, e come alla giornata sogliono fare i Turchi ne' luoghi che prendono di cristiani, guastando non solamente le belle memorie e gli onorati titoli, ma nelle chiese le imagini de santi e sante che vi truovano. O non si vede egli in Roma medesima a' nostri tempi che alcuna volta, in principio d'un bello e degno edificio da un signore con grandissima spesa incominciato e per morte lasciato imperfetto, il successore o farà disfar per fino alle fondamenta per fare egli nuova fabrica, o, posto che quello fosse fornito o che lo lasci in piè, per ogni poco di novità che vi aggiunge vuole che siano levate le arme di quel signore e che vi si pongano le sue? O pure, se è tanto da bene che ve le lasci, le sue sono messe di sopra, e con lunghi epitafi fatti a misura e a compassi tengono il piú onorato luoco.
Non è adunque da maravigliarsi che la lettera africana sia perduta. E da 900 anni in qua gli Africani usano la lettera araba, e Ibnu Rachich scrittor africano nella sua cronica fa di questa materia una lunga disputa, cioè se gli Africani avevano proprie lettere o no, e conclude che essi l'avevano, dicendo che chi nega ciò può medesimamente negar che gli Africani abbiano avuta lingua propria. Aggiungeva ancora che è impossibile che un popolo che abbia una lingua particolare usi nello scrivere una lettera strana.


Sito di Africa.

L'Africa, sí com'è divisa in quattro parti, cosí esse parti sono nei siti differenti. La riviera del mare Mediterraneo, cioè dallo stretto di Zibeltara per insino a' confini di Egitto, tutta è occupata da monti, e si allargano verso mezzogiorno cerca miglia cento, e in alcuni luoghi piú e in alcuni altri meno. Da questi monti insino al monte Atlante v'hanno pianure e alcuni piccoli colli, e per tutti i monti della detta rivera si trovano molti fonti, i quali poscia si convertono in certi fiumicelli, chiari e all'occhio vaghi e dilettevoli molto. Dapoi delle quai pianure e colli è il monte Atlante, che incomincia dal mare Oceano, cioè dalla parte di ponente, e si estende verso levante fino a' confini di Egitto. Doppo Atlante si scuovrono le pianure dove è Numidia, nelle quali nascono i datteri, ch'è un paese quasi tutto arena. Doppo Numidia sono i diserti di Libia, pur tutti arenosi insino alla terra negra: nondimeno per li detti diserti si truovano molti monti, ma i mercatanti per quelli non fanno il loro cammino, percioché fra i monti vi sono molti passi larghi e piani. Doppo i diserti di Libia è la terra negra, le maggior parti della quale sono piane e arenose, fuor che le coste del fiume Niger e tutti quei luoghi dove bagnano e arrivano l'acque sue.


Luoghi fieri e nivosi di Africa.

Tutta la riviera di Barberia e i monti nella riviera contenuti partecipano quasi del freddo piú tosto che altramente, e a qualche stagione dell'anno vi nevica. Per tutti i detti monti nascono grani e frutti, ma frumento non molto in copia, e gli abitanti la piú parte dell'anno mangiano pane di orgio. I fonti che si trovano per li detti monti hanno certe acque che tengono il sapore del terreno e sono quasi torbide, e massimamente nelle parti che confinano con Mauritania. Sono eziandio sopra i detti monti molti boschi di alberi altissimi, e le piú volte pieni d'animali, quai buoni e quai cattivi. Ma i piccoli colli e le pianure che sono fra i detti monti e il monte Atlante sono tutti buonissimi terreni, che producono gran quantità di grani e d'ottimi frutti; e per tutti i detti colli e pianure passano tutti i fiumi che nascono di Atlante e vanno al mare Mediterraneo. Ma in questa parte si truovano pochi boschi, e migliori sono le pianure che v'hanno fra l'Atlante e l'Oceano, come è la regione di Marocco, la provincia di Duccala, e tutta Tedle e Temesne insieme con Azgar insino allo stretto di Zibeltara.
Il monte Atlante è molto frigido e sterile: in esso nascono pochi grani, e per ogni sua parte sono folti e oscuri boschi, e da lui ne nascono quasi tutti i fiumi di Africa. I fonti che si truovano nel detto monte nel mezzo della state sono freddissimi, di maniera che uno che tenesse la mano in quell'acqua per ogni piccolo spazio, senza dubbio ve la perderebbe. Le parti del detto monte non sono tutte ugualmente fredde, percioché v'hanno alcuni luoghi quasi temperati ne' quali vi si può assai bene abitare, e sono eziandio abitati, come vi si dirà partitamente nella seconda parte del nostro libro. Le parti disabitate o sono molto fredde o molto aspere: quelle che rispondono verso Temesna sono le aspere; le fredde riguardano verso Mauritania. Tuttavia quegli che attendono alle pecore vi vanno nel tempo della state a pascervi le loro bestie. Ma il verno non è possibile potervisi fermare per modo niuno, percioché sempre che la neve è venuta giú, subito si muove un vento dalla parte di tramontana, cosí dannoso ch'egli occide tutti gli animali che si truovano in quei luoghi, e molti uomini ancora vi muoiono, percioché quivi è il passo fra Mauritania e Numidia. E avendo in costume i mercatanti dei datteri partirsi di Numidia carichi di datteri nel fine di ottobre, alle volte la neve ve gli coglie di maniera che niuno ve ne resta vivo, conciosiaché, cominciando la notte a nevicare, la mattina si truova la carovana sepolta e affogata nella neve: né solamente la carovana, ma tutti gli alberi sono coperti, di modo che non si può vedere orma né segno dove siano i corpi morti. E io due fiate per gran miracolo sono scampato dal pericolo di questa morte nel tempo che io facevo questi cammini, delle quali non vi dispiacerà intender come una me ne avenisse.
Partiti insieme molti mercatanti da Fez, si trovammo con la carovana del sovradetto mese nell'Atlante. E cominciando cerca all'occaso del sole una fredda e folta neve, si ridussero insieme certi Arabi, i quali erano da dieci in dodici cavalli, e m'invitarono lasciando la carovana a girmene a buono albergo con esso loro. Io, non potendo ricusar lo invito e temendo di qualche inganno, feci pensiero di levarmi da dosso certa buona quantità di danari che mi trovava avere; e perché già questi tali incominciavano a cavalcare, affrettandomi essi, fingendo che 'l bisogno naturale m'astringesse n'andai in disparte sotto un albero, e quivi tra sassi e terreno come il meglio potei nascosi e riposi i danari, segnando con diligenza l'albero. Cavalcammo adunque taciti presso alla mezzanotte; allora un di costoro, parendo loro esser tempo di far quello che avevano in animo, cioè di tormi i danari e lasciarmi alla buona ventura, mi domandò se io alcun danaro aveva addosso. Io risposi che i miei danari aveva lasciato nella carovana a un mio caro e stretto parente. Non fui creduto, e per saperne essi il vero volsero che in quel gran freddo mi spogliassi per insino alla camicia, e nulla non vi trovando cominciarono meco a ridere, dicendo che ciò avevano fatto per ischerzo e per conoscer se io era uomo forte e s'io sapeva sopportare il freddo. Ora, seguendo il cammino sempre al buio e per gl'incommodi sí del tempo come della notte, quando piacque a Dio sentimmo il belar di molte pecore, verso il quale ci inviammo drizzando i cavalli tra boschi e alte rupi, di maniera che ci soprastava un altro pericolo. Infine in certe grotte alte trovammo alcuni pastori, i quali a gran fatica v'avevano condotte dentro le lor pecore e, acceso un buon fuoco, vi stavano al dintorno. I quali come noi viddero e conobbero questi essere Arabi, prima ebbero paura non qualche dispiacer gli facessero, dapoi s'assicurarono sopra la qualità del tempo e ne dimostrarono assai cortese accetto, e dieronci mangiar di ciò che avevano, cioè pane, carne e cacio. Fornita la cena, ci ponemmo a dormire a canto il fuoco, tutti tremando di freddo, e piú io che poco dianzi era stato spogliato ignudo, senza la paura che io aveva. Con questi pastori dimorammo due dí e due notti, che tanto continovò il nevicare. Il terzo dí fu cessato, onde i pastori incominciarono con gran diligenzia a levar via la neve, che aveva tutta rinchiusa e turata la bocca della grotta. Il che fatto ne menarono dove avevano allogati i nostri cavalli, che fu in certe altre grotte, e provedutogli di molto fieno; i quali trovando in buono essere su vi salimmo per dispartirci. Quel giorno si mostrò il sole chiaro e levò quasi tutta la freddezza dei dí trascorsi. I pastori vennero alquante miglia con noi, dimostrandoci alcune piccole vie dove sapevano che non poteva esser molto alta la neve: ma con tutto ciò i cavalli v'andavano sotto insino al petto. Giunti che fummo ne' confini di Fez in una villa, ci fu data certezza che la carovana era stata affogata dalla neve. Allora gli Arabi, perduta la speranza d'esser pagati delle loro fatiche, percioché avevano accompagnata la carovana e assecuratala, pigliarono un giudeo che era nella nostra compagnia, il quale aveva nella carovana cinquanta some di datteri, e il menarono prigione nei lor padiglioni con animo di tenervelo per insino a tanto che egli pagasse per tutti. A me levarono il cavallo e mi accomandarono a Dio. Io, preso a vettura un mulo fornito con certe bardelle che usano coloro tra quei monti, il terzo dí giunsi a Fez, dove trovai che già era stata recata la trista novella, e io similmente da' miei era stato riputato morto come gli altri. Ma ciò per sua bontà non era piaciuto a Dio.
Ora, lasciando di raccontar le mie sventure, ritornerò al lasciato ordine. Di là dal monte Atlante sono paesi secchi e caldi, dove si trovano pochi fiumi, i quali nascono pure in Atlante e corrono verso il diserto di Libia spargendosi nell'arena, e alcun di loro forma qualche lago. Nei detti paesi vi sono pochi terreni buoni alla semenza, ma infinite piante di datteri; si trova ancora qualche altro albero fruttifero, ma questi sono rari. E ne' luoghi di Numidia che confinano con Libia sono certi monti aspri, ma senza albero niuno, ne' piedi de' quali ci sono molti luochi di certi alberi tutti spinosi, i quali non fanno frutto. Né fonti vi sono né fiumi, se non alcuni pozzi quasi incogniti alle genti, tutti fra quei colli e monti diserti. In tutti i terreni di Numidia sono molti scorpioni e serpi, dai morsi e punture de' quali nella state ogni anno vi muore di gran gente. Libia è eziandio paese disertissimo, secco e tutto arena, dove non si trova né fonte né fiume né acqua, eccetto pure certi pozzi i quali hanno acqua piú tosto salsa che no, e questi non sono molti. E v'hanno alcuni luoghi ne' quali per sei e sette giorni di cammino non si trova acqua, e bisogna che i mercatanti se la portino negli utri sopra i camelli, massimamente nella strada che è da Fez a Tombutto o da Telensin ad Agadez.
E assai peggio è il viaggio che s'è trovato da moderni, il quale è di andar da Fez fino al Cairo per lo diserto di Libia. Nondimeno in questo viaggio si passa a canto d'un grandissimo lago, d'intorno al quale sono i popoli di Sin e di Gorrhan. Ma nel viaggio di Fez a Tombutto si trovano alcuni pozzi foderati dentro o dei cuori dei camelli o murati con le ossa de' detti animali, ed è gran pericolo a' mercatanti, quando si mettono a quel viaggio d'altro tempo che il verno, percioché allora soffiano alcuni silocchi o venti meridionali, e levano tanta arena che cuopre i detti pozzi, in tanto che i mercatanti, che si partono con speranza di trovar ne' luoghi consueti l'acqua, non vi discernendo né segno né vestigio di pozzo per esser coperti dalla arena, sono costretti a morirsi di sete, e sovente da viandanti si veggono l'ossa loro e di loro camelli biancheggiare in diversi luoghi. A questo c'è un solo rimedio e molto strano, il quale è che amazzano alcun camello, e spremendo dalle loro budella l'acqua che vi trovano, se la beono e compartono per insino che s'abbattino a qualche pozzo o che per la lunga sete muoiono. E trovansi nel diserto di Azaoad due sepolture fatte di non so che sasso, nel quale sono intagliate alcune lettere che dicono ivi esser sepelliti due uomini, uno de' quali fu ricchissimo mercatante, e passando per quel diserto infestato dalla sete comperò dall'altro, che era vetturale, una tazza di acqua per diecimila ducati: ma tuttavia morí dalla sete e il mercatante che comperò l'acqua e il vetturale che gliela vendé.
Sono nel detto diserto molti nocivi animali e degli altri ancora che non sono nocivi: ma di questi io sono per dirvi nella quarta parte del libro dove io tratterò di Libia, o vero dove io farò particolar menzione degli animali che si trovano in Africa. Penso ancora di raccontare altrove i pericoli che avenuti mi sono per li viaggi ch'io ho fatto in Libia, massimamente in quello di Gualata, di maniera che non poca maraviglia vi resterà nell'animo, conciosiaché alle volte abbiamo perduta la strada di trovar l'acqua percioché la guida si smarriva; e oltre abbiamo trovati i pozzi turati d'arena; e quando i nimici tenevano i passi dell'acqua, fu di necessità di risparmiar la poca che ci trovammo il meglio che per noi si poté, compartendo quella parte, che devea darci il bere a fatica per cinque giorni, per altretanti. Ma se io qui volessi distendere le particolarità di un solo viaggio, non bisognerebbe che io scrivessi di altro.
Nella terra negra sono i paesi caldissimi, e participano anco dell'umido per cagione del fiume Niger. E tutte le regioni che sono vicine al detto fiume hanno buonissimi terreni, dove vi nasce grandissima quantità di grani e trovavisi infinito numero di bestie; ma non v'ha frutto di niuna sorte, eccetto alcuni frutti che producono alberi molto grandi, i quali si assomigliano alle castagne ma tengono alquanto dell'amaro. Questi arbori si discostano dal fiume verso la terra ferma; il frutto ch'io dico è chiamato nella lor lingua goro. Egli è vero che qui nascono in quantità cocuccie, citrioli, cipolle e altri frutti. Né in tutta la riviera del Niger né ancora ne' confini di Libia si trovano monti o colle alcuno, ma ben molti laghi formati dall'inondazion del Niger; e intorno quelli sono molti boschi, ne' quali v'abitano elefanti e altri animali, come eziandio particolarmente a suoi luoghi vi si dirà.


Moti naturali dell'aere in Africa, e diversità che da quelli procedono.

In tutta quasi la Barberia, passata nella metà dello ottobre, incominciano le pioggie e il freddo; nel decembre eziandio e nel gennaio il freddo è maggiore, come negli altri luochi, ma quivi solamente nella mattina, di maniera che a niuno fa bisogno di scaldarsi al fuoco. Nel febraio ordinariamente v'ha quasi men freddo, ma sovente in un giorno il tempo farà cinque e sei volte mutazione. Nel marzo soffiano impetuosissimi venti di ponente e di tramontana, e questi ingravidano il terreno e fanno fiorire gli alberi; e nell'aprile quasi tutti i frutti cominciano a prender forma, intanto che ne' piani di Mauritania a' principii di maggio ed eziandio al fine di aprile si mangiano ciriegie. E come sono passate tre settimane di maggio, si colgono i fichi maturi come la state, e nella terza settimana di giugno incomincia a maturarsi l'uva e vi si mangia ancora. Le mele, le pere, armellini, grisomeli e i pruni divengono maturi fra il luglio. I fichi dell'autunno son maturi nello agosto, e cosí le giuggiole; ma nel settembre è il colmo e dei fichi e delle persiche. Passato mezzo agosto incominciano a seccar l'uva, e la seccano al sole; e se piove nel settembre, di tutta l'uva che è rimasa fanno vini e mosti cotti, massimamente nella provincia di Rif, come pure particolarmente vi si dirà. Nel mezzo d'ottobre colgono le mele, le granate e i cotogni; nel novembre l'olive: ma non si colgono con le scale, come si fa nella Europa, spiccandole con le mani, percioché non si può fare scale tanto lunghe che arrivino all'altezza degli alberi, conciosiacosaché là gli olivari sono grossissimi e altissimi, massimamente quegli di Mauritania, di Cesaria; ma quelli che sono nel regno di Tunis tengono somiglianza con gli altri che nascono nella Europa. Quando adunque gli uomini vogliono coglier le olive, vanno sugli alberi con bastoni lunghissimi in mano, e percotendo i rami le fanno giú cadere. Il che conoscono esser lor danno, percioché ciò faccendo danno sopra gli occhi dei ramoscelli giovanetti e molti ne guastano. Aviene ancora che le olive di Africa tale anno vi sono in abondanza e alcun altro non vi se ne trova acino. E v'hanno certe olive grosse che non sono buone da fare oglio, ma si mangiano concie, eziandio in tutte le stagioni.
Termini e qualità dell'anno. Sempre i tre mesi della primavera sono quasi temperati. Entra la primavera a' quindici di febraio e compie a' diciotto di maggio: e in tutta questa stagione è quasi di continovo il tempo bello, ma se non piove da' venticinque d'aprile insino a' cinque di maggio l'aricolta dell'anno è pessima, e chiamano l'acqua che apportano quelle pioggie acqua di Naisan. La quale essi tengono per benedetta aqua d'Iddio, e molti se la serbano in vaselli e ampolle, tenendosela in casa per divozione. La state pur dura per insino a' sedici di agosto, e tutto questo tempo è calidissimo, spezialmente il giugno e il luglio, e per tutti questi cotai tempi è sereno e bell'aere, eccetto che alcuni anni se piove o di luglio o di agosto. Da quelle acque procede malvagità di aere, e molti s'infermano d'una acuta e continova febbre, e pochi sono quelli che scampino. La stagione dell'autunno appo loro incomincia a' diciasette di agosto e segue fino a' sedici di novembre, e questi due mesi, cioè agosto e settembre, sono di minor calore; ma pur tuttavia que' dí che si framettono ne' quindici di agosto per insino a' quindici di settembre sono dagli antichi chiamati il forno del tempo, percioché agosto fa maturare i fichi, le melagrane e i cotogni, e secca l'uva. Da' quindici di novembre incomincia la stagione del verno e si estende fino a' quattordici di febraio, e nel suo principio s'incomincia a seminare i terreni del piano; ne' monti s'incomincia l'ottobre. Gli Africani hanno oppenione che nell'anno sono quaranta dí caldissimi, i quali sogliono principiar da' dodici di giugno; cosí all'incontro tengono che ce ne siano altretanti freddissimi, che cominciano a' dodici di decembre. E gli equinozii similmente tengono, e cosí sono, ne' sedici di marzo e ne' sedici di settembre; tengono eziandio che 'l sole ritorni ne' sedici di giugno e ne' sedici di decembre. Cosí questa tal regola è appresso loro, e la serbano sí nell'affitar dei loro poderi e sí nel seminare e raccorre, come nel navicare e nel trovar le stanze e le revoluzion dei pianeti. Ma molte cose pertinenti a ciò e piú utili fanno insegnar con diligenza nelle scole a' fanciulli.
Ci sono ancora molti contadini, e arabi e altri, che senza avere imparato mai lettera alcuna sanno parlar delle cose della astrologia molto copiosamente, adducendo di ciò che dicono ragioni evidentissime. Le regole e la cognizione che essi hanno sono cavate dalla lingua latina e portate nella arabica, e appellano i mesi per gli stessi nomi che gli appellano i Latini. Hanno similmente un gran volume in tre libri diviso, il quale essi chiamano nella lingua loro il Tesoro degli agricoltori, ed è tradotto dalla lingua latina all'arabica in Cordova nel tempo di Mansor, signore di Granata. Il qual libro tratta di tutte le cose che fanno di bisogno alla agricoltura, cioè del tempo e del modo del seminar, del piantare, d'incalmar gli alberi e di contrafare ogni frutto o grano o legume. E maravigliomi molto che appresso gli Africani siano molti libri tradotti dalla lingua latina, i quali oggi non si trovano appresso i Latini. I conti e le regole che tengono gli Africani, e ancora tutti i maumettani, per le cose pertinenti alla fede e alla legge loro tutti sono secondo la luna. E hanno l'anno loro di trecentocinquantaquattro giorni, percioché sei mesi fanno di trenta dí e altri sei di ventinove, il che posto insieme aggiugne alla detta somma. Le feste e i digiuni loro vengono in diversi tempi. L'anno adunque arabo e africano è meno del latino undici giorni, e quelli undici giorni fanno tornar l'anno nostro adrieto.
È da sapere ancora che nelle parti ultime dell'autunno e tutto il verno, ed eziandio alcuna parte della primavera, sono tempi tempestosi e orridi di grandini, di folgori e di saette, e molti luoghi sono in Barberia ne' quali nevica. In quella tre venti che soffiano da levante, da silocco e da mezzogiorno sono molto nocevoli, massimamente il maggio o il giugno, percioché guastano tutti i grani e non lasciano crescere né divenir maturi i frutti. Ancora ai grani fa gran danno la nebbia, e quella piú che si mostra quando fiorisce il grano, percioché alle volte ella dura tutto il dí. Nel monte Atlante l'anno non è piú che due stagioni, percioché d'ottobre insino ad aprile tutti i sei mesi sono verno, e d'aprile fino a settembre tutto è state; ma per tutto l'anno in tutte le sommità del detto monte si trova di continovo neve. In Numidia le stagioni corrono quasi con maggiore velocità, percioché il maggio si colgono i grani e i datteri nell'ottobre; e la metà di settembre con tutto ottobre fino a gennaio è la piú fredda parte di tutto l'anno. Se piove il settembre, i datteri quasi per la maggior parte si guastano e fassene trista raccolta. Tutti i terreni di Numidia vogliono essere adacquati per la sementa, onde, se aviene che non piova in Atlante, tutti i fiumi di Numidia rimangono quasi secchi, di maniera che non possono adacquare i terreni, e non piovendo similmente l'ottobre non bisogna aver speranza di seminar quell'anno; cosí, mancando l'acqua il mese d'aprile, non si può coglier grano nelle campagne. Ma quando non piove è buona raccolta di datteri, e quegli di Numidia stimano molto piú la raccolta dei datteri che del grano, percioché, ancora che egli fosse grandissima abondanza di grano, non perciò sarebbe a sufficienza per la metà dell'anno; ma quando la raccolta dei datteri è buona allora non mancano grani, percioché gli Arabi e i camelleri che seguono il mestieri della mercanzia dei datteri portano infinito grano per farne baratto con essi datteri.
Ancora ne' diserti di Libia, se si mutano le stagioni nella metà d'agosto e se durano le pioggie fino al novembre, ed eziandio per tutto decembre e gennaio e qualche parte di febraio, allora ne segue l'abondanza delle erbe, trovansi per tutta Libia molti laghi, e molta copia di latte. Per questa cagione i mercatanti della Barberia fanno il loro viaggio alla terra negra. In questa le stagioni incominciano piú per tempo e ivi comincia a piovere nel fine di luglio, ma non piove molto, e la pioggia nella terra negra ha questa virtú, che ella né giova né fa danno, percioché alla sementa dei terreni bastano le acque del Niger, le quali crescendo rendono morbidi e fertili tutte quelle campagne non altrimenti che faccia il Nilo nello Egitto. Egli è vero che in alcuni monti fanno di bisogno le pioggie; e il Niger né piú né meno cresce nel tempo che cresce il Nilo, il che è a' quindici di giugno e dura quaranta dí e altretanti decresce. E quando cresce il Niger, puossi discorrer con barche quasi tutti i paesi dei negri, percioché allora tutti i piani e le valli e i fossi diventano fiumi; ma è molto pericoloso il navicar con alcune barche che vi si usano, come nella quinta parte dell'opera abastanza descriverò.


Brevità e lunghezza di etadi.

Per tutte le città e terreni della Barberia le età degli uomini aggiungono per insino a sessantacinque o a settanta anni, e v'hanno pochi che questo numero passino; ma pur si trovano ne' monti della Barberia uomini che forniscono cento anni e alcuni che ve gli passano. E sono questi d'una gagliarda e forte vecchiezza, percioché ho veduto io vecchi d'ottanta e piú anni arar la terra e zappar le vigne, e far con destrezza mirabile tutti gli altri lavori che vi bisognano; e quel ch'è piú, ho veduto nel monte Atlante uomini di ottant'anni entrare in battaglia e combatter valorosamente con giovani, e molti di loro rimaner vincitori. In Numidia ancora, cioè nel paese dei datteri, sono uomini di lunga vita, ma caggiono loro i denti e molto si accorta la vista. Il cader dei denti procede dal continovo uso di mangiar datteri, e lo accortar della vista avviene perché que' paesi sono molto infestati da un vento di levante, il quale movendo l'arena la leva in alto, di maniera che la polvere offende loro molto spesso gli occhi e col tempo gli guasta. Quelli di Libia vivono quasi meno di quelli delle altre regioni, ma gagliardi e sani insino a sessanta anni o d'intorno; è vero che essi sono magri e sottili. Nella terra negra sono le vite molto piú corte di quelle dell'altre generazioni, ma gli uomini stanno sempre robusti e i lor denti sono sempre fermi e a un modo: ma sono uomini di gran lussuria, sí come anco quegli di Libia e di Numidia; e quei di Barberia sono generalmente di minor forza.


Infermitadi che spesse volte accadono agli Africani.

Nel capo ai piccioli fanciulli e ancora alle donne di matura età suol nascere certa tigna, della quale se non con grandissima fatica guariscono. Da dolore di capo molti uomini sono offesi, e questo alle volte lor viene senza alcuna febbre. Dolor di denti similmente non pochi offende, e pensasi che ciò avenga percioché, mangiando essi le minestre calde, dietro di quelle beono acqua fredda. Sono eziandio molestati da doglia di stomaco, la quale per ignoranza chiamano dolor di cuore; torgimenti e passioni di corpo acutissimi a molti intervengono quasi in ciascun giorno, e questo pur per cagione dell'acqua fredda che beono. Sciatiche e dolori di ginocchi sono assai frequenti, e procedono dal sedere spesso sul terreno e dal non portar calze di sorte alcuna. Pochi sono che patiscano difetto di podagre, ma si trovano alcuni signori che l'hanno, percioché sono avezzi a ber vino e a mangiar polli e delicate vivande. Per mangiar molte olive, noci e altri cibi grossi e di niun valore lor nasce la rogna, che ad essi molto è di fastidio. A quei che sono di natura sanguigni, per seder similmente il verno in terra, si move alle volte una fiera e maligna tosse. Pigliasi piacere molte fiate il venerdí, nel quale essendo costume di ragunarsi nei tempi migliaia di persone, quando il sacerdote è su la piú bella parte del predicare, se aviene che un tossa l'altro comincia a tossire e di mano in mano tutti quasi ad un tempo, né cessano insino al fornir della predica, di maniera che al partire nessuno l'ha udita.
Del male che nell'Italia è detto francioso io non credo che in tutte le città di Barberia la decima parte ne sia scampata, e suol venire con doglie, con bolle e con piaghe profondissime; ma molti tuttavia ne guariscono. È vero che nel contado e nei monti d'Atlante quasi niuno è offeso da questo male; similmente in tutta Numidia, cioè pure nel paese dei datteri, non si trova chi l'abbia. Né meno in Libia o in terra negra si ragiona di quello, anzi, se alcuno lo pate, tosto che si conduce in Numidia o nella terra negra, come sente quell'aere si risana e riman netto come un pesce. E io ho veduto con gli occhi miei quasi un centinaio di persone che, senza altri rimedii, per la mutazion sola dell'aere sono guariti. Questo tal male non era prima nell'Africa, anzi in quei luoghi niuno l'aveva sentito nominare, ma ebbe principio nel tempo che Ferrando re di Spagna cacciò di Spagna i giudei. Che, poscia che essi vennero nella Barberia, essendo molti di loro imbrattati, avenne che alcuni tristi e ghiotti Mori usarono con le loro donne e nel presero. D'indi seguitando di mano in mano s'incominciò a infettar la Barberia, in modo che non si trova famiglia che o sia netta o non abbia avuto questo male. E appresso loro per indubitata prova tiensi l'origine esser venuta di Spagna, e cosí gli dicono mal di Spagna; ma quei di Tunis lo chiamano francioso come gli Italiani, tra' quali molto crudele esso si ha fatto sentire per alcun tempo; cosí in Egitto e in Soria, dove cotal nome gli è detto.
Mal di fianco d'alcuni aviene. In Barberia pochi patiscono quel male o difetto che da' Latini è detto ernia; ma nell'Egitto molti se ne dolgono, e alle volte ad alcuni tanto si gonfiano i testicoli che è una maraviglia a vedere. Credesi che tale infermità proceda dal mangiar gomme e molto cacio salato. Il caduco spesse fiate nella Africa accade a fanciulli, ma essi venendo in età guariscono; e hannolo molte donne, massimamente nella Barberia e nella terra negra; ma per isciocchezza quei che sono inoffesi da questo male essi gli tengono spiritati. La peste nella Barberia usa venire in capo di dieci, di quindici o di venticinque anni, e leva quando viene gran quantità di gente, percioché essi non v'hanno niuno riguardo dal detto male né vi usano rimedii, fuori che dove è la ghiandussa sogliono far certe unzioni d'intorno con terra armenica. Questa nella Numidia non si fa sentire se non dopo lo spazio di cento anni, ma nella terra negra ella non vien mai.


Virtuti e cose lodevoli che sono negli Africani.

Gli Africani, cioè gli abitanti nelle città della Barberia e massimamente nella rivera del mare Mediterraneo, sono uomini che grandemente si dilettano di sapere, e si danno con molta cura agli studi: tra' quali quello della umanità e quello delle cose della fede e delle leggi loro tengono il primo luoco. Anticamente usavano di studiar nelle discipline matematiche, nella filosofia ed eziandio nell'astrologia; ma da quattrocento anni in qua, come s'è in parte detto, molte scienzie furono loro vietate dai dottori e dai principi loro, sí come fu la filosofia e l'astrologia giudiciaria. Quelli eziandio che abitano nelle città di Africa sono molto divoti nella fede loro, obediscono ai loro dottori e sacerdoti, e hanno gran cura di saper le cose necessarie di essa fede. Vanno continovamente a fare ordinarie orazioni nei tempi, sostenendo un fastidio da non credere, di lavar per cagione delle dette orazioni molte membra, e alle volte lavano tutto il corpo, come ho meco proposto di dire nel libro secondo della fede e legge maumettana.
Sono ancora gli abitanti nelle città di Barberia uomini ingeniosi, come si vede nell'artificio di belli e diversi lavori, e sono bene ordinati e molto gentili. Sono eziandio uomini di gran bontà, né hanno molto di malizia, e tengono il vero e nel cuore e nella lingua, ancora che negli antichi secoli, come di ciò fanno fede le istorie degli scrittori latini, siano stati altrimenti tenuti. Sono uomini valorosi e di grande animo, massimamente quelli che abitano ne' monti. La fede osservano sopra tutte le cose del mondo, e prima mancarebbe in loro la vita che essi mancassero di quello che hanno promesso. Sono sopra ogni altra cosa gelosissimi, e disprezzano piú tosto la vita che voglino sostenere una vergogna ricevuta per conto delle loro donne. Desiderosi di ricchezza e di onore sono oltra modo. Vanno appresso in tutte le parti del mondo mercatanti, e sono accettati per lettori e maestri in diverse scienzie: se ne veggono di ogni tempo in Egitto, in Etiopia, in Arabia, in Persia, in India e in Turchia, e dovunque essi vadino vengono molto ben veduti e onorati, percioché tutti sono sufficienti perfettamente in quella arte che hanno imparato. Sono ancora onesti e vergognosi, né parlano mai in publico parole disoneste. Il minore rende onore al maggiore e nei ragionamenti e in ogni altra particolarità. E tengono questo buon rispetto, che 'l figliuolo nella presenza del padre o del zio non ardisce ragionar né di amore né di giovane amata; e similmente hanno a vergogna di cantare canzone amorose, ove veggono l'aspetto dei loro maggiori. Se i fanciulli si abbattono per sorte fra ragionamenti pur d'amore, subito si dipartono da quel luogo. E questi sono i buoni costumi e le oneste creanze che sono ne' cittadini di Barberia.
Coloro che abitano ne' padiglioni, cioè gli Arabi e i pastori, sono uomini liberali, pieni di pietà, animosi, pazienti, conversabili, domestici, di buona vita, obedienti, osservatori di fede, piacevoli e di allegra natura. Gli abitanti dei monti ancora essi sono liberali, animosi, vergognosi e onesti nel viver commune. Quei di Numidia sono piú di questi ingeniosi, percioché si danno alle virtú e studiano nella legge loro, ma delle scienzie naturali non hanno molta cognizione; sono uomini esercitati nelle arme, coraggiosi e molto benigni similmente. Gli abitatori di Libia, cioè gli Africani e gli Arabi, sono liberali, piacevoli e ne' bisogni degli amici s'affaticano con tutto il cuore. Veggiono volentieri bene a' forestieri; sono di gran cuore, schietti e veri. I negri sono di vita buona e fedeli, accarezzano molto i forestieri e danno tutto il loro tempo a piaceri e a far vita allegra, danzando e stando le piú volte su conviti e in sollazzi di diverse maniere. Sono schiettissimi e fanno grandissimo onore agli uomini dotti e religiosi. E questi nell'Africa hanno il miglior tempo di tutti gli altri Africani che vi sono.


Vizii e parti biasimevoli che sono negli Africani.

Non è dubbio che queste genti, quante hanno in loro virtú, altretanti vizii non abbiano: ma veggiamo se questi vizii sono piú o meno. I sopradetti abitanti nelle città della Barberia sono poveri e superbi, sdegnosi senza comparazione, e ogni piccola ingiuria scrivono, come si dice, in marmo né mai se la lasciano uscir di mente. Ispiacevoli di maniera che raro è quel forestiere che possa acquistar l'amicizia loro, sono eziandio uomini semplici e crederebbono ogni cosa impossibile. Il volgo è molto ignorante nella cognizion naturale, in modo che tutte le operazioni e moti della natura tengono assaissimi per atti divini. Sono irregolati sí nel vivere come nelle azion loro, soggetti alla colera grandemente, e le piú volte che parlano usano parole superbe e con voce alta, e per le strade communi rara quella fiata che non se ne vegghino due o tre che facciano battaglia con le pugna. Sono di natura vile e appresso i lor signori tenuti in poco prezzo, onde si può dire che un signore faccia molte volte piú conto d'una bestia che d'un suo cittadino. Non hanno né primari né procuratori che gli abbiano a reggere o a consigliare in cosa alcuna cerca al governo. Sono eziandio molto grossi e ignoranti nella mercanzia: non hanno banchi di cambio, né meno chi da una città all'altra dia spedimento alle cose, ma conviene che ogni mercatante sia presso alla sua robba, e dove quella è condotta ivi ne va il padrone. Avarissimi piú di ogni altra cosa, in tanto che si trova gran quantità di uomini che mai non hanno voluto alloggiar forestieri, né per cortesia né per amor d'Iddio; e pochi ancora sono quelli che rendono il cambio a coloro da' quali hanno avuto piaceri. Sono sempre turbati e pieni di maninconia, né porgono volentieri orecchia a piacevolezza niuna, e questo aviene per esser di continovo occupati nelle bisogne del vivere, percioché la lor povertà è grande e i guadagni sono piccoli.
I pastori, cosí dei monti come delle campagne, vivono amaramente delle fatiche delle lor mani e stanno in continova miseria e necessità. Sono bestiali, ladri, ignoranti, né pagano mai cosa che lor si dia a credenza. E di costoro sono in maggior numero i cornuti che d'altra sorte. A tutte le giovani, prima che si maritino, è lecito d'avere amanti e di godersi dei frutti d'amore; e il padre medesimo accarezza l'innamorato della figliuola, e il fratello della sorella, di maniera che niuna porta la virginità al marito. È ben vero che come una è maritata gli amatori non la seguono piú, ma si danno a un'altra. La piú parte di questi non sono né maumettani né giudei, né men credono in Cristo, ma sono senza fede e senza non pur religione, ma ombra di religione alcuna, di modo che né fanno orazione né tengono chiese, ma vivono a guisa di bestie. E se pur si trova alcuno che senta qualche poco di odore di divozione, non avendo né legge né sacerdote né regola alcuna è costretto a viversi come gli altri.
I Numidi sono uomini lontani dalla cognizion delle cose, e sono ignoranti dei modi e ordini del vivere naturale, traditori, omicidi e ladri senza risguardo o considerazione alcuna. Sono vili e conducendosi nella Barberia si danno ad ogni vilissimo mistiere, e d'essi quai sono curatori di destri, quai cuochi e guatteri delle cucine e quai famigli di stalle, e infine per danari fanno ogni vituperosa operazione.
Quegli di Libia sono bestiali, ignoranti, senza lettere di niuna sorte, ladri e assassini, e vivono come fanno gli animali salvatichi. Sono eziandio senza fede e senza regola, e vissero in ogni tempo, e vivono, e sempre in miseria viveranno. Non è sí grande e orribile tradimento, che essi per cagione e desiderio di robba non facessero; né sono animali che piú portino lunghe le corna di quello che se le porta questa canaglia. Tutto il tempo della vita loro consumano o in far male o in cacciare o in far tra lor guerra o in pascer le bestie per li diserti, e sempre vanno scalzi e nudi.
Quei della terra negra sono uomini bestialissimi, uomini senza ragione, senza ingegno e senza pratica; non hanno veruna informazione di che che sia e vivono pure a guisa di bestie senza regola e senza legge; le meretrici tra loro sono molte e per conseguente i becchi; da alcuni in fuori che abitano nelle città grandi. Essi in fine hanno poco piú del sentimento umano.
Non m'è ascoso esser vergogna di me medesimo a confessare e scoprire i vituperi degli Africani, essendo l'Africa mia nudrice e nella quale io sono cresciuto e dove ho speso la piú bella parte e la maggiore degli anni miei. Ma faccia appresso tutti mia scusa l'officio dell'istorico, il quale è tenuto a dire senza rispetto la verità delle cose, e non a compiacere al desiderio di niuno: di maniera che io sono necessariamente costretto a scriver quello che io scrivo, non volendo io in niuna parte allontanarmi dal vero e lasciando gli ornamenti delle parole e l'artificio da parte. E in mia difesa voglio che ai gentili spiriti e alle virtuose persone, che si degneranno di legger questa mia lunga fatica, basti lo esempio d'una brieve novelletta.
Ragionasi che nel mio paese fu un giovane di bassa condizione e di malvagia e pessima vita, il quale, per un furto di piccolo momento preso, fu condannato a essere scopato. Venuto il giorno nel quale costui dovea aver le scopature, dato in mano de' ministri della giustizia, conobbe il boia esser suo amico; laonde ei si tenne piú che sicuro ch'egli a lui quel rispetto avrebbe che agli altri non era uso di avere. Ma il boia in contrario, incominciando le scopature, la prima gli diè molto crudele e incendosa, alla quale il povero compagno smarrito gridò forte: "Fratello, essendo io tuo amico, tu mi tratti molto male". Il boia allora, dandogli la seconda maggiore, rispose: "Socio, a me convien fare il mio officio come si dee fare, e qui non ci ha luogo amicizia". E seguitando di mano in mano tante ne gli diè, quante gli furono imposte dal giudice. Per il che quando io tacessi i vizii loro potrei cadere in giusta riprensione, e alcuni crederebbono che io ciò avessi fatto per avere ancora io di questi la parte mia, massimamente essendo all'incontro privo di quelle virtú che gli altri hanno. Nel che io, poi che altro a mia difesa non ho, mi propongo di tenere a punto il costume di uno uccello, la natura del quale se io vi voglio dire, a me conviene scrivervi un'altra brieve e piacevole novelletta.
Ne' tempi che gli animali parlavano, v'ebbe un vago e animoso uccelletto, e sopra tutto ornato d'un ingegno mirabile, il quale dalla natura aveva questo di piú, che esso poteva viver cosí ben sotto le acque tra i pesci come sopra la terra fra gli altri uccelli. Erano tenuti tutti gli uccelli di quella età di dar ciascun anno certo tributo a il loro re. Per il che questo uccelletto entrò in pensiero di non ne pagar niuno. E in quell'ora che il re mandò a lui uno de' suoi officiali per riscuotere il tributo, il cattivello, dandogli in pagamento parole, preso un gran volo non ristette prima che fu nel mare, e si cacciò tra l'acque. I pesci, vedendo questa novità, tutti gli corsero d'intorno a larghe schiere per saper la cagione che lo aveva mosso a venir tra loro. "Ohimè, - rispose l'uccelletto, - non sapete voi uomini da bene, che 'l mondo è venuto a tale che piú non si può vivere di sopra? Il poltroniere del nostro re, per certo capriccio strano che gli è venuto in capo, mi vuole isquartar vivo, non ostante alla mia bontà, che pure sono il piú netto e il piú da ben gentiluomo che sia fra tutti gli uccelli". E seguitò: "Per l'amor di Dio, siate contenti che io alberghi con voi, acciò che io possa dire di aver trovato piú bontà negli stranieri che nei miei proprii e tra la mia gente". Si contentarono di ciò i pesci, laonde egli vi stette uno anno senza esser gravato di cosa alcuna. In capo del quale il re de' pesci, venuto il tempo di riscuoter i tributi, mandò uno de' suoi servitori all'uccelletto, faccendogli intendere il costume e chiedendogli il suo diritto. "Egli è ben dovere", disse egli, e preso il volo uscí delle acque, lasciando colui con la maggior vergogna del mondo. Infine, quante volte a questo uccelletto veniva dal re degli uccelli dimandato il tributo, egli fuggiva sotto l'acque, e quante volte esso gli era dimandato dal re dei pesci, egli tornava sopra la terra. Voglio inferire che dove l'uomo conosce il suo vantaggio sempre vi corre quando e' può. Onde se gli Africani saranno vituperati, dirò che io son nato in Granata e non in Africa, e se 'l mio paese verrà biasimato, recarò in mio favore l'essere io allevato in Africa e non in Granata. Ma di tanto sarò agli Africani favorevole, che solamente dei loro biasimi racconterò le cose che sono publiche e piú palesi a ciascuno.


SECONDA PARTE

Proemio.

Avendo io nella prima parte della mia opera descritto generalmente e communemente le città, i termini, le divisioni e le cose che piú mi parvero degne di memoria degli Africani, nelle altre che seguiranno sono per darvi particolare informazione di varie provincie, di cittadi, di monti, di siti, di leggi e costumi loro, non lasciando adietro cosa che meriti di essere intesa. Incominciarò adunque primieramente dalle parti di ponente, seguitando di luoco in luoco, fino che terminarò il mio ragionamento nella terra di Egitto: il che sarà diviso in sette parti. Alle quali un'altra v'aggiungerò, e in quella con lo aiuto della bontà di sopra, senza la quale non si può far qua giú cosa che perfetta sia, è mio proponimento di descrivere i fiumi notabili, gli animali diversi, le varie piante, i frutti e l'erbe di qualche virtú che sono in tutta l'Africa.


Hea, regione verso occidente.

Hea, regione di Marocco, dalla parte dell'occidente e del settentrione termina al mare Oceano; dal mezzogiorno ha fine al monte Atlante; dall'oriente compie al fiume di Esifnual, il quale nascendo dal detto monte entra nel fiume di Tensist, e questo separa Hea dalla propinqua regione.


Sito e qualità di Hea.

Questa tal regione è paese molto aspero ed è pieno di altissimi e sassosi monti, di boschi, di valli e di piccoli fiumicelli; è molto popoloso e abitato. V'è moltitudine grande di capre e d'asini; pecore sono in poca quantità, e minor numero v'è di buoi e di cavalli. Trovansi eziandio pochi frutti, il che non procede dal difetto del terreno, ma dalla ignoranza degli abitanti, percioché ho veduto io molti luoghi dove v'era gran copia di fichi e di persiche. Di frumento piccola parte vi nasce, ma di orgio, di miglio e di panico v'è grandissima abondanza, e similmente di melle; il quale quei del paese mangiano per consueto cibo, e perché non sanno altrimente quello che si faccia della cera, la gittano via. Quivi si trova molta quantità di alcuni alberi spinosi, i quali producono certi frutti grossi come sono le olive che vengono di Spagna, e questi frutti nel linguaggio loro sono detti arga. Di essi ne fanno oglio, il quale è di odore molto cattivo: nondimeno ve lo adoperano nel mangiare, ed eziandio nell'arder dei lumi.


Modo di vivere di questo popolo.

Questa generazione ha quasi in continova consuetudine di mangiar pane di orgio, il quale formano piú tosto a somiglianza di schiacciate che di pane, e fannolo azzimo. Il modo di cuocerlo è in certe padelle di terra, fatte come sono quelle con che si cuoprono le torte in Italia, e pochi si trovano che cuocano il pane nel forno. Usano ancora un altro cibo insipido e vile, il quale è da loro chiamato elhasid, e fassi in questo modo: fanno bollir l'acqua in una caldaia, poi vi mettono dentro farina di orgio, e con un bastone or qua or là la vanno rivolgendo e mescolando, insino che ella è cotta. Indi la roversciano in un catino, e fattole nel mezzo una piccola fossa, vi pongono dentro di quell'oglio che hanno. Allora tutta la famiglia s'acconcia d'intorno al catino, e senza altri cocchiari, con le proprie mani pigliando ciascuno quanto può pigliare, mangiano per insino che ve ne rimane una minima particella. Ma la primavera e tutta la state sogliono bollire la detta farina in latte, e in vece di oglio vi mettono butiro. Questo costume serbano nelle cene, percioché nel desinare usano il verno mangiar pane con melle, e la state con latte e con butiro. Sogliono ancora mangiare carne bollita, e insieme cipolle e fave, o pure l'accompagnano con un altro cibo detto da essi cuscusu. E non vi adoperano tavole né tovaglie, ma distendono in terra alcune stuore tonde e mangiano sopra quelle.


Abito e costumi del medesimo.

La piú parte di cotal gente usa di portar per vestimento certo panno di lana detto elchise, il quale è fatto a simiglianza d'una coltre con la quale in Italia si suol coprir la letta. Essi se lo rivolgono intorno molto bene stretto, e cingonsi non il traverso, ma sopra il culo e le parti piú secrete dinanzi con certi sciugatoi pur di lana. Sul capo portano alcuni pannicelli della medesima lana, lunghi dieci palme e larghi due, i quali tingono con le scorza che cavano dalle radici delle noci, e se gli intorcono e aggroppano d'intorno la testa, di maniera che la sommità del capo riman sempre scoperta. Né hanno in costume di portar berrette altri che i vecchi e gli uomini dotti, se alcuno ve n'ha; e queste berrette sono doppie e tonde, e tengono la medesima altezza di quelle che sogliono portare in Italia alcuni medici. Pochissimi sono quegli che portino camicie, parte perché in quel paese non si usa di seminar lino, e parte che non v'ha chi le sappia tessere.
I loro sedili sono certe stuore pilose intessute di giunchi, e le letta alcune schiavine pure, come dicemmo, pilose di lunghezza di dieci braccia fino 20, delle quali una parte serve per materazzo e l'altra per lenzuolo e per coltre; e il verno le volgono col pelo verso il loro corpo, e la state infuori. I capezzali e guanciali sono di una sorte di sacchi di lana, grossi e aspri, nella guisa di certe coperte di cavalli che vengono di Albania o di Turchia. Le donne loro per la maggior parte portano la faccia scoperta. Usansi tra loro alcuni vasi di legno fatti non a tornio, ma cavati con lo scalpello; ma le pignatte e i catini sono pur di terra. Gli uomini che non hanno moglie non usano di portar barba, ma se la lasciano crescere allora che l'hanno presa. Hanno pochi cavalli, ma quei pochi che hanno sono avezzi a correr per quelle montagne con tanta agilità e destrezza che paion gatti, né gli mettono ferri ai piè. Arano la terra solamente con asini e con cavalli.
Trovasi in questa regione gran moltitudine di cervi, di capriuoli e di lepri; ma quivi non si usano caccie. E mi maraviglio assai che, essendovi molti fiumi, si trovano pochi molini: il che aviene che quasi ogni casa ha dentro gli instrumenti di macinare, e le femine fanno questa opera con le lor mani. Quivi non abita scienzia alcuna, né si trovano altri che sappiano lettere fuori che qualche semplice legista, il quale è voto di ciascuna altra virtú. Né v'ha medico di niuna sorte né barbiere né spiziale, e la maggior parte delli loro remedii e medicine sono con il cauterizare con il fuoco come bestie. Egli è vero che qualche barbiere pur si trova, il quale altra cura non ha che di circoncidere i fanciulli. In questo paese non si fa savone, ma in luoco d'esso adopravisi la cenere. Infine il detto popolo è sempre in guerra, ma la guerra è tra loro, di maniera che essi non fanno ingiuria a forestieri. E se ad alcun del popolo fa di bisogno di passar da un luoco all'altro, conviene che egli prenda la scorta di qualche o religioso o donna della parte avversa. Di giustizia in quella parte non si ragiona né molto né poco, massimamente tra quei monti dove non c'è né principe né ministro alcuno che gli governi, e i nobili e maggiori appena possono tener qualche apparenza di magistrato dentro le mura delle città. Ed esse città sono poche, ma sonvi molte terricciuole e castelli e casali, de' quali alcuni sono molto piccoli e altri assai grandi e agiati, sí come di ciascuna e di ciascuno partitamente vi scriverò.


Tednest, città in Hea.

Tednest è città antica, edificata dagli Africani in una assai bella e vaga pianura. È intorno tutta murata, e le mura sono di mattoni e di creta; cosí di dentro sono le case e le botteghe. Fa millecinquecento fuochi e piú. Fuori di quella esce un fiumicello, il quale corre vicino alle mura. Sono in lei poche botteghe di mercatanti, come di panni che si usano di là, e di tela che vien recata in quelle parti di Portogallo. Non ci sono artigiani fuori che calzolai, fabbri e sarti e qualche giudeo orefice, né v'è osteria né stuffa né barberia in niuna parte di questa città. Laonde, quando va in lei qualche mercatante forestiere, egli alberga in casa di alcun suo amico o conoscente, e non ne conoscendo alcuno, i gentiluomini della città cavano per sorte chi dee esser l'albergatore, di maniera che tutti i forestieri sono alloggiati. E sogliono costoro aver diletto di fare onore a un forestiere. È vero che colui nel partirsi è tenuto di lasciar qualche presente al signor della casa che gli ha dato lo alloggiamento, per segno di gratitudine. E se è alcun passaggiere il quale non sia mercatante, ha privilegio di elegger quale albergo di qual gentiluomo che piú gli piace, e alloggiarvi senza pagamento o presente alcuno. Se per aventura si abbatte qualche povero forestiere, a questo è deputato uno spedale, non per altro fabricato che per dare albergo e mangiare a' poveri.
Nel mezzo della città è un tempio molto grande, edificato assai bene di pietre e di calcina, il quale è antico e fatto nel tempo che quel paese era sotto il dominio dei re di Marocco; e nel mezzo di questo tempio è una gran cisterna. Vi sono molti sacerdoti e altri uomini deputati al governo di esso. Sonovi eziandio alcuni altri tempi e luoghi da orare, ma piccoli, e tuttavia con bella fabrica e ben governati.
In questa città v'hanno cento case di giudei, i quali non pagano tributo ordinario, ma a certi gentiluomini che li favoriscono usano di fare alcuni presenti. E la piú parte degli abitanti sono giudei, e questi tengono la zecca e fanno batter le monete, le quali sono d'argento, e d'una oncia si formano da centosessanta aspri, simili a certe monete che usano gli Ungheri, ma sono quadri. E in questa città non c'è gabella né dogana né ufficio alcuno, ma quando aviene che 'l bisogno astringa la communità a far qualche spesa, si ragunano allora gli uomini insieme, e secondo la qualità di ciascuno dividono la spesa tra loro.
Rovinò cotal città l'anno novecentodiciotto del millesimo di Maumetto, laonde tutti gli abitatori alle montagne si fuggirono, e di quindi a Marocco. La cagione fu che il popolo s'avide che i vicini Arabi erano d'accordo col capitano del re di Portogallo, che sta in Azafi, di dar la città ai cristiani. E io viddi la detta città doppo la sua rovina, le mura della quale tutte erano cadute, e le case abitate dalle cornacchie e da sí fatti uccelli. Il che fu l'anno 920.


Teculeth, città in Hea.

Questa Teculeth è una città posta nella costa d'una montagna, e fa cerca mille fuochi. Verso occidente è propinqua a Tedenest diciotto miglia, e a canto di essa passa un fiumicello, lungo il quale, cioè d'amendue le sponde, sono molti orti e giardini pieni di diversi frutti. Nella città ha molti pozzi di chiara e dolce acqua. V'è un tempio assai bello, e sonovi quattro spedali per li poveri e un altro per li religiosi. Gli abitatori di questa sono piú ricchi di quelli di Tedenest, percioché ella è vicina a un porto ch'è sopra il mare Oceano, il quale è detto Goz. Quivi vendono gran quantità di grano, perché la detta ha da lato una bella e spaziosa pianura; vendono ancora molta cera ai mercatanti portogalesi. Onde questa gente usa assai ornato vestire, e i suoi cavalli sono benissimo agiati di fornimenti.
Nel tempo che io fui in questo paese, trovavasi allora nella detta città un certo gentiluomo, il quale era come principe del consiglio loro e teneva il carico di tutto il governo, cosí cerca il dispensar dei tributi che si danno agli Arabi, come in trattar le paci e gli accordi che accadono fra i detti Arabi e il popolo della città. Costui era posseditore di molte ricchezze e ispendevale in acquistar benivolenzia, desideroso d'esser caro a tutti; faceva molte limosine porgendo aiuto col suo alle bisogne del popolo, di modo che non v'era alcuno che non l'amasse come padre. E io di ciò posso render buona testimonianza, che non solo fui di questo consapevole, ma alloggiai molti dí nelle sue case, dove viddi lessi molte istorie e croniche di Africa. Il misero fu amazzato nella guerra che ebbero con li Portogalesi, egli e un suo figliuolo insieme. Fu questo negli anni nostri novecentoventitre, e di Cristo MDXIIII. La città fu ancora ella posta a rovina, e alcuna parte del popolo fu presa, altra uccisa e altra se ne fuggí, sí come noi abbiam scritto nell'istorie moderne di Africa


Hadecchis, città di Hea.

Hadecchis è una certa città posta nel piano, lontana dalla detta Teculeth otto miglia verso mezzogiorno, e fa d'intorno a settecento fuochi. È murata di pietre crude: cosí è il tempio e cosí sono tutte le case. Passa dentro la città un fiume non molto grande, sopra le cui rive sono molte viti e bellissimi pergolati. V'è gran copia di artigiani giudei. Il popolo usa di vestire assai onestamente e ha de bei cavalli, e questo perché frequenta la mercatanzia, e va le piú volte d'intorno. Fa batter moneta di argento. E usasi ancora di far tra loro la fiera una volta l'anno, nella quale si ragunano tutti i convicini montanari, che hanno nel vero conformità piú tosto a bestie che a uomini, e truovasi in detta fiera gran multitudine d'animali, lana, butiro, olio di argan, e similmente ferri e panni del paese; e dura questo mercato quindici giorni.
Sono tra queste genti donne veramente bellissime, bianche e di temperata grassezza, sopra tutto leggiadre e piacevoli; ma gli uomini sono bestiali e gelosi, e uccidono quelli che hanno affare con le mogli loro. Non vi si trova giudice né uomo litterato che divida fra loro il maneggio degli uffici temporali, ma i maggiori governano a lor modo. Egli è vero che nelle cose spirituali tengono sacerdoti e altri ministri. Né vi è gabella né gravezza niuna, né piú né meno che sia nelle altre terre che detto abbiamo. Io eziandio alloggiai con uno di questi sacerdoti, il quale era uomo di risvegliato intelletto e dilettavasi delle retorica araba. E per tale cagione mi ritenne nella casa sua piú giorni, ne' quali io gli lessi una operetta in detta materia: onde egli molto mi accarezzò, né mi lasciò dipartire senza molti doni. Dipoi io ritornai a Marocco, e intesi la detta città esser similmente rovinata nelle guerre de' Portogalesi. Gli abitatori se ne fuggirono ai monti l'anno novecentoventidue, nel principio dell'anno che io la mia patria lasciai, e correndo gli anni di Cristo MDXIII.


Ileusugaghen, città in Hea.

Ileusugaghen è certa terricciuola fabricata a modo d'una fortezza sopra una grandissima montagna, lontana da Hadecchis dieci miglia verso mezzogiorno. Questa fa presso a quattrocento fuochi. Passa sotto lei un fiumicello; né di dentro né di fuori della detta v'è giardino, né vite, né albero alcuno fruttifero. La cagione è che gli abitanti sono uomini transcurati, e di tanta dappocaggine che non si curano d'altro cibo che d'orgio e olio d'argan; e vanno iscalzi, fuori che alcuni hanno in costume di portar certe scarpe di cuoio di camello o di bue. Fanno di continovo battaglia con gli abitatori della campagna, e si ammazzano insieme a guisa di cani. Non tengono né giudici né sacerdoti, né meno uomo alcuno riputato per far ragione, percioché essi non hanno né legge né fede, se non nella sommità della lingua. In tutti e' monti loro non si truova frutto di niuna sorte, eccetto gran quantità di melle: questo e se lo tengono per cibo e ne vendono a' vicini, ma la cera la gittano via insieme con le altre immondizie. Vi è un piccolo tempio che non cape piú di cento persone, percioché eglino, non avendo cura né di devozione né di onestà alcuna, dovunque vanno portano con esso loro i pugnali overo arma d'asta, e fanno diversi omicidi. Sono traditori e uomini sceleratissimi.
Io fui una volta nella detta città col serif, il quale si fa principe di Hea, e vi venne per pacificare insieme il popolo; né vi potrei dire la moltitudine dei litigi e delle querele, degli omicidi e degli assassinamenti ch'erano fra loro. Col principe non era né giudice né dottore alcuno, di maniera che egli mi pregò ch'io fossi quello che avessi a terminare, secondo il poter mio, le loro differenze. Onde subito comparse dinanzi a me e al principe grandissima turba. E tale v'era il quale diceva che alcuno avea ammazzato otto uomini della sua famiglia, ed egli di quella dell'aversario ne avea uccisi dieci, onde per l'accordo della pace dimandava tanti ducati secondo il costume dei loro antichi. L'altro rispondeva: "Gli doverresti dar tu a me, che dei miei ne hai tolti di vita due di piú di quelli che io ho tolto de' tuoi". Rispondeva il primo: "Per giusta cagione ho io i tuoi uccisi, percioché essi avevano con fraude levatami di mano una possessione che era mia, e avevola avuta per eredità da una mia parente; ma tu uccidesti i miei senza ragione, solamente per far vendetta di coloro che con ogni dever furono morti, conciosiacosaché si avevano usurpato lo altrui". Questo sí fatto contendimento durò per insino a notte; ed io cercando pure di acchetar le loro discordie, non potendo ridurgli a pace niuna, intorno alla mezzanotte sopravenne una parte e l'altra, e s'appiccò insieme con grandissima uccisione e spargimento di sangue. Per il che dubitando il principe di qualche tradimento, ambi eleggemmo per migliore e per piú sano consiglio di partirsi di là, e cosí ne andammo verso Aghilinghighil. È questa tale città sino a questo dí abitata, percioché costoro non temono le offese de' Portoghesi, avendo per loro iscampo le montagne.


Teijeut.

Teijeut è piccola terricciuola nel piano, ma fra i monti, lontana da Ileusugaghen dieci miglia verso ponente. Fa cerca a trecento fuochi, è murata di pietre cotte; gli abitatori di lei sono tutti lavoratori di campi. I loro terreni sono buoni per la sementa dell'orgio: altro grano non vi si mette. Hanno assai copia di giardini ripieni di viti, di fichi e di pesche; possiedono grandissima copia di capre. Evvi eziandio gran numero di leoni, i quali mangiano e guastano non poche delle dette bestie. Io vi rimasi una notte e albergai in un picciolo casale quasi distrutto; e avendo proveduto ai cavalli di molto orgio, e quelli ben legati e allogati ove si potea il meglio, l'entrata dell'uscio serramo con molta quantità di spine. Era allora il mese d'aprile, e perché ivi facea caldo salimmo nella sommità del tetto, per dormire quivi all'aere. Cerca alla mezzanotte vennero due leoni grandissimi, i quali si affaticavano di rimuover le spine, tratti all'odor di cavalli. I cavalli incominciarono ad annitrire e a far romore, di sorte che per noi si temeva non la debol casa avesse a cadere, perch'egli ci convenisse rimaner pasto di quei ferocissimi animali. Né appena si vidde biancheggiar l'alba che, sellati i cavalli, di là si partimmo e colà ci inviammo ov'era andato il principe. Né appena vi dilungammo il piede, che seguí la rovina di quella città: il popolo parte fu ucciso e parte a Portogallo menato. Fu l'anno novecentoventi.


Tesegdelt, città in Hea.

Tesegdelt è assai grandetta città: fa ottocento fuochi, ed è sopra una alta montagna. Tutta è d'intorno cinta da altissime ripe, intanto che non le fa bisogno di mura. È lontana dalla detta Teijeut quasi dodici miglia verso mezzogiorno. Passa sotto le dette mura un fiume: quivi sono molti giardini abbondantissimi d'ogni sorte di arbori, e massimamente di noci. Gli abitatori sono ricchi e hanno buona quantità di cavalli, di maniera che agli Arabi non danno tributo alcuno; fanno di continovo guerra con detti Arabi, e sovente ne uccidono gran quantità. Egli è vero che il popolo della campagna conduce tutto il grano nella città, per tema che gli Arabi non glielo tolghino. Quei della città hanno assai belle e accostumate usanze, massimamente in usar liberalità e cortesia, percioché commettono ai guardiani delle porte che, come arriva un forestiere, lo domandino s'egli ha alcuno amico nella città; e se egli gli risponde di no, questi sono tenuti di dargli albergo, intanto che niun forestiere paga denaro, ma ha piacevole e grato ricetto. Questi sono combattuti dalla gelosia, ma uomini molto osservatori della lor fede. Nel mezzo della città hanno un bellissimo tempio, amministrato da molti sacerdoti. Tengono un giudice, persona assai dotta nella legge, il quale suol tener ragione in tutte le altre cose, eccetto ne' malefici. I campi che si sogliono seminare sono tutti sopra montagne. Fui eziandio molti dí nella detta città, con il serif principe, l'anno 919.


Tagtessa città.

Tagtessa è una antica città edificata sopra una altissima montagna e tonda, e vi si sale per d'intorno della detta montagna come per una scala che si volge in giro. È lontana da Tesegdelt cerca a quatordici miglia. Sotto la detta città corre un fiume, del quale beono gli abitatori. È lontano il fiume dalla città sei miglia, e alla vista di chi è nella riva del fiume non pare che sia discosto piú d'un miglio e mezzo; le donne scendono a questo fiume per una via stretta, fatta a forza di scarpelli a modo pure di scala. Gli abitatori della città sono tutti assassini, e tengono nimicizie con tutti i loro vicini. I lor terreni e i lor bestiami sono sopra le montagne; tutti li boschi della detta terra sono pieni di porci selvatichi, né in detta città si truova un solo cavallo. Gli Arabi non possono passar per questa città né per tutto il loro contado senza espressa licenzia e salvocondotto. Io vi fui a tempo che vi si trovava gran copia di locuste: allora il formento era nelle spiche, ma avanzò dieci tanti la moltitudine delle locuste alla quantità delle spiche, in modo che appena si vedeva il terreno, dell'anno 919.


Eitdeuet città.

Eitdeuet è antica città edificata dagli Africani sopra un'alta montagna, ma nel sommo è una bellissima pianura. Fa cerca a settecento fuochi, ed è lontana da Tagtessa quasi quindici miglia verso mezzogiorno. Sono in mezzo di questa città molte fontane d'acque vive e correnti e freddissime. La circondano tutta rupi e boschi strani e spaventevoli; nasce nelle dette rupi grandissima quantità di alberi. Sono in questa città molti artigiani giudei, fabbri, calzolai, tintori di panni e orefici. Si dice che gli antichi popoli di detta città furono giudei della stirpe di David; ma, poscia che i maumettani fecero acquisto di quel paese, gli abitatori si diedero alla fede di Maumetto. Vi sono molti uomini dotti nella legge, e la maggior parte tiene ottimamente a memoria i decreti e i testi di legge; e conobbi io un vecchio che aveva benissimo in pronto un gran volume che si chiama Elmudeuuana, che significa "il congregato di leggi", il quale contiene tre libri dove sono le questioni piú difficili della legge e il consiglio di Melic sopra di quelle. Questa città è quasi un foro, nel quale si dà spedizione a tutti i litigi; fanvisi citazioni, bandi, accordi, strumenti e tai cose, di modo che tutti i vicini vi concorrono. Questi uomini legisti amministrano essi sí il governo temporale come spirituale: vero è che nelle cose capitali sono male obbediti dal popolo, e in questo poco giova loro il sapere.
Io, quando fui in questa città, mi riparai in casa d'uno avocato, per il che una sera tra le altre avenne che ivi si trovaron presenti molti dottori legisti, e doppo cena nacque tra loro una cotal disputa, se egli fosse lecito di vender quello che alcuno possedeva per le bisogne e necessità del popolo. Era quivi un vecchio che n'ebbe l'onore, nella lingua loro chiamato Hegazzare. Io, odendolo nominare, lo dimandai quello che il nome significava. Rispose egli: "Beccaio", e soggiunse: "La cagione è che, sí come un beccaio è molto pratico in trovare le gionture delle bestie, cosí io ancora sono eccellentissimo in trovare i nodi delle questioni che accadono nella legge".
La vita di questi tali è communemente molto aspra: si pascono d'orgio, d'olio d'argan e di carne di capre; di formento non si fa menzione tra loro. Le femine sono belle e colorite; gli uomini gagliardi della persona, e hanno naturalmente il petto molto peloso. Sono liberalissimi, ma oltre modo gelosi.


Culeihat Elmuridin, che suona "la rocca dei discepoli".

Questa è una picciola fortezza posta su la cima d'una montagna altissima, fra due altri monti uguali alla detta montagna. Sono tra questi monti altissime rupi e boschi serrati d'ogn'intorno; alla fortezza non si può ascendere se non per un picciolo e angusto sentiero, che è nella costa della montagna. Da una parte sono le rupi, da l'altra il monte di Tesegdelt, vicino quasi un miglio e mezzo, e da Eitdeuet è discosto diciotto miglia.
Questa fortezza fu fatta a' tempi nostri da Homar Seijef, rubello e capo degli eretici. Costui fu da prima predicatore e, avendo tirato a sé gran numero di discepoli ed essendo obbedito da quelli, diventò grandissimo tiranno e durò nel dominio dodici anni. Egli fu cagione della rovina di questo paese. Ucciselo una sua mogliere, la quale lo trovò che giaceva con una sua figliuola, ma d'un altro marito. Onde allora s'aviddero le genti quanto egli fosse stato scelerato e senza legge e fede niuna; per il che dopo la sua morte si sollevò il popolo, e pose a filo di spada tutti i suoi discepoli e chiunque era della sua setta. Rimasevi un nipote il quale, insignoritosi della fortezza, sostenne lo assedio dei sollevati e del popolo di Hea uno anno intero, di maniera che essi rimasero dalla impresa; e il medesimo fino al dí d'oggi tiene grandissima nimistà con quegli di Hea e con quasi tutti i vicini. Il viver suo è di rubberie, percioché egli ha certi cavalli co' quali assalta i viandanti, e stando in continove correrie piglia quando animali e quando uomini. Usa eziandio alcuni archibugi, co' quali di lontano, perché la strada maestra è discosta dalla fortezza un miglio, spesse volte ferisce e ammazza i poveri passaggieri. Ma tanto è odiato da tutti che egli non può né far seminare, né lavorare, né dominar pure un palmo di terreno fuori del suo monte. Fece il detto sepellire il corpo del suo avolo molto onoratamente nella detta fortezza, e fallo adorar come santo. Io passai molto vicino alla detta fortezza, e poco ci mancò che io non fui giunto da una tirata d'archibugio. Uno che già fu discepolo di detto Homar Seijef, mi diede buona informazione della vita e fede del detto eretico, e delle ragioni che egli avea contra la legge commune. E honne fatto memoria dell'abbreviamento della cronica de' maumettani.


Ighilinghighil, città di Hea.

Ighilinghighil è una picciola città sul monte, la quale fu edificata dagli antichi Africani. È discosta da Eitdeuet quasi sei miglia verso mezzogiorno; fa cerca a quattrocento fuochi. Sono nella detta città molti artigiani, cioè di cose necessarie. Il terreno di fuori è ottimo per li orgi; v'è gran copia di melle e d'olio d'argan. Per ascendere alla città v'è solamente una vietta nella costa del monte, strettissima e malagevole in tanto che con gran difficultà vi si può andare a cavallo. Gli abitatori sono uomini valentissimi con le armi in mano; stanno di continovo alla mischia con gli Arabi, ma sono sempre vincitori per la qualità del sito, per natura forte e arduo. Sono molto liberali, e fassi nella città gran copia di vasi, i quali si vendono in diverse parti, e penso che non se ne facciano altrove per quei paesi.


Tefethne, città di porto in Hea.

Tefethne è una fortezza sopra il mare Oceano, lontana da Ighilinghighil quasi quaranta miglia verso ponente. Fu edificata dagli Africani, e fa cerca a seicento fuochi. Quivi è assai buon porto per navi picciole; hanno in costume di venire a questo porto alcuni mercatanti portogallesi, i quali contrattano loro merci con cera e pelli di capre. La campagna che circonda questa città è tutta ripiena di monti, e nascevi gran copia d'orgio. Passa a canto la città un fiumicello, nel quale possono entrare assai bene i navili quando fa fortuna in mare. Ha la città fortissime mura, fatte di pietre lavorate e di mattoni. Tiensi dogana e gabella, e tutte le rendite si dividono fra gli uomini della città i quali sono atti alla difesa. Sonvi sacerdoti e giudici, ma questi non hanno auttorità sopra omicidi o ferite; anzi, se alcuno commette uno di questi due, essendo egli trovato da parenti dell'offeso, è ucciso. E se ciò non avviene, il micidiale è bandito dal popolo sette anni, e 'l termine del suo esilio giunge a sette anni, in capo de' quali, pagando certa pena a' congiunti dello ucciso, è assolto del bando. Gli abitatori di questa città sono uomini molto bianchi, domestichi e piacevolissimi; e fra loro molto piú onorano i forestieri che quelli della città, per alloggiamento de' quali tengono un grande spedale, come che la maggior parte si ripara nelle case de' cittadini.
Io fui nella città con il serif principe e vi dimorai tre giorni, i quali mi parvero altretanti anni, per cagione dei pulici, che ve n'erano infiniti, e per lo pessimo odore della orina e dello sterco delle capre; percioché ciascun cittadino ve n'ha gran copia, le quali il dí vanno ai pascoli loro, e la notte alloggiano nei corridori delle case e dormono appresso gli usci delle loro camere.


Ideuacal, prima parte del monte Atlante.

Avendo fin qui detto particolarmente delle città nobili che sono in Hea, parmi ben fatto che ora io ragioni dei monti, non lasciando adietro cosa che notabile mi paia, percioché la maggior parte del popolo abita ne' monti e in quelli sono di continovo le sue magioni. La prima parte adunque di Atlante, che è il monte di Ideuacal popolo, incomincia dal mare Oceano ed estendesi verso levante per insino a Ighilinghighil, e divide la regione di Hea dalla regione di Sus. È larga quasi tre giornate, perché la sovradetta Tefetna è nella punta della sua costa accanto il mare di verso tramontana, e Messa dall'altro lato della detta punta verso mezzogiorno, e infra Tefetna e Messa è di tratto tre giornate da me fatte nel cavalcare. Questo monte è molto bene abitato: sonvi molte ville e casali; gli abitatori vivono delle lor capre, di orgio e di melle. Nel vestire non usano portar camicia né cosa fatta con ago, percioché tra loro non si truova chi sappia cucire, ma portano i panni intorno la loro persona aggroppati come meglio sanno. Le donne hanno in costume di portare agli orecchi certe anella grandi d'argento e molte grosse, e tale ve n'ha che ne porta quattro per ciascuna orecchia. Usano ancora certe come fiubbe, di tanta grossezza che pesano una oncia, con le quali attaccano i panni sopra le spalle. Portano eziandio nelle dita delle mani e nelle gambe alcuni cerchietti pur d'argento; ma le nobili solamente e ricche ciò fanno, percioché le popolari e povere gli usano di ferro e di ottone. Evvi qualche cavallo, ma di picciola statura, e non gli ferrano, e sono cotai animali tanto agili che saltano allo ingiú come i gatti. Sonvi molti lepri, caprioli e cervi, ma quelle genti non gli apprezzano; fontane in molto numero e alberi, massimamente noci.
Questi popoli per la maggior parte sono come gli Arabi e vanno di un luoco in un altro. Le loro armi sono cotali pugnali larghi e torti, e cosí sono le spade, le quai hanno la schiena grossa come è quella d'una falce con che in Italia si taglia il fieno; e quando vanno a combattere portano in mano tre e quattro partigianelle. Quivi non ha giudice, né sacerdote, né tempio, né uomo che sappia dottrina. E sono generalmente uomini maligni e traditori. Fu detto al serif principe in la mia presenzia che 'l popolo di questo monte fa ventimila combattenti.


Demensera monte.

Questo monte è similmente una parte di Atlante e incomincia da' confini del detto. Estendesi verso levante circa a cinquanta miglia insino al monte di Nififa nella regione di Marocco, e divide buona parte di Hea da Sus, e nel suo confino è il passo di gire alla regione di Sus. È molto abitato, ma da gente barbera e bestiale. Hanno queste genti assai cavalli, e combattono spesse fiate co' vicini e con gli Arabi, vietando che essi entrino ne' loro paesi. Nel detto monte non è né città né castello né casa, sonvi molte ville e molti casali. E tra loro si truovano molti gentiluomini, i quali sono obbediti da tutta la plebe. I terreni per orgi e migli sono buonissimi; sonvi molti fonti che scorrono fra quelle valli e entrano nel fiume di Sisseua. Questo popolo veste assai bene. Quivi si cava gran copia di ferro, il quale vendono in diversi luoghi e accattano danari. Gran numero di giudei cavalca per quei monti, i quali portano arme e combattono in favore di loro padroni, cioè del popolo del detto monte; ma questi giudei fra gli altri giudei di Africa sono riputati quasi per eretici e sono chiamati carraum. In questo monte sono alberi alti e grossi di lentisco e di bosso, e alberi similmente grossissimi di noci. Gli abitatori sogliono mescolar le noci con argan, e ne cavano certo olio piú tosto amaro che no, il quale mangiano e abbruciano. Ho inteso da molti che il detto monte fa venticinquemila combattenti fra cavalli e fanti a piè. Nel mio ritorno da Sus io passai per questo monte, e per le lettere ch'io aveva di serif principe mi furon fatte molte carezze e onori, nell'anno novecentoventi.


Monte del ferro, detto Gebelelhadid.

Questo monte non è di Atlante, percioché incomincia dal lito del mare Oceano di verso tramontana e si estende verso mezzogiorno a canto il fiume di Tensift, e parte la region di Hea da quella di Marocco e dalla regione di Duccala. Abita in questo monte un popolo chiamato Regraga. Quivi sono grandissimi boschi, molti fonti, gran copia di melle e olio di argan; di grano hanno poca quantità, ma lo conducono da Duccala. Sono poveri uomini, ma da bene e divoti. Nella cima del detto monte si truovano molti romiti, che vivono di frutti di alberi e di acqua. Sono fedeli e amatori di pace, e come uno commette qualche latrocinio o altro male, lo bandiscono del paese per certo tempo. Semplici sono oltre a modo, di maniera che quando alcuno di quei romiti fa qualche operazione l'hanno per miracolo. Gli Arabi loro vicini danno lor spessi travagli, onde il popolo per viver quietamente suol pagare certo tributo.
Maumet re di Fes si mosse contra questa parte di Arabi, onde essi fuggirono ai monti. I montanari, aiutati dal favore del re, si fecero forti e assaltarono gli Arabi nelle strettezze dei passi, in modo che da questi e dallo esercito del re furono tagliati a pezzi, e menati al re degli uccisi tremilaottanta cavalli. Cosí i detti montanari furono liberi del tributo, e io allora mi trovai nell'esercito del re, che fu l'anno novecentoventuno. Gli abitatori del detto monte fanno circa a dodicimila combattenti.


Sus.

Ora dicasi della regione di Sus: questa è oltra il monte Atlante verso mezzogiorno e dirimpetto alla regione di Hea, cioè nello estremo di Africa, e incomincia sul mare Oceano dalla parte di ponente, e compie nel mezzogiorno nell'arena del diserto. Di verso tramontana termina nell'Atlante, cioè ne' confini di Hea; dal lato di levante ha fine nel gran fiume detto Sus, da cui è derivato il nome della detta regione. Io, incominciando dal canto di ponente, vi narrerò particolarmente ogni sua città e luochi nobili.


Messa città.

Messa sono tre piccole città, l'una vicina all'altra quasi un miglio, edificate dagli antichi Africani accosto la riva del mare Oceano e sotto la punta nella quale ha principio il monte Atlante, e sono murate di pietre crude. Passa fra le dette terricciuole il gran fiume Sus, e nella state varcasi questo fiume a guazzo; nel verno non vi si può passare, e hanno certe barchette che non sono atte se non per sí fatto tragetto. Il sito dove sono poste queste picciole città è un bosco non salvatico ma di palme, il quale è la loro possessione: vero è che i datteri che vi nascono non sono molto buoni, percioché non durano per tutto l'anno. Gli abitatori sono tutti agricoltori e lavorano il terreno quando cresce il fiume: il che è nel settembre e nel fine d'aprile; il grano raccolgono il maggio, e se il fiume sciemasse ne l'uno di questi due mesi non ve ne raccoglierebbono un solo. Hanno poche bestie.
Di fuori su la marina è un tempio, il quale tengono con grandissima divozione. Dicono molti istorici che di questo tempio uscirà il pontefice giusto che profetizzò Maumetto; dicono ancora che, allora che Iona profeta fu inghiottito dal pesce, egli lo vomitò sopra il terreno di Messa. I travicelli del detto tempio sono tutti di coste di balene, e sovente aviene che 'l mare molte grosse balene getta nel lito morte, le quali, con la lor grandezza e con la brutta forma ch'elle hanno, porgono terrore a chi le vede. Diceva il volgo che ogni balena che passa a canto il tempio muore, per la virtú data da Iddio a quel tempio. Io poco l'avrei creduto, se non che, vedendo alla giornata apparir qualche balena morta fuori dell'onda, mi faceva di ciò restar sospeso. Dipoi, ragionandone con un giudeo, mi disse che non era da maravigliarsi, percioché fra il mare quasi due miglia discosto sono alcuni scogli grossi e acuti. Onde, quando il detto mare è turbato, si muovono le balene di luoco in luoco, e quella che s'abbatte a percuotere in un di quegli scogli di facile è macerata e muorsi: per il che poscia il mare la getta al lito quale la veggiamo. Questa mi parve assai miglior ragione di quella del volgo.
Fui io in queste città nel tempo del serif principe. Invitommi adunque un gentiluomo a desinar seco in un giardino ch'era fuori della città, e per istrada trovammo apunto una costa d'una di dette balene, posta in foggia di arco, sotto la quale come per una porta su camelli passando, il sommo di lei era tanto alto che non vi aggiugnemmo con la testa. E dicesi che sono presso a cento anni che quella costa in quel luogo si tiene, e serbasi per cosa maravigliosa. Ne' liti piú vicini al mare truovasi per quei paesi ambracane perfettissimo, il quale è venduto a' mercatanti portogallesi o a quei di Fez per vile prezzo, ch'è quasi meno d'un ducato per oncia. Molti dicono che la balena è lo animale donde esso ambracane si crea: altri affermano essere lo sterco del detto, altri ch'è lo sperma il quale stilla dai membri genitali del maschio, quando e' vuole usare con la femina, e l'acqua lo indura.


Teijeut, città di Sus.

Teijeut è una antica città edificata dagli Africani, in una bellissima pianura. È divisa in tre parti, l'una parte discosto dall'altra quasi un miglio, le quai insieme un triangolo formano; fa in tutto quattromila fuochi. Passa accanto di lei il fiume Sus. Questo terreno è abbondantissimo di formento, d'orgio e d'altri grani e legumi; nascevi ancora gran quantità di zucchero, ma non lo fanno ben cuocere né purgare, perciò il detto zucchero è di color nero; onde a questa città vengono molti mercatanti di Fez, di Marocco e dal paese dei negri a comprarne. V'è similmente buona quantità di datteri. Quivi altra moneta non si spende che l'oro come nasce, e usano anche quelle genti nel spendere alcuni pannicelli appreziati un ducato l'uno. Vi si truova poco argento, e quel poco sogliono portar le donne per loro ornamento; in luogo di quattrini hanno certi pezzi di ferro del peso circa d'una oncia. Trovansi pochi frutti, eccetto fichi, uva, persiche e datteri; oliva non vi nasce, ma portavisi l'olio da alcuni monti di Marocco, e vendesi in Sus quindici ducati il cantaro, che è centocinquanta libbre italiane. I loro ducati, perché non hanno moneta battuta, valutano sette e un terzo per una oncia d'oro. L'oncia è come la italiana, ma la libbra fa oncie diciotto; essi la chiamano rethel: cento rethel è un cantaro. Il prezzo consueto della vettura, quando è né caro né molto buon mercato, costa ducati tre la soma di camello, la qual pesa libbre settecento italiane; e ciò nel verno, perché nella state pagasi cinque o sei ducati la soma. Nella detta città si acconciano quei belli cordovani che nella Italia sono detti marrochini: vendonsi questi ivi sei ducati la dozzina, e in Fez otto.
Da una parte di verso Atlante sono molti casali e villaggi, ma verso mezzogiorno è terreno disabitato, percioché sono pianure e poderi dei lor vicini Arabi. Nel mezzo della detta città è un bello e gran tempio, il quale essi chiamano il tempio maggiore, per entro del quale fanno passar un ramo del fiume. Gli uomini di essa sono naturalmente terribili, e vivono sempre in guerra tra loro medesimi, di modo che rare volte aviene che si stiano in pace. Fa ciascuna delle tre parti un rettore, i quali insieme governano la città, e non durano nel magistrato piú che tre mesi solamente. La piú parte d'essi usa di vestire come fanno quegli di Hea, e tal v'è che va vestito di panno, di camicia e tulopante in capo di tela bianca. La canna del panno grosso, come è il fregetto, vale un ducato e mezzo; la pezza di tela portogallese o fiandrese non molto grossa quattro ducati, e ogni pezza è di ventiquattro braccia di Toscana. Hanno nella città giudici e sacerdoti, ma obbediti solamente nelle cose sacre; nelle cure temporali chi piú ha de' parenti ha piú favori. Quando aviene che uno uccida un altro, se i parenti di colui lo possono uccider, bene sta; se non possono, quel tale o è bandito sette anni o rimane nella città al loro mal grado: se egli viene bandito la pena è come di sopra dicemmo, ed egli, in capo del termine ritornando, fa un convito a tutti i gentiluomini e in tal guisa si pacifica con gli aversari. Nella detta città sono molti giudei artigiani, i quali di niuna gravezza sono astretti, fuori che di far qualche picciolo presente ai gentiluomini.


Tarodant, città di Sus.

Tarodant è una città assai grande edificata dagli Africani antichi. Fa circa tremila fuochi, ed è lontana da Atlante poco piú di quattro miglia verso mezzogiorno, e da Teijeut verso levante trentacinque. Questa città è nella abbondanza e ne' costumi come le dette, ma è piú picciola e piú civile, percioché nel tempo che la famiglia di Marin regnava a Fez regnò ancora a Sus, e fu stanza del locotenente del re: onde vedesi fino al dí d'oggi una rocca rovinata, la quale fu fabricata da questi re. Ma poi che la detta famiglia mancò, la città fece ritorno alla libertà.
Gli abitatori vestono di panno e di tela. Vi sono molti artigiani. Il dominio è fra gentiluomini, il quale successivamente è tenuto da quattro, e questi non stanno nella signoria piú che sei mesi. Sono persone pacifiche, né mai fanno oltraggio a' vicini. In questo terreno verso Atlante sono molti villaggi e casali; le pianure che riguardano a mezzogiorno sono paesi e pascoli d'Arabi. Il popolo della città paga gran quantità di tributo per li terreni, all'usanza del paese di Sus, e per mantenere la via sicura. A' nostri dí questa città si ribellò agli Arabi, e si diede al serif principe l'anno 920


Gartguessem.

Gartguessem è una fortezza su la punta del monte Atlante e di dentro del mare Oceano, appresso ove entra in mare il fiume Sus. Ha nel suo circuito buonissimi terreni, i quali da vent'anni in qua furono presi da Portogallesi. Onde il popolo di Hea e di Sus si accordò insieme per riaver questa fortezza, e vennero con esso loro per soccorso molti fanti di lontan paese, e fecero capitano generale un gentiluomo serif, cioè nobile della casa di Maumetto, il quale con l'esercito assediò detto castello molti giorni. E furono ammazzate molte persone di quelli di fuora, per il che lo lasciorono e tornorono a casa, e alcuni restorono con il detto serif mostrando di voler mantener la guerra contra i cristiani; e il popolo di Sus contentò di darli danari per cinquecento cavalli. Il qual, come ebbe toccato molte paghe e fattosi pratico del paese, ribellò e fecesi tiranno. E al tempo che io mi partí dalla corte del detto serif, lui aveva piú di 3000 cavalli e fanti infiniti e danari, sí come nelle abbreviazion nostre abbiamo detto


Tedsi, città di Sus.

Tedsi è una città grande la quale fa quattromila fuochi, edificata anticamente dagli Africani, lontana da Tarodant verso levante trenta miglia, dal mare Oceano sessanta e dal monte Atlante venti. È paese abbondevole e fruttifero: nasce in esso gran quantità di grano e di zucchero e guado, e trovansi quivi mercatanti del paese dei negri. Il popolo si sta in pace, e sono uomini civili e onesti. Il governo loro è per via di republica, di modo che la signoria è sempre in mano di sei, i quali sono creati a sorte e hanno il succedimento in capo di mesi sedici. A canto della detta città passa il fiume Sus, tre miglia discosto. E sonvi molti giudei artefici, come orefici, fabbri e altri. V'è un tempio fornito molto bene di sacerdoti e d'altri ministri; tengono giudici e lettori nella legge pagati dal commune di essa città. E fassi un mercato il lunedí, nel quale si ragunano gli Arabi e paesani e montanari. Questa città l'anno novecentoventi si diede al serif principe, nella qual ei faceva la sua cancellaria.


Tagauost, città in Sus.

Tagauost è una grande città, e la maggiore che si truovi in Sus: fa ottomila fuochi ed è murata di pietre crude, lontana dal mare Oceano circa sessanta miglia e dal monte Atlante circa a 50 verso mezzogiorno; fu edificata dagli Africani. Lontano da lei presso a dieci miglia passa il fiume Sus. Nel mezzo di questa città sono molte piazze, botteghe e artigiani. Il popolo è diviso in tre parti, e il piú stanno queste genti sul guerreggiare tra loro, e una parte contra l'altra chiama in soccorso gli Arabi, i quali secondo la maggior quantità del soldo ora favoreggiano questa ora quella. Nel contado di lei sono abbondantissimi terreni e molti bestiami, ma la lana si vende vilissimo prezzo. Fansi quivi molti piccioli panni, i quali da mercatanti che sono nella città vengono condotti a Tombutto e a Gualata, terre delli negri: il che è una volta l'anno. E il mercato usavisi di fare due volte la settimana. Il loro abito è onesto, e le femine bellissime e graziose; sono molti uomini bruni, i quali sono nati di bianchi e di neri. Quivi non è diterminato dominio, ma regna chi ha maggior potere. Io fui in detta città tredici giorni col cancelliere del serif principe per comperar certe ischiave per lo detto principe, l'anno 919.


Hanchisa monte.

Questo monte quasi incomincia da Atlante, cioè verso ponente, e si estende verso levante circa a quaranta miglia. Ne' piedi v'è Messa e altri paesi di Sus. Gli abitatori sono uomini valentissimi a piedi, di maniera che ad uno fante basta l'animo di difendersi da due a cavallo, con certe picciole partegiane le quali usano di portare. In questo monte non nasce formento, ma orgio in molta copia e melle. In tutto il tempo dell'anno vi nevica, ma eglino mostrano di stimar poco il freddo, percioché tutto il verno sogliono portare in dosso pochi panni. Il principe serif tentò piú volte di farsegli tributari, ma in vano.


Ilalem monte.

Questo monte incomincia da ponente dal confino del sopradetto, e termina nella region di Guzzula verso levante, e verso mezzogiorno ha fine ne' piani di Sus. I suoi abitatori sono uomini nobili e valenti. Hanno gran moltitudine di cavalli, e fanno tra loro sempre guerra per cagione di una vena di argento la quale è nel detto monte, e quelli che rimangono vincitori godono il frutto di questa.


Sito della regione di Marocco.

Questa regione ha principio di verso ponente dal monte di Nefifa, e va verso levante fino al monte di Hadimei, e discende verso tramontana vicino al fiume di Tensifit per insino che questo fiume si congiunge col fiume di Asifinual, dove dal lato di levante incomincia Hea. Ha questa regione quasi forma di triangolo. È abbondevolissima di formento e d'altre sorti di grano, di numero di bestiame, d'acque, di fiumi, di fonti, di frutti, come sono datteri, uve, fichi, poma e pere d'ogni maniera. È quasi tutta pianure, come è in Italia la Lombardia. I monti sono freddissimi e sterili, per modo che in quelli altro non nasce che orgio. Ora, incominciando noi dalla parte occidentale, descriveremo ogni suo monte e città, tenendo il nostro stile consueto.


Elgiumuha, città della sopradetta regione.

Elgiumuha è una città picciola nel piano, appresso un fiume detto Sesseua, discosto dal monte Atlante circa a sette miglia. Fu edificata dagli Africani, ma dipoi fu tenuta da certi Arabi, nel tempo che la famiglia di Muachidin perdé il dominio. Di questa città altro ora non rimane che certe rare vestigie. Gli Arabi sementano del terreno tanta parte che è bastevole al viver loro; il rimanente lasciano incolto. Ma quando la detta città era abitata, soleva render l'anno di utile centomila ducati, e faceva circa a seimila fuochi. Io passai da canto a lei e alloggiai con gli Arabi, i quali trovai uomini molto liberali, ma sono perfidi e traditori.


Imegiagen.

Imegiagen è una fortezza posta su la cima di una montagna di quelle di Atlante, la quale non ha mura che la cingano, ma è difesa dalla natura del luoco. È discosta dalla sopradetta città verso mezzogiorno circa a venticinque miglia. Tenevano questa fortezza ne' tempi adietro certi nobili di quel paese, ma fu presa da Homar Essuef eretico, di cui di sopra dicemmo. Il quale vi usò di grandissime crudeltà, percioché egli fece uccider per insino a' fanciulli, e le femine gravide, faceva aprire il corpo e cavarne fuori le creature, le quali erano sbranate sul petto delle loro madri, e prima che gustassero la dolcezza della vita sentivano l'acerbità della morte. Dell'anno 900, cosí, la detta fortezza rimase disabitata. Vero è che nell'anno novecentoventi in qualche parte s'incominciò a riabitare, ma solamente nelle coste del monte si puote ora lavorare e seminar le cose opportune al vivere, percioché nel piano non si può pur solamente passare, quando per tema degli Arabi e quando de' Portogallesi.


Tenezza.

Tenezza è una città forte nella costa d'una parte del monte Atlante, che è detta Ghedmina, edificata dagli Africani antichi, lontana da Asifinual quasi otto miglia verso levante. Sotto di essa sono molte pianure e tutte buonissime per grani, ma gli abitatori, per essere molestati dagli Arabi, non possono coltivare il terreno. Solamente seminano su le costiere del monte e tra il fiume e la città: pagano eziandio per tal cagione agli Arabi di gravezza uno terzo delle rendite dell'anno.


Delgumuha nova.

Questa città è una gran fortezza sopra una montagna altissima: d'intorno è circondata da diversi altri monti. Sotto la detta fortezza nasce Asifinual, che nella lingua africana è interpretato "fiume di romore", perché cade giú del monte con grande strepito, e fa uno profondo, nella guisa dell'inferno di Tivoli nel contado di Roma. Fu edificata da certi signori a' nostri dí, e fa presso a mille fuochi. Tennela gran tempo un tiranno della famiglia dei re di Marocco. Fa ancora questa fortezza buona quantità di cavalli e di fanterie, e cava di rendita da quei casali e villaggi di Atlante poco meno di diecimila ducati. Il popolo tiene stretta amicizia con gli Arabi, e fa loro molte volte di belli e onorati presenti, con li quali molte volte ha offeso li signori di Marocco. Sono uomini civili, vestono assai gentilmente, ed è la città benissimo abitata e fornita di artigiani: e ciò perché è vicina a Marocco cinquanta miglia. Fra le loro montagne sono di bellissimi giardini, e vi nasce gran quantità di frutti; sogliono seminare orzo, lino e canapo, e hanno assai gran numero di capre. Tengono sacerdote e giudice, ma per altro sono uomini di grosso intelletto, e gelosi delle lor donne grandemente. Io alloggiai nella detta città in casa d'un mio parente, il quale, essendo in Fez rimaso debitore d'una grossa quantità di danari per cagione di fare alchimia, venne ad abitar quivi e col tempo fu fatto secretario del signore di questa città.


Imizmizi.

Imizmizi è una città assai grande su la rupe d'un monte di quei di Atlante, lontana dalla sopradetta verso ponente circa a 14 miglia, edificata dagli antichi. Sotto lei è un passo che attraversa Atlante alla regione di Guzula, ed è detto Burris, cioè "piumoso", perché di continovo vi fiocca la neve, la quale ha somiglianza di bianca piuma che alle volte si vede volare. Sotto ancora la detta città sono larghissime pianure, le quali giungono a Marocco e tengono trenta miglia di lunghezza. Quivi nasce il grano bello e grosso e il migliore ch'io abbia veduto giamai, e la farina è perfettissima. Ma gli Arabi aggravano molto questa città, e similmente il signor di Marocco, di maniera che la maggior parte della campagna è disabitata; e ancora gli abitatori della città incominciano a lasciarla, e sono molto poveri di danari, ma di possessioni e di grani ve ne hanno assai. Io quivi alloggiai appresso un romito nominato Sedicanon, uomo di gran riputazione e stima.


Tumeglast.

Tumeglast sono tre piccioli castelli nel piano, lontani da Atlante verso tramontana quattordici miglia e da Marocco circa a trenta. Sono tutti circondati di palme di datteri, uve e altri frutti; hanno d'intorno una bella campagna e buonissima per grani, ma non si può lavorare per la molestia degli Arabi. E i detti piccioli castelli sono presso che disabitati, né vi ha dentro piú che dodici o quindici famiglie, le quali sono congiunte di parentado al sopradetto romito, e per favor di costui possono coltivare una particella della detta campagna senza pagar cosa alcuna agli Arabi, i quali poi ne' viaggi che fanno ai castelli alloggiano nelle case loro. Le quali case sono picciole e disagiate, e hanno piú tosto forma di stalle d'asini che d'albergo d'uomini, per sí fatto modo che sempre sono ripiene di pulici, di cimici e di tai noie. E le acque sono salate. Io fui in questa terra alloggiato con Sidi Iehie, che era venuto a scuoter li tributi di quel paese in nome del re di Portogallo, dal quale era stato fatto capitano della campagna di Azafi.


Tesraft città.

Questa è una picciola città posta su la ripa del fiume di Asifelmel, lontana da Marocco verso ponente 14 miglia e dal monte Atlante circa a venti. D'intorno a questa città sono molti giardini di datteri e buoni terreni per grano, e tutti gli abitatori sono ortolani. Ma egli è vero che 'l detto fiume alle volte cresce e rovina tutti i giardini, senza che gli Arabi nella state vengono a quelli e mangiano ciò che v'ha di buono. Io fui in questa terra, dove non vi stetti se non tanto quanto li cavalli mangiorono la biada, e scapolai per gran ventura quel giorno di non esser assassinato dagli Arabi.


La gran città di Marocco.

Marocco è città grandissima, delle maggiori del mondo e delle piú nobili di Africa. È posta in una grandissima pianura, lontana da Atlante quasi quattordici miglia. Fu edificata da Giuseppe, figliuolo di Tesfin, re del popolo di Lontuna, nel tempo che egli entrò con la sua gente in quella regione, e fecela per seggio e residenza del suo regno, acanto il passo di Agmet, il quale trapassa Atlante e va al diserto, dove sono le abitazioni del detto popolo. Fu fabricata col consiglio di eccellenti architetti e ingeniosi artefici. Ella circonda gran terreno, e quando viveva Hali, figliuolo di Giuseppe re, questa città faceva centomila fuochi e qualcuno di piú. Aveva ventiquattro porte ed era murata di bellissime e fortissime mura, fatte di calcina viva e ghiara. Passa sei miglia discosto da Marocco un gran fiume, il quale è appellato Tensift. È fornita di tempi, di collegi, di stufe e d'osterie, secondo il costume d'Africa.
E di questi tempi alcuni furono edificati dai re di Lontuna e altri dai loro successori, cioè dai re di Elmuachidin. Nel mezzo della città ce n'è uno veramente bellissimo, edificato da Hali, figliuolo di Giuseppe, primo re di Marocco, e chiamasi il tempio d'Hali ben Giuseppe. Ma un successor nel detto regno, il cui nome fu Abdul Mumen, fece disfare e rifare il detto tempio, non per altra cagione che per levarne i primi titoli di Hali e ponervi il suo: tuttavia la fatica di costui fu posta indarno, percioché le genti ancora hanno in bocca l'antico titolo. Havvi eziandio quasi vicino alla rocca un altro tempio, il quale fece fare detto Habdul Mumen, che fu il secondo che per ribellione succedette nel regno, e dipoi il suo nipote el Mansor l'accrebbe cinquanta braccia da ogni lato, ornandolo di molte colonne le quali fe' conducere di Spagna; e fece far sotto di esso una cisterna in volto tanto grande quanto il tempio, e tutte le coperte del tempio volle che fossero di piombo con certi canaletti negli orli, fatti in guisa che tutta la pioggia che cadeva sul tempio, correndo per quei canaletti, era ricevuta dalla cisterna.
Fece ancora edificare una torre di pietre lavorate e grossissime, come è il Coliseo di Roma: il circuito di questa torre contiene cento braccia di Toscana, ed è piú alta della torre degli Asenelli da Bologna. La scala per cui s'ascende è piana e larga nove palme; la grossezza del muro di fuori dieci, e il masso della torre è grosso cinque. Sonvi dentro sette stanze agiate e molto belle, una sopra l'altra, e per l'ascender di tutta la scala si vede grandissimo lume, percioché vi ha dal basso all'alto finestre bellissime e fatte con grande ingegno, le quali sono piú larghe di dentro che di fuori. Come si giunge alla sommità della torre, truovasi un'altra picciola torricella, la cui cima è come una guglia e cinge venticinque braccia, quasi tanto quanto il masso della torre, è alta come due gran lancie e fatta in tre solai in volta: vassi da un solaio in l'altro con certe scale di legno. Su la cima de la guglia è uno spiedo fitto molto bene, e vi sono tre pomi d'argento l'uno sopra l'altro infilzati, e quello di sotto è piú grande che quello di mezzo, e quello di mezzo piú grande che quello di sopra. Come l'uomo è nel piú alto solaio, gli conviene volgere il capo come chi è nella gabbia dell'albero d'una nave, e piegando gli occhi dal di sopra alla terra, gli uomini di qualunque grande istatura non gli paiono punto maggiori d'un fanciullo d'un anno, e vedesi benissimo la montagna di Azafi, la quale è discosto da Marocco centotrenta miglia; veggonsi ancora le pianure che sono d'intorno quasi per lo tratto di cinquanta miglia.
Il sopradetto tempio di dentro non è molto ornato, e tutti li soffittati sono fatti di legname, tuttavia con assai bella architettura, come molti che noi abbiam veduto nelle chiese d'Italia. È vero che esso è delli maggior tempii che si truovino al mondo, ma oggidí è abbandonato, percioché gli abitatori non usano di farvi dentro le loro orazioni altro giorno che il venere. E la detta città è molto mancata circa all'abitazioni, e massimamente le contrade vicine al detto tempio, e con gran fatica vi si può andare, per cagione della rovina di molte case che impediscono la strada. Sotto il portico del detto tempio solevano essere presso a cento botteghe di librari, e altretante al dirimpetto: ma al presente non se ne truova in tutta Marocco una sola, e la povera città è in due terzi disabitata. Il terren vacuo è piantato di palme, d'uve e d'altri alberi fruttiferi, percioché i cittadini non possono tener di fuori un palmo di terreno, per essere molestati dagli Arabi.
E in vero ei si può dire che questa città sia invecchiata innanzi tempo, perché non forniscono ancora cinquecentosei anni che fu edificata: ma la cagione di ciò nacque dalle guerre e dai mutamenti delle signorie. Dette principio alla sua edificazione Giuseppe, figliuolo di Tesfin, l'anno quattrocentoventiquattro di legira. E morto Giuseppe regnò il suo figliuolo Hali, al quale successe Abraham suo figliuolo, nel cui tempo ribellossi un certo predicatore, chiamato Elmahdi, uomo nato e accresciuto nelle montagne. Costui, fatta buona quantità di soldati, mosse guerra ad Abraham. Perciò fu necessario al re di uscir con la sua gente contra a questo Elmahdi, e fatto giornata il re, avendo la fortuna contraria, fu rotto e impeditogli le strade di tornare nella città, di maniera che egli, lasciandola adietro, fu costretto a fuggirsi verso levante, tenendo il cammino accanto la costa di Atlante, con quella poca quantità di gente che gli era rimasa. Elmahdi, non si contentando di ciò, commise a uno capo de' suoi discepoli, detto per nome Habdul Mumen, che seguitasse il re con la metà dell'esercito, ed egli rimase con l'altra metà all'assedio di Marocco. Il re non poté né trovare iscampo né difendersi per insino a tanto che egli pervenne in Oran, nella qual città con le sue reliquie pensò di ripararsi il meglio che poteva. Ma Habdul Mumen accampandovisi di subito, il popolo fece intendere al re che egli non volea per lui ricever danno. Per il che il misero re, avendo perduta ogni speranza, salito di notte a cavallo e presa la moglie che seco aveva in groppa, uscí da una porta della città, e sconosciuto drizzò il cavallo a una rupe altissima che riguardava in mare, e dato di sproni ne' fianchi al cavallo vi si gittò giú per modo che, andando di dirupo in dirupo, tutti tre morti e in piú parte guasti furono trovati sopra uno scoglio e sepelliti miseramente.
Habdul Mumen vittorioso si ritornò a Marocco, e volle la sua buona ventura che trovò ch'era morto Elmahdi, onde egli in suo luogo fu eletto re e pontefice da quaranta discepoli e da dieci secretari del detto: usanza nuova in la legge maumettana. Costui adunque mantenne l'assedio della città gagliardamente, e in capo d'un anno v'entrò per forza e, preso Isac, picciolo figliuolo che solo era rimaso di Abraham, lui crudelmente con le sue proprie mani isvenò, e avendo uccisa la maggior quantità dei soldati che v'erano, tolse di vita una gran parte de' cittadini. Regnò la famiglia di costui per successione dall'anno cinquecentosedici di legira fino all'anno seicentosessantotto, e fu priva del dominio per li re della famiglia di Marin. Vedete come sono varii i rivolgimenti della fortuna. Durò il regno in questa famiglia di Marin fino all'anno settecentoottantacinque; dipoi ella ancora venne al meno, e Marocco fu dominata da certi signori ch'erano nel monte vecchio vicino alla città. Ma in questi mutamenti di signorie da niuno ricevé tanto danno quanto dalla famiglia di Marin, la qual fece il suo seggio in Fessa e quivi teneva la corte real, e in Marocco teneva un suo luogotenente, di maniera che Fessa fu capo del regno di Mauritania e di tutta la parte occidentale. E di ciò piú diffusamente trattamo nell'abbreviamento da noi fatto nelle croniche maumettane.
Ora, perché siamo alquanto vagati, è tempo di tornare alla descrizione della città. In lei è una rocca grande quanto una città, le mura della quale sono grossissime e forti, e hanno bellissime porte fatte di pietra tiburtina, i cui usci sono tutti serrati. Nel mezzo della rocca è un bellissimo tempio, sopra il quale è una torre similmente bellissima, e nella cima uno spiedo di ferro nel qual sono infilzati tre pomi d'oro che pesano 130 mila ducati africani, e piú grande è quello di sotto e piú picciolo quello di sopra. Il perché molti signori l'hanno voluto levare di là per valersi dei danari ne' bisogni, ma sempre è loro avvenuto qualche strano accidente per il quale furono costretti a lasciarvegli, in tanto che tennelo a malo augurio il levarli di quella cima. Dice il volgo che queste poma furono ivi messe sotto a tale influsso de' pianeti che elle non possono esser mai da quel luogo rimosse; aggiunge ancora che colui che ve le pose fece certo incanto di arte magica, per il quale costrinse alcuni spiriti a starsi perpetuamente in guardia loro. Al tempo nostro il re di Marocco per difendersi dai cristiani portogallesi, voleva al tutto, schernendosi della credula superstizione del popolazzo, trarle di donde sono; ma il popolo non gliel consentí, dicendo quelle esser la maggior nobiltà di Marocco. Noi leggiamo nell'istorie che la moglie di Mansor, poi che il marito fece edificar quel tempio, per lasciare ancora ella tra gli ornamenti del tempio qualche memoria di se stessa vendé i propi ornamenti, cioè ori, argenti, gioie e tai cose donateli dal re quando l'andò a marito, e fattone far le tre palle d'oro, di queste rese, come dicemmo, bella e apparente la cima.
È eziandio nella detta rocca un nobilissimo collegio, o vogliamo dir luogo assegnato allo studio e ricetto di diversi scolari, il quale ha trenta camere e nel piano una sala dove si leggeva ne' tempi antichi, e ogni scolare ch'era di questo collegio aveva le spese e il vestire una volta l'anno. E i dottori per loro salario avevano chi cento ducati e chi dugento, secondo la qualità delle lezioni che essi erano obligati a leggere; né poteva essere ammesso nel detto collegio chi non era molto bene ammaestrato ne' principii delle scienzie. Il luogo è ornato di belli mosaichi, e dove non ha mosaichi sono i muri di dentro vestiti di certe pietre di terra cotta invetriate, tagliate in fogliami sottili, e altri lavori in cambio di mosaico, e massime la sala dove si legge e li portichi coperti. E tutto lo scoperto è saleggiato di pietre invetriate che si chiamano ezzuleia, come si usa ancora nella Spagna. In mezzo dell'edificio è una fontana bellissima, lavorata e fatta di bianchissimi marmi, ma bassa all'usanza di Africa. Soleva esserci già, sí come io odo dire, gran numero di scolari, ma oggidí non sono piú che cinque, ed evvi un lettore ignorantissimo legista, il quale poco intende d'umanità e meno di altra scienzia.
Io, quando fui in Marocco, ebbi domestichezza con un giudice, persona invero ricca e buon conoscitor dell'istorie africane, ma poco perito nelle leggi: e ottenne quello ufficio per la pratica ch'egli fece in quaranta anni che fu notaio e favorito del re. Gli altri che amministrano gli uffici publici mi parvero uomini di grosso ingegno, per l'esperienzia ch'io ebbi quando fui con questo signore in campagna, dove lo trovai la prima volta che arrivai nella region di Marocco.
Sono ancora nella detta rocca undici o dodici palazzi molto ben fatti e ornati, i quali furono fatti edificar dal Mansore. Nel primo che s'incontra stava la guardia di certi balestrieri cristiani, i quali solevano esser cinquecento, e questi erano soliti di camminare sempre dinanzi al signore quando si moveva da un luogo all'altro. Nel palazzo accanto a questo alloggiavano altretanti arcieri, e un poco avanti al palazzo è l'albergo dei cancellieri e secretari, il quale nella lingua loro è chiamato la casa dei negozii. Il terzo è detto il palazzo della vittoria, e in questo si tenevano l'armi e le monizioni della città. Ci è un altro un poco piú oltre al detto, nel quale alloggiava il maestro di stalla del signore, e vicino a lui sono tre stalle fatte a volte, in ciascuna delle quali possono capire agiatamente dugento cavalli. Sonvi due altre stalle, una per li muli, e vi capeno cento muli, e l'altra per le cavalle e mule che cavalcava il re. Appresso alle dette stalle erano due granai fatti pure a volte e in due solai. Nel solaio di giú tenevano lo strame, e in quello di sopra l'orzo per li cavalli. Nell'altro riponevano il formento, ed è tale che cape in uno solaio piú di trentamila ruggi e altretanti nell'alto: dove sono fatti certi buchi a posta sopra il tetto, ed evvi una scala piana di pietra, e le bestie vanno cariche fino sopra il tetto, e ivi si misura e poi buttasi dentro per li detti buchi; e quando lo voglion cavar fuori hanno certi altri buchi di sotto, che aprono, e cosí cavano e mettono senza fatica. Piú oltre ancora c'è un bel palazzo, il quale era la scuola dei figliuoli del re e degli altri della sua famiglia. In questo è una bellissima camera fatta in quadro, con certi corridori intorno e con bellissime finestre di vetro di diversi colori; e sono al d'intorno di lei alcuni armai di tavole con intagli dorati, e dipinti in molte parti con finissimo azurro e oro. C'è un altro palazzo nel quale dimorava similmente la guardia di certi armati, un altro molto grande dove il signore dava generale udienza, e un altro dove teneva gli ambasciatori quando gli parlavan gli secretarii. Ve n'è un altro fatto per albergo delle mogli del re, damigelle e ischiave; un altro appresso questo diviso in molte parti, per li figliuoli del detto, cioè per quelli che erano alquanto grandetti.
Piú discosto verso il muro della rocca che risponde alla campagna è un bellissimo e grandissimo giardino, nel quale ha ogni sorte d'alberi e di fiori. Ed evvi una loggia tutta di marmo, quadra e profonda sette palme, nel cui mezzo è una colonna che sostiene un leone pur di marmo fatto assai maestrevolmente, dalla bocca del quale esce chiara e abondevole acqua che si riverscia nella loggia. E per ogni quadro della detta loggia è un leopardo di marmo bianco, con certe macchie verdi e tonde fatte dalla natura; né si truova tale marmo in altro luogo fuori che in un monte di Atlante, discosto da Marocco centocinquanta miglia. Appresso del giardino v'è certo serraglio, nel quale si rinchiudevano molte salvatiche fiere, come giraffe, elefanti, leoni, cervi e caprioli. È vero che i leoni avevano separata stanza dagli altri animali, e fin ora quel luogo è detto la stanza dei leoni.
Quelle poche adunque di vestigia che sono rimase in questa città vi possono far fede della pompa e grandezza che era ne' tempi del Mansor. Oggidí non si abita altro che 'l palazzo della famiglia e quello dei balestrieri, dove albergano ora i portinai e i mulattieri del presente signore. Tutto quello che rimane è albergo di colombi, cornacchie, civette, guffi e simili uccelli. Il giardino, da prima sí bello, è oggi ricetto delle immondizie della città; il palazzo dove era la libraria, in una parte è albergo di galline e in altra di colombi: gli armai ne' quai si solevano tenere i libri sono i nidi loro.
Fu certo questo Mansor un gran principe, percioché signoreggiava da Messa per insino a Tripoli di Barberia, che è la parte piú nobile d'Africa; e non si potea fornir questo viaggio in meno di novanta giorni, e per la larghezza in quindici. Signoreggiava eziandio nella Europa tutta quella parte d'Ispagna detta Granata, e che è da Tariffa fino nella provincia di Aragon, e una buona parte di Castiglia e ancora di Portogallo. Né solamente ebbe sí gran dominio el Mansor, ma il suo avolo Abdul Mumen e 'l suo padre Giuseppe, e lui Iacob el Mansor e suo figliuolo Maumetto Enasir, che fu rotto e vinto nel regno di Valenza, e furon morti de' suoi, fra gente da cavallo e da piè, sessantamila uomini. Egli salvò la sua persona e tornossi a Marocco. Laonde i cristiani, per la vittoria preso animo, seguitarono l'impresa e nello spazio di trenta anni recuperorno Valenza, Denia, Alicante, Murzia, la nuova Cartagine, Cordova, Siviglia, Iaen e Ubeda. Per questa memorabil rotta e occisione incominciò a declinar la famiglia dei detti re, e morto Maumetto, lasciò dieci figliuoli uomini fatti, i quai tutti volevano usurparsi il dominio. Il che fu cagione che si uccidessero tra loro, e che appresso il popolo di Marin entrasse nel regno di Fez e in que' contorni; si sollevò eziandio il popolo di Habduluad e regnò in Telensin, e levò il rettore di Tunis e faceva re chi gli pareva.
Cotal fine ebbero i successori di Mansor. Venne dipoi il regno in mano di Giacob, figliuolo di Habdulach, primo re della famiglia di Marin. Ultimamente la città di Marocco è rimasa in poca riputazione, e quasi sempre travagliata dagli Arabi, qualunque volta il popolo si ritrae di consentire ad ogni loro picciolo desiderio e volontà.
Quanto è sopradetto di Marocco, parte ho veduto io e parte ho cavato dall'istoria di Ibnu Abdul Malich, cronichista di Marocco, divisa in sette parti, e anco dalle mie abbreviazioni delle croniche maumettane.


Agmet città.

Agmet è certa città vicina a Marocco circa a ventiquattro miglia, edificata dagli antichi Africani su la costa d'un monte, pur di quegli di Atlante. Fa presso a seimila fuochi. Questa al tempo di Muachidin fu molto civile e chiamavasi la seconda Marocco. È circondata da molti bellissimi giardini e vigne, quai posti nel monte e quai nel piano. Passa sotto lei un bel fiume, il qual viene da' monti di Atlante ed entra poscia nel fiume di Tenseft. Fra i detti fiumi è una campagna, mirabilissima circa alla bontà del terreno: dicono che 'l detto terreno rende alle volte nel seminare cinquanta per uno. L'acqua del detto fiume è sempre bianca, la terra e fiume somiglia alla città di Narni e alla Negra fiume in Umbria, e affermano ch'egli va per fino a Marocco, e mettendo capo appresso alla detta città ha il suo corso per certi canali sotto la terra: né si vede canale alcuno per insino a Marocco. A molti signori piacque di fare isperienza di conoscere da qual parte se ne venga la detta acqua, e fecero andare per quel canale alcuni uomini, i quali tenevano per veder lume una lanterna in mano. Questi, come furono alquanto corsi pel canale, sentirono un gran vento il quale loro ammorzò il lume, e soffiava con tal forza che mai piú simile non pareva a quelli aver sentito; e furono piú volte a pericolo di non poter tornare adietro, percioché oltre a ciò il fiume era rotto da certi sassi grandissimi, tra' quali l'acqua percotendo correva ora d'una ora d'altra parte. E trovarono alcune cave profondissime, di maniera che furono costretti a lasciar l'impresa, nella quale niuno poscia ebbe ardimento di mettersi. Dicono gli istorici che 'l signore che edificò Marocco, con la dottrina di certi astrologi, previdde ch'egli era per aver di molte guerre, onde fece che per arte magica tal novità si vedesse in quel canale, a fine che niuno suo inimico, non sapendosi il nascimento dell'acqua, gliela potesse levare.
Sotto Agmet, appresso il fiume, è un passo che attraversa Atlante verso la provincia di Guzzula. Ma la detta città è oggidí divenuta albergo di lupi, volpi e corvi, e di somiglianti uccelli e animali. Eccetto che nella rocca a' miei giorni abitava un certo romito con cento suoi discepoli, i quali tutti avevano nobilissimi cavalli, e incominciarono a volere farsi signori, ma non avevano a cui signoreggiare. Io alloggiai con questo romito forse dieci dí, un fratello del qual era mio strettissimo amico, percioché eravamo noi stati insieme condiscepoli nella città di Fez e udimmo insieme nella teologia la epistola di Nensefi.


Hanimmei città.

Hanimmei è una terricciuola sopra la costa del monte Atlante verso il piano, lontano da Marocco circa a quaranta miglia verso levante nel passo di Fez, cioè a quegli che vogliono fare il cammino per la costa del monte. E il fiume di Agmet passa discosto di Hanimmei circa a quindici miglia; dal fiume fino alla città è una campagna bonissima da seminare, sí come è quella di Agmet. Da Marocco fino al fiume possiede il signor di Marocco, e quello che è da Marocco fino ad Hanimmei è sotto il dominio del signore d'Hanimmei, il quale è valoroso giovane e fa spesso guerra al signor di Marocco e agli Arabi. Signoreggia eziandio molti popoli ne' monti di Atlante, è liberale e animoso, né aveva sedici anni forniti quando egli ammazzò un suo zio e fecesi signore; onde subito gli convenne mostrar segno del suo valore, percioché molti Arabi, insieme con trecento cavalli leggieri de' cristiani portogallesi, fecero una improvisa correria per insino alle porte della città. Ed egli, con cento cavalli e pochi Arabi, si difese con tanta prodezza che fu uccisa una gran quantità dei detti Arabi, e de' cristiani niuno ritornò piú in Portogallo, e ciò avenne perché eglino non erano pratichi in questo paese, l'anno novecentoventi. Venne dipoi il re di Fez e dimandò a costui certo tributo, il quale egli ricusando, il re vi mandò uno esercito di molti cavalli e balestrieri; il signore volle difendersi, e uscito nella battaglia ebbe d'una pallotta di schioppo nel petto e tosto cadde morto. Per il che la città rimase tributaria, e la medesima moglie del signore condusse molti nobili prigioni incatenati al capitano del re, il quale, lasciatovi un governatore, si dipartí nell'anno 921.


Nififa monte.

Poscia che detto abbiamo della regione di Marocco, secondo che pare a noi assai abbondevolmente, ora ordinatamente seguendo diremo dei monti piú famosi. E per incominciare da Nififa, questo è un monte del quale di verso ponente ha capo la regione di Marocco, e da questa separa Hea. È molto abitato, e nella sua sommità, benché spesso vi soglia nevicare, nondimeno vi si semina orzo, il quale vi nasce in molta copia. Sono gli abitatori uomini salvatichi e non hanno civilità alcuna; e come veggiono un cittadino, si maravigliano sí di lui come dell'abito, nella guisa che di me fecero, che in duoi giorni che quivi stetti non si potevano render sazii di guardare e toccare la veste ch'io aveva, che era una sopravesta bianca a uso di studente, e in duoi giorni la diventò come una straccia di cucina tanti furno quelli che la volsono toccare. E un vi fu che mi sforzò a far cambio d'un suo cavallo, che poteva valer dieci scudi, per una mia spada che non valeva in Fez uno e mezzo. E questo procede percioché non vanno mercatanti in quella parte, ed essi non osano venir su le strade, perché quei luoghi sono per lo piú tenuti da uomini malvagi e assassini. Hanno abbondanza capre, di mele e d'olio di argan, e d'indi s'incomincia a trovare il detto argan.


Semede monte.

Questo monte incomincia da' confini del sopradetto, e sono separati l'uno dall'altro dal fiume Sefsaua, ed estendesi verso levante circa a venti miglia. I suoi abitatori sono vili, rozzi e poveri. Ivi si truovano molti fonti e neve tutto l'anno. Né si tiene o vero si obbedisce a ragione alcuna, se non alle volte di qualche passaggiero che paia loro che sia persona intendente. Io alloggiai una notte sul detto monte, in casa d'un religioso tra loro molto onorato, e convennemi mangiar del cibo che essi mangiano, cioè farina d'orgio temperata con acqua bollente, insieme con certa carne di becco che mostrava alla durezza di avere piú di sette anni d'età, e oltre a ciò mi convenne dormire su la nuda terra. Onde levatomi la mattina per tempo e pensandomi di partire, sí come quello che non sapeva l'usanza loro, mi fu fatto d'intorno cerchio da piú di cinquanta persone, le quali m'incominciarono a dir le lor questioni, non altrimenti che a giudice e terminator dei litigi. Io loro risposi che non sapeva niente de' fatti loro. Allora vennero innanzi tre gentiluomini, cioè tre dei piú riputati tra loro, de' quali uno disse: "Gentiluomo, voi forse non sapete il costume nostro: nostro costume è che niun forestiero si parta da noi per infino ch'egli non abbia molto bene ascoltate e decise le nostre cause". Né appena ebbe fornite queste parole che mi viddi esser levato il cavallo. Onde egli mi fu forza a soffrir nove amari giorni e altretante amare notti, sí per il cibo e sí per il dormire, percioché, oltre i molti intrichi, non era chi di loro sapesse scrivere una sola parola, e convennemi essere parimente e giudice e notaio. In capo di otto giorni dissero che essi mi farebbono la seguente mattina un presente onorato e nobile: per il che a me parve mille anni la notte, pensando fra me stesso di ricevere qualche buona quantità di ducati. Come apparve la luce, mi fecero sedere sotto il portico d'un loro tempio e, fatta certa orazione, incominciò ciascuno di loro a venire a me col suo presente, e baciorommi il capo. E tale fu che mi portò un gallo, tale una guscia di noce, uno due o tre treccie di cipolle e altro di aglio, e il piú nobile mi fece dono d'un becco: le qual cose, non si trovando alcun che le comprasse per non esser danari in quel monte, le lasciai al padron della casa per non volermele portar drieto. Questo adunque premio ebbi io della fatica e disagio di que' giorni. Egli è vero che cinquanta di queste canaglie mi accompagnarono buona pezza di via, la qual non era sicura.


Seusaua monte.

Questo monte è doppo il sopradetto, dal quale nasce un fiume che da lui piglia il nome. Quivi tutto il tempo dell'anno si truova la neve. Il popolo è molto bestiale e guerreggia di continovo co' vicini, e le loro armi sono i sassi i quali traggono con le frombole. Vivono d'orgio, di mele e di carne di capra, e sono tra essi mescolati molti giudei, che in que' monti esercitano l'arte fabbrile e fanno le zappe, le falci e i ferri de' cavalli. Fanno eziandio l'ufficio de muratori, benché poche faccende hanno alle mani, percioché i muri si fanno di pietre e di creta e i colmi di paglia. Né calcina né altro si truova, né tegole né mattoni: e cotali sono le case dei monti che abbiamo detto. Hanno gli abitatori molti legisti, che gli consigliano in certe cose, e io molti di loro ho conosciuti che studiarono in Fez, e mi accarrezzarono e feciono di molte promesse di accompagnarmi.


Secsiua monte.

Secsiua è un monte ripieno d'ogni salvatichezza, altissimo e molto freddo; vi sono di moltissimi boschi, né mai di quindi si leva la neve. Gli abitatori sogliono portare in capo certi cappelli bianchi. E vi sono fontane in molta copia. Quivi nasce il fiume di Assifinual. E nel detto monte si truovano molte grotte larghe e profondissime, nelle quali sogliono essi tre mesi dell'anno tenere i loro bestiami, cioè il novembre, il decembre e il gennaio; il cibo de' quali è fieno e certe frasche di alberi molto grandi. Le vettovaglie vengono da' vicini monti, percioché in questo niuna cosa nasce; abbondano nella primavera e nella state di latte, di cacio fresco e di butiro. Sono uomini di assai lunga vita, percioché sogliono viver ottanta, novanta e cento anni, e la loro vecchiezza è forte e vota naturalmente degli incommodi che apportano seco quegli anni, e vanno dietro le bestie per insino alla morte. Non veggono mai forestiero. Non portano scarpe, eccetto certo riparo sotto il piè per li sassi e certi stracci rivolti e aggroppati intorno la gamba con alcune cordicelle, per difendernele dalla neve.


Tenmelle monte e città.

Tenmelle è un monte altissimo e molto freddo, e molto abitato in ogni sua parte. Ha egli sopra la cima una città, appellata dal nome del monte, la quale è eziandio molto abitata ed è addorna d'un bellissimo tempio. Per lei passa un fiume. E sonvi sepelliti dentro Elmahdi predicatore e il suo discepolo Habdul Mumen. Gli abitatori sono gente maligna e pessima, e reputonsi d'esser dottissimi percioché tutti hanno studiato nella teologia e dottrina del detto predicatore, il quale fu tenuto eretico; e tantosto che essi veggono alcun forestiero, vogliono disputar con esso lui. Vanno mal vestiti, perché in detto monte non vi pratica alcuno forestiero, e vivono bestialmente circa al governo. Tengono pure un sacerdote, il quale è capo del consiglio. Si nudriscono communemente d'orgio e d'olio d'oliva, e hanno grandissima copia di noci e di pigne.


Gedmeua monte.

Gedmeua è un monte che incomincia dal monte Semmeda, dalla parte di ponente, e si estende verso levante circa a venticinque miglia, in tanto che giunge a Imizmizi. I suoi abitatori sono uomini di villa, poveri e soggetti agli Arabi, percioché le loro abitazioni sono vicine al piano che risponde verso mezzodí, dove è il monte di Tenmelle. Nelle coste del monte sono molte olive e campi per seminare orgio; sonvi eziandio di grandissimi boschi, e molti fonti nella sommità del monte.


Hanteta monte.

Questo è un altissimo monte, di maniera che io mai con gli occhi miei non viddi il piú alto. Incomincia dal lato di ponente da' confini di Gedmeua e si estende verso levante circa a 45 miglia, per insino al monte Adimmei. Gli abitatori di esso sono uomini valenti e ricchi, e possessori di molti cavalli. Quivi è una rocca, la quale è tenuta da certo signore parente del signor di Marocco; ma egli fa sempre guerra al detto signore per cagione di certo casale e terreno che è fra' loro confini. Sono nel monte molti giudei artigiani, i quai pagano tributo a questo signore; tutti tengono nella fede la oppenion delli carain e sono, come s'è detto, valenti con l'armi in mano. La cima del detto monte è sempre coperta di neve, e io, la prima volta che 'l viddi, istimai che quella fosse una nebbia per la terribile altezza del detto monte. Le sue coste sono sempre ignude d'alberi e di erbe. Sonvi eziandio molti luoghi di donde si possono cavar marmi bianchissimi e netti: ma da queste genti vengono sprezzati, né esse gli sanno cavare né polire. Trovansi in piú parti molte colonne e capitelli forniti e vasi grandissimi e bellissimi per far fontane, i quai furono fatti fare ne' tempi di quei potentissimi signori che di sopra dicemmo: ma le guerre interroppero i loro disegni. Veddivi io similmente molte cose maravigliose, ma la memoria non me le può rappresentar tutte, massimamente essendo ella occupata in cose piú necessarie e di maggiore utilità.


Adimmei monte.

Adimmei è un monte grande e alto: ha principio dal confino del monte Anteta dalla parte di ponente, e va verso levante per insino al fiume di Teseut. Quivi è quella città di cui abbiamo di sopra detto esser stato il signore, che fu morto nella guerra del re di Fez. Il monte è abitato da molti popoli, e si truovano in lui molti boschi di noci, di olive e di poma cotogne. Sonvi uomini assai valenti, i quali hanno gran quantità d'animali d'ogni sorte, percioché quivi è l'aere temperato e il terreno è buono. Nascono da questo molti fonti e duo fiumi, de' quali diremo nel libro in cui particolarmente avemo serbato a parlarne.
Dapoi che abbiamo fornito del regno di Marocco, ch'è da Atlante terminato di verso mezzogiorno, diremo al presente della region di Guzzula, ch'è traverso il monte e scontro lo regno di Marocco, ma Atlante separa infra dette due regioni.


Regione di Guzzula.

La regione di Guzzula è paese molto abitato, e confina con Ilala, monte di Sus, dalla parte di ponente, e da quella di tramontana col monte Atlante, quasi ne' piedi del monte, e dal lato di levante confina con la regione di Hea. Gli abitatori sono uomini bestiali e poveri di danari, ma hanno molti bestiami e molta copia di orgio. In questa sono molte vene di rame e di ferro, e vi si fanno molti vasi del detto rame, e li portano in diversi paesi faccendone contracambio con panni, specie e cavalli, e con tutte le cose che sono loro necessarie. E non c'è in tutta lei né città né castello, ma vi sono buoni villaggi e grandi, i quali communemente fanno mille fuochi, e quai piú e quai meno. Non hanno signore, ma si reggono fra loro stessi, talmente che spesse volte sono in divisione e in guerra; e le lor triegue non durano piú che tre giorni nella settimana, e può praticare lo inimico con l'altro, e vanno da una terra all'altra: ma fuora di detti giorni si ammazzano come bestie. Fu ordinatore di questa triegua, nel tempo ch'io passai per questa regione, un certo romito il quale è tra loro riputato santo. Il poverino non aveva altro ch'un occhio solo col quale vedesse lume. Io veramente lo trovai tutto puro, tutto benigno e tutto pieno di carità.
Vestono queste genti di certi camicioni fatti di lana, corti e senza maniche, i quali tengono di sopra assai strettamente. Usano di portar certi pugnali torti e larghi, ma sottilissimi verso la punta, e tagliano d'amendue le parti, e le spade portano come quelli di Hea. Fanno ne' loro paesi una fiera che dura due mesi, ne' quali danno mangiare a tutti i forestieri che vi si truovano, quando ben fossero diecimila. Come s'avicina il giorno della detta fiera, fanno tra loro tregua, e ciascuna parte si elegge un capitano con cento fanti, per guardia e securtà della fiera. Questi vanno discorrendo, e puniscono chi fa male secondo la grandezza del peccato; ma i ladri subito gli ammazzano, passandogli da un canto all'altro con certe loro partigiane, e lasciano il corpo ai cani. Fassi questa fiera in una pianura fra certi monti, e i mercatanti tengono le robbe loro ne' padiglioni e in certe capannette fatte di frasche. E dividono l'una sorte di mercatanti dall'altra, di maniera che altrove stanno i venditori de panni e altrove quegli che vendono le mercerie, e cosí gli altri di mano in mano; e li mercatanti di bestie stanno fuori de' padiglioni. Ogni padiglione ha dapresso una casetta pure di frasche, dove alloggiano i gentiluomini e dove si dà mangiare a' forestieri. E hanno certi soprastanti i quali hanno cura di proveder d'intorno alle spese che si fanno a' forestieri; ma ancora che spendono assai, nondimeno nella vendita di dette robbe guadagnano due tanti, percioché vengono a cotal fiera uomini di tutta quella regione ed eziandio del paese dei negri, che fanno gran faccende. In fine questi di Guzzula sono uomini di grosso ingegno, ma mirabili in vero in governar con quiete e pace la detta fiera, la qual si comincia nel giorno della natività di Macometto, ch'è alli 12 di rabih, mese 3 dell'anno haraba secondo il lor conto. Io fui in questa fiera con il serif principe 15 giorni per piacere, l'anno 920


Regione di Duccala.

Duccala provincia dalla parte di ponente incomincia da Tensift, e verso tramontana termina nel mare Oceano, e dal lato di mezzogiorno nel fiume di Habid, e nel fiume di Ummirabih da quello di ponente. Questa regione è lunga quasi tre giornate e larga circa a due, ed è molto popolosa: ma il popolo è maligno e ignorante, e poche città murate vi si truovano. Noi diremo ciò che v'è degno di notizia di luoco in luoco.


Azafi città.

Azafi è una città su la riva del mare Oceano, edificata dagli antichi Africani. Fa circa a quattromila fuochi ed è molto abitata, ma ha poca civiltà. Vi fu già gran copia di artigiani, e furonvi da cento case di giudei. Il terreno è ottimo e fruttifero, ma gli abitatori sono di poco ingegno, percioché nol sanno coltivare né porvi vigne; usano bene di far qualche picciolo orticello.
E allora che le forze dei re di Marocco cominciarono a indebolirsi, resse la detta città certa famiglia detta la famiglia di Farhon, e nel tempo mio vi reggeva un valente signore il quale era detto per nome Hebdurrahman, e aveva per regnare ammazzato un suo zio: dipoi pacificò la città e rimase lungo tempo nella signoria. Aveva costui una bellissima figliuola, la quale, innamoratasi d'un certo uomo popolare, ma capo di molte genti, detto Hali figliuol de Goesimen, per opera d'una schiava e della madre di lei giacque piú volte seco. Del che egli, avutone aviso dalla schiava, riprese la moglie e minacciolla di morte, ma dipoi dimostrò di non farne conto. Ella nondimeno, conoscendo la malvagità del signore, fece intendere a colui che se ne guardasse. Hali adunque (che cosí era il suo nome), dubitando da vero della sua vita, si risolse di ammazzar lui e, scoverto questo suo segreto ad uno giovane animoso e capo ancora egli di molta fanteria, di cui molto fidar si poteva, ambi d'un medesimo animo niente altro che tempo a ciò atto aspettavano. Il re da l'altra parte, il giorno d'una festa solenne, avendo fatto dire ad Hali ch'ei voleva, doppo il compimento dell'orazione, cavalcare alquanto con esso lui per cagione di sollazzo, e perciò l'attendesse a certo luogo, dove egli aveva fatto pensiero di ucciderlo, se n'andò al tempio. Hali, che del tutto s'accorgeva, chiamò il compagno e disse che era venuto il tempo che la congiura avesse effetto. Il perché, con dieci altri lor famigliari, essendo armati molto bene, e prima fatto apprestare un bregantino mostrando di volerlo mandar in Azamur per poter, quando bisogno fosse, fuggire, andorono al detto tempio a punto a ora che di poco il signor v'era entrato e tuttavia orava, essendo il tempio ripieno di molto popolo. Gli animosi e ben disposti giovani con la loro compagnia entrarono dentro e, appressatisi al re ch'era vicino al sacerdote, non furono impediti dalla guardia che, sapendo quanto essi fossero grandi appresso lui, di niente sospettava: di maniera che l'uno passò avanti del signore, l'altro, che fu Hali, rimaso dietro col pugnale lo ferí nella schiena, e in un medesimo tempo quel dinanzi gli cacciò la spada nel corpo e finillo. Il rumor fu grande, e la guardia primieramente assaltò i duoi, ma sopravenendo i dieci con le spade ignude, pensando questo esser stato trattato del popolo, si diede a fuggire. Il simile fecer gli altri, per modo che altri non rimasero nel tempio che i congiurati. Eglino, ciò vedendo, uscirono alla piazza e con molta copia di parole persuasero al popolo che essi giustamente avevano amazzato il signore, percioché egli aveva ordinato di amazzar loro. Il popolo leggiermente si acchetò e fu contento che questi duoi avessero la signoria, ma poco tempo d'accordo regnarono, percioché l'uno inchinava l'animo ad uno e l'altro ad un altro lato.
In tanto avenne che certi mercatanti portogallesi, de' quali sempre era nella città gran copia, consigliarono il suo re a fare un'armata, percioché agevolmente potrebbe prendere questa città. Ma egli perciò non si volle muovere alla impresa, insino a tanto che, doppo la morte del signore, i detti mercatanti lo avisarono che nella città erano molte parti, e che essi per forza di doni avevano fatto una stretta domestichezza con uno de' capi delle dette parti e un trattato tale che senza niuna difficultà e con poca spesa verrebbe a impadronirsi della città. Il che fu che questi mercatanti indussero quel capo a consentir ch'ei facessero una casa forte verso il mare, per potervi tener la loro robba sicura: adducevano le ragioni che nella morte del signore furono quasi saccheggiati e privi d'una buona parte. Fecero adunque una casa fortissima, faccendo portar secretamente schioppi e archibugi dentro le botte di oglio e negli involgi delle loro mercanzie, e pur che pagassero la gabella non si cercava altrimenti da quei della città. Come furono a bastanza forti di armi e da nuocere e da difendere, cosí incominciarono a trovar con i Mori diverse cagioni di discordie e di litigi, di maniera che un paggio d'uno de' mercatanti, comperando carne, indusse a tanta colera chi gliela vendeva che egli, impaziente, gli diede una guanciata. Il garzone, preso in mano un suo pugnale, glielo cacciò nel petto, onde il pover'uomo subito cadde morto, ed egli se ne fuggí alla casa dei mercatanti. Per la morte di costui il popolo si levò in arme e corse verso alla detta casa, pensando di saccheggiarla e tagliare a pezzi quanti vi erano; ma avicinandosi a lei, essi, che stavano provisti, scaricarono i loro schioppi, archibugi e balestre. Se i Mori allora si smarrirono non è da dimandare: furono in quello isprovisto assalto di loro morti presso a centocinquanta uomini; ma non perciò restarono per molti dí di combatter la detta casa, quando sopragiunse un'armata di Lisbona che avea fatta preparare il re, con monizion di ogni sorte di arme e di molti pezzi di grossa artigliaria, e con grandissima vettovaglia, e cinquemila fanti e 200 cavalli. Per il che i Mori, sgomentati tutti, abbandonando la città si fuggirono alle montagne di Benimegher, né altro vi rimase che la famiglia e gli aderenti del capo che consentí alla fabbrica della casa. Ebbe adunque il capitano dell'armata la città e, fattosi venire innanzi il detto capo, nominato Iehia, lo mandò al re di Portogallo, qual gli dette buona provisione con venti servitori, dipoi lo rimandò in Africa per governo della campagna della detta città, perché il capitano del re non sapeva l'uso di quell'ignorante popolo e come ei si dovesse maneggiare: la qual città rimase quasi disabitata, e tutto quel paese si rovinò.
Son stato alquanto lungo in questa istoria per dimostrarvi che una femina e le parti furon cagione non solamente della rovina della città, ma di tutto il popolo e di tutta la regione di Hea. E quando fu presa detta città potevo aver anni dodici, ma dapoi circa anni quattordici io fui a parlar con il detto governator della campagna per nome del re di Fessa e del serif principe di Sus e Hea, qual governator venne con il campo di cinquecento cavalli portogallesi e piú di dodicimila cavalli d'Arabi contra il re di Marocco, e riscosse tutta l'intrata di quel paese per il re di Portogallo, l'anno novecentoventi, come abbiam detto nelle abbreviazion delle croniche.


Conte, città di Duccala.

Conte è certa città lungi da Azafi cerca a venti miglia, edificata dai Gotti nel tempo che regnarono quella riviera. Ora è rovinata e i suoi terreni sono sottoposti ad alcuni Arabi di Duccala.


Tit, città di Duccala.

Tit è città antica, lontana da Azemur cerca a ventiquattro miglia, edificata dagli Africani sopra la marina dell'Oceano. Ha d'intorno una gran campagna, nella quale nasce il grano buono e in molta copia. Il popolo è di grosso intelletto, né sa tener giardino né gentilezza alcuna. È vero che veste assai onestamente, per aver continova pratica e intertenimento con Portogallesi. E quando fu preso Azemur, questa città si diè d'accordo al capitano del re e pagava certo tributo. E nel mio tempo il re di Fez andò in persona a dar soccorso al popolo di Duccala; ma non potendo far nulla, fatto che ebbe impiccare un cristiano che era tesoriere e un giudeo commessario, fece passare il popolo in Fez e diedegli ad abitare una picciola terricciuola che per adietro era disabitata, vicina a Fez dodici miglia.


Elmedina, città in Duccala.

Elmedina è una città in Duccala e quasi capo di quella regione, la quale è tutta murata di certe mura che si usano in quel paese, piú tosto vili e triste che altrimenti. Il popolo, che nel vero si può dire ignorante, veste pure di certi panni di lana che si fanno là, e le loro donne portano molti ornamenti d'argento e di corniole. Gli uomini sono valorosi e hanno gran quantità di cavalli. E questi furono trasferiti dal re di Fez, per sospetto dei Portogallesi, nel suo stato, percioché egli si avidde d'un vecchio, capo di parte della terra, qual consigliava il popolo a dar tributo al re di Portogallo. E lo viddi menare in catena, scalzo, e n'ebbi grandissima compassione, perché il povero vecchio fu isforzato per necessità a far quello che fece, considerando ch'era meglio a pagar il tributo che perder la robba e le persone. Per la liberazione del quale se intromesseno molti appresso al detto re di Fez, talché lo feciono liberare per via di pagamento, e dipoi la città rimase disabitata, nell'anno 921.


Centopozzi, città di Duccala.

Questa è certa terricciuola sopra un colle di sasso tevertino, fuori della quale sono molte fosse, dove gli abitanti solevano riponere il grano. E dicono quei del paese che nelle dette fosse è stato serbato detto grano cento anni continovi, senza guastarsi né mutar odore; e per la moltitudine delle sopradette fosse, simili a pozzi, è detta la città dei cento pozzi. Il popolo di questa città è di niun conto, perciò non vi si trova artigiano alcuno, eccetto certi giudei fabbri. E nel tempo che il re di Fez condusse il populo di Elmadina ad abitar nella sua regione, volle similmente condur quest'altro; ma esso, non volendo far tal mutamento, fuggí in Azafi per non voler lassar la patria. Il re, ciò vedendo, saccheggiò la città dei cento pozzi, nella quale altro non trovò che grano, mele e cose gravi e di poco valore.


Subeit, città nella medesima.

Subeit è una picciola città sopra il fiume di Ommirabih verso mezzogiorno, ed è lontana da Elmadina circa a quaranta miglia. È questa città soggetta agli Arabi di Duccala. Di grano è molto fruttifera e di mele, ma per ignoranzia del popolo non si truova orto né vigna alcuna. E poscia che Bulahuan fu rovinato, il detto popolo fu ridotto dal re di Fez nel suo regno, e diegli una picciola città di Fez ch'era disabitata, e Subeit rimase diserta.


Temeracost.

Temeracost è certa picciola città in Duccala posta pure sopra il fiume di Ommirabih, e fu edificata dal signore ch'edificò Marocco. Perciò è detta da quel nome, ed è molto abitata: fa circa a quattrocento fuochi. E fu soggetta al popol di Azemur, ma nell'anno che Azemur fu preso da' Portogallesi la detta città andò in rovina. Il popolo si transferí a Elmadina.


Terga.

Terga è picciola città sopra il fiume di Ommirabih, lontana da Azemur circa a trenta miglia. È molto abitata e fa quasi trecento fuochi. Questa fu sottoposta agli Arabi di Duccala, ma dapoi che fu preso Azafi, Hali, capo di parte che fu contra a' Portogallesi, andò in detta città e abitovvi alcun tempo insieme con molti valenti uomini. Ma poscia il re di Fez lo fece andar nel suo regno con la sua famiglia, di maniera che la città rimase albergo delle civette.


Bulahuan.

Bulahuan è una città picciola, edificata sul fiume di Ommirabih. Fa cerca a cinquecento fuochi, e fu abitata da molti nobili e liberali uomini, lungo il fiume e nel mezzo della strada per cui si va da Fez a Marocco. Fece il popolo di questa una casa di molte stanze, con una grandissima stalla, e quanti passano per quel paese sono amorevolmente invitati a detta stanza a spese del popolo, percioché esso popolo è molto ricco di grano e di bestie. E ogni cittadino ha cento paia di buoi, o poco piú o poco meno, e sonvi di quegli che raccolgono intorno a mille some di grano, e alcuno tremila: gli Arabi ne sono compratori e si forniscono per tutto l'anno.
Nel novecentodicennove il re di Fez mandò un suo fratello a difesa e governo della region di Duccala, il quale, giunto che vi fu appresso, ebbe nuova come il capitan di Azemur dovea venir per saccheggiar la detta città e far prigioni gli abitatori. Laonde egli subito fece ispedire due capitani con duomila cavalli, e un altro con ottocento balestrieri, in favore della città. In quel punto che queste genti arrivarono, arrivò ancora la gente portogallese, la quale, avendo aiuto da duomila Arabi, di facile la superò. I balestrieri del re di Fez, ch'erano ristretti nel mezzo del piano, furono tutti menati per fil di spada, eccetto dieci o dodici che insieme col rimanente dello esercito fuggirono ai monti. È vero che i Mori si rifecero, e tornando adietro dieron la caccia a' Portogallesi e vi amazzorono centocinquanta cavalli. Il fratello del re venne in Duccala e riscosse il tributo, e promettendo di favorirnela sempre, fu tradito dagli Arabi e costretto a tornarsi in Fez. Per il che, vedendo il popolo che la venuta del detto fratello del re aveva riscosso il tributo, e di niuno aiuto gli era stata la sua venuta, tutto impaurito lasciò la città e si ridusse ai monti di Tedle, temendo che li Portogallesi non venissino e mettessino piú grossa taglia e, non la pagando, fussino menati prigioni. Io fui in questa rotta e viddi quando furono amazzati li balestrieri, ma discosto circa un miglio, sopra una cavalla velocissima, perché allora io andava a Marocco partendomi dal campo del re di Fez, per far intender al signor di Marocco e al serif principe, per nome del re di Fessa, come il fratello del re era per giunger in Duccala e che faria provisione contra i Portogallesi.


Azaamur città.

Azaamur è una città in Duccala, edificata dagli Africani sul mare Oceano e su l'entrata del fiume Ommirabih nel detto mare, lontana da Elmadina 30 miglia verso mezzogiorno, molto grande e abitata, e fa cerca a cinquemila fuochi. È frequentata di continovo da mercatanti portogallesi, di maniera che gli abitatori sono persone molto civili e vanno in belli abiti. Il popolo è diviso in due parti, nondimeno è stato sempre in pace. Questa città è molto fertile di grano, cioè la campagna; egli è vero che non vi sono giardini né orti, eccetto alcuni alberi di fichi.
Il fiume gli rende l'anno, di gabella di pesce lasca, quando seimila e quando settemila ducati, nel quale s'incomincia a pescar il mese di ottobre e dura per tutto aprile, il quale è in molta copia, ed è piú il suo grasso che la carne. Onde, quando lo vogliono friggere, vi mettono un poco d'olio, percioché, tosto che il pesce sente il calor del fuoco, manda fuori cotanto grasso che pesa piú d'una libbra e mezza; e questo è come olio, e lo abbrucciano nelle lucerne, perché in quel paese non nasce olio. I mercatanti portogallesi vengono una volta l'anno a comperar gran quantità di detto pesce, e questi sono quelli che pagano la gabella, in tanto che essi dipoi consigliarono il re di Portogallo a prender la detta città. Onde egli vi mandò una armata di molti navili, ma, per essere il capitano poco pratico, fu nello imbroccar del fiume l'armata rotta e la piú parte s'affogò. Ma il re doppo anni due vi mandò un'altra armata di dugento legni, la quale come il popolo vidde, cosí perdé ogni suo ardimento, di modo che, ponendosi in fuga nell'entrar delle porte, per la moltitudine furon morti ottanta e piú uomini. Un povero principe ch'era venuto a soccorso della detta città, non sapendo come altrimenti fuggirsi, il meglio che poté si calò per una fune giú da una parte delle mura. Il popolo fuggiva chi di qua chi di là per la città, altri iscalzi a piede e altri a cavallo, ed era una compassione a veder fanciulli, vecchi, donne e donzelle scalze e iscapigliate correr per tutto e non saper dove ripararsi. Ma prima che si desse la battaglia da' cristiani, i giudei, che avevano pochi dí adietro patteggiato col re di Portogallo di dargli la città, con patto che a loro non fosse fatto ingiuria, col consentimento di ciascuno apersero loro le porte. Cosí i cristiani ebbero la città, e il popolo andò ad abitar parte a Sala e parte a Fez. Ma prima fu molto ben castigato del suo orrendo vizio, percioché quasi tutti erano immersi nel peccato della sodomia, in tanto che raro era quel fanciullo che scappasse dalle loro mani.


Meramer.

Meramer è una città edificata dalli Gotti fra terra, lontana da Azafi circa quattordici miglia, e fa presso a quattrocento fuochi. Il paese è molto fertile di grano e di olio. Fu soggetta questa città al signor di Azafi, ma doppo che Azafi fu preso da' Portogallesi, gli abitatori di lei fuggirono e la città rimase quasi uno anno disabitata. Ma fecero dipoi con detti Portogallesi certo patto e tornarono ad abitarla, e fin ora pagano tributo al re.
Ora si dirà di alcuni monti.


Benimegher monte.

Questo è un monte discosto da Azafi circa a dodici miglia, abitato da molta copia d'artigiani, e tutti costoro avevano case in Azafi. È fertilissimo, massimamente di grano e di olio. Ne' tempi adietro fu questo monte sottoposto al signore di Azafi, e quando Azafi fu preso, il popolo non ebbe altro rifugio ch'esso monte. Dipoi fu tributario al re di Portogallo, ma nella venuta del re di Fez in quel paese, alcun del detto popolo entrò in Azafi e alcuni altri furon menati dal re di Fez a Fez, percioché essi non volevano viver sotto a cristiani.


Monte Verde.

Verde è un alto monte: incomincia dal fiume di Ommirabih dalla parte di levante e si estende verso ponente per insino a' colli di Hasara, e separa Duccala e una parte della region di Tedle, ed è molto boscoso e aspro. Evvi molta copia di ghiande, e nasconvi quegli alberi i quali fanno quel frutto rosso ch'è detto africano, e anche delle pigne. Quivi abitano molti romiti, i quali d'altro non si pascono che de' frutti del monte, percioché sono lontani da ogni abitazione circa a vinticinque miglia. Trovansi eziandio nel detto monte molti fonti, e molti altari fatti al modo di maumettani; truovansi similmente alcuni edificii degli antichi Africani. Sotto il monte è un bellissimo lago, grande come è quello di Bolsena in terra di Roma. Havvi grandissima quantità di pesce, sí come sono anguille, lasche, lucci e altri pesci ch'io non ho veduto in Italia, tutti in somma perfezione di bontà; ma non è alcuno che peschi in questo lago.
Quando Maumetto re di Fez andò a Duccala, fermossi con l'esercito otto giorni appresso il detto lago, e fece pescar ad alcuni i quali, sí come io viddi, cucirono il collo e le maniche a certe camicie e, legando certe bacchette dalla parte di sopra, giú le calarono nel lago, e in questa guisa pigliarono gran quantità di pesce. Pensate quel che fecero quelli che avevano le reti, e quanta quantità ne presero: perché il pesce era come stordito e imbriaco per la cagione ch'io dirò. Fece il detto re entrar nel lago forse un buon miglio dentro li cavalli dell'esercito, che furon da 14 mila degli Arabi venuti in suo favore d'alcuni suoi vasalli, e gli Arabi menorono seco molti camelli, quali furono tre volte tanti come li cavalli, e li camelli delli carriaggi della corte del re e di suo fratello, che furon 5000, e infiniti altri ch'eran su detto esercito, e per causa di tanti animali ch'introrono in detto lago, lo turborono di sorte che non si poteva aver acqua per bere, e il pesce era come stordito e si lassava pigliare.
Tornando al lago, dico che nelle sue sponde sono moltissimi alberi, i quali hanno le foglie che somigliano a quelle dei pignari, e tra i rami sempre è grandissima quantità di nidi di tortore, sí come a que' dí, ch'era il mese di maggio, di maniera che si davano sei tortorini per un vilissimo prezzo.
Il re, poi che riposò quivi otto giorni, volle andare al monte Verde e cosí v'andammo molti con esso lui, cioè sacerdoti e cortigiani del detto. Egli ad ogni altare che trovava faceva fermar tutti e, postosi con li ginocchi a terra, piangendo umilmente diceva: "Iddio mio, tu sai che la mia intenzione d'esser venuto a questo salvatico paese altra non è che d'aiutare e liberare il popolo di Duccala dalle mani degli empi e ribelli Arabi, e insieme dai nostri fieri nimici cristiani. Ma se tu vedi il contrario, rivolgi il flagello nella mia persona, perché queste genti che mi seguono non meritano esser puniti". Ora noi rimanemmo tutto quel dí nel monte, e la sera tornammo ai nostri alloggiamenti. La mattina seguente il re volle che si facesse una caccia nel bosco, nel circuito del detto lago, la qual fu fatta con cani e con falconi, de' quali il re sempre teneva molta copia: la preda fu certe oche salvatiche, anitre e altra sorte d'uccelli d'acqua e tortorelle. Il dí appresso fecesi un'altra caccia, con cani levrieri, falconi e aquile, e furon presi lepri, cervi, porchi spini, caprioli, lupi, coturnici e di starne una infinita quantità, percioché in questo monte non era stata fatta caccia alcuna per lo spazio di cento anni. Doppo queste caccie preso il re alquanto di riposo, si partí e andò con l'esercito verso Elmadina di Duccala, dando licenzia ai sacerdoti e dottori che seco erano di tornare a Fez; una brigata di alquanti mandò a Marocco per oratori, tra' quai vi fu' ancor io, l'anno 921 di legira.


Hascora regione.

Hascora è certa regione la quale incomincia dai colli che sono ne confini di Duccala di verso tramontana, e termina dal lato di ponente nel fiume di Tensifit sotto il monte di Adimmei. Confina dalla parte di ponente in Quadelhabid, fiume dei Servi, che divide tra loro Hascora e Tedela, e Duccala con i suoi colli parte Hascora dall'Oceano. Questa gente è molto piú civile che quella di Duccala, percioché in quel paese è grande abbondanza d'olio e di cuoi marocchini, de' quali gli abitatori sono quasi tutti conciatori, e hanno grandissima copia di capre; e tutte le pelli dei convicini monti quivi si conciano, percioché v'è grandissima quantità di capre, onde si fanno bellissimi panni di lana all'usanza loro e bellissime selle da cavalli. E i mercatanti di Fez fanno gran faccende in quel paese, dando a baratto tele per detti cuoi e selle. La moneta loro è quella che si spende in Duccala. Gli Arabi sogliono comperare in Hascora olio e altre cose.
Ora vi narrerò di città in città.


Elmadina, città di Ascora.

Elmadina è un'altra città nella costa di Atlante edificata dal popolo di Hascora, e fa circa a duemila fuochi. È lontana da Marocco verso levante presso a novanta miglia, e da Elmadina di Duccala circa 60 miglia. Questa città è molto abitata da artigiani conciatori di cuoi e sellai e altri artefici; sonvi molti giudei, parte mercatanti e parte pure artigiani. È la detta città fra un bosco di olive, di vigne e bellissimi pergolati e noci altissime. Sono gli abitatori uomini seguitatori di parte, tengono quasi continove nimicizie tra loro dentro la città e di fuori con una città loro vicina a quattro miglia, e nessuno può sicuramente andare alla campagna per veder le sue possessioni, eccetto gli schiavi e le femine. E se un mercatante forestiere vuole andar d'una città all'altra, gli fa di bisogno d'esser molto bene accompagnato; il perché a questo effetto suol tenere ciascuno un archibugiere o balestriere, con salario al mese di dieci o dodici ducati di lor moneta, che sono sedici italiani. Sono nella città alcuni uomini dotti nella legge, e di questi si creano i giudici e i notai. Le gabelle de' forestieri sono indrizzate a certi capi, i quali le riscuotono e spendono nella commune utilità, pagando agli Arabi per conto delle loro possessioni, che sono nel piano, non so che tributo: ma guadagnano dagli Arabi dieci volte tanto.
Io nella tornata mia da Marocco fui in questa città e alloggiai in casa d'un Granatino molto ricco, ch'era stato quivi per balestrieri circa a diciotto anni, il quale a me e a' miei compagni, che eravamo nove senza i ragazzi, fece molto amorevolmente le spese per insino alla partita, che fu il terzo giorno; e come che il popolo volesse ch'io alloggiassi nel commune albergo de' forestieri, egli nondimeno, per essere della mia patria, non sostenne che si riparassimo in altro albergo che in casa sua. E in quei dí che vi dimorammo il commune ne facea presentar quando vitelli, quando agnelli e quando galline. E io, vedendo gran copia de capretti nella città, dimandai al mio paesano perché essi non mi appresentassero alcuni di questi capretti. Egli mi rispose che quello era tenuto il piú vile animale che fosse in quel paese, e che piú tosto si costumava d'appresentar qualche capra o becco. Le femine di questa città sono bellissime e bianche, e volentieri, quando le possono, usano segretamente con forestieri.


Alemdin, città nella medesima.

Alemdin è una città vicina alla sopradetta quattro miglia verso ponente, edificata fra una valle circuita da quattro alti monti, ed è paese molto freddo. È abitata da artigiani, mercatanti e gentiluomini; fa circa a mille fuochi. Stanno queste genti di continovo in guerra con la città dinanzi detta, e nel tempo mio il re di Fez acquistò le dette due città per mezzo d'un mercatante di Fez. Il che fu in questo modo.
V'era un mercatante (come s'è detto) di Fez, il quale essendo innamorato d'una bella giovanetta, quella gli fu promessa per moglie dal padre: ma venuto il dí delle nozze, la giovene gli venne levata di mano da uno che era capo della città. Il perché egli turbato, ma fingendo altro, tolse licenzia dal detto capo e, partito della città, tornò in Fez e presentò al re alcune rare e belle cose di quel paese; e gli domandò per grazia ch'ei gli concedesse cento balestrieri, trecento cavalli e quattrocento fanti, i quali tutti intendeva di tenere a sue spese, promettendo fra pochi dí di prender la detta città e, tenendola a nome suo, di dargli ogni anno settemila ducati delle rendite di detto paese. Contentossi il re e, mostrando liberalità, non volle che egli avesse spesa d'altra gente che dei balestrieri, e gli dette una lettera nella quale commetteva al governator di Tedlet a far tanti cavalli e tanti fanti con duoi capitani in favore del mercatante. Il quale, essendo assai bene in punto, s'accampò alla città, né vi tenne l'assedio sei giorni ch'il popolo fece intendere al capo che esso non voleva acquistar nimicizia col re di Fez, né meno ricever danno. Onde egli in abito di mendico uscí fuori della città, ma fu conosciuto e condotto innanzi al mercatante, il quale lo fece mettere in catena; in tanto il popolo aperse la città e dettela al mercatante in nome del re. I parenti della fanciulla amata da lui si scusarono con dire ch'il capo avea loro fatto forza, e ch'era veramente sua moglie perché a lui fu data prima. Ell'era gravida, onde attese il mercatante ch'ella partorisse, dipoi la tornò a sposare la seconda volta; e il capo, sí come fornicatore, fu da' giudici condannato alla morte, e quello stesso giorno fu lapidato. Il mercatante rimase al governo di questa città, e fra le dette due città compose la pace, attendendo al re quello che promesso gli aveva. E io fui in detta terra, dove conobbi il mercatante che governava. Allora io era in Fez e in quell'anno medesimo mi parti' da casa per andar verso Costantinopoli.


Tagodast, città in Hascora.

Tagodast è una città edificata su la cima di un alto monte, ed è circondata da quattro alti monti. Fra i detti monti e le rive della città sono bellissimi giardini, piantati di molti alberi di ogni sorte di frutti, e io ho veduto le crisomele grosse come gli aranci. Hanno le lor vigne fatte tutte con bellissimi pergolati, appoggiandole su le piante degli alberi, e le uve sono rosse e chiamansi nella lingua loro "uova di gallina", e nel vero che questo nome si convien loro per la grossezza che tengono. Ivi è grande abbondanza d'olio e di mele perfettissimo e bianco come latte, e altro giallo e chiaro come oro; cosí l'olio è di molta bontà e perfezione. Dentro la città vi sono fontane grandi e molto correnti, con la cui acqua si macina in certe picciole mole fatte nella costa delle rive. Vi sono eziandio molti artigiani, cioè di cose necessarie, e il popolo è quasi civile. Le donne sono bellissime e portano molti belli ornamenti d'argento, percioché gli uomini vendono molto bene il loro olio portandolo alle città vicine al diserto, cioè fra Atlante verso mezzogiorno; i cuoi conducono a Fez e a Mecnasa. Il piano è lungo circa a sei miglia e vi sono bellissimi campi da seminar grano; pagano i paesani un certo censo agli Arabi per li loro poderi. Nella città sono e sacerdoti e giudici, e v'è gran quantità d'uomini nobili.
Nel tempo ch'io vi fui eravi signore un certo gentiluomo, il quale era vecchio e cieco, ed era obbedito molto. Egli (sí come intesi) nella sua giovanezza fu uomo valente e di gran cuore, e tra molti altri aveva ucciso di sua mano quattro capi di parte, i quali offendevano tutto il popolo. Doppo la morte dei quali usò tanta clemenza al popolo e seppe cosí ben fare che, sedate le parti, lo ridusse a unione e summa concordia, faccendo seguir tra l'uno e l'altro non pure amicizie, ma parentadi. E circa al reggere tutto il popolo era in libertà, ma niente poteva determinare senza consiglio e autorità del detto. Io alloggiai nelle case di questo vecchio con ottanta cavalli, il quale usò verso di noi gran magnificenza e liberalità, faccendo di continovo cacciare acciò sempre avessimo nuovi cibi e freschi. Raccontommi i pericoli ch'egli aveva sostenuti in pacificar la città, niun suo segreto ascondendomi, non altrimenti che se io suo fratello fossi stato. Nella partita io voleva rifarlo del danno ch'egli avea ricevuto in onorarci, ma esso nol consentí, dicendo ch'egli era amico e buon servitore del re di Fez, ma che tuttavia non ci aveva onorato per esser noi famigliari del re, ma perché i suoi antichi gli avevano lasciato per eredità e costume d'alloggiare e onorar tutti i suoi conoscenti o forestieri che passassero per quel paese, prima per l'amor di Dio, dipoi per la sua naturale nobiltà; soggiungendo che Iddio, che provede per tutti, gli avea fatto quell'anno raccoglier settemila moggia di formento e d'orzo, talmente ch'era minor copia assai d'uomini che di vettovaglia, e ch'egli avea piú di centomila fra pecore e capre, de quali solo traea utile delle lane, percioché il latte e 'l cacio se lo godevano i pastori, ma che ben essi gli davano certa quantità di butiro. Disse che tai cose non si vendevano in quel paese, perché tutti avevano copia di bestiami, ma che le pelli, le lane e l'olio le facevino vender sette over otto giornate lontano da loro. E s'egli avvenisse che il re nostro, tornando da Duccala, tenesse il cammino vicino a quel monte, esso gli uscirebbe incontra e offerrebbeglisi per amico e servitore. Ora noi infine da lui togliessimo combiato, lodando quel buon vecchio per tutto il nostro viaggio.


Elgiumuha.

Elgiumuha è una città vicina alla detta circa a cinque miglia, edificata a' nostri dí sopra un alto monte posto fra altri monti altissimi. Fa circa a cinquecento fuochi, e altretanti le ville che sono fra i detti monti. Quivi sono molti fonti e molti giardini abbondevoli d'ogni sorte di frutti: specialmente v'è un gran numero di noci grandissime e altissime, e per tutti li colli che ha intorno a' detti monti sono molti campi per orzo, ed evvi gran quantità d'olive. La città è molto abitata da artigiani, massimamente di conciatori di cuoi, sellai e fabbri, percioché v'è una vena assai profonda di ferro; e questi fabbri fanno gran copia di ferri da cavallo. E tutti i loro lavori e merci recano ne' paesi dove non si truovano, dandole a baratto per ischiavi e per guado e per cuoi di certi animali che abitano nel diserto, dei quali ne fanno targhe buone e fortissime. Le quai cose poi essi conducono a Fez e l'abbarattano per panni e tele e per altre cose che sono da loro usate. La detta città è molto discosto dalla via maestra, di maniera che se vi viene un forestiere fino e' fanciulli corrono per vederlo, massimamente se il forestiere avrà indosso alcun abito che in quel paese non si usi. Il popolo si governa pel consiglio della sopradetta città. Fu Elgiumuha fabricata dalla plebe di Tegodast, percioché, essendo fra gentiluomini nata discordia, il popolo, non volendo accostarsi a niuna parte, si partí dalla città ed edificaron Elgiumuha, e lasciarono Tegodast a' gentiluomini. Onde al dí d'oggi l'una è solamente ripiena di gentiluomini e l'altra di persone ignobili.


Bzo, città in Ascora.

Bzo è una certa città antica, edificata sopra un monte altissimo e discosta dalla detta circa a venti miglia verso ponente; sotto questa città passa il fiume dei Servi, il quale va a lungo circa tre miglia. Gli abitatori sono tutti mercatanti e uomini da bene, e vestono molto gentilmente. Fanno portare olio, cuoi e panni ai paesi del diserto. Il monte loro è molto fertile d'olio, di grano e d'ogni sorte di frutti gentili, e sogliono costoro seccare una sorte d'uva ch'è d'un colore e sapor mirabile. Hanno grandissima quantità di fichi, i cui piedi sono alti e grossi; gli alberi delle noci sono d'estrema grandezza, di modo che i nibbi sicuramente vi fanno sopra i loro nidi, percioché non è uomo a cui basti l'animo di salire a quella altezza. La discesa ch'è dal monte verso il fiume è tutta piantata e adornata di bellissimi giardini, i quali si estendono per insino alle rive del detto fiume. Quivi io fui una state a tempo che v'erano molti frutti, cioè crisomeli e fichi, e alloggiai in casa del sacerdote di detta terra, appresso un bel tempio a canto il quale passa un fiumicello, qual esce per la piazza della terra.


Tenueues monte.

Tenueues è un monte dirimpetto alla regione di Hascora, il quale è la faccia di Atlante che riguarda verso mezzogiorno. È molto abitato e popoloso, e gli abitatori sono uomini valentissimi con l'armi in mano, cosí a piè come a cavallo; hanno molti cavalli, i quali sono di piccola statura. Nel detto monte nasce gran quantità di guado e d'orzo, ma di frumento quasi non ve ne nasce grano, di maniera che l'orzo è il loro nutrimento. Vedesi per questo monte la neve in tutte le stagioni dell'anno. Fra il popolo sono molti nobili e cavalieri, e hanno un principe il quale regge come signore. Costui riscuote le rendite del monte, che sono assai buone e larghe, e spendele nelle guerre che sono tra loro e il popolo che abita nel monte di Tenzita. Tiene egli circa a mille cavalli, e i gentiluomini e cavalieri fanno presso altretanti cavalli; tiene eziandio cento persone fra balestrieri e archibugieri.
Nel tempo ch'io vi fui v'era un signore, liberalissimo uomo, il quale oltra modo piaceva esser presentato e lodato, ma in cortesia invero non aveva eguale, percioché donava tutto il suo. Dilettavasi della lingua pura araba e non l'intendeva, ma egli s'allegrava tutto quando gli veniva esposta qualche sentenza che fosse in sua laude. Ma allora che 'l mio zio fu mandato dal re di Fez imbasciatore al re di Tombutto, col quale io era, essendo noi giunti alla regione di Dara, ch'è lontana dal detto signore circa a cento miglia, subito che all'orecchie di costui pervenne la fama del mio zio, il quale fu veramente uno eloquente oratore ed elegante poeta, egli mandò una lettera al signor di Dara pregandolo che glielo mandasse, perché ei desiderava di vederlo e conoscerlo. Iscusossi il mio zio con rispondere che non era lecito a uno oratore del re d'andare a visitar i signori ch'erano fuori di strada e mettere a lungo i servigi del re, ma che nondimeno, per non parer persona altiera, mandarebbe un suo nipote a baciargli la mano. Cosí esso me gli mandò con molti onorevoli presenti, i quali furono un paio di staffe addorne e lavorate alla moresca, di prezzo di venticinque ducati, e un paio di sproni bellissimi e molto ben lavorati, di valore di quindici; un paio di cordoni di seda lavorati d'oro filato, l'un paonazzo e l'altro azurro; e un libro molto bello e legato di nuovo, nel quale si trattava la vita de santi africani, e una canzona fatta in lode del detto signore.
Io mi posi in cammino con due cavalli, e quattro dí spesi nel viaggio, ne' quali una canzona composi pure in lode del detto. Come arrivai alla città, trovai il signore ch'era allora uscito del suo palazzo per andar alla caccia con bellissimo apparechio, il quale, avendo inteso della mia giunta, subito mi fece chiamar a lui. E poi ch'io l'ebbi salutato e baciatogli la mano, mi dimandò come stava il mio zio, e io rispostogli ch'egli stava bene a' servigi di sua eccellenza, mi fece assegnare alloggiamento e disse ch'io mi riposassi fino ch'ei ritornasse dalla caccia. Ritornato dunque a molta pezza di notte, mandò a dirmi ch'io andassi al suo palazzo. Il che fatto gli baciai da capo la mano, e poi ch'io l'ebbi lodato assai, gli appresentai i doni, i quali come egli vidde molto s'allegrò. Infine gli detti la canzona del mio zio: egli la fece leggere a un suo secretario, e mentre colui gli dichiarava di parte in parte le cose in quella contenute, dimostrava nella sua faccia segni di grandissima allegrezza. Fornito che fu di leggere e di espor la canzona, il signor si pose a seder per mangiare, e io non molto discosto da lui. Le vivande furono carni di castrati e d'agnelli arroste e lesse, le quali erano ingroppate in certi invogli di sottilissimo pane fatto a modo di lasagne, ma piú fermo e piú grosso. Fuvvi dipoi recato innanzi il cuscusu e il fetet, con altri cibi di cui ora non mi soviene. Al fin della cena io levai in piedi e dissi: "Signore, il mio zio ha mandato a V. Ecc. un picciolo presente, sí come quello che povero dottore è, affine che per voi si conosca la prontezza del suo animo e perché egli abbia qualche poco di luogo nella vostra memoria. Ma io, suo nipote e discepolo, per non mi trovar altra facultà con che onorarvi, vi fo un presente di parole, percioché, quale io mi sono, desidero ancor io d'esser numerato tra i servitori di vostra altezza". E questo detto incominciai a legger la mia canzona, e nello spazio ch'io la leggeva, il signore parte dimandava le cose che non erano intese da lui e parte riguardava me, che allora era di età di sedici anni. Letta ch'io ebbi la canzona, essendo egli stanco del cacciare ed essendo ora di dormire, mi diè licenzia. La mattina m'invitò per tempo a desinar seco e, fornito il mangiare, mi diè cento ducati ch'io portassi al mio zio, e tre schiavi che lo servissero nel viaggio; a me fece presente di cinquanta ducati e un cavallo, e per ciascuno di quei ch'erano in mia compagnia dieci ducati, e m'impose ch'io dovessi dire a esso mio zio che quei pochi doni erano per premio della canzona, non in contracambio dei presenti fattigli da lui, percioché egli si serbava al ritorno suo di Tombutto di mostrargliene buona gratitudine. Cosí comandò a uno dei suoi segretari che m'insegnasse la via e, toccatomi la mano, mi dette licenza di partir la mattina, perch'egli aveva da far una correria contra certi suoi nimici. Io adunque me gli accomandai e tornai al zio.
Questo discorso ho voluto far per dimostrarvi ch'anco nell'Africa vi sono gentiluomini e cortesi signori, sí come il signor di questo monte.


Tensita monte.

Tensita è un monte, cioè una parte di Atlante, che incomincia da' confini del sopradetto monte di verso occidente, e si stende fino al monte di Dedes dal lato di levante, e verso mezzogiorno confina col diserto di Dara. Questo monte è molto popoloso, e vi sono cinquanta castelli, tutti murati di creta e di pietre crude. E per cagione che 'l monte depende verso mezzogiorno, poche volte vi piove. I detti castelli sono tutti fabricati sul fiume di Dara, ma discosti dal fiume chi quattro e chi tre miglia. Quivi signoreggia un gran signore, il quale fa circa a mille e cinquecento cavalli, e pedoni quasi quanti il signor di sopra detto; e hanno insieme stretto parentado, ma sono mortalissimi nimici e di continovo l'uno fa guerra all'altro. Nella maggior parte di questo monte nascono molti datteri, e gli abitatori sono lavoratori de' campi e mercatanti. Nascevi ancora in molta abbondanza orzo, ma v'è gran carestia di formento e di carne, percioché ci son pochi bestiami. Vero è che 'l detto signore cava d'utilità dal detto monte ventimila ducati d'oro, ma i ducati di quel paese pesano due terzi di piú dei ducati italiani, che sono dodici caratti. Ancora il detto signore è molto amico del re di Fez, e sempre gli manda di gran presenti; il re dall'altra parte di continovo lo ricambia con molte gentilezze, come sono cavalli con bellissimi fornimenti, panni di scarlatto, drappi di seta e qualche bel padiglione.
Di mio ricordo questo signore mandò al re un superbo presente, che fu cinquanta schiavi negri e altretante schiave femine, dieci eunuchi e dodici camelli da cavalcare, una giraffa, dieci struzzi, sedici gatti di quelli che fanno il giubetto, una libbra di muschio fino, una di giubetto e un'altra di ambracane, e appresso seicento cuoi d'un animale ch'è detto elamt, con li quali si fa di finissime targhe, e ogni pezzo di detto cuoio vale in Fez otto ducati. Gli schiavi s'apprezzano venti scudi l'uno e le femine quindici; ciascuno eunuco è di valor di ducati quaranta; i camelli nel paese del detto signore vagliono cinquanta ducati per ciascuno, i gatti dugento, il muschio, il giubetto e l'ambracane vagliono l'un sopra l'altro sessanta ducati la libbra. Si contenevano in questo presente altre cose, le quali io non pongo nel numero, come dattoli zuccarini e certo pepe di Etiopia. Io mi trovai presente quando fu portato questo notabil dono al re di Fez. L'appresentatore fu un uomo negro, grosso e picciolo e di lingua e costumi veramente barbaro, e portò una lettera al re, la qual fu assai rozzamente scritta; ma peggio fu l'ambasciata ch'egli fece a bocca, in tanto che il re e tutti i circonstanti non poterono tener le risa, ma si coprivano o con mano o col lembo della veste. Tuttavia il re, i giorni che il detto rimase appresso lui, lo fece onorare assai nobilmente, alloggiandolo in casa del predicatore del tempio maggiore e faccendoli le spese con quattordici bocche, tra suoi servitori e compagni, fin che fu espedito.


Gogideme monte.

Gogideme è un monte che confina col sopradetto, ma solamente abitato dalla parte che risponde verso tramontana, percioché quella che riguarda verso mezzogiorno è tutta disabitata. La cagione fu che nel tempo che Abraham re di Marocco ebbe quella memorabil rotta dal discepolo di Elmahdi, e fuggiva verso questo monte, gli abitatori gli ebbero compassione e volevano aiutarlo, ma la fortuna fu contraria. Onde il discepolo di Elmahdi rivolse lo sdegno, contra questo popolo, abbruciando le lor case e villaggi, e parte uccidendo e parte scacciando da detto monte.
Quella parte dunque che è abitata è tenuta da vilissimi uomini, i quali vanno tutti mal vestiti e fanno mercanzia d'olio, della qual vivono. Quivi non nasce altro che olive e orzo; hanno assai capre e muli, i quali sono molto piccioli, percioché i lor cavalli sono di picciolissima statura. La qualità del monte difende loro la libertà.


Teseuon.

Teseuon sono due monti l'uno accanto l'altro, e cominciano da' confini del detto dalla parte di ponente e finiscono nel monte di Togodast. Sono questi monti da un popolo molto povero abitati, percioché altro non vi nasce che orzo e miglio. Ha origine da essi monti un fiume, il quale corre per una bellissima pianura; ma gli abitatori non hanno a fare nel piano, perché esso è posseduto da certi Arabi.
Ora è tempo di dire della regione di Tedle.


Tedle regione.

Tedle è una regione non molto grande, la quale incomincia dal fiume dei Servi dalla parte di ponente e finisce nel fiume di Ommirabih, cioè dal capo del detto fiume. Dal lato di mezzogiorno termina ne' monti di Atlante, e di verso tramontana ha fine dove entra il detto fiume de' Servi nel fiume di Ommirabih. Questa regione ha quasi forma di triangolo, percioché i detti fiumi nascono di Atlante e si estendono verso tramontana, stringendosi l'uno verso l'altro insino che si congiungono insieme.


Tefza, città in Tedle.

Tefza è la principal città di Tedle, edificata dagli Africani nella costa di Atlante, vicina al piano circa a cinque miglia, ed è murata di certe pietre tevertine che nella lingua loro sono dette tefza, e da quelle è derivato il nome della città. Ella è molto popolosa e abitata da genti ricche; sonovi circa a dugento case di giudei, tutti mercatanti e ricchi artigiani. Vengonvi eziandio molti mercatanti forestieri, per comperar certi mantelli negri che si tessono interi con li lor cappuzzi, e questi si appellano ilbernus. Di questi se ne vende qualcuno in Italia, ma in Ispagna se ne truovano assai; e in questa città si vende la maggior parte delle mercanzie che si fanno in Fez, sí come sono tele, coltelli, spade, selle, morsi, berrette, aghi e tutte le mercerie. E se i mercatanti le vogliono dare a baratto, truovano piú facilmente ricapito, percioché i paesani hanno molte robbe del paese, come sono schiavi, cavalli, barnussi, guado, cuoi, cordovani e tai cose. Onde, se essi le vogliono dare a contanti, ciò convengono fare per assai minor prezzo, e il pagamento è oro non battuto in forma di ducati, né quivi corre moneta d'argento. Costoro vanno molto ven vestiti e cosí le lor donne, le quali sono tutte piacevoli. Nella detta città sono molti tempii e sacerdoti e giudici.
E nel tempo passato questa città si governava a modo di republica; dipoi, per discordie e divisioni, incominciarono amazzar l'un l'altro, in tanto che nel mio tempo vennero i capi d'una parte a Fez, e dimandarono dal re in grazia che gli volesse aiutar a rimetter nella lor terra, ch'essi gli dariano la signoria della città. Cosí il re fu contento, e mandò con essi mille cavalli leggieri, cinquecento balestrieri e dugento schioppettieri tutti a cavallo. Oltre di ciò il re scrisse a certi Arabi suoi vasalli, che si chiamano Zuair, i quali fanno circa quattromila cavalli, che dovessero andar in favor dei capi della detta parte, occorrendo ch'essi n'avessero bisogno. Il re fece capitano un valentissimo cavaliero che si chiamava Ezzeranghi, il quale, subito come fu ragunato il campo, incominciò dar la battaglia alla città, perché ritrovò l'altra parte che s'era fortificata di dentro, e avevano fatto venir li suoi vicini arabi, che si chiamano Benigebir, i quali fanno circa cinquemila cavalli. Il detto capitano, come vidde questa cosa, subito lasciò l'assedio della città e sollecitò la battaglia con detti Arabi, e in capo di tre giorni tutti gli mise in rotta ed egli rimase signor della campagna. Poi che quelli della città viddero ch'essi non avevano piú speranza di fuora, subito mandarono ambasciadori per far la pace, obligandosi di pagar le spese che 'l re avea fatto e di piú diecimila ducati ogni anno, con patto che la parte de' fuorusciti potesse entrar nella città, ma non impacciarsi di reggimento o governo alcuno. Il capitano fece intender questo alla parte ch'era con esso di fuora, ed essi gli risposero: "Signore, noi conoscemo la nostra occasione; metteteci pur entro, che noi ci oblighiamo di darvi in mano centomila ducati, talora e di piú, senza usare ingiustizia alcuna e meno saccheggiar casa veruna, ma solamente faremo pagare alla parte contraria i frutti delle nostre possessioni, che s'hanno goduti per tre anni continui. Quelli noi te gli vogliamo dar di buona voglia, per tutte le spese fatte in nostro favore, i quali frutti saranno almeno trentamila ducati; dapoi ti faremo aver l'entrata della terra, ch'è circa ventimila ducati. Oltre di ciò trarremo da' giudei, per tributo d'un anno o due, fino alla somma di diecimila ducati".
Come il capitano intese questo, subito mandò a dire a quei della città "che 'l re avea promesso la sua fede a questi gentiluomini di fuora d'aiutargli in tutto quello ch'arebbe potuto, e per questo volle che 'l reggimento fusse piú tosto in mano loro che nelle vostre, per molti rispetti, e però io vi faccio intendere che, se volete rendere la città al re, non vi sarà fatto torto alcuno, ma se volete mantenere la vostra perfidia io sono sofficiente, con l'aiuto d'Iddio e la felicità del re, di farvi pagar il tutto". Il popolo, come intese questa nuova, subito venne in discordia, percioché alcuni volevano il re e alcuni volevano la guerra: in tanto la terra si levò all'arme fra loro medesimi. Le spie vennero di questo al capitano, il quale subito fece scavalcare la metà della sua gente e accostarsi alla terra con i suoi balestrieri e archibugieri, e in termine di tre ore entrò dentro, senza spandere una gocciola di sangue degli uomini suoi. Perché la parte che voleva il re, ragunatasi insieme, s'accostarono ad una porta della terra ch'era murata e incominciarono a dismurarla di dentro; il capitano ancora faceva il medesimo di fuori, perché non era alcuno sulle mura che gli desse impaccio, e quei di dentro mantennero la battaglia fin che la porta fu dismurata. Il capitano, entrato dentro, alzò le bandiere del re su le mura e in mezzo della piazza, e mandò i cavalli a scorrer intorno la città, per non lasciar scampar coloro che volevano fuggire; e subito mandò un bando da parte del re di Fez, sotto pena della vita, a ciascuna persona o soldato o terrazzano che non s'impacciasse di saccheggiare o di far omicidio, e incontinente la terra s'acquetò e tutti i capi della parte contraria furono menati prigioni. Il capitano fece intender loro ch'essi sariano prigioni infin che 'l re fusse pagato interamente d'ogni spesa ch'egli avea fatto per un mese ai detti cavalli, la quale ascendea alla somma di dodicimila ducati. Cosí le mogli e i parenti dei detti prigioni pagarono la detta somma e gli liberarono.
Allora venne la parte del re, e disse ch'essi volevano esser pagati dei frutti delle loro possessioni di tre anni. Il capitano rispose ch'egli non avea a far di questa cosa niente, dicendogli che dovessero metter le loro differenze in giudicio di dottori e che gli sarebbe fatta ragione, e che costoro potevano star prigioni per quella notte. I detti prigioni incominciarono a dir al capitano: "Signori, ne volete voi mancare della fede vostra? Voi ne prometteste che saressimo liberati dapoi che 'l re fosse sodisfatto. Rispose il capitano: "Io non vi manco della fede mia, perché ora io non vi tengo prigioni per conto del re, ma per conto di costoro che vi dimandano la robba loro: secondo che sentenzieranno i giudici e i dottori, cosí faremo; forse che sarà meglio per voi".
L'altra mattina, fatta congregazione dei dottori e dei giudici dinanzi al capitano, parlarono prima i procuratori dei prigioni in questo modo: "Signori, egli è vero che questi nostri hanno tenuto le possessioni dei loro avversari per conto dei loro antecessori, i quali tennero per piú di venti anni le possessioni degli antecessori dei presenti prigioni". Il procuratore degli avversari rispose: "Signori, questa cosa che costoro dicono è stata già centocinquant'anni passati, né si truova testimonio né instrumento per provarla". Disse il procuratore dei prigioni: "Ella si può ben provar, perché v'è la fama publica". Rispose l'altro: "Questo non si può provar per fama publica, perché chi sa quanto tempo le hanno tenuto i detti antecessori? Forse che le possederono per ragione, perché ancora si dice publicamente che gli antecessori dei prigioni anticamente furono ribelli contra la corona del re di Fez, e quelle possessioni furono della camera reale". Allora il capitano, per malizia mostrando compassione sopra i detti prigioni, disse al procuratore: "Non incolpate cosí tanto questi poveretti prigioni". Il procurator rispose: "Paionvi forse costoro poveretti? Signor capitano, non c'è fra questi poveretti persona a cui non bastasse l'animo di trovar cinquantamila ducati. Quando saranno usciti da queste catene, voi vedrete bene se vi scaccieranno. Ma voi veniste in tempo che loro non erano provisti, e cosí gli ritrovaste". Come il capitano intese il dire del procuratore subito si spaventò e, licenziata la congregazione, mostrò di voler andar a desinare, e fattosi venir innanzi a lui i detti prigioni, gli disse: "Io voglio che voi sodisfacciate i vostri avversari, overo ch'io vi menerò a Fez dove pagherete il doppio". Allora i prigioni mandarono per le loro mogli e madri e le dissero: "Cercate di rimediarvi, perché noi siamo stati infamati di aver molte ricchezze, e non avemo un'ottava parte di quello ch'è stato detto al signor capitano". Cosí in termine d'otto dí furono portati gli avversari, alla presenza del capitano, ventottomila ducati fra anella, armille e altri ornamenti di donne, perché le donne per malizia volevano mostrar di non aver altri danari che quelli. E come furono pagati i detti danari, allora il capitano disse ai prigioni: "Gentiluomini miei, io ho scritto al re di questa cosa, e mi rincresce d'avergli scritto, perché ora io non vi posso lasciar fin ch'io non abbia la risposta sua; ma voi per ogni modo sarete liberati, perché avete satisfatto ognuno: però siate di buona voglia".
Il capitano in quella notte, chiamato un suo consigliere, gli dimandò: "Come potremo noi cavar degli altri danari dalle mani di questi traditori, senza aver colpa né infamia di mancator di fede fra questo popolo?" Qual disse: "Fingete domane d'aver avuto lettere dal re, che vi comandi che dobbiate loro tagliar il capo, ma mostrate dipoi d'aver pietade dei fatti loro, e che voi non vi volete impacciar della lor morte, ma per meglior rispetto dimostrate di volergli mandar a Fez". Cosí finseno una lettera per parte del re. Come venne la mattina il capitano fece venir tutti i prigioni, che furono quarantadue, e gli disse, mostrando aver gran compassione: "Gentiluomini miei, io ho avuto lettere dal re con male nuove, nelle quali dice che sua altezza è molto male informata dei fatti vostri, e che voi sete ribelli contra la sua corona; per tal cagione m'ha comandato ch'io vi faccia tagliar il capo. Mi rincresce molto di questa cosa, perché parrà a ognuno ch'io v'abbia mancato della mia fede: ma io son servitore, e non posso far di meno ch'io non ubbidisca a quello che mi è comandato". I poveri uomini cominciarono a piangere e raccomandar le loro persone al capitano, ed egli ancora fingeva piangere e diceva verso loro: "Io non vi truovo altro miglior rimedio, per levar ancor me di colpa circa ai fatti vostri, se non mandarvi a Fez. Forse che 'l re vi perdonerà, e farà quello che gli parrà. Or ora io vi spedirò con cento cavalli". Allora essi piú piangevano e si raccomandavano a Dio e al capitano. In questo venne una terza persona e disse al capitano: "Signore, la maestà del re vi mandò qua in cambio della sua presenza, sí che voi potete far quello che vi pare il meglio: intendete un poco la possibilità di questi gentiluomini, se possono pagar alcuna cosa per rimediar alle loro persone, e fate intender al re ch'avevate a loro promesso la vostra fede di non far lor dispiacere, e che per l'amor vostro pregate la sua altezza che gli voglia perdonare. Fate ancora intender la quantità che essi vogliono pagare: forse che 'l s'inchinerà per danari". I poveri prigioni incominciarono a pregar il capitano che volesse farlo, e ch'essi erano contenti di pagar quello che piaceva al re, e a lui farebbono anco gran presenti. Costui fingeva di farlo malvolentieri, e subito dimandò loro: "Che cosa potete voi pagare al re?" Alcuno fu che offerse mille ducati, e chi cinquecento, e chi ottocento. Il capitano rispose per tal quantità non voler scriver al re: "Meglio sarà che voi andiate, e forse ch'egli farà come voi dite". Essi tanto pregarono e si raccomandarono, fin che 'l capitano gli disse: "Voi sete quarantadue gentiluomini che sete ricchissimi; se mi promettete duemila ducati per uno io scriverò al re e ho speranza di salvarvi: altrimenti io vi manderò a Fez". Essi furono contenti di trovar la quantità, ma ch'ognuno paghi secondo la sua possibilità, e il capitano a loro disse: "Fate come vi pare". Essi pigliarono termine quindici giorni, ed egli ancora finse di scriver al re.

Poi che furono passati dodici dí, il capitano finse che 'l re per amor suo era contento di perdonar loro: cosí dimostrò una falsa lettera, e fra tre dí i parenti di prigioni portarono tutta la quantità d'oro in oro, che fu ottantaquattromila ducati. Allora il capitano fece pesar il detto oro, e si maravigliò molto come in sí picciola terra si potesse truovar tanta quantità d'oro da quarantadue uomini, e subito gli liberò e scrisse allora al re da dovero tutto quello che gli era intravenuto, dimandandogli ciò che egli avea a fare. Il re subito mandò due suoi segretari con cento cavalli per ricever i detti danari, i quali, tosto che gli ebbero ricevuti, ritornarono a Fez. I detti gentiluomini fecero un presente poi al detto capitano, che valeva circa duemila ducati fra cavalli, schiavi e muschio, e si scusarono che non gli erano rimasti danari, e lo ringraziarono molto che gli avesse scampata loro la vita. Cosí rimase la detta regione al re di Fez, nel governo di Ezzeranghi capitano, fin ch'egli fu ammazzato per mano degli Arabi a tradimento. Cava il re di Fez d'entrata di detta regione ducati ventimila l'anno.
Io mi sono molto allungato in questa istoria perché la cosa fu in mia presenza, e cognobbi come questa trama fu maliziosamente condotta e me n'affaticai in parte per iscampo dei detti poveri prigioni, e fu la prima volta ch'io vedessi tant'oro a un tratto. Sappiate ancora che 'l re di Fez non ne vidde mai tanto insieme, perch'egli è povero re e ha circa trecentomila ducati che gli riscuote ogn'anno, ma non ebbe mai in mano centomila ducati insieme, né anco suo padre. Ora voi vedete che tradimenti e che disegni usa l'uomo per cavar danari. E questo fu nell'anno novecento e quindici.
Ma egli è piú da maravigliarsi d'un altro giudeo, il quale solo pagò piú che tutti i detti gentiluomini insieme, perché s'ebbe spia della sua ricchezza. Sí che il re ebbe il giudeo e i suoi danari in mano, qual fu cagione ch'i giudei ebbero una taglia di cinquantamila ducati, per via di ragione, avendo favoreggiato la parte contraria del re. E allora io mi ritrovai in compagnia del commissario, quando riscoteva la detta taglia.


Efza, città in Tedle.

Efza è una picciola città vicina a Tefza circa due miglia, la qual fa presso a seicento fuochi, e fu edificata sopra un colle nel piè di Atlante. È molto abitata da Mori e Giudei, e quivi si fa gran quantità di bernussi. Gli abitatori sono tutti artigiani e lavoratori di terra; il loro governo è sotto i cittadini di Tefza. Le donne di questa città sono eccellenti ne' lavori di lana: fanno bellissimi bernussi e dielchese e quasi le donne guadagnano piú degli uomini. Fra Tefza ed Efza passa un fiume ch'è detto Derne, il quale nasce di Atlante, e passa fra certi colli e corre per lo piano fin che entra in Ommirabih; e fra li detti colli, cioè su le rive del fiume, sono bellissimi giardini di tutte le sorti d'alberi e di frutti che sapresti desiderare. Gli uomini di questa città sono liberalissimi e piacevoli sopra modo, e ogni mercatante forestiere può entrar ne' lor giardini e coglier quanti frutti a lor bastano. Sono genti molto lunghe a pagar lor debiti, percioché i mercatanti soglion dar danari avanti tratto per bernussi, con termine d'avergli in tre mesi, ma sono astretti aspettar un anno.
Fui nella detta città nel tempo che 'l campo del nostro re fu in Tedle, e la città subito gli diè obbedienza, e furono appresentati al capitano, la seconda volta che vi giunse, quindici cavalli e altretanti schiavi, ciascun de' quali menava un cavallo per lo capestro; eziandio gli fur dati dugento castroni e quindici vacche. Per il che sempre il capitano gli tenne per fedeli e amatori del re.


Eithiteb, città in Tedle.

Eithiteb è certa città edificata dagli Africani sopra un altissimo monte, lontano alla sopradetta circa a dieci miglia verso ponente. È molto abitata e piena d'uomini nobili e cavalieri, e perché ivi si fa gran quantità di bernussi, vi si truova sempre gran numero di mercatanti forestieri. Sopra il monte della detta città sempre si vede la neve, e tutte le valli che sono nel circuito della città sono piene di vigne e di vaghi giardini, ma non vi si vede di dentro frutto di niuna sorte, per la grandissima quantità. Le donne sono bianchissime, grasse e piacevoli, e vanno ornate di molto argento; hanno gli occhi negri e cosí e' capegli. Il popolo è molto sdegnoso, e dapoi che 'l re di Fez fece acquisto di Tedle, eglino mai non si volsero rendere né dargli obbedienza; ma elesson per capitano un gentiluomo, e fatto mille cavalli leggieri ebbe ardire di opporsi al capitano del re, e fecegli tal guerra che piú volte fu a pericolo di perder quello che acquistato aveva. Il re mandò un suo fratello con buon esercito in soccorso del detto, ma poco gli giovò, e durò la guerra tre anni, insino a tanto che a richiesta del re fu colui avvelenato da un giudeo. E allora la città si rese a patti, l'anno novecentoventuno.


Eithiad, città nella medesima.

Eithiad è una certa terricciuola posta su una picciola montagnetta di quelle di Atlante, edificata dagli antichi Africani, la qual fa circa a trecento fuochi. È murata da un lato, cioè dalla parte del monte, e dalla parte che risguarda verso il piano non ha mura di sorte niuna, percioché le rupi gli bastano in luogo di mura. È lontana dalla detta città circa a dodici miglia. Dentro di questa città è un tempio picciolo ma bellissimo, intorno il quale è un canaletto d'acqua a guisa di fiume. È abitata da nobili uomini e cavalieri; sonvi ancora molti mercatanti forestieri e del paese, e molti giudei vi sono, quale artigiano e quale mercatante. Dentro nascono molti fonti, i quali discendendo all'ingiú entrano in un fiumicello che passa di sotto alla città. E d'intorno le due sponde del fiumicello sono molti orti e giardini, dove si truova uva perfettissima, truovansi fichi e grossissimi e grandissimi alberi di noci. Per tutte le coste della montagnetta sono bellissimi terreni d'olive. Le donne della città sono in vero non men belle che piacevoli, vanno bene e leggiadramente addorne d'argento, d'annella, di cerchietti che portano al braccio e d'altri loro ornamenti. Il terreno del piano è ancora esso fertile d'ogni sorte di grano, e quel del monte è buonissimo per orzo e per li pascoli delle lor capre. A' tempi nostri la detta città fu ricetto di Raoman Benguihazzan rubello, per insino a tanto ch'egli fu morto. Io vi fui l'anno novecentoventuno, alloggiato in casa del sacerdote della terra.


Seggheme, monte nella medesima.

Il monte di Seggheme, come che riguardi verso mezzogiorno, nondimeno è tenuto per monte di Tedle. Questo incomincia dalla parte di ponente dal confino del monte di Tesauon, e si stende verso levante insino al monte di Magran, donde nasce il fiume di Ommirabih, e verso mezzogiorno confina col monte di Dedes. Gli abitatori di questi monti sono della stirpe del popolo di Zanaga, uomini disposti, gagliardi e valenti nella guerra. Le loro armi sono partigianelle e alcune spade torte e pugnali; usano ancora sassi, i quali traggono con gran destrezza e forza; guerreggiano di continovo col popolo di Tedle, di maniera che i mercatanti di là non possono passar per lo detto monte senza salvocondotto e gravissimo pagamento. Abitano nel detto monte molto laidamente, discosti molto l'un dall'altro, di modo che rade volte si truovano tre o quattro case insieme. Hanno molte capre e molti muli piccioli come asini, i quali vanno pascolando per li boschi del detto monte: ma i leoni ne guastano e mangiano una gran parte. Questa gente non obbedisce a signore alcuno, perché il monte loro è tanto scabroso e malagevole che li rende inespugnabili.
A' miei dí volle il capitano che acquistò Tedle fare una correria nel paese di costoro. Essi, avendo avuto notizia di ciò, fatta una bella compagnia di valenti uomini, chetamente s'imboscarono dove era una picciola vietta sopra una ripa, per la quale doveano passar i nimici. Come adunque viddero i cavalli ben ascesi la costa del monte, uscirono fuori dell'agguato da ogni parte, tirandogli le partigianelle e sassi grossi. La battaglia fu breve, percioché esso capitano non potendo sostener l'impeto, né andar avanti o tornarsene adietro, era necessitato in quella strettezza di urtarsi l'un con l'altro, di modo che molti traboccavano co' cavalli giú nella rupe e si fiaccavano il collo, altri erano ammazzati, in tanto che non vi scampò un solo che non fusse o preso o morto. E quelli che furon presi vivi ebbero peggior condizione, percioché i vincitori gli menarono legati alle lor case e le femine gli tagliarono in molte parti per piú disprezzo, imperoché gli uomini si sdegnano di ammazzar i prigioni e gli danno in mano alle femine. Vero è che doppo il fatto essi non osarono praticar in Tedle, ma ne hanno poco di bisogno, percioché nel loro monte nasce abbondevole copia d'orzo ed evvi gran numero di bestiami, e i fonti sono assai piú che le case. Solo hanno disconcio delle cose della mercanzia.


Magran monte.

Magran è un monte alquanto piú oltra del sopradetto: guarda verso mezzogiorno al paese di Farcla nel confin del diserto, e da ponente incomincia quasi pure dal detto. Verso levante finisce ne' piedi del monte di Dedes, e sempre si truova la neve su la cima di questo monte. Gli abitatori hanno moltissimi bestiami, in tanto che non si possono fermare in luogo alcuno: perciò fanno le loro case di scorza d'alberi, e le fermano sopra certe pertiche non molto grosse. I travi hanno forma di que' cerchi che si pongono nel coperchio delle ceste, le quali usano di portar le femine sopra li muli per viaggio in Italia. Cosí pongono costoro queste lor case su la schiena de' muli, e ne vanno con le bestie e con la famiglia ora a questo luogo ora a quell'altro, e dove truovano erba ivi piantano le case, e vi dimorano insino che le bestie la consumano. Egli è vero che il verno fanno ferma abitazione in un luogo, e fanno certe basse stalle coperte di frasche, e quivi tengono le dette bestie la notte. E usano di far grandissimi fuochi, massimamente appresso le stalle, per iscaldar gli animali; e alle volte avviene che si leva il vento e vi fa attaccar il fuoco, di maniera che se n'abbrucciano le stalle; ma le bestie sono preste a fuggire. Per tal cagione essi non fanno a dette stalle muri d'alcuna sorte, percioché non danno lor maggior privilegio di quello che diano alle case, che detto abbiamo. I leoni e i lupi ne fanno grandissimo guasto. I costumi e l'abito di costoro sono come quelli dei sopradetti, fuor che questi abitano in dette capanne e quei in case murate. Quivi fui l'anno novecentodiciasette, tornando di Dara a Fez.


Dedes monte.

Dedes è ancora egli un monte alto e freddo, dove sono molte fontane e boschi; e incomincia dal monte di Magran dal lato di ponente, e finisce ne' confini del monte di Adesan, e confina dalla parte di mezzogiorno col piano di Todga. È lungo circa ottanta miglia. Su la cima del detto monte è una città antica e rovinata, e veggonsi ancora le sue vestigia, che sono certi muri grossi fatti di pietra, e truovasi alcuna di queste pietre scritta con lettere che non vengono intese da alcuno. Tiene il popolo che quella città fusse fabricata da' Romani, ma io nelle croniche africane non truovo autore che 'l dica né che faccia menzione di questa città, eccetto serif Essacalli, che scrive nella sua opera di certa città detta Tedsi, ne' confini di Segelmese con Dara: ma egli non dice che sia edificata nel monte Dedes. Noi tuttavia giudichiamo esser quella, percioché non si vede in quella regione altra città.
Gli abitatori di questo monte sono, a dir con verità, gente di niun valore, e la maggior parte abita in certe grotte umide, e mangiano tutti pane d'orzo ed elhasid, cioè farina pur d'orzo bollita in acqua e sale, come abbiam detto nel libro di Hea, perché nel detto monte altro non nasce che orzo. Hanno ben molta copia di capre e d'asini, e nelle grotte dove stanno i detti animali è grandissima quantità di salnitro. Io penso che, se questo monte fusse vicino all'Italia, renderebbe di frutto all'anno venticinquemila e piú ducati: ma quella canaglia non sa quello che sia salnitro. Vanno malissimo vestiti, in tanto che mostrano scoperte la piú parte delle carni. Le loro abitazioni sono brutte, e puzzano del mal odore delle capre che si tengono in quelle. Per tutto il detto monte non si truova né castello né città che sia murata, ma sono divisi i loro alberghi in certi casali fatti di pietra, l'una posta sopra l'altra senza calcina, e coperte di certe piastre sottili e negre, come si usa in alcuni luoghi nel contado di Sisa e di Fabbriano; il rimanente (come s'è detto) abita nelle grotte, né mai viddi altrove tanti pulici quanti erano in questo monte.

Sono ancora i detti uomini traditori, ladri e assassini, e ammazzarebbeno un uomo per una cipolla: onde per menomissima cagione fan gran quistione tra loro. Non hanno né giudice né sacerdote, né persona ch'abbia virtú alcuna; né quivi sogliono praticar mercatanti, perché questi se ne stanno in ozio, né si danno ad alcuna industria. E quelli che vi passano o gli rubbano o, avendo qualche salvocondotto d'alcuni di lor capi, e portando robba che non faccia per loro, gli fanno pagar di gabella il quarto della robba. Le lor donne sono brutte come il diavolo e vestono peggio degli uomini, e sono eziandio quasi a peggior condizion degli asini, percioché portano l'acque dai fonti e le legna dai boschi sopra la schiena, né hanno mai un'ora di riposo. E per conchiudere, in niun altro luoco d'Africa mi pento d'esser stato fuor che in questo. Ma mi vi convenne passar mentre andai da Marocco a Segelmesse, per obbedir a cui era tenuto, nell'anno 918.


TERZA PARTE

Regno di Fessa.

Il regno di Fessa incomincia dal fiume di Ommirabih dalla parte di ponente, e finisce verso levante nel fiume di Muluia; verso tramontana è una parte che termina al mare Oceano; ci sono altre parti che compiono al Mediterraneo. Questo regno si divide in sette provincie, le quali sono Temesne, il territorio di Fez, Azghar, Elhabet, Errif, Garet, Elchauz. Anticamente ciascuna di queste provincie aveva particolar signoria; eziandio Fessa di prima non fu sedia reale: è vero che fu edificata da certo rubello e scismatico, e durò il dominio nella sua famiglia circa a centocinquanta anni. Ma doppo che vi regnò la famiglia di Marin, questa fu quella che le diede titolo di regno, e fece in lei la sua residenza e fortezza, per le cagioni narrate nelle croniche de' maumettani. Ora io ve ne farò particolar narrazione di provincia in provincia e di città in città, sí come assai pienamente mi par aver di sopra fatto.


Temesna, provincia nel regno di Fessa.

Temesna è una provincia compresa nella regione di Fez, la qual incomincia da Ommirabih dalla parte di ponente e finisce nel fiume di Buragrag verso levante; nel mezzogiorno ha fine nel monte Atlante, e verso tramontana termina nel mare Oceano. È tutta piana e si stende da ponente a levante ottanta miglia, e da Atlante all'Oceano circa sessanta; questa provincia fu veramente il fiore di tutte quelle regioni, percioché in lei si contenevano circa quaranta città e trecento castella, abitate da molti popoli del lignaggio degli Africani barbari.
Nell'anno trecentoventitre di legira fu la detta provincia sollevata da un certo predicator eretico, che fu detto Chemim figliuol di Mennal. Costui persuase al popolo che non dovesse dar tributo né obbedienza ai signori di Fessa, per esser uomini ingiusti, ed eziandio perché esso era profeta: di maniera che in poco tempo egli ebbe in mano il temporale e spirituale della provincia. E incominciò a far guerra a' detti signori, li quali, avendo guerra allora con il popolo di Zeneta, furono astretti a patteggiar con costui in questo modo, che esso si godesse Temesna e questi Fessa, senza che alcuno turbasse l'altro. Regnò egli trentacinque anni, e durarono i suoi seguaci nella provincia circa anni cento.
Ma poi che il re Giuseppe col popolo di Luntuna ebbe edificato Marocco, subito incominciò ancora egli a tentar d'insignorirsi di questa provincia, e mandò molti catolici e dotti uomini a ricercar di rimovergli da quella eresia e darsi a lui senza guerra. Ma questi col principe loro, che fu nipote del detto predicatore, si ragunarono in la città di Anfa e si risolsero d'ammazzar quegli ambasciatori, il che fecero. Dipoi congregorno uno esercito di cinquantamila combattenti, deliberati in tutto di scacciar di Marocco e di tutta quella regione il popolo di Luntuna. Il che inteso da Giuseppe col maggior isdegno che avesse a' suoi giorni, fatto un grossissimo esercito, non aspettò che i nimici venissero a Marocco, ma in capo di tre giorni fu egli nella lor provincia e passò il fiume di Ommirabih. Come viddero l'esercito del re che cosí impetuosamente veniva loro incontra, si spaventarono quei di Temesna e, schifando la battaglia, passarono il fiume di Buragrag verso Fez, e abbandonarono la provincia di Temesna. Allora il re mise il popolo e il terreno a ferro, a fuoco e a sacco con tanta crudeltà, che fece uccider per insino a' fanciulli che poppavano, e per otto mesi ch'egli vi stette con l'esercito rovinò tutta la provincia, in tanto che ora non vi rimane se non certe picciole vestigia della città che vi erano.
A questo s'aggiunse che il re di Fez, inteso che 'l popolo di Temesna era per passar Buragrag e camminava verso Fez, fatta certa triegua col popolo di Zeneta, con grandissimo numero di soldati s'indrizzò al detto fiume, sopra il quale trovò il misero principe con la sua gente, molto debole e stanco per la fame e necessità che sofferiva. Esso volle passar il fiume, ma il passo gli fu impedito dal re, onde i poveri perseguitati furono per disperazione sforzati a romper per certi boschi e rupi malagevoli a passare. E furono circondati e chiusi dall'esercito del re, di maniera che in un medesimo tempo perirono da tre diverse morti, percioché alcuni s'affogaron nel fiume, alcuni si fiaccarono il collo essendo spinti e gittandosi da quelle rupi, e quelli ch'erano usciti del fiume, cadendo nelle mani del re, furono menati a fil di spada. Cosí gli abitatori di Temesna venner meno, e furon spenti nello spazio di dieci mesi. Istimasi che 'l popol che fu distrutto pervenisse al numero d'un millione, fra gli uomini, fra le femine e i fanciulli.
Il re Giuseppe di Luntuna si tornò a Marocco, per rinovar l'esercito contro il signor di Fez, e lasciò Temesna per abitazion di leoni, di lupi e di civette. Rimase adunque la provincia disabitata centoottanta anni, che fu per insino al tempo che, tornando Mansor dal regno di Tunis, menò con esso lui certe generazioni de popoli arabi con li capi loro, e diè a questi ad abitar Temesna; i quali vi durarono cinquanta anni, insino a tanto che la famiglia di Mansor perdé il regno, per la qual perdita vennero gli Arabi in estrema calamità e miseria, in tanto che furon scacciati di là dai re della famiglia di Marin. E questi re diedero la provincia al popolo di Zeneta e Haoara in premio de' benefici che riceverono da questi due popoli, percioché l'uno e l'altro sempre diè favore alla famiglia di Marin contra i re e pontefici di Marocco. Cosí i due popoli si godono la provincia in libertà, e sono accresciuti a tanto che oggidí (e può esser da cento anni a questo) fanno tremare i re di Fez, percioché si crede ch'arrivino a sessantamila cavalli, e fanno dugentomila pedoni.
Io ho praticato molto in questa provincia, e ve ne darò particolar informazione.


Anfa, città in Temesna.

Anfa è una gran città edificata dai Romani sopra il lito del mar Oceano, discosta da Atlante circa a sessanta miglia verso tramontana, e da Azemur circa a sessanta verso levante, e da Rebat circa a quaranta miglia verso ponente. Questa città fu molto civile e abbondante, percioché tutti i suoi terreni sono bonissimi per ogni sorte di grano, e ha invero il piú bel sito di città che sia nell'Africa. Ha d'intorno di pianura circa a ottanta miglia, eccetto dalla parte di tramontana, che c'è il mare. Dentro di lei vi furono molti tempii, botteghe bellissime e alti palazzi, come ora si può veder e giudicar per le reliquie che vi si truovano. Vi furono eziandio molti giardini e vigne, e oggidí vi si coglie gran quantità di frutti, massimamente melloni e citrioli, i quai frutti incominciano a divenir maturi al mezzo d'aprile, e gli abitatori gli sogliono portar a Fez, percioché quei di Fez tardano piú. Vanno le genti molto ben in ordine del vestire, percioché hanno sempre avuto lunga pratica con mercatanti di Portogallo e inglesi, e vi sono tra loro degli uomini assai dotti.
Ma per due cagioni avvenne il danno e la rovina loro: l'una fu perché volevano viver in libertà senza aver modo; l'altra perché solevano tener dentro il lor picciol porto certe fuste, con le quali facevano grandissimi danni all'isola di Calix e a tutta la rivera di Portogallo, in tanto che 'l re di Portogallo deliberò di distrugger la detta città. Per il che egli vi mandò un'armata di circa cinquanta navili, con uomini da combatter e molta artiglieria; ma quei della città, come viddero avicinar l'armata, cosí tolte le lor piú care robbe e ragunati tutti insieme fuggirono alla città di Rabat e di Sela, e abbandonarono la lor terra. Il capitano dell'armata, che di ciò niuna cosa sapea, si mise in ordine per dar la battaglia; ma vedendo che non vi erano difensori, avedutosi del fatto, fece smontar le genti, le quali con tanto empito entrarono nella città che nel termine d'un dí la scorsero e saccheggiarono tutta, abbrucciarono le case e da molte parti disfecero le mura della città, la qual è rimasa ora disabitata. E io quando vi fui non potei tener le lagrime, percioché la piú parte delle case, delle botteghe e dei tempii sono ancora in piè, i quali con le lor rovine danno all'occhio un spettacol in vero compassionevole a riguardare. Vi si veggono i giardini diserti e divenuti selve: pur producono ancora qualche frutto. Cosí la impotenza e i vizii dei re di Fez l'hanno condotto a tale, che non è speranza ch'ella sia piú riabitata.


Mansora città.

Mansora è una terricciuola edificata da Mansore, re e pontefice di Marocco, in una bellissima pianura discosta dal mar Oceano due miglia, e dalla città di Rabat circa a venticinque, e da Anfa circa altretanti. Soleva far presso a quattrocento fuochi. Appresso la detta città passa un fiumicello, il qual si chiama Guir. Sopra il fiume sono molti giardini e molte viti, ma or diserti e abbandonati, percioché, quando fu distrutta Anfa, gli abitatori di questa subito ancora essi sgombrarono la città e fuggirono a Rabat, temendo non i Portogallesi venissero alla lor città: cosí la lasciarono vota. Ma le sue mura sono ancora intere, fuori che in certi luoghi che ruppero e disfecero gli Arabi di Temesna. Io passai per questa città e ne presi similmente compassione, percioché facilmente si potrebbe riabitare, non vi mancando altro ch'edificar le case: ma gli Arabi di Temesna, per lor malvagità, non vogliono che nissun vi abiti.


Nuchaila.

Nuchaila è una certa picciola città, edificata nel mezzo di Temesna, la qual anticamente fu molto popolosa e abitata, e nel tempo degli eretici vi si faceva una fiera una volta l'anno, alla quale concorreva tutto 'l popol di Temesna. Gli abitatori furono molto ricchi, percioché il lor terreno è grande e cinge da ogni lato quaranta miglia di pianura. Truovo nelle istorie che, nel tempo degli eretici, costoro avevano tanta abbondanza di grano che alle volte ve ne davano una gran soma d'un camello per un paio di scarpe. Nella venuta di Giuseppe a Temesna fu questa città distrutta come l'altre; nondimeno ora si veggono molti vestigi di lei, cioè alcune parti di mura e una certa torre, la qual era nel mezzo d'un tempio; vi si veggono ancora i giardini e i luoghi dove erano le viti, e cotai alberi vecchissimi che non fanno piú frutto. Gli Arabi di Temesna, quando essi hanno fornito d'arar i campi, pongono i lor strumenti appresso la detta torre, perché dicono ch'ivi fu sepellito un sant'uomo, e per tal cagione niun piglia lo strumento dell'altro, avendo timor dello sdegno di quel santo. Io passai per questa città infinite volte, per esser su la strada di Rabat e di Marocco.


Adendum.

Adendum è una picciola città edificata fra certi colli, vicina ad Atlante circa a quindici miglia e venticinque alla sopradetta. Quei colli sono tutti buoni per seminarvi grano. Accanto le mura di questa città ne nasce un gran capo d'acqua perfettissima; d'intorno sono molte palme, ma picciole, che non fanno frutto. E la detta acqua passa fra certi rupi e valli, le quali si dicono esser state minere di donde si cavava molto ferro; il che assai ben si conosce, percioché quei luoghi hanno color di ferro, e comprendesi ancora in parte nel sapor dell'acqua. Della detta città non ci rimase se non alcune picciole vestigia, cioè certe fondamenta di muri e certe colonne abbattute, percioché ella fu distrutta nella guerra degli eretici, sí come l'altre.


Tegeget.

Tegeget è una picciola città, edificata dagli Africani sul lito del fiume di Ommirabih, nel passo di Tedle a Fez. La detta città fu popolosa, civile e molto ricca, percioché vicina a lei è una strada in Atlante per cui si va al diserto, e tutti gli abitatori dei confini di quella parte del diserto vengono a questa città per comperar grano. Ma ancor la detta città fu distrutta nella guerra degli eretici, e dipoi gran tempo fu riabitata a guisa d'una villa, percioché una parte degli Arabi di Temesna tengono lor grani in detta città, e gli abitatori sono guardiani d'essi grani. Ma non vi si truova né bottega né artigiano, eccetto alcuni fabbri per conciar gli strumenti d'arare e per ferrar i cavalli. I medesimi abitatori hanno dai lor padroni arabi espresso comandamento di onorar tutti i forestieri che passano per la città, e i mercatanti pagano di passaggio quanto è il valor d'un giulio per soma delle tele o de' panni che essi conducono, ma li bestiami e cavalli non pagano cosa alcuna. Passai molte volte per questa città, la qual mi dispiacque; ma il terreno è nel vero perfettissimo e abbondevole di grani e di bestiami.


Hain Elchallu.

Questa è una piccioletta città non molto discosta da Mansora, la qual è edificata in un piano dove sono molti boschi di arbori cornili e alcuni altri arbori spinosi, i quali fanno certi frutti tondi simili alle giuggiole, ma di color giallo, e hanno l'osso grande e piú grosso di quello dell'olive, e poco buono di fuori. Per tutto dove circondano le vestigia della città sono certe paludi, nelle quai si truova gran quantità di testuggini over tartaruche, e di rospi molto grossi, ma per quel ch'io udi' dire non son velenose. Nessun degli istorici africani fanno memoria di questa città, forse per la sua troppa picciolezza, o forse perché anticamente fusse destrutta. A me ancor ella non par degli edificii degli Africani; dimostra esser stata fabricata da' Romani o da qualche generazione straniera d'Africa.


Rabato.

Rabato è una grandissima città, la qual fu edificata ne' tempi moderni da Mansor, re e pontefice di Marocco, sopra il lito del mar Oceano. E da canto, cioè dalla parte di levante, passa il fiume di Buragrag e ivi entra nel detto mare: la rocca della città è edificata su la gola del fiume, e ha da un lato il fiume e dall'altro il mare. La città nelle muraglie e ne' casamenti somiglia a Marocco, percioché da Mansor fu con tal studio edificata, ma è molto picciola a comparazione di Marocco. Fu la cagion di questa fabrica che Mansor signoreggiava tutta la Granata e parte d'Ispagna, la qual per esser molto lontana da Marocco, pensò il re che, quando ella fosse assediata da cristiani, malagevolmente l'avrebbe potuto dar soccorso. Perciò il detto fe' pensier di fabricar una città appresso la marina, dove potesse star tutta la state con i suoi eserciti, come che alcuni lo consigliassero che si dimorasse in Setta, ch'è una città su lo stretto di Zibilterra. Ma considerò il re che quella non era città che potesse sostener un campo tre o quattro mesi, per la magrezza del terreno del contado; s'avidde ancora che sarebbe stato necessario di dar non poco disagio a quei della città, circa agli alloggiamenti dei soldati e altri suoi cortigiani. Cosí fra pochi mesi fece edificar questa città, e fornilla de tempii e de collegii di studenti e di palazzi d'ogni sorte, di case, di botteghe, di stuffe e di speziarie. Ancora, fuor della porta che guarda verso mezzogiorno, fece far una torre simile a quella di Marocco, ma questa ha le scale molto piú larghe, percioché vi vanno tre cavalli l'uno appresso l'altro sopra. E chi è su la cima della torre, dicesi che può veder un navilio in mare da grandissimo spazio; io al mio giudicio la tengo, circa all'altezza, dei mirabili edificii che si veggano. Volle ancora il re che vi si conducessero molti artigiani e dotti uomini e mercatanti, e ordinò ch'a tutti gli abitatori, oltre al loro guadagno, secondo l'arti fusse data certa provisione. Onde, tratti dalla fama di questo partito, vi corsero ad abitar uomini d'ogni condizione e mestiero, in tanto ch'in poco tempo questa città divenne la piú nobile e ricca che sia nell'Africa, perché il popol guadagnava da due bande, e le provisioni, e li traffichi con li soldati e cortigiani, perché Mansor vi abitava dal principio d'aprile fino al settembre. E perché fu edificata in luogo dove non era molto buona acqua (percioché il mare entra nel fiume e va in su circa a dieci miglia, e li pozzi della terra hanno acqua salata), Mansor fece condur l'acqua da un fonte discosto dalla detta presso a dodici miglia, per certo acquedutto fatto con belle mura fabricate su archi, non altrimenti che si veggano in alcuni luoghi d'Italia, e massimamente in quei di Roma. Questo acquedutto si divide in molte parti, delle quali alcuna conduce l'acqua ai tempii, quale ai collegi, quale ai palazzi del signore e quale ai fonti communi che furon fatti per tutte le contrade della città.
Ma doppo la morte di Mansor la città incominciò a mancar, per sí fatto modo che di dieci parti una non v'è rimasa, e 'l bello acquedutto fu rotto e disfatto nelle guerre dei re della casa di Marin contra la casa di Mansor. E oggi la detta città ha peggiorato piú che prima, e mi cred'io che con fatica si truovano quattrocento case abitate; del resto ne son state fatte vigne e possessioni. Ma quanto è d'abitato sono due o tre contrade appresso la rocca con qualche picciola bottega. E ancor sta in molto pericolo d'esser presa da' Portogallesi, percioché tutti i passati re di Portogallo han fatto disegno di prenderla, considerando che, avuta questa città, agevolmente potranno prender tutto il regno di Fez. Ma fin a questo dí il re di Fez v'ha fatto un gran provedimento; e la sostiene il meglio che può. Io fui in questa città e n'ebbi pietà, rivolgendo nel mio animo il viver ch'era ne' tempi passati a quello che si truova oggidí.


Sella città.

Sella è una città picciola edificata da' Romani appresso il fiume di Buregrag, discosta dal mare Oceano circa a due miglia e da Rabato un miglio, di modo che, se alcun vuol andar alla marina, gli convien passar per Rabato. Ma la detta fu rovinata nella guerra degli eretici. Dipoi Mansor rinovò le mura, e fece in lei uno spedale bellissimo e un palazzo per alloggiamento dei suoi soldati. Similmente vi fece un bellissimo tempio, e una sala molto superba di marmi intagliati, di mosaichi, e con finestre di vetro di diversi colori: e quando fu vicino alla morte lasciò in testamento d'esser sepolto nella detta sala. Morto adunque Mansor, fu portato il corpo suo da Marocco e quivi ebbe sepoltura, e furongli messe due tavole di marmo, l'una da capo e l'altra da piè, nelle quali furono intagliati molti versi elegantissimi, i quali contenevano i lamenti e i pianti del detto Mansor, composti da diversi uomini. Tutti i signori della sua famiglia tennero un tal costume, di far sepellir i lor corpi in quella sala; il somigliante fecero i re di quella di Marin, allora che 'l lor regno fioriva. Io fui in questa sala e viddivi trenta sepolture di quei signori, e scrissi tutti gli epitaffii che v'erano. Fu l'anno novecentoquindici di legira.


Maden Auuam.

Questa è una città edificata a' nostri giorni da un tesoriere del pontefice Habdulmumen su la riva del fiume di Buragrag, non per altra cagione che per veder quei luoghi, per certe minere di ferro, esser molto frequentati. È lontana da Atlante circa dieci miglia, e fra la città e Atlante sono molti oscuri boschi, nei quali si truovano grandissimi e terribilissimi leoni e leopardi. Questa, per insino che durò il dominio nella famiglia dell'edificatore, fu assai civile e abitata, e addorna di belle case, di tempii e d'osterie. Ma ciò fu poco tempo, percioché le guerre dei re di Marin la posero a rovina, e gli abitatori parte furono uccisi, e parte fatti prigioni, e parte fuggirono alla città di Sella. E ciò avenne perché, non aspettando il popolo soccorso dal re di Marocco, diedero la città a uno dei re di Marin, ma in quel medesimo tempo essendo sopravenuto un capitano del re di Marocco in loro difesa, esso si ribellò contra il signor ch'era dentro, di maniera che gli convenne fuggirsi. D'indi a molti mesi venne il re della casa di Marin in persona con grande esercito, il quale, andandosene verso Marocco, tenne il cammino a quella città. Onde il capitano subito si fuggí, e la città fu costretta di rendersi a discrezion del re, che poscia sacheggiò e ammazzò tutto quel popolo. E da quel tempo fino a questo non fu mai piú riabitata, ma ancora ci sono le mura della città e le torri dei tempii. Io la viddi nel tempo che 'l re di Fez si pacificò col suo cugino, e vennero a Thagia per giurar sopra il sepolcro d'un lor santo, il cui nome è Seudi Buhaza. Fu l'anno novecentoventi.


Thagia, città di Temesna.

Thagia è una certa picciola città, edificata anticamente dagli Africani fra certi monti di quelli di Atlante. È molto fredda e i suoi terreni sono magri e aspri; d'intorno alla città sono mirabilissimi boschi, luoghi de rabbiosi leoni. Nasce in questo paese poca quantità di grano, ma è copiosissimo di mele e di capre. La città è priva d'ogni civiltà, e le case sono mal fatte e senza calcina. È in lei un sepolcro di certo santo, il qual fu al tempo di Habdul Mumen pontefice, e dicesi quel santo aver fatto molti miracoli contra ai leoni, e che egli fu mirabile indovino, in tanto che si trovò chi scrisse la sua vita molto diligentemente, e questo fu un dottore detto Ettedle, qual narra tutti i miracoli uno per uno. Io per me credo, avendo letto i miracoli che costui faceva, ch'erano o per arte magica o per qualche natural secreto contra i leoni. La fama di ciò, e la riverenza che si porta a quel corpo, è cagione che questa città è molto frequentata. E il popol di Fez ogni anno, doppo la pasqua loro, va a visitar detto sepolcro, dove andando uomini, donne e fanciulli, par che si muova un campo d'arme, percioché ciascuno porta il suo padiglione over tenda, di modo che tutte le bestie sono cariche e di tende e d'altre cose opportune per il vivere, e ogni compagnia ha da centocinquanta padiglioni insieme. E fra l'andata e il ritorno v'ha d'intervallo di tempo quindici giorni, perché la città è lontana da Fez circa centoventi miglia. E mio padre mi menava ogni anno seco a visitar detto sepolcro, e quando son stato uomo fatto vi son stato parecchie volte, per molti voti fatti ne' pericoli dei leoni.


Zarfa.

Zarfa fu città in Temesna, edificata dagli Africani in una larghissima e bella pianura, dove sono molti fiumicelli e fonti. E intorno alle vestigia della città sono molti piedi di ficaie, di cornili e di quelle ciriegie che in Roma son dette marene. Sonvi eziandio molti alberi spinosi, i quali producono certi frutti che in lingua araba si dicono nabich: sono piú piccioli delle ciriegie e hanno quasi sapore di giuggiole. Sono ancora per tutte quelle pianure certi piedi di palme salvatiche, e molto picciole, le quai fanno un certo frutto grosso come l'oliva di Spagna, ma ha l'osso grande e poco buono: hanno quasi sapor di sorbe, innanzi che si maturano. La città fu rovinata nelle guerre degli eretici. Ora i suoi termini vengono seminati dagli Arabi di Temesna, ed essi v'hanno sí buona raccolta ch'alle volte risponde di ciò che vi si semina cinquanta per uno.


Territorio di Fez.

Il territorio di Fez dalla parte di ponente incomincia dal fiume di Buragrag, e si stende verso levante insino al fiume d'Inauen: fra l'uno e l'altro fiume è di tratto circa a cento miglia; di verso tramontana termina nel fiume di Suba, e dal lato di mezzogiorno finisce ne' piedi di Atlante. Il detto territorio è mirabil veramente dell'abbondanza del grano, dei frutti e degli animali che vi sono. In tutti i colli di questo paese ha molti e grandissimi villaggi. È vero che le pianure per le passate guerre son poco abitate, nondimeno vi si abitano alcuni casali da certi poveri Arabi e di niun potere, i quali tengono i terreni a parte o co' cittadini di Fez o col re e suoi cortigiani. Ma la campagna di Sala e Mecnase sementano alcuni Arabi nobili e cavalieri: pur questi sono soggetti al re.
Ora vi si dirà particolarmente ciò che v'è di nobile.


Sella città.

Sella è una città antichissima, edificata da' Romani, ma fu acquistata da' Gotti. Vero è che gli eserciti de' maumettani entrarono in quella regione, e i Gotti la diedero a Taric, capitano loro; ma, poi che fu edificata Fez, ella divenne soggetta a' signori di Fez. È questa città fabricata sul mar Oceano in bellissimo luogo, discosta dalla città di Rabato non piú d'un miglio e mezzo: il fiume di Buragrag divide l'una città dall'altra. Le case della detta città sono edificate al modo che le edificavano gli antichi, ma molto ornate di mosaico e di colonne di marmo. Oltre a ciò tutti i tempii sono bellissimi e ornati; cosí le botteghe, le quali furon fabricate sotto i portichi larghi e belli, e passato che si ha molte botteghe si truovano certi archi, fatti (come essi dicono) per divider un'arte da un'altra. Concludo che questa città aveva tutti quegli ornamenti e quelle condizioni che s'appartengono a una perfetta civilità, e tanto piú che, avendo buon porto, era frequentata da diverse generazioni di mercatanti cristiani, genovesi, viniziani, inglesi e fiandresi, percioché quello è il porto di tutto il regno di Fez.
Ma la detta città, negli anni seicentosettanta di legira, fu assaltata e presa da un'armata del re di Castiglia. Il popol fuggí e rimaservi i cristiani, ma non piú che dieci giorni, percioché essi furono d'improviso assaliti da Giacob, primo re della casa di Marin, e inavertentemente, percioché ei non stimavano che 'l re lasciasse l'impresa di Telensin, nella quale già era occupato. Onde fu ripresa la città, e quanti di loro si trovarono furono uccisi; il rimanente si salvò nell'armata e fuggí via. Per questa cagione il re fu benvoluto da tutto il popolo di quelle regioni, e cosí la sua famiglia che regnò doppo lui.
Ma come che questa città fusse tosto riavuta, nondimeno è molto mancata nelle abitazioni, e molto piú nella civilità. E per tutta la città, massimamente vicino alle mura, si truovano molte case vote, nelle quali sono di bellissime colonne e finestre di marmi di diversi colori, ma gli abitatori d'oggi non le apprezzano. Il circoito della città è tutto arena, e sono certi terreni dove non nasce molto grano, ma v'ha gran numero di orti e di campi ne' quali si raccoglie gran quantità di bambagio: e gli abitatori della città sono per lo piú tessitori di tele bambagine, molto sottili nel vero e molto belle. Fassi eziandio in lei grandissima quantità di petteni, i quali sono mandati a vendere in tutte le città del regno di Fez, percioché è vicino alla detta città; vi sono molti boschi di bossi e di molti altri legni buoni per tal effetto.
Oggidí pure egli si vive in questa città assai civilmente. C'è governatore e giudice, e molti altri uffici vi sono, come dogana e gabella, percioché vi vengono molti mercatanti genovesi e fanno quivi di gran faccende. Il re gli accarezza assai, perché la pratica di costoro gli apporta grandissimo utile. I detti mercatanti hanno la loro stanza quale in Fez e quale in Sela, e nello spaccio delle robbe l'uno fa per l'altro. Io gli ho veduti in tutte lor pratiche molto nobili e cortesi, e spendevano assai per acquistarsi l'amicizia dei signori e di quei della corte, non per cupidigia d'avanzar cosa alcuna da' detti signori, ma per poter ne' paesi stranieri onoratamente vivere. E a' miei dí fu un onoratissimo gentiluomo genovese, detto messer Tommaso di Marino, persona invero savia, da bene e molto ricca, del quale il re faceva grandissima stima e molto l'accarezzava. Egli visse in Fez circa a trenta anni, e quivi venuto a morte, il re fece portarne il suo corpo a Genova, come egli avea ordinato. Lasciò costui in Fez molti figliuoli maschi, tutti ricchi e onorevoli appresso il re e a tutta la corte.


Fanzara.

Fanzara è una città non molto grande, ma edificata in una bellissima pianura da uno dei re di Muachidin, discosta da Sela circa a dieci miglia. Tutta la detta pianura è fertilissima di formento e d'altri grani. Fuori della città appresso le mura sono molte bellissime fontane, le quali fece fare Abulchesen re di Fez. Nel tempo del re Abusaid ultimo, che fu della casa di Marin, un suo zio chiamato Sahid, trovandosi prigione di Habdilla re di Granata, mandò a richieder suo nipote re di Fez che volesse compiacer a certa dimanda del re di Granata. La qual cosa ricusando di fare, Habdilla liberò detto Sahid di prigione, e lo mandò con grandissimo esercito e molta quantità di danari a rovina e disfacimento del detto re. Questo Sahid, con l'aiuto appresso d'alcuni montanari arabi, assediò Fez e vi tenne l'assedio sette anni, nel qual tempo distrusse i villaggi, le città e le castella di tutto il regno. Sopravenne poi nel suo campo la peste, la qual lo tolse di vita insieme con la maggior parte dell'esercito. Questo fu negli anni 918 di legira. Le città che furono allora distrutte mai piú non si abitarono, e massimamente la detta Fanzara, la qual fu data per albergo ad alcuni capi degli Arabi che furono in aiuto di Sahid.


Mahmora.

Mahmora è una picciola città, edificata da un dei re di Muachidin su la gola del gran fiume Subo, cioè dove il detto fiume entra in mare; ma la città è lontana dal mare circa a un miglio e mezzo, e da Sela circa a dodici miglia. Tutti i circuiti di questa città sono piani d'arena, e fu edificata per difesa della gola del detto fiume, acciò non vi possino entrar legni de' nimici. Appresso la città è un grandissimo bosco, dove sono alcuni alberi altissimi, le cui ghiande sono grosse e lunghe come le susine dammaschine: vero è che questa cotal ghianda è alquanto piú sottile, e ha un sapore vie piú dolce e piú delicato di quello della castagna. Alcuni Arabi vicini al detto bosco usano di portarne gran quantità in Fez sopra i loro camelli, e ne cavano molti danari; ve ne portavano ancora i mulattieri di questa città, e ve ne facevano assai buon guadagno, ma c'è grandissimo pericolo di leoni, i quali mangiano le piú volte le bestie e gli uomini che non sono pratichi, percioché in questi boschi sono i piú famosi leoni che abbia l'Africa.
Da cento e venti anni in qua la detta città è distrutta, per la guerra che fe' Sahid al re di Fez, né vi rimase altro che alcune rare vestigie, le quali dimostrano che la città non fu molto grande. Nell'anno 921 il re di Portogallo mandò una grandissima armata, per edificar un castello su la gola del detto fiume. I Portogallesi, come vi furono arrivati, cosí incominciarono a fabricarlo, e già avevano fatte tutte le fondamenta e incominciato a levar in piè le mura e bastioni, e la maggior parte dell'armata era entrata nel fiume, quando furono sopragiunti e impediti dal fratello del re di Fez; oltre a ciò tagliati a pezzi tremila uomini, non per poco valore de' Portogallesi, ma per discordie. Il che fu che una notte innanzi l'alba uscirono questi tremila dell'armata, con disegno di pigliar l'artiglieria del re, e fu grandissimo errore che tal numero di fanti andasse a far questa fazione, dove li nimici erano da cinquantamila fanti e cavalli quattromila; ma li Portogallesi pensarono che avanti che alcun del campo sentisse, di dover con loro astuzie aver condotta l'artiglieria nella fortezza, la qual era lontana dal luogo dove andavano a pigliare circa due miglia, alla guardia della qual stavano da sei in settemila persone, le quali nell'ora dell'alba tutte dormivano. Ed erali successo tanto felicemente che avevano quasi per lo spazio d'un miglio condotta via detta artiglieria, quando furono sentiti, e fu tanto il romore che tutto il campo si svegliò, e in poco d'ora, prese l'armi, corsero verso i cristiani, quali si ristrinsero immediate in una ordinanza tonda, e senza perdersi d'animo camminando valorosamente si difendevano. Né gli spaventava punto il vedersi circondati da ogni parte e che gli era tolta la strada, percioché tanta era la furia ed empito, in quella parte che urtavan con la testa dell'ordinanza, che per forza si facevan far la strada. E si sarebbono salvati al dispetto del campo, senonché alcuni schiavi rinegati, che sapevan la lingua portoghesa, gridando gli dissero che buttassero giú l'armi, che 'l fratel del re di Fez gli donava la vita. La qual cosa avendo fatta, i Mori, che sono uomini bestiali, non ne volendo far prigioni alcuno tutti gli uccisero, di maniera che altri non vi camparono che tre o quattro, col favor di certi capitani del fratello del re. Allora il capitano della fortezza fu quasi in ultima disperazione, percioché negli uccisi si conteneva il fior della sua gente. Dimandò adunque il soccorso del general capitano, il quale era con certe navi grosse, dove erano molti signori e cavalieri portogallesi, fuori della gola del fiume; ma egli non vi poté entrare, impedito dalla guardia del re di Fez, la quale, scaricando spesse artiglierie, affondò alcuni loro navili.
Fra tanto giunse la nuova a' Portogallesi che 'l re di Spagna era morto, per il che alcune navi mandate in favor loro del detto re di Spagna si volsero dipartire. Similmente il capitano della rocca, vedendo di non potere aver soccorso, abbandonò la fortezza. E meno si volsero fermare i navili ch'erano dentro il fiume, ma nell'uscir vi perirono quasi due terzi, percioché, volendo schivar quella parte donde tiravano l'artiglierie, si tennero all'altro lato e dierono nell'arena, conciosiaché da quel canto il fiume non è molto profondo. I Mori furono lor adosso e ve n'uccisero una gran parte; gli altri si gettorono nel fiume e, pensando di notare alle navi grosse, o vi s'affogarono dentro o caderono nella sorte dei primi. I navili furono abbruciati e l'artiglierie andorno a fondo. Il mare ivi vicino tre dí continovi mostrò l'onde tinte di sangue: dicesi che in quella armata furono uccisi diecimila cristiani. Il re di Fez fece dipoi cavar di sotto l'acqua, e si trovarono quattrocento pezzi d'artiglieria di bronzo. E questa cosí gran rotta intravenne per duoi disordini: il primo fu fatto per li Portoghesi, quali, senza stimar le forze de' nimici, volsero con cosí poco numero di gente andar a pigliar quella artiglieria; il secondo fu che, potendo il re di Portogallo mandar un'armata tutta a sue spese e sotto li suoi capitani, vi volse aggiungere quella di Castigliani. E sempre accade e non fallisce mai che due eserciti di duoi diversi signori, quando vanno contro ad uno esercito d'un signor solo, quelli duoi son rotti e malmenati, per la diversità de' ministri e de' consigli che mai s'accordano, e li nostri signori africani tengono per segno di vittoria quando vedono l'esercito di duoi signori andar contra quello d'un signore. E io fui in tutta la detta guerra e la viddi particolarmente, e dapoi mi partí per andar al viaggio di Costantinopoli.


Tefelfelt.

Tefelfelt è una picciola città edificata in un piano dell'arena, discosta dal Mahmora circa a quindici miglia verso levante, e dal mar Oceano circa dodici miglia. Appresso della detta città passa un fiume non molto grande, e su le rive del fiume sono alcuni boschi, ne' quali stanzano certi leoni crudelissimi e peggiori di quelli ch'io dissi di sopra, e fanno di grandissimi danni a' passaggieri, massimamente a quegli che v'alloggiano di notte. Ma per la via maestra di Fessa, fuori della detta città, è un picciolo casale disabitato, dove è una stanza fatta a volte. Quivi dicesi che si riducevano ad albergo i mulattieri e i viandanti, faccendo riparo alla porta con spini e frasche di quei contorni. Questa era osteria nel tempo che la città era abitata, la qual città fu similmente abbandonata nella guerra di Sahid.


Mechnase città.

Mechnase è una gran città, edificata da un popol cosí detto, dal quale ella prese il nome. È discosta da Fez circa a trentasei miglia, da Sela circa a cinquanta e da Atlante circa a quindici. Fa presso a seimila fuochi ed è molto abitata e popolosa, e lungo tempo il suo popolo visse in pace e unione, cioè mentre abitò nella campagna. Ma dipoi vi nacquero discordie e parti, di modo che, una parte essendo superiore all'altra, quella che rimase perditrice, essendo priva d'animali né potendo piú dimorar nella campagna, si ridusse insieme e fabricò questa città. La quale è posta in un bellissimo piano, e le passa da vicino un fiume non molto grande. D'intorno circa a tre miglia sono molti giardini, che fanno perfettissimi frutti, massimamente cotogni molto grossi e odoriferi, e mele granate che sono maravigliose e di grandezza e di bontà, perché non hanno osso alcuno, e si vendono per vilissimo prezzo. Anco susini damasceni e bianchi vi sono in gran quantità, e giuggiole, quali l'inverno mangiano secche, e buona parte ne portano a Fessa a vendere. Hanno anco copia assai de fichi e uva di pergola, ma le mangiano fresche, perché il fico, se lo vogliono seccare per conservarlo, getta fuori come una farina, e l'uva anco non è buona quando è secca. E hanno tanta quantità di crisomele e di persiche che quasi le gettano via: egli è ben vero che le persiche non sono molto buone, ma piene d'acqua e d'un color quasi verde. Olive nascono in infinito, e vendesene per un ducato e mezzo un cantaro, che sono cento libbre italiane. In fine il terreno della detta città è molto fertile. Di lino vi si cava una mirabil quantità, la piú parte del quale si vende in Fez e in Sela.
La città di dentro è bene ornata, ordinata e fornita di tempii bellissimi, e vi sono tre collegii di scolari e circa a dieci stufe molto grandi. E si fa il mercato fuori della città appresso le mura ogni lunedí, nel quale si truova grandissima quantità degli Arabi vicini allo stato della città, i quali vi menano buoi, castrati e altre bestie, vi portano butiro e lana, e il tutto si vende per vilissimo prezzo. A questa età il re ha dato la detta città al principe per parte del suo stato, e stimasi che tra lei e il suo contado si cavi tanto di frutto quanto d'un terzo di tutto il regno di Fez.
Ma la città ebbe di grandissimi disagi per le guerre passate, le quali furono fra i signori di quelle regioni, e in ciascuna guerra peggiorò trenta o quarantamila ducati, e molte volte fu assediata sei e sette anni per volta. Nel mio tempo, quando il presente re di Fez fu creato re, un suo fratel cugino gli si ribellò contra, e aveva il favor del popolo. Onde il re vi venne con l'esercito e tenne l'assedio alla città circa a duoi mesi, né volendosi render i cittadini, guastò tutte le loro possessioni. Fu allora il peggioramento di venticinquemila ducati: pensate che danno fu quando stette assediata cinque, sei e sette anni. In fine una parte amica del re aperse una porta e, sostenendo gagliardamente l'impeto degli aderenti al ribello, diede adito al re di poterci entrare: cosí fu la città riavuta, ed esso menato in prigione a Fez; ma dipoi si fuggí.
Insomma questa città è bella, fertile, ben murata e molto forte. Le sue strade sono larghe e allegre, e ha una perfettissima acqua, che vien per uno acquedutto il quale è fuori della città lontano circa a tre miglia, ed esso la comparte fra la rocca e i tempii e i collegii e le stufe. I mulini sono tutti fuori della città, lontani circa a due miglia. Gli abitatori sono uomini valorosi nella milizia, liberali e assai civili, ma d'ingegno piú tosto grossi che no. E tutti usano la mercatanzia, o siano gentiluomini o artigiani, né un cittadino si reca a vergogna di caricare una bestia di semenza per farla portar al lavorator suo. Tengono grande odio col popolo di Fez, né si sa alcuna manifesta cagione. Le donne dei gentiluomini della città non escono fuori delle lor case se non la notte, e si tengono coperti i volti, né vogliono esser vedute né coperte né discoperte, perché gli uomini sono molto gelosi e pericolosi nel fatto delle lor mogli. Questa città a me dispiacque, per esser il verno tutta molle e fangosa.


Gemiha Elchmen.

Questa è una antica città, edificata nel piano appresso un bagno, lontana da Mecnase circa a 15 miglia verso mezzogiorno, e da Fez quasi trenta verso ponente, e dal monte Atlante è discosta quasi dieci. Ella è il passo a chi va da Fez a Tedle. I suoi terreni furono occupati da certi Arabi, percioché essa ancora fu distrutta nella guerra di Sahid. Vero è che vi sono ancora quasi tutte le mura intorno, e a tutte le torri e tempii sono caduti li tetti, ma li muri sono ancora in piedi.


Camis Metgara.

Camis Metgara è una picciola città, edificata dagli Africani nella campagna di Zuaga, lontana da Fez circa a quindici miglia verso ponente. Il terreno è molto fertile, e d'intorno la città quasi a due miglia v'ha giardini bellissimi d'uve e di fichi; ma tutti sono stati rifatti, percioché nella sopradetta guerra di Sahid questa città fu rovinata, e tutti i terreni rimasero diserti circa anni 120. Ma doppo ch'una parte del popolo di Granata passò in Mauritania, ella fu incominciata a riabitarsi, e furonvi piantati moltissimi alberi di more bianche, percioché i Granatini sono grandi mercatanti di sete. Vi piantarono eziandio canne di zucchero, ma non vi se ne cavò tanto profitto quanto si suol far delle canne di l'Andaluzia. Fu questa città ne' tempi antichi molto civile, ma non cosí a' nostri, percioché gli abitatori sono quasi tutti lavoratori di terra.


Banibasil.

Banibasil è una picciola città edificata pure dagli Africani sopra un fiumicello, in mezzo il passo che porta da Fez a Mecnase, lontano da Fez circa a diciotto miglia verso ponente. Ha la detta città una larghissima campagna, dove sono molti fiumicelli e capi grossi d'acqua, ed è tutta coltivata da certi Arabi i quali vi seminano orzo e lino. Altro grano non vi può venir a perfezione, per esser la campagna aspra molto e sempre piena d'acqua. Questa campagna serve al maggior tempio di Fez, e i sacerdoti vi cavano di rendita ventimila ducati l'anno. Aveva questa città molti belli giardini d'intorno, come si conosce ai vestigi, ma fu rovinata come l'altre nel tempo di Sahid, e rimase disabitata circa cento e dieci anni. Ma, poi che 'l re di Fez ritornò da Duccala, vi mandò ad abitar una parte di quel popolo; tuttavia non v'è civilità, e il detto popolo contra il suo volere vi abita.


Fessa, magna città e capo di tutta Mauritania.

La città di Fez fu edificata da un certo eretico nel tempo di Aron pontefice, il che fu l'anno centoottantacinque di legira. Fu detta Fez percioché il primo dí che si cavarono le fondamenta fu trovata non so che quantità di oro, che nella lingua araba è detto fez. E questa al giudicio mio è la vera derivazion del nome, quantunque alcuni vogliano che il luogo dove ella fu edificata fusse prima appellato Fez per cagione d'un fiume che passa nel detto luogo, percioché gli Arabi chiamano il detto fiume Fez.
Come si sia, colui che la edificò fu detto Idris, e fu molto stretto parente del detto pontefice. Ma per la regola della legge, vie piú tosto a lui che ad Aron devea venir il pontificato, percioché egli fu nipote di Hali, fratel cugino di Maumetto, che ebbe per moglie Fatema figliuola di Maumetto, e cosí fu della famiglia da canto del padre e della madre. Ma Aron fu parente di Maumetto da una sola parte, percioché era egli nipote di Habbas zio di Maumetto. È da sapere che tutte due queste famiglie furono private del pontificato per le cagioni contenute nell'antiche croniche, e Aron con inganno se lo usurpò, percioché l'avolo di Aron, ch'era uomo astuto e d'alto ingegno, fingendo di dar favore alla casa di Hali per metterla in tal dignità, mandò suoi ambasciatori in tutto il mondo. E fu cagione che la casa di Umeue se la perdé, e ch'ella venisse poi nelle mani di Habdulla Seffec, primo pontefice, il quale, veggendo che questa dignità non si poteva nel vero lasciare ad altrui, subito si rivolse contra la sopradetta casa di Hali e incominciò apertamente a esserne perseguitatore, in tanto che i maggiori di Hali se ne fuggirono chi in Asia e chi in India. Rimase un di loro in Elmadina, del qual, per esser vecchio e religioso, egli non si curò. Ma due suoi figliuoli crebbero non meno in età che in grandezza e favor di quei di Elmadina, talmente che, volendogli esso nelle mani, i miseri furon costretti a fuggirsi: ma l'uno fu preso e strangolato, l'altro (il cui nome fu Idris) scappò in Mauritania.
Questo Idris venne in grandissimo credito, per modo che in brieve tempo ebbe fra quei popoli il dominio non solo temporale ma spirituale, e abitava nel monte di Zaron, vicino a Fez circa a trenta miglia, e tutta Mauritania gli dava tributo. Morí egli senza figliuoli, eccetto che pur lasciò una sua schiava gravida, la quale era gotta, ma venuta alla fede loro. Costei partorí un figlio maschio, il quale dal padre fu chiamato Idris. Questo i popoli volsero per signore, onde lo fecero nudrir con grandissime guardie e diligenze, e crescendo allevar sotto la disciplina d'un valente capitano del padre, detto Rasid. Questo fanciullo, come fu d'età di quindici anni, incominciò a far di belle e gloriose prodezze, e acquistò molti paesi, per sí fatto modo che accrescettero le sue famiglie e gli eserciti. Onde, parendo a lui che non gli bastasse la stanza del padre, deliberò di fabricar una città e, lasciando il monte, abitar in lei. Per il che fece ragunar molti architetti e ingegnieri, i quali, diligentemente avendo considerati tutti quei piani ch'erano vicini al monte, consigliaron che la città si facesse nel luogo dove fu edificata Fez, percioché conobbero il luogo molto commodo per una città, veggendovi molti fonti e un gran fiume, il quale, nascendo in una pianura non molto discosta, passa fra certi piccioli colli e valli molto dilettevoli, correndo prima dolce e chetamente otto miglia di piano. Dalla parte di mezzogiorno viddero eziandio che v'era un gran bosco, il qual poteva molto servire ai bisogni della città. Cosí edificaron una picciola città nel transito del fiume verso levante, di circa a tremila fuochi, e fu molto ben fornita secondo la sua qualità di cose pertinenti alla civilità.
Venuto Idris a morte, uno de' suoi figliuoli edificò un'altra non molto grande città verso ponente, pur nel transito del detto fiume. Crebbe poi in processo di tempo l'una e l'altra, per sí fatto modo che non altro che una piccola contrada dipartiva le due città: percioché molti signori che vi furono attesero a far venir grande la sua. Ma centoottanta anni doppo che fu edificata, nacquero grandissime parti e discordie fra i popoli delle due città, e ciascuna aveva il suo principe, e fecero tra lor molte guerre, le quali durarono cento anni. Sopravenne dipoi che Giuseppe, re di Luntuna, si mosse con molto esercito contra ai due signori, e presegli, e fecegli crudelmente morire. Allora il popolo delle due città fu quasi distrutto, percioché furono ambedue saccheggiate, e furonvi uccise di detto popolo circa trentamila persone. Deliberò il re di ridurre i due popoli in uno, e fece disfar le mura che dipartivano l'una città dall'altra e sopra il fiume fabricar molti ponti, accioché si potesse commodamente passare da una parte all'altra. Cosí le due città divennero una sola, e questa sola fu divisa in dodici rioni, o dire vogliamo regioni.
Ora, avendovi detta la cagione della edificazion della città, e come fusse fabricata, seguiremo della sua qualità e vi dipingeremo minutamente l'essere nel quale ella oggidí si truova.


Minuta e diligente descrizione della città di Fez.

Fez è certamente una grandissima città, murata d'intorno con belle e alte mura, ed è quasi tutta colli e monti, di modo che solamente il mezzo della città è piano, ma da tutte le quattro parti (come io dico) vi sono monti. Per due luoghi entra l'acqua nella città, percioché il fiume si divide in due parti: l'una passa da canto a Fez nuova, cioè dal lato di mezzogiorno, perché l'altra parte v'entra di verso ponente. Come l'acqua è entrata nella città, si divide in molti canali, i quali vanno per la maggior parte alle case dei cittadini e cortigiani del re, e ad altre case; eziandio ogni tempio, ogni oratorio ha la sua parte di detta acqua, cosí l'osterie, gli spedali e i collegi che vi sono. Vicino ai tempii sono certi cessi fatti a modo d'una casa quadra, e al d'intorno v'ha alcune camerette con loro porticelle, in ciascuna delle quali è una fontana la cui acqua, uscendo dal muro, cade in certo canale di marmo, e come le si fa un poco d'impeto, allora quell'acqua corre ai cessi e ne mena tutta la bruttura della città verso il fiume. Nel mezzo di questa casa è pur una fontana bassa e profonda quasi tre braccia, larga circa a quattro e lunga dodici; e d'intorno sono certi canali dove corre l'acqua, e passa sotto ai cessi. Sono i detti cessi di numero circa a centocinquanta.
Le case di questa città sono di mattoni e di pietre molto gentilmente fabricate, la piú parte delle quali pietre sono belle e ornate di belli mosaichi. Similmente sono mattonati i luoghi scoperti e i portichi con certi mattoni antichi e di diversi colori, a guisa dei vasi di maiolica. Usano di dipingere i cieli dei colmi con bei lavori e preziosi colori, come d'azzurro e d'oro, e sono detti colmi fatti di tavole e piani, per poter commodamente da tutto il coperto della casa stendere i panni, e per dormirvi la state. E quasi tutte le case sono di due solai e molte di tre, e di su e di giú vi fanno certi corridori, che adornano molto, per poter passar d'una camera in l'altra sotto il coperto, percioché il mezzo della casa è discoperto, e le camere quai sono da una parte e quai da un'altra. Fanno le porte delle camere molto larghe e alte, e gli uomini di qualche pregio fanno far gli usci di dette camere di certo bellissimo legno, e intagliate minutamente. E nelle camere sogliono usar alcuni armai bellissimi e dipinti, longhi quanto è la larghezza della camera, nei quali serbano le lor cose piú care: e alcuni gli vogliono alti, e tali che non passino sei palmi, per potervi ancor accommodar sopra il letto. Tutti i porticali di dette case sono fatti sopra certe colonne di mattoni e vestiti quasi piú della metà di maioliche, e vi si truovano alcuni su colonne di marmo, e usano di far da una colonna all'altra certi archi tutti coperti di mosaico, e i travi, che sono sopra le colonne le quali sostengono i solai, sono di legni intagliati con bellissimi lavori e con colori molto gentilmente dipinti. Vi si truovano moltissime case, le quali hanno certe conserve d'acqua fatte quasi in quadro, larghe qual sei e qual sette braccia, e lunghe qual dieci e qual dodici, e profonde circa a sei o sette palme; e tutte sono scoperte e mattonate di maioliche. Da ciascun lato della lunghezza usano di fare alcune fontane basse, molto belle e fatte con dette maioliche, e a tale pongono nel mezzo un vaso di marmo, come si vede nelle fontane d'Europa. Come le fontane son piene, l'acqua sen va nelle dette conserve per certi acquedutti coperti e molto bene ornati d'intorno, e quando le conserve sono ancora elle piene, ne va allora quest'acqua per altri acquedutti che sono intorno a dette conserve, e cade per certe picciole vie, di maniera che corre di sotto ai cessi ed entra nel fiume. Queste conserve si tengono sempre nette e molto polite, né l'adoperano ad altro tempo che nella state, nella quale poscia vi sogliono nuotar donne, uomini e fanciulli. Usano di far eziandio su le case una torre, dentro la quale sono molte agiate e bene ornate camerine. E in cotai torri sogliono pigliar diporto le donne quando vengono loro in fastidio i lavori, percioché dalle dette torri si può veder quasi tutta la città.
Sonvi quasi settecento fra tempii e moschee, cioè alcuni piccioli luoghi da orare, e vi son di questi tempii circa a cinquanta grandi e molto ben fabricati, e ornati di colonne di marmo e d'altri ornamenti. E ciascuno ha le sue fontane bellissime, fatte di marmo e d'altre pietre non vedute in Italia, e tutte le colonne hanno disopra le lor tribune lavorate di mosaico, o di tavole con intagli bellissimi. I colmi dei tempii sono fatti come si usa nell'Europa, cioè coperti di tavole, e il pavimento dei detti tempii è tutto coperto di stuore bellissime, l'una cucita all'altra con tanta destrezza che non si vede alcuna parte di terreno. E i muri di dentro sono semilmente coperti di stuore, ma solo a tanta altezza quanta è la statura di un uomo. In ciascuno ancora di questi tempii è una torre, dove vanno quelli che hanno di ciò cura a gridar e nunziar le ore diputate all'orazioni ordinarie. Né v'è piú che un sacerdote per tempio, a cui tocca a dire la detta orazione, e ha cura dell'entrata del suo tempio, cioè tenendovene diligente conto dispensarla ai ministri del detto tempio, come sono quegli che tengono la notte le lampade accese, e quegli che sono diputati alle porte, e quegli altri che hanno cura nella notte di gridar su la torre il tempo delle orazioni: percioché quello che grida il dí non ha salario alcuno, ma bene è libero da ogni decima e pagamento che si sia.
È nella città un tempio principale, il quale è chiamato il tempio del Caruven, il qual è un grandissimo tempio e tiene di circuito circa a un miglio e mezzo. Ha trentuna porta, grandissima e alta ciascuna; il coperto è lungo circa a centocinquanta braccia di Toscana, ed è largo poco meno d'ottanta; la sua torre, ove si grida, è similmente altissima; e il coperto è per lunghezza appoggiato sopra trentotto archi, e per larghezza sopra venti. E d'intorno, cioè da levante, da ponente e da tramontana, sono certi portichi, largo ciascuno trenta braccia e lungo quaranta; sotto a questi portichi sono magazzini, ne' quali si serba l'olio, le lampade, le stuore e l'altre cose necessarie al detto tempio. Nel quale ogni notte s'accendono novecento lampade, percioché ogni arco ha la sua lampada, massimamente l'ordine degli archi che corre per mezzo il cuore del tempio, perché quel solo ne ha da centocinquanta lampade; nel qual ordine sono certi luminari grandi fatti di bronzo, ciascuno de' quali ha luoghi per millecinquecento lampade, e queste furon campane di certe città di cristiani, acquistate da alcuni re di Fez. Dentro il tempio, appresso i muri, sono certi pergami di ogni qualità, ne' quali molti dotti maestri leggono al popolo le cose della lor fede e della legge spirituale. Incominciano un poco doppo l'alba e finiscono a un'ora di giorno, ma nella state non vi si legge se non doppo ventiquattr'ore, e durano le loro lezioni per insino a un'ora e mezza di notte. E usavasi a legger non meno facultà e scienze morali che spirituali pertinenti alla legge di Maumetto. E la lezione della state da altri non si legge che da certi uomini privati; le altre non leggono se non uomini molto ben periti nella legge, ciascuno de' quali per detta lettura ha buono e ampio salario e li vengono dati li libri e li lumi. Il sacerdote di questo tempio non ha altro carico che di far l'orazione, ma ben tien cura dei danari e robbe che sono offerte al tempio per li pupilli, ed è dispensator dell'entrate che sono lasciate per li poveri, come sono danari e grani, de' quali egli ogni festa fa parte a tutti li poveri della città, a chi piú a chi meno, secondo la qualità delle famiglie. E colui che tien la cura del riscuoter l'entrate del tempio ha un ufficio separato, e ha di provisione un ducato il dí. Tien costui otto notai, che hanno per ciascun di salario al mese sei ducati, e sei uomini che riscuotono i danari delle pigioni delle case, delle botteghe e d'altre entrate: e ciascuno di questi piglia per sua fatica cinque per cento. Ha eziandio circa a venti fattori, i quali hanno carico d'andare intorno per proveder ai lavoratori dei terreni, a quei che attendono alle vigne e a quegli che hanno cura dei giardini, di quanto fa lor bisogno: il salario di questi aggiunge a tre ducati il mese. Fuori della città circa a un miglio sono presso a venti fornaci dove si fa la calcina, e altrettante dove si fanno le pietre per le bisogne delle fabriche delle possessioni e del tempio. Il tempio ha d'entrata dugento ducati in qualunque giorno, ma vi si spende piú che la metà nelle cose sopra dette, senza ch'ogni tempio o moschitta, che non abbia entrata, questo tempio di molte cose fornisce; quello che avanza si spende a commune utilità della città, percioché il commune non ha entrata di niuna sorte. È vero che a' nostri dí i re sogliono farsi prestar di gran danari al sacerdote del tempio, né perciò ve gli rendono giamai.
Sono in detta città due collegi di scolari, molto ben edificati, con molti ornamenti di mosaico e di travi intagliati, e quale è lastricato di marmo e qual di pietre di maiolica. In ciascun di questi collegi sono molte camere, e tal ve n'è che n'ha cento, e qual piú e qual meno, e tutti furon edificati da diversi re della casa di Marin. Ve n'è uno, che nel vero è cosa mirabile e di grandezza e di bellezza, il qual fu fatto fabricar dal re Abu Henon. E in lui ha una bellissima fontana di marmo ch'è capace di due botte d'acqua, e per entro passa un fiumicello in un canaletto che ha il fondo molto ornato, e cosí le rive, di marmo e di pietre di maiolica. E sonvi tre loggie con le cube coperte d'incredibil bellezza, e d'intorno sono colonne fatte in otto anguli attaccate al muro di diversi colori, e dal capo di ciascuna colonna all'altra sono archi ornati di mosaico, d'oro fino e d'azzurro. Il tetto è fatto di legni intagliati e formati con bel lavoro e ordine, e ne' confini de' portichi con lo scoperto sono fatte di legne certe reti a modo di gelosie, che quelli che sono al di fuori non veggono quegli che stanno nelle stanze che sono sotto a' detti portichi. Tutti i muri vanno tanto in alto quanto un uomo può giunger con mano; sono vestiti pur di pietre di maiolica, e d'intorno a' detti muri per tutto il collegio sono scritti versi, ne' quali si contiene l'anno che fu fabricato detto collegio, e molti in lode del luogo e dell'edificatore, cioè il re Habu Henon. E sono queste lettere grosse e nere, pur in maiolica, e il campo è bianco, di maniera che si può veder e legger le dette lettere molto di lontano. Le porte del collegio sono tutte di bronzo, ben lavorate e ornate, e le porte delle camere sono di legni intagliati. Nella sala maggiore, dove si fanno le orazioni, è un pergamo che ha nove scale fatte tutte d'avorio e d'ebano, cosa invero mirabil a vedere.
Io ho udito dir da molti maestri, i quali affermano aver sentito raccontar dai lor maestri, che, quando fu fornito il collegio, il re volle veder il libro delle spese che vi andarono, e non rivolse una minima parte del libro che trovò di spese circa a quarantamila ducati. Cosí si maravigliò, e senza piú legger squarciò il libro e lo gettò nel picciol fiume che passa per lo detto collegio, allegando due versi d'un autore delli nostri arabi, che contengon questa sentenza:

Cosa cara ch'è bella non è cara,
né assai si può pagar cosa che piaccia.

Ma fu un suo tesoriere, detto Hibnulagi, il qual ve ne aveva tenuto conto, e trovò ch'in somma v'erano stati spesi quattrocento e ottantamila ducati.
Tutti gli altri collegi di Fez hanno qualche simiglianza con questo, e per ogni collegio vi sono lettori in diverse scienzie, e chi legge la mattina e chi la sera, e tutti hanno ottima provisione lasciata dagli edificatori. Anticamente ciascuno scolare di questi collegi soleva avervi le spese e il vestire per sette anni, ma ora altro non v'hanno che le stanze, percioché nelle guerre di Sahid furono guaste molte possessioni e giardini, la cui entrata era diputata a questo ufficio. E oggi ve n'è rimasa alcuna poca con la qual si mantengono i lettori, e di questi a chi tocca dugento e a chi cento ducati, e a tali meno. Questa è forse una delle cagioni per la qual è venuta meno la virtú di Fez, e non solamente di Fez, ma di tutte le città d'Africa. Né abita in detti collegi se non certi scolari forestieri, che hanno il loro viver delle limosine dei cittadini e di quei del contado di Fez, e se pur v'abita alcuno della città, non aggiunge al numero di due. Quando uno dei lettori vuol legger, uno scolare prima legge il testo; il lettore legge poi i comenti, adducendovi qualche isposizione del suo e dichiarando le difficultà che vi sono. E alcuna volta, in presenza del lettore, sogliono gli scolari disputar fra loro secondo il soggetto delle lezioni.


Spedali e stufe che sono nella detta città.

Sono in Fez molti spedali, i quali di bellezza non sono inferiori ai sopradetti collegi, e solevano ne' tempi adietro i forestieri aver per tre giorni alloggiamento in questi spedali. Ve ne sono molti altri di fuori delle porte, non men belli di quelli di dentro. Ed erano essi spedali molto ricchi, ma ne' tempi della guerra di Sahid, faccendo al re bisogno d'una gran quantità di danari, fu consigliato a vender l'entrate e possessioni loro. Al che non volendo consentir il popolo, un procurator del re gli fece intendere che li detti spedali furono edificati di limosine date per gli antecessori del presente re, qual sta in pericolo di perder il regno, e però era meglio vender le possessioni per scacciar il commune nimico, che finita la guerra facilmente poi si riscoterebbono. Cosí furono vendute, ma si morí il re prima che ne seguisse l'effetto: cosí gli spedali rimasero poveri e quasi senza sustanza. Pure si danno oggi per albergo a qualche forestiere dottore, o a qualche nobile ma povero della città, per mantener le stanze in piè. E a questi dí un solo ve n'è per li forestieri infermi, ma non se gli dà né medico né medicina, solamente la stanza e le spese, e ha chi lo serve per insino che 'l povero o si muore o guarisce.
In questo spedale sono alcune camere diputate ai pazzi, cioè a quelli che son palesi che traggono i sassi e fanno altri mali, e ve gli tengono serrati e incatenati. Le faccie di queste camere, che guardano verso il corridore e al coperto, sono come ferrate, ma di certi travicelli di legno molto ben forti. E colui che ha cura di dar loro mangiare, come vede uno che si muove, sconciamente lo lavora con un bastone che egli sempre reca con esso lui a questo ufficio. E aviene alle volte che, accostandosi qualche forestiere alle dette camere, i pazzi lo chiamano e con esso lui si lamentano che, essendo essi guariti della pazzia, debbono esser tenuti in prigione, ricevendo ogni giorno dai ministri mille spiacevoli ingiurie. Alcuno, credendolo, s'appoggia alla finestra, ed essi con una mano lo pigliano per lo drappo e con l'altra gli bruttano il viso di sterco, percioché, come che cotai pazzi abbiano i loro cessi, essi nondimeno le piú volte votano il soverchio del corpo nel mezzo delle stanze. E bisogna che di continovo i detti ministri vi nettino quelle brutture, i quali eziandio fanno cauti i forestieri che molto a quelle camere non s'avicinino. Ha in fine lo spedale tutti quei famigliari che fanno di mistiero, cioè notai, fattori, protettori, cuochi e altri che governano gl'infermi; e ha ciascuno assai onesto salario. Al tempo ch'io era giovane, io vi sono stato due anni per notaio, secondo l'usanza dei giovani studianti, il qual ufficio rende ogni mese tre ducati.
Sonvi ancora cento stufe ben fabricate e ornate, alcune delle quali sono picciole, alcune grandi; ma tutte son fatte a uno istesso modo, cioè ciascuna ha quattro stanze a guisa di sala. Di fuori sono certe loggie alquanto alte, e in quelle s'ascende, per cinque over sei scalini, in luoghi dove si spogliano gli uomini e ripongono le vestimenta loro. Nel mezzo usano di far certe fontane al modo d'una conserva, ma molto grandi. Ora, come l'uomo vuole andar a una di queste stufe, entrato ch'egli è per la prima porta, passa in una stanza la qual è fredda, e in lei tengono una fontana per rinfrescar l'acqua, quando ella è di soverchio calda. Di quindi per un'altra porta se ne va poi alla seconda stanza, ch'è alquanto piú calda, e qui i ministri lo lavano e gli nettano la persona. Di questa si passa alla terza, ch'è molto calda, dove suda alquanto spazio: e quivi ha luogo la caldaia dove si scalda l'acqua, ben murata, la quale cavano destramente in certe secchie di legno, e sono tenuti di dare a qualunque uomo due vasi pieni di quell'acqua, e chi piú ne vuole, o dimanda esser lavato, gli bisogna dar a colui che attende due o almeno un baiocco, e al padron della stufa altro non si paga che due quattrini. L'acqua si scalda con lo sterco delle bestie, percioché i maestri delle stufe sogliono tener molti garzoni e somari, i quali, discorrendo per la città, vanno accattando lo sterco delle stalle e, portandolo fuori della città, fanno di quello come una picciola montagnetta e ve lo lasciano seccar due o tre mesi: dipoi, per iscaldar le stufe e la detta acqua, l'abbruciano in vece di legna.
Le donne hanno ancora elle per loro separate stufe, e molte ancora si tengono e per donne e per uomini communemente: ma gli uomini hanno determinate ore, ch'è lo spazio da terza fin a quattordici ore, e piú e meno secondo la qualità dei giorni; il rimanente del giorno è assegnato alle donne, le quali sí come entrano alle stufe, cosí per segno di ciò s'attraversa una fune all'entrata della stufa, e allora niun uomo vi va. E se accade che alcuno volesse favellar alla sua donna, egli non può, ma per una delle famigliari le fa apportar l'imbasciata. E gli uomini e le donne della città usano parimente di mangiar nelle dette stufe, e le piú volte si sollazzano a varie guise e cantano con alta voce. Cosí tutti i giovani entrano nelle stufe ignudi, senza prender niuna vergogna l'uno dell'altro; ma gli uomini di qualche condizione e grado v'entrano con certi sciugatoi intorno, né siedono in luoghi communi, ma si adagiano in certe picciole camerine, che sempre stanno acconcie e ornate per gli uomini di riputazione.
M'era scordato di dire che, quando i detti ministri lavano una persona, la fanno coricare, dipoi la fregano alle volte con alcuni unti ristorativi e alle volte con cotai strumenti che cavano ogni bruttezza. Ma quando lavano alcun signore lo fanno coricare sopra un drappo di feltro, e appoggiar il capo sopra certi guanciali di tavole, coperti pur di feltre. Sono ancora per ciascuna stufa molti barbieri, i quai pagano un tanto il maestro per poter tenervi li loro strumenti e lavorarvi dell'arte loro. E la maggior parte di dette stufe sono dei tempii e dei collegi, e lor pagano di gran pigione, cioè qual cento e qual centocinquanta ducati, e chi piú e chi meno secondo la grandezza dei luoghi.
Né è da tacere che i garzoni famigliari di queste stufe usano di far certa festa una volta l'anno, la qual è in cotal modo. Invitano i detti garzoni tutti gli amici loro, e vanno accompagnati dal suono di trombe e di pifferi fuori della città; dipoi cavano una cipolla di Squilla e la pongono in un bel vaso di ottone e, coperto che l'hanno con qualche tovaglia di bucato, se ne vengono alla città sonando fino alla porta della stufa. Allora mettono la cipolla in una sporta e l'appiccano alla porta della stufa dicendo: "Questa sarà cagion dell'utile della stufa, percioché ella sarà frequentata da molti". Ma a me pare che ciò si debbia addimandar piú tosto sacrificio, nel modo che solevano usar gli Africani antichi allora ch'essi furono gentili, e rimase questa usanza insino al nostro tempo, sí come eziandio si truovano alcuni motti delle feste che i cristiani facevano, le quali quasi s'osservano oggidí: ma eglino perciò non sanno per qual cagione si faccia alcuna di quelle feste. E in ciascuna città usasi d'osservar certe feste e usanze, che lasciarono pure i cristiani quando essi l'Africa signoreggiarono. Di questi motti, s'ei avverrà che mi paia a proposito, ve ne sporrò alcuno.


Osterie.

Nella detta città sono circa a dugento osterie, benissimo veramente fabricate. E tali ve ne hanno che sono grandissime, sí come quelle che sono vicine al tempio maggiore, e fatte tutte in tre solai; ve n'è alcuna che ha centoventi camere, e tali piú, e in tutte sono e fontane e cessi, con lor canaletti che portano fuori le brutture. Io non ho veduto in Italia simili edificii, se non il collegio degli Spagnuoli ch'è in Bologna e il palazzo del cardinal di San Giorgio in Roma. E tutte le porte delle camere rispondono al corridore. Ma, come che queste osterie siano belle e grandi, v'è un pessimo alloggiare, percioché non c'è né letto né lettiera, ma l'osterie danno a quello che viene albergato una schiavina e una stuora per suo dormire, e se egli vuol mangiare convien che si comperi la robba e gliela dia a cuocere. In queste osterie si riparano ancora le povere vedove della città, le quali non hanno né tetto né parente che gliene presti. A queste s'assegna una stanza, cioè ciascuna ha la sua camera, e in tal ve ne albergano due; esse poi si pigliano cura del letto e della cucina.
E per darvi alcuna informazion di questi ostieri, essi son d'una certa generazione che s'appella elcheua, e vanno vestiti d'abiti feminili e ornano le lor persone a guisa di femine: si radono la barba e s'ingegnano d'imitarle per insino nella favella. Che dico favella? Filano anco. Ciascuno di questi infami uomini si tiene un concubino, e usa con esso lui non altrimenti che la moglie usi col marito. Eziandio tengono delle femine, le quai serbano i costumi che serbano le meretrici nei chiassi dell'Europa. Hanno costoro autorità di comperar e vender vino senza che i ministri della corte diano loro fastidio, e in dette osterie vi praticano di continovo tutti gli uomini di pessima vita, chi per imbriacarsi, chi per sfogar la sua libidine con le femine da prezzo, e chi per quell'altre vie illecite e vituperevoli, per esser sicuri dalla corte, de' quali è il tacer piú bello. Questi sí fatti ostieri hanno un consolo, e pagano certo tributo al castellano e governator della città. Oltre a questo sono obligati, quando egli accade, di dar all'esercito del re o dei principi una gran quantità della lor brigata per far la cucina ai soldati, percioché pochi altri sono in tal mestiero sufficienti.
Io certamente, se la legge alla quale è astretto l'istorico non m'avesse sospinto a dir la verità, volentieri arei trapassata questa parte con silenzio, per tacere il biasimo della città nella qual sono allevato e cresciuto. Che in vero, trattone fuori questo vizio, il regno di Fez contiene uomini di maggior bontà che siano in tutta l'Africa. Con questi adunque cosí fatti ostieri non sogliono tener pratica (come s'è detto) se non uomini ribaldi e di sangue vile, percioché né letterato, né mercatante, né alcun uomo da bene artigiano pur solamente parla loro, ed è similmente interdetto a quelli d'intrar nei tempii e nelle piazze dei mercatanti, e cosí alle stufe e alle case loro. Meno possono tener l'osterie che sono appresso il tempio, nelle quali alloggiano i mercatanti d'alcuna rara qualità. E tutto il popolo grida loro la morte. Ma, perché i signori se ne servono (come io dissi) nelle bisogne del campo, gli lasciano starsi in tal disonesta e pessima vita.


Mulini.

Dentro la medesima città sono presso a quattrocento mulini, cioè stanze di mole, percioché vi può esser un migliaio di mulini; conciosiacosaché i detti mulini sono fatti a modo di una gran sala e in colonne, e in alcuni alberghi di quella si truovano quattro, cinque e sei mole. È una parte del contado che macina dentro la città, e sonvi certi mercatanti, detti i farinai, i quali tengono mulini a pigione, e comperano il grano e fannolo macinare. Poscia vendono la farina nelle botteghe, che tengono pur a pigione, e di ciò ne cavano buona utilità, percioché tutti gli artigiani, che non hanno tanta facultà che si possino fornir di grano, comperano la farina a queste botteghe e fanno far il pan in casa. Ma gli uomini di qualche grado comperano il grano, e lo fanno macinar a certi mulini che sono diputati per li cittadini, pagando di macina due baiocchi per roglio. La maggior parte eziandio di questi mulini è dei tempii e di collegi, talmente che pochi ve ne sono dei cittadini. E la pigione è grande, cioè due ducati per mola.


Artigiani diversi, botteghe e piazze.

Le arti in questa città sono separate l'una dall'altra, e le piú nobili sono nel circuito e vicinanza del maggior tempio, come i notai, e di questi sono quasi ottanta botteghe, una parte delle quali è congiunta col muro del tempio, l'altra è al dirimpetto, e per ciascuna bottega sono due notai. Piú oltra verso ponente sono circa a trenta botteghe di librari, e verso mezzogiorno stanno i mercatanti delle scarpe, che sono circa a centocinquanta botteghe. Questi sogliono comperar le scarpe e i borzacchini dai calzolai in molta quantità, e gli vendono a minuto. Poco piú oltre di questo sono i calzolai che fanno le scarpe per li fanciulli, e di loro possono esser cinquanta botteghe. Dalla parte di levante, cioè dal tempio, hanno luogo quegli che vendono lavori di rame e di ottone. E dirimpetto la porta maggiore, verso il lato di ponente, sono li tricconi, cioè quelli che vendono le frutte, che fanno circa a cinquanta altre botteghe. Doppo questi sono i venditori delle cere, i quali fanno i piú bei lavori che io giamai vedessi a' miei giorni. Poi sono i merciai, ma di essi v'han poche botteghe. Dipoi i venditori di fiori, i quali eziandio vendono cedri e limoni, e a chi vede quei fiori, per la diversità loro, par vedere a mezzo aprile tutti i piú vaghi e fioriti prati che siano in molti paesi, overo un quadro dipinto di diversi colori: e sono circa a venti botteghe, percioché quelli che usano a ber vino vogliono aver sempre dei fiori nelle loro compagnie. Appresso a questi sono certi venditori di latte, i quali tengono le botteghe fornite di vasi di maiolica, e usano di comperare il latte da alcuni vaccari, che tengono le vacche per cotal mercatanzia. E ciascuna mattina questi vaccari mandano il latte in certi vasi di legno cinti di ferro, molto stretti dalla bocca e larghi dal fondo, e lo vendono sotto alle dette botteghe; e quello che avanza la sera o la mattina è comperato da quei botteghieri, e ne fanno butiro, e parte lasciano diventar agro, liquido o congelato, e lo vendono al popolo. E credo che nella città si venda ogni giorno venticinque botte di latte, infra agro e fresco. Oltra quei del latte sono quegli che vendono il bambagio, e giungono a trenta botteghe. Verso tramontana sono i mercatanti del canapo: questi vendono le funi, i capestri dei cavalli, lo spago e alcune cordicelle. Oltre a questi sono quelli che fanno i cinti di cuoio, le pantofole, e alcuni capestri da cavallo pur di cuoio, lavorati di seta. Piú oltre sono i guainari, i quali fanno guaine di spade e di coltelli, e fanno i pettorini dei cavalli. Doppo loro i venditori del sale e del gesso, qual comprano in grosso e lo vendono alla minuta. Poi quei che vendono i vasi, i quali sono belli e di perfetto colore, ma qual d'un color solo e qual di due, e v'ha circa a cento botteghe. Poi sono quelli che vendono i morsi, le briglie de' cavalli, le cinte, le selle e le staffe, e sono circa a ottanta botteghe.
Poi v'è il luogo dei facchini, che sono circa a trecento, e hanno questi un loro consule, o diciamo capo, il quale sortisce ogni settimana quelli i quali hanno a lavorar e servir alle occorrenzie di chi gli vuole in tutta la detta settimana. I danari che si danno per loro mercede si ripongono in una cassetta, la quale ha diverse chiavi serbate da diversi capi: e fornita la settimana si dividono quei danari fra coloro che vi si sono affaticati. E questi facchini tra loro s'amano come fratelli, percioché, quando alcun di essi muore e lascia qualche picciolo figliolino, eglino in commune fanno governar la donna, per insino che, volendo ella, la rimaritano. Dei fanciulli ve ne tengono amorevole e diligente cura, per insino a tanto che essi siano di età di mettergli a qualche arte. E quando alcuno si marita o gli nasce alcun figliuolo, egli fa un convito a tutta la compagnia, e ciascuno all'incontro gli fa certo presente; né alcuno può entrar nell'arte loro se prima non fa un convito a tutta la loro brigata, e se pur v'entrasse, lavorando egli non può aver se non la metà del guadagno che ha ciascuno. E sono privilegiati dai signori di non pagar pena di sorte niuna, né gabella, né pure cuocitura di pane ai fornai. E se alcuno commette qualche misfatto degno di morte, non è punito publicamente. Essi quando lavorano vestono di certo abito corto, e tutti d'un colore; ma quando non tocca loro di lavorare vanno vestiti comunque vogliono. Sono nel fine uomini onesti e di buona vita.
Oltre al luogo di questi facchini, è la piazza del capo dei consoli e giudici di tutti i venditori della robba che si mangia. Nel mezzo di detta piazza è un certo serraglio di canne, fatto in quadro, dove si vendono carote e navoni, le quai cose sono quivi in tanto pregio che altri non le possono comperar dagli ortolani fuor che alcuni uomini diputati, i quali pagano certo censo ai doganari. E ogni dí vi si veggono 500 some di carote e di navoni, e alle volte piú, e vendesene infinita quantità. Ma quantunque elle siano nel pregio ch'io dico, nondimeno si sogliono vender per vilissimo prezzo, cioè trenta o almeno venti libbre al baiocco; e la fava fresca alla stagione si vende a buonissimo mercato. D'intorno sono botteghe dove si vendono certi vermicelli, e altre dove si fanno alcune pallotte di carne pesta e fritta in olio con assai quantità di spezie, e ogni pallotta è grossa come un fico comun, e vendesi sei quattrini la libra; ma sono fatte di carne magra di bue.
Oltre a questa piazza è verso tramontana la piazza degli erbolai, i quali vendono cavoli, rape e altre erbe che si mangiano insieme con la carne, e sono circa a quaranta botteghe. V'è poi la piazza del fumo, cioè dove si vendono certi pani fritti in olio, simili a quel pan melato che si vende in Roma. E questi tengono nelle lor botteghe molti strumenti e molti garzoni, percioché lo fanno con molto ordine, e vi si vende ogni giorno gran quantità di detto pane, perché si usa a mangiarlo per digiunare, massimamente i dí delle feste e avanti a quelli del digiuno; e se lo mangiano in compagnia della carne arrosto o con melle, o con certa brutta minestra fatta di carne pesta, la qual doppo cotta pestano un'altra fiata e ne fanno la detta minestra liquida, e la tingono con terra rossa. L'arrosto quivi non si cuoce nello schidione, ma fanno due forni l'uno sopra l'altro e pongono fuoco in quel disotto, e come quel disopra è ben riscaldato vi pongono dentro i castrati interi, per certa buca fatta dal disopra, perché il fuoco non offenda loro la mano. La carne in cotal modo molto bene si cuoce, e diviene colorita, e ha un delicato sapore, percioché non le può giungere il fumo, né ella sente soverchie fiamme, ma si cuoce con temperato calore per lo spazio di tutta la notte. La mattina poi l'incominciano a vendere, e tra carne e quel pane che abbiam detto si vende ciascun giorno per piú di 200 ducati, percioché sono di questi tali quindici botteghe, che altro esercizio tutto dí non fanno. Vendono anco certa carne fritta e pesci fritti, e certa altra sorte di pane sottile e fatto come una lasagna, ma piú grosso, e l'impastano con butiro, e similmente con butiro e mele lo mangiano. Soglionvisi vendere eziandio piedi cotti di bestie. E di cotai cosaccie usano la mattina per tempo cibarsi i lavoratori dei terreni nelle propie botteghe, e poscia vanno a' loro lavori.
Doppo questi sono quelli che vendono olio, butiro salato, mele, cacio vecchio, olive, limoni, carote e cappari conci, e tengono le botteghe fornite di vasi di maiolica, e piú vagliono i fornimenti che la mercatanzia. E vendonsi i vasi di butiro e mele come si fa all'incanto, e quegli che gl'incantano sono certi facchini a ciò deputati, i quali misurano l'olio quando ei si vende in quantità. I detti vasi sono ciascuno di centocinquanta libbre, percioché l'obligo dei vasari è di fargli di sí fatta misura. Gli comperano i pastori della città e gli fanno empiere, e poi quivi gli rivendono. Appresso questi hanno luogo i beccai, che sono circa a quaranta botteghe alte e fatte come sono quelle dell'altre arti, i quali tagliano dentro le carni e le pesano con le bilancie. E nella beccaria non si ammazzano le bestie, ma in un macello che è a canto il fiume, e ivi le scorticano, e fannole portare alle loro botteghe da certi facchini diputati al detto macello; ma prima che ve le facciano recare bisogna loro appresentarle dinanzi al capo dei consuli, il qual le fa vedere e dà a quelli una poliza, nella quale è scritto il prezzo che si ha a vender la carne. E questa poliza è tenuta dal beccaio appresso la carne, acciò che ciascuno la possa vedere e leggere parimente.
Oltre ai beccai è la piazza nella quale si vendono i panni di lana grossi del paese, e sono circa a cento botteghe. E se alcuno porta a vendere qualche panno, bisogna che lo dia a uno incantatore, il quale se lo reca in spalla e va gridando il prezzo di bottega in bottega, e sono gl'incantatori sessanta. Cominciasi a far l'incanto doppo mezzogiorno fino alla sera tardi, e si paga all'incantatore due baiochi per ducato, e i mercatanti di questo esercizio fanno gran faccende. Sono dipoi quegli che puliscono l'armi, come sono spade, pugnali, partigiane e tai cose; e v'ha di coloro che le puliscono e insieme vendono. Poi sono i pescatori, i quali pescano nel fiume della città e in quello di fuori, e vendono per vil prezzo molti buoni e grossi pesci, il che è tre quattrini la libbra. Si suole pigliar gran quantità d'un pesce che in Roma si chiama laccia, e ve ne incominciano a pigliar dal principio d'ottobre per insino all'aprile, come particolarmente si dirà dove ragionaremo dei fiumi. Doppo questi sono quegli che fanno le gabbie per le galline, e fannole di canne. Sonvi quaranta botteghe, percioché ogni cittadino ve ne tiene gran numero per ingrassare, e per cagion di nettezza non le lasciano andar per le stanze, ma tengonle in queste gabbie. Piú oltre sono i saponari: questi vendono il sapone liquido, e sono poche botteghe insieme, perché le sono separate per le contrade. E il detto sapone non si fa nella città ma nei monti vicini, e i montanari e mulattieri ve gli portano e vendongli a' padroni di queste botteghe. Piú oltre sono quegli che vendono la farina, ma di loro eziandio sono poche botteghe insieme, perché ve ne sono per tutte le contrade. Piú oltre sono quelli che vendono il grano e i legumi per seminare: ve ne vendono bene per lo cibo, ma picciola quantità, e niun cittadino vende il suo. In questa piazza sono i portatori del detto grano in gran copia, e hanno muli e cavalli con li bastili. Portano di consueto un ruglio e mezzo su una bestia, ma in tre sacchi l'un sopra l'altro, e sono tenuti a misurar detto grano. Poi sono quelli che vendono la paglia, e sono a circa dieci botteghe.
Poi è la piazza dove si vende il filato e il lino, e dove si pettina detto lino. È questa piazza fatta a modo d'una gran casa, e d'intorno vi sono quattro loggie, in una delle quali siedono i mercatanti delle tele e certi ministri che pesano il detto filato; nell'altre due stanno le donne che vendono esso filato, e ivi se ne truova in gran quantità. Questo ancora si vende per gl'incantatori che a torno lo portano; e si comincia usar questo mercato da mezzogiorno e dura fino al vespro, dove se ne vende in grandissima quantità. Nel mezzo della detta piazza sono piantati molti piè di moro, per ombrarne il luogo. E alle volte uno, che per cagione di sollazzo va a veder detto mercato, a gran fatica può uscir fuori, per la moltitudine delle donne che vi sono, le quali sovente vengono a parole, e da queste alle pugna, dicendosi i maggior vituperi del mondo, di maniera che fanno ridere i circonstanti.
Ora, ritornando alla parte di ponente, cioè di verso il tempio fin alla porta per cui si va a Mecnase, oltre alla piazza del fumo, nella via diritta, sono quei che fanno le secchie di cuoio che s'adoperano nelle case dove sono pozzi, e sono circa a quattordici botteghe. Dipoi sono quelli che fanno cotai cose dove si pone la farina e il grano, e sono circa a trenta botteghe. Dipoi sono i ciabattini e alcuni calzolai, che fanno scarpe cotale alla grossa per li contadini e per lo popolo minuto, e sono circa a centocinquanta botteghe. Dipoi sono quelli che fanno le targhe e gli scudi di cuoio, secondo il costume africano e come se ne vede alcuno nell'Europa. Sono poi i lavandari, che sono alcuni uomini di bassa condizione, i quali tengono botteghe dove sono fitti certi vasi grandi come un tinaccio. E quegli che non hanno fantesche in casa danno le lor camicie, le lenzuola e cotai cose a lavare a' detti uomini, i quali gli lavano molto diligentemente e gli asciugano distesi sopra le funi come si fa in Italia, poi gli piegano con un bel modo, e fannogli venir cotanto puliti e bianchi che appena colui di cui sono gli riconosce; di questi sono circa a venti botteghe, ma fra le contrade e alcune picciole piazze ve ne sono piú di dugento. Dapoi sono quegli che fanno i legni delle selle dei cavalli, e sono molte botteghe dalla parte che guarda verso oriente, dove è il collegio del re Abuhinan. Poi sono quelli che addornano le staffe, gli sproni e i ferri delle briglie, e sono circa a quaranta botteghe; e fanno lavori eccellentissimi, e forse alcuno di voi ve ne ha veduto in Italia o in qualche altro paese di cristiani. Poi sono alcuni fabbri che fanno solamente staffe, briglie e ferri per fornimenti de' cavalli. Poi sono quelli che fanno selle di cuoio, e usano di far tre coperte per sella, l'una sopra l'altra, piú fina quella di mezzo e l'ultima di minor bellezza, e tutte di cordovano. Questi lavori ancora sono eccellenti e mirabili, come se ne può veder per l'Italia; e sono circa a cento botteghe. Poi sono quelli che fanno le lancie, e hanno le lor botteghe lunghe tanto che ve ne possono far di grandissime.
Piú oltre c'è la rocca, la quale ha un bellissimo corridore: e questo da una parte si estende fino alla porta di occidente, dall'altra parte rincontra un grandissimo palazzo, dove alloggia o sorella o parente del re. Ma è da sapere che 'l principio di questa piazza incomincia dal tempio maggiore, e io, per non romper l'ordine delle piazze, ho detto solamente di quelle che sono d'intorno, lasciando ultima la piazza dei mercatanti.


Piazza dei mercatanti.

Questa piazza è a guisa d'una picciola città, la quale ha d'intorno le sue mura, che contengono nel lor giro dodici porte, e ciascuna di queste porte è attraversata da una catena, di modo che non vi possono entrar né cavalli né altre bestie. La piazza è divisa come da quindici contrade. Due sono per li calzolai che fanno le scarpe ai gentiluomini, né ve ne possono portar di quella sorte e bellezza né artigiani, né soldati, né cortigiano alcuno. Altre due sono tenute dai setaiuoli: una parte è di quelli che vendono i cordoni per li cavalli, fiocchi e altri ornamenti, e sono circa a cinquanta botteghe; l'altra è di coloro che vendono la seta tinta, per lavori di camicie, di origlieri e di tai cose, e sono circa altretante botteghe. Appresso questi sono alcuni che fanno certe cintole da donne di lana, e sono grosse e brutte; alcuni altri le fanno di seta, ma sono della medesima bruttezza, percioché esse sono fatte in treccia e grosse quanto due dita di uomo, talmente che potrebbono di leggiero tener legata una barca. Doppo queste sono altre due contrade dove stanno i mercatanti de' panni di lana, cioè di quelli che vengono d'Europa, e sono questi mercatanti tutti granatini; quivi ancora si vendono panni di seta, berrette e sete crude. Piú oltre sono quelli che fanno i materazzi e i guanciali per la state e certi drappetti di cuoio. Appresso è il luogo dei gabellieri, percioché similmente i detti panni si vendono a modo d'incanto, e quei che hanno cura di ciò gli portano prima a sigillare a' detti gabellieri, e poi li vanno incantando fra li detti mercatanti; e sono circa sessanta incantatori, e si paga per ogni panno un baiocco. Piú oltre sono tre contrade dove stanno i sarti, doppo i quali v'è una contrada di alcuni che fanno certe treccie nel capo dei panni che si mettono in testa. Doppo sono due altre contrade, dove hanno luogo i mercatanti delle tele e quelli che vendono camicie e drappi da femine: e questi sono i piú ricchi mercatanti della città, perché fanno essi molte piú faccende che insieme tutti gli altri. Piú oltre v'è un'altra contrada, nella quale si fanno fornimenti e fiocchi di barnussi. Poi v'è una contrada dove si vendono alcune vesti, fatte del panno che vien pur d'Europa: e ogni sera si usa a far l'incanto de' detti panni, cioè quelli che portano i cittadini per vender quando diventano vecchi, over per qualche altro suo bisogno. Ultimamente ve n'è una dove si vendono camicie, tovaglie, sciugatoi e cotai cose vecchie di tela, e appresso questi sono certe loggiette, dove s'incantano i tappeti e le coperte dei letti.


Discorso sopra il nome delle contrade dette Caisaria, denominate dal nome di Cesar.

Sono tutte queste contrade appellate insieme Caisaria, vocabolo antico e dirivato da Caisar, che vuol dir Cesare, che fu il maggior signore che fusse a que' tempi nell'Europa. Percioché tutte le città che sono nella riviera di Mauritania furono signoreggiate da' Romani, e poi da' Gotti, e in tutte v'era una di queste piazze, le quali avevano un tal nome. Rendendo gli istorici africani la cagion di ciò, dicono che i ministri dei Romani e di Gotti tenevano di qua e di là mescolatamente per le città fondachi e magazzini, dove serbavano i tributi e i censi che ricevevano dalle città, i quali molte volte venivano saccheggiati dal popolo. Per il che uno imperadore si pose in animo di far un luogo simile a una picciola città, nel quale si ragunassero tutti i mercatanti di qualche riputazione e tenessinvi le loro merci, e insieme i ministri dell'entrate dei suoi tributi vi serbassero tutto quello che riscotevano, rendendosi certi che, se i cittadini volessero difender e conservar le loro robbe, il medesimo lor converrebbe far di quelle dell'imperio. Percioché non potrebbono essi consentire al sacco, che ciò non passasse al danno loro, come s'è veduto molte volte nell'Italia, che i soldati sono per favor di una parte entrati in una città e, saccheggiando la parte contraria, quando non bastarono loro la facultà dei nimici, spogliarono dipoi le case degli amici.


Speziali e altri artefici.

Vicino alla detta cittadella, dalla parte di tramontana, sono gli speziali, i quali hanno una contrada diritta dove sono circa a centocinquanta botteghe. E la detta contrada si serra da' due lati con due belle porte, e non men forti che larghe, e gli speziali tengono a loro salario guardiani, che la notte vanno discorrendo d'intorno con lanterne, con cani e con arme. E quivi si vendono cosí le cose di speziaria come di medicina, ma essi non sanno fare né sciloppi né cere né lattovari, percioché i medici fanno questi ufficii nelle case loro, poi ne gli mandano alle lor botteghe, tenendovi garzoni i quali le distribuiscono secondo le ricette e gli ordini dei medici. E la maggior parte di queste botteghe sono congiunte insieme con quelle degli speziali, e il piú del volgo non conosce né medico né medicina.
Hanno i detti speziali le botteghe alte e molto ornate, con bellissimi tetti e armai, né in tutto il mondo penso io che si vegga una piazza di speziali somigliante a questa. Egli è vero che in Tauris, città di Persia, ho veduto una grandissima piazza di questi, ma le botteghe sono certi portichi un poco scuri, nondimeno leggiadramente edificate, e i detti portichi sono fatti sopra colonne di marmo. Io lodo molto piú quella di Fez per la commodità del lume, percioché quella di Tauris è alquanto oscura.
Oltra gli speziali sono alcuni che fanno pettini di bosso e d'altro legno, de' quali abbiamo detto. E verso levante, a canto a detti speziali, sono quelli che lavorano gli aghi, e sono circa a cinquanta botteghe. E oltre sono le botteghe dei torniatori, ma poche, perché sono separate e sparse per diverse altre arti. Dipoi sono molti altri farinai, saponari e scopari, che confinano con la piazza del filato; ma sono circa venti, percioché gli altri stanno altrove, come vi si dirà. Fra quelli che vendono il bambagio e li treccoli sono quegli che fanno fornimenti di letti e padiglioni. Doppo sono quegli che vendono uccelli, sí da mangiare come da cantare, ma sono poche botteghe, e quel luogo si dice la piazza degli uccellatori. Ora, nella piú parte di queste botteghe, si vendono funi di canapo e cordicine. Doppo sono quegli che fanno certe pianelle, che portano i gentiluomini quando le strade sono fangose, ma fatte invero molto gentilmente, con lavori, e ben ferrate, e con certe belle coperte di cuoio cucite con seta; e il piú misero gentiluomo non può portarvene che costi lor manco d'un ducato; ve ne sono di quelle che vagliono dieci e venticinque ducati: queste sono fatte communemente di legno di moro e nero e bianco; ve ne sono di noci, di melangole e del legno di giuggiole, e queste due ultime sono piú gentili e piú pulite, ma quelle del moro durano piú. Piú oltre sono quelli che fanno le balestre, e sono alcuni Mori di Spagna; le loro botteghe non passano dieci.
Sono eziandio appresso questi cinquanta altre botteghe di scopari, i quali fanno le scope di certe palme salvatiche, come sono quelle che vengono a Roma di Sicilia. Gli scopari portano queste loro scope per la città in certe grandi sporte, e le vendono per semola, per cenere e per qualche scarpe rotte. La semola si vende ai vaccari, e la cenere a quelli che biancheggiano il filato; i ciabattini sogliono comperare le scarpe rotte. Piú oltre sono quei fabbri che fanno solamente i chiovi. Doppo sono alcuni che fanno vasi di legno grandi come un barile, ma sono fatti a guisa di secchie; fanno ancora le misure del grano, e il consule le giusta pigliando un quattrino di ciascuna. Doppo sono i venditori di lana, e comperano le pelli dai beccai, tenendo garzoni che le lavano e, cavandone la lana, acconciano i cuoi, ma non d'altra sorte che di montoni. I cordovani e le pelli dei buoi s'acconciano piú oltre, percioché questa è un'arte separata. Doppo sono quelli che fanno le sporte, e certi legamenti con che si legano i cavalli ne' piedi, sí come s'usa nell'Africa; e questi confinano con i lavoratori dei rami. Appresso quelli che fanno le misure sono coloro che fanno pettini per lo lino e lana. Piú oltre c'è una lunga piazza di diversi mistieri, tra' quali vi sono alcuni che limano i lavori di ferro, come sono le staffe e gli sproni, percioché i fabbri non sogliono limare. Doppo sono i maestri di lavorar legni, ma certe cose grosse, come i timoni e gli aratri d'arar la terra, le ruote dei molini e gli altri necessarii strumenti. Doppo sono i tintori, i quai tutti hanno le lor botteghe sopra il fiume, e una bellissima fontana dove lavano i lavori di seta. Drieto questi sono quelli che fanno i bastili, dove è una larga piazza nella quale sono piantati alcuni alberi di moro: e cotal piazza nella state è la piú fresca e la piú vaga di tutte l'altre. Doppo sono i maliscalchi, che ferrano i cavalli e l'altre bestie; e piú oltre quelli che firmano alle balestre gli archi d'acciaio. Oltre di questi vi sono quegli che fanno i ferri dai cavalli, doppo i quali sono quelli che lustrano le tele.
E quivi finiscono le piazze d'una parte della città, cioè di quella ch'è dalla parte d'occidente, la qual anticamente fu una città da per sé (come s'è detto di sopra) e fu fabricata doppo l'altra, ch'è dall'altro lato d'oriente.


Seconda parte della città.

Eziandio la città ch'è verso levante è civile, e ha bellissimi palazzi e tempii e collegii e case. Ma non è nel vero cosí copiosa e abbondevole di diverse arti come l'altra, percioché non vi sono né mercatanti né sarti né calzolai, se non di panni e lavori grossi. V'è una picciola piazza di speziali, nella quale non sono piú che trenta botteghe. E verso le mura della città sono quelli che fanno i mattoni, e le fornaci dei scodellai; e piú sotto di questi v'è una piazza grande, dove si vendono i vasi bianchi, cioè senza vetro, come sono catini, scodelle, pentole e tai cose. Piú oltre è un'altra piazza dove sono i granai, ne' quali si ripone il grano; un'altra dirimpetto alla porta del tempio maggiore, che ha tutto il suolo di mattoni, dove sono botteghe di diverse arti e mestieri. E queste sono le piazze ordinate per le dette arti. V'ha poscia quelle che sono disordinate e separate per la città, eccetto i panni e gli speziali, che non si truovano se non in certi luoghi deputati.
Vi sono ancora cinquecento e venti case di tessitori di tele, e dette case sono fatte a guisa di gran palazzi di piú solai, con sale molto capevoli, e per ciascuna sala v'è gran quantità di telari, e i padroni delle dette stanze non tengono instrumento alcuno, ma i maestri sono quegli che tengono gli strumenti, e pagano solamente le pigioni delle stanze. E questa è la maggior arte che sia nella città: dicesi che in essa vi si contengono ventimila uomini, e altretanti sono nell'esercizio di molini. Sono similmente centocinquanta case dei biancheggiatori di filato, ed è la piú parte di queste edificata appresso il fiume, e sono benissimo fornite di caldaie e di vasi murati, per far bollir il filato e per l'altre occorrenzie che vi vanno.
E per la città sono certi grandi alberghi dove si segano i legni di varie sorti, e questo ufficio si fa da alcuni cristiani ischiavi: e dei danari che essi avanzano i loro padroni danno a quelli il vivere, né gli lassano prendere riposo se non la metà del venere, che è dal mezzogiorno insino a sera, e circa a otto giorni sparsi in diversi tempi dell'anno, ne' quali sono le feste dei Mori. Sonvi ancora certi chiassi publici, dove le meretrici attendono per picciolo prezzo, e queste sono favoreggiate o dal barigello o dal governator della città. Sono certi uomini i quali, senza offender la corte, facendo l'ufficio di tabacchino, tengono femine e vino a prezzo nelle lor case, e ciascuno se ne può servir sicuramente.
Sonvi seicento capi di acqua, cioè fonti naturali, i quali sono cinti di muri e di porte che si tengono serrate, perché ciascuno si divide in molte parti e ciascuna ne va sotto terra, passando per canali alle case, ai tempii e ai collegii e all'osterie. E quest'acqua è molto piú in pregio che quella del fiume, percioché alle volte manca, massimamente nella state. A questo s'aggiugne che, volendosi nettare i canali, è di bisogno che 'l corso del fiume si faccia passar di fuori della città; onde tutti si sogliono accommodar dell'acqua dei detti fonti. E se bene i gentiluomini la state hanno nelle case loro acqua del fiume, nondimeno ve ne fanno recar di quella dei fonti, per esser ella e piú fresca e piú dolce; ma nel verno fanno il contrario. E questi fonti sono per la maggior parte dal lato di ponente e di mezzogiorno, percioché la parte che risponde verso tramontana è tutta montagna, che si dimanda tevertino, e ivi sono certe fosse grandi e profonde; nelle quali si serba il grano per molti anni: e tale ve né che piú di dugento moggia ne cape. E gli abitatori di quel luogo, che sono uomini di volgo, vivono dell'utile che essi cavano della pigione delle dette, ch'è un moggio per ogni cento in capo dell'anno.
Nella parte di mezzogiorno, la quale è quasi la metà disabitata, sono molti giardini ripieni di buonissimi e diversi frutti, sí come sono melangoli, limoni, cedri, e altri fiori gentili, fra' quali sono gelsomini, rose damaschine e ginestro, recato quivi di Europa e a' Mori molto caro. E nei detti giardini sono bellissimi alberghi, fontane e conserve, e queste sono cinte da gelsomini, da rose o da melangoli. E nel tempo della primavera l'uomo che s'avicina a questi giardini sente da per tutto uscir un delicatissimo e soavissimo odore, né meno ha poi di pascer gli occhi della bellezza e vaghezza loro, che invero ciascuno di tai giardini assomiglia al paradiso terrestre: onde i gentiluomini vi sogliono abitar dal principio d'aprile per insino al fine di settembre.
Nella parte di occidente, cioè dal lato che confina con la città reale, è la rocca che fu edificata nel tempo dei re di Luntuna, la quale di grandezza si può agguagliare a una città. E questa fu anticamente seggio dei governatori e signori di Fez, cioè avanti che ella fusse città reale, percioché, poscia che dai re della casa di Marin fu la nuova Fez edificata, questa fu lasciata per abitazion solamente del governatore. Nella rocca è un bel tempio, fabricato ne' tempi che ella molto era abitata: a questi dí, i palazzi che v'erano sono stati tutti spianati e del terreno s'è fatto giardini. Ve n'è rimaso uno, dove abita il detto governatore, e altri luoghi per la sua famiglia; e sonvi molti luoghi e seggi, dove esso governatore suole dar audienza ai litigi e far ragione. V'è eziandio una prigione, fatta a somiglianza d'una cantina a volti e sostenuta da molte colonne, la quale è tanto larga e lunga che vi posson capire tremila persone: né v'è separata o secreta stanza alcuna, perché in Fez non s'usa di tenere alcuno in prigione segreta. Per la detta rocca passa un fiume, alle bisogne e a' commodi di questo governatore.


Magistrati e modi di governare e d'amministrar giustizia, e costume di vestire.

Nella città non sono se non alcuni piccioli uffici e magistrati, i quali hanno carico d'amministrar la ragione. V'è il governatore, che è sopra le cause civili e le criminali; un giudice, il quale è preposto a ragion canonica, cioè alle leggi tratte dai libri maumettani; e un altro giudice che è quasi luogotenente del primiero, e attende alle cose del matrimonio e repudio, ed esaminar testimoni, e anco universalmente rende ragione. È poscia l'avvocato al quale si consulta della legge e a cui si fanno l'appellazioni dei giudici, o quando essi s'ingannano, o quando danno la sentenza per autorità di qualche meno eccellente dottore. Il governatore gode gran quantità di danari delle condennagioni che in diversi tempi si fanno; e quasi tutta la somma della giustizia che a un reo si suol dare, è l'esser frustato nella presenza del governatore, e gli si danno cento, dugento e piú scopature. Poi al frustato il boia mette una catena al collo e in tal modo lo conduce per tutta la città, ignudo tutto eccetto le parti vergognose, che gli ricuopre con una braca; e il barigello l'accompagna, gridando sempre il boia e publicando il male ch'egli ha fatto: infine egli è de' suoi panni rivestito e ritornato in prigione. E alle volte aviene che se ne menano molti incatenati insieme. Il governatore ha per qualunque reo un ducato e un quarto, cosí di ciascuno che entra nelle prigioni ha certo censo, il quale gli è dato partitamente da certi mercatanti e artigiani a questo deputati. Ma fra le altre utilità ha un monte, dal quale cava di rendita settemila ducati l'anno. Vero è che egli è obligato di dare trecento uomini a cavallo al re ne' tempi di guerra, i quali, per insino che dura la guerra, sono da lui pagati.
I giudici di ragion canonica né salario né premio hanno, percioché è vietato nella legge di Maumetto che a un giudice, per tale ufficio, si dia pagamento alcuno; ma essi vivono di altri salarii, com'è o di letture o di esser sacerdote di qualche tempio. Similmente sono gli avvocati e procuratori, persone idiote e volgari. Hanno i giudici certo luogo, dove fanno incarcerare i debitori e altri per cose leggieri e di poco momento. E sono nella città quattro barigelli e non piú, i quali fanno le lor cerche dalle ventiquattr'ore per insino alle due di notte, né hanno essi ancora altro salario che certo censo da coloro che prendono, che è della retenzione e di certa piccola pena che è loro applicata. Ma tutti possono far taverne e ufficio di tabacchini e ruffiani. Il governatore della città non tiene né giudice né notaio, ma dà la sentenzia a voce come gli pare.
Né v'è piú che uno che conduca la dogana e la gabella, il quale paga ogni dí alla camera del re trenta ducati, e tiene per ciascuna porta guardiani e notai. E tutte le cose di picciol pregio pagano il suo diritto alla porta; l'altre si conducono a dogana, accompagnate dalla porta a quella da uno de' guardiani, e i guardiani e i notai, secondo la quantità, hanno certo danaro diputato. E alle volte detti guardiani vanno fuori della città per iscontrare i mulattieri, acciò che essi non possino alcuna cosa ascondere, e se alcuna ve ne ascondono, pagano poscia doppia gabella. Il pagamento ordinario sono due ducati per cento, ma delle corniole, che vi se ne portano molte, pagasi il quarto di tutto il prezzo; delle legna, del grano, dei buoi e delle galline niuna cosa si paga. Né alla porta si suol pagar gabella dei castroni che vi conducono, ma al macello due baiocchi per castrone e uno al governatore, ch'è il capo dei consuli, il quale tiene una corte di dodici sbirri e cavalca spesse fiate d'intorno la città per vedere il pane, e prova li pesi dei beccai e le cose che per lei si vendono, e fa pesare il pane, e se non vi truova il debito peso lo fa spezzare in molti pezzi, e dà a colui che lo vende tante pugne sul collo che lo lascia tutto gonfio e pesto. Similmente, se truova il pane piú leggiero, lo fa frustare publicamente per la città. Questo ufficio concede il re a' gentiluomini che gliel dimandano, ma ne' tempi adietro si soleva dar solamente a uomini dotti e di buonissima fama. Al presente i signori lo danno a uomini privati e ignoranti.
Gli abitatori della città, cioè i nobili, sono uomini veramente civili, e vestono il verno di panni di lana forestieri. L'abito è un saione sopra la camicia, con mezze maniche e molto strette, sopra il quale portano alcune robbe larghe e cucite dinanzi, e sopra quelle i loro barnussi. In testa usano semplici berrette, come alcune che si portano in Italia di notte, ma senza orecchie, e sopra quelle pongono certe tele aggroppate con due involgiture sul capo e intorno la barba; né sogliono portar calze né mezze calze, ma o brache o braghese di tela, eccetto il verno che, volendo cavalcar, si calzano i borzacchini. I popolari portano saii e barnussi senza quella robba ho detto di sopra, né in capo portano altro che una di quelle certe berrette di niun prezzo. I dottori e i gentiluomini di qualche età usano di portar certe veste con le maniche larghe, come portano i gentiluomini di Vinegia che tengono piú onorato ufficio. In fine quei che sono di bassa condizione vestono di alcuni panni bianchi di lana grossa del paese, e i barnussi sono della medesima maniera. Le donne vanno assai ben vestite, ma nel tempo caldo portano solamente la camicia, e d'intorno cingono la fronte con alcune cintole piú tosto brutte che no. Il verno usano certe gonne con le maniche larghe, cucite dinanzi come quelle degli uomini; ma quando escono fuori portano braghese lunghe tanto che cuoprono tutte le loro gambe, e un drappo al costume di Soria, che cuopre loro il capo e tutta la persona. Il viso similmente cuoprono con un drappo di tela, in tanto che solamente lasciano scoperti gli occhi. Portano eziandio negli orecchi certe grandi anella d'oro con bellissime gioie, e quelle che non sono di condizione ve ne portano d'argento e senza gioie. Al finir delle braccia portano ancora manili pur d'oro, uno per braccio, i quali manili possono pesar communemente cento ducati; le ignobili se gli fanno d'argento, e di tali anco ve ne portano alle gambe.


Costume tenuto in mangiare.

Circa al mangiare usasi fra il volgo di pigliar carne fresca due dí della settimana; ma i gentiluomini ve ne mangiano ogni dí, secondo l'appetito loro, e usano tre pasti il giorno. Quel della mattina è molto leggiero, percioché mangiano pane e frutti, e certe minestre fatte di farina e di formento, piú tosto liquide che altrimenti. E il verno, in vece di questa minestra, si tolgono farro liquido cotto con carne salata. Nel mezzogiorno mangiano pure cose leggieri, come pane, carne salata e cacio, o olive, ma nella state questo secondo pasto è buonissimo. La notte poi mangiano similmente un pasto che è piú leggiero: questo è pane con melloni o con uva o con latte. Ma il verno mangiano carne lessa, insieme con quella vivanda che è detta cuscusu, la quale si fa di pasta come i coriandoli, e lo cuoceno in certe pignatte forate, per ricevere il fumo d'altre pignatte; dipoi vi mescolano dentro butiro e lo bagnano di brodo. Né usano di mangiare arrosto. E tale è il vivere del volgo, sí come d'artigiani e di alcuni poveri cittadini. Gli uomini di conto, come sono gentiluomini attempati, mercatanti e cortigiani, vivono assai meglio e piú delicatamente.
Ma a comparazione del vivere che si usa fra' nobili nella Europa, il viver degli Africani è veramente misero e vile, non per la poca quantità delle vivande, ma per lo costume rozzo e disordinato che essi tengono nel mangiare, il quale è in terra sopra certe tavole basse, senza mantile o drappo di niuna sorte, e non si adopera altro strumento che le mani. E quando mangiano il cuscusu, tutti i convitati si servono d'un piatto solo, e lo mangiano senza cucchiaio; la minestra e la carne mettono insieme in un catino, e ciascuno piglia quella parte di carne che gli piace e se la reca avanti senza tagliere, e non vi adoperando coltello se la pone a' denti e ve ne squarcia quanto e' può, il rimanente tenendo in mano. E mangiano con molta fretta, né alcun beve, se non quando è molto ben sazio di mangiare: allora ciascuno si bee una tazza d'acqua grande come è un boccale. Questo è l'uso commune; è vero che qualche dottore vive con maggior pulitezza. Ma, per conchiudere, il piú vil gentiluomo d'Italia vive piú suntuosamente che 'l maggior signor d'Africa.


Costume servato nei maritaggi.

Circa a' matrimonii s'osserva una tale usanza, la quale è che, quando alcuno vuol prender moglie, tosto che il padre gli ha promessa la figlia, se colui ha padre, esso raguna e invita gli amici alla chiesa, e seco mena due notai i quali fanno i patti e le condizioni delle doti, essendovi presente il marito e la moglie. E i mediocri cittadini usano di dar trenta ducati in danari contanti, una serva negra di prezzo di quindici ducati, una pezza di certo panno fatto di seta e di lino di diversi colori a forma d'uno iscacchiere, e certi altri pannicelli di seta che si portano in testa. Costumano eziandio di presentare un paio di scarpe benissimo lavorate, e ancora due paia di zoccoli lavorati gentilmente, molti lavori d'argento e molte altre minutezze, come sono pettini, profumi e certi belli ventagli. Poi che sono scritti li patti, e che l'una parte e l'altra è contenta, lo sposo conduce tutti quegli che si sono trovati presenti a desinar seco, e dà loro di quel fritto accompagnato con arrosto e mele che abbiam ditto di sopra.
Fa ancora il padre della sposa il suo convito e v'invita gli amici suoi; e se il detto padre vuole ornar la figliuola di qualche vestimento, lo può far per sua gentilezza, percioché, oltre ai danari che dà al marito, non è tenuto ad altra ispesa: ma gli è ben di vergogna se altro non v'aggiugne. E oggidí, oltre ai trenta ducati che si danno per valor della dote, suole il padre spendere (o chi ha cura di fare il maritaggio) dugento e trecento ducati in fornir la sposa sí di veste come di fornimenti di casa; ma non danno né casa né vigna né possessione. Il consueto è di far tre gonne di panno fino, tre di seta o di taffettà o di raso o di damasco, molte camicie e molte lenzuola lavorate, con certe liste di seta per ciascun lato, capezzali pur lavorati e origlieri. Sogliono dare eziandio otto materazzi: quattro ve ne tengono per ornamento sopra gli armai che sono dai canti delle camere; due ne usano per letto, e questi sono di lana grossa; e due fatti di cuoio tengono pur per ornamento delle dette camere. Danno similmente un tappeto peloso di circa a venti braccia e tre coperte, coperte da una parte di panno e di tela, dall'altra piene di lana: e d'una di quelle vestono il letto, ponendovi una parte disopra e l'altra disotto, percioché le dette coperte sono lunghe poco meno d'otto braccia; dandone, oltre a queste, altre tre di seta con bei lavori da un lato, e dall'altro di tela piene di bambagio. Ve ne danno un'altra bianca piena pur di bambagio, ma leggiera, per valersene la state; un panno picciolo di lana fina e diviso in picciole parti, lavorato a fiamme e ad altra sorte di lavori, e fornito con certi merli di coiame dorati, sopra i quali vi pendono fiocchi di seta di diversi colori, e sopra ogni fiocco v'ha un bottone di seta per attaccare il detto panno sopra a' muri. Questa è la somma di quello che si aggiugne alla dote, e alle volte maggiore, onde molti gentiluomini sovente per tal cagione si sono impoveriti. Alcuni Italiani stimano che in Africa gli uomini usino di dare la dote alle femine, ma essi in vero poco ne sanno.
Quando lo sposo è per menar la moglie a casa, la fa entrar primieramente in un tabernacolo di legno, fatto in otto faccie e coperto di belli panni di seta e anco di broccato, e la portano i facchini sul capo, accompagnata dagli amici e del padre e del marito, con pifferi e molte trombe e tamburi, e torchi in gran numero: e gli amici del marito con i suoi torchi le vanno avanti e quei del padre la seguono, e usano di tenere il cammino per la piazza maggiore, vicino al tempio. Poi che sono giunti alla piazza, lo sposo saluta il padre e i parenti della nuova sposa, e senza aspettare altrimenti lei se ne va alla casa sua e l'attende nella camera. Il padre, il fratello e il zio l'accompagnano insino alla porta della detta camera, e tutti insieme la presentano nelle mani della madre del marito. E tosto ch'ella è entrata in essa camera, il marito pone il suo piè sopra quello della moglie, il che fatto ambi subito vi si serrano dentro. Intanto quei di casa apprestano il convito, e una femina riman fuori dell'uscio, per insino a tanto che egli, avendo svirginata la sposa, porge a colei un drappo tinto e molle di sangue. Allora costei se ne va tra i convitati col drappo in mano, gridando e faccendo intender con alta voce che la giovane era vergine. A questa le parenti del marito danno da mangiare, dipoi ella, accompagnata da altre femine, se ne va a casa della madre della sposa, la quale similmente l'onora e le dà da mangiare. E se per aventura la sposa non fusse trovata vergine, il marito la rende alla madre e al padre, ed è loro grandissima vergogna, senza che gli invitati tutti senza mangiare si dipartono.
I conviti sogliono esser tre: il primo la notte in cui si mena la donna, il secondo la sera poi che s'è menata (e in questa non s'invitano altri che donne); il terzo convito si fa il settimo giorno dapoi che si è menata la sposa, e in questo vi viene il padre, la madre e tutti i parenti della sposa. Il padre costuma quel giorno mandar non piccioli presenti a casa dello sposo, quali sono confetti e castrati interi. E tosto che 'l marito esce di casa, che è in capo di sette giorni, suole egli comperar certa quantità di pesce e lo reca a casa; dipoi fa che la madre o altra femina lo getta sopra e' piedi della noviza: hanno ciò per buono augurio, ed è antica usanza. Soglionsi fare oltr'a questi eziandio due conviti in casa del padre, l'uno il dí avanti nel quale il detto è per mandar la figlia a marito, onde esso, invitando l'amiche, fa che tutta quella notte si festeggia e danza; il dí seguente vengono le donne che sogliono ornar le spose, e le acconciano i capegli, gli tingono le guancie di rosso e le mani e i piedi di nero, con certi belli lavori, ma queste tinture poco durano: e quel giorno si fa il secondo convito, e mettono la sposa sopra un palco, affine che ella venga da tutti veduta; allora si dà mangiare alle dette maestre che hanno ornato la sposa. E quando la moglie è giunta a casa, tutti i cari amici del marito le mandano certi vasi grandi, pieni di pane fritto in olio e di altretanto melato, e anco castroni arrosti pure interi: e lo sposo, invitando molte persone, divide fra quelle i detti presenti. Nelli loro balli, che durano tutta la notte, tengono sonatori e cantori, i quali, alternando insieme il suono e la voce, partoriscono assai piacevole concento. Né danza piú che uno per volta, e come uno ha fornito il suo ballo, si cava di bocca una moneta e gettala sul tappeto dei cantori; e se qualche amico vuol far onore a chi danza, lo fa fermare in ginocchioni e poi pianta tutta la sua faccia di monete, le quali poscia i cantori tolgono subitamente. Le femine danzano separatamente dagli uomini, e hanno ancora elle a' lor balli e cantatrici e sonatrici.
Cotal modo si tiene quando la sposa ne va a marito vergine. Ma se una è stata per adietro maritata, fanno le nozze con minor riputazione, e usasi di dar mangiare carne di bue, castrati e galline lesse; ma vi mescolano diverse minestre, e mettonsi dinanzi a' convitati dodici grandi scodelle in un tondo di legno, e fassi il convito per dieci o dodici persone. E tale è l'usanza de' gentiluomini e dei mercatanti; ma le genti minute usano certe suppe fatte di pan sottile che somigliano lasagne: lo bagnano con brodo di carne tagliata in grosse fruste sopra un vaso grande, nel quale è la suppa, e lo mangiano senza cucchiaio con la mano, e dieci persone sono intorno a un solo vaso.
È costume ancora di far convito quando si circuncide il figlio maschio, che è il settimo giorno doppo nasciuto, nel quale il padre, chiamato il barbiere e invitati gli amici, dà loro una cena. La qual fornita, ciascuno degli invitati fa un presente al detto barbiere, chi d'un ducato, chi di due, chi di mezzo, e chi di piú e chi di meno secondo la qualità di ciascuno. E questi cotai danari, l'uno doppo l'altro, ciascuno pone sopra il viso del fanciullo del barbiere, e il medesimo fanciullo pronunzia il nome di colui e lo ringrazia. Doppo questo il barbiere circuncide il bambino: allora si danza e festeggia nel modo di sopra detto. Ma d'una figlia minore allegrezza si dimostra.


Altri costumi serbati nelle feste, e modo di piagnere i morti.

Rimasero ancora in Fez certi vestigi d'alcune sorti di feste lasciatevi da' cristiani, e fanno certi motti che lor medesimi non gl'intendono. Sogliono la notte del natale di Cristo mangiar una minestra fatta di sette diverse erbe: queste sono cavoli, rape, carote e tai; e cuocono eziandio d'ogni sorte di legumi interi, come sono fave, ceci e grano, e le mangiano quella notte in luogo di delicata confezione. E il primo dí dell'anno sogliono i fanciulli con le maschere al volto andare alle case de' gentiluomini, accattando frutti e cantando certe loro semplicette canzoni. Il dí di san Giovanni fanno per tutte le contrade grandissimi fuochi di paglia. E come un fanciullo incomincia a mettere i denti, i suoi fanno un convito agli altri fanciulli, e chiamano queste cotai feste dentilla, che è propio vocabolo latino. Hanno molte altre usanze e modi di pigliare augurii, che ho veduto osservare in Roma e in altre città d'Italia; ma le feste, le quali sono ordinate e comandate nella legge di Maumetto, potrete vedere nella nostra brieve opera ove di detta legge si tratta.
Le femine, quando avien che muoia o lor marito o padre o madre o fratello, allora si ragunano insieme e, spogliatesi de' loro panni, si rivestono di certi sacchi grossi. Tolgono le brutture delle pignatte e con esse il viso si fregano, e fanno a loro venire quei malvagi uomini che vanno in abito feminile, i quali recano certi tamburi quadri: sonandogli cantano d'improviso mesti e lacrimosi versi in lode del morto, e al fine di ciascun verso le donne gridano ad alta voce, e percuotonsi il petto e le guancie, di maniera che n'esce fuori il sangue in gran copia, e si squarciano similmente i capegli, pur tuttavia forte gridando e piangendo. Questo costume dura sette dí; poi vi mettono in mezzo l'intervallo di quaranta giorni, i quai forniti rinuovano il detto pianto per tre altri continui giorni. E tale è l'uso commune del volgo. I gentiluomini piú onestamente piangono senza battimento niuno; gli amici vengono a confortargli, e tutti i loro stretti parenti mandano lor presenti di cose da mangiare, percioché in casa del morto, fin che v'è il corpo, non s'usa di far cucina, né le femine sogliono accompagnare i morti, quantunque fossero padri o fratelli. Ma come si lavino i corpi e come si sepellischino, quali ufici e cerimonie vi si soglin fare, abbiamo raccontato nell'operina ch'io ho detto disopra.


Colombi.

Sono molti uomini nella città i quali prendono gran diletto di colombi, e ve ne tengono molti, belli e di diversi colori. Il loro albergo è sopra i tetti delle case, in certe gabbie fatte a somiglianza degli armari che usano gli speziali; e gli aprono due volte, la mattina e verso la sera, prendendo piacere infinito di vedergli volare, e chi piú vola è di maggior prezzo. E perché le piú volte i colombi d'uno si mescolano fra quelli d'un altro, sovente costoro guerreggiano insieme e vengono alle mani. Tale ve n'è che, con certa picciola rete in mano accommodata su le cime d'alcune canne lunghe, stando sopra il tetto, quanti colombi passano del suo vicino prende con la detta rete. In mezzo dei carbonari sono sette o otto botteghe dove tali colombi si vendono.


Modo di giuocare.

Fra gli uomini accostumati e gentili altra sorte di giuoco non s'usa che quello degli scacchi, al costume degli antichi; ben hanno giuochi d'altra maniera, ma sono rozzi e usati solamente dal volgo. A certi tempi dell'anno i giovani si raccolgono insieme, e quegli d'una contrada con certi bastoni guerreggiano contra quelli d'un'altra; e alle volte ambedue le parti si riscaldano, per sí fatto modo che ne vengono insieme all'arme e molti se n'amazzano, spezialmente le feste, nelle quali questi giovani si ragunano fuori della città. E poscia che è fornita la mischia vengono al trar de' sassi, che è col fine del giorno, onde il barigello molte volte non gli può dipartir, ma alcuni ve ne piglia e mette in prigione, i quali dipoi sono frustati per la città. La notte molti bravi vanno insieme fuori della detta città portando seco l'arme e, discorrendo per li giardini e per la campagna, se essi s'abbattono con i bravi della contrada nimica, incominciano insieme crudelissima pugna, portandosi sempre tra loro mortalissimo odio; ma spesso ve n'hanno buonissimo gastigo e punizione.


Poeti di lingua volgare.

Sonvi ancora molti poeti, i quali dettano versi volgari in diverse materie, massimamente d'amore: e alcuni descrivono gli amori che essi portano alle donne e altri a' fanciulli, sovente ponendovi il nome del fanciullo che amano, senza alcuna vergogna o rispetto. Questi poeti ogni anno, nella festa della natività di Maumetto, compongono canzone in lode del detto e, raunatisi insieme la mattina per tempo nella piazza del capo dei consuli, ascendono nel suo seggio e ciascuno ordinatamente, l'un doppo l'altro, recita la sua canzona alla presenza di molto popolo: e quello che è giudicato aver meglio e piú vagamente dettata la sua è per quell'anno gridato e tenuto principe dei poeti.
Ma a' tempi degli egregii re della casa di Marin, il re ch'allor si trovava soleva invitar al suo palazzo tutti gli uomini dotti e letterati della città e, faccendo una solenne festa a tutti i poeti degni, voleva che ciascuno recitasse la sua canzona in lode di Maumetto alla presenza sua e di tutti: il che facevano sopra un alto palco, e secondo il giudicio degli uomini intendenti, al piú lodato il re donava cento ducati, un cavallo e una schiava, e il drappo che allora egli si trovava avere in dosso; agli altri tutti faceva dare cinquanta ducati, intanto che tutti da lui si partivano col guidardone. Ma sono circa centotrenta anni che, con la declinazione del regno, questo costume è mancato.


Scuole di lettere per i fanciulli.

Per li fanciulli che vogliono imparar lettere sono circa dugento scuole, le quali hanno forma d'una gran sala, e d'intorno v'ha certi gradi che sono le sedie de' fanciulli. E il maestro insegna loro leggere e scrivere, non in libro veruno ma in certe tavole grandi. La lezione che essi imparano è ciascun giorno una clausula dell'Alcorano, il quale fornito in due o in tre anni l'incominciano da capo, e tante fiate che 'l fanciullo l'impara molto bene e tutto l'ha nella memoria, il che è alla piú lunga in capo di sette anni. Dipoi il detto maestro gl'insegna qualche poco d'ortografia, ma pur questa e la grammatica si legge ordinatamente nei collegi, sí come le altre scienzie. E questi maestri hanno un picciolo salario, ma come uno dei fanciulli è giunto a certe parti dell'Alcorano, è tenuto il padre di fargli non so che presente. E poi ch'il detto ha imparato tutto l'Alcorano, allora fa il suo padre a tutti gli scolari un molto solenne convito, nel quale il figliuolo è vestito a guisa di figliuolo di signore. E prima cavalca sopra un bellissimo cavallo e di gran prezzo, il quale insieme col vestimento è obligato a prestargli il castellano della città reale; gli altri scolari l'accompagnano ancora essi sopra cavalli alla stanza, nella quale entrano cantando molte canzoni in lode di Dio e del profeta Maumetto. Dipoi si fa il convito a' detti fanciulli e insieme a tutti gli amici del padre, ciascuno de' quali dona alcuna cosa al maestro, e 'l fanciullo lo veste di nuovo. Cotale è l'usanza.
Sogliono eziandio questi fanciulli far una festa nella natività di Maumetto, e i lor padri sono astretti di mandare un torchio alla scuola, onde ciascun fanciullo vi reca il suo, e tale ve n'è che lo porta di trenta libbre, e chi di piú e chi di meno, secondo la loro qualità. I detti torchi sono belli, ben fatti e bene adornati, e piantati intorno di molti frutti fatti di cera. I detti torchi ardono dallo spuntar dell'alba per insino al nascer del sole. Il maestro suole menarvi alcuni cantori che cantano le lode di Maumetto e, subito ch'è uscito il sole, la festa è fornita. Questo è il maggiore utile che abbiano i detti maestri, percioché alle volte vendono per cento ducati di cere, e qualche fiata piú, secondo la quantità degli scolari. Né alcuno paga pigione di scuola, percioché esse scuole sono fatte di limosine lasciate per l'anime loro da diverse persone. I frutti e i fiori dei torchi sono i presenti che si fanno a' fanciulli e a' cantori. Ma gli scolari, sí delle scuole come dei collegi, hanno nella settimana due dí di vacanza, ne' quali non si legge né studia.


Di alcuni artigiani e indovini.

Io pretermetterò alcuni artigiani, come sono conciatori di pelle, quali hanno il suo luogo ordinato dove passa un capo d'acqua grosso, sopra il quale vi sono infinite stanze delli detti, e pagano per ogni pelle che acconciano due baiocchi alli doganieri, e si cava di quel dazio da duemila ducati; e dei barbieri e altri, per averne fatto menzione nella primiera parte della città, quantunque essi in tanta quantità non siano come si disse essere in quella.
Vengo a dire d'alcuni indovini, i quali vi sono in gran numero, e si dividono in tre sorti o vogliamo dire qualità. La prima è di certi uomini che indovinano per arte di geomanzia, faccendo loro figure, e pagano tanto per cadauna, come s'usa alle diversità di qualunque persona.
La seconda è d'alcuni altri i quali, mettendo dell'acqua in un catino vetriato, e dentro una goccia di olio in quell'acqua, che diviene lucida e trasparente come uno specchio, dicono di vedere i diavoli a schiere a schiere, i quali assomigliano a uno esercito di molti armati, quando essi vogliono piantare i padiglioni; e che di questi alcuni sono in cammino, chi per acqua e chi per terra: e come l'indovino gli vede acchetati, allora domanda loro di quelle cose delle quali egli ricerca avere informazione, e i demoni gli rispondono con cenni, o di mano o d'occhio. Vedete grossezza di coloro che a questi credono. Alcuna volta pongono il catino nelle mani di qualche fanciullo d'otto o nove anni, e lo dimandano s'egli ha veduto il tale e il tale demonio, e quello, che è semplicetto, risponde che sí: ma non per ciò gli lasciano dire da per loro. E molti pazzi danno a questi tanta fede, che spendono in essi grandissima quantità di danari.
La terza spezie è di femine, le quali fanno credere al volgo ch'elle tengono amicizia con certi demoni di diverse sorti, percioché alcuni si chiamano i demoni rossi, alcuni si dicono i demoni bianchi e altri sono addimandati demoni neri. E quando vogliono indovinare, a richiesta di chi che sia, si profumano con certi odori e allora, sí come dicono, il demonio che esse chiamano entra nella loro persona, onde subito cangiano la voce, fingendo che lo spirito sia quello che parli per la lingua loro. La donna o l'uomo che è venuto per qualche cosa che desidera di sapere dimanda allo spirito ciò che vuole, con gran reverenzia e umiltà, e avuta la risposta lascia un presente per quel demonio e si diparte. Ma gli uomini che hanno con la bontà congiunto il sapere e l'esperienza delle cose chiamano queste femine sahacat, che tanto dinota quanto nella voce latina fricatrices: e nel vero tengono esse questo maledetto costume, il quale è d'usare l'una con l'altra, che per piú onesto vocabolo non posso esprimere. E quando, fra le donne che vanno a loro con desio di sapere alcuna cosa, se ne trova alcuna di belle, elle s'invaghiscono di lei come un giovane s'invaghisce d'una fanciulla, e in forma del demonio le domandano in pagamento i congiungimenti amorosi: e quella, credendo avere a compiacere allo spirito, le piú volte loro consente. Molte ancora sono che, di questo giuoco dilettandosi, desiderano d'esser di lor compagnia, onde, fingendo d'essere inferme, mandano per una di queste; e sovente lo sciocco marito è l'imbasciatore. Elle subito iscuoprono all'indovine il loro disio, le quali dicono poi al marito che alla sua moglie è entrato uno di quei demoni nel corpo e, amando egli la sua sanità, conviene che esso le dia licenza che la detta possa entrar nel numero dell'indovine, e secretamente praticar con esso loro. Il marito bufolo sel crede e, consentendo a ciò, per maggior sua sciocchezza fa un suntuoso convito a tutto l'ordine, nel fine del mangiare danzando ogni una e festeggiando al suono degli strumenti di certi negri; e poscia ve la lascia andare alla buona ventura. Ma alcuno ve n'è che fa uscire gli spiriti di corpo alla moglie col suono di solenni bastonate; altri, fingendo ancora essi d'essere indemoniati, ingannano l'indovine nel modo che esse hanno le loro moglieri ingannate.


Incantatori.

V'è somigliantemente un'altra spezie d'indovini, i quali sono detti i muhazzimin, cioè gli incantatori. Questi sono tenuti potentissimi a liberare uno che sia ispiritato, non per altra cagione se non perché alle volte loro succede l'effetto e, se aviene che non succeda, dicono quel demonio essere infedele, o che è qualche spirito celeste. Il modo dello scongiuro si è che scrivono certi caratteri, e formano circoli sopra un focolare o altra cosa, poi dipingono alcuni segni su la mano o su la fronte dello spiritato, e lo profumano con molti profumi. Quindi fanno l'incantesimo e dimandano allo spirito come esso sia entrato in quel corpo, da qual parte, chi egli è, come ha nome; e infine gli comandano che si diparta.
Ve n'è un'altra spezie d'alcuni, i quali operano per una regola detta zairagia, cioè cabala; ma non cavano le loro operazioni dalla scrittura, percioché questa loro scienzia è tenuta naturale. E veramente costoro sanno dare infallibile risposta delle cose ch'a loro s'addimandano: ma cotal regola è difficilissima, percioché colui che se ne vuol valere è di bisogno ch'egli sia non men perfetto astrologo che abbachista. Ho veduto qualche volta far qualche figura, ch'è durata a farla da la mattina fino alla sera in tempo di state, le quali sono in questa forma. Fanno molti circoli l'uno dentro l'altro: nel primo formano una croce, a' confini della quale notano le quattro parti, cioè levante, ponente, tramontana e mezzogiorno; dentro della detta croce, cioè dove si scontrano i legni di lei, segnano i due poli, e fuori del primo circolo notano i quattro elementi. Dapoi dividono il detto circolo in quattro parti e il seguente circolo dividono pure in altretante, e doppo questo ogni parte in sette patti dividono, e in ciascuna notano alcuni caratteri grandi arabici, che sono ventiotto o ventisette caratteri per ogni elemento. Nell'altro circolo notano i sette pianeti, nell'altro i dodici segni, nell'altro i dodici mesi dell'anno secondo i Latini, nell'altro i ventotto tabernacoli (o diciamo alberghi) della luna, nell'altro i trecentosessantacinque dí dell'anno, e fuori di quello i quattro venti principali. Pigliano poscia solamente una lettera della cosa dimandata, e vanno moltiplicando con tutte le cose numerate, per insino che essi sanno qual numero porta il carattere. Dapoi la dividono in certo modo, dapoi la pongono in alcune parti secondo che 'l carattere è e in quale elemento si sta, in tanto che doppo la multiplicazione, divisione e dimensione, vedono che carattere conviene a quel numero ch'è avanzato. E fanno del trovato carattere come hanno fatto del primo, cosí di mano in mano, fin che fanno nascere ventiotto poste, cioè caratteri. Allora componeno di quella una dizione e dalla dizione componeno una orazione, cioè la risposta di quella dimanda, e vien la detta orazione sempre in un verso misurato in la prima spezie delli versi arabi, che si chiamano ethauil, che è otto stipiti e dodici corde secondo l'arte metrica araba: del che noi abbiamo trattato nell'ultima parte della nostra grammatica araba. Nel detto verso adunque, che nasce dai caratteri sopradetti, esce vera e indubitata risposta, e prima ne nasce la cosa dimandata, dapoi la sentenza di ciò che si dimanda. E questi tali mai non errano, e invero questa loro cabala è un'arte maravigliosa: né io per me viddi mai cosa tenuta naturale che paresse sopranaturale e divina come la detta.
Ho veduto far una figura in un luogo scoperto del collegio del re Abulunan, nella città di Fessa, qual scoperto era saleggiato di marmo fino liscio e bianco, e per ogni quadro era cinquanta braccia; e duoi terzi del detto discoperto furno occupati dalle cose che si dovevan notare della detta figura, e tre persone erano a farla, e cadaun di loro aveva il cargo d'una parte e pur durò a farla tutta una giornata intera. Ne viddi far un'altra in Tunis, per un eccellentissimo maestro, il padre del quale aveva comentata la detta regola in duoi volumi: e gli uomini che fanno queste regole sono singularissimi. In tutta la mia vita ne ho veduto tre, duoi in Fez e uno in Tunis, e ho veduto ancora duoi comenti della detta regola, e un comento fatto dal Margiani, ch'era il padre del maestro ch'io viddi in Tunis, e un altro comento di Ibnu Caldun istorico. E quando alcuno avesse piacer di veder la detta regola con li suoi comenti, non spenderia manco di ducati cinquanta, perché andando in Tunis, ch'è vicino a Italia, trovaria il detto libro. Io ebbi commodità sí di tempo come di maestro, che si offeriva d'insegnarmi senza premio se io voleva imparare questa dottrina; ma a me non piacque per esser ella vietata, per insino dalla legge di Maumetto, quasi come una eresia. La cui scrittura dice che ogni indovinazione è vana, e che solo Dio sa i secreti e le cose future: perciò gl'inquisitori maumettani gli fanno alle volte mettere nelle prigioni, né cessano di perseguitare i seguaci di tal disciplina.


Regole e diversità servate da alcuni nella legge di Maumetto.

Vi sono ancora molti uomini dotti, i quali si danno cognome di sapienti e di filosofi morali, e osservano alcune leggi di piú che non furono comandate da Maumetto. E tali gli hanno per catolici e tali no, ma i volgari gli tengono santi, quantunque eglino vogliono che siano lecite molte cose le quali proibisce la legge maumettana: come, per via d'esempio, è vietato nella legge che non si canti alcuna canzona d'amore per regola di musica, ed essi dicono che ciò si può fare. Sono in essa legge molti ordini e molte regole, delle quali ciascuna ha il suo capo che le difende, e hanno dottori che difendono le dette regole, e hanno molte opere sopra il viver spirituale. Questa setta cominciò ottant'anni dapoi Maumetto, e il primo e piú famoso auttore si chiamò Elhesenibnu Abilhasen, della città di Basra, qual cominciò a dar certe regole a' suoi discepoli, ma non scrisse niente.
Passati poi cent'anni, fu un altro valentissimo uomo in tal materia, nominato Elharit Ibnu Esed, della città di Bagaded, il quale scrisse una bell'opera universalmente a tutti i suoi discepoli. Dipoi questa setta fu dai legisti appresso i pontefici vituperata, e dannati tutti quegli che le regole di costui osservassero. Suscitò la medesima setta d'indi a ottanta anni, e vi fu capo un altro valentissimo uomo, il quale fu seguito da molti discepoli, e predicava la sua dottrina publicamente, di maniera che tutti i legisti, insieme col pontefice, lui e' suoi seguaci alla morte dannarono e determinarono che a ciascuno fosse tagliata la testa. Il che inteso da questo capo, egli di subito scrisse una lettera ai pontefici, pregandogli che gli concedessero grazia di poter disputar coi legisti e, se essi lo vincessero, che egli volentieri morrebbe; ma se egli dimostrasse a quelli la sua dottrina esser della loro migliore, non era onesto che tanti poveri innocenti per falsa calunnia dovessero perire. Al pontefice parve la dimanda giusta, e gli concedette la grazia. Venuto adunque l'uomo dotto alla disputa, con molta facilità superò tutti i legisti, a tanto che il pontefice lagrimando si convertí, chiamato alla setta del medesimo, e sempre, mentre ei visse, la favoreggiò, faccendo fabricar monasteri e collegi per li seguitatori di lei.
Durò questa setta altri cento anni, insino a tanto che venne d'Asia Maggiore Malicsach imperadore, della stirpe e origine de' Turchi, il quale perseguitò la detta setta. E alcuni si fuggirono al Cairo, alcuni alla Arabia, e rimasero venti anni iscacciati, che fu insino che regnò Caselsah, nipote di Malicsach. Il cui consigliere, il quale era uomo di grande spirito, chiamato Nidam Elmule, essendo di questa setta, la ritornò in piè e la sollevò e piantò per sí fatta maniera che, per opera d'un dottissimo uomo detto Elgazzuli, il quale ne compose un nobile volume diviso in sette libri, pacificò insieme i legisti con i seguaci di questa setta. A tale che i legisti ebbero titolo di dottori e di conservatori della legge del profeta, e questi s'addimandarono intenditori e riformatori di essa legge. Questa unizione durò insino che Bagded fu rovinata da' Tartari, il che fu negli anni secentocinquantasei, di legira. Ma pure la divisione non le nocque, percioché già tutta l'Africa e l'Asia era piena de suoi discepoli.
A que' tempi non soleva entrare in tal setta se non uomini dotti in ogni facultà, e sopra tutto intendentissimi della scrittura, per poter molto ben difenderla e confutare la parte contraria. Ora da cento anni in qua ogni ignorante vi vuole entrare, e dicono che non bisogna dottrina, percioché lo spirito sancto a quei che hanno il cuor mondo apre la cognizion della verità, e adducano in lor favore alcune altre deboli ragioni. Di qui, lasciando i comandamenti sí soverchi come necessarii della regola da parte, non serbano altri ufici di quello che faccino i legisti: ma bene si pigliano tutti i piaceri che tengono leciti nella regola, percioché fanno spessi conviti, cantano amorose canzoni e danzano lungamente, alle volte alcuno d'essi squarciandosi il vestimento, secondo il proposito dei versi che cantano e secondo la fantasia che gli dà el cervello di questi uomini discostumati. Dicono che allora sono riscaldati dalle fiamme dello amore divino: e io penso che 'l siano riscaldati dalla soverchia copia dei cibi, percioché ognuno di questi piglia quel cibo che sarebbe a tre uomini di soverchio. O, quello che piú vero mi pare, fanno questi gridi molte volte accompagnati da pianti per l'amore che essi portano a certi sbarbati giovani, percioché non rade volte aviene che qualche gentiluomo invita alle sue nozze uno di questi principali e maestri con tutti li suoi discepoli, i quali, nell'entrar del convito, dicono orazioni e canzoni divine; e come è fornita la cena, incominciano i maggiori d'età a isquarciarsi le gonne, e nel danzare, s'alcuno degli attempati cade, subito è raccolto e dirizzato in piè da uno dei giovanetti discepoli, il quale le piú volte lascivamente bacia. Per tal cagione è nato un proverbio, che in Fez è in bocca di ciascuno, cioè il convito de' romiti: e dinota che, fornito il convito, ogniuno di que' fanciulli diventa sposa del suo maestro, percioché costoro non possono prender moglie e sono chiamati i romiti.


Diverse altre regole e sette, e superstiziosa credulità di molti.

Fra queste sette sono alcune regole istimate eretiche appresso l'una e l'altra sorte di dottori, percioché non solo sono differenti dall'altre nella legge, né eziandio nella fede. Sono invero alcuni, i quali hanno ferma oppenione che l'uomo, per le sue buone opere, per li digiuni e per l'astinenze, possa acquistare una natura angelica: percioché dicono ch'egli purifica l'intelletto e il cuore, di maniera che non può peccare ancora ch'egli volesse. Ma fa di bisogno ch'ei primieramente passi per cinquanta gradi di disciplina: e benché esso pecchi avanti che abbia passati i cinquanta, Iddio piú non gli ascrive il peccato. E questi invero fanno strani e inestimabili digiuni ne' principii; dipoi pigliano tutti i piaceri del mondo. Hanno eziandio una stretta regola, fatta da uno eloquente e dotto uomo in quattro volumi, il cui nome fu Essehrauar de Sehrauard, città in Corasan.
V'è un altro auttore, detto Ibnul Farid, il quale recò tutta la sua dottrina in versi molto leggiadri; ma i detti versi sono tutti pieni d'allegorie, né pare che d'altra cosa trattino che d'amore. Perciò uno, detto Elfargani, comentò la detta opera, e trasse di lei la regola e i gradi che si debbono passare. Fu questo poeta di tanta eleganza, ch'altro i seguaci di queste sette non usano di cantare ne' lor conviti che i versi suoi, percioché da trecento anni in qua non fu mai una lingua piú culta di quella serbata di lui. Tengono costoro che le sfere e il fermamento, gli elementi, i pianeti e tutte le stelle siano un dio, e che niuna fede né legge possa essere in errore, percioché tutti gli uomini nel loro animo si pensano d'adorar quello che merita d'essere adorato. E credono che la scienza di Dio si contenga in un uomo, che è detto elcotb, eletto e partecipe di Dio, e in quanto al sapere come Dio. Ce ne sono quaranta altri uomini appresso loro, i quali sono appellati elauted, cioè li tronchi, percioché essi sono di minor grado e di minor scienza. Quando muore lo elcotb, da questi quaranta un altro se ne crea, e questo si sortisce dal numero di settanta. Ve ne sono altri settecentosessantacinque, de' quai non mi ricorda il titolo; ma morendo uno dei settanta, un altro vi se ne aggiunge di tale numero.
Vuole la lor legge che essi vadino scognosciuti per lo mondo, o a guisa di pazzi o di gran peccatori o del piú vile uomo che sia. Sotto adunque di cotale ombra, molti barri e scelerati uomini vanno discorrendo per l'Africa ignudi, dimostrando le loro vergogne, e sono cotanti sfrenati e senza rispetto niuno che, come fanno le bestie, alle volte nel mezzo delle publiche piazze usano con le femine: e nondimeno dal volgo sono tenuti santi. Di questa canaglia ve n'è gran quantità in Tunis, ma molto piú in Egitto e massimamente nel Cairo. E io nel detto Cairo, nella piazza detta Bain Elcasrain, viddi con gli occhi proprii un di loro pigliar una bellissima giovane, ch'usciva pur allora della stufa, e coricarla nel mezzo della piazza e carnalmente conoscerla. E tosto che egli lasciò la donna, tutti correvano a toccarle i panni, come a cosa divota e tocca da santo uomo, e dicevan fra loro che questo santo uomo fingeva di far il peccato, ma che non lo fece. Il che inteso dal marito, l'ebbe egli per una rara grazia, e benediceva Dio faccendo conviti e feste solenni, con dar elemosine per cosí fatta grazia. I giudici e i dotti della legge volevano a tutte le vie castigar quel ribaldo, ma furno a pericolo d'essere uccisi dal popolo, perché, come io ho detto, ciascun di questi tali è in gran venerazione appresso il volgo e ne ha tutto dí doni e presenti inestimabili, e ho visto piú cose particolari ch'io mi vergogno a narrarle.


Caballisti e altre sette.

V'è un'altra regola d'alcuni che si possono addimandar caballisti, i quai stranamente digiunano, né mangiano carne d'animale alcuno, ma hanno certi cibi e abiti ordinati e diputati per ciascuna ora di dí e di notte, e certe particolari orazioni secondo i giorni e i mesi, traendo le dette orazioni per via di numeri; e usano di portare nella loro persona alcuni quadretti dipinti, con caratteri e numeri intagliati per entro. Appresso dicono che gli spiriti buoni loro appariscono, e con essi parlano, e lor danno universal notizia delle cose del mondo. Fu di questi uno eccellentissimo dottore detto il Boni, il quale compose la lor regola e orazioni, come si fan detti quadretti; e io ho veduto l'opera, e parmi che piú tosto questa scienza tenga forma di magica che di cabala. L'opere piú famose sono circa otto: l'una è detta Ellumha Ennoramita, cioè dimostramento di lume, e in questa sono ordinate le orazioni e i digiuni; l'altra si dice Semsul Meharif, cioè il sole delle scienze, in cui si contiene il modo di fare i quadretti e dimostra l'utile che se ne trae; la terza è intitulata Sirru Lasmei Elchusne, cioè la virtú che tengono i novantanove nomi di Dio, e questa io vidi in Roma in mano d'uno ebreo veneziano. V'è un'altra regola in queste sette, che è detta la regola di suuach, cioè di certi romiti i quali vivono in boschi e luoghi solitari, né d'altro si pascono che d'erbe e di frutti salvatichi; e niuno è che possa particolarmente intender la vita loro, percioché fuggono ogni umana domestichezza.
Ma troppo mi discosterei dal proposito dell'opera, se minutamente vi volessi seguire di tutte le diverse sette maumettane. Chi piú ne desidera di vedere, legga un'opera di uno che si chiama Elacfani, che diffusamente tratta di diverse sette che procedano dalla fede macomettana, le quali sono settantadue principali; e ciascun tiene che la sua sia la buona e la vera, nella quale si possa l'uomo salvare. È vero che a questa età altre quasi che due non se ne truovano: l'una è quella di Leshari, che si estende per tutta Africa, Egitto, Soria e Arabia e tutta la Turchia; e l'altra dell'Imamia, che per tutta Persia si truova e in qualche città di Corasan. Questa tiene il Sofi re di Persi, e per tal setta quasi tutta l'Asia è distrutta, percioché avanti tenevano la detta setta del Leshari; il detto re piú volte ha voluto che per forza d'arme si tenga la sua. Egli è vero che communemente quasi una sola setta abbraccia tutto il dominio de' maumettani.


Investigatori di tesori.

In Fez sono pure alcuni uomini che si dicono elcanesin, i quali attendono a cercar tesori, che essi credono che siano sepolti nelle fondamenta delle antiche ruine. Va questa sciocca gente fuori della città ed entra in molte grotte e cave per trovar detti tesori, avendo per verissima opinione che, quando a' Romani fu levato l'imperio dell'Africa, e che essi fuggirono verso la Betica di Spagna, sotterrassero in quel d'intorno molte preciose e care cose, le quali non poterono portar seco, e quelle incantarono; e per questa causa cercano d'aver incantatori di detti tesori. Né mancano di quegli che dicono nella cotal cava aver veduto oro, e altri argento, ma che non gli hanno potuti cavare per non aver gl'incanti e li profumi appropriati; e con questa loro vana credenza cavando la terra, guastano sovente gli edifici e le sepolture, e si conducono talvolta dieci e dodici giornate lontani da Fez. E la cosa è ita tanto avanti che, avendo eglino libri i quali fanno menzione d'alcuni monti e luoghi dove sono ascosi molti tesori, gli serbono per oracoli. E prima che io mi partissi di Fez, essi sopra questa lor pazzia crearono un consule e, dimandando licenza ai padroni dei luoghi, come avevano cavato quanto volevano gli ristoravano d'ogni lor danno.


Alchimisti.

Né pensate che vi manchino gli alchimisti, anzi ve ne sono in molta copia di quegli che studiano in quella folle vanità, e sono pure i piú lordi uomini e quelli che piú puzzano del mondo, per il solfore e altri odori tristi. E la sera quasi per ordinario si riducono insieme molti di loro nel tempio maggiore, e disputano di queste loro false imaginazioni. E hanno molte opere in la detta arte, composte per uomini eloquenti: e la prima è intitulata di Geber, che fu anni cento dapoi Macometto, qual vien detto che fu greco rinegato, e l'opera sua e tutte le ricette sono scritte per allegoria. V'è ancora un altro autore che ha fatto un'altra opera grande, chiamato Attogrehi, che fu secretario del soldan di Bagadet, come abbiamo descritto nella vita de' filosofi arabi. E un'altra composta in cantiche, dico tutti gli articoli di quest'arte, e il maestro si chiamava Mugairibi, che fu di Granata: e fu comentata da un mamalucco di Damasco, uomo dottissimo di tal arte, ma il comento è piú difficile ad intender che non è il testo. Questi archimisti sono di due sorti: alcuni vanno cercando lo elisir, cioè la materia che tigne ogni metallo e vena; e altri si danno a investigar la moltiplicazion della quantità de' metalli, per via di mescolar l'un con l'altro. Ma io ho veduto che 'l fine di costoro le piú volte è il condursi a falsificar monete, onde la piú parte in Fez si dimostrano senzamano.


Ciurmatori e incantatori di biscie.

Sono finalmente in questa città molta copia di quella disutil canaglia che in Italia ha cognome di ciurmatori. E cantano questi cotai uomini di niun prezzo per le piazze romanze, canzone e tai sciocchezze, sonando certi loro tamburi, viole, arpe e altri strumenti, e vendono all'ignorante turba certi motti e brevi che, come essi dicono, sono contra a diversi mali. A questi s'aggiunge un'altra sorte di vilissimi uomini, i quali sono tutti d'una famiglia e vanno per la città faccendo danzar le simie, e portando d'intorno al collo e nelle mani molte biscie. Fanno ancora alcune figure di geomanzia, e predicono la ventura alle donne. Appresso menano con esso loro alcuni, come si dice in Italia, stalloni, e fanno a prezzo ingravidar le cavalle di chi vuole.
Ora io potrei seguir d'alcune altre particolarità circa agli uomini della città: ma basta dire ch'essi sono per la maggior parte ispiacevoli e poco amano i forestieri, benché non ve n'è molto numero di detti forestieri, perché la città è discosta dal mare cento miglia, e da esso mare a lei sono vie aspre e disagevoli molto per forestieri. Dirò ancora i signori esser superbissimi, in tanto che pochi praticano con loro; il simile fanno li dottori e giudici, che per reputazione non vogliono praticare se non con pochi. Nondimeno la conclusione è la città esser bella, commoda e bene ordinata. E come che al tempo del verno vi sia gran fango, di maniera che fa di mestiero di camminar per le strade con certi zoccoli ch'essi usano, tuttavia danno certi esiti a canali, in modo che i detti ne lavano tutte le contrade. E dove non sono canali fanno raccorre il fango e, caricandolo sopra le bestie, lo fanno gettar nel fiume.


Borghi che sono fuori della città.

Fuori della città, dal canto di ponente, è un borgo che fa circa a cinquecento fuochi; ma tutte le case sono brutte, nelle quali abitano genti vili, come sono quegli che guidano i cameli e che portano l'acque e tagliano le legne nell'oste del re. Nondimeno è questo borgo fornito di molte botteghe e d'ogni spezie d'artigiani. V'abitano anco tutti i ciurmatori e sonatori di poca stima; di meretrici v'è altresí gran numero, ma sono brutte e vili. Nella strada maestra del borgo sono molte fosse cavate per forza di scalpelli di ferro, per esser il luogo di pietra tevertina, nelle quali si soleva tener il grano de' signori, ché non abitavan allora in detto borgo se non li guardiani de' grani; ma, dapoi che cominciorono le guerre e che li grani eran tolti, furono fatti li granari in la città di Fessa nuova, e quelli ch'eran di fuori furono abbandonati. Ma dette fosse sono mirabili di grandezza, che la piú piccola tiene mille ruggi di grano, e sono cento e cinquanta fosse, al presente tutte scoperte; e molti alcune volte all'improviso vi cascano dentro, e per questo v'hanno fatto certi muretti intorno delle bocche di quelle. Il castellano di Fez, quando avviene che egli faccia qualche segreta giustizia, fa gettare i corpi de' rei nelle dette fosse, perché è una porticella secreta nella rocca che a quei luoghi risponde. Quivi è il giuoco de' barri, ma non vi si giuoca se non a dadi. Quivi ciascuno può vender vino, far la taverna e publicamente tener meretrici: onde si può dire che il detto borgo sia il ricetto di tutta la sentina della città. E poi che sono passate le venti ore, in tutte le botteghe un solo non si vede, perché ciascuno si dà ai balli, ai giuochi, alle lussurie e alle imbriacaggini.
V'è un altro borgo della detta città dove abitano gli infermi di lepra, il quale fa circa a dugento case. E questi infermi hanno il lor priore e capo, che raccoglie l'entrate di molte possessioni donate loro per l'amor di Dio da gentiluomini e altri, e sono serviti di maniera che di niuna cosa hanno bisogno. E questi priori hanno cura di tener la città netta di cotali infermi, e anco autorità, come cognoscono alcun che sia ammalato di tal male, di farlo menar fuori della città e farlo abitar in detto borgo; e se alcun muore senza erede, l'una metà del suo avere compartono alla comunità del borgo, l'altra è di colui che dà l'indizio di ciò; e se 'l leproso avesse figliuoli, la roba è de' figliuoli. È da sapere che nel numero di tai infermi leprosi s'includono ancora quei che hanno alcune macchie bianche sul corpo e altre incurabili infermità.
Oltre a questo borgo un altro, ve n'è, dove abitano molti mulattieri, pignattari, muratori e legnaiuoli; il borgo è picciolo e fa circa a centocinquanta fuochi. Ancora su la via verso ponente è un altro borgo grande, il quale fa circa a quattrocento fuochi; ma pur è di tristi casamenti e abitato da poveri uomini e villani, che o non possono o non vogliono star nel contado. Vicino al detto borgo è una gran campagna, la quale s'estende dal borgo fin al fiume, che è circa a due miglia, e si dirizza verso ponente circa a tre. In questa campagna si fa il mercato ogni giovedí, e vi si raguna gran quantità d'uomini con li loro bestiami, e i botteghieri portano le loro robe di fuori, e ciascuno tende il suo padiglione. V'è un costume che una piccola brigata di gentiluomini si riduce insieme, i quali fanno ammazzare un castrato al beccaio e spartono tra loro tutta quella carne, e danno per pagamento a colui la testa e i piedi, e la pelle vendono alli mercatanti di lana. Delle robe che in questo mercato si vendono poca gabella si paga, la quale sarebbe soverchio a dire. Questo non voglio tacere, me non aver veduto né in tutta l'Africa né in Asia né in Italia mercato dove si truovino tante persone e tante robe, che nel vero è una cosa inestimabile.
Sono ancora fuori della città certe rupi altissime, le quali cingono una fossa larga due miglia; e su le dette rupi tagliano le pietre con che si fa la calcina. Per tutta la fossa sono molte fornaci, dove si cuoce essa calcina; e queste fornaci sono grandi, di modo che tale ve né che vi capiranno seimila moggia di calcina. Questo uficio fanno fare i gentiluomini ricchi, ma di piccola nobiltà. Dalla parte di ponente, pur fuori della città, sono circa cento capanne fabricate su la riviera del fiume: queste sono tenute da quegli che fanno biancheggiare le tele. Il che è in tal guisa: ciascuno ogni anno ne' tempi buoni bagna le sue tele e le stende in un prato vicino alla sua capanna; e come costoro le veggono asciutte, con certe secchie di cuoio, che hanno cotai manichi di legno, pigliano l'acqua del fiume o di certi canaletti e la spargono su le dette tele; e venuta la sera, ciascuno raccoglie le sue tele e se le porta a casa, o a certi luoghi a ciò deputati. E i prati dove si stendono le dette tele serbano per tutto l'anno le sue erbe fresche e verdi; e di lontano è un bello spettacolo all'occhio il veder sopra il verde la candidezza di quelle tele. E l'acqua del detto fiume, che è molto chiara, pare da lontano che l'abbia colore di azurro: per il che molti poeti parimente in lode di ciò compongono elegantissimi versi.


Sepolture comuni fuori della città.

V'ha d'intorno molti campi dove si sepelliscono i corpi morti, i quali per amor di Dio sono da' gentiluomini donati a comune sepoltura. Pongono sopra il corpo, cioè sul terreno, un sasso fatto a modo di triangolo, ma è lungo e sottile. Agli uomini notabili e di qualche riputazione sogliono metter da capo una tavola di marmo, e una da piedi, ne' quali vi sono intagliati versi a consolazione di cosí duro e amaro passo; e piú a basso v'è il nome, la casata di ciascuno e parimente il giorno e l'anno che moritte. E io posi molta cura in raccoglier tutti gli epitaffi che io viddi, non solamente in Fez ma in tutta la Barberia: e questi ho ridotti in un piccolo volume, del quale feci dono al fratello del re che vive oggidí, quando morí il loro padre re vecchio. Infra quei versi sono alcuni atti a dare buon animo e consolazione della morte, e alcuni accrescono piú maninconia e tristezza: ma bisogna aver pazienzia o per l'uno o per l'altro.


Sepolture di re.

Fuori della città è similmente un palazzo verso tramontana, sopra un alto colle, nel quale molte sepolture si veggono d'alcuni re della casa di Marin, e sono fatte con bellissimi ornamenti e pietre di marmo, con epitaffi di lettere intagliate nel marmo, e adorne con finissimi colori, di maniera che empiono gli occhi di maraviglia di chi le mira.


Giardini e orti.

Dalla parte cosí di tramontana e di levante come eziandio di mezzogiorno, vi sono moltissimi giardini ripieni d'ogni maniera di frutti; e gli alberi sono grossi e alti, e per entro i giardini passano alcuni piccoli rami del fiume. Ma, per la stessa quantità dei detti alberi, paiono questi giardini boschi, né s'usa coltivare il terreno; è vero che il maggio l'adacquano tutto, e per tal cagione gran copia vi nasce di frutti, e tutti sono di perfetta bontà, eccetto le persiche, le quali non hanno molto buon sapore. E stimasi che alle stagioni si vendono di detti frutti ogni dí cinquecento some, trattone fuori l'uve, ch'io non pongo in questo numero. E tutte le dette some vanno a un luogo della città dove pagano certa gabella, e quivi si vendono all'incanto in presenza de' fruttaruoli. E in quella medesima piazza si vendono ischiavi neri, e ivi si paga la gabella di quelli.
Ancora verso ponente è un terreno largo circa a quindici miglia e lungo circa a trenta, il quale è tutto ripieno di fontane e di fiumicelli, ed è del tempio maggiore. Questo luogo è tenuto a pigione dagli ortolani, i quali vi seminano gran quantità di lino, melloni, zucche, cetriuoli, carote, navoni, radicchi, cavoli cappucci e tai erbe. In modo che si crede ch'al tempo della state se ne cavi quindicimila some di frutti e altretante l'inverno. È vero che l'aere d'intorno è cattivo, e la piú parte degli abitatori ha il viso di color giallo: patiscono spesse febbri, e gran quantità ve ne muore


Fez città nuova.

La nuova città di Fez è tutta cinta di due bellissime, altissime e fortissime mura; e fu edificata in una bellissima pianura appresso il fiume, discosto dalla vecchia circa a un miglio nella parte di ponente, e quasi verso mezzogiorno. Fra le due mura passa ed entra una parte del fiume, cioè dal lato di tramontana, dove sono i suoi mulini, e l'altra parte del detto fiume si divide in due: l'una ne va fra Fez nuova e la vecchia a canto la rocca, e l'altra passa oltre per certe valli e giardini vicini alla vecchia, per insin ch'ella entra in lei di verso mezzogiorno; quell'altra parte se n'entra alla rocca e passa per lo collegio del re Abuhenan.
Questa città fece edificar Giacob figliuolo di Abdulach, primo re della casa di Marin, il quale acquistò il regno di Marocco e discacciò i suoi re. E nel tempo ch'egli era in guerra con i re di Marocco, allora il re di Telemsin gli dava grande impaccio, compiacendo ai re di Marocco e per non lasciar crescere la casa di Marino. Ora, come questo Giacob ebbe spedita la guerra di Marocco, gli venne fantasia di far vendetta contra il re di Telemsin, con il quale volendo far guerra, s'avvidde che il luogo dove furon le fortezze di quel regno eran molto discosto da Telemsin. Per il che deliberò che si facesse la detta città, e quivi tramutar il reale seggio di Marocco; e cosí fece, chiamandola Città Bianca: ma il volgo dipoi la dimandò Fez nuova. Fecela quel re dividere in tre parti, l'una separata dall'altra. In una parte diè luogo al palazzo reale e ad altri palazzi per li suoi figliuoli e pei fratelli, e volle che tutti avessero i suoi giardini; e appresso il suo palazzo fece edificare un bellissimo tempio, molto adorno e con maraviglioso ordine. Nella seconda parte fece far grandissime stalle per li cavalli cavalcati dalla sua persona, e molti palazzi per li suoi capitani e uomini piú eletti della sua corte. Dalla porta dal lato di ponente fino alla porta che guarda verso levante fu ordinata e fatta la piazza della città, il cui tratto per lunghezza è poco meno d'un miglio e mezzo; e per entro sono le botteghe de' mercatanti e artigiani d'ogni sorte. Appresso la porta di ponente, cioè al muro secondo, fece fare una grandissima loggia con molte altre loggiette, dove avesse a stare di continuo il custode della città con i suoi soldati e ministri. Appresso a queste volle che fosser fatte due bellissime stalle, nelle quali potessero stare agiatamente trecento cavalli deputati alla guardia del suo palazzo. La terza parte della città fu assegnata per gli alberghi della guardia della persona del re, che allora erano certi uomini di levante, le cui arme erano gli archi, percioché allora in que' paesi non era passato l'uso delle balestre; ai quali uomini il re dava buona provisione.
Ora per la detta piazza sono molti tempii e stufe bellissime, e fatti con grandi spese. E appresso il palazzo del re è il luogo dove si batte la moneta, che è detto la zecca, la quale è fatta in forma d'una piazza quadra, e d'intorno vi sono alcune loggiette, nelle quali sono le case de' maestri. Nel mezzo è un'altra loggia dove siede il signor della zecca con li suoi notai e scrivani, percioché detta zecca, come in altri luoghi, è un officio che si fa pel re, e l'utile è suo. Vicino alla zecca v'è un'altra piazza, nella quale sono le botteghe degli orefici, il lor consule, e quello che tiene il sigillo e la forma delle monete. Né in Fez si può fare anello o altro lavoro d'argento o d'oro se prima il metallo non è suggellato, se non con molta perdita di colui che lo volesse vendere; ma essendo suggellato si paga il prezzo consueto, e si può spendere come si fanno le monete. E la maggior parte di questi orefici sono giudei, i quali fanno i lavori in Fez nuova e gli portano a vender nella vecchia a una piazza loro assegnata, la quale è appresso gli speziali. Percioché nella vecchia Fez non si può batter né oro né argento, né alcun maumettano può usar l'arte dell'orefice, perché essi dicono essere usura a vender le cose fatte o d'argento o d'oro per maggior prezzo di quello che le pesano. Ma i signori danno libertà a' giudei di farlo; pure ve ne sono alcuni pochi che fanno lavori solamente per li cittadini, né altro guadagnano che la fattura. E quella parte dove anticamente abitava la guardia degli arcieri oggi è tenuta da' giudei, perché i re moderni non tengono piú quella guardia, i quali prima abitavano nella città vecchia. Ma ciascuna volta che ne seguiva la morte d'un re i mori gli saccheggiavano, e fu di mestiere che 'l re Abusahid gli facesse tramutar dalla città vecchia alla nuova, raddopiando loro il tributo, dove oggidí dimorano, che è in una molto longa e molto larga piazza, nella quale hanno le lor botteghe e case e sinagoghe. E questo popolo è tanto accresciuto che non si può truovare il numero, massimamente doppo che i giudei furono scacciati dal re di Spagna. Essi sono in disprezzo appresso ciascuno, né alcun di loro può portare scarpe, ma usano certe pianelle fatte di giunchi marini, e in capo alcuni dolopani neri; e quelli che vogliono portar berretta, conviene che portino insieme un panno rosso attaccato alla berretta. Il loro tributo è di pagare al re di Fez quattrocento ducati il mese.
In fine la detta città fu, nello spazio di cento e quaranta anni, fornita di forte mura e di palazzi, tempii e collegii, e di tutti quelli ornamenti che può avere una città. E credo che maggior fusse la somma di quello che fu speso nei detti ornamenti, che non fu nelle mura che la cingono. Fuori di lei sopra il fiume furono fatte certe ruote molto grandi, le quali levano l'acqua dal fiume e la mandano sopra le mura della città, dove sono fatti certi canaletti che la conducono ai palazzi, ai giardini e ai tempii. E queste ruote son fatte a' nostri tempi, cioè da cento anni in qua, percioché per adrieto l'acqua veniva alla città per un canale, cioè acquedutto, che usciva d'una fontana discosta dalla città dieci miglia, lo qual canale è fatto sopra certi archi molto ben formati. E dicesi che 'l detto canale fu invenzione d'un maestro genovese, a que' tempi molto favorito mercatante del re. E le ruote fece un Spagnuolo, le quali sono veramente cosa mirabile, massimamente che in tanto furor d'acqua non si rivolgono piú che vintiquattro volte fra il dí e la notte. Restami a dire che in questa città non abitano molti nobili, trattone il parentado de' signori e qualche cortigiano; il rimanente è di persone ignobili e poste a vili ufici, percioché gli uomini di riputazione e di bontà non si degnano d'essere ammessi negli ufici della corte, né simigliantemente di dar niuna delle lor figlie a quelli che sono della casa del re.


Ordine del vivere che s'usa nella corte del re di Fez.

Fra tutti i signori dell'Africa non si truova che alcuno fusse creato re o principe per elezione del popolo, né chiamato da provincia né da città alcuna. E nella legge di Maumetto non è verun signor temporale che dir si possa legittimo, eccetto i pontefici. Ma poscia che venne a meno la podestà de' pontefici, tutti i capi de' popoli ch'erano ne' diserti s'incominciarono accostare ai paesi abitati, e per forza d'arme statuivano diversi signori, contra la legge di Maumetto e contra i pontefici loro. Come è avvenuto in levante, che i Turchi, i Curdi, i Tarteri e altri, venendo da quella parte, s'insignoreggiavano de' terreni di chi meno poteva, cosí nell'occidente regnò il popolo di Zeneta, cosí quel di Lontuna, dipoi i Predicatori, dipoi le famiglie di Marin vi regnarono. È vero che la gente di Lontuna venne in favore e soccorso de' popoli di ponente, per liberargli dalle mani degli eretici. E in questi vi furono i signori amici del popolo; poi incominciarono a sollevar la tirannide, come s'è veduto. Per cotal cagione adunque al presente non si fanno i signori per vera eredità, né per elezione del popolo, de' maggiori e del capitano, ma ciascun principe, prima che venga a morte, lega e astrigne i maggiori e piú possenti uomini della corte a crear principe, doppo la morte sua, o figliuolo o fratello del detto. Né perciò molte volte sono osservati i giuramenti, percioché quasi sempre avviene che eleggono per lor signore colui che piú piace loro.
In questa guisa si suol far la creazione del re di Fez, il quale, subito che è publicato re, fa uno de' suoi piú nobili suo maggior consigliere, e gli assegna un terzo dell'entrata del suo regno. Doppo elegge un secretario, il quale serve e per secretario e per tesoriere e per maggiordomo. Crea dapoi i capitani della cavallaria, che son diputati alla custodia del regno, e questi il piú del tempo stanno con lor cavalli nella campagna. Appresso per ciascuna città stabilisce un governatore, il quale si gode gli usufrutti delle città, con obligazioni di tener tanto numero di cavalli a sue spese a' comandi del re, cioè qualunque volta gli fa bisogno di fare esercito. Dipoi fa certi commissari e fattori sopra i popoli che abitano ne' monti, e ancora sopra gli Arabi che gli son soggetti. I commissari amministrano la giustizia secondo la diversità delle leggi de' detti popoli; i fattori hanno carico di riscuotere l'entrate, e tenervi diligente conto de' pagamenti ordinari e di quelli che non sono ordinari. Dipoi ordina certi baroni, che sono detti nella lingua loro i custodi, ciascuno de' quali ha un castello overo uno o due villaggi, e di quelli cava certa entrata per lo vivere, e per poter mantenere qualità e condizione d'accompagnare il re nell'esercito. Ancora tiene cavalli leggieri, a' quali egli fa le spese a modo suo quando stanno in campo, ma a tempo di pace dà a costoro grano, butiro e carne da insalare per tutto l'anno, ma pochissimi danari; è vero che gli veste una volta l'anno. Né questi hanno cura de' lor cavalli, né fuori né meno nella città, percioché il re d'ogni cosa gli fornisce. E tutti i famigli della stalla sono schiavi cristiani, e portano grosse catene a' piedi; ma quando l'esercito va fuori, i detti cristiani cavalcano su camelli da some. Tiene ancora un altro commissario sopra a' camelli, il quale dà ricapito a' pastori e dispensa fra loro le campagne, e provede del numero di camelli che fanno di mistiero alle bisogne del re; e ogni camelliero tiene due camelli in ordine, per cargare secondo che li vien comandato. Tiene appresso un dispensatore, che ha carico di fornire, custodire e dispensar le vettovaglie per lo detto re e per lo esercito; e questo tiene dieci o dodici padiglioni grandi, dove dipone le dette vettovaglie, e di continuo muta e rimuta camelli in farvene portar di nuove, accioché l'esercito non patisca. Sotto di questi sono i ministri della cucina. V'è poi un maestro di stalla, il quale ha cura di tutti i cavalli, muli e camelli del signore; ed egli delle cose necessarie, sí per questi come per la famiglia che gli governa, è fornito dal dispensatore. Tiene eziandio un commessario sopra le biade, che ha carico di far portar l'orzo e ciò che bisogna al mangiar delle dette bestie; e questo commissario ha cancellieri e notai, per notare e scrivere tutta la biada che si dispensa e renderne conto al maggiordomo. Tiene somigliantemente un capitano di cinquanta cavalli, quali sono a guisa di cursori, i quali fanno l'imposizioni da parte del segretario del re, in nome del detto re. Ancora tiene un altro molto onorato capitano, il quale è come capo di guardia segreta, e ha auttorità di comandar da parte del re agli ufficiali, che faccino le esecuzioni e le confiscazioni e servino giustizia; può prendere i grandi uomini, mettergli nelle prigioni, usare in quelli la severità della giustizia, se gliel comanda il re.
Tiene il detto re eziandio appo lui un fedel cancelliere, in poter del quale è il sigillo del re; e scrive egli le lettere che occorrono di sua mano, sigillandole con quello. Di staffieri ve n'ha grandissima quantità, i quali hanno un capitano loro, che gli accetta, iscaccia e divide tra loro il piú e il meno del salario, secondo la loro sufficienza; e quando il re dà l'udienza, il detto capitano gli è sempre presente, e fa quasi l'uficio d'un capocameriere. Tiene ancora un capitano sopra i carriaggi, il cui uficio è di far portare i padiglioni ne' quali alloggiano i cavalli leggieri del detto re; ed è da sapere che i padiglioni del re son portati dai muli, e quei de' soldati dai camelli. Tiene una brigata di banderari, i quali per cammino portano gli stendardi piegati, ma uno, che sempre va dinanzi all'esercito, porta un stendardo spiegato e alto; e tutti questi banderari sono guide, e sanno le vie, i passi de' fiumi e de' boschi. E tiene gran quantità di tamburini, i quali tengono certi tamburi fatti di rame a modo d'un gran catino, larghi di sopra e stretti di sotto, e dalla parte di sopra sono coperti di pelle; e gli portano su cavalli che hanno i bastili, ma tengono dirimpetto al tamburo alcuni contrapesi, percioché essi assai pesano. E sono questi cavalli de' migliori e de' piú presti corridori ch'aver si possano, percioché è tenuto a gran vergogna quando si perde il tamburo; e detti tamburi suonano tanto forte e con sí orribil suono che si fanno sentire a gran pezza di lontano, e fanno tremare i cavalli e gli uomini; e gli suonano con i membri de' tori. I trombetti non sono tenuti a spesa del re, ma quei della città, a tutto loro costo, sono obligati di dargli un certo numero; e i detti cosí sono adoperati alle mense del re, come nello attaccarsi delle battaglie. E ha un maestro di ceremonie, il quale, quando il re chiama il consiglio o dà udienza, sempre sta a' piedi del detto, ordinando i luoghi e faccendo parlar l'un doppo l'altro, secondo i gradi e le dignità. La famiglia del re è per la piú parte di certe negre ischiave, e di queste sono le cameriere e le donzelle; nondimeno sempre ei piglia la sua moglie bianca. Tiene ancora alcune schiave cristiane, e queste sono o spagnuole o portogallese. E tutte le donne sono sotto la guardia degli eunuchi, che sono pure schiavi negri.
Questo re invero ha gran dominio, ma piccola entrata, la quale appena aggiunge a numero di trecentomila ducati; e di questa eziandio non perviene alle mani sue la quinta parte, percioché il rimanente è assegnato come di sopra abbiamo detto. Anco la metà di cotali entrate è in grani, in bestiame, in olio e in butiro, e si cava per piú vie. Alcuni luoghi pagono, per tanto terreno quanto in un giorno possono arar un paio di buoi, un ducato e un quarto. Altrove si paga per ogni fuoco altretanto. Altri luoghi sono, ne' quali per ciascun uomo dai quindici anni in su si paga pure altretanto. In altri e dell'un e dell'altro. Né v'è altra gravezza che della gabella, la quale è nella città grande. Né vi voglio ascondere che a' signori temporali non è lecito, per legge di Maumetto, tenere alcuna entrata, eccetto il censo da lui ordinato. Il quale è che ciascuna persona, che ha in contanti cento ducati, sia tenuta di dare al signore, di quel numero, due ducati e mezzo l'anno, fin che dura quella quantità; e ogniuno che raccoglie del suo terreno dieci moggia di grano è obligato a dar la decima parte. E vuole che tali entrate siano date in mano del pontefice, il quale, oltre alle bisogne del signore, le dispensi alle comuni utilità; e di quelle siano aiutati i poveri, gl'infermi e le vedove, e sostenute le guerre contra a' nimici. Ma da che sono mancati i pontefici, i signori, come s'è detto, hanno incominciato a usar la tirannide: né basta loro d'aversi usurpate del tutto queste entrate, e dispensarle secondo l'appetito loro, ma v'hanno aggiunto nuovi tributi, talmente che in tutta l'Africa pochi contadini si truovano che possino avanzarsi tanto che basti loro pel vestire e pel vivere solamente. Di qui è che niun uomo dotto e da bene vuol aver domestichezza con i signori temporali, né mangiar con esso loro a una istessa mensa, né meno accettar dono o presente loro, percioché istimano che la facultà dei detti signori sia peggio che rubbata.
Tiene ancora il re di Fez di continovo in poter suo seimila cavalli pagati, e cinquecento balestrieri, e altretanti archibusieri sempre a cavallo e in ordine ad ogni suo comando. Ma ne' tempi di pace stanno dalla sua persona separati un miglio, cioè quando il re è fuori nella campagna, percioché essendo egli in Fez non si cura di guardia. Se aviene che gli bisogni far guerra con gli Arabi suoi nimici, allora non gli bastano questi seimila cavalli, ma si vale dell'aiuto degli Arabi suoi subditi, de' quali a loro spese gran quantità ne raguna: ed essi sono invero piú pratichi nella guerra che non sono i detti seimila del re.
Le pompe e le cerimonie d'esso re sono poche, e non molto volentieri sono fatte da lui; ma nelle feste o in qualche mostra è di necessità ch'egli le faccia. Queste sono tali. Quando il re vuol cavalcare, primieramente il maestro delle cerimonie fa ciò intendere ai cursori per nome del re; dipoi essi fanno intendere ai parenti del detto re, ai capitani, ai custodi e agli altri cavalieri, i quai tutti si ragunano insieme nella piazza che è fuori del suo palazzo, e per tutte le vicine contrade. E come il re esce dal palazzo, i detti cursori dividono l'ordine di tutte le cavalcature. Prima se ne vanno i banderari, dipoi i tamburini, dipoi il maestro di stalla con i suoi ministri e famigliari, poi il dispensatore con i suoi, poi i custodi, poi il maestro delle cerimonie, poi i segretari del re, il tesoriere, il giudice e il capitano dell'esercito. Poi cavalca il re, insieme col gran consigliere e con qualche principe. E cavalcano innanzi la persona del re alcuni uficiali del re, de' quali uno porta la spada, l'altro lo scudo e un altro la balestra del detto re. D'intorno gli vanno i suoi staffieri, e di questi uno porta la partigiana del re, un altro la coperta della sella insieme col capestro del cavallo; e quando il re scende a piede, con quella coperta coprono la sella, e mettono il capestro di sopra alla briglia del cavallo per tenerlo. V'è un altro staffiere il quale porta i zoccoli del re, che sono certi zoccoli fatti con bei lavori, per pompa e riputazione. Doppo il re cavalca il capo degli staffieri, dapoi gli eunuchi, dapoi la famiglia del re, dapoi i cavalli leggieri, dapoi i balestrieri e archibusieri. L'abito che allora usa il re è mediocre e onesto, e chi nol conosce non pensa che egli sia il re, percioché i suoi staffieri sono vestiti piú superbamente, e con fregiati e ricchi panni. Né alcun re o signor maumettano porta corona o cosa tale che l'assomigli in testa, percioché la legge de Maumetto glielo vieta.
Quando il re abita nella campagna, piantasi prima nel mezzo il gran tabernacolo d'esso re, il quale è fatto a guisa delle mura d'un castello con i suoi merli, è quadro da ciascun lato e tiene cinquanta braccia, e in capo di ciascun lato è una torricella fatta pur di tela con i suoi merli e coprimenti, e con alcune belle poma poste sopra il tetto di dette torricelle, che paiono d'oro. Questo tabernacolo ha quattro porte, per ciascuna delle quali vi sta la guardia degli eunuchi, e in mezzo del detto vi sono altri padiglioni. La camera nella quale dorme il re è fatta in modo che si può togliere e rimettere agevolissimamente. D'intorno al tabernacolo sono gli alloggiamenti degli uficiali e dei cortigiani piú favoriti del re, e d'intorno a questi sono ordinatamente i padiglioni dei custodi, i quali son fatti di pelli di capre, sí come quegli degli Arabi. Quasi nel mezzo c'è la dispensa, la cucina e il tinello del re, che sono tutti padiglioni invero grandissimi. Non molto lontani da questi sono i padiglioni dove alloggiano i soldati dei cavalli leggieri, i quali tutti mangiano nel tinello del re, ma in una foggia molto vile. Discosto un poco è la stalla, cioè alcuni luoghi coperti dove sono alloggiati i cavalli, a ordine l'uno a canto l'altro. Fuori del circuito dell'alloggiamento alloggiano i mulattieri del carriaggio del re, e ivi sono botteghe di beccai, di merciai ed eziandio di pizzicagnoli. I mercatanti e gli artigiani che vengono al campo s'adagiano a lato dei detti mulattieri, in modo che gli alloggiamenti del re vengono ad essere fatti come una città, percioché i padiglioni dei custodi servono in vece di mura, i quali sono fatti e piantati l'uno appresso l'altro, di maniera che non si può entrare a' detti alloggiamenti se non per li luochi ordinati. E d'intorno il tabernacolo del re tutta la notte si fa la guardia; ma è vero che i guardiani sono persone vili, né v'è alcuno che porti arme. Simile guardia si fa d'intorno la stalla dei cavalli, ma spesso, per la dapocaggine di queste guardie, non solamente sono stati rubbati dei cavalli, ma dentro il tabernacolo del re trovati uomini nimici, entrativi per ucciderlo. Il re quasi tutto il tempo dell'anno si ritruova nella campagna, sí per custodia del regno come per mantenere in pace e amicizia gli Arabi suoi soggetti; e sovente si diporta in caccie o in giuocare a scacchi.
Io non dubito di non essere stato alquanto tedioso nella lunga e molto copiosa descrizione di Fez; ma egli mi fu di necessità d'allargarmi in lei, sí perché la civiltà e l'ornamento di Barberia, overo di tutta Africa, si contiene e rinchiude nella sopra detta città, e sí ancora per darvi piena informazione d'ogni sua minima condizione e qualità.


Macarmeda città.

Macarmeda è una città vicina a Fez circa a venti miglia verso levante, la quale fu edificata da' signori di Zeneta sopra la riviera d'un fiumicello, in una pianura bellissima. Questa ne' tempi antichi aveva un gran contado, e fu molto civile. Sul detto fiume sono molti giardini e vigne. E i re di Fez solevano assegnare la detta città a' soprastanti dei camelleri; ma nella guerra di Sahid principe ella fu saccheggiata e abbandonata, e oggi altro di lei non si vede che le mura. Il contado s'affitta a gentiluomini di Fez e a qualche uomo di villa.


Hubbed castello.

Hubbed è un castello edificato su la costa d'un alto monte, il quale è discosto da Fez circa a sei miglia. E tutta la città di Fez e la campagna d'intorno si può vedere dal detto castello, il quale ebbe principio da un romito, dal popolo di Fez tenuto santo. Ma il detto castello contiene intorno poco terreno, perciò è disabitato e le case sono rovinate, eccetto le mura e la moschitta. Pure quel poco terreno che v'è è del tempio maggiore della città. Io alloggiai in questo castello quattro estate, per esservi l'aere molto buono e temperato, e il luogo solingo e ottimo per chi vuole studiare. V'alloggiai ancora percioché il padre mio ebbe molti anni il terreno appigionato dal custode del tempio.


Zauia.

Zauia è una picciola città edificata da Giuseppe, secondo re della casa di Marin, ed è discosta da Fez circa a quattordici miglia. E quivi il detto re fece fare un grande spedale, ordinando d'esser sepellito in questa città; ma ciò non consentí la fortuna, percioché egli fu ucciso fuori di Telemsin, nell'assedio ch'egli vi fece. Zauia dipoi mancò e fu rovinata, e rimase di lei solamente lo spedale con i suoi muri. L'entrata fu data al tempio maggiore di Fez, e il terreno fu coltivato da certi Arabi, che sono quasi nel contado di Fez.


Chaulan castello.

Chaulan è un antico castello fabbricato sopra il fiume di Sebu, lontano da Fez circa a otto miglia verso mezzogiorno. Fuori del detto castello v'è un bagno d'acqua caldissima, e Abulhesen, quarto re della casa di Marin, fece fare un belissimo edificio sul detto bagno; onde i gentiluomini di Fez sogliono una volta l'anno nel mese d'aprile venire a questo bagno, e vi dimorano quattro o cinque giorni per cagione di diporto. Ma in nel detto castello non è civiltà alcuna, e gli abitatori sono uomini vili e avarissimi sopra modo.


Zelag monte.

Zelag è un monte che incomincia dal fiume di Sebu quasi dalla parte di levante e si stende verso ponente circa a quattordici miglia; e la sua sommità, cioè il piú alto luogo verso tramontana, è vicina a Fez sette. La faccia che risponde verso mezzogiorno tutta è disabitata, ma quella parte che riguarda verso tramontana è tutta buone colline, dove sono infiniti villaggi e castelli. E quasi tutto il terreno è piantato di viti, che fanno le migliori e le piú dolci uve che io già mai abbia gustato a' miei dí; cotali sono l'olive e infine tutti i frutti che nascono per quel contado, per esser luogo asciutto. E gli abitatori di questo sono molto ricchi, né alcuno ve n'è il quale non abbia una casa nella città. Ancora quasi tutti i gentiluomini di Fez hanno qualche vigna nel detto monte. A' piedi del detto, verso pure tramontana, sono buonissime pianure e campi da grano ed eziandio per orti, percioché il fiume di Sebu irriga le dette pianure verso mezzogiorno; e gli ortolani con i loro ingegni fanno fare certe ruote che levano l'acqua dal fiume, e con essa ne bagnano il terreno. La campagna è grande e larga tanto quanto possono arare dugento paia di buoi. Questa è data per provisione al maestro delle ceremonie del re, ma egli non ve ne ha di rendita l'anno piú che cinquecento ducati, percioché la decima ne va alla camera del re; la quale frutta quasi tremila moggia di grano.


Zarhon monte.

Zarhon incomincia dal piano di Esais discosto da Fez dieci miglia, e s'estende verso ponente circa a trenta, e per larghezza è dieci miglia. Questo monte da lontano par tutto selva e diserto, ma tutti gli alberi sono piante d'olive. In esso sono circa a cinquanta fra casali e castelli, e gli abitatori sono ricchissimi, percioché il monte è posto fra due città grosse: dalla parte d'oriente è Fez e da quella di ponente Mecnase. Le loro donne sono tessitrici di panni di lana fatti all'usanza del paese, e vanno molto ornate d'anella e manili d'argento. Gli uomini sono gagliardi e fortissimi, e sono quegli che si prendono cura di pigliare i leoni ne' boschi, e gli donano al re di Fez. Il quale suol far fare una caccia nella sua cittadella in una corte larghissima, dove sono certe casette tanto grandi quanto vi può capire un uomo in piedi e come ei vuole, e ciascuna di queste ha la sua porticella, e dentro vi sta un uomo armato. Allora si lascia un leone sciolto in quella corte, e gli armati aprono le loro porticelle, chi da una parte chi da un'altra. Il leone subito corre verso l'uomo che egli vede, e colui come gli è vicino chiude la porticella; e ciò fanno tante volte che 'l leone è adirato. Dipoi è menato nella detta corte un toro, onde tra lor due s'incomincia una stretta e sanguinosa battaglia. E se il toro ammazza il leone, la festa di quel giorno è fornita; ma se il toro è ucciso dal leone, è di bisogno che quegli armati eschino fuori e combattino col leone: i quali sono dodici, e hanno in mano certe partigiane che tengono un braccio e mezzo di ferro. E se gli uomini sono superiori del leone, il re fa diminuire il numero; e quando il leone avanza gli uomini, allora il re e i suoi cortigiani l'uccidono con le balestre, stando dal di sopra delle loggie dove sogliono veder la festa. Ma le piú volte aviene che, prima che muoia il leone, ei ve ne uccide alcuno e altri lascia feriti. Il premio che usa il re di dare a quei che combattono sono dieci ducati per ciascuno e un nuovo drappo. Ma cotai uomini non sono se non persone valentissime e del monte di Zelag, e quelli che li cacciano in la campagna sono del monte di Zarhon.


Gualili, città nel monte Zarhon.

Gualili è una città edificata da' Romani nella cima del sopradetto monte, nel tempo che eglino reggevano la Betica di Granata. È tutta cinta di mura fatte di pietre lavorate e grosse, e ha le porte molto larghe e alte, e circonda quasi sei miglia di terreno. Ma fu pure anticamente rovinata dagli Africani. Egli è vero che, essendo Idris scismatico venuto a quella regione, subito incominciò a rinovar la detta città e abitarvici, di modo che in breve ella divenne civile e molto frequentata. Ma doppo la sua morte il figliuolo la lasciò da parte e si diè a fabbricar la città di Fez, come abbiamo detto; nondimeno Idris fu quivi sepolto, e la sua sepoltura è onorata e visitata quasi da tutti i popoli di Mauritania, percioché egli fu poco meno di pontefice, e del lignaggio di Maumetto. E oggi non sono in detta città se non due o tre case, destinate alla cura e venerazione della sepoltura. Ma d'intorno alla città il terreno è molto ben coltivato e sonvi bellissimi giardini e possessioni, percioché nascono dalla detta città due capi d'acqua, i quali se ne vanno discorrendo fra certi piccoli colli e valli, dove queste possessioni hanno luogo.


Palazzo di Faraone.

Il Palazzo di Faraone è una piccola e antica città fabbricata dai Romani sopra la cima d'una montagnetta, ed è vicina a Gualib poco meno d'otto miglia. Il popolo di questo monte, e anco molti istorici, tengono per ferma oppenione che Faraon re d'Egitto, nel tempo di Moisè, edificasse la detta città nomandola dal suo nome. A me non par egli verisimile, percioché non si truova che mai né Faraone né gli Egizii dominassero quelle parti. Ma è nata questa sciocca oppenione da un'opera, intitolata nella loro lingua il Libro delle parole di Maumetto, e fu dettata da un auttore detto Elcalbi. Dice adunque quest'opera, col testimonio di Maumetto, che furono quattro re che signoreggiarono tutto il mondo, duoi fedeli e duoi infedeli: i fedeli furono Alessandro Magno e Salamon figliuolo di Davit, e gl'infedeli Nembrot e Faraone di Moisè. A me alcune latine lettere, che si leggono sopra a' muri, danno indubitata certezza che la detta città fusse edificata da' Romani. Nel circuito di lei passano due fiumicelli, qual da una parte e qual da un'altra; e tutte le valli e le colline vicine a questa sono terreni piantati d'olive. Non molto lontano v'è bene un gran bosco, dove si truovano leoni e leopardi in molta quantità.


Pietra Rossa.

Pietra Rossa è una certa città nella costa del detto monte, edificata pur da' Romani. Ma è piccola e molto vicina al bosco, in tanto che i leoni vengono insino alla città e, mangiano l'ossa che truovano: e gli abitatori sono tanto avvezzi nella pratica e domestichezza dei detti leoni, che insino alle femine e a' fanciulli non gli temono. Le sue mura sono alte e fatte di certe pietre grandi e grosse, ma le piú parti sono rovinate; e la città è rimasa oggidí come un casale o villaggio. Il terreno è abbondevole d'olive e di grano, percioché è vicino alla pianura d'Azgar.


Maghilla.

Maghilla è una picciola città antica, edificata pur da' Romani, ed è posta su la punta del detto monte, cioè dalla parte che risponde verso Fez. Questa città ha un bel contado nel monte, il quale è tutto pieno d'olive, e un altro bellissimo nel piano, dove sono molti e gran fonti, dal qual piano si tragge gran quantità di canapo e di lino.


La Vergogna castello.

La Vergogna è un castello molto antico, e fu edificato sotto il detto monte, su la via maestra per cui si va da Fez a Mecnese; ed è detto il castello della vergogna, percioché i suoi abitatori furono molto avari, sí come è l'usanza delle città che sono ne' passi. E dicesi che un re una volta passò di là, e quei del castello l'invitarono a desinare. Il re accettò l'invito, cosí il popolo pregò lui che fussi contento di levargli quel brutto nome: il che gli piacque. Fecero adunque costoro ammazzare alquanti castroni ed empir molte vasella e utri di latte, come è il costume loro, per dar la mattina la collazione al re. Ma per essergli utri grandi, ognuno per la sua parte fece pensiero che, se vi mettessero la metà d'acqua, nessuno se n'accorgerebbe; e cosí fecero. Il re la mattina, volendosi dipartire, non si curava d'altra collazione, ma facendogli i ministri instanza, e versando gli utri, s'avidero dell'acqua. La qual cosa intesa dal re, rise e dicendo: "Amici, voi dovete sapere che costume dato da natura non si può togliere", si dipartí. Oggi il detto castello è rovinato e voto, e i suoi terreni sono lavorati da certi poveri Arabi.


Beni Guariten contado.

Beni Guariten è un contado vicino a Fez circa a diciotto miglia, cioè dalla parte di levante, ed è tutto colline di bonissimi terreni, dove nasce gran quantità di grano; e contengono bellissime campagne e perfetti pascoli pel bestiame. Nel detto contado sono circa a dugento villaggi, ma di vilissime case, e sono gli abitatori uomini di piccolo valore: non coltivano viti né tengono giardini, né hanno albero alcuno fruttifero. Questo suol il re dispensare fra li suoi fratelli e fra le sirocchie che sono di pargoletta età. Tornando agli abitatori, essi sono ricchi di grani e di lana, ma vanno male in arnese e solamente cavalcano gli asini, di maniera che insino da' vicini ne vengono dileggiati e scherniti.


Aseis contado.

Aseis è ancora egli un contado vicino a Fez venti miglia verso ponente, e tutto è pianure, dove è fama che furono molti castelli e villaggi; e ora non ne resta né vestigio né pur segno alcuno d'edificio, ma sono vivi i nomi dei luoghi che non si veggono. Il detto piano s'estende verso ponente circa a diciotto miglia e verso mezzogiorno circa venti, e i suoi terreni sono bonissimi, ma producono i grani neri e piccoli; e pochi pozzi o fonti si truovano per questo contado. Fu ello sempre tenuto da certi Arabi, che sono come uomini di villa. Dallo il re di Fez al castellano e governatore della città.


Togat monte.

Togat monte è vicino a Fez verso ponente circa a sette miglia, il qual è per certo molto alto, ma poco largo; e s'estende verso levante fino al piccol fiume di Bunasr, che sono circa a cinque miglia di tratto. Tutta la parte del detto monte che riguarda verso Fez è piantata di viti; cosí la cima, e la parte che risponde verso Essich, è tutta terreno da seminar grano. E per la sommità del monte sono molte grotte e cave ch'entrano sotto la terra, le quali da quelli che vanno ricercando i tesori sono tenute per certi luoghi segreti, dove i Romani nel partirsi da quella regione nascosero, come s'è detto, le lor cose di gran prezzo. Il verno, allora che nessun attende alle viti, questi curiosi e semplici uomini con i loro strumenti s'affaticano di cavare o di far cavare il duro e sassoso terreno; né perciò si ragiona che alcuno niente trovasse. Ora, come i frutti del monte sono tristi e di malo sapore, cosí medesimamente è brutto e spiacevole agli occhi il color dell'uva; e questi frutti e questa uva si maturano avanti i frutti e l'uve degli altri luoghi.


Guraigura monte.

Guraigura è una montagna vicina ad Atlante e discosta da Fez circa a quaranta miglia; e da quella nasce un fiume, il quale corre verso ponente ed entra nel fiume di Bath. Il detto monte è posto fra due grandissime pianure: l'una risponde verso Fez, cioè quel contado che abbiamo di sopra detto, il quale si chiama Esais; e l'altra riguarda verso mezzogiorno, e questa è appellata Adecsen, dove sono bellissimi e bonissimi piani per seminar grano e per pascoli d'animali. Tutte queste pianure sono tenute da certi Arabi, i quali sono detti Zuhair e sono vassalli del re; ma egli assegna il tratto di tal piano le piú volte a qualcuno de' suoi fratelli: e frutta quasi di continovo diecimila ducati. Egli è vero che i detti Arabi sono spesso molestati da certi altri Arabi, chiamati Elhusein, che sono abitatori del diserto, ma la state vengono alla detta pianura: a ciò il re di Fez provede molto bene, mandando in difesa della campagna alcuni cavalli e balestrieri. Per tutti quei piani sono vaghe fontane e chiarissimi fiumicelli, e boschi ne' quali sono leoni cheti e pacifichi, di maniera che ciascun uomo e femina con un bastone gli può scacciare, né essi fanno dispiacere ad alcuno.
Ora seguiremo della regione di Azgar.


Azgar, regione di Fez.

La regione di Azgar dalla parte di tramontana termina al mare Oceano, da ponente ha fine al fiume di Buragrag e da levante compie in alcuni monti di Gumera, e in una parte Zarhon, e a piè del monte di Zalag; di verso mezzogiorno finisce ne' confini del fiume di Bunasar. Questa provincia è tutta pianura di buonissimi terreni, percioché fu abitata da grandissimo popolo e vi furono e città e castelli. Ma per una antica guerra le dette rimasero tutte distrutte, e oggidí niuno segno se ne vede, fuori che alcune poche e piccole città che sono pure in piè e abitate. Estendesi ella per lunghezza circa a ottanta miglia, e per larghezza circa a sessanta. Per mezzo di lei passa il fiume di Subu; e tutti gli abitatori sono Arabi e detti Elchuluth dalla origine di Muntafic: e questi tutti sono sottoposti al re di Fez e gli danno gran tributo, ma sono ricchi e vanno benissimo in ordine, e certamente quivi è il fiore dell'esercito del re, il quale si serve dell'aiuto loro solamente nelle guerre di momento e molto importanti. E in fine questa provincia è quella che mantiene di vettovaglia, di bestiami e di cavalli tutti i monti di Gumera e la città di Fez. Il re usa di farvi la sua stanza tutto il verno e la primavera, percioché i paesi sono dilettevoli e sani, e vi è sempre molta copia di caprioli e di lepri. Egli è vero che pochi boschi vi si truovano.


El Giumha, città in Azgar.

El Giumha è una piccola città edificata a' nostri tempi dagli Africani sopra un fiumicello, in una pianura dal capo dalla detta regione o provincia, cioè donde si va da Fez a Lharais città. È lontana da Fez circa a trenta miglia. Questa città fu molto abitata e piena di civilità, ma la guerra tante volte ricordata di Sahid la distrusse. Oggi solamente si truovano certe fosse, nelle quali i vicini Arabi tengono i loro grani, e vi lasciano appresso alcuni padiglioni alla guardia dei detti grani; son di fuori mulini, dove questi si macinano.


Lharais città.

Lharais è una città fabricata dagli antichi Africani sul mare Oceano, dove entra il fiume Luccus, da una parte posta su la riva del detto fiume e dall'altra sopra l'Oceano. Ne' tempi che Arzilla e Tangia furono de' Mori era molto abitata, ma poi che le due città vennero in potere de' cristiani rimase abbandonata, che fu circa a venti anni. Dopo i quali un figliuolo del presente re di Fez deliberò di far riabitarla, e la fortificò molto bene, tenendola sempre fornita di soldati e di vettovaglia, percioch'egli si sta in continovo sospetto de' Portogallesi. La città ha un porto molto difficile a chi vuole entrar nella bocca del fiume. Vi fece ancora il figliuolo del detto re edificare una rocca, nella quale sempre tiene un capitano con dugento balestrieri, cento archibusieri e trecento cavalli leggieri.
Nel circuito della città sono molte, paludi e prati, dove si piglia gran quantità d'anguille e di uccelli d'acqua; e su le rive del fiume v'ha oscuri boschi, ne' quali sono molti leoni e altri feroci animali. Hanno gli abitatori della detta città antica usanza di far carboni, e gli mandano per mare ad Arzilla e Tangia, intanto che quei di Mauritania usano un proverbio quasi di questa maniera, quando una cosa dimostra piú di quello che ella è: come il navilio di Harais, il quale ha la vela di bambagio e la mercanzia di carbone; percioché nelle campagne di questa città si fa gran quantità di bambagio.


Casar Elcabir, cioè "il gran palazzo".

Casar Elcabir è una città edificata nel tempo di Mansor, re e pontefice di Marocco, per suo ordine. E narrasi per cosa certa che un giorno, cacciando il detto re per quelle campagne d'intorno, fu sopragiunto da una gran pioggia con un terribil vento e oscurità d'aere, di maniera ch'ei si smarrí dalla compagnia, e si ridusse la notte in un luogo senza saper dov'egli fusse, convenendogli in tutto alloggiare alla campagna. E mentre egli si stava sul piè fermo, temendo d'affogar nelle paludi, vidde un lume, e la buona ventura gli mandò innanzi un pescatore, il costume del quale era di pigliare anguille per le dette paludi. A costui disse il re: "Saprestimi voi insegnare dove sia l'alloggiamento del re?" Rispose il pescatore che quello era lontano a dieci miglia e, pregandolo il re che ve lo accompagnasse, "Se vi fusse al Mansor in persona, - disse il pescatore, - non vel condurrei a quest'ora, percioché temerei ch'egli s'affogasse in queste paludi". "E che appartiene a te la vita d'al Mansor?" soggiunse il re. "O, - disse egli, - il re merita esser da me amato a par di me medesimo". Seguitò il re: "Adunque qualche gran beneficio hai tu ricevuto da lui". "Quale maggior beneficio, - rispose costui, - si può ricever da un re, della giustizia e della gran bontà e amorevolezza ch'egli mostra nel governo del suo popolo? Onde io povero pescatore, insieme con la mia moglie e la mia piccola brigatella, mi posso godere la mia povertà in pace. Ed esco della mia capannetta a mezza notte, e vi ritorno quando mi viene disio, né fra queste valli e questi luoghi selvaggi si truova uno che mi dia noia. Ma voi, gentiluomo, venite, s'egli vi piace, ad alloggiar meco questa notte, e di mattina m'arete per guida a qual luogo vi sarà in grado". Il re accettò l'invito e n'andò col buon uomo alla sua piccola capanna, dove, come fur giunti, adagiato e ben proveduto di biada al suo cavallo, fece il pescatore arrostire di quelle anguille e le pose inanzi al re, il quale fra quello spazio s'avea, come meglio poté, asciugato i panni intorno a un buon fuoco che tutta volta ardeva. Ma, non gli piacendo quel pesce, dimandò s'egli qualche poco di buona carne avesse. Disse il povero uomo: "Gentiluomo, la ricchezza mia è d'una capra e d'un capretto che ancor latta; ma io stimo aventurato quell'animale le cui carni possono onorare un par vostro, percioché, se la vostra apparenza non m'inganna, voi dimostrate d'esser qualche gran signore". E senza piú parlare, svenato il capretto, lo fece acconciare e arrostire alla donna sua. Il re cenò e prese riposo per insino alla mattina. Partissi adunque dalla capanna la mattina per tempo con la guida del cortese oste, ma non furono ancora fuori delle paludi ch'essi trovarono la gran moltitudine de' cavalieri e de' cacciatori, che turbati con alti gridi andavano cercando il re; e come lo viddero, ciascuno si rallegrò. Allora Mansor, rivolto al pescatore, disse chi egli era, e che arebbe sempre a memoria la sua cortesia. E perciò, mentre ch'egli stette nella campagna, aveva fatto fabricare spessi e bei palazzi e molte case; nella sua partita gli dette per premio al pescatore, il quale lo pregò che gli piacesse, a dimostramento di maggior sua bontà e cortesia, di far cinger quei palazzi e case di muro: il che fu fatto.
E il pescatore si rimase signore della nuova piccola città, la quale di giorno in giorno accrebbe, di modo che in brieve tempo ella divenne città di quattrocento fuochi, per la molta abbondanza del paese. E il re usava di stare in quel terreno d'intorno tutta la state, il che fu eziandio cagione della bonificazion della detta città.
Passa appresso le sue mura il fiume detto Luccus, il quale cresce alle volte tanto che entra per la porta della città. Ella è tutta fornita d'artigiani e di mercatanti, e ha molti tempii, un collegio di scolari e uno spedale. Non v'è né fonte né pozzo, ma gli abitatori si sogliono valere di certe cisterne; i quali abitatori sono uomini buoni e liberali, ma piú tosto semplici che altrimenti: veston bene, e usano di portare alcuni panni rivolti intorno, fatti a guisa di lenzuoli, di tela bambagina. Fuori della città sono molti giardini e possessioni, dove si truovano buonissimi frutti; ma l'uva è di cattivo sapore, percioché i terreni sono prati. Il lunedí si fa nella campagna un mercato, al quale vi concorrono tutti i vicini Arabi. Il mese di maggio costumano i cittadini d'andar fuori a uccellare, e pigliano gran quantità di tortore. Il terreno è nel vero fertile e rende le piú volte di semenza trenta per uno: ma gli abitatori non possono coltivar quasi intorno a sei miglia, percioché sono molestati dai Portogallesi che abitano in Arzilla, essendo la città discosta da Arzilla non piú che diciotto miglia. Ancora il capitano di questa fa non poco danno a' Portogallesi, percioché tiene trecento cavalli, e le piú volte con questi corre per insino alle porte d'Arzilla.


Habat regione.

Habat regione comincia dal fiume Guarga dal lato di mezzogiorno, e da tramontana termina al mare Oceano; di verso ponente confina con le paludi d'Azgar, e da levante in li monti che sono sopra lo stretto delle colonne di Ercole. Ha di larghezza circa a ottanta miglia e di lunghezza circa a cento. Questa regione quanto alla fertilità e abbondanza è in vero mirabile, e la piú parte è pianura, dove ha molti fiumi. Ma appresso gli antichi fu piú nobile e di maggior fama che non è a' nostri dí, percioché sono in lei molte antichissime città, parte edificate da' Romani e parte da' Gotti; e penso che questa sia quella regione che fu da Tolomeo Mauritania appellata. Ma da che fu fabricata Fez, la detta incominciò a declinare. A questo s'aggiunse che, doppo la morte di Idris edificatore di Fessa, pervenne il regno a dieci suoi figliuoli, li quali dividendolo in altretante parti, toccò questa regione al fratel maggiore. Doppo ne seguí la rebellione di molti eretici e signori, i quali, mentre che chi gli chiama li signori di Granata di Spagna e chi chiama li signori del Cairoan, furon vinti e scacciati da un pontefice del Cairoan, che fu puro eretico, e acquistò questa regione e, lasciatovi alcuni suoi capitani e governatori, ritornò al suo paese. Allora il gran cancellieri di Cordova, mandò in lei un grosso esercito e in brieve s'impadroní di tutto quel tratto per insino alla region di Zab. D'indi a cinquanta anni, vi venne Giuseppe primo re di Lontuna e scacciò questi di Granata. Finalmente la regione rimase sotto il dominio del re di Fez.


Ezaggen, città di Habat.

Ezaggen è città edificata dagli antichi Africani su una costa d'una montagna, vicina al fiume Guarga circa a dieci miglia: e tutte queste dieci miglia sono pianure che danno luogo ai campi e agli orti loro, ma molto piú sono i terreni del monte. Questa città è discosta da Fez settanta miglia e fa circa a cinquecento fuochi; il suo contado fra il monte e il piano può dar di rendita circa a diecimila ducati. E colui che gli possiede è obligato di tenere al re di Fez quattrocento cavalli in custodia del detto paese, percioché i Portogallesi sogliono farvi di spesse corriere da quaranta o cinquanta miglia da lontano. La città non è molto civile, ben vi sono artigiani di cose necessarie, ma è molto bella e piena di molte fontane. Gli abitatori sono ricchi, ma pochi usano abito da cittadino. Hanno privilegio, concesso loro dagli antichi re di Fez, di poter ciascuno ber vino, percioché il vino è vietato dalla legge maumettana: e tuttavia non è alcun che non ve ne bea.


Bani Teude.

Bani Teude è una città antichissima edificata dagli Africani in una bellissima pianura sopra 'l fiume Guarga, discosta da Fez circa quarantacinque miglia. Soleva ne' buoni tempi già fare ottomila fuochi, ma nella guerra de' pontefici del Cairoan fu tutta distrutta, eccetto le mura. Io vi sono stato, e vidivi molte sepolture d'uomini nobili, e alcune fontane murate di pietre vive, in vero maravigliose. È vicina a' monti di Gumera circa a quattordici miglia, e i terreni sono molto fertili e abbondantissimi.


Mergo città.

Mergo è una città su la cima d'un monte, vicina alla sopradetta circa a dieci miglia, la quale si dice che fu edificata da' Romani, percioché vi sono certe antiche mura dove si leggono alcune lettere latine. Questa città è oggidí disabitata, ma è nella costa del monte un'altra piccola città, la quale è onestamente abitata, e sono in lei molti tessitori di tela grossa. D'intorno alla città è una campagna di buoni terreni, e dalla detta città si veggono due grossi fiumi: l'uno è Subu, dalla parte di mezzogiorno, e l'altro da tramontana, che è Guarga; è discosto da ciascun fiume cinque miglia. Gli abitatori vogliono esser detti gentiluomini, ma sono avari, ignoranti e senza alcuna virtú.


Tansor.

Tansor è una città discosta da Mergo circa a dieci miglia, sopra una piccola montagnetta, nella quale sono trecento case, ma pochissimi artigiani. Gli abitatori, uomini di grosso intelletto, non tengono né viti né giardini, ma solamente arano per lo grano; hanno buona quantità d'animali. La città è posta alla metà della strada che è da Fez ai monti di Gumera: per tal cagione sono avarissimi e ispiacevoli senza comparazione.


Agla.

Agla è una città antica, edificata dagli Africani sul fiume Guarga. Vi sono d'intorno buoni terreni coltivati dagli Arabi, percioché la città fu rovinata nelle guerre passate; ma sonvi ancora le mura intere e alcuni pozzi di dentro. Nella sua campagna si fa ogni settimana un bellissimo mercato, al quale vanno molti Arabi e contadini di quel paese; vannovi ancora molti mercatanti di Fez per comperar cuoi di buoi e lana e cera, perché in questo terreno ve n'è in grande abbondanza. Sono nella campagna molti leoni, ma di tanta vile natura che sino a' fanciulli, sgridandogli, gli fanno paura e pongongli in fuga. Di qui è nato un proverbio in Fez, che, veggendosi un uomo che essendo vile faccia in parole il gagliardo, se gli dice: "Tu sei valente come i leoni di Agla, a' quali i vitelli sogliono mangiar la coda".


Narangia.

Narangia è un castello edificato dagli Africani su una piccola montagna, appresso il quale passa il fiume Luccus; e il detto castello è vicino a Ezaggen circa a dieci miglia, ha bonissimi terreni intorno, ma non son piani. Su la riva del fiume sono foltissimi boschi, dove si truova gran quantità di frutti salvatichi, massimamente ciriegie marine. Fu questo castello preso e saccheggiato da' Portogallesi; ora è rimaso disabitato e diserto, nell'anno di legira 895.


Gezira.

Gezira è un'isola nella gola del fiume Luccus, dove il detto fiume entra nell'Oceano, lontana dal mare circa a dieci miglia e discosta da Fez cento miglia. E in questa isola fu una piccola città antica, la quale fu abbandonata nel principio delle guerre de' Portogallesi. Intorno al detto fiume sono molti boschi, e pochi terreni da lavoro. Negli anni ottocentonovantaquattro di legira, il re di Portogallo mandò una grandissima armata, la quale come fu entrata nel fiume, il capitano incominciò a fabricare una nuova fortezza nell'isola, considerando che la potria soccorrer e occupar tutte le campagne vicine. Il re di Fez padre del presente re, prevedendo il danno che di leggiero gli poteva occorrere se egli lasciava fornir la detta fortezza, vi mandò ancora egli un grandissimo esercito per vietare a' Portogallesi quell'opera; ma non poté l'esercito accostarvisi a due miglia di lunghezza, per la molta e terribile artiglieria de' Portogallesi, che di continovo scoccava: per il che il re era quasi a ultima disperazione. Ma dipoi, per consiglio d'alcuni, fece fare certi bastioni di legno, i quali furon piantati in mezzo il fiume di sotto l'isola quasi due miglia: ed essendo coperti essi da questi ripari, fatto tagliare tutto il bosco vicino, in piccolissimo tempo viddero i Portogallesi l'entrata del fiume serrata da grossissimi alberi, di modo che non era possibile di piú uscirne con l'armata. Il re, conoscendo d'aver la vettoria in mano, pensò di combattere; poscia, considerando che gran moltitudine del suo popolo poteva perire, per il che il vincer s'arebbe potuto dimandar perdita, patteggiò col capitano dell'armata che, oltre a una grossa taglia che gli diede, facesse che 'l re di Portogallo gli restituisse certe figliuole del capitano del re di Fez, che aveva nella città prigione; e lo lasciarebbe andare con la sua gente senza nocumento niuno. Il che fu fatto, e l'armata ritornò a Portogallo.


Basra.

Basra è una città non molto grande, e fa circa a duemila fuochi. Fu edificata in una pianura fra due monti da Mahumet, figliuolo d'Idris edificatore di Fez. È discosta da Fez circa a ottanta miglia e da Casar venti, cioè di verso mezzogiorno. E fu detta Basra in memoria di Basra, città di Arabia Felice, dove fu ucciso Hali, quarto pontefice doppo Maumetto, che fu il bisavolo di Idris. Questa città fu murata con alte e bellissime mura, e per tutto il tempo che regnò la casa di Idris fu in lei molta civiltà. E i successori d'Idris usavano di far dimora la state nella detta città, percioché ha bellissimo contado, sí de' monti come delle pianure: nei cui siti furono già molti giardini, e sonvi perfettissimi campi per grano, percioché è vicino alla città e per li piani passa il fiume Luccus. Fu ella molto bene abitata e fornita di tempii, e gli abitatori furono uomini di gentilissimo spirito. Ma col fine della famiglia d'Idris i nimici guastarono e rovinarono la città: ora vi rimangono in piè i muri e qualche giardino, ma selvaggio e senza alcun frutto, perché i loro terreni piú non si lavorano.


Homar.

Homar è una città edificata pure da uno il cui nome fu Hali, figliuolo del sopraditto Mahumet; la quale è sopra una collina su un fiumicello, discosta da Casar circa quattordici miglia verso tramontana, e da Arzilla verso mezzogiorno circa sedici. Non fu gran città, ma molto bella e forte, e d'intorno sono bellissime campagne, tutte pianure di buoni terreni. Era cinta da molti giardini e da viti, ripieni tutti d'ottimi frutti. Gli abitatori per la maggior parte furono tessitori di tele, percioché raccoglievano di molto lino. Rimase priva d'abitazione allora che Arzilla fu presa da' Portogallesi.


Arzilla.

Arzilla, chiamata dagli Africani Azella, fu gran città ed edificata da' Romani sul mare Oceano, vicina allo stretto delle colonne di Ercole circa a settanta miglia e discosta da Fez circa a centoquaranta. Questa fu suddita al signor di Sebta, che era tributario de' Romani; dipoi fu presa da' Gotti, i quali pure vi confermarono il detto signore. Indi fu presa da' maumettani, gli anni novantaquattro di legira: essi ne furono per dugentoventi anni possessori, per insino a tanto che gli Inglesi, con una grossa armata, a persuasione de' Gotti l'assediarono; i quali furono insieme nimici, percioché i Gotti erano cristiani e che gli Inglesi adoravano gl'idoli. E ciò essi facevano a fine che i maumettani levassero il piè dell'Europa. Successe l'impresa agl'Inglesi, e presa la città la posero a ferro e a fiamme, onde non ve ne iscampò un solo; e cosí si rimase presso a trenta anni rovinata e disabitata. Ma poscia, regnando i signori e pontefici di Cordova in Mauritania, la restaurarono e ritornarono a migliore e piú nobile qualità e fortezza. E gli abitatori furno uomini molto ricchi e litterati e di guerra. Il contado è fertilissimo di grani e di frutti, ma per esser la città discosta dieci miglia dai monti, ha quasi penuria di legna: ma usano d'abbruciar carbone, qual fanno condurre in gran quantità da Harais, come abbiamo detto di sopra.
Negli anni ottocentoottantadue del medesimo legira, fu questa città d'improviso assaltata e presa da' Portogallesi, e tutti gli abitatori che si trovarono furon menati prigioni a Portogallo. Tra' quali fu Mahumet, che è oggidí re di Fez, il quale, allora fanciullo di sette anni, fu preso insieme con una sua sorella della medesima età, percioché in que' dí, il padre suo avendo ribellata la provincia di Habat, abitava in Arzilla. E poscia che fu ucciso Habdulac, ultimo re della casa di Marin, per mano di Esserif, che fu un gran cittadino di Fez, con l'aiuto del popolo, il detto popolo creò Esserif re. Venne dipoi un Saic Abra, per entrare in Fez e farsi egli re. Ma Esserif, per consiglio e discorso d'un suo maggior consiglieri, ch'era fratel cugino del detto Saic, lo scacciò adietro con gran vituperio. Dipoi, avendo mandato il detto consigliere in Temesna a pacificar quel popolo, fra quel tempo ritornò Saic col soccorso di forse ottomila cavalli arabi e, assediata Fez nuova, in capo d'un anno, per tradimento de' cittadini, che non si fidavano di piú sostener le loro necessità, di facile la prese. Ed Esserif con tutta la sua famiglia fuggí al regno di Tunis.
Nel tempo adunque che Saic teneva assediata Fez, il re di Portogallo vi mandò una sua armata e, come detto abbiamo, prese questa Arzilla: e cosí il re d'oggi con la sorella furon menati prigioni a Portogallo, e ivi il detto re stette in cattività sette anni, ne' quali molto bene apprese la lingua portogallesca. In fine il padre con molta somma di danari ottenne il riscatto del figliuolo, il quale, asceso al regno, fu appellato per questa cagione il re Mahumet portogallese. Egli molte volte dipoi sollecitò alla vendetta contro a' Portogallesi, cercando di riaver Arzilla.
La prima fiata assaltò con tutto il suo esercito d'improviso la città, e ispianò una gran parte di mura, e v'entrò dentro liberando tutti i Mori ch'erano fatti schiavi. Ma i cristiani si ridussero nel castello e, dando parole al re di rendere il detto castello, vi posero in mezzo due giornate, in capo delle quali sopravenne Pietro Navarro con molti legni armati, e per forza dell'artiglierie constrinse il re, a suo mal grado, non solo a lasciar la città ma a partirsi col suo esercito. Allora i Portogallesi la fortificarono, in tanto che dipoi piú volte il re tentò di racquistarla, ma fu giudicato cosa impossibile a poterla aver per forza. Io mi trovai di continovo a questi assedii nell'esercito del re, e vi lasciammo de morti cinquecento e piú. Queste guerre del re furno fra gli anni novecentoquattordici fino a novecentoventuno di legira.


Tangia città.

Tangia è detta da' Portogallesi Tangiara, ed è una gran città, edificata anticamente, secondo la falsa oppenione d'alcuni istorici, da un signore chiamato Sedded, figliuolo di Had, il quale, com'essi vogliono, ebbe universal dominio in tutto il mondo e volse far edificare una città che fusse simil al paradiso terrestre, onde fece far le mura di bronzo e i coperti delle case d'oro e d'argento. E mandava suoi commessi per tutto il mondo a riscuotere i tributi: questa fu una di quelle città che a que' dí ve gli pagarono. Ma i buoni istorici dicono ch'ella fu fabricata da' Romani sul mare Oceano, al tempo che essi occuparono la Granata, discosta dallo stretto delle Colonne circa a trenta miglia e da Fez centocinquanta. E poi che i Gotti dominarono la detta Granata, allora questa città fu fatta soggetta al dominio di Sebta, per insino ch'ella venne in mano de' maumettani, il che fu quando essi ebbero Arzilla.
Fu sempre civile, nobile e bene abitata, ed ebbe in lei bellissimi palazzi, quale antico e quale moderno. Il terreno che la circonda non è molto buono da semenza, ma ha certe valli vicine, le quali sono bagnate dall'acqua d'una fonte: e in queste valli sono molti giardini, dove nascono melangole, limoni e altri frutti. Sono eziandio fuori della città alcune viti, ma il terreno è arena. Il popolo della quale visse con molta grandezza fin che fu occupata Arzilla: il che inteso dal detto popolo, preso ogniuno le sue cose piú care, sgombrò subitamente la città e fuggí verso Fez. Allora il capitano del re di Portogallo vi mandò un suo capo con molta gente, il quale tanto la tenne in nome del re che il re un suo parente vi mandò, perché è terra d'importanza, vicina alli monti di Gumera inimici de' cristiani.
Ma, prima che la città venisse in poter de' Portogallesi circa a venticinque anni, il re mandò una grossa armata, sperando che la città non potesse aver soccorso, essendo il re di Fez intervenuto nella guerra contra un suo ribello, che gli avea levata Mecnase città. Ma contra ogni sua oppenione il re, fatta triegua col detto, vi mandò a difesa un suo consigliere con molto esercito, il quale ruppe i Portogallesi e uccisene una gran parte, fra' quali fu il capitano, il cui corpo serrato in una cassa fu portato alla nuova Fez e posto in un alto luogo, acciò fusse da tutti veduto. Non contento il re di Portogallo di questa rotta, rifece fra poco tempo un'altra armata, la quale fu vinta come l'altra con grande uccisione e danno, non ostante che i Portogallesi assaltassero la città all'improviso e di notte. Ma quello che il re di Portogallo non poté acquistar con due armate, ebbe finalmente, quando piacque alla fortuna, con pochi soldati e senza spargimento di sangue, nel modo che abbiamo detto di sopra. Egli è vero che a' nostri dí Mahumet re di Fez fece disegno di prender questa città, ma nel vero non gli successe, percioché i Portogallesi gli si hanno dimostrato sempre pronti e gagliardi difensori: e ciò fu gli anni di legira novecentodicesette.


Casar Ezzaghir, cioè "il palazzo minore".

Casar Ezzaghir, piccola città, fu edificata da Mansor, re e pontefice di Marocco, sul mare Oceano, discosta da Tangera circa a dodici miglia e da Sebta diciotto. Edificolla egli percioché, faccendogli di mestiero di andar ciascun anno in Granata con l'esercito, era malagevole a passar certi monti verso Sebta, dove è il passo per arrivar al mare. E fatta questa città in un bel sito e piano, e da lei si vede la riviera della Granata che risponde a quella parte. Fu molto civile, e gli abitatori furno quasi tutti marinai, i quali sogliono fare il passaggio di Barberia in Europa. Ve ne furno ancora di tessitori di tele, e v'erano assai ricchi mercatanti e valenti uomini. Il re di Portogallo le fece d'improviso dare assalto e l'ebbe: onde dipoi piú volte il re di Fez, con ogni suo sforzo di gente, ha tentato di ricuperarla, né mai gli è venuto fatto. Fu nell'anno ottocentosessantatre di legira.


Sebta, gran città.

Sebta è città grandissima, chiamata da' Latini Civitas e da' Portogallesi Seupta. Fu edificata, secondo la vera oppenione, da' Romani, su la gola dello stretto delle colonne di Ercole, e fu capo di tutta Mauritania, percioché i Romani la nobilitarono, e vi fu molta civilità e gran numero di abitatori. Dapoi fu presa da' Gotti, i quali vi posero dentro un signore: e rimase il dominio nelle lor mani per insino che i maumettani entrarono in Mauritania ed ebbero questa città. Il che fu che Giuliano, conte di Sebta, ricevé allora una grande ingiuria da Roderico, re de' Gotti e di tutta Spagna; onde egli, accordatosi con gl'infideli, gl'introdusse a Granata: e fu cagione che Roderico perdesse il regno e la vita. I maumettani adunque ebbero Sebta e la tennero in nome d'un lor pontefice, detto Elgualid figliuolo di Habdul Malic, che allora aveva il suo seggio in Damasco: e fu negli anni novantadue di legira.
Questa città da quel tempo per insino a' prossimi anni è sempre ita crescendo, sí in civilità come in numero d'abitatori, a tanto ch'ella n'è divenuta la piú bella e la meglio abitata città che sia in Mauritania. Furno in lei molti tempii e collegi di studenti, molti artigiani, e uomini litterati e di gentile spirito. E de lavori di rame v'erano singularissimi artefici, come sono di candellieri, di bacini, di calamai e di cose tali di rame, e gli vendevan come se fusser stati d'argento. Io ve n'ho veduti in Italia, e molti Italiani gli avevano per lavori dammaschini: ma questi nel vero erano piú gentili e meglio fatti. Fuori della città sono bellissime possessioni con bellissime case, spezialmente in un luogo che, per la moltitudine delle viti che vi sono piantate, è detto Vignones. Ma la campagna della città è magra e aspra: per tal cagione v'è sempre nella città carestia di grano. Di fuori e dentro della detta città si vede la riviera di Granata su lo stretto, e si conoscono gli animali, percioché non c'è di spazio, da una parte all'altra del mare, piú che dodici miglia per larghezza.
Ma la povera città ebbe, pochi anni sono, molti danni da Habdul Mumen, pontefice e re, contra cui teneva: egli la prese, rovinò le sue case e condannò gran quantità de nobili a perpetuo esilio in diverse parti. Il simil danno sostenne dipoi dal re di Granata, il quale presala, oltre le rovine, tutti i nobili e ricchi fece venire in Granata. Poi, negli anni ottocentodiciotto, fu presa da un'armata del re di Portogallo, e quelli che v'erano dentro fuggirono. Ma Abu Said, allora re di Fez, per sua dappocaggine non si curò di riacquistarla, anzi, quando alle sue orecchie pervenne la nuova, trovandosi fra conviti e danze, non volle per quello avviso che s'interrompesse la festa. Permise poi la man di Dio che egli miseramente una notte fu ucciso da un suo antico secretario, di cui molto si fidava, insieme con sei suoi figliuoli, percioché il detto re volse impacciarse con la moglie del detto: che fu gli anni ottocentoventiquattro di legira; rimase allora il regno di Fez vedovo circa a otto anni. Fu poi trovato un suo piccolo figliuolo nasciuto d'una cristiana, che la notte degli omicidi era fuggita in Tunis: questi fu Habdulac, l'ultimo re della casa di Marin, e fu ancora egli ucciso dal popolo, come si disse disopra.


Tetteguin.

Tetteguin è una piccola città edificata dagli antichi Africani, discosta dallo stretto circa a diciotto miglia e dal mare Oceano circa a sei. I maumettani la presero nel tempo che tolsero Sebta a' Gotti. Dicesi che i Gotti, allora che l'ebbero acquistata, diedero il dominio a una contessa, la quale aveva un solo occhio, e veniva ogni settimana alla città per riscuotere l'utile che ne traeva: e perché ella aveva solamente un occhio, gli abitatori chiamarono la città Tetteguin, il che nella lingua africana significa "occhio". D'indi a certo tempo i Portogallesi diedeno battaglia a questa città, e l'ebbero, e il popolo si fuggí.
Ella rimase circa a novantacinque anni disabitata, in capo de' quali fu ristorata e fatta riabitar da un capitan granatino, il quale venne col re di Granata a Fez, doppo che Granata fu presa da don Ferrando re di Spagna. Costui fu uomo eccellente nella milizia, e dimostrò molta prodezza nelle guerre di Granata: e appresso i Portogallesi lo chiamano Almandali. Costui ottenne di poter rifare e godersi il dominio di questa città, e cosí egli ritornò in piè tutte le mura e fece fabricare una rocca fortissima, cingendo la fortezza e le mura di fosse. Egli poscia di continovo ebbe a guerreggiar contra a' Portogallesi, e faceva spessi e gran danni a Sebta, Casar e Tangera, percioché il detto teneva sempre trecento cavalli, uomini tutti granatini e il fiore di Granata. Con questi correva per quei paesi e pigliava molti cristiani, i quali tenendo prigioni gli affaticava di continovo nei lavori delle sue fortezze; e io, una volta che fui in detta città, viddi tremila schiavi cristiani, che eran tutti vestiti di sacchi di lana e dormivan la notte in certe fosse sotto terra, bene incatenati. Fu costui uomo liberalissimo, intanto che onorava ogni forestiero che passasse per la sua città. E poco tempo è ch'egli si morí, dapoi che rimase privo della vista, percioché l'uno degli occhi gli tolse una punta di pugnale, della luce dell'altro fu privo nella sua vecchiezza. Rimase la città a un suo nipote, ch'è oggi valentissimo uomo.


Monti di Habat.

In Habat sono otto monti piú famosi degli altri, i quali sono abitati dal popolo di Gumera: e quasi tutti gli abitatori sono d'una medesima vita e costume, percioché tutti tengono la fede di Maumetto; nondimeno bevono vino contra il suo precetto. Sono gagliardi della loro persona, molte fatiche e affanni sofferiscono, ma vanno male in arnese. Sono soggetti al re di Fez e hanno molta gravezza dei tributi che gli pagano, di maniera che pochi possono vestir bene, eccetto alcuni, come particolarmente vi si dirà.


Rahona monte.

Rahona è un monte vicino di Ezaggen, il quale è lungo trenta miglia e largo circa dodici, nel qual si truova grandissima abbondanza d'olio, dí mele e di viti. Gli abitatori ad altro non attendono che a far sapone e a purgar la cera, e ricogliono eziandio gran quantità di vini neri e bianchi, quali tutti se gli beono. Frutta il monte di rendita al re tremila ducati, i quali sono assegnati al capitano e governator di Ezaggen, per mantener quattrocento cavalli ai servigi del re.


Beni Fensecare monte.

Beni Fensecare è un monte che confina col sopradetto, il quale è circa a vinticinque miglia per lunghezza, e per larghezza circa a otto. E piú del detto abitato, e sono in lui molti conciatori di cuoi di vacca e molti tessitori di tele grosse. Essi ancora raccolgono molta cera, e fanno il sabbato un gran mercato, dove si truova ogni sorte di mercatanti e di mercanzie: per insino a Genovesi vanno al detto mercato per comperar cera e cuoi crudi di bue, i quali fanno portare a Genova e a Portogallo. Rende questo monte seimila ducati: la metà risponde al capitano di Ezaggen, e l'altra metà si dà alla camera del re di Fez.


Beni Haros monte.

Beni Haros è monte vicino di Casar, e verso tramontana s'estende circa a otto miglia, e verso ponente venti; ve n'ha di larghezza sei. Fu abitato da certi nobili e cavalieri, ed era popoloso e abbondante: ma furon questi nobili molto tiranni verso il popolo, di maniera che, doppo che Arzilla fu presa da' Portogallesi, essi abbandonorno il monte. E oggi nella cima del monte solamente sono alcuni pochi casali; il resto è disabitato. Soleva esser la rendita di questo monte tremila ducati, i quali erano dati al capitano di Casar.


Chebib monte.

In questo monte sono circa a sei o sette castella, ed è abitato da gente civile e molto onesta, percioché, quando Tangera fu presa da' Portogallesi, molti suoi cittadini vennero ad abitar questo monte, per esser discosto da Tangera venticinque miglia. Ma gli abitatori sono molto da' Portogallesi molestati, e nella perdita di Tangera il detto monte fu peggiorato per la metà, e di continovo va peggiorando: il che avviene percioch'egli è lontano dal capitano della custodia trenta miglia, per modo che non se gli può dar soccorso a tempo, ogni volta che i Portogallesi vi fanno le correrie, guastando e depredando ciò che possono.


Beni Chessen.

Beni Chessen è un monte altissimo e difficile ad esser preso da nimici, percioché, oltre alla qualità del luogo, è abitato da uomini valorosi e di gran prodezza. Costoro, non potendo sostener la tirannide d'alcuni lor cittadini, per forza d'arme gli levaron la superbia di capo, e molti a strana condizione ridussero. Allora un giovane de' detti nobili, sdegnandosi d'esser soggetto de' suoi soggetti, ripieno di mal talento andò in Granata, dove, per alcun tempo militando al soldo de' cristiani, si fece uno esperto guerriero. Tornò dipoi ad abitare ad uno di que' monti dove erano ricorsi i suoi uguali, e raunato un numero assai onesto di cavalli, difendeva quel monte dall'empito de' Portogallesi. Per il che il re, vedendo il pronto animo di costui, gli aggiunse centocinquanta balestrieri, co' quali egli combatté il sopradetto monte e scacciò da quello i suoi nimici. Ma usurpandosi egli poi l'entrata di questo monte, che apparteneva al re di Fez, il re si sdegnò e se gli mosse contra con grande esercito. Ma il detto presto discese a penitenzia del suo errore; perdonogli il re, e lo confermò signore di Seusauon e di tutto quel contado. Doppo lui ne fu signore legittimo, che fu della origine di Maumetto e del legnaggio d'Idris, che edificò Fez. Costui è molto conosciuto da' Portogallesi, e molto l'istimano per il suo nome e per la casata de Helibenres.


Angera monte.

Angera monte è vicino a Casar minore circa otto miglia verso mezzogiorno; s'estende per lunghezza circa dieci e per larghezza tre. Ha buoni terreni, percioché gli abitatori lo purgarono d'alberi per far navigi in Casar, nel qual era l'arsenal; usarono ancora a seminarvi del lino, e furono tutti o tessitori di tele o marinai. Ma quando Casar fu preso da' Portogallesi, allora gli abitatori lasciarono il monte; ma tuttavia oggidí vi sono tutte le sue case e le possessioni, tali quali se fussero abitate e coltivate.


Quadres.

Quadres è un altissimo monte fra Sebta e Tetteguin; è abitato da uomini di somma gagliardezza, i quali fecero di gran pruove nella guerra che ebbero li re di Granata con gli Spagnuoli, perché questi montanari usavan d'andar in Granata per soldati di ventura, e valevano piú di tutto il resto de' soldati de' detti re. Di questo monte fu uno, che si chiamava Hellul, il quale ha fatto similmente di grandi combattimenti con detti Spagnuoli: e il volgo d'Africa e di Granata tiene appo lui le istorie scritte de' fatti suoi, alcuni in prosa e altri in verso, sí come fra gl'Italiani si tengono i fatti d'Orlando. Ma egli al fine fu ucciso nella guerra degli Spagnuoli, quando fu rotto Giuseppe Enesir, re e pontefice di Marocco, sopra un castello in Catalogna, il quale i Mori appellano il castello dell'Aquila. De' Mori furono uccisi sessantamila combattenti, né vi scampò di quello esercito altri che 'l re e alcuni pochi de' sua: questo fu negli anni seicentonove di legira, che può esser negli anni di Cristo millecentosessanta. Doppo quella rotta i cristiani incominciarono ad esser nella Spagna vittoriosi, intanto che riebbero tutte le città che erano state occupate da' Mori. E da quella cosí gran rotta fino al tempo che 'l re don Fernando acquistò Granata, fu lo spazio d'anni 285 secondo gli Arabi.


Beni Guedarfeth monte.

Beni Guedarfeth è un monte vicino a Tetteguin, ed è molto abitato, ma non molto s'estende; i suoi abitatori sono valenti uomini e hanno qualche qualità. Sono sotto il capitano della sopra detta Tetteguin, il qual molto osservano, percioché con esso lui vanno a depredar parimente nel contado della città tenuta da' cristiani: onde aviene che essi non pagano al re di Fez gravezza alcuna, fuor che certo piccolo censo per conto de' loro terreni. E all'incontro cavano del monte gran quantità di danari, percioché v'è gran moltitudine di bossi, e i maestri dei pettini che sono in Fez di questi si servono ne' lor lavori, levandone ogni anno non poco numero.


Errif, regione di Fez.

Errif è una regione del detto regno, la quale incomincia dal confino dello stretto delle colonne d'Ercole dalla parte di ponente, e s'estende verso levante insino al fiume Nocor, che sono circa a centoquaranta miglia di tratto. Da tramontana termina nel mare Mediterraneo, cioè nella sua prima parte, e allungasi verso mezzogiorno circa a quaranta miglia, insino a' monti che rispondono verso il fiume Guarga, il quale è nel tenitoro di Fez. Questa regione è paese tutto aspro, pieno di freddissimi monti, dove sono molti boschi di alberi belli e dritti: ma non vi nasce grano; ben vi sono assai viti, ficaie, olive e mandorli. Gli abitatori eziandio sono uomini valenti, ma molto volentieri s'imbriacano e vanno mal vestiti. Vi si truovano pochi animali, eccetto capre, asini e simie, che sono in gran quantità nei detti monti. Cittadi ve ne son poche, ma sono tutti castelli e villaggi di tristi casamenti, fatti in uno solaio, a guisa delle stalle che si veggono nei contadi d'Europa, li loro tetti formati e coperti di paglia e di cotai scorza d'alberi. Infine tutti gli uomini di questo monte hanno nella gola quei gossi che si veggono alle volte ad alcuni, e sono equalmente bruttissimi e ignorantissimi.


Terga.

Terga è una piccola città, la quale secondo alcuni fu edificata da' Gotti sul mare Mediterraneo, discosta dallo stretto circa a ottanta miglia; fa circa cinquecento fuochi, e sono le mura piú tosto deboli che altrimenti. Gli abitatori sono quasi tutti pescatori, e il pesce che prendono usano d'insalare, il quale è comperato da mercatanti montanari e portato d'indi circa a cento miglia verso mezzogiorno e dentro la terra ferma. Questa città fu bene civile e popolosa, ma dipoi che i Portogallesi miser piè nella sopradetta città, incominciò forte a declinare, sí di civilità come d'abitazione. Intorno la città sono molti boschi sopra aspri e freddi monti, dove nasce orzo, ma in sí poca quantità che non basta per la metà dell'anno. Egli è vero che gli abitatori sono uomini valenti, ma bestiali, ignoranti e imbriachi, e sogliono malissimo vestire.


Bedis, ora detta Velles de Gumera.

Bedis è una città edificata sul mare Mediterraneo, la quale da' Spagnuoli è detta Velles de Gumera, e fa circa a seicento fuochi. Alcuni degli istorici dicono ch'ella fu edificata dagli Africani, e altri da' Gotti. Come si sia, questa è fra dui altissimi monti, e d'appresso v'è una gran valle, la quale quando piove diviene una fiumara. Dentro la città è una piazza, dove sono molte botteghe e un tempio non molto grande. Ma non c'è acqua da bere: v'è di fuori un pozzo dove è la sepoltura d'un lor santo, ma è non poco pericolo a pigliar della sua acqua di notte, per esser pieno di sansughe. Gli abitatori sono divisi in due parti, percioché alcuni sono pescatori e alcuni corsali, i quali con le lor fuste vanno rubando i litti de' cristiani. D'intorno vi sono monti alti e aspri, dove si truovano buoni legni per far fuste e galee: e i montanari d'altro non vivono che di portar cotai legni in diversi luoghi. Non vi nasce molta quantità di frumento, perciò nella detta città si pascono di pane d'orzo. Usano eziandio di mangiar molte sardelle e altri pesci, percioché i pescatori ve ne pigliano in tanta copia, che sempre fa di bisogno d'alcuni che gli aiutino a tirar le reti: onde sogliono quasi ogni mattina andare al litto molti poveri uomini, i quali, porgendo loro aiuto, hanno in premio assai buona parte dei pesci che prendono. Ne donano ancora a tutti quelli che si ritruovano presenti; ma le sardelle essi l'insalano, e le mandano ai monti. Dentro la città c'è una bella e lunga contrada abitata da giudei, e dove si vende il vino: a tutti gli abitatori il vino pare divino liquore, e quasi ogni sera a' tempi buoni vanno nelle loro barchette dilungandosi molto spazio da terra, e il solazzo che prendono si è il bere e il cantare.
V'è pure nella città una bella rocca, ma non molto forte, nella quale abita il signore, e fuori di lei il detto signore ha similmente un palazzo con un bellissimo giardino. Fuori ancora di lei, a canto la marina, v'è un piccolo arsenal dove si suol fare qualche fusta o galea e qualche barca, percioché il signore e i cittadini usavano d'armar certe fuste, e le mandavano ai paesi de' cristiani faccendo loro di gran danni. Per il che don Ferrando sopradetto re di Spagna mandò fuori una sua armata, la quale prese un'isola posta al dirimpetto di questa città e da lei discosta circa a un miglio, e quivi fece fare una fortezza sopra un scoglio, fornendola di soldati, di vettovaglie e di buonissime artiglierie, le quali tanto molestavano quei della città che nelle strade e nel tempio uccidevano degli uomini. Il signore addimandò soccorso al re di Fez, il quale mandò all'isola molti fanti: ma furono malmenati e parte crudelmente uccisi, parte presi, e parte ritornarono feriti a Fez. I cristiani tennero quest'isola due anni, dipoi, per trattato d'un soldato spagnuolo, il quale uccise il capitano che gli aveva vergognato la moglie, venne in mano de' Mori, e tutti i cristiani furono tagliati a pezzi, eccetto colui che tradí l'isola, il quale ne fu assai ben premiato dal signore di Bedis e dal re di Fez. Di questa istoria me ne fu data informazione nella città di Napoli da chi vi si truovò presente dell'anno 1520 al modo de' cristiani.
Il signore oggidí molto diligentemente custodisce questa isola, ed è favorito dal re di Fez, percioché quivi è il piú vicin porto a Fez che sia nel mare Mediterraneo, benché v'è d'intervallo circa a centoventi miglia. E sogliono venire a questo porto, una volta l'anno o in capo di due anni, le galee de' Veneziani con loro mercatanti, dando a baratto robba per robba, anco vendendone a contanti. E conducono eziandio le mercanzie e li Mori proprii dal detto porto insino a Tunis, e alle volte a Vinegia, o fino ad Alessandria e Barutto.


Ielles.

Ielles è una piccola città sul mare Mediterraneo, discosta da Bedis circa a sei miglia, dove c'è un buon porto, ma piccolo, nel quale si riparano le navi grosse che vanno a Bedis quando il mare è turbato. Sono vicini alla detta città molti monti, ne' quali sono gran boschi di pigne. A' nostri dí questa città è rimasa disabitata per cagione di corsali spagnuoli, eccetto certe cappannuccie di pescatori, i quali stanno di continovo su l'aviso e, come vedono una fusta, fuggono ai monti e subito ritornano con molta quantità di montanari in loro difesa.


Tegassa.

Tegassa è una piccola città molto abitata, posta sopra un fiume e discosta dal mare Mediterraneo circa a due miglia. Fa poco meno di cinquecento fuochi, ma è molto male agiata di case. Gli abitatori sono tutti pescatori e barcaruoli, i quali portano le vettovaglie alla città, percioché il terreno è tutto ripieno di monti e boschi e non vi nasce grano; ben vi sono molte viti e molti alberi fruttiferi. Nel resto è tutta misera e gli uomini non si pascono d'altro che di pane di orzo, di sardelle e di cipolle. Quando io fui in questa città, non vi potei far dimora piú d'un giorno, per la molta puzza delle sardelle, che annoia tutto quel luogo.


Gebha.

Gebha è una piccola città ben murata, la quale fu edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo, discosta da Bedis circa a ventiquattro miglia. Questa alle volte è abitata e alle volte no, secondo la provisione che corre a quegli che n'hanno il governo e custodia. È cinta tutta d'aspro terreno, dove sono molte fontane e boschi, e vi sono d'intorno certe vigne e terreni di frutti. Quivi non è né edificio né tetto che dire si possa bello.


Mezemme.

Mezemme è una gran città posta sopra una piccola montagna sul mare Mediterraneo, nel confino della provincia di Garet, e di sotto di lei è una gran pianura, la quale ha di larghezza circa a dieci miglia e di lunghezza ventotto verso mezzogiorno. Per mezzo la detta pianura passa il fiume Nocore, che divide Errif da Garet, e in lei abitano certi Arabi, quali coltivano i terreni e ne raccolgono gran quantità di grano, del quale in sua parte ha il signore di Bedis circa a cinquemila moggia.
Anticamente questa città fu molto civile e molto abitata, ed era sedia del signor della detta provincia; ma fu due volte rovinata. La prima per lo pontefice del Caraoan, il quale si sdegnò ch'el signor di lei ricusava di dargli il consueto tributo, e presala la fece saccheggiare e abbruciare. Al signore fu tagliata la testa e mandata al Caraoan su la punta d'una lancia, e fu negli anni trecentodiciotto di legira. Dipoi rimase quindici anni disabitata, in capo de' quali, sotto la difesa del detto pontefice, fu riabitata da certi signori. Ma il signor di Cordova ve n'ebbe gelosia, per esser vicina a' suoi confini circa a ottanta miglia, il che è la larghezza che contiene il mare fra Malaga, che è in Granata, e la detta terra, che è in Mauritania. Costui adunque tentò prima d'avere il tributo, il quale essendogli ricusato, mandò a lei l'armata e in un momento ebbe la città, percioché non poté giungere il soccorso di quel pontefice, per essere il Cairaoan lontano da questa duemilatrecento miglia, di modo che ella fu presa prima che al Cairaoan fosse pervenuta la dimanda dell'aiuto. Cosí fu saccheggiata e distrutta, e il principal signore mandato prigione a Cordova, dove si stette fino alla morte sua; oggidí solo vi rimangono le mura. Ciò fu negli anni ottocentonovantadue di legira.
Ora diciamo di alcuni monti di Errif.


Benigarir monte.

Benigarir è un monte abitato da una stirpe di Gumera, ed è vicino a Terga; estendesi per lunghezza dieci miglia ed è largo circa a quattro. In lui sono molti boschi e vigne e terreni d'olive. Gli abitatori sono poverissimi e poveramente vestono; hanno pochi animali, ma sogliono far molto vino e mosto cotto. L'orzo in questo paese nasce in picciola quantità.


Beni Mansor monte.

Beni Mansor monte s'estende circa a quindici miglia, ed è largo circa a cinque; vi sono boschi e fonti in molto numero. Gli abitatori sono uomini di molta forza, ma poveri, percioché nel monte loro altro non nasce che uva. Ben tengono qualche capra e usano di far mercato una volta la settimana, ma in quello altro io non viddi che cipolle, aglio, uva secca e sardelle salate, e qualche poco di biada e di panico, del quale fanno il pane. Sono sottoposti al signore di Bedis, sopra la ripa del mare.


Bucchuia monte.

Bucchuia monte s'estende circa a quattordici miglia, e la sua larghezza è circa otto. Gli abitatori sono quasi piú ricchi di tutti gli altri montanari, e vanno bene in ordine e hanno parecchi cavalli, percioché il monte ha buoni terreni d'intorno. Né pagano molta gravezza, per cagione che un santo uomo, il quale è sepellito in Bedis, fu di questo monte.


Beni Chelid monte.

Per questo monte tiene il cammino chi parte da Bedis per andare a Fez, il quale è molto freddo e pieno di boschi e di freddissime fontane. Quivi non nasce grano, ma vi sono vigne, e gli abitatori sono soggetti al signore di Bedis: ma per la lor povertà, e gravezza di tributi che pagano al signore, sono ladri e assassini.


Beni Mansor.

Beni Mansor monte s'estende circa a otto miglia, ed è discosto dalla marina come i due sopradetti. Gli abitatori sono valenti e gagliardi, ma di continuo imbriachi. Raccolgono assai uve e poco grano. Le donne loro vanno dietro alle capre pascolando, e fra questo mezzo filano, né alcuna v'è che servi fede al marito.


Beni Giusep.

Beni Giusep monte è lungo circa a dodici miglia e largo circa a otto. I suoi abitatori sono poveri e peggio vestono di tutti gli altri, percioché niuna cosa buona nasce nel loro monte, eccetto poca quantità di panico, il qual essi compongono insieme con gli acini dell'uva, e di quello ne formano un pane negro e aspero, che è invero tristissimo. Sogliono mangiare assai cipolle, e hanno certi fonti torbidi, ma molta copia di capre; tengono la lor latte per un precioso cibo.


Beni Zaruol monte.

Beni Zaruol monte è piantato di molte viti, e ha molto buon terreno d'olive e d'altri frutti. Gli abitatori sono poveri e soggetti al signore di Seusaoen, il quale fa lor pagare di molte gravezze, di modo che i meschini niuna cosa si possono avanzare de' lor vini. Fanno una volta la settimana il mercato, nel quale altro non si trova che fichi secchi, uva secca e olio; e usano ammazzare molti becchi e capre vecchie che non sono piú buone da fruttare.


Beni Razin monte.

Beni Razin monte è quasi vicino al mare Mediterraneo ne' confini di Terga. Gli abitatori stanno agiati e sicuri, perché il monte è forte e fertile, e non pagano gravezza niuna. Nascevi grano e olive e sonvi molte viti, e il terreno è buono, massimamente nelle coste del monte. E le lor donne sono li pastori delle capre e lavoratrici della terra.


Seusaoen monte.

Seusaoen monte è il piú piacevole di quanti ve ne sono in Africa, dove è una piccola città ripiena d'artigiani e di mercatanti, percioché quivi è la stanza del signore di molti monti, qual cominciò a far civil detto monte, e fu rebelle alli re di Fessa, ed era chiamato Sidiheli Berrased, e fece guerra anco di continuo con li Portogallesi. Gli abitatori di questa, e dei villaggi che sono per detto monte, non pagano al detto signore alcuna gravezza, perché essi sono per la maggior parte suoi soldati a cavallo e a piedi. Nel monte nasce poco grano, ma molto lino, e vi sono grandi boschi e infiniti fonti. E li suoi abitatori vanno assai bene in ordine.


Beni Gebara.

Beni Gebara è monte molto aspro e alto, a piè del quale passano alcuni piccoli fiumi, ed è abbondevole di viti né meno di fichi; grano non vi nasce. E gli abitatori vanno mal vestiti, ma hanno molte capre e certi piccoli buoi, di maniera che paion vitelli d'otto mesi. Fassi ogni settimana il mercato, ma un mercato quasi senza robbe: pure vi vengono mercatanti di Fez, e i mulattieri che recano i frutti a Fez. E fu questo d'un parente del re; frutta l'anno circa a duemila ducati.


Beni Ierso monte.

Beni Ierso monte fu molto abitato, e vi soleva essere un collegio di studenti di legge. E gli abitatori, per cagione di ciò, erano liberi d'ogni gravezza; ma un tiranno, con l'aiuto del re di Fez, se 'l fece tributario, saccheggiandolo insieme col collegio, nel quale furon trovati libri per valore di quattromila ducati. E fece uccider questo tiranno uomini di grande stima. Fu gli anni novecentodiciotto di legira.


Tezarin monte.

Tezarin è un monte vicino al sopradetto, dove sono molti fonti, boschi e viti. Sopra vi si veggono non pochi antichi edifici, che furono al mio parere fabbriche de' Romani, dove i ricercatori del tesoro, che di sopra dicemmo, sogliono far cavare. Gli abitatori sono ignoranti e poveri per gravezze.


Beni Buseibet.

Beni Buseibet monte è molto freddo e aspro, né vi nasce grano, né meno vi si può tener bestiame, percioché per la gran freddura è secco, e gli alberi sono di qualità che delle lor foglie non si possono pascer le capre. V'è gran copia di noci, e di quelle si fornisce Fez e le vicine cittadi; tutta la uva che raccolgono è negra, e fassene bello e grosso zibibbo e assai dolce; fansi ancora mosti cotti e grandissimi vini. Gli abitatori vanno tutti vestiti di sacchi di lana, e sono cotai sacchi della sorte che si veggono in Italia schiavine, e son fatti con nere e bianche liste. Hanno eziandio questi sacchi certi cappucci che si pongono in testa, talmente che chi gli vede piú tosto bestie che creature umane gli giudica. Il verno i mercatanti delle noci e zibibbo che vanno da Fez al detto monte, ma ivi truovano per lor cibo né pane di frumento né carne, solamente cipolle e sardelle salate, che quivi sono carissime, usano di mangiare mosto cotto e minestre di fava, le quali quei del monte hanno per miglior cibo che sia tra loro; e il mosto cotto mangiano col pane.


Beni Gualid monte.

Beni Gualid è un monte molto alto e difficile, gli abitatori del quale sono ricchi, perché hanno moltissime vigne d'uva negra per far zibibbi. Hanno terreni eziandio assaissimi di mandorle, di fichi e di olivi; oltre a ciò non pagano tributo al re di Fez, fuori che per ciascun casale quasi un quarto di ducato, sí che possono andar sicuramente in Fez a comperare e vendere. E se alcun torto vien lor fatto, quando qualche parente dell'offenditore si conduce al monte loro, nol lasciano ritornare alla città per insino che essi non sono minutamente sodisfatti d'ogni lor danno. Gli uomini vanno ben vestiti e ornati, e ogni malfattore bandito di Fez è sicuro nel monte loro: anco gli fanno le spese per fin ch'egli vi sta. Se questo monte fosse sotto il dominio del re di Fez, gli renderebbe seimila ducati d'entrata, percioché vi sono sessanta casali e tutti ricchi.


Merniza monte.

Merniza monte confina col sopradetto, e sono d'una medesima stirpe e parità con li sopradetti in riccheza, libertà e nobiltà; ma sono in ciò differenti di costumi, che una moglie, per minima ingiuria che ella riceva dal marito, fugge ad altri monti e, lasciando i figliuoli da parte, un altro marito si prende. Per questa cagione di continovo gli uomini sono alle arme e fanno di continovo gran quistione, e se debbeno far pace è necessario che colui a chi resta la donna restituisca al marito prima le spese fatte per il matrimonio della donna: e per questo stanno e hanno fra loro alcuni giudici, di sorte che non solo scorticano la pelle a' poveri litiganti, ma lor cavano il cuore.


Haugustum monte.

Haugustum è un monte molto alto e freddo, e sono in lui molti fonti e vigne di uva negra, fichi in ogni perfezione, mele cotogne grosse e belle e molto odorifere, e somigliante ai cedri: ma questi sono nel piano che è sotto il monte. Havvi ancora molti terreni d'olive, delle quali si cava gran quantità d'olio. Gli abitatori sono liberi d'ogni tributo, ma per lor gentilezza sogliono ogni anno far belli e onorati presenti al re di Fez; e perciò se ne vanno con ogni sicurtà e baldanza a Fez, comperando grani, lane e tele, percioché vestono da gentiluomini, massimamente quegli del casal maggiore, dove sono per maggior parte gli artigiani, i mercatanti e i nobili.


Beni Iedir monte.

Beni Iedir monte è grande e molto abitato, ma in esso non vi nasce se non uva negra, della qual fassi zibibbo e vino. Gli abitatori erano prima liberi dai tributi, ma per la loro povertà assassinavano e spogliavano tutti i forestieri, onde il signor di Bedis, col braccio del re di Fez, gli soggiogò e levò loro la libertà. Sono nel detto monte circa a cinquanta casali assai capevoli, ma non raccolgono da tutti quattrocento ducati l'anno.


Lucai monte.

Lucai è monte malagevole e molto alto. Gli abitatori sono ricchissimi, percioché il monte è fertile d'uve, delle quai fanno il zibibbo, di fichi, di mandorle, d'olio, di cotogne e di cedri; e per esser vicino a Fez circa trentacinque miglia, vendono ogni lor frutto nella detta città. Sono ancora uomini nobili e cavalieri, e sopra tutto superbi, in tanto che nessun tributo hanno mai voluto pagar, essendo molto ben difesi dalla natura del monte. Similmente tutti gli sbanditi di Fez sono da questi accettati, i quali lor fanno buona compagnia, eccetto agli adulteri, percioché essi sono gelosi e non gli vogliono appresso loro. Il re concede il tutto, per il grande utile che 'l detto monte partorisce a Fez.


Beni Guazeual.

Beni Guazeual monte s'estende circa trenta miglia per lunghezza e per larghezza circa a quindici, ed è diviso in tre altri monti; corrono fra questi e i due di sopra detti certi fiumicelli. Gli abitatori sono uomini prodi e molto arditi, ma di soverchio aggravati dal capitano del re di Fez, percioché gli pagano l'anno diciottomila ducati. Il monte è in vero fertilissimo d'uve, d'olive, di fichi e di lino, e fanno gran quantità di vini e di mosto cotto, d'olio e di tele grosse. E del tutto ne fanno danari per pagar la detta somma al detto capitano, che vi tien di continuo commissarii e fattori per cavar gli occhi ai detti montanari. Vi sono infiniti villaggi e casali, quai di cento fuochi e quai di dugento, e sono circa centoventi fra villaggi e casali: e da questi si può far venticinquemila combattenti. Di continovo sono coi lor vicini in guerra, e si ne uccidono molti, e il re vuol danari d'una parte e l'altra per gli uomini amazzati, di maniera che la guerra è a utile del signore.
In questo monte è una piccola città assai civile, nella quale sono molti artigiani; ed è cinta da molti terreni di viti, di cotogne e di cedri che si portano a Fessa, e nella detta città fassi ancora non poca quantità di tela; vi sono giudici e avvocati della legge: perciò, quando si fa il mercato, vi si raguna gran numero da' vicini monti. È ancora nel sopradetto monte una valle, nella quale è una buca a guisa di grotta, donde esce di continovo gran fiamma di fuoco: e ho veduto molti forestieri, i quali vengono a questa valle per veder il detto fuoco, nel quale gettano fascine e legne, e immediate sono bruciate; e questo fuoco è il piú admirabile che abbi veduto delle cose naturali. Alcuni credono questa esser la buca dell'inferno.


Beni Gueriaghel monte.

Beni Gueriaghel confina col sopradetto, ma gli abitatori dell'uno e dell'altro hanno insieme perpetua nimicizia. Sotto il detto monte sono assai belle pianure, le quali confinano col contado di Fez, e per le dette pianure passa il fiume Guarga. Ricogliesi di questo monte quantità grande d'olio, di grano e di lino, e se ne fanno molte tele. Ma il buon re tiene sempre le mani ne' lor beni, di maniera che questi, che sarebbono i piú ricchi degli altri, per la iniustizia dei signori sono certamente i piú poveri. Sono naturalmente gagliardi e animosi, e fanno circa dodicimila uomini da guerra. Hanno poco meno di sessanta villaggi molto grandi.


Beni Achmed.

Beni Achmed monte per lunghezza contiene diciotto miglia e per larghezza sette. È molto aspro: sono in lui molti boschi, e assai viti, olive e fichi, ma v'è pochissimo terreno per grano, e sono gli abitatori molto aggravati dal re di Fez. D'intorno e fra il monte si truovano molti fiumicelli e fonti, ma amari e torbidi, e quasi la loro arena è di calcina. Quivi sono non pochi che hanno, come s'è detto di alcuni, i gossi molto isconci. Tutti comunemente beono vin puro, e durano i lor vini quindici anni, ma gli fanno poco bollire; anco ve ne hanno di crudo, e fanno gran quantità di mosto cotto, e lo tengono in certi vasi stretti di sotto e larghi nella bocca. Fanno il mercato una volta la settimana, nel quale si vendono vini, olio e zibibbo rosso in grandissima quantità. Sono questi montanari poverissimi, e dimostrano la lor povertà nell'abito; sempre tra loro hanno nimicizie antiche, e sempre sono all'arme.


Beni Ieginefen monte.

Beni Ieginefen monte confina col sopradetto e s'estende circa a dieci miglia; fra questo e 'l superiore passa un piccol fiume. Gli abitatori sono tutti imbriachi e il vino è il loro dio. Non ricolgono dal detto monte grano di niuna sorte, ma infinita quantità di uva; capre v'è similmente: ne hanno molte e le tengono sempre ne' boschi, e non si mangia altra carne che di becco e capra. Io ebbi molta pratica con questi uomini, percioché mio padre soleva tenere alcuni poderi nel detto monte: ma molto stentava di cavar frutto di quelli terreni e vigne, perché li montanari sono cattivi pagatori.


Beni Mesgalda monte.

Beni Mesgalda monte confina col sopradetto e con il fiume Guarga, e gli abitatori di lui tutti fanno saponi, percioché ne traggono gran quantità d'olio; ma non sanno far sapon duro. Sotto il monte vi sono grandissime pianure, e le tengono certi Arabi, onde le piú volte questi combattono con li detti. Il re di Fez gli fa pagar grosse taglie e sempre truova nuove cose per accrescergliele. Fra questi montanari vi sono molti dottori della legge, e hanno molti scolari, li quali fanno grandissimi danni per detti monti, e massimamente nei luoghi dove non sono accarezzati; e bevono del vino secretamente, e nondimeno fanno intendere al volgo che 'l vino è proibito, ma non c'è chi loro presti fede. Gli abitatori di questi monti non sono troppo gravati, perché sono quelli che mantengono detti dottori e scolari.


Beni Guamud.

Beni Guamud monte confina col territorio di Fez, ma il fiume divide il monte dal contado. Gli abitatori fanno ancora essi tutti saponi, da' quali il re cava seimila ducati di rendita; né sono piú che venticinque ville. Per tutte le coste del monte sono buoni terreni e gran copia d'animali, ma v'è poca acqua. In fine tutti questi sono uomini ricchi, e ogni giorno di mercato vanno a Fez e fanno perfettissima vendita delle loro robbe. Né in detto monte nasce cosa che non sia necessaria alla vita umana. È discosto dieci miglia da Fessa.


Garet, sesta regione del regno di Fez.

Abbiamo descritto la regione d'Errif, le città e i monti piú famosi; ora seguiremo di Garet, sesta regione, o vogliamo dire provincia, del regno di Fez. Questa comincia dal fiume Melulo, cioè da ponente, e in la parte di levante termina nel fiume Muluia, e da mezzogiorno termina nelli monti che sono nelli confini di certi deserti vicini alla Numidia. Estendesi verso tramontana fino al mar Mediterraneo, e per la larghezza, cioè sul mare, dal fiume de Nocor fino al fiume Muluia; e per la larghezza di verso mezzogiorno termina nel detto fiume Melulo, ed estendesi anco in parte di ponente a canto li monti del Chauz, calando verso il mare sopra il fiume di Nocor. È lunga circa a cinquanta miglia e larga circa a quaranta, ed è molto aspera e secca ed è simile a' diserti di Numidia; ancora è molto disabitata, massimamente doppo che gli Spagnuoli si sono impadroniti delle sue due principali città, come vi narrerò.


Melela città.

Melela è città grande e antica, edificata dagli Africani sopra il capo d'un golfo del mare Mediterraneo. Fa circa a duomila fuochi, e fu in lei molta civilità, percioché questa città era il capo della regione e avea gran contado, donde si cavava gran quantità di ferro e di mele: e per tal cagione la città fu detta Melela, che cosí nella lingua africana si chiama il mele. Nel porto della detta città anticamente si pigliavan le ostriche che fanno le perle. Fu ella un tempo sottoposta a' Gotti, ma dipoi i maumettani la riacquistarono e i Gotti si fuggirono a Granata, che è discosta dalla detta città cento miglia, cioè quanto contiene la larghezza del mare. Ne' tempi moderni il re di Spagna mandò un'armata ad espugnarla, ma prima che ella arrivasse, gli abitatori n'ebbero avviso e dimandarono aiuto al re di Fez, il quale, essendo allora occupato nella guerra co' popoli di Temesna, vi mandò un leggiero esercito. Onde i sopradetti, essendo molto bene informati della grandezza dell'armata degli Spagnuoli, diffidandosi di poter sostener l'assalto, sgombrarono la città e con le loro robbe fuggirono ai monti di Buthoia. Il capitano del re di Fez, ciò vedendo, o per fare oltraggio a quei della città o dispetto a' cristiani, cacciò fuoco in tutte le case e abbruciò la città: e fu negli anni ottocentononantasei di legira. Doppo il fatto aggiunse l'armata dei cristiani, i quali, vedendo la città vota e abbruciata, molto si dolsero; né la volsero perciò abbandonare, ma fabbricarono in lei una forteza, e di mano in mano ritornarono in piè tutte le mura: e oggidí ne sono possessori.


Chasasa città.

Chasasa è una città vicina alla sopradetta circa a venti miglia. Fu molto forte e murata con forti mura, e ha un buon porto al quale usavano di venire le galee de' Veneziani, e facevano di gran faccende col popolo di Fez, talmente che grande utile gliene veniva. Ma volle la disgrazia del detto re che, nel principio del suo regno, egli fu molto molestato da un suo cugino, il quale tenendolo nella guerra occupatissimo con tutte le sue forze, Fernando re di Spagna fece disegno d'avere la detta città, e l'ebbe con molta facilità perché il re di Fez non le poté dar soccorso. Gli abitatori sgombrarono e si salvarono avanti che la città fusse presa


Tezzota città.

Tezzota è una terra in Garet, discosta da Chasasa in terra ferma circa a quindici miglia; è fabbricata sopra un tofo altissimo, e ha una piccola via per cui si va d'intorno al detto tofo. Dentro non si truova acqua se non in una cisterna. Gli edificatori di questa città furono della casa di Beni Marin, avanti che fussero signori, i quali vi tenevano dentro i loro grani e le loro facultà, e potevano andar sicuri per li deserti, perché a que' tempi non erano Arabi in Garet; ma dipoi che costoro ebbero dominio, lasciarono questa città e la regione di Garet a certi loro vicini, e si diedero a provincie piú nobili. In questi mutamenti Giuseppe, figliuolo di Giacob, secondo re della casa di Marin, per iusto sdegno fece rovinar la detta città; ma essendo venuta Chasasa in mano dei cristiani, un capitano del re di Fez, di nazion granatino, valentissimo uomo, dimandò licenza al re di rinovar Tezzota: il quale gliela concesse. Cosí la città fu rifatta, e oggidí i cristiani di Chasasa con i mori di questa città fanno di continove correrie, e or questi or quelli sono perditori.


Meggeo città.

Meggeo è una piccola città posta sopra un altissimo monte, discosta da Tezzota circa a dieci miglia verso ponente; e fu edificata dagli Africani lontana dal mare Mediterraneo circa a sei miglia verso mezzogiorno. Gli abitatori sono uomini nobili e liberali. E sotto il monte della città è una pianura per grano, e tutti i monti che sono d'intorno hanno vene di ferro, dove si contengono molti casali e villaggi di quegli che lo cavano.
La signoria di questa città venne in mano d'un nobile e valoroso cavaliere della origine della real casa, cioè di Muachidin, ma nato di poverissimo padre, il quale fu tessitore di tela, la quale arte egli al figliuolo insegnò. Ma il giovane, che di alto animo si sentiva, conoscendo la nobiltà de' suoi maggiori, lasciando da parte i telai se n'andò a Bedis, e quivi imparando l'arte militare s'acconciò per cavalleggiero del signore; ma perché egli sapeva sonare gentilmente di liuto, il detto signore ancora per musico lo teneva nella sua corte. Avvenne in quel mezzo ch'el capitano di Tezzota, volendo far correria sopra li cristiani, richiese a quel signore l'aiuto di qualche cavalli, il quale gliene mandò trecento insieme con questo nobil giovane. Ma il giovane non solamente quella volta, ma molte altre ancora mostrò grandissima prodezza e animo: non perciò il signor dimostrò riconoscimento del suo valore, ma solo di lui nel sonare si dilettava. Egli di ciò sdegnato si partí e ricorse a certi suoi amici cavalieri di Garet, i quali gli diedero tanto di favore che lo misero in la fortezza di Meggeo, e rimasero seco cinquanta cavalli, per sostentamento de' quali molti montanari suoi amici porgevano delle loro entrate. Laonde il signor di Bedis mandò, per levarlo di quella città, trecento cavalli e mille fanti, de' quali il nobile giovane col suo poco numero fu vincitore. Crebbe in fine cotanto la fama di costui che 'l re di Fez lo confermò nel dominio, e gli assegnò certe rendite che la camera di Fez soleva dare alli signori di Bedis, acciò che lo difendessero da' Spagnuoli. E da costui impararono i Mori a sapersi difendere, di sorte che 'l re di Fez gli ha raddopiata la provisione. Costui tien dugento cavalli, che vagliono piú che duemila delli capitani dei signori vicini.


Echebdenon monte.

Echebdenon monte s'estende da Chasasa verso levante fino al fiume Muluia, e dal mare Mediterraneo verso mezzogiorno fino al diserto di Garet. Fu abitato da ricchi e valenti uomini, ed è in lui grandissima abbondanza di mele e d'orzo e gran quantità di bestiami, percioché tutti i suoi terreni sono buoni, e d'intorno verso la terra ferma v'ha infinite campagne da pascoli. Ma presa che fu Chasasa dagli Spagnuoli, costoro, non potendosi mantenere nel monte per esser l'un casale molto dall'altro separato e diviso, lo lasciarono e, abbruciate le lor proprie case, andarono con le lor facultà ad abitare altri monti.


Beni Sahid monte.

Beni Sahid monte s'estende vicino di Chasasa verso ponente fino al fiume Nocor, che sono circa a ventiquattro miglia, ed è diviso in molti popoli tutti ricchi, valenti uomini e liberalissimi, in tanto che i passeggieri e i mercatanti che vengono al detto monte niuna cosa spendono. Nel detto si cava gran quantità di ferro e nascevi molto orzo; hanno molto numero di bestiame per la gran pianura che hanno. Tutte le vene del ferro sono in detta pianura, nella quale non è mai disagio d'acqua, e non pagano tributo alcuno; e ciascuno dei maestri che cavano il ferro ha la sua casa da vicino, cosí i bestiami e la bottega dove si purifica detto ferro, e i mercatanti portano il ferro a Fez in pallotte, percioché essi non usano o non sanno ridurlo in verghe: il resto lo fanno in zappe, mannare, gomieri, che son l'arme de' villani, e di esso ferro non si può cavar azale.


Azgangan monte.

Azgangan monte dalla parte di mezzogiorno confina con Chasasa, ed è molto abitato non solo da uomini valenti, ma ricchi, percioché il detto monte è cosí abbondante come i detti di sopra, e ha un vantaggio di piú, che il diserto di Garet è ne' piedi d'esso monte, gli abitatori del qual fanno gran faccende con i detti montanari. Rimase ancora egli abbandonato da' suoi nella presa di Chasasa.

Beni Teuzin monte.

Beni Teuzin monte confina verso mezzogiorno col sopradetto, e s'estende per la lunghezza circa a dieci miglia, cioè dal diserto di Garet fino al fiume Nocor. Sono d'intorno da una parte molte pianure, e gli abitatori sono liberi e fanno le raccolte di lor terreni senza pagar alcuna gravezza, né al capitano di Tezzota né al signor di Meggeo né a quello di Bedis, percioché essi hanno di cavalli due tanti piú che non hanno tutti i tre insieme. Oltre a ciò il signor di Meggeo è molto loro tenuto, perché essi l'aiutarono a mettere nella signoria; accarezzagli ancora il re di Fez, percioché i medesimi furono amici vecchi alla sua casa, prima che ella fusse casa reale. Del che fu cagione uno de' detti montanari, il quale, essendo uomo dotto e di gran valore, faceva l'officio d'avvocato in Fez: costui, con lo spesso tornar a mente al re il merito de' loro antichi, mantenne la libertà alli suoi. Ebbero ancora molto per adietro amicizia con la casa di Marin, percioché la matre di Abusahid, terzo re di detta casa, fu figliuola d'un gran nobile del detto monte.


Guardan monte.

Guardan monte confina col sopradetto verso tramontana, e s'estende per lunghezza circa a dodici miglia verso il mare Mediterraneo, e per larghezza otto, cioè fino al fiume Nocor. Sono gli abitatori prodi uomini e ricchi, come quegli di sopra. Il sabbato sogliono fare un nobile mercato sopra un fiumicello, a cui concorrono per la maggior parte gli abitatori dei monti di Garet, e gran moltitudine vi va eziandio de mercatanti di Fez. Gli abbaratti sono di fornimenti di cavalli e d'olio per ferro, perché in questo paese di Garet non nascono molte olive; né essi si curano di far vini né ve ne beono, ancor che sieno vicini del monte di Arif, dove si imbriacano. Furono un tempo vassalli del signor di Bedis, ma per opera d'un uomo, dotto predicatore, ottennero dal re di Fez che la quantità del tributo fusse rimessa nella discrezione loro: cosí ogni anno appresentano al re certa somma di danari, e cavalli e schiavi; né piú volsero esser soggetti al signor di Bedis.


Fine del diserto di Garet.

La sopradetta regione di Garet è divisa in tre parti: in una parte sono le cittadi e il contado loro; nell'altra i sopradetti monti, il cui popolo comunemente è detto Bottoia; la terza parte è il diserto, il quale da tramontana incomincia dal mare Mediterraneo, e s'estende verso mezzogiorno fino al diserto della regione di Chaus. Nella parte di ponente confina con i monti detti di sopra, e dal lato di levante termina al fiume Muluia. Ha di lunghezza circa a sessanta miglia e di larghezza trenta, ed è tutto secco e aspro, di maniera che non vi si truova acqua fuori che 'l fiume Muluia. Sonvi nel diserto molti animali, de' quali eziandio ve n'è nel diserto di Libia, che confina con Numidia. La state sogliono stanziarvi per il detto diserto molti Arabi appresso il fiume di Muluia, e similmente un certo popolo chiamato Batalisa, il quale è feroce e ha molta copia di cavalli, di pecore e di camelli: e di continovo questi pecorai sono in guerra con gli Arabi a lui vicini.


Chaus, settima regione di Fez.

Chaus è tenuta la terza parte del regno di Fez, percioché s'estende dal fiume Zha verso levante, andando verso ponente per insino al termine del fiume Guruigara, che è d'ispazio circa a centonovanta miglia; e per larghezza s'estende circa a centosettanta o piú, perché tutta la larghezza della parte d'Atlante che risponde verso Mauritania è la larghezza della detta regione. Ancora tiene una buona parte dei piani e di monti che confinano con la Libia.
Nel tempo che Habdulach, primo principe della casa di Marin, acquistò la Mauritania insieme con le altre regioni che con lei confinavano, allora quivi si sparse il suo lignaggio. Costui lasciò quattro suoi figliuoli: il primo fu detto Abubder, il secondo Abuiechia, il terzo Abusahid e 'l quarto Giacob, il quale dipoi fu creato re, per avere egli disfatta la famiglia de Muachidin, re di Marocco. Li tre suoi antecessori si morirno prima che egli acquistasse Marocco, perciò non ebbero titolo di re. Onde il padre a ciascun di loro consegnò una regione. L'altre tre furono divise in sette parti, cioè fra le quattro stirpi di Marin e fra due popoli che furono amici e parenti di questa famiglia, in modo che questa regione fu stimata per tre regioni, percioché quelli che furono a parte del regno erano dieci e le regioni sette. E il detto Habdulach fu l'auttore di queste divisioni, e messe il Chaus per la maggior parte come di sotto si narrerà a luogo per luogo e terra per terra.


Teurerto città.

Teurerto è una città antica, edificata dagli Africani sopra un alto colle a canto il fiume Zha; e d'intorno della città sono buoni terreni, ma non s'estendono molto, percioché i detti terreni confinano con certi diserti secchi e asperi. Dalla parte di tramontana confina col diserto di Garet, e da mezzogiorno col diserto di Adduhra, e da levante con Anghad, che è uno diserto nel principio del regno di Telensin; e dalla parte di ponente col diserto di Tafrata, il quale similmente confina con la città di Tezza. Questa città fu civile e bene abitata: fa circa a tremila fuochi; ha molti bei palazzi e tempii, i cui muri sono di pietre di tevertino. Ma poscia che la famiglia di Marin regnò in ponente, la medesima fu messa in questione e fu cagione di molte guerre, percioché i signori di Marin vogliono che ella sia del regno di Fez, e i signori di Beni Zeiien, cioè i re di Telensin, vogliono che ella abbia ad essere del loro stato.


Haddagia città.

Haddagia è una piccola città edificata dagli Africani a modo d'isola, percioché vicino a lei entra il fiume Mullulo nel fiume Muluia. Questa anticamente fu molto abitata e civile, ma da che gli Arabi occuparono il ponente incominciò a declinare, percioché confina questa città con i diserti di Dahra, dove sono molte male generazioni d'Arabi. Ma con la rovina di Teurerto fu del tutto disfatta, né altro rimase che le mura, le quali fin ora si veggono.


Garsif castello.

Garsif è un castello antico, edificato sopra uno scoglio appresso il fiume Muluia, discosto da Teurerto circa a quindici miglia; il quale castello fu la fortezza della casa di Beni Marin, nel quale si serbava il grano nel tempo che la detta abitava nel diserto. Doppo fu signoreggiato da Abuhenan, quinto re della casa di Marin. D'intorno il detto castello, cioè nel piano, sono pochissimi terreni; v'è qualche giardinetto d'uva, di persichi e di fichi. E per esser il detto castello cinto dal deserto, paiono i detti giardini in sí fatto luogo il paradiso d'Adamo. Gli abitatori sono uomini vili, senza alcuna civilità; la lor cura è solamente di far la guardia al grano, che si custodisce nel castello, per conto dei lor padroni arabi. Il castello di fuori somiglia a una capanna, perché ha i muri rotti e neri, e tutte le case sono coperte con certe pietre nere.


Dubdu città.

Dubdu è una città antica, edificata dagli Africani su una costa d'un monte altissimo e molto forte. È abitata da una parte del popolo di Zeneta. Dalla cima del detto monte discendono molti fonti, che corrono per la città, la quale è discosta dal piano circa a cinque miglia: ma chi la mira dal piè del monte non pensa ch'ella sia piú lontana d'un miglio e mezzo; la via s'allunga per li molti giri che si convien fare nella costa del detto monte. E tutti i poderi della detta città sono alla cima del monte, percioché il suo piano è tutto aspro; vero è che su la riviera d'un fiumicello sono certi giardinetti, il quale fiume passa sotto il detto monte. Ma tuttavia le possessioni che ha sopra il monte non sono per la metà sufficienti al viver degli abitatori della città, ma vi son portati grani dal contado di Tezza, percioché questa città fu fabbricata per una fortezza da una stirpe del popolo di Marin, allora che furon divise dal detto le regioni di ponente; e questa dove è Dubdu toccò a una famiglia appellata Beni Guertaggen, che fin ora la possiede. Ma quando la casa di Marin perdé il regno di Fez, gli Arabi vicini cercarono di levar da quella la signoria. Ma essa, con l'aiuto di Mosè Ibnu Chamu, che fu di detta famiglia, valorosamente si difese, di modo che gli Arabi fecero triegua. Costui visse signore della città, doppo il quale rimase un suo figliuolo detto Acmed, che in tutti i costumi fu simile al padre, e conservò il suo stato in pace insino alla morte.
A questo successe Mahumet, il quale fu invero uomo singularissimo nella milizia. Egli per adietro avea acquistato molte città e castelli nei piè del monte Atlante, cioè di verso mezzogiorno ne' confini di Numidia, e venuto a dominio di questa città, la ornò di molti edifici e ridussela a civilità. E dimostrò tanta liberalità e cortesia a' forestieri e a quegli che passavano per la sua città, onorando ciascuno e corteggiando infinitamente, faccendogli le spese e dandogli le stanze, che la fama di lui empié l'orecchie di molti popoli. Né mancò chi 'l consigliasse a levar Tezza di mano al re di Fez, offerendosi non pochi di quanto a ciò bisognasse. Onde ne nacque questo trattato, che egli in abito di montanaro se n'andasse alla detta città il giorno del mercato, fingendo di voler comperare come gli altri, ed essi subito assalterebbono il capitano: il che, avendo una parte della città a loro favore, agevolmente succederebbe. Ma il trattato fu scoperto, onde il re di Fez, che fu Saic primo re della casa di Quattas e padre del presente, si mosse col maggiore esercito che potesse fare per prender questa città. E come fu sotto il monte, si pose in ordine per dar la battaglia: ma i montanari, che erano seimila persone, astutamente si ritirarono adietro e lasciarono passare una buona parte dell'esercito del re, il che fu per certe intricate e strette vie, nelle quali il detto molta fatica durò a salirvi. Ma come esso fu arrivato dove questi volevano, subito i montanari, che erano freschi e gagliardi, assaltarono con grandissimo impeto gli stanchi e deboli. Il calle era angusto e scabroso, onde, non potendo quei del re sostener la furia dei nimici, furono costretti a dar luogo. Ma mentre uno l'altro impediva nel ritirarsi, traboccavano giú del monte, talmente che piú di mille uomini si fiaccarono il collo, e ve ne furono uccisi piú di tremila.
Non perciò il re volle lasciar l'impresa, ma, provedutosi di cinquecento balestrieri e di trecento archibusieri, deliberò in tutto di dare alla detta città general battaglia. Allora, conoscendo Maumet di non poter piú difendersi, fece pensiero di dar la propria persona in mano del re e, preso abito di messaggiero, s'appresentò al suo padiglione e dettegli una lettera scritta di sua mano per nome del signore di Dubdu, che era egli stesso. Il re, sí come colui che non lo conosceva, fece legger la lettera; dipoi dimandollo quello che gli paresse del suo signore. Rispose egli: "Invero a me pare ch'el mio signore sia pazzo; ma il diavolo ha poter d'ingannare cosí i grandi come i piccoli". "Per Dio - disse il re, - che se io lo avesse in mano, come io spero, gli farei, cosí vivo com'egli è, cavare a pezzo a pezzo le carni di dosso". "O, - soggiunse Mahumet, - se egli venisse umilmente a' piedi di vostra altezza, dimandando perdono del suo fallo e chiedendo mercé, come lo trattereste voi?" Allora disse il re: "Giuro per questa testa che, s'egli in cotal modo dimostrasse riconoscimento d'avermi offeso, non solamente gli perdonerei, ma ancora con lui contratterei parentado: il che sarebbe col dar due mie figliuole ai duoi suoi figliuoli; e confermandolo nel suo stato gli aggiugnerei appresso quella dote che piú mi paresse convenevole. Ma non credo che esso debba ciò fare, si è egli impazzito". Rispose egli: "Ben lo farà, se vostra altezza promette di confermar le sue parole nella presenza dei principali della sua corte". "Io penso, - seguitò il re, - che possano bastare i quattro che sono presenti, l'un di quali è il mio maggior secretario, l'altro il mio general capitano della cavalleria, il terzo è mio suocero, il quarto è il gran giudice e sacerdote di Fez". A questo il sopradetto se gli gettò a' piedi e disse: "Re, ecco qui il peccatore, il quale, non avendo altro rifugio, ricorre alla vostra pietà". Allora il re lo fece levare in piè e l'abbracciò e baciò accettandolo per parente, e subito, fatte venire due sue figliuole, le fece sposare dalli figliuoli del prefato; e quella sera cenorono insieme, e la mattina il re di Fez si levò con il campo e ritornò a casa.
Tutte le sopradette cose furono dell'anno 904 di legira. E io fui nell'anno 921, quando vivea el detto signore, e alloggiai nel suo palazzo, dove il detto molto m'accarezzò, per lettere che io teneva di favore del re de Fez e d'un suo fratello; e spesso mi dimandava della qualità del viver e dei costumi che si tenevano nella corte di Fez.


Teza città.

Teza è una gran città, non men nobile che forte e molto fertile e abbondante, edificata dagli antichi Africani vicina ad Atlante circa a cinque miglia, e discosta da Fez circa a cinquanta, dall'Oceano centotrenta e dal Mediterraneo non piú che sette, passando pel diserto di Garet verso Chasasa. Questa città fa circa a cinquemilia fuochi, ma non è molto addorna di case, eccetto che i palazzi dei nobili, i collegi e i tempii sono fatti di bellissimi muri. D'Atlante si parte un piccol fiume, il quale passa per la detta città e per entro il tempio maggiore; ma il detto fiume è alle volte levato dalla città dai montanari, quando essi discordano coi cittadini, e lo fanno passare per altre vie, in modo che alla città partoriscono gran danno, perché non si può né macinare né aver buona acqua da bere, se non certa torbida di cisterna. Alle volte, pacificandosi, ve lo ritornano.
È la detta città la terza in grado, in dignità e similmente in civilità, e havvi un tempio ch'è maggiore di quello di Fez, con tre collegi di scolari, e molte stufe e osterie. Le sue piazze sono ordinate come quelle di Fez, e i suoi abitatori sono valenti uomini e liberali a comparazione di quelli di Fez: e sono in lei molti uomini litterati e da bene, e sopra tutto ricchi, percioché i terreni alle volte rendono trenta per uno. D'intorno la città sono certe valli rigate da vaghi e piacevoli fiumicelli, dove sono molti giardini, i quali fanno frutti delicatissimi e in gran copia. V'è eziandio gran moltitudine di viti, che producono uve bianche, rosse e negre, delle quali i giudei, che cinquecento case ne sono nella detta città, fanno perfettissimi vini: e dicesi che questi sono dei migliori che si truovino in tutte quelle regioni.
È ancora nella detta città una bella e gran rocca, dove abitava il governatore della città; e i re moderni di Fez sogliono dar questa cotale città al secondogenito: ma invero che ella doverebbe essere la real sedia, per la salubrità dell'aere che v'è cosí il verno come la state. I signori della casa di Marin usavano di starvi tutta la state, sí per la detta cagione e sí ancora per custodire e difendere i loro paesi dagli Arabi del diserto, quali vi vengono ogni anno per fornirsi di vettovaglie, e portano datteri da Segelmese dandogli a baratto per grani. I cittadini fanno tutti dinari di loro grani, che essi vendono per buon prezzo ai detti Arabi, in modo che questa città è di grandissima bontà per sé e per gli abitatori, e non v'è altra incommodità se non ch'al tempo del verno è tutta ripiena di fango.
Io fui in questa città ed ebbi domestichezza con un certo vecchio, che appresso il volgo aveva fama di santo, il qual vecchio era assai ricco di frutti, di terreni e delle offerte che si fanno dal popolo della detta città e anco dal popol di Fez, ch'ancora i cittadini di Fez vengono di lontano cinquanta miglia per visitar il detto vecchio. Io fui uno di quelli che dubitavano in fatti di questo vecchio, innanzi ch'io lo vedessi; ma dapoi ch'io lo vidi egli mi parve sí com'uno degli altri: ma gli atti sono quelli ch'ingannano il volgo. Finalmente la detta Teza ha grandissimi contadi, cioè molti monti ne' quali abitano diversi popoli, come qui di sotto descriveremo.


Matgara monte.

Matgara monte è altissimo e difficile da salire, percioché ha spessi boschi e strettissimi calli. È vicino a Teza circa a cinque miglia, e nelle sue cime sono buoni terreni e molti fonti. Gli abitatori non pagano gravezza, e raccolgono grano, lino e olio; hanno grande quantità d'animali, massimamente di capre. Ed essi poco stimano i signori, di maniera che in una rotta che diedero al campo del re di Fez, preso un suo capitano e menatolo sopra il monte, innanzi agli occhi del re, vivo lo tagliarono in mille pezzi: per questa cagione il re non mai piú fu loro amico, ma costoro niente l'apprezzano. E fanno circa a settemila combattenti, percioché vi sono circa a cinquanta grossi casali.


Gauata monte.

Gauata monte nella difficultà dell'ascendere è simile al sopradetto, discosto da Fez circa a quindici miglia, verso ponente. Ha buoni terreni, cosí nella sommità come nella costa, ne' quali nasce gran quantità d'orzo e di lino. Estendesi da levante a ponente circa a otto miglia, e per larghezza è circa a cinque. Sonvi in lui molte valli e boschi, dove si truova gran numero di simie e di leopardi. Gli abitatori sono tessitori di tele e uomini valenti e liberali, ma non possono praticar nel piano, per essere disobedienti al re di Fez, perché non vogliono pagar tributo alcuno per la lor superbia e per fortezza del monte, qual si mantiene con l'assedio di dieci anni, per esservi sopra ogni cosa necessaria al viver umano, con due capi d'acqua che sono principii di duoi fiumi.


Megesa monte.

Megesa è un monte difficile e aspro, nel quale sono di molti boschi, e nascevi poca quantità di grano, ma olio in molta copia. Gli abitatori di questo sono tutti tessitori di tela, perché raccolgono qualche quantità di lino; e sono non men gagliardi a piedi che a cavallo. Sono eziandio molto bianchi, percioché il monte è alto e freddo. Non pagano gravezza niuna, e possono favoreggiar gli sbanditi da Fez e da Teza. Hanno assai giardini e viti, ma nessun bee vino. Fa questo monte circa a seimila combattenti; i casali sono quaranta, assai grandi e bene agiati.


Baronis monte.

Baronis monte è vicino a Teza circa a quindici miglia verso tramontana. È abitato da un ricco e possente popolo, il quale possiede molti cavalli ed è libero di gravezza. Nasce nel monte assai grano, e v'è gran quantità di giardini e di viti d'uva negra: ma non fanno vino. E le lor donne sono bianche e grasse, e sogliono portar molti ornamenti d'argento, perché gli abitanti hanno il modo. Gli uomini veramente sono sdegnosi e di grande ardimento; danno favore a sbanditi, e tristo colui che usasse con le mogli loro, percioché ogni altra offesa, a parangone di questa, hanno per cosa di poco momento.


Beni Guertenage monte.

Beni Guertenage monte è alto e malagevole, per le sue rupi e boschi che vi sono, ed è discosto dalla città di Teza circa a trenta miglia. Quivi nasce grano, lino, olive, cedri e belle e odorifere cotogne. Sonovi molti animali, eccetto cavalli e buoi, che ve n'ha poco numero. Gli abitatori sono prodi e liberali, e vestono cosí politamente come i cittadini; si truovano circa a trentacinque casali, i quali fanno tremila combattenti, tutti valorosi e in ordine.


Gueblen monte.

Gueblen è monte alto e freddo molto, e assai grande: estendesi per longhezza circa a sessanta miglia e per larghezza circa a quindici; confina di verso levante con i monti di Dubdu, e di verso ponente col monte Beni Iasga. È discosto da Teza circa cinquanta miglia verso mezzogiorno, e vedesi la neve su la cima del detto monte per tutte le stagioni dell'anno. Fu egli abitato da grande, valente e ricco popolo, il quale sempre visse in libertà; ma poi dandosi alla tirannide, i popoli dei vicini monti, raunatisi insieme, s'accordarono contra di lui, e presero il monte uccidendo tutti gli uomini, e abbruciarono ogni casale, onde fin ora è disabitato.

Egli è vero che una famiglia del detto monte, veggendo l'animo ingiusto di molti suoi parenti, che tutti insieme con gli altri tiranneggiavano, con la sua brigatella e piccola facultà si ritirò ad abitare alla cina del monte, quivi santa e romita vita vivendo: a cui fu perdonato. E i discendenti di cotesta famiglia ancora vi abitano, i quali, per essere uomini letterati e di onesto vivere, sono in molto credito appresso il re di Fez. A' miei dí vi fu un vecchio molto dotto, e di tanta riputazione ch'el re l'usava per mediatore in tutte le paci e accordi che gli occorrevano di fare con qualche popolo degli Arabi, a quale essi rimettevano le lor differenze come alle mani d'un santo: per questo il detto vecchio era molto odiato dalla corte.


Beni Iesseten.

Beni Iesseten monte è sottoposto al signor di Dubdu, ed è abitato da vilissimo popolo, il quale va pessimamente vestito e discalzo; e le sue case sono fatte di giunchi marini. E quando è di bisogno ad alcuno di camminar per la regione, colui si fa alcune scarpe di detti giunchi insieme intrezzandogli, ma, prima che ve n'abbia fatto le seconde, le prime sono sdrucite e consumate. Di qui si può argomentar quale abbia da essere la vita di questi tali, che invero è miserissima. Nel monte altro non nasce che panico, di cui ne fanno il pane e l'altre loro vivande. Egli è vero che ne' piedi del detto monte sono molti giardini d'uva, di datteri e di persiche in gran quantità: alle quai persiche levano l'osso e dividonle in quattro parti, poi le seccano al sole e cosí le serbano per tutto l'anno, tenendo ciò per cibo delicatissimo. Ancora nelle coste sono molte vene di ferro, il quale essi lavorano, e fanno cotai pezzi co' quali ferrano i cavalli; e i medesimi pezzi servono eziandio per moneta, percioché poco o nulla d'argento si truova per quella regione. Ben de lor ferri cavano molti danari, perché ve ne vendono in molta quantità; e ne fanno anco certi pugnali, ma non tagliano punto. Le femine usano portare anella del detto ferro nelle dita e negli orecchi, e peggio vestono che gli uomini; queste vanno di continuo ne' boschi, sí per far legna come per pascolar le bestie. Quivi non è civilità né alcuno che sappia lettere, e sono come le pecore, nelle quali non è né giudicio né intelletto.
Mi raccontò il cancellieri del signore di Dubdu una piacevole novella, nella quale si contiene la natura di costoro. Dissemi che 'l signore mandò nel detto monte un certo suo vicario, uomo di molto ingegno, il quale, invaghitosi d'una di quelle montanare, non sapeva come recare a fine il suo amoroso desiderio, percioché ella era maritata, né mai il marito la lasciava sola. Avvenne che un giorno egli vidde che amendue se ne andavan al bosco con una lor bestia, per caricar legna. E come vi furono giunti, legò il marito la bestia a un ramo d'albero, e quindi alquanto discosto l'uno e l'altro si diede a tagliar legna. Il buon vicario lor tenne dietro e, come vidde questo, subito n'andò a l'albero e slegò la detta bestia, la quale di passo in passo, cercando l'erba, si dilungò alquanto. Come il marito vidde che s'era tagliata quella quantità di legna che gli parve bastevole, andò per la bestia, lasciando ivi la moglie che l'attendesse; e non la trovando dove legata l'aveva, l'andò buona pezza cercando prima che la trovasse. Intanto messere il vicario, che stava ascoso fra certe frasche aspettando questo effetto, si scoverse alla donna e, senza avere molte contenzioni, la condusse al suo volere. E appena aveva fornito la caccia amorosa che sopragiunse il marito con la ritrovata bestia, tutto riscaldato per la stracchezza e soffiando; ma egli se gli tolse sí presto che non lo vidde. Caricò adunque il marito le legna e, venendogli voglia di dormire, si coricò all'ombra d'un albero allato alla moglie, e ischerzando con esso lei come si suol fare, gli venne l'una delle mani posta sopra la possessione della moglie, la quale trovando ancora molle e bagnata disse: "Moglie, cotesto che vuole dire egli? perché se' tu qui bagnata?" Rispose la moglie cattivella: "Io piangeva non ti veggendo ritornare, pensando che la bestia fosse smarrita; il che sentendo la mia sirocchia, ancora ella incominciò a lagrimare per pietade che me ne aveva". Lo sciocco lo si credé, e disse che la confortasse che non piangesse piú.


Selelgo monte.

Selelgo è un monte tutto ripieno di boschi, i quali sono d'alberi altissimi di pini; e sonvi molti gran fonti. Né gli abitatori hanno alcune case fatte di muro, ma tutte le lor case sono di stuore di giunchi marini, le quali agevolmente si possono mutare di luogo a luogo, percioché fa loro di bisogno di lasciare il detto monte al tempo del verno e abitare nel piano. E come è finito il mese di maggio, gli Arabi si partono dal diserto; allora essi fanno insieme due buoni uficii: l'uno è di fuggir gli Arabi, l'altro di trovare i luoghi freschi, il che è utile a loro e alle bestie, percioché hanno molte pecore e capre. E gli Arabi, venendo il verno, ritornano al diserto, perché ivi è piú caldo e i camelli non molto vivono ne' luoghi freddi. Nel detto monte sono molti leoni, leopardi e simie, le quali a chi vede par di vedere uno esercito di gente armata, in tanta copia ve ne sono. Quivi è un capo d'acqua grossissimo, che esce con tanta furia che io ho veduto gettar nella buca donde nasce l'acqua una pietra di peso di cento libbre, e la pietra veniva mandata adietro dalla velocità dell'acqua; e da questo capo ha principio Subu, che è il maggior fiume di Mauritania.


Beni Iasga monte.

Beni Iasga monte è abitato da un popolo ricco e molto onesto circa alla pulitezza del vivere civile; ed è vicino al sopradetto monte dove nasce il fiume, il quale fra certe alte rupi passa vicino. Gli abitatori, per passar da una parte all'altra, v'hanno fabricato un ponte mirabile in questo modo: hanno piantati duoi pali grossi e saldi da cadauna parte del fiume, e sur ogni palo v'hanno attaccate certe girelle, e fanno passare da una banda all'altra certe grosse funi fatte di giunchi marini, le quali passano per le dette girelle; e su le funi v'è attaccato un sportone grande, grosso e forte, dove agiatamente possono star dieci persone, e come uno vuol passare, entra nel detto sportone e comincia a tirare da due bande le funi attaccate allo sportone, e le funi vanno facilmente per le girelle e a questo modo il sportone passa all'altra banda. Una fiata, trovandomi a passar nel detto sportone, mi fu detto che già gran tempo vi volsero montare dentro piú persone che 'l non capeva, e per il soverchio carico si sfondrò il sportone, e parte delle genti caddero nel fiume e parte s'attaccorno con le mani alle funi, le quali con gran fatica si salvarono: ma quelle che caddero nel fiume non furono mai piú vedute. A me s'arriciarono i capegli quando ciò raccontato mi fu, perché il ponte è posto fra la cima di due monti, di maniera che tra l'altezza del ponte e l'acqua vi sono centocinquanta braccia di distanza, e l'uomo che è appresso il fiume a chi è sopra il ponte pare lungo una spanna. Hanno gli abitatori gran numero di bestiami, perché nel monte non sono molti boschi; e la lor lana è finissima, e le lor donne ne fanno panni che paion di seta, e di questi coltre e i loro abiti: le quai coltre si vendono in Fez tre, quattro e dieci ducati l'una. Cavano ancora dal monte assai olio. Ma sono sottoposti al re di Fez, e l'entrata è indirizzata al castellano della vecchia Fez: che può essere circa a ottomila ducati.


Azgan monte.

Azgan monte confina con Selelgo dalla parte di levante, e da quella di ponente col monte Sofroi, e da mezzogiorno con i monti che sono sopra al fiume Melulo, e da tramontana con le pianure del territorio di Fez. Ha per lunghezza circa a quaranta miglia e per larghezza quasi quindici. È molto alto, e tanto freddo che non vi si può abitare altra parte che la faccia che risponde verso Fez, la quale è tutta piantata d'olive e d'altri frutti; e nasconvi molti fonti che caggiono nel piano, dove sono buoni terreni per seminare orzo, lino e canapo, che nasce in gran quantità in cotai luoghi. Ne' moderni tempi sono stati piantati nel detto piano molti alberi di more bianche, per nudrire i vermi che fanno la seta; nel quale piano si abita il verno dentro a certe capanne. L'acqua è tanto fredda che a niuno basta l'animo di toccarla, non che di berne: e io ne conobbi alcuno che, beutone una sola tazza, rimaser circa a tre mesi gravati da una doglia di corpo insopportabile.


Sofroi città.

Sofroi è una piccola città ne' piedi di Atlante, vicina a Fez verso mezzogiorno circa a quindici miglia, a canto un passo per cui si va a Numidia. La qual città fu edificata dagli Africani fra due fiumi, d'intorno ai quali sono molti terreni d'uva e d'altri frutti, e d'intorno la città circa a cinque miglia sono tutte possessioni d'olive, e per esser communemente il terreno magro non vi si semina altro che lino, canapo e orzo. Gli abitatori sono uomini ricchi, ma vestono male, e sempre i lor panni per tutto hanno macchie d'olio, percioché tutto l'anno lo colano e lo portano a vendere a Fez. Nella città non v'è altro di bello che un tempio, pel quale passa un gran capo d'acqua; v'è ancora una bella fontana appresso la porta del detto tempio. Ma questa città è presso che rovinata per li mali portamenti d'un fratello del presente re, che ne è signore.


Mezdaga città.

Mezdaga è una piccola città ne' piedi di Atlante, discosta dalla sopradetta circa a otto miglia verso ponente, la quale è d'intorno cinta di belle mura, ma di dentro ha brutte case, ciascuna delle quali ha la sua fontana. Gli abitatori sono quasi tutti pignattari, percioché hanno buona terra porcellana: e fanno infinita quantità di pignatte e le vendono a Fez, perché da lei non sono lontani piú che dodici miglia verso mezzogiorno. E la campagna della detta città è buona per orzo, lino e canapo; ancora vi nasce molta quantità d'olive e di diversi frutti. E ne' boschi vicini alla detta città, come eziandio in quelli delle sopradette, sono molti leoni, ma non sono nocivi, percioché, venendo per pigliare una pecora, quando l'uomo va loro incontra con qualsivoglia arma, fuggono da lui.


Beni Bahlul.

Beni Bahlul è una piccola città edificata nella costa di Atlante che riguarda a Fez, e discosta da Fez circa a dodici miglia. Appresso la città c'è un altro passo che conduce a Numidia; e sopra il monte sono molti capi d'acqua, alcun de' quali passa per lei. D'intorno il sito è simile a quello delle dette disopra, eccetto che dalla parte di mezzogiorno non v'è altro che boschi. Gli abitatori sono legnaiuoli, e quai tagliano legne e quai le conducono a Fez. Sono sempre molestati e aggravati dai signori, perciò fra loro non v'è civilità alcuna.


Hain Lisnan città.

Fu questa città edificata dagli Africani antichi in un piano fra molti monti, nel passo per cui si va da Sofroi a Numidia. Il suo nome suona quanto "fontana degl'idoli", percioché dicesi che, quando gli Africani erano idolatri, tenevano appresso questa città un tempio, al quale si riducevano uomini e donne a certo tempo dell'anno il principio della notte. E come avevano fatti i lor sacrifici, spentone i lumi, ciascuno godeva dei diletti di quella donna che il caso gli mandava innanzi; e come era venuta la mattina, ad ogni donna che era stata presente quella notte nel tempio era proibito d'appressarsi al marito per spazio d'un anno: i figliuoli che nascevan in detto spazio erano allevati dalli sacerdoti di quel tempio. Nel detto tempio era una fontana, la qual si vede fin ora, ma il tempio e la città furon distrutti dai maumettani, né alcun vestigio ne rimane. La fonte prima fa un laghetto, e poi va discorrendo per tanti rivoli che tutti quei circoiti sono paludi.


Mahdia città.

Mahdia è una città edificata fra Atlante in mezzo de boschi e capi d'acqua, quasi nel piano; ed è discosta dalla sopradetta circa a dieci miglia. La quale fu edificata da un certo predicatore nasciuto in quelli monti, nel tempo che 'l popolo di Zaneta dominava la città di Fez; ma, dapoi che entrò il popolo di Luntuna con il re Giuseppe, la detta città fu saccheggiata e rovinata, né altro vi rimase che un tempio assai bello e quanto era delle sue mura: per il che gli abitatori del monte divennero vili e soggetti del re di Fez. E questo fu negli anni 515 di legira.


Sahblel Marga, che significa "il piano del prodo".

Sahblel Marga è un piano largo circa a trenta miglia e lungo circa a quaranta, fra i monti che sono parte di Atlante; e ne' detti monti sono molti boschi d'alberi altissimi, nei quali, dentro le lor capanne l'una discosta dall'altra, abitano molti carbonari: hanno questi molte fornaci di carboni, dei quai se ne possono caricar cento some. Molti di quelli che stanno ne' boschi comperano di questi carboni, e gli rivendono in Fez. Sono in detti boschi molti leoni, li quali non rade volte mangiano qualche uno di questi carbonari. Dal monte si portano a Fez molti belli travi e tavole di diverse sorti; ma il piano è tutto aspro, e pieno di certe pietre negre e sottili a modo di piana tavola, né alcuna cosa vi nasce.


Azgari Cammaren piano.

Azgari Cammaren è un altro piano cinto da boscosi monti, ed è come un prato, nel quale per tutto l'anno si truova l'erba. Perciò molti pastori vi si conducono la state con le loro pecore, ma tutto lo cingono d'alti siepi, e fanno gran guardia la notte, per tema dei leoni.


Centopozzi monte.

È questo monte fra gli altri altissimo, e nella sua cima sono certi edifici antichi, appresso i quali è un pozzo profondo tanto che niuno vi può vedere il fondo. Onde i pazzi dai tesori vi fanno spesse volte con le funi calar giú degli uomini, i quali portano un lume in mano; e dicono che quel pozzo è fatto in molti solai, e nell'ultimo truovano una gran piazza cavata per forza di ferro, la quale è d'intorno murata, e ne' muri sono quattro buchi bassi e diritti, i quali conducono in certe altre piccole piazze, dove sono alcuni pozzi d'acqua viva. E molti uomini in detto pozzo rimangono morti, percioché alle volte si muove un terribilissimo vento, il quale spegne loro il lume, di maniera che, non sapendo essi trovar la strada di ritornar al disopra, là giú si muoiono di fame.
Raccontommi un nobile di Fez, il quale era povero e dilettavasi di questa sciocchezza, che un giorno s'accordarono dieci compagni insieme di cercare la lor ventura nel fondo di questo pozzo; e come furono pervenuti all'entrata, scielsero per sorte tre di loro che vi dovessero andare, tra' quali toccò a questo mio amico. Furon adunque calati con le funi e con lanterne accese in mano, al modo sopradetto. E poi che i tre pervennero ai quattro buchi, si risolsero d'andare l'uno diviso dall'altro: ma come l'uno si spartí, gli altri due, un de' quali era il mio amico, s'inviarono insieme. Né avevano appena camminato un quarto di miglio, che incontrarono molti pipistrelli, o vogliamo dir nottole, i quali volavano d'intorno alle lanterne, e tanto percoterono con l'ali che ve ne spensero una. I due, seguitando pure il loro cammino, trovarono i pozzi dell'acqua viva, e d'intorno viddero biancheggiar molte ossa bianche d'uomini morti, e cinque o sei lanterne, qual molto vecchia e qual nuova. Ma quivi, non vedendo in quei pozzi altro che acqua, tornarono adietro; né erano ancora a mezzo cammino che la forza d'un vento, che d'improviso nacque, estinse l'altra lanterna, di maniera che, poscia che furono andati alquanto spazio senza vedervi errando e brancolando per quelle tenebre, non sapendo trovar la via d'uscir fuori, al fine stanchi e disperati si gettarono a terra piangendo e porgendo voti a Dio e promettendo, se di quindi uscivano vivi, di mai piú tornarci. Quegli che aspettavano di sopra, veggendo che doppo molte ore nessun di questi tornava, dubitarono di qualche inganno. Laonde cinque di loro con buone lanterne in mano e con focili si calarono giú, e mentre camminavano per quei luoghi, sempre gridando e chiamando i loro compagni, finalmente trovarono i due, i quali stavano nella forma che s'è detta; ma il terzo non poterono essi vedere dove si fosse, per il che senza lui ritornarono di sopra. Colui s'era smarrito come fecero prima i due, né sapendo dove s'andare, sentí l'abbaiare come di due piccoli cagnuoli: e là faccendosi donde a lui pareva che venisse il grido, vidde quattro animaletti che mostravano essere di poco spazio nasciuti; e cosí stando sopravenne la madre, che aveva somiglianza di lupa, ma maggiore, ed è un animale che fa i suoi figliuoli nelle grotte o in qualche buca, la quale è detta dabah. Il povero uomo stette sospeso, temendo non quella bestia alcun dispiacer gli facesse. Ma ella, accarezzato alquanto con la lingua i suoi figliuolini, s'aviò per dipartirsi, e quelli animaletti passo passo la seguitavano: il che somigliantemente fece costui, tanto che per quelle orme si trovò all'uscita del pozzo, a' piedi del monte. E se alcun mi dimandasse come esso vedesse lume, rispondo che il molto spazio ch'egli stette nella buca gliene rese pure un poco, come a quelli avviene che stanno alquanto ne' luoghi oscuri. Ora in processo di tempo quel pozzo fu ripieno d'acqua, percioché tanto vi cavarono che resero uguale il terreno.


Monte e passo dei Corvi, detto Cunaigel Gherben.

Questo monte è vicino al sopradetto, dove sono molti boschi e v'è grandissima quantità di leoni; né v'è città né casale, ma tutto è per la sua freddezza disabitato. Di quivi corre un fiumicello. E le rupi di questo monte sono altissime, nelle quali abita moltitudine infinita di cornacchie e di corvi: e di qui è derivato il nome. Alle volte soffia nel detto monte il vento di tramontana, il quale tanta neve ne manda che molti, che vanno da Numidia a Fez, affogano dentro, sí come di sopra vi ho narrato una istoria in tal proposito. La state suol venire a lui certi Arabi, detti Beni Essen, per le sue fresche acque e per le ombre grate che ci sono, ancor che vi siano leoni e leopardi terribili.


Tezerghe città.

Tezerghe è una piccola città a modo d'una fortezza, edificata dagli Africani sopra un fiumicello, il quale passa vicino a' piedi del detto monte fra certe valli. Gli abitatori e le case sono parimente brutte, né v'è civilità né costume né ornamento alcuno. Il terreno che è fra le dette valli tiene poco spazio, dove nasce qualche poco d'orzo e qualche persico. Gli abitatori sono soggetti a certi Arabi, appellati Deuil Chusein.


Umm Giunaibe.

Umm Giunaibe è una città antica la quale fu rovinata dagli Arabi, discosta dalla sopradetta circa a dodici miglia, appresso un passo di Atlante, cioè nella faccia di mezzogiorno. Il passo è sempre molestato dagli Arabi, percioché è un gran piano vicino alla città, tenuto da alcuni Arabi che non temono il re. Da canto alla detta città è una salita, per la quale chi passa, fa di mestiero che egli se ne passi danzando, altrimenti dicono che gli verrebbe la febbre: il che ho veduto osservare da molti.


Beni Merasen monte.

Beni Merasen monte è molto alto e freddo, ma pure è abitato da una sorte di gente che non cura il freddo. Hanno gli abitatori gran quantità di cavalli e d'asini, de' quali lor nasce infinita moltitudine di muli: e quivi s'adoperano i muli a guisa di somari, senza briglie e senza bastili; servesi l'uomo solamente di certe leggieri bardelle. Non hanno costoro casa niuna di muro, ma stannosi nelle capanne di stuore, perché di continovo vanno pascolando li lor cavalli e muli. Non pagano alcuna gravezza al re di Fez, perché il monte è forte, ed eglino sono molto ricchi e benissimo si difendono.


Mesettaza monte.

Mesettaza monte da levante a ponente s'estende circa a trenta miglia, ed è largo forse dodici; confina da occidente con i piani d'Edecsen, i quali confinano con Temesna. È freddo ancora egli, ma nondimeno è abitato come il superiore, e gli abitatori sono medesimamente ricchi e nobili, e abbondano di cavalli e muli. Di questi si truovano molti dotti uomini in Fez; e sono nel monte non pochi che scrivono perfettamente, onde usano di far la trascrizione di piú libri, i quali vendono a Fez. Non pagano al re gravezza di sorte niuna, fuori che alcuno cotale presente di poca importanza.


Ziz monti.

Questi monti sono detti Ziz dal nome d'un fiume che da quelli ha nascimento. E dalla parte d'oriente incominciano dal confino di Mesettaza, e dalla parte d'occidente confinano con Tedla e ancora col monte Dedes; di verso mezzogiorno riguardano a una parte di Numidia che è appellata Segelmese, e dalla parte di tramontana verso il piano d'Edecsen e di Guregra, estendendosi per lunghezza circa a cento miglia e per larghezza circa a quaranta. È sono quindici monti tutti freddi e asperi, da' quali nascono molti fiumi: e sono abitati da una generazione di genti chiamata Zanaga, che sono cotali uomini terribili e robusti, i quali non istimano né freddo né neve. Il suo vestire è una tonica di lana sopra la carne, e su quella portano un mantello; d'intorno alle gambe certe stracce involte e aggroppate a loro servono in vece di calze; nel capo niente portano in tutte le stagioni. Hanno molte pecore e muli e asini, perché nei lor monti si truovano pochi boschi; ma sono i piú ladri e traditori assassini del mondo. Tengono grandissime nimicizie con gli Arabi, e la notte gli rubano, e per far loro dispetto, quando altro non possono, gettano in loro presenza i camelli che prendono giuso delle alte cime dei monti.
Nei detti monti è una cosa quasi invero miracolosa, cioè grandissima quantità di serpi, tanto piacevoli e domestiche che elle se ne vanno per le case, non altrimenti che vadino i piccoli cani e le gatte. E quando alcuno vuol mangiare, allora tutte le serpi che sono nella sua casa gli stanno d'intorno, e mangiano domesticamente tutte le fruste di pane o d'altro cibo che vengono lor date. Né esse mai fanno dispiacere ad alcuno, se prima non l'hanno da colui ricevuto.
Abitano queste canaglie in certe case murate di pali coperti di creta, e i colmi hanno il coprimento di paglia. E un'altra parte di detti montanari, i quali posseggono maggior copia di bestie e abitano in certe capannette coperte di stuore. Vanno alle volte a Segelmese, ch'è una parte, come abbiamo detto, di Numidia, portando con esso loro lana e butiro. Ma non vi vanno se non ne' tempi che gli Arabi sono ne' diserti, quantunque le piú volte essi gli assaltano con grosse cavalcate, e gli uccidono e tolgono le loro robe. Ma nondimeno questi montanari sono valenti e animosi, e quando combattono non si vogliono mai render vivi. Le arme di ciascun di loro sono tre o quattro partigianelle, le quali mai non lanciano in fallo, e quando n'ammazzano l'uomo e quando il cavallo; percioché combattono a piede, né mai sono superati se non quando avviene che abbino a fronte una gran moltitudine di cavalli; portano eziandio spada e pugnale. A' tempi nostri sogliono questi montanari prender dagli Arabi salvicondotti, e cosí quelli da questi, onde poi trattano le loro faccende securamente. Simili salvicondotti essi danno alle carovane dei mercatanti, i quali pagano a ciascun popolo dei detti monti una separata gabella, altramente sariano saccheggiati.


Gerseluin città.

Gerseluin è una città antica, edificata dagli Africani sotto a' piedi d'alcuni dei sopradetti monti, appresso il fiume di Ziz. Ha belle e forti mura, le quali fecero fabbricare i re della casa di Marin. La detta città di fuori all'occhio pare una cosa bellissima, ma di dentro è difforme oltra modo: ha triste e poche case e pochissimi abitatori, mercé degli Arabi, i quali, essendo mancata la casa di Marin, occuparono questa città e male trattarono il suo popolo. Né di lei si può traere entrata niuna, percioché ciascuno è poverissimo e poco terreno ha da seminare, perché, trattone la parte di tramontana, tutte le sue parti sono aspre e petrose. Ma sopra le rive del fiume sono molti mulini e infiniti giardini d'uva e di persiche, le quali essi sogliono seccare, e serbanle per tutto l'anno: massimamente le persiche, delle quali, accompagnandoli con altri cibi, ne fanno certi mangiari e di loro si pascono. Hanno pochissima quantità d'animali, onde vivono in gran miseria, percioché questa città fu fabbricata dal popolo di Zeneta a guisa d'una fortezza, non per altro che per tenere il passo per cui si va a Numidia, dubitando che per quello il popolo di Luntuna non intrasse: qual nondimeno per altra via vi venne, e la rovinò e disfece. Quivi eziandio è gran quantità di serpi domestiche e piacevoli, come le dette di sopra.


QUARTA PARTE

Telensin.

Il regno di Telensin dalla parte d'occidente termina nel fiume Zha e in quello da Muluia, d'oriente nel fiume Maggiore, da mezzogiorno nel diserto di Numidia e da settentrione nel mare Mediterraneo. Questo regno latinamente è detto Cesaria, e fu già da' Romani signoreggiato. Ma doppo che i Romani levarono il piè d'Africa, esso alle mani dei suoi antichi signori ritornò, i quali furono Beni Habdulguad, una stirpe del popolo di Magraua. Costoro tennero la signoria trecento anni, insino che vi regnò un gran principe, il cui nome fu Ghamrazen, figliuolo di Zeiien; e il regno rimase nel lignaggio di costui, in tanto che questi signori mutarono il cognome della casata e furono dipoi chiamati Beni Zeiien, cioè figliuoli di Zeiien, che fu figliuolo di Ghamrazen: durò il dominio in questo ultimo lignaggio 380 anni. Ma fu egli molto molestato dai re di Fez, cioè da quelli della casa di Marin, percioché, come dicono le istorie, circa a dieci re di detta casa col valor dell'armi acquistarono questo regno, e dei re della casa di Zeiien a que' tempi quale fu ucciso, quale menato in cattività, quale si fuggí al diserto da' loro vicini Arabi. Eziandio altre volte furono scacciati dai re di Tunis; nondimeno sempre questa famiglia ritornò al dominio, e se lo godé in pace circa a centoventi anni senza essere danneggiato da niuno straniero, eccetto che da Abu Feris, re di Tunis, e da Hutmen suo figliuolo, il quale fece Telensin per un tempo tributario di Tunis, cioè fino a tanto che si morí Hutmen.
Estendesi questo regno per lunghezza trecentoottanta miglia, cioè da levante verso ponente; ma da tramontana a mezzogiorno è molto stretto, e dal mare Mediterraneo a' confini di diserti di Numidia non c'è di spazio venticinque miglia. Per tale cagione non mai gli sono mancati danni e grandissime offese dagli Arabi che abitano nella vicina parte del detto diserto. E di continovo i re si sono sforzati di tenergli cheti con grandissimi tributi e presenti, ma non poterono sodisfare a tutti: e rade volte nel detto regno si può truovare i passi sicuri. Nondimeno in lui è gran traffico di mercatanti, sí per esser molto vicino a Numidia, sí ancora perché esso è scala al paese dei negri.
Sono ancora nel detto due famosi porti, il porto della città di Horam e quello di Marsa Elcabir, i quali solevano esser frequentati da moltissimi mercatanti genovesi e veniziani, dove facevano grandi traffichi di robe a baratto. Ma questi porti furono dipoi presi dal catolico re Fernando, onde il regno fece gran perdita, di maniera che il re Abuchemmeu fu dal suo popolo scacciato, e posto nella sedia reale Abuzeuen, il quale era stato tenuto prigione dal detto re, che era suo nipote. Ma poco si godé egli l'allegrezza del novo regno, percioché ne fu privo da Barbarossa turco, il quale con certo tradimento lo levò di vita e fecesi re. Abuchemmeu, che era stato scacciato dal popolo, ricorse umilmente alla maestà di Carlo imperadore, ricercando da quello il suo aiuto contra Barbarossa in riscatto del regno. L'imperadore, per sua clemenzia e pietà, gli si mostrò molto benigno e diedegli un grande esercito, col quale egli racquistò il regno e scacciò Barbarossa, e prese vendetta nel sangue di coloro che erano stati auttori del suo esilio. Il che fatto, sodisfece ai soldati spagnuoli e attese pacificamente ai capitoli a' quali s'era obligato con l'imperadore, mandandogli ogni anno certo tributo: il che osservò mentre ei visse. Doppo la sua morte pervenne il regno a un suo fratello detto Habdulla, il quale rifiutò l'obbedienza e l'osservazion dei patti che il fratello aveva fatti col detto imperadore, fidandosi nel braccio di Suliman, imperadore di Turchi, il quale poco favore gli dà. Cosí egli fin ora vive e siede nella signoria.
Le maggiori parti del regno sono paesi secchi e asperi, massimamente quel tratto che risponde verso mezzogiorno; ma i piani vicini alla marina sono abbondanti e ripieni di fertilità, e tutta la parte vicina alla città di Telensin è tutta piana con molti diserti. Vero è che verso la marina, cioè dalla banda di ponente, sono assai monti; cosí ancora nello stato di Tenez e sopra il paese di Alger sono infiniti monti, ma tutti fruttiferi. In questo dominio sono poche città e castelli, ma quelli pochi sono buoni e fertili, come particolarmente vi si dirà.


Angad diserto.

Il principio di questo regno dalla parte d'occidente è un diserto piano, ma aspero e secco, nel quale non si truova né acqua né albero: estendesi per lunghezza circa a ottanta miglia, ed è per larghezza circa a cinquanta. Si truova per entro gran quantità di capriuoli, di cervi e di struzzi; ma vi sta di continovo una masnada di Arabi assassini, per esser quivi la strada da Fez a Telensin: e i mercatanti rade volte scampano dalle lor mani, massimamente il verno, nel qual tempo gli Arabi che sono pagati per far sicure le strade si partono e vanno a Numidia. Sono in questo diserto molti pastori, ma i leoni mangiano e guastano gran quantità delle lor pecore, e anche degli uomini, quando possono.


Temzegzet castello.

Temzegzet è un castello posto dove il detto diserto confina col territorio di Telensin, il quale fu dagli Africani anticamente fabbricato sopra uno scoglio. E i re di Telensin lo solevano tener molto forte per avere i passi contra i re di Fez, perché il detto castello è quasi su la strada maestra di Fez. Di sotto a lui passa il fiume Tefme, e d'intorno al castello v'è qualche buon campo di terreno, dove si semina a bastanza degli abitatori. Il detto, mentre fu sotto il dominio di Telensin, fu assai civile; ma ora che è in poter degli Arabi è divenuto quasi una stalla, percioché essi altro non vi tengono che i loro grani e bastili dei camelli. Il suo popolo si fuggí per li mali trattamenti delli detti Arabi.


Izli castello.

Izli è un castello antico, edificato dagli Africani in una pianura la quale confina col detto diserto. V'è d'intorno qualche poca quantità di terreno da seminare orzo e panico. Il detto anticamente fu bene abitato e cinto di buone mura, le quali nelle guerre furono gettate a terra, e rimase per qualche tempo privo di abitazione. Fu poi riabitato da certi uomini che vivono a guisa di religiosi, e sono molto onorati dal re di Telensin e dagli Arabi. Questi danno mangiare e bere graziosamente a tutti i passaggieri tre dí per l'ordinario de bando. Le case del detto castello sono basse e triste: i muri hanno di creta e i coprimenti di paglia. Appresso il castello passa un capo d'acqua, della quale ne adacquano i loro terreni, percioché questo paese è tanto caldo che, se non si adacquasse, non vi potrebbe nascere frutto alcuno.


Guagida città.

Guagida è una città antica, edificata dagli Africani in una pianura molto larga, discosta dal mare Mediterraneo circa a quaranta miglia verso mezzogiorno, e da Telensin quasi altretanto. Da mezzogiorno e da ponente confina col diserto di Angad; e tutti i suoi terreni sono abbondantissimi, e d'intorno la città v'ha molti giardini, massimamente d'uva e di fichi. Per la città passa di dentro un capo d'acqua, della quale gli abitatori si servono e per bere e per altre cose necessarie. Le sue mura furono molto forti e alte, e cosí furono le case e le botteghe fatte con bella sorte d'edificio; gli abitatori ricchi, civili e valenti: ma nelle guerre che seguirono tra i re di Fez e i re di Telensin, per aversi ella accostata ai re di Telensin, fu questa città saccheggiata e distrutta. Ma acchetate le guerre s'incominciò ad abitare, e molte case vi furon rifatte; ma invero non ritornò al primiero essere, né vi sono ora piú che millecinquecento case abitate, e gli abitatori sono poveri, sí come quelli che pagano tributo al re di Telensin e agli Arabi lor vicini nel diserto di Angad, i quali vanno vestiti a modo di contadini, con panni grossi e corti. Usano d'allevar molti belli e grandi asini, di cui ne nascono belli e gran muli, i quali vendono per caro prezzo in Telensin. La lingua loro è africana antica, e pochi sono che sappino parlare l'arabico corrotto all'usanza dei cittadini.


Ned Roma città.

Ned Roma città fu anticamente edificata da' Romani, quando essi signoreggiarono quella parte: e la edificarono con largo circuito in una pianura vicina al monte circa a due miglia, e discosta dal mare Mediterraneo circa a dodici; e d'appresso alla detta città passa un fiume non molto grande. Dicono li nostri istorici che i Romani la fabricarono in quel sito e alla medesima forma come sta e si vede Roma: e per tal cagione fu cosí detta, percioché ned, nella lingua africana, risuona quanto similis nella latina. Le mura sono intere, ma le case furon disfatte e ora ritornate in piè con brutta fabbrica. Sono d'intorno a lei alcune poche reliquie di romani edifici. La campagna della detta città è abbondantissima, e d'intorno sono molti giardini e terreni, ne' quali si truova gran quantità di quegli alberi che fanno le carobbe. Del quale frutto cosí nella città come nel contado s'usa mangiar molta copia, e di queste cavano assai mele, che poi in alcuni lor cibi adoperano. È la città oggi poco meno che civile, percioché vi sono molti artigiani, spezialmente tessitori di tele bambagine, percioché molta copia di bambagio suol nascere in quel paese. Costoro si possono chiamar quasi liberi, conciosiaché, avendo in lor favore i vicini montanari, il re non può trarre dalla città utile alcuno; e mandandovi governatori, costoro, se a loro piacciono, gli accettano, se non piacciono gli rimandano adietro. Pure, per sicurtà di potere introdurre le loro mercatanzie in Telensin, sogliono alle volte mandare al re qualche piccolo presente.


Tebecrit città.

Tebecrit è una piccola città, edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo sopra uno scoglio, discosta da Ned Roma circa a dodici miglia; e vicino a lei sono monti alti e asperi, ma molto abitati. Gli abitatori della detta città sono tutti tessitori di tele, e hanno molti poderi di carobbe, e mele in quantità. È vero che stanno in continova paura di essere di notte assaltati da' cristiani: perciò usano di tenervi notturne e diligenti guardie, perché per la povertà loro non hanno facultà di far soldati. I terreni che se gli accostano sono non meno asperi che magri, onde non vi nasce altro grano che qualche poco d'orzo e di panico. Gli abitatori vanno con abiti tristi, e non sono civili, ma gente grossa.


Hunain città.

Hunain è una città piccola e antica, edificata dagli Africani. È assai gentile e addorna di civilità, e ha un piccolo porto, fatto forte da due torri che stanno da ciascun lato. Questa città è similmente cinta di forti e alte mura, massimamente dalla parte che risponde verso il mare. Le galee de' Veneziani sogliono ogni anno venire al porto della detta città, e fanno molto guadagno con li mercatanti di Telensin, percioché è discosta da Telensin non piú che quattordici miglia; in modo che, quando Oran fu preso da' cristiani, i Veniziani piú non usarono d'andare a Oran, per truovare quella città ripiena di soldati spagnuoli, e i mercatanti di Telensin fecero loro intendere che se ne venissero a questa.
Gli abitatori furono nobili e civili, e quasi tutti lavoravan bambagio o tele; e le case sono bellissime e addornate, e cadauna ha un pozzo d'acqua viva e dolce, e nella corte hanno viti fatte in pergole. Le lor case sono saleggiate di mattoni coloriti, e cosí li tetti delle camere e li muri tutti rivestiti e adornati di musaichi. Ma come s'intese la presa d'Oran, tutti abbandonoron la città, la qual rimase disabitata, eccetto che 'l re di Telensin usa di mandare un castellano nella rocca della terra con qualche fante, non per altro se non per dar aviso quando giunge qualche nave di mercatanzia. E fin al presente le possessioni di detta terra fanno frutti in quantità, come ciriegie, crisomeli, pomi, peri, persiche, fichi infiniti e olive, ma non c'è chi gli raccoglia; e sono sopra un fiume che passa vicino alla terra, dove erano fabbricati li mulini per macinare i grani. Io, passandovi appresso, ne presi gran dolore e compassione, considerando la calamità nella qual detta città era venuta. E mi trovavo con un secretario del re di Telensin, il qual andò per aver la decima d'una nave de Genovesi, la qual portò tanta robba di Europa che forní Telensin per cinque anni: e la decima che toccò al re fu di quindecimila ducati d'oro in oro, secondo che detto secretario mi mostrò.


Haresgol città.

Haresgol fu una città grande e antica, edificata dagli Africani sopra uno scoglio cinto dal mare Mediterraneo d'ogni lato, eccetto dalla parte di mezzogiorno, dove è una via che per la costa del detto conduce alla terra ferma. Era discosta da Telensin circa a quattordici miglia verso tramontana, e fu in lei molta civilità e molto popolo. Vi regnò Idris, fratello del padre di quello Idris che edificò Fez, per elezione del suo popolo; e rimase la signoria nella famiglia di costui cento anni. Venne dipoi un re e pontefice del Chairaoan, il quale distrusse questa città: e rimase disabitata presso a centoventi anni. Doppo il qual tempo fu riabitata da alcune genti che vennero della Granata con l'esercito di Mansor, consigliere di Cordova, il quale la fece rinovar, per qualunque bisogno gli occorresse di mandare i suoi eserciti in Africa. Ma, poiché Mansor si morí e il suo figliuolo Mudaffir, allora tutti i soldati furono scacciati e distrutti dal popolo di Zanhagia e di Magraoa. Fu ancora questa città altre volte disfatta, come negli anni quattrocentodieci di legira appare.

La gran città di Telensin, ora detta di Tremisen.

Telensin è gran città e sedia reale, ma non si truova nelle istorie chi la edificasse. Truovasi bene che ella era una piccola città, e che con la rovina della sopradetta Haresgol incominciò a crescere e allargarsi, massime dipoi che gli eserciti di Mansor furon scacciati: allora, regnando la famiglia di Abdulguad, la detta in modo ampliò i suoi termini che, nel tempo del re Abu Tesfin, pervenne a numero di sedicimila fuochi.
Ed era in lei invero grandissima civilità, ma molto molestata da Giuseppe re di Fez, il quale sette anni le tenne lo assedio d'intorno con quasi infinito esercito, fabbricandoli una piccola terra dalla parte di levante, e la ridusse a tale che il popolo, non potendo soffrire la carestia, si lamentò al re. Il quale rispose che egli volentieri gli darebbe a mangiare la carne sua, quando ella fosse bastante a pascer tutti, stimando ciò poco prezzo al merito della loro fedeltà; e col fine delle parole fece vedere a molti quale era il cibo della sua cena di quel giorno, il quale era carne di cavallo cotta in orzo e foglie di melangole: a tanto che 'l popolo conobbe che la penuria del re avanzava quella di ciascun privato. Il re allora, fatti chiamare li figliuoli, fratelli e nepoti, fece una bellissima orazione, conchiudendo che esso era disposto di valorosamente morire fra i nimici col ferro in mano, piú tosto che vivere in cosí vituperosa e misera vita; perciò chi fosse seco d'un medesimo animo il dí sequente lo seguitasse: il che tutto il popolo parimente mostrò di consentire. Ma volle la sorte buona che, l'istessa mattina per la quale s'era ordinato il fatto d'arme, il re Giuseppe fu ucciso nel suo campo da uno de' suoi per isdegno. La qual novella, pervenuta nella città, sí come agghiacciò l'animo di quelli di fuora, cosí accrebbe ardimento e forza al ben disposto popolo, onde, col suo re uscito alla campagna, n'ebbe con picciola fatica la non prima sperata vettoria. E oltre che uccise una grandissima quantità dei nimici che disordinatamente fuggivano, e' si fece anco padrone delle vettovaglie e di molti bestiami, ch'essi furono a lasciare costretti. Cosí la carestia di pur dianzi si cambiò in somma abbondanza; nondimeno ciascuno molto si risentiva del danno avuto nella lunghezza dell'assedio.
Ora, passati che furono quaranta anni, Abulhesen, quarto re di Fez e della casa di Marin, fece edificare una città vicina a Telensin circa a due miglia dalla parte di ponente, e con molto esercito cinse la città d'assedio per trenta mesi, ciascun giorno dandole crudelissima e aspra battaglia e ogni notte un bastione fabbricando, di maniera che condusse securamente lo esercito fino sotto le mura, ed entrò per forza d'arme nella detta città, la quale fu saccheggiata, e il re fu menato prigione al re di Fez: ed egli gli fece tagliare la testa e gittare il corpo nelle brutture della città.
Questo fu il secondo danno che ricevé Telensin; pure, dapoi che mancò la casa di Marin, la città fu ristorata alquanto e incominciò a rinovarsi la civilità, tanto che 'l numero delle case arrivò a dodicimila fuochi.
E tutte l'arti e le mercanzie sono separate in diverse piazze e contrade, come abbiamo detto di Fez; ma le case nel vero sono assai di minore spesa di quelle che sono in Fez. Sono in lei molti bellissimi tempii, ben ordinati e forniti di sacerdoti e di predicatori; sonvi somigliantemente cinque belli collegi di scolari, molto ben fabricati e ornati di musaico e d'altri lavori, de' quali alcuni furono edificati dai re di Telensin e alcuni dai re di Fez. Ancora sono per lei molte stufe grandi e d'ogni qualità, ma non hanno tanta abbondanza d'acqua come quelle di Fez. Osterie ve ne sono molte all'usanza africana, tra le quali ve ne sono due nelle quali alloggiano i mercatanti genovesi e veneziani. V'è una gran regione, o contrada che dire la vogliamo, nella quale si stanno molti giudei quasi tutti egualmente ricchi, e portano in capo dolopani gialli per esser conosciuti dagli altri; ma un tempo questi giudei furon ricchissimi, percioché nella morte del re Abuhabdilla furono saccheggiati, nell'anno novecentovintitre di legira, onde oggi sono divenuti quasi mendichi. Sono nella detta città molti fonti, ma i capi sono di fuori, di maniera che con poca fatica dai nimici possono esser loro levate l'acque. Le mura di lei sono molto alte e forti, le quali danno l'entrata per cinque molto commode e ben ferrate porte: e in queste sono le loro loggette, dove si stanno gli uficiali, i guardiani e i gabellieri. Nella parte di mezzogiorno è il palazzo reale, cinto intorno d'altissimi muri a guisa d'una fortezza, dentro il quale vi sono molti altri palazzetti con li loro giardini e fonti: e tutti sono fabricati superbamente e con bellissima architettura. Ha due porte, una verso la campagna, cioè scontro al monte, e l'altra dentro della città, dove sta il capitano della guardia. Di fuori della città sono bellissime possessioni con bellissime case, nelle quali sogliono abitare i cittadini al tempo della state con molto loro diporto, percioché, oltre alla piacevolezza del sito, vi sono acque fresche di pozzi e di fontane vive. Quivi sono bellissimi pergolati d'uve d'ogni colore e di sapor delicatissimo; quivi ciriegie d'ogni qualità, e in tanta copia che io non ne viddi altrove altretante giamai; quivi fichi dolcissimi, i quali sono negri, grossi e molto lunghi: questi si sogliono seccare e mangiarsi il verno; quivi persiche, noci, mandorle, melloni, cetrioli e diversi altri frutti. E discosto quasi tre miglia dalla città verso levante sono molti mulini da macinar grano, sopra un fiume detto Sefsif; vi sono eziandio altri mulini piú vicini alla città, in una costa del monte Elcalha.
Verso mezzogiorno, tornando dentro la città, sono similmente molti giudei e avvocati e notari, i quali difendono le cause che cascono in questione; e sonvi molti scolari e lettori in diverse facultà, sí in legge come di scienzie naturali, i quali hanno le loro provisioni ordinarie dai cinque collegi. E sono tutti gli abitatori divisi in quattro parti, cioè quale è artigiano, quale mercatante, quale scolare e quale soldato. i mercatanti sono uomini giusti e molto leali e onesti nei loro traffichi, e si dilettano sommamente che la città sia fornita; i loro viaggi fanno per lo piú ai paesi dei negri, e sono molto ricchi di facultà e di danari. Gli artigiani sono uomini gagliardi di loro persona, e vivono vita molto tranquilla e piacevole, e attendono a darsi buon tempo. I soldati del re sono tutti uomini eletti e molto bene secondo la loro sufficienza salariati, talmente che 'l minimo di loro gode tre ducati al mese di quella moneta, che fanno tre ducati e mezzo della italiana: e questo salario è diputato per l'uomo e per lo cavallo, perché in Africa ogni soldato è inteso per cavallo leggiero. Gli scolari sono molto poveri, perché stanno in li collegi con una misera qualità, ma quando ascendano al dottorato, ciascun di loro è fatto o lettore o notaio o sacerdote. I mercatanti e i cittadini vanno con bello e onesto abito, e alle volte meglio in ordine che quegli di Fez, percioché nel vero sono piú magnifichi e liberali. Gli artigiani ancora essi vanno molto pulitamente vestiti, ma l'abito loro è corto, e pochi sono quelli che portino in capo dolopani, ma solamente alcune berrette senza pieghe, e usano cotali scarpe alte insino al mezzo della gamba. I soldati vestono peggio di tutto il resto del popolo, percioché portano in dosso un largo camicione con larghe maniche, e di sopra un lenzuolo di tela assai largo di bambagio, e in quello s'involgano e aggroppano cosí il verno come la state: egli è vero che il verno usano certe pellicce fatte nella foggia dei detti camicioni di panno e senza fodera, e quelli che sono di maggior qualità portano sul camicione altre vesti di panno, sopra il lenzuolo alcuni cappucci fatti a modo di mantelli, che già si solevano portar nell'Italia per li viaggi, e con quelli si possono quando piove coprire il capo. Gli scolari vestono secondo la loro condizione, percioché chi è montanaro porta abito di montanaro e chi è Arabo porta abito di Arabo; ma i lettori, i giudici, i sacerdoti e gli altri ministri vestono piú superbamente.


Costumi e ufici della corte del re.

Vive questo re con gran riputazione, né si lascia vedere né dà udienza se non a uomini grandi e principali della sua corte, i quali poscia espediscono le cose secondo l'ordine servato. Nella detta corte sono molte dignità e ufici. Il primo è il luogotenente del re, il quale rassegna le provisioni secondo il valore e 'l merito di ciascuno, ordina gli eserciti, e talvolta ne va egli stesso contra a' nimici con la medesima autorità del re. Il secondo è il secretario maggiore, che scrive e risponde in nome del re. Il terzo è il tesoriere, il quale riscuote e serba il danaro delle entrate. Il quarto è il dispensatore, il quale comparte il danaro secondo il mandato del re. Il quinto è il capitano della porta, il quale ha il carico della guardia del palazzo e della persona del re quando egli dà udienza. Sono diversi altri ufici minuti, come maestro di stalla, capitano di staffieri, un gran cameriero, il qual non serve ad altro se non quando dà udienza, perché dentro di casa lo servono schiavi e le donne sue mogli, e schiave cristiane, e molti eunuchi che stanno alla guardia delle donne. Il re va con bello e onesto abito, e molto superbo e pomposo è il cavallo che porta la sua persona. Nell'ordine quando ei cavalca non sono molte cerimonie né pompe, perché non tien se non mille cavalli; ma al tempo delle guerre, che egli va nell'esercito, allora congrega Arabi e altri paesani di diverse generazioni, e li paga al tempo della guerra. E quando va in campagna, non mena similmente gran carriaggi né pompe di padiglioni, ma veste e abita come un privato capitano, e quantunque egli tenga nella sua guardia molti soldati, nondimeno tutte sono cose di poca spesa. Fa battere ducati d'oro basso, come sono quelli d'Italia detti bislacchi, ma pesa ciascuno, per essere molto larghi, un ducato e un quarto di quegli d'Italia; fa ancora batter monete d'argento basso e di rame di diverse qualità e sorte.
Il paese è poco, e poco eziandio abitato; ma per esser la scala fra la Europa e l'Etiopia, il re vi cava assai grande utilità dell'intrare e uscire delle mercanzie, e massimamente dapoi che Oran è stato occupato da' cristiani. Ché gli ha parso d'aggiunger molti dazii e gabelle alla città, la qual nel tempo degli altri re era libera, per la qual cosa si concitò l'odio del popolo, qual durò fino alla sua morte; ed essendoli successo il figliuolo, con opinion di tener ancor lui dette gabelle, fu scacciato e privato del regno, e per riacquistarlo convenne andar a buttarsi a' piedi di Carlo imperadore, qual come abbian detto lo fece ritornar in casa. Pur di continuo questo reame ha dato d'intrata per molti anni trecento e anco quattrocentomila ducati, nel tempo che Oran era sotto il suo dominio, ma quasi la metà si dispensa nelle provisioni degli Arabi e per la custodia del regno; vi sono poi salarii di soldati e di capitani e cortigiani principali, e anco il re spende largamente in casa sua e nelle pompe di casa, per esser molto liberale e cortese signore. Io non pochi mesi ho consumato nella sua corte in diverse volte che vi sono stato, e molte cose ho pretermesso d'intorno al costume e gli ordini particolari, per esser elle conformi a quelle che io vi ho ricontato di Fessa, e per non v'infastidire con piú lunga descrizione.


Hubbed città.

Hubbed è una città piccola come un borgo, discosta da Telensin circa a un miglio e mezzo verso mezzogiorno, nel monte, molto civile e abitata: sonvi in lei assai artigiani, massimamente tintori di panni. Quivi è un grande e famoso santo sepolto in un tempio, e discendesi alla sua sepoltura per molti gradi; gli abitatori convicini molto l'onorano, votandosi a quello e molte limosine per suo amore faccendo: è detto Sidi Bu Median. V'è ancora un collegio bellissimo per scolari, e uno spedale per alloggiar forestieri, i quali furon fabricati da alcuni re di Fez della casa di Marin, come in certe tavolette di marmo dove sono descritti lor nomi si legge.


Tefesra.

Tefesra è una piccola città in una pianura, discosta da Telensin circa quindici miglia, nella quale sono molti fabbri, percioché in questa città si truovano molte vene di ferro; e i terreni d'intorno sono buonissimi per grano. Negli abitatori è poca civilità, perché il loro esercizio altro non è che di lavorar ferro e di portarnelo a Telensin.


Tessela.

Tessela fu una città antichissima, la quale fu edificata dagli Africani in un gran piano che si estende forse a venti miglia, e in questo nasce buonissimo grano e bello, sí di colore come di grandezza: e quasi il detto piano solo può fornir Telensin di grano. Gli abitatori abitano in padiglioni, percioché la città fu destrutta, e il nome rimase al piano. Pagano eziandio molto tributo al re.


Beni Rasid provincia.

Beni Rasid provincia s'estende per lunghezza circa a cinquanta miglia, cioè da occidente verso oriente, e per larghezza venticinque. E l'una parte, che riguarda verso mezzogiorno, è tutta pianura, e l'altra, che s'indrizza verso tramontana, è quasi tutta colline: ma sono tutti comunemente buoni terreni. Gli abitatori di questa provincia si dividono in due parti. Una parte abita nelle dette colline in case assai commode e murate, e queste genti coltivano i terreni e le viti e attendono all'altre cose necessarie. L'altra parte è di piú nobili, quali hanno le loro stanze nella campagna e alloggiano ne' padiglioni, e hanno cura delle bestie, tenendo molti camelli e cavalli: questi sono molto agiati, pure pagano certo tributo al re di Telensin. Quelli delle colline hanno molti casali, ma due sono i primieri. Uno è detto Chalhat Haoara, nel quale sono circa a quaranta case d'artigiani e di mercatanti, ed è fatto a modo d'una fortezza nella costa d'un monte fra certe valli. L'altro è appellato Elmo Hascar, dove suole abitare il luogotenente del re con li suoi cavalli: e in questo si suol fare la giobbia un mercato, nel quale si vende gran copia di bestiami, di grani, di zibibbo, di fichi e mele, ed eziandio vendonsi molti panni del paese e altre cose di minor valore, come sono funi, selle, briglie e fornimenti di cavalli. Io fui molte volte in questo paese, ma il piú delle volte mi fu involato qualche cosa, perché quivi sono ladri solennissimi. E questa provincia dà d'intrata l'anno al re di Telensin venticinquemila ducati, e fa circa altretanti uomini combattenti fra a piedi e a cavallo.


Batha città.

Batha città fu grande e civile e assai abitata, e fu edificata dagli Africani alla nostra età in una bellissima e larga pianura, nella quale nasce gran copia di grano. Soleva render di frutto al re di Telensin circa a ventimila ducati, ma fu rovinata nelle guerre che furono fra i re di Telensin e certi loro parenti, i quali abitano nel monte di Guanseris. E per avere essi avuto il favore del re di Fez, occuparono molto paese del regno di Telensin, quelle città e luoghi che non poterono tenere distruggendo e abbruciando, di maniera che oggi non si vede altro della detta città che certe piccole fondamente. Appresso il luogo dove ella fu passa un fiume non molto grande, su le rive del quale erano molti giardini e fertilissimi terreni.
La pianura eziandio tutta rimase disabitata, per insino che vi venne ad abitare con molti suoi seguaci un romito al modo loro, qual si teneva esser santo, il quale fece coltivare il terreno, e crebbe in tanta copia di buoi, di cavalli e di pecore, ch'egli medesimo non sa il numero. Perché né lui né li suoi pagano cosa alcuna alli re né agli Arabi, per esser tenuto, come abbian detto, santo; e mi è stato detto da molti suoi discepoli che la decima di detti terreni dà di rendita l'anno da ottomila moggia di grano. Ha da cinquecento cavalli fra maschi e femine, diecimila pecore, duemila buoi, e ogni anno da diverse bande del mondo e da diverse persone ha d'offerta e di limosina da quattro in cinquemila ducati, perché la fama sua è andata per tutta l'Asia e per tutta l'Africa, e sono cresciuti in grandissimo numero i suoi discepoli, e quelli che abitano con esso possono esser da cinquecento, quali vivono tutti a sue spese e l'aiutano in molte cose. A costoro non li dà né penitenza né di far cose se non l'ordinarie orazioni, cioè gli dà alcuni nomi di Dio e comandali che invochino il nome di Dio con quelli tante volte al giorno; e per questa causa vi concorre infinito numero di persone che vogliono esser suoi discepoli, li quali, come gli ha instrutti, ritornano a casa. Tien cento padiglioni, alcuni per alloggiar forestieri, altri per pastori, altri per la famiglia. Ha questo buon e valente romito quattro mogli e assai schiave, e di quelle molti figliuoli maschi e femine, quali tutti vanno vestiti molto pomposamente, e detti suoi figliuoli hanno ancor moglie e figliuoli, in modo che fra la sua famiglia e delli figliuoli sono piú di centocinquanta bocche. Costui è tanto onorato dagli Arabi e in tanta estimazione, che 'l re di Telensin triema di lui.
Io, desideroso di cognoscere quel che costui era, vi sono stato ad alloggiar con lui tre giorni continui, e ogni sera ha cenato seco in certe sue stanze secrete, dove fra l'altre cose m'ha mostrato alcuni suoi libri in magica e alchimia, e voleva provarmi che la magica è vera scienza, in modo che mi ho dubitato che costui sia mago, non per altra causa se non perché l'ho veduto tanto venerato e onorato, senza che lui facci né dichi né operi altro che quella invocazion di Dio con quelli suoi nomi.


Oran città.

Oran è una città grande la quale fa circa a seimila fuochi, e fu edificata dagli antichi Africani sul mare Mediterraneo, discosta da Telensin circa a cento e quaranta miglia. Questa città è fornita di tutti gli edifici e di quelle cose che appartengono alla civilità, come di tempii, di collegi, di spedali, di stufe e di osterie. Ha d'intorno alte e belle mura, e una parte è nel piano e un'altra in luogo montuoso ed elevato. La piú parte degli abitatori furno artigiani e tessitori di tele, e v'erano molti cittadini che vivevano d'entrata; ma non fu molto abbondante, percioché non vi si mangiava altro pane che d'orzo. Come si sia, la gente era tutta piacevole, benigna e amica de' forestieri. E fu questa città molto frequentata da mercatanti catalani e genovesi, ed evvi fin ora una loggia la quale si domanda la loggia de' Genovesi, perché vi alloggiavano i Genovesi.
Furon questi di Oran di continovo nimici del re di Telensin, né volsero mai accettare alcun suo governatore, ma solum hanno accettato un suo tesoriere e fattore per riscuotere l'entrate del porto della detta città; e il popolo elegge un lor primario del consiglio, che ha la cura delle cose civili e criminali. E i mercatanti solevano tener sempre fuste e brigantini armati, coi quali corseggiando facevano molti danni in Catalogna e nell'isole di Ieviza, Maiorica e Minorica, di modo che avevano ripiena la città di schiavi cristiani. Ma Fernando re di Spagna mandò una grande armata a combatter contra quelli d'Oran, per levare i cristiani da sí gravi e spessi danni, la quale armata fu rotta per causa di molti disordini. D'indi a molti mesi, con l'aiuto d'alcuni vescovi e del cardinale di Spagna, ne rifece una maggiore, e con questa in una giornata fu presa la città, perché il popolo disordinatamente uscí fuori alla battaglia e lasciò la città vota: il che conosciuto da' Spagnuoli, mandarono essi una parte delle lor genti da un altro lato alla città, i quali, non trovando altro contrasto che di femine che erano salite sopra le mura, agevolmente v'entrarono, e mentre di fuori si combatteva, questi uscendo d'improviso gli assaltarono dopo le spalle. E come che i Mori, avendo veduti gli stendardi di cristiani sopra le mura, s'avessero incominciato a ritirar verso la città per discacciar quegli che v'erano entrati, nondimeno fra l'una parte e l'altra i miseri furono serrati, in modo che pochi vi scamparono vivi. In cotal guisa ebbero gli Spagnuoli Oran, che fu negli anni novecentosedici di legira.


Mersalcabir.

Mersalcabir è una piccola città edificata a' nostri tempi dai re di Telensin sul mare Mediterraneo, discosta da Oran poche miglia. La significazion di questo nome nella lingua italiana è "il porto grande", percioché ella ha un porto al quale non penso che sia simile in tutto il mondo: in lui largamente possono capire centinaia di nave e di galee, ed è da tutte le parti sicuro d'ogni fortuna e offesa di venti. A questo solevano ridursi le galee de' Veneziani ne' tempi pericolosi, mandando le loro mercanzie con le barche ad Oran, percioché ne' buoni tempi dirittamente se n'andavano alla piaggia d'Oran. Fu questa città presa da' Spagnuoli nella medesima forma che fu Oran.


Mezzagran.

Mezzagran è una città piccola, edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo, e d'appresso lei il fiume Selef entra nel detto mare. È assai abitata e civile, ma molto molestata dagli Arabi, e il suo governatore poco può di dentro e meno di fuori.


Mustuganin.

Mustuganin è una città edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo, discosta dalla sopradetta circa a tre miglia verso levante nell'altra parte del fiume. Fu civile e molto abitata ne' tempi antichi, ma dipoi che incominciò a mancar la potenza de' re di Telensin, ella fu molto aggravata dagli Arabi, per sí fatto modo che oggidí è declinata due terzi. Pure fa da millecinquecento fuochi, ed è in lei un bellissimo tempio, e vi sono molti artigiani tessitori di tele. Le case sono belle, né vi mancano molti fonti; e passa per la città un fiumicello sopra il quale sono molti mulini; e fuori della città sono molti belli giardini, ma per la maggior parte abbandonati. Tutto il suo terreno infine è buono e fertile. E ha la detta città un piccolo porto, al quale sovente vengono molti legni d'Europa, ma fanno poche faccende, percioché gli abitatori sono molto poveri.


Bresch.

Bresch è una antica città edificata da' Romani sul mare Mediterraneo, discosta dalla sopradetta molte miglia. È molto abitata, ma da un rozzo popolo, il quale per la maggior parte è tessitore di tele; ma tutti sono comunemente uomini agili e gagliardi come leoni. Usa ciascun di loro di dipingersi una croce nera sopra le guancie e un'altra sopra la mano, cioè nella palma sotto le dita: cotal usanza servano tutti i montanari d'Alger e di Buggia, percioché dicono gli istorici africani che infiniti paesi, riviere e monti furon dominati dai Gotti, e molti Mori diventarono cristiani. Onde i re de' Gotti commisero che a questi non si togliesse tributo alcuno, ma percioché nel tempo del pagamento de' tributi tutti dicevano ugualmente esser cristiani, né si conosceva quali fossero in effetto, fu ordinato che i cristiani si facessero questa tal croce. Ma poi che a' Gotti fu levato il dominio, tutti ritornarono alla fede di Maumetto; nondimeno di tempo in tempo rimase l'uso di portar le croci, delle quali infiniti non sanno la cagione: usano eziandio cosí i signori di Mauritania come le persone ignobili di farsi una croce nella guancia con la punta d'un ferro, e di cosí fatti alcuni se ne veggono nell'Europa.

Questa città è molto abbondante, massimamente di fichi, e d'intorno ha belle campagne, dove nasce assai copia di lino e d'orzo. Gli abitatori tengono lega e amicizia coi vicini montanari, col favor di quali cento anni si difesero liberi dalle gravezze, per insino al tempo del sopradetto Barbarossa turco, il quale molto gli gravò. Non pochi di costoro sogliono portar fichi e lino per mare ad Alger e a Buggia e a Tunis, de' quali ne fanno buon guadagno. Nella città rimangono molte vestigia degli edifici e fabriche de' Romani, e di quelli sono fatte le mura.


Sersel città.

Sersel è una città grande e antichissima, edificata pur da' Romani sopra il mare Mediterraneo; ma dipoi fu presa da' Gotti, e finalmente da' maumettani. Il circuito di questa città fa circa a otto miglia di mura altissime e fatte di pietre grossissime e lavorate. E nella parte ch'è sul mare si vede il corpo d'un tempio grande e alto di marmo, fatto pure da' Romani, e fino al giorno di oggi vi resta quella parte di dentro tutta di marmo. E un tempo soleva essere una gran rocca sopra uno scoglio che riguarda molte miglia in mare. D'intorno sono belli e buoni terreni. E come che ella fosse molto distrutta da' Gotti, nondimeno, dominandola i maumettani, fu una parte di lei assai abitata, e durò forse 500 anni. Nelle guerre poi, le quali furono fra i re di Telensin e quei di Tunis, ella fu abbandonata e rimase disabitata circa a trecento anni, per insino che Granata fu presa da' cristiani. Allora vennero in lei molti Granatini, i quali rifecero in buona parte le case e la rocca e coltivarono i terreni. Dipoi fecero molti legni per navigare, essendosi dati al mestiero della seta, percioché trovarono in quel paese infinita quantità d'alberi mori, sí di negri come di bianchi. Cosí crebbero di giorno in giorno, tanto che essi pervennero al numero di milledugento case, né ad altri furon soggetti che a Barbarossa, al quale tuttavia non danno piú che trecento ducati l'anno di tributo.


Meliana.

Meliana è una città grande e antica fabricata da' Romani, e fu da loro chiamata Magnana, ma gli Arabi corruppero il vocabolo. Questa città è posta su la cima d'un monte, discosta dal mare Mediterraneo circa a quaranta miglia, cioè dalla sopradetta. Il monte dove è edificata è tutto ripieno di fonti e di boschi di noci, di maniera che né si comperano né appena si raccolgono. D'intorno la città sono alte e antiche mura. Da un lato della città sono rupe sopra una valle profondissima; dall'altro la città pende dalla cima del monte a guisa di Narni, che è vicina a Roma. Le sue case sono belle, e tutte hanno di dentro bellissime fontane. Gli abitatori quasi tutti sono artigiani, tessitori di tela e torniatori, i quali fanno bellissimi vasi di legno; vi sono ancora molti che attendono al lavor de' terreni. Visse ciascuno in libertà insino al tempo di Barbarossa, il quale se gli fece tributari.


Tenez città.

Tenez è città grandissima, edificata dagli antichi Africani su la costa d'un monte, discosta dal mare Mediterraneo pochi passi. È tutta cinta di mura e abitata da un gran popolo, ma molto rozzo; e fu sempre soggetta al re di Telensin. Ma quando venne a morte il re Mahumet, che fu avolo di questo che oggidí regna, lasciò tre figliuoli: l'uno maggiore di età detto Abuabdilla, il secondo chiamato Abuzeuen, e il terzo appellato Iahia. Il maggiore successe nel regno. I due fecero un trattato con certi cittadini d'ucciderlo, ma il tradimento fu scoperto, per il che Abuzeuen fu preso e posto in prigione. Ma dapoi che 'l popolo scacciò il re Abuchemmeu, egli non solo ebbe la libertà ma la corona del regno, per insino a quel tempo che Barbarossa l'uccise, come s'è detto di sopra. Il terzo fuggí a Fez ponendosi nelle braccia del re, con licenza del quale, chiamato dal popolo di Tenez, fu incoronato re e regnò molti anni, doppo la sua morte rimanendo il regno a un piccolo suo figliuolo, il quale fu similmente scacciato da Barbarossa. Perciò ricorse ancora egli a Carlo, allora solamente re di Spagna: ma, tardando l'aiuto di Carlo alla promessa, e costui restando appresso il detto Carlo, venne la fama che egli insieme con un suo fratello s'era battezzato, onde Tenez si rimesse in mano d'un fratello di Barbarossa. In questa città non è civilità alcuna, e nel suo terreno si raccoglie assai grano e mele; nel resto rende poca utilità.


Mazuna città.

Mazuna è una città antica, edificata secondo alcuni dai Romani, discosta dal mare Mediterraneo circa a quaranta miglia. Circonda assai terreno, e le sue mura sono forti, ma le case brutte e vili; v'è un tempio con alcune moschitte. Egli è vero che ne' tempi antichi fu molto civile, ma molte volte saccheggiata, quando dai re di Telensin e quando da suoi rubelli. E nel dominio degli Arabi seguí l'ultima sua rovina, di modo che oggi pochi abitatori vi sono rimasi, e questi sono o tessitori di tele o lavoratori di campi, e sono tutti poveri, perché gli Arabi gli aggravano troppo. Li suoi terreni sono buoni e abbondanti. Si vedono vicine alla detta città molte terre rovinate, edificate da' Romani, le quali non hanno alcun nome cognito appresso di noi, ma si conosce che sono de' Romani per infinite lettere che si truovano intagliate sopra tavole di marmo: e li nostri istoriografi non ne hanno fatto menzione.


Gezeir, cioè Alger.

Gezeir vuol dire "l'isole", e questa città è cosí detta per esser vicina all'isole di Maiorica, Minorica e Ievizza: ma gli Spagnuoli la chiamano Alger. È città antica ed edificata da un popolo africano chiamato Mezgana, perché appresso gli antichi questa si chiama Mezgana. È molto grande e fa circa a quattromila fuochi; le sue mura sono bellissime e fortissime e fabricate di grosse pietre, e sono in lei di belle case e belle e ordinate piazze, in ciascuna delle quali è la sua arte separata. E similmente vi sono molte osterie e stufe, ma fra l'altre fabriche v'è un bellissimo tempio e molto grande, posto sopra il lito del mare, e dinanzi al tempio verso il detto mare è un corridore maraviglioso su le proprie mura della città, dove percuotono le onde. D'intorno alla città si veggono molti giardini e terreni fruttiferi, e d'appresso, cioè dalla parte di levante, passa un fiume sopra il quale sono i mulini: e questo fiume serve ai commodi della città, sí di bere come d'altro. Le pianure sono bellissime, massimamente una che è chiamata Metteggia, la quale è lunga presso a quarantacinque miglia e larga trenta, dove nasce moltissimo e perfettissimo grano.
Questa città fu lungo tempo sotto il dominio di Telensin, ma poi che fu creato nuovo re in Buggia, ella si diede a quel re, per essere al suo regno piú vicina. Vedendo questo popolo che 'l re di Telensin non li poteva dar aiuto, e lo re di Buggia li pol far gran danno, mandarono a darli obedienza e tributo, ma furon quasi liberi. Gli abitatori dapoi, armati certi legni, divennero corsali, e molto infestavano le sopradette isole e anco le rive di Spagna. Per il che il re catolico Ferdinando mandò all'assedio della detta città una grossa armata, la qual sopra un scoglio che è dirimpetto alla città fabricò una bella e gran fortezza, ed era tanto vicina che gli schioppi aggiongevan in la terra, non che l'artiglieria, che passavan le mura da un canto all'altro, di sorte che furon astretti di mandar un ambasciatore in Spagna, e fecero triegua per anni dieci pagando certo tributo: il che li concesse il detto re catolico. E cosí rimasero in pace molti mesi.
In questo tempo Barbarossa andò all'assedio di Buggia, dove, presa che ebbe una delle fortezze fabricata per Spagnuoli, si mise all'assedio dell'altra, pensando che, auta quella, ricupereria tutto il regno di Buggia. Ma ciò non li venne fatto, perché tutti li popoli abitatori di monti ch'eran venuti in suo aiuto, come venne il tempo del seminare, si partirono senza domandarli licenza, e il simil fecero molti soldati turchi, di sorte che Barbarossa fu sforzato di fuggirsene da quell'assedio. Ma avanti che si partisse abbruciò con sua man propria dodici fuste grosse, che erano nel fiume vicino a Buggia tre miglia, e si ridusse con quaranta Turchi suoi familiari nel castello di Gegel, qual è discosto da Buggia settanta miglia, dove vi stette molti giorni. Fra questo tempo morí il re catolico, e il popolo d'Alger, volendo romper la triegua e liberarsi dal tributo di Spagna, considerando che Barbarossa era uomo valente nell'arte militare e atto a far guerra a' cristiani, lo mandò a chiamare e fecelo suo capitano, il qual subito cominciò a dar la battaglia alla rocca, ma non li faceva nocumento alcuno. E non essendo molta intelligenza fra il detto Barbarossa e un che si faceva signor d'Algier, Barbarossa l'uccise a tradimento in una stufa: questo signore era principe degli Arabi abitanti in la pianura di Metteggia, e si chiamava Selim Etteumi, della stirpe di Tehaliba, che procede da Machel popolo arabo. E come Buggia fu occupata da' Spagnuoli, questo principe d'Arabi fu fatto signor d'Algier, e durò molti anni signore, fino alla venuta di Barbarossa: qual, ucciso che l'ebbe, si fece chiamare re e fece batter moneta; tutti i vicini popoli gli diedero obedienza e mandorono tributo. Questo fu il principio del reggimento e grandezza di Barbarossa
E io mi trovai in persona in la maggior parte di queste cose, perché allora, andando da Fez a Tunis, alloggiai in casa di quel gentiluomo che andò per ambasciador del popolo d'Algier in Spagna, qual nella sua tornata portò tremila pezzi di libri scritti in lingua araba, comprati in la città di Sativa del regno di Valenza. E dapoi andai a Buggia, dove trovai Barbarossa che, come di sopra dicemmo, assediava quella seconda rocca: e volsi veder il fine, che fu il suo fuggir a Gegel; e io mi ridussi a Constantina e di lí a Tunis. Fra questo mezzo fu detto che Barbarossa fu ammazzato in Telensin, e fu fatto signor d'Algier un suo fratello, detto Cairadin, qual signoreggia fin al presente; mi fu anco detto che Carlo imperatore due volte disegnò di pigliar Algier, e mandò armate in diversi anni: e la prima fu rotta e annegata la piú parte in la spiaggia d'Algier, e la seconda, dismontata che fu in terra e data la battaglia tre giorni continui, li cristiani furono rotti e parte uccisi e parte fatti schiavi dal detto Barbarossa, sí che pochi scamparono. E questo fu negli anni di legira 922.


Tegdemt città.

Tegdemt città è molto antica, edificata secondo alcuni dai Romani: e gli Africani cosí la chiamano perché il vocabolo significa "antica". Circonda questa città dieci miglia, perché si vede li vestigii delli fundamenti delle mure a torno a torno; si vedono anco duoi tempii grandi rovinati, in li quali adoravan gl'idoli. E nel tempo che i maumettani la dominarono, diventò assai civile e furono in lei molti dotti uomini e poeti, percioché ne fu signore un fratello del padre d'Idris, che edificò Fez: e rimase la signoria nella famiglia di costui circa a centocinquanta anni. Dipoi fu rovinata per le guerre che furono fra gli eretici pontefici del Cairoan, negli anni di legira trecentosessantacinque. Ora non si vede altro se non qualche vestigii di fondamenti, come ne ho veduto io.


Medua città.

Medua è una città edificata dagli Africani antichi ne' confini di Numidia, discosta dal mare Mediterraneo circa a centoottanta miglia, posta in una bellissima pianura fruttifera, e cinta da molti capi d'acqua e giardini. Gli abitatori sono ricchi perché trafficano in Numidia; vestono bene e hanno belle case, ma pur sono molto aggravati dagli Arabi, e per esser lontani di Telensin circa a dugento miglia, il re non gli può difendere, né meno mantener la città. Fu ella dominata dal signore di Tenez, dipoi da Barbarossa e da suo fratello. Io fui ricevuto in questa città con tanto onore del popolo che piú non ve n'era fatto al signore, perché gli abitatori sono privi d'uomini che sappino lettere, in modo che, come passa alcun forestiere che sappi lettere, l'accarezzano e ritengono quasi per forza, e li fanno espedir molte loro liti, e fannosi dar consigli in tutte le lor dífferenzie. Io vi stetti duoi mesi e guadagnai piú di dugento ducati fra robe e danari, e quasi m'inclinava di star in detta città: ma il carico del mio uficio che io avea mi ritenne di farlo.


Temendfust.

Temendfust è una città antica, edificata dai Romani sul mare Mediterraneo, discosto dalla sopradetta città d'Algier circa a dodici miglia, dove è un buon porto del quale si servono quelli di Gezeir, percioché essi non ve n'hanno, fuori che una spiaggia. Questa città fu rovinata da' Gotti, e quasi tutte le mura di Gezeir furon rifatte con le pietre levate dalle mura di questa.


Teddeles città.

Teddeles è una città antica, edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo, vicina alla sopradetta Gezeir circa a trenta miglia, la qual città ha antiche e forti mura d'intorno. Gli abitatori sono per la maggior parte tintori, perché molti fonti e capi d'acqua passano per la detta città. Sono eziandio questi abitatori uomini piacevoli e di allegra vita, e quasi tutti sanno ottimamente sonare di liuto e d'arpe. Hanno molti terreni belli e fertili di grano, e ciascuno veste onoratamente come vestono i cittadini di Gezeir, e si dilettano di pescare, e il pesce si piglia in tanta copia che non si vende né si compra, ma lo donano a chi ne vuole. E questa città sempre ha fatto quel medesimo che ha fatto Algier circa il governo e signoria.


Beni Iezneten monte.

Beni Iezneten è discosto da Telensin verso ponente circa a cinquanta miglia, e da un lato confina col diserto di Garet, dall'altro col diserto di Angad. Estendesi per lunghezza circa a venticinque miglia, e per larghezza circa a quindici. È molto aspro, alto e malagevole, e sono in lui molti boschi ne' quali nasce gran copia di carobe, che quasi è il cibo degli abitatori, perché essi hanno poca quantità d'orzo. Sono nel detto monte molti casali, abitati da uomini valenti e animosi. V'è su la cima una fortissima rocca, nella quale dimorano i signori del monte, benché molte fiate combattono tra loro, perché ogniuno vuole averne la signoria. Io ebbi non poca pratica e domestichezza con detti signori, avendoli conosciuti in la corte del re di Fez, i quali mi facevano molto onore. Fa questo monte circa a diecimila combattenti.


Matgara monte.

Matgara monte è molto alto e freddo, ma bene abitato, vicino alla città di Ned Roma circa a sei miglia. Gli abitatori sono valenti ma poveri, perché non nasce nel monte loro altro grano che orzo, ma molta quantità di carobbe. E questo popolo con questo di Ned Roma è d'una medesima lingua, e l'uno favoreggia l'altro contra il re di Telensin.


Gualhasa monte.

Gualhasa monte è alto e vicino alla città detta Hunain. È abitato da un popolo feroce ma rustico, il quale piú volte guerreggiò col popolo d'Hunain e mise la città a sacco. Nasce in lui poco grano e molte carobbe.


Agbal monte.

Agbal monte è abitato da un vil popolo, soggetto allo stato della città d'Oran. Gli abitatori sono tutti lavoratori di campi e legnaiuoli, i quali conducono le legna a Oran. Essi, nel tempo che Oran era de' Mori, vi vissero assai agiatamente, ma dapoi che questa città fu presa da' cristiani, caddero in estrema povertà e ne hanno sempre qualche nuovo danno.


Beni Guerened monte.

Beni Guerened monte è vicino alla città di Telensin tre miglia, molto abitato e fruttifero, massime di fichi e ciriegie; e li suoi abitatori sono carbonai e legnaiuoli, e anco di quelli che lavorano la terra, in modo che dà d'intrata l'anno dodicimila ducati, secondo che mi fu detto dal secretario del re di Telensin.


Magraua monte.

Magraua monte s'estende circa a quaranta miglia sul mare Mediterraneo, vicino a Mustuganin, città detta disopra. I suoi abitatori sono nobili e valenti, e posseggono buoni terreni, e sono ancora molto cortesi e liberali.

Beni Abusaid monte.

Beni Abusaid è monte vicino a Tenez, ed è molto abitato, ma i suoi abitatori sono uomini bestialissimi, ma valenti. Hanno gran quantità di mele, di orzo e di capre, e sogliono portar cere e cuoi alla spiaggia di Tenez, vendendogli a mercatanti d'Europa. E pagavano qualche poco di tributo al re di Telensin, mentre che i suoi parenti regnarono in quelle parti.

Guanseris monte.

Guanseris monte è molto alto, e abitato da un nobile popolo, il quale piú volte fece guerra ai re di Telensin: e col favore dei re di Fez durarono queste guerre sessanta e piú anni. Ha molto buono terreno e abbondevole di fontane, e nella sua cima, che è molto arida e secca, si truova gran quantità di tucia. Fa circa a ventimila combattenti, de' quali sono circa a duemilacinquecento a cavallo. Gli abitatori di questo monte furono quelli che diedero favore al signor Iahia, che fu fatto re di Tenez; ma dapoi che lo stato di Tenez mutò signoria, i cavalieri del detto monte rimasero faccendo correrie per quel paese.


Monti dello stato di Gezeir.

Dalla parte di levante e di mezzogiorno, cioè ne' confini del piano di Gezeir, sono infiniti monti abitati da molti popoli, valenti e liberi d'ogni tributo, e sopra tutto molto ricchi e liberali, percioché hanno buonissimi terreni e molti bestiami e gran numero di cavalli. Assai volte fra loro si ritruovano in guerra, di modo che alcun di loro o forestieri che si sia non può passar sicuro, se non è in compagnia d'alcun religioso. Sogliono far tra loro fiere e mercati, ne' quali si truovano solamente animali, grani e lana, e qualche poco di merceria condotta dalle città vicine.

PARTE QUINTA

Regno di Buggia e di Tunis.

Di sopra, quando io divisi i regni della Barberia, promessi di porre lo stato di Buggia per un regno. Dipoi, meglio considerando, trovai Buggia non essere stata città reale se non da poco tempo in qua, e ragionevolmente appartiene il dominio di questa città al re di Tunis. Ma ella fu occupata e lungamente tenuta dai re di Telensin, fino a tanto che Abu Feris re di Tunis, sentendosi molto possente, venne fuori coi suoi eserciti e prese non solo Buggia, ma si rese tributario al re di Telensin. Lasciò adunque governatore signor di Buggia un suo figliuolo, sí per miglior sicurtà della città, come per vietar le discordie ch'arebbono potuto seguire fra gli altri suoi figliuoli doppo la sua morte, i quali erano tre. Ad uno, come s'è detto, diede Buggia, e fu detto Habdulhaziz; a un altro, detto Hutmen, lasciò il regno di Tunis, il quale regnò quaranta anni; il terzo, il cui nome era Hammare, ebbe il dominio dei paesi dei datteri. Costui si ribellò al fratello Hutmen re di Tunis, onde egli tanto lo perseguitò che lo prese nella città di Asfacos: per elezione di se medesimo gli furon cavati gli occhi, e menato in Tunis, dove visse cieco molti anni. Il principe di Buggia fu sempre obediente al fratello. Cosí rimase il regno nella sua famiglia lungo tempo, fin che ne fu privo da re Fernando, per opera e valore di Pietro Navarra.


Buggia città.

Buggia è città antica, edificata, come alcuni vogliono, da' Romani nella costa d'una altissima montagna sopra il mare Mediterraneo, città di belle, alte e antiche mura. Fa circa ottomila fuochi, cioè quella parte ch'è abitata: ma s'ella fusse tutta ripiena d'abitazioni, ne farebbe piú di ventiquattromila, percioché questa città s'estende tanto per larghezza verso il monte ch'è una cosa incredibile. Le case di lei sono tutte belle; è fornita di tempii, di collegi, dove sono assai scolari e dottori che leggono delle leggi e anche delle cose naturali; vi sono monasteri per li loro religiosi, stufe, osterie e spedali, tutti belli edifici e ben fatti; le sue piazze sono similmente belle e bene ordinate. È vero che per tutta la città sono molte ascese e molte discese, di maniera che, ogni poco tratto che vi si cammina, è di bisogno o di scendere o di poggiare. Di verso il monte è una gran fortezza e ben murata, ma addorna di tanti musaichi e di gessi cavati e di legni intagliati, con lavori stupendi di azurri oltramarini, che vagliono molto piú gli ornamenti che le mura.
I cittadini della detta città furono molto ricchi, e solevano armar molte fuste e galee, le quali mandavano a rubare a' lidi di Spagna, intanto che da questo nacque il disfacimento della città, perché vi fu mandato il conte Pietro Navarra a prenderla. Gli abitatori di questa città vivono assai miseramente, perché li terreni loro sono molto magri per far grani, ma per frutti sono perfetti. Intorno della città vi sono infiniti giardini copiosi di frutti, e massime fuori della porta che va verso levante; vi sono molti monti aspri e pieni di boschi, dove si truovano infinite simie e leopardi. Sono uomini piacevoli e che si dilettano di passar il tempo allegramente, e cadauno sa sonare e ballare, e massime li signori, quali mai non fecero guerra con alcuno e furono tanto di vil animo che, quando venne il conte Pietro Navarra con quattordici barze, il re con tutto il popolo cominciò a fuggirsene alli monti vicini, e lassarono la terra tutta piena di roba: e cosí, senza essersi sfodrata una spada, detto conte Pietro la prese e saccheggiò. E fece subito fabbricare una fortezza a canto il mare, dove è una buona spiaggia; fortificò anco un'altra rocca vecchia appresso il mare, pur vicina all'arsenale. Fu presa Buggia da' Spagnuoli l'anno di legira 917. Dapoi passati sei anni, Barbarossa turco volse recuperare detta città di mano dei cristiani, e vi venne a campo con mille Turchi combattenti e si mise a batter la rocca vecchia, la qual prese e fortificò. E v'erano in aiuto di Barbarossa tutti li popoli dei monti vicini, e si misero a voler prender l'altra rocca, che è appresso la spiaggia: ma nella prima battaglia vi morittero da cento Turchi dei piú valenti e da quattrocento delli montanari, di modo che non volsero piú tornarvi. E Barbarossa fu forzato a fuggire, come abbiamo detto di sopra, al castello di Gegel.


Gegel castello.

Gegel è un antico castello, edificato dagli Africani sul mare Mediterraneo sopra un'alta rupe, discosto da Buggia circa 70 miglia. Fa presso a 500 fuochi. Le case non sono molto belle, ma gli uomini valenti e liberali e fedeli, e tutti attendono ai lavori della terra. Ma il loro terreno è aspro, è solamente buono per orzo e per lino, ed eziandio per canapo, che quivi in gran quantità nasce. Hanno similmente molte noci e fichi, le quali per mare sogliono portare a Tunis con alcuni piccoli navili. E questo castello sempre ha serbato la sua libertà, a mal grado del re di Buggia e del re di Tunis, percioché non si può assediare. Pure di propria volontà le genti si diedero a Barbarossa, il quale d'altro tributo non le gravò che d'alcune decime di grano e di frutti, cose che sempre furon lecite e usate di prendersi.


Mesila città.

Mesila è città antica ed edificata dai Romani ne' confini dei diserti di Numidia fra terra, discosta da Buggia circa a 140 miglia. Le mura che la cingono sono belle, ma brutte le case. Gli abitatori sono tutti artigiani e lavoratori di campi; vanno vestiti di vili e tristi panni perché sono molto poveri, sí perché la metà della loro entrata è usurpata dagli Arabi loro vicini, e sí perché il re di Buggia gli ha molto astretti. E io, passando per la detta città, non potei aver tanta biada che solamente bastasse per dodici cavalli.


Stefe.

Stefe è una terra edificata da' Romani, discosta da Buggia 60 miglia verso mezzogiorno, passati li monti tutti di Buggia, in una bellissima pianura, murata di pietre belle e grosse fatte in forma quadre. Fu già civile assai e ben abitata, ma dapoi che v'introrno i maumettani è molto mancata, massime per causa degli Arabi, quali rovinorno gran parte delle mura, e non rimase in detta terra se non cento case abitate; ma vi resta il circuito grande della città, la qual cosa ho veduta andando da Fez a Tunis.


Necaus città.

Necaus, città che confina con Numidia, edificata da' Romani, è discosta dal mare circa a centoottanta miglia e dalla sopradetta circa a ottanta. È murata di forti e antiche mura, e appresso di lei passa un fiume, sopra il quale sono terreni di fichi e noci; e i fichi di questa città sono riputati per li migliori che si truovano nel regno di Tunis: questi sono portati a Costantina, dalla quale la città è lontana centoottanta miglia. Similmente d'intorno sono molte pianure, e tutte buone per grano. Gli uomini sono ricchi, onesti e liberali, e vestono gentilmente come i cittadini di Buggia. Il comune tiene una casa fornita a modo di spedale, nella quale s'alloggiano i forestieri. Hanno eziandio un collegio per scolari, i quali usano di vestire e di far loro le spese. Hanno similmente un tempio bello e grande, e accommodato di quanto fa di bisogno. Le donne sono belle e bianche, Co' capelli neri e risplendenti, perché sogliono molto frequentare le stufe e le politezze. Tutte le case sono quasi d'un solaio solo, ma nondimeno bellissime e molto graziose, percioché ciascuna ha il suo giardino pieno di diversi fiori, e spezialmente di rose damaschine e di mirtelle, di viole, di camamilla, di garofoli e di tai gentilezze; e quasi tutti hanno le sue fontane. Dall'altro canto del giardino sono bellissimi pergolati di viti, le quali fanno l'estate d'intorno al coperto della casa fresca e gratissima ombra. Di sorte che chi vede la detta città mal volontieri se ne parte, per la gentilezza e domestichezza degli uomini.


Chollo città.

Chollo è una gran città, edificata pur da' Romani sopra il mare Mediterraneo, sotto un'altissima montagna. Questa città non ha mura che la cinghino, percioché furono disfatte dai Gotti, e signoreggiandola dipoi i maumettani, la lasciarono quale fu da loro trovata. Nondimeno è civile e ripiena d'artigiani, e sono gli abitatori uomini piacevoli e liberali, e fanno buoni traffichi, perché de lor monti cavano assai cera, e hanno gran quantità di cuoi, le quai cose abbarattano con Genovesi che vengono al loro porto. I suoi terreni sono similmente fruttiferi, ma nel monte. E il popolo vive in libertà, e sempre s'è difeso dal re di Tunis e dal signore di Costantina, percioché fra Costantina e Chollo sono altissimi monti, e v'ha centoventi miglia di spazio; e la metà del suo contado è tutta di monti, abitati da valentissimi uomini. Talmente che per tutta la riviera di Tunis non è la piú ricca città né la piú sicura di questa, perché nelle mercatanzie ciascuno il doppio guadagna.


Sucaicada città.

Sucaicada è una città molto antica, edificata dai Romani sul mare Mediterraneo, vicina a Costantina circa a trentacinque miglia; la qual città fu anticamente rovinata da' Gotti, ma, perché quivi è un buon porto, il signore di Costantina ha fatto edificare certi alberghi e magazini, per li Genovesi che praticano in quel paese. Somigliantemente ha fatto fare un casale su la cima d'un monte vicino, dove sempre sta una guardia, che gli dà aviso delle navi che giungono al porto. E quei montanari contrattano molto con Genovesi, dando loro grano e pigliando panni e altre robe d'Europa. Fra questo porto e Costantina c'è una strada fatta di pietre negre, come in Italia se ne veggono alcune, le quali sono appellate le strade romane: il che è grande argomento che questa città fosse edificata da' Romani.


Costantina città.

Costantina è città antica ed edificata da' Romani, come nel vero negar non si può da chi riguarda le sue mura, le quali sono antiche, alte e grosse, e fatte di certe pietre negre e lavorate. È posta sopra un'altissima montagna. Dalla parte che guarda verso mezzogiorno è cinta da rupe altissime, sotto le quali passa un fiume detto Sufegmare, il quale dall'altra sua sponda è ancora cinto di rupi, di modo che fra le dette due rupe la gran profondità che v'è serve in luogo di fossa, ma vie piú utile molto. Dalla parte di tramontana ha le mura, che sono certamente fortissime, e oltra le mura v'è la cima del monte, in guisa che per andare alla detta città sono due sole anguste e piccole vie, l'una da levante e l'altra da ponente. E le porte della detta sono belle, grandi e ben ferrate. Ella è cosí grande che può fare ottomila fuochi. È abbondante, civile e ripiena di belle case e di molti nobili edifici, come è il tempio maggiore, due collegi e tre o quattro monasteri. Le piazze sono molte e bene ordinate, e ogni arte è separata dall'altra. Gli uomini sono valenti e armigieri, massimamente gli artigiani. V'è gran numero di mercatanti, i quali fanno traffico di panni di lana fatti nel paese; ancora di quelli che mandano olio e seta a Numidia, e similmente tele, dando ogni cosa a baratto per datteri e schiavi. Né è città in Barberia dove sia il miglior mercato di detti datteri, perché ne potei aver otto e dieci libbre per tre baiocchi. Sono per altro gli abitatori communemente parchi nel vestire, superbi e di rozzo ingegno.
Solevano i re di Tunis dar Costantina al primogenito loro figliuolo, ma il presente re alcuna volta l'ha data, alcuna volta no. Prima egli la diede pure al suo primogenito, il quale, volendo far guerra agli Arabi, nella prima sua mossa fu ucciso. Diedela poi al secondo figliuolo, il quale per il disordinato vivere fu trafitto da un canchero e si morí. Finalmente l'assegnò al terzo, il quale, essendo molto giovane, non prendeva vergogna di patire ciò che patono le femine, per il che il popolo, vergognandosi di servire a tal signore, il volse uccidere. Il padre lo fece a Tunis menar prigione, poi mandò per governatore in Constantina un cristiano rinegato, il quale era stato esperimentato dal re in cose di molta importanza, e di lui sommamente si fidava: onde di questo il popolo molto rimase contento.
Nella detta città dal lato di tramontana è una grande e forte rocca, fatta pure nel tempo che fu edificata la città: ma molto piú forte la rese anticamente un rinegato chiamato Elcaied Nabil, luogotenente del re, il quale fu colui che con questa rocca mirabilmente mise il freno a' cittadini di questa città e a' vicini Arabi, che sono i piú nobili e i piú gagliardi di tutta l'Africa, e avendo il principale lor capo nelle mani, che poteva fare cinquemila cavalli, non lo lasciò se prima egli non ebbe tre suoi piccoli figliuoli per ostaggio. Costui in fine venne in tanta superbia che fece batter nuova moneta a suo nome, con grande sdegno del re, lo quale acchetò con la forza dei presenti. Discordandosi molto questi succedimenti dal principio, il popolo, che prima l'amava, incominciò odiarlo. Onde, essendo egli in Numidia all'assedio d'una città detta Pescara, ebbe avviso che il popolo era sollevato contra di lui, e tornando verso Costantina, non gli furono aperte le porte. Per il che se n'andò a Tunis chiedendo il soccorso del re, il quale lo fece mettere in una stretta prigione, né altrimente lo liberò che con la taglia di centomila ducati; e diegli favore a riacquistar Costantina, la quale egli riebbe col valor dell'arme. Ma dipoi faccendo uccidere molti capi e primieri della città, un'altra volta il popolo si sollevò, e assediollo nella rocca per sí fatto modo che egli da disperazione si morí. E avendo il popolo la pace del re, non volle accettar piú governatore di sorte niuna, onde il re tornò a mandare di mano in mano i suoi figliuoli, come è detto di sopra.
I terreni che sono d'intorno alla detta città sono tutti buoni e fertili, e rispondono trenta per uno; e sopra al fiume nel piano sono eziandio molti belli giardini, ma non v'è molta copia di frutti, percioché essi non gli sanno coltivare. Fuori della città si veggono molti nobili edifici antichi, e lontano circa a un miglio e mezzo v'è un arco trionfale, simile a quelli che sono in Roma. Ma il pazzo volgo tiene che quello era un palazzo dove abitavano i demoni, i quali poscia furono cacciati dai maumettani nel tempo che vennero ad abitar Costantina. Appresso il fiume, sotto le rupi dove si discende, sono alcuni gradi cavati per forza di ferro, e vicino al detto fiume è una loggia, fatta in volte e tutta tagliata con stromenti di ferro, di maniera che 'l tetto, le colonne e il pavimento sono tutti d'un pezzo: e le donne della città usano lavar lor panni nella detta loggia. Discosto dalla città quasi tre tratte di mano è un bagno, il quale è una fontana d'acqua calda che si sparge fra certe pietre grosse; e ivi si truova infinita quantità di tartaruche over bisce scodellaie, le quali sono avute dalle femine per maligni spiriti, e come ad alcuna per qualche accidente vien la febbre o altro male, dicono essere per cagione di queste tartaruche. E subito, in rimedio di ciò, ammazzano alquante galline bianche e pongonle dentro una pignatta con tutte le lor piume, e attaccando d'intorno la pignatta molte candele di cera piccole, portano queste cosí fatte cose alla fontana e lí presso le lasciano: e molti buoni compagni, come vedono alcuna donna che va verso questa fontana con la pignatta e la gallina, la seguitano, e come la è partita pigliano la pignatta con la gallina e se la cuocano e mangianla. Piú lontano della detta verso levante è un fonte di viva e fresca acqua, vicino al quale è uno edificio di marmo, dove sono intagliate alcune figure, come io ne ho veduto in Roma e per tutta l'Europa. E il volgo si crede che quella anticamente fusse una scuola di lettere, nella quale essendo il maestro e i discepoli persone viziose, per loro peccati messer Domenedio quelli e la scuola in marmo trasformasse. I cittadini sogliono ragunare una carovana per Numidia due volte l'anno, e portano panni di lana fatti nel paese, e non so che altri imbrattamenti detti elhasis.
E perché le piú volte sono assaltati dagli Arabi, menano per loro sicurtà alcuni archibusieri turchi, i quali sono molto bene da loro pagati. Questi mercatanti a Tunis non pagano gabella, solamente nell'uscir di Costantina pagano due e mezzo per cento; ma l'andare a Tunis è loro piú tosto danno che utile, percioché, corrotti dai piaceri e dalle lascivie, consumano la piú parte di ciò che portano con le femine da partito.


Mela città.

Mela è una città antica, edificata da' Romani, discosta da Costantina circa a dodici miglia. È cinta d'antiche mura e fa tremila fuochi, ma oggi non sono in lei molte abitazioni, per l'ingiustizia dei signori. V'è gran copia d'artigiani, massimamente di tessitori di panni di lana, de' quali si fanno coltre per coprimenti di letto. Nella piazza è una bella fonte, delle cui acque s'accommodano gli abitatori della città, i quali sono invero uomini valenti, ma di grosso intelletto. Il paese è abbondantissimo, non solo di poma e di pere e d'altri frutti, onde penso che sia derivato il nome, ma di carne e di pane. Il signore di Costantina suol mandare in questa città un governatore, sí per far giustizia come per riscuotere l'entrate a lui deputate, le quali possono essere quattromila doble: ma le piú volte questi governatori sono uccisi dalla bestialità degli uomini.


Bona città.

Bona è città antica, edificata da' Romani sul mare Mediterraneo circa a centoventi miglia verso ponente, detta anticamente Hippo, dove fu episcopo santo Agostino: la quale fu signoreggiata da' Gotti, ma fu dipoi presa da Hutmen, terzo pontefice doppo Maumetto, il quale fra i sacchi e le fiamme la rovinò, e abbandonata rimase. D'indi a molti anni fu rinovata un'altra città, vicina a questa circa a due miglia e fabbricata delle sue pietre, la quale è detta dalla maggior parte Beld Elhuneb, cioè la città delle giggiole, per la molta abbondanza di detti frutti che vi sono d'intorno, i quali gli abitatori seccano e mangiano il verno. Fa questa città circa a trecento fuochi ed è molto abitata, ma ha poche belle case; v'è bene un bellissimo tempio, fabbricato su la marina. Gli uomini sono piacevoli, e quali mercatante e quale artigiano e tessitore di tele, delle quali gran numero ne vendono nelle città di Numidia; ma sono tanto superbi e bestiali che, oltra che occidono i governatori, hanno ardimento di minacciare il re di Tunis di dar la città a' cristiani, se egli buoni e giusti rettori non manda. Accompagnano questa loro superbia con una simplicità grande, percioché li tengono gran fede in alcuni uomini che vanno a modo di pazzi, e credono che quelli siano santi e gli fanno grande onore. In detta città non sono fontane, ma conserve d'acqua di pioggia; e verso la parte di levante v'è una grande e forte rocca cinta di grosse muri, fabbricata dai re di Tunis, dove suole alloggiare il governatore del re. Fuori della città è similmente una grande e larga campagna, la quale s'estende circa a quaranta miglia in lunghezza e venticinque in larghezza, la quale è tutta buona per grano, ed è abitata da certo popolo arabo detto Merdez, che la coltiva tenendo molte vacche e buoi e pecore, delle quali se ne cava tanto butiro che, portandosi a vendere a Bona, quasi non se ne truovano danari, e medesimamente del grano. Ciascun anno vengono a questa città molti legni da Tunis, dal Gerbo e da tutta la riviera di Tunis e anco da Genova, per comperar grano e butiro, e sono molto gentilmente trattati. Sogliono questi di Bona ogni venere fare un mercato di fuori della città appresso le mura, il quale dura insino a sera. Né molto discosto da lei è una spiaggia del mare dove si truovano molti coralli, ma niuno gli sa pescare o cogliere, per il che il re affittava la detta spiaggia ad alcuni Genovesi, i quali, essendo molestati da corsali, chiesero licenza al re di fabbricarvi una fortezza. Ma il popolo non gliel consentí, dicendo che altre volte i Genovesi, sotto a tali astuzie, s'impadronirono della città e la saccheggiarono. Dapoi fu ricuperata da un re di Tunis.


Tefas città.

Tefas fu città antica ed edificata dagli Africani su la costa d'una montagna, discosta da Bona circa a centocinquanta miglia verso mezzogiorno, la quale già fu civile, popolosa e ornata di belle case, ma fu rovinata e saccheggiata nel tempo che gli Arabi vennero nell'Africa. Poscia si riabitò, e qualche mese senza danni rimase; l'ebbero dapoi certi Arabi che tornarono a disfarla. Finalmente la tenne un popolo africano, non per altro che per ricetto dei suoi grani. Fu questo popolo, il cui nome è Haoara, favoreggiato da un principe al tempo nostro, che venne in suo aiuto con molti cavalli, e a dispetto degli Arabi abitò nella campagna. Costui si fu quello che uccise il principe di Costantina detto Enasir, figliuolo del re di Tunis. Ultimamente esso re la saccheggiò, e distrusse quello che rimaneva.


Tebessa città.

Tebessa è un'antica e forte città edificata da' Romani ne' confini di Numidia, discosta dal mare Mediterraneo dugento, miglia verso mezzogiorno. È cinta d'intorno d'alte, forti e grosse mura, fatte di alcune grosse pietre lavorate, le quali somigliano alle pietre che sono nel Coliseo di Roma: né io per tutta l'Africa né in tutta Europa ho veduto mura di quella sorte. Ma le case di dentro sono altretanto brutte. Vicino alla detta città passa un fiume molto grande, ed entra da una parte della città. Nella piazza e in diversi altri luoghi sono colonne di marmo, e si vedono epitaffi di lettere latine maiuscule, e alcune colonne quadre di marmo con un volto di sopra. La campagna è abbondante, ma non ha molto grasso terreno, e a chi è discosto dalla città quattro o cinque miglia pare che ella sia in mezzo d'un bosco; ma gli alberi sono tutti di noci, che sono grandi. Vicino alla detta città è un gran monte, nel quale si truovano molte cave fatte per forza di ferro, e il popolazzo istima che quelle fussero alberghi di giganti. Ma conoscesi manifestamente che i Romani cavassero di quindi le pietre con che edificarono le mura della città.
Gli uomini sono avari, rozzi e bestiali, né vogliono veder forestiero alcuno, in tanto che Eldabag, famoso poeta della città Malaga di Granata, passando per questa città, avendo in lei ricevuto vergogna, compose in suo biasimo questi versi, quali ho voluto notare per dispregio della detta città:

Fuor che le noci, altro non è in Tebessa
che si possa stimar pregiato e degno.
Errai, vi son le mura, e l'acque chiare
del vicin fiume, e di virtute è sgombra.
Dirollo, ella è l'inferno, e tanti porci
sono gli abitator delle sue case.

Fu costui molto elegante poeta in lingua araba, e mirabile in dir male.
Tornando agli abitatori della città, eglino sempre furono rubelli ai re di Tunis, uccidendo i governatori che essi vi mandavano. Onde, nel viaggio che fece il presente re in Numidia, essendo egli appresso questa città, mandò i suoi cursori che dimandassero al popolo chi viveva. Fu risposto: "Viva il muro rosso", cioè le mura della città. Per il che, fermandovisi il re, le diede la battaglia e la prese, molti di coloro faccendo impiccare e ad altri mozzar la testa. Sí che ella ne rimase diserta, gli anni a punto novecentoquindici di legira.


Urbs città.

Urbs è antica città fabbricata da' Romani, come si conosce dal nome, in una bellissima pianura e nel fiore delle provincie di tutta l'Africa, dove sono molto grassi e piú piani i terreni con commodità di molta acqua. E da questa campagna si fornisce tutta Tunis di formento e d'orzo, percioché la città è discosta da Tunis centonovanta miglia verso mezzogiorno. E sono in lei molte antiche reliquie de' Romani, come sono statue di marmo, tavole di marmo su le porte con latine lettere intagliate per entro, e molti muri di pietre grosse e lavorate. Ma fu questa città presa da' Gotti con l'aiuto degli Africani, perché ivi era rimasta la nobiltà e le ricchezze dei Romani che erano in Africa, e stette per alcun tempo disabitata; poi si riabitò, ma a modo d'un villaggio. Passa fra una rocca che v'è e due casali un gran capo d'acqua purgata e buona, e corre sopra un canale fatto di pietre cosí candide che paion d'argento, e sopra questo si macina il grano. L'acqua nasce da una collina discosta dalla detta città circa a mezzo miglio. In lei è poca civilità, perché tutti i suoi abitatori sono divisi in due parti, in lavoratori di campi e tessitori di tele. E molto l'aggravano i re di Tunis: ma se questi re avessero conosciuta la fertilità e abbondanza di questa città, sí di grani come di bestiami e d'acqua, e la salubrità dell'aere, senza dubbio arebbono lasciato da parte Tunis per abitare in quella. Ben la conoscono gli Arabi, che ogni state vengono nella sua campagna e, empiuti i lor sacchi di grano, si tornano senza spesa nel diserto.


Beggia.

Beggia è una antica città edificata dai Romani nella costa d'una collina, discosta dal mare Mediterraneo circa a venticinque miglia e da Tunis circa a ottanta o poco piú verso ponente, su la strada maestra che è a chi si parte da Costantina per andare a Tunis. Questa città fu da' Romani fabbricata nel luogo dove era un'altra città: perciò si disse vecchia; dipoi la v fu cangiata in b, e i due cc in g, e chiamasi Beggia. Ma io credo che 'l nome primo che li posero i Romani sia corrotto per la gran mutazion di signori e di fede, vedendosi che questa parola non è araba. Questa città ha fin ora le sue prime antiche mura. Gli abitatori sono assai civili, e la città è bene ordinata e fornita d'ogni sorte d'arti, massimamente di tessitori di tele. Vi sono anco infiniti lavoratori di campi, percioché la sua campagna è grande e buona; e gli abitatori non bastano a coltivare il detto terreno, perciò ve ne fanno buona parte coltivare agli Arabi, e con tutto ciò molto terreno ve ne resta inculto. Nondimeno si vendono ogni anno ventimila moggia di grano, e s'usa dire in Tunis: "Se ci fussero due Beggie, il grano avanzarebbe il numero dell'arena". Il re di Tunis pone loro tante gravezze, che a poco a poco vanno declinando e molto perdendo i miseri uomini della loro civilità.


Hain Sammit.

Hain Sammit città fu a' nostri dí edificata dai re di Tunis, discosta dalla sopradetta circa a trenta miglia; e la edificarono perché non si perdesse quella parte del fertile terreno che non era coltivata. Ma fra pochi giorni per mano degli Arabi seguí la sua rovina, con consentimento del re di Tunis. Nondimeno ora vi sono ancora le torri e le case, alle quali mancano solo i coprimenti, come io medesimo ho veduto.


Casba città.

Casba è un'antica città edificata da' Romani in mezzo d'una larghissima pianura, la qual s'estende forse dodici miglia intorno, ed è vicina a Tunis circa a ventiquattro. Le mura di questa città sono ancora in piè, fatte di pietre grosse e lavorate, ma la città è rovinata dagli Arabi, e il suo terreno si giace inculto, mercé della impotenza del re di Tunis e della dappocaggine del suo popolo, che ha da vicino cosí grassi terreni e si lascia morir di fame.


Choros castello.

Choros è un castello edificato modernamente dagli Africani sul fiume Magrida, discosto da Tunis circa a otto miglia, il quale castello ha bonissima campagna d'intorno, e gli è vicino un gran bosco d'olive. Pure fu ancora esso rovinato da certi Arabi, chiamati Beni Heli, i quali di continovo sono rubelli al re di Tunis, né d'altro vivono che di ruberie e d'assassinamenti, e d'aggravar i poveri contadini di certi straordinari pagamenti, i quali importano assai piú che gli ordinari.


Biserta città.

Bensart, o diciamo Biserta, è città antica edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo, discosta da Tunis circa a trentacinque miglia. È piccola e abitata da povera e misera gente. Appresso alla detta città passa una goletta di mare, e poco e strettamente s'estende verso mezzogiorno; dipoi si va allargando per insino che ella diventa quasi un grosso lago, d'intorno al quale sono molti casali, dove abitano pescatori e lavoratori di terreni, percioché dalla parte di ponente del detto lago è una gran pianura detta Mater, la quale è abbondantissima, ma aggravata assai dal re di Tunis e dagli Arabi. Nel lago si piglia gran copia di pesce, e spezialmente alcune grosse orate, le quai pesano cinque e sei libbre. E passato ch'è l'ottobre, pigliasi infinita quantità d'un certo pesce che gli Africani chiamano giarrafa, ma penso che gli sia quello che in Roma si dice laccia, percioché per le pioggie l'acqua s'indolcisce, e cosí il detto pesce suole entrare nel detto lago; né la sua acqua è molto alta. E dura il suo pescare fino al principio del mese di maggio: allora si smagra, come fa quel proprio pesce che si piglia in lo fiume vicino a Fessa.


Cartagine, magna città.

Cartagine, come è noto, è antica città edificata secondo alcuni da certa gente venuta di Soria; alcuni altri dicono che ella fu edificata da una regina. Ma Ibnu Rachich, istorico africano, afferma che la fabricò un popolo che venne di Barca, il quale fu privo del suo terreno dai re d'Egitto. Di modo che niuna certezza se ne può addurre. E gli istessi istorici africani, insieme con Esserif, oltre che fra loro si discordano, non è alcuno che ne faccia memoria, se non dapoi che mancò l'imperio di Roma. Allora tutti quei governatori e vicegerenti che si trovarono in Africa rimasero particolari signori di molti luoghi, ma subito i Gotti tolsero loro il dominio. E quando i maumettani vennero in Africa, e presero Tripoli di Barberia e Capis, tutti gli abitatori di queste due città si dipartirono e vennero ad abitare in Cartagine, dove s'erano ridotti i nobili romani e i Gotti, e fecero insieme lega per difendersi dagli eserciti maumettani. Pure, doppo molte battaglie, i Romani fuggirono a Bona e i Gotti lasciarono Cartagine, la qual fu distrutta e saccheggiata, e molti anni rimase disabitata, per insino al tempo di Elmahdi eretico pontefice, che la fece riabitare. Ma non vi fu abitata di venti una parte sola.
Si veggono ancora molte parti delle mura intere, e c'è per insino a una cisterna over conserva, molto profonda e larga. Sono eziandio interi gli acquedutti, per li quali si conduceva l'acqua a Cartagine da un monte discosto da Cartagine circa a trenta miglia, i quali sono alti a par di quelli per li quali veniva l'acqua al palazzo maggiore di Roma. Io sono stato al capo dell'acqua che soleva venire per li detti acquedutti; i quali vanno bassi a canto la terra circa a dodici miglia, percioché la terra vicina al monte è alta; e quanto l'acqua piú si discosta dal monte, tanto la terra s'abbassa e gli acquedutti s'inalzano, fin che giungono a Cartagine. Viddi ancora fuori della città molti antichi edifici, de' quali ora particolarmente non mi sovviene. D'intorno alla detta città, massimamente verso ponente e mezzogiorno, sono assaissimi giardini ripieni di molti frutti, non meno mirabili di bontà che di grossezza, e spezialmente persiche e melagrane, olive e fichi: e da questi giardini Tunis si fornisce di frutti. La campagna vicina è di buon terreno, ma è molto stretta, percioché da verso tramontana v'è il monte, il mare e il lago della Goletta, e dalla parte di levante e da mezzogiorno confina pure con le pianure di Bensart, che sono tutte del contado della detta città.
Ora la povera città è ridotta in estrema miseria e calamità, né si truovano in lei piú che venti o venticinque botteghe, e circa a cinquecento case brutte e vili. Ma c'è un bel tempio fatto a' nostri giorni e un collegio di scolari, ma non v'è scolaro niuno, di modo che l'entrata è della camera del re. Gli abitatori sono superbissimi, ma poveri e meschini, e dimostrano d'essere molto religiosi. Sono la maggior parte ortolani o lavoratori di campi, ma aggravati dal re per sí fatta maniera che niuno può esser padrone di dieci ducati: la cui ingiustizia a tutti è nota.


La gran città di Tunis.

Tunis è chiamata da' Latini Tunetum, e dagli Arabi Tunus: ma essi tengono questo nome per corrotto vocabolo, percioché nella loro lingua cosa alcuna non significa. Anticamente questa città fu detta Tarsis, come quell'altra ch'è in Asia. Come si sia, ella fu un tempo piccola città, edificata dagli Africani sul lago che è formato della Goletta, discosta dal mare Mediterraneo circa a dodici miglia. Ma poscia che fu rovinata Cartagine, allora la città incominciò a crescere e di numero d'abitazioni e d'abitatori, percioché gli eserciti che presero Cartagine, non volendo in lei dimorare per tema di qualche nuovo soccorso della Europa, vennero ad alloggiare in Tunis ed edificarono molte case. Venne dipoi un capitano detto Hucba di Otmen quarto pontefice, il quale fece loro sapere che gli eserciti non dovevano fermarsi in città che fusse vicina al mare o che toccasse il mare. E perciò fabbricò una città che è chiamata Cairaoan, lontana dal mare circa a trentasei miglia e da Tunis circa a cento. L'esercito adunque lasciò Tunis e abitò questa città, e altra gente s'impadroní delle case di Tunis che furono lasciate dal detto esercito.
D'indi a trecentocinquanta anni il Cairaoan fu rovinato dagli Arabi, di maniera che 'l suo rettore si fuggí verso ponente, e regnò in Buggia e in tutta quella parte vicina. E rimase in Tunis una famiglia, pure de parenti del rettore che era fuggito del Cairaoan, nella quale furono alcuni che come signori la possedevano. Doppo dieci anni quei di Buggia furono scacciati da Giuseppe, figliuolo di Tesfin: e veggendo la umiltà e la obbedienza di questi signori, gli lasciò in istato, nel quale tanto durarono che regnò la famiglia di Giuseppe, percioché Abdul Mumen re di Marocco, avendo riacquistato Mahdia, che era stata presa da' cristiani, nel suo ritorno passò per Tunis e levò loro la signoria. Per tutto adunque il tempo che visse Abdul Mumen, e Giuseppe suo figliuolo, e i discendenti Giacob e Mansor, Tunis si rimase in pace sotto il governo dei re di Marocco. Doppo la morte di Mansor il suo figliuolo Mahumet Ennasir mosse guerra al re di Spagna, ma fu vinto e scacciato, onde fuggí a Marocco, e doppo questa rotta visse pochi anni. Doppo la sua morte fu eletto suo fratello Giuseppe, il quale fu ucciso da alcuni soldati del re di Telensin.
Fra la rotta di Maumet e la sua morte e la morte di Giuseppe suo fratello, gli Arabi tornarono ad abitar lo stato di Tunis, e sovente assediarono il governatore di Tunis. Per il che egli fece intendere al re di Marocco che, se il detto non mandava presto soccorso, era astretto a dar la città agli Arabi. Il re pensò che a questa impresa di grande e bene esperimentato uomo faceva di bisogno, onde di tutta la sua corte ve ne elesse uno di Sibilia, città di Granata, detto Habduluahidi, il quale vi mandò con la medesima autorità che aveva egli. Costui, accompagnato da venti grosse navi, arrivò a Tunis, la quale trovò mezza disfatta dagli Arabi, e con la sua molta prudenza e ornata eloquenza rassettò le cose e pacificò tutto quello stato, riscotendo le intrate del paese.
A costui successe il figliuolo, il cui nome fu Abu Zaccheria, il quale e di dottrina e d'ingegno avanzò il padre. Fece egli in Tunis, dalla parte di ponente, nel piú alto luogo della città, edificare una gran rocca, e dentro di bei palazzi e un bel tempio, nel quale è un'alta torre, fatta similmente con bella forma di mura. Se n'andò ancora il detto Zaccheria insino a Tripoli, e tornò dalla parte di mezzogiorno riscotendo i frutti del paese, di modo che quando egli si morí lasciò un gran tesoro. Successe doppo la morte di questo un suo figliuolo, il quale fu un superbo giovane, né piú si degnava d'esser soggetto ai signori di Marocco, percioché allora i detti signori avevano incominciato a cadere, ed era già levata in piè la famiglia di Marin, e regnava nella regione di Fez, e Beni Zeiien in Telensin e in Granata. Questi dipoi incominciarono a combattere e giuocar fra loro medesimi lo stato, onde per la discordia di questi accrescevano le forze al signor di Tunis, intanto che egli se n'andò col suo esercito a Telensin e n'ebbe tributo. Per questo il re della casa di Marin, che era allora all'impresa di Marocco, mandò molti presenti al detto signore, raccomandandosi lui e il suo stato. Il signore lo ricevé per buono amico, ma tuttavolta per molto minore di lui. Cosí egli vincitore con grandissimo trionfo a Tunis si tornò, faccendosi chiamare re di Africa: e meritamente questo titolo gli conveniva, perché allora non era il maggior signore di lui in tutta l'Africa. Cominciò adunque egli a ordinar real corte, secretari, consiglieri e general capitano; usò ancora tutte le cerimonie che usavano i re di Marocco.
Ora, dal tempo di questo signore fino alla nostra età, Tunis andò sempre accrescendo sí di abitazioni come di civilità, talmente che ella divenne dell'Africa singularissima città. Doppo la morte di costui, il figliuolo, a cui la real corona pervenne, fece fabbricar alcuni borghi intorno alla città: uno fuori d'una porta detta Bed Suvaica, il quale fa circa a trecento fuochi; un altro fuori d'una porta chiamata Bed el Manera, che ve ne fa circa a mille. E sono questi due borghi ripieni d'infiniti artigiani, pescatori, speziali e d'altri. In questo ultimo è una separata contrada, quasi un altro borghetto, nel quale abitano i cristiani di Tunis, che s'adoperano nella guardia del signore e in altri ufici che non sogliono fare i Mori. È cresciuto dipoi un altro borgo, che è fuori della porta appellata Beb el Bahar, cioè la porta della marina, la quale è vicina al lago della Coletta circa a mezzo miglio: in questo borgo alloggiano i mercanti cristiani forestieri, come sono genovesi, veneziani e catalani, e tutti tengono i loro fondachi e le loro osterie separate dai Mori. Questo borgo è assai grandetto, e fa circa a trecento fuochi fra cristiani e mori, ma le case sono picciole. In modo che fra la città murata e i suoi borghi sono circa a nove o diecimila fuochi. Questa città è veramente bellissima e ordinata, cioè ogni arte è separata dall'altra, e oltre a ciò è molto popolosa e abitata. Ma gli abitatori sono per la maggior parte artigiani, massimamente tessitori di tele, percioché in Tunis si fa grandissima quantità di perfettissime tele, le quali si vendono per tutta l'Africa, e molto care per esser elleno sottili e salde, ché invero le donne della città ottimamente sanno filare. E quando filano usano di sedere in luogo alto, e mandano il fuso molto in giú, o da una finestra che risponda nella corte della casa, o per qualche buco fatto a questo effetto da un solaio all'altro, onde per la gravezza del fuso che va in giú il filo viene ben tirato, intorto ed eguale. Nella detta città è una piazza, dove è grandissima quantità di botteghe di mercatanti di sí fatte tele, i quali sono tenuti per li piú ricchi di Tunis. Sonvi ancora altri mercatanti e artigiani, come speziali e quei che vendono gli sciloppi e i lattovari, profumieri, setaiuoli, sarti, sellari, pellicciai, fruttaruoli, quelli che vendono il latte, quei che fanno il pan fritto in olio, e beccai, i quali sogliono uccider maggior copia d'agnelli che d'altri animali, massimamente la primavera e la state; sono diversi altri mestieri e arti, che superfluo sarebbe a raccontare.
Il popolo è molto benigno e amorevole, e gli artigiani e i mercanti, i sacerdoti, i dottori e tutti quelli che sono al maneggio di qualche uficio, vanno con bello abito, portando in capo certi grossi dolopani, con una lunga tovaglia che gli ricuopre. Cosí portano gli uomini della corte del re e i soldati, ma non lo cuoprono. Di ricchi vi sono pochi per la carestia del grano, quasi che 'l prezzo ordinario si è tre doble per soma, che sono quattro ducati d'Italia. E ciò avviene perché il popolo della città non può coltivare i vicini terreni, per la gran molestia degli Arabi, e il grano è condotto da lontano, come da Urbs, da Beggia e da Bona. Alcuni dei cittadini hanno certi piccoli poderetti pur vicini alla città, murati d'intorno, ne' quali fanno seminar qualche poco d'orzo o di frumento: e questi terreni vogliono essere adacquati, di maniera che in ogni poderetto è un pozzo, dal quale fanno cavar l'acqua con la destrezza di certe ruote, d'intorno alle quai sono alcuni canali fatti maestrevolmente. La ruota è rivolta da un mulo o camello, in modo che l'acqua se ne vien fuori e bagna il seminato. Pensate la quantità del grano che può uscire da un poco di terreno murato e tenuto con tanti artificii e lavori: conchiudo che ciò ad alcuno non basta per la metà dell'anno. E nondimeno vi si fa il pane molto bello, bianco e ben cotto, e tuttavia lo fanno non di farina, ma come di semola con tutta la farina, usando in farlo una gran fatica, massime a far la pasta, la qual battano con certi pestoni che son fatti sí come quelli che si pesta il riso over il lino nel paese d'Egitto. I mercatanti e gli artigiani e i cittadini hanno per ugual costume di mangiare il giorno un vile e rozzo cibo, il quale è farina d'orzo bagnata in acqua e ridotta a guisa di colla, dove mettono un poco d'olio o succo di limoni o di melarance: e questo cotal cibo crudo inghiottono senza masticare, pigliandolo a poco a poco, e lo chiamano besis, che è cosa molto bestiale. V'è una piazza nella quale altro non si vende che farina d'orzo, che è comperata per lo detto cibo. Usano un altro cibo, ma assai piú onesto: pigliano la pasta leggiera e fannola bollire in acqua, e poi che è ben cotta, dentro un vaso molto ben la pestano, e raccoltola tutta nel mezzo, e postole sopra olio o brodo di carne, l'inghiottono come il sopradetto senza masticarla: e a questa sorte di cibo dicono el bezin. Ve ne usano degli altri, i quali sono delicati e gentili.
Né in la detta città né fuori di lei è alcun mulino che macini sopra l'acqua, ma tutti sono mossi dalle bestie, talmente che un mulino appena fra il dí può macinare una soma di grano. Non v'è né fonte né fiume né pozzo alcuno d'acqua viva, ma vi sono cisterne, dove si raccoglie l'acqua delle pioggie. Ben fuori della città è un pozzo d'acqua viva, ma è alquanto salata: al quale vanno gli acquaruoli con le loro bestie e con li loro utri, e gli empiono e vendono l'acqua nella città, della quale il popolo usa bere, per essere ella piú sana dell'acqua delle cisterne. Vi sono altri pozzi di buonissima acqua, ma per il signore e per i suoi cortigiani. V'è un bellissimo tempio e molto grande, fornito sí di numero di sacerdoti come di grandezza d'entrata; vi sono altri tempi per la città e per li borghi, ma di minor qualità. Collegi di scolari vi sono molti, e monasteri d'alcuni loro religiosi, a' quali le limosine del popolo porgono onestamente il vivere. È in tutti gli abitatori natii di Tunis una sí fatta sciochezza, che come veggono un pazzo che tragga i sassi l'hanno per santo; ed essendo io in Tunis, il re fece edificare a uno di quegli pazzi, chiamato Sidi el Dahi, che andava vestito di sacco, scoperto il capo e discalzo, e tirava sassi e cridava come arrabbiato, un bellissimo monastero, e dettegli una grossa entrata per il suo vivere e di tutti li suoi parenti.
La piú parte delle case hanno assai bella forma, e sono fatte di pietre concie e ben lavorate, nei cieli delle quali usano molti ornamenti di mosaico e di gesso, intagliato con intagli mirabili e dipinto con azurro e altri colori finissimi. E questo fanno perché in Tunis è grandissima carestia di tavole e di legnami, onde non possono formar se non brutti travi. I pavimenti delle stanze sogliono saleggiar con belle pietre invetriate e lucide, e le corti con tavolette quadre di pietre eguali e polite. E quasi generalmente ogni casa è d'un solaio, l'entrata della quale è bella e fra due porte, l'una sopra la strada, e l'altra è fra l'entrata e la casa. E vi s'entra per alcuni gradi, ornati gentilmente di pietre, e studia ciascuno di far l'entrata piú bella e piú apparente del resto della casa, percioché i cittadini usano le piú volte di starsi in queste entrate, e quivi o trattenersi con gli amici o ragionar con i servitori. Vi sono molte stufe molto piú ordinate e piú commode di quelle di Fez, ma non cosí belle né di tanta grandezza. Fuori della città sono bellissime possessioni di bellissimi frutti, i quali nascono in poca quantità, ma sono tutti buoni. Di giardini v'è un numero quasi infinito, piantati di melaranci, di limoni, di rose e d'altri fiori gentili, massimamente in un luogo detto Bardo, dove sono i giardini e i palazzi nobili del re, fabbricati superbamente con intagli e colori finissimi. E d'intorno la città, circa a 4 o 6 miglia per ciascun lato, sono moltissimi terreni d'olive, delle quali si cava tanta quantità d'olio che fornisce la città, e molto eziandio se ne manda in Egitto. E dei legni dell'oliva ne fanno il carbone che s'adopera nella città, e parte di detti legni s'abbrucia, di modo che non è in tutto il mondo sí gran carestia di legne come in Tunis.
Finalmente, per la gran povertà del popolo, non solo si truovano molte femine che per poco prezzo vendono la lor castità ad altrui, ma i fanciulli ancora si sottopongono agli uomini, e sono piú disonesti e nel vero piú sfacciati delle publiche e infami. Ma come si sia, le donne vanno ben vestite e ornate. Egli è vero che fuori di casa si cuoprono i visi, come le donne di Fez, e se gli cuoprono ponendo sopra un panno della fronte molto largo un altro panno detto setfari, di maniera che il capo loro pare una testa di gigante. Nelle politezze e nei profumi consumano tutta la loro cura, onde i profumieri sempre sono gli ultimi a serrar le loro botteghe. Sogliono gli abitatori di questa città mangiare una certa composizione chiamata lhasis, qual è molto cara, e mangiatane una oncia si diventa allegri e si ride, e l'uom vorria mangiar per tre uomini, e diventa peggio che imbriaco, ed excita la libidine mirabilmente.


Corte del re, ordine, cerimonie e uficiali deputati.

Il re di Tunis si crea pure per eredità e per elezione del padre, col giuramento dei principali, come sono capitani, dottori, sacerdoti, giudici e lettori; e come muore un re, subito quello che è eletto successore è posto nella sedia reale, e tutti gli danno obbedienza. Dipoi a lui s'appresenta colui che tiene il maggior grado, il quale è detto munafid, ed è come vice re al governo del regno. Questo munafid gli rende conto di tutte le cose da lui fino a quel giorno amministrate, e col consentimento del re ordina gli ufici, dandogli piena informazione dei mandati e delle provisioni de' soldati. L'uomo di seconda dignità è detto mesuare, che è come un general capitano, il quale ha piena autorità sopra i soldati e la guardia del re: può dispensare e minuire e accrescer i salari de' soldati come gli pare, e farne le elezioni, muover gli eserciti e cotai cose; quantunque oggidí vi vuole esser la persona del re. Il terzo in ordine e dignità è il castellano, il quale ha cura dei soldati del castello, delle fabbriche del detto e dei palazzi del re, e dei prigioneri che sono posti in esso castello per cose di molto momento; similmente ha autorità di far ragione a chi gli viene innanzi, non altrimenti che se egli fusse la propria persona del re. Il quarto è il governatore della città, il quale è sopra le cose capitali e castiga ciascuno secondo la gravezza del delitto. Il quinto è il maggior secretario, che scrive e risponde in nome del re e ha autorità di potere aprir le lettere di ciascuno, eccetto dei due sopradetti. Il sexto è il maestro della sala: costui ne' dí del consiglio tien cura d'ornare la stanza di tapeti e le mura di panni, e d'assegnare a ciascuno il proprio luogo, comandando ai cursori per nome del re che diano gli avisi che accadono nel detto consiglio, o di prender qualche grande uomo; e questo tale ha molta domestichezza col re, percioché gli può favellare quando vuole. Il settimo è il tesoriere, il quale è tenuto di ricevere i danari dai ministri e assegnargli alle mani d'alcuni che sono diputati alla cassa, e di dispensarli secondo i mandati del re o dell'uficial maggior, con sottoscrizione di mano del re. L'ottavo è il gabelliere, il quale riscuote le gabelle delle robbe che vengono nella città da terra e il censo dei mercadanti forestieri, che sono due e mezzo per cento; e tiene gran moltitudine di sbirri, i quali, come veggono entrare alcun forestiere che dimostri nell'apparenza d'essere uomo di qualche riputazione, l'appresentano al gabelliere o, non vi essendo egli, lo tengono in prigione fin che viene, il quale poi gli fa pagare un tanto dei danari che ha seco, faccendogli far molti giuramenti. Il nono è il doganiere, il cui uficio è di riscuoter la dogana delle robbe che si conducono fuori della città e hanno a esser portate per mare, e cosí di quelle che vengono di mare: e il luogo della dogana è sul lago della Goletta vicino alla città. Il decimo è lo spenditore, il quale a guisa di mastro di casa ha carico di fornire il palazzo del re di pane, di carne e d'altre cose necessarie, come del vestire delle donne e delle donzelle del re, degli eunuchi e delle schiave negre che sono le cameriere del detto re; somigliantemente tien carico delle spese che appartengono ai piccoli figliuoli del re e alle nutrici loro, e dispensar gli ufici che occorrono nel castello o fuori del castello fra gli schiavi cristiani, e gli provede di cibo e di vestimenti secondo il bisogno loro. Questi sono i principali ufici e magistrati della corte del re. Ve ne sono alcuni altri ufici di minor riputazione, com'è il maestro della stalla, il guardaroba, il cappellano, il giudice del campo, il maestro de' fanciulli del re, il capo degli staffieri e cotai altri.
Tiene il re di Tunis 1500 cavalli leggieri, i quali sono per la maggior parte cristiani rinegati: a ciascheduno di loro dà provisione per la persona e per il cavallo, e questi hanno uno loro capitano particolare, che gli mette e dismette secondo il suo parere. Vi sono ancora 150 altri cavalli dei suoi natii mori, i quali consigliano il re nell'ordine e nelle cose pertinenti alla guerra, e sono come maestri del campo. Ancora tiene cento balestrieri, dei quali molti sono cristiani rinegati, e questi sempre vanno appresso il re quando egli cavalca o nella città o fuori. Ma va piú da vicino al re la guardia secreta, che è dei cristiani che abitano nel borgo sopradetto. Dinanzi al re va un'altra guardia a piè, e questa è tutta di Turchi armati di archi e di schioppi. Pure inanzi al detto re va il capo degli staffieri a cavallo, e da un lato va quello che porta la partigiana del re, dall'altro quello che porta lo scudo; dietro a cavallo uno che porta la sua balestra. D'intorno vanno diversi, come sono i contestabili e i mazzieri, i quali sono ministri delle cerimonie. Questo è l'ordine e la regola e il costume della corte del re di Tunis, generalmente parlando. Ma è differenza grande fra il vivere ordinario de' passati re e fra il viver particolare del re presente, percioché questo re è uomo d'altra natura, d'altro costume e d'altro governo. E io nel vero prendo vergogna a dire i vizii particolari d'alcun signore, massimamente di questo re, dal quale ho non pochi benefici ricevuti. Però tacendogli dico che egli è sufficiente e mirabile in cavar danari da' suoi soggetti, dei quali parte dispensa fra gli Arabi e parte nelle fabbriche de' suoi palazzi, dove egli si sta con gran delicatezza e lascivia fra sonatori, cantori e cantatrici femine, quando nella rocca e quando nei suoi belli e dilettevoli giardini. Ma quando un uomo dee cantare o sonare nella sua presenza, prima si benda gli occhi come si fa ai falconi, e poi entra dove egli è e le sue amorose donne. Il ducato d'oro che fa battere il re pesa 24 caratti, ed è per un ducato e un terzo dei ducati che corrono per la Europa. Fa battere ancora certe monete d'argento quadre, del peso di sei caratti, 30 o 32 delle quali fanno un ducato: e la moneta è chiamata nasari; questi ducati nella Italia sono detti doble. E questo basti alla universale e particolare informazione di Tunis, e di ciò che mi è paruto degno di memoria.


Napoli.

Napoli è piccola città ed è antica, fabbricata da' Romani sul mare Mediterraneo, vicina alla Goletta e discosta da Tunis circa a 12 miglia verso levante, la quale è da' Mori detta Nabel. Fu un tempo molto abitata e assai civile, ma ora non è in lei se non alcuni lavoratori de campi, che vi sementano lino: né altro da questa città raccolgono.


Cammar.

Cammar è un'altra città pure antica, vicina a Cartagine e discosta da Tunis circa a 8 miglia verso tramontana, la quale è bene abitata, ma da certi ortolani che portano le loro erbe e frutti a Tunis. Nel suo terreno nasce molta quantità di canne di zucchero, le quali si vendono pure a Tunis; ma quei che le comperano le tengono per succiare doppo pasto, percioché non sanno trarne fuori il zucchero.


Marsa.

Marsa è una piccola e antica città edificata sul mare Mediterraneo, dove era il porto di Cartagine, percioché Marsa significa "porto". Questa città già molto tempo fu rovinata, ma oggi è abitata da pescatori, lavoratori di terreno e da quelli che sogliono biancheggiar le tele. E vicino a lei sono alcuni real palazzi e possessioni, dove il presente re suol trapassar tutta la state.

Ariana.

Ariana è piccola città e antica, e fu edificata da' Gotti vicina a Tunis circa 8 miglia verso tramontana, non molto discosto dalla quale sono assai giardini di varii frutti, massimamente di carobbe. Le sue mura sono antichissime, e gli abitatori lavoratori di terre.
Sono similmente vicino a Cartagine alcune altre piccole città, abitate e disabitate, delle quali non mi raccorda il nome.


Hammamet.

Hammamet è città moderna edificata da' maumettani e murata con forte mura, la quale è discosta da Tunis 50 miglia e abitata da una poverissima gente: sono tutti pescatori, barcaruoli, carbonari e biancheggiatori di tele. E tanto la città è aggravata dal signore, che i poveri uomini sono presso che mendichi.


Eraclia.

Eraclia è una piccola città antica, edificata da' Romani s'una collina appresso il mare; ma fu distrutta dagli Arabi.


Susa città.

Susa è una gran città antica edificata da' Romani sul mare Mediterraneo, discosta da Tunis 200 miglia; e fuori di lei sono molti terreni d'olive e fichi, donde si cava gran quantità d'olio. Vi sono ancora molti terreni per orzo, ma non gli posson gli abitatori coltivar per la molestia degli Arabi. I quali abitatori sono uomini piacevoli e umani, e molto i forestieri accarezzano; e la maggior parte di questi sono marinai, i quali vanno con li navili dei mercatanti in Levante e in Turchia. Alcuni similmente di loro vanno in corso, costeggiando le città vicine a Sicilia e ad altri luoghi d'Italia. Il rimanente dei detti sono o tessitori di tele, o vaccari, o facitori di scodelle, di boccali e d'ogni sorte di vasi, dei quali tengono fornita la rivera e Tunis.
E quando i maumettani acquistorono questa rivera, la detta città fu residenza del luogotenente, e ancora v'è il palazzo. La città è bella e murata intorno di belle mura, e posta in un bel sito. Fu eziandio molto abitata e ornata di belle case, delle quali ancora ve n'è alcuna; e vedesi oggidí un bellissimo tempio. Ora è quasi tutta disabitata, per la ingiustizia e gravezza dei signori, né sono in tutta lei piú che cinque o sei botteghe, fra pescatori e speziali ed erbolai. Io fui in questa città quattro giorni, tenutovi dalla malvagità del tempo.


Monaster.

Monaster è una città antica edificata da' Romani sul mare, discosta da Susa circa dodici miglia, murata d'intorno con forti e alte mura. Le case di dentro sono medesimamente fabbricate con bella architettura. Una è che gli abitatori sono poveri e mendichi, e vanno vestiti di misero e rozzo abito, portando ne' piedi certe pianelle fatte di giunchi marini, la piú parte de' quali sono o tessitori di tele o pescatori. Il cibo loro è pane d'orzo e quello bezzin con olio che di sopra dicemmo, come fanno ancora tutte le città che sono in questa riviera, percioché altro grano non vi nasce che orzo. E a questo proposito dirò ciò che m'intervenne, trovandomi in viaggio sopra un galeone con un ambasciador di questa città ch'andava in Turchia: costui ragionando meco di diverse cose, venimmo a parlare della provisione che il re gli dava, qual era una certa quantità di ducati, e appresso 24 moggia d'orzo l'anno. Allora, non essendo io pratico del paese, gli dissi: "Voi dovete aver molte cavalcature". Qual respondendomi di no, gli replicai: "E che fate voi di tanto orzo?" Allora io viddi ch'el si arrossí, volendo dire che lo mangiavano; e anco io fui malcontento di averli fatta simil domanda, la qual feci pensandomi che solamente i poveri lo mangiassero. Fuori della città sono assaissimi possessioni di frutti, come crisomele, fiche, mele, pere, granate e numero infinito d'olive. Ma pure il signor molto l'aggrava.


Tobulba.

Tobulba è una città antica edificata da' Romani sul mare Mediterraneo, discosta da Monaster circa a 12 miglia verso levante. Un tempo fu molto abitata e i suoi terreni erano fertilissimi d'olive, i quali tutti furono abbandonati per offesa degli Arabi. Non v'è quantità di case, e quelle poche sono abitate da certi, come religiosi, i quali tengono un gran luogo a guisa di spedale per alloggiar forestieri. Vengono anco degli Arabi nella città, ma non fanno loro dispiacere.


El Mahdia città.

El Mahdia è una città a' nostri tempi edificata dal Mahdi, eretico e primo pontefice del Cairaoan, il quale la edificò sul mare Mediterraneo e sopra un braccio di monte che entra in mare, cingendola di forti e alte mura, con grosse torri che hanno le porte ferrate; e anco il porto è diligentemente e con buoni ripari guardato. Costui venne in questi paesi in abito di pellegrino e, fingendo d'esser della casa di Maumetto, concitò in sé la benivolenza di quei popoli, talmente che con l'aiuto loro si fece signor del Cairaoan, faccendosi chiamare el Mahdi califa. Ma poi, lontano dal Cairaoan circa 40 giornate in la Numidia per ponente, mentre egli andava riscotendo i tributi di quel paese, fu preso dal principe di Segelmese e in prigione posto: il qual principe, mosso a compassione, gli diede libertà, ed egli per guidardone l'uccise. Onde faccendo dipoi la tirannide, il popolo incominciò a congiurar nella sua morte, per il che esso fece fabbricar questa città come per una fortezza, nella quale si potesse riparare quando bisogno facesse. E bene gli fe' di mistiero, percioché uno Beiezid predicatore, che era appellato il cavaliere dell'asino perché egli sempre cavalcava un asino, con l'esercito di 40 mila persone venne verso il Cairaoan. Ed el Mahdi si fuggí nella nuova città, la quale col soccorso di 30 navili d'un signor di Cordova macomettano cosí ben difese, che ruppe e uccise Beiezid insieme col suo figliuolo. Quindi tornato al Cairaoan pacificò e si rese amico il popolo, rimanendo il dominio nella sua famiglia fin al tempo sopradetto. Dapoi 130 anni questa città fu presa da' cristiani, ma fu poi ricoverata da Habdulmumen, pontefice e re di Marocco. Ora è in potere del re di Tunis, il quale vi manda un governatore, né gl'impone molta gravezza. Gli abitatori usano di trafficar per mare, e hanno molta nimicizia con gli Arabi, di modo che non possono coltivar i lor terreni. A' giorni nostri il conte Pietro Navarro con nove legni pensò di poter prender la detta città, ma si difesero con l'artiglieria, per il che si tornò adietro con molto danno e senza effetto niuno: fu gli anni del Natale de' cristiani 1519.


Asfachus città.

Asfachs è una città antica edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo, nel tempo delle guerre che essi ebbero co' Romani; la qual città è grande, e similmente murata con alte e forti mura. Fu già molto abitata, ma oggi non fa piú che 300 o 400 fuochi, e in minor copia sono le botteghe, percioché è molto gravata cosí dagli Arabi come dal re di Tunis. Gli abitatori sono per la maggior parte tessitori di tele, marinai e pescatori, i quali pigliano gran copia d'un certo pesce detto spares, la qual voce non è arabica, né barbaresca, né meno latina. Il loro cibo è, come quello degli altri detti, pane d'orzo ed el bezin. Vanno male in arnese; vi sono alcuni d'essi che con certi legni soglion trafficare in Egitto e in Turchia.


Cairaoan, la quale fu città grande.

Cairaoan, o Caroen, città nobile, fu edificata da Hucba, capitano degli eserciti mandati della Arabia Diserta da Hutmen terzo pontefice, il quale la fabbricò discosta dal mare Mediterraneo 36 miglia e da Tunis circa cento, non per altra cagione che per assicurarne il suo esercito, le facultà e i tesori che egli avea rubbati e saccheggiati per le città di Barberia e di Numidia. E cinsela di belle mura fatte tutte di mattoni, e fece edificare in lei un grande e mirabile tempio fatto sopra bellissime colonne di marmo, due delle quali, che sono appresso la cappella grande, sono di grandezza inestimabile e d'un color vivo rosso perfetto e lustro, tempestato di certi punti bianchi, il quale è simile al porfido.
Costui, doppo la morte di Hutmen, fu confermato nel dominio da Muchauia fino al tempo di Qualid califa, figliuolo di Habdul Malic, che allora regnava in Damasco, il quale mandò un suo capitano al Cairaoan con molto esercito, detto Muse figliuolo di Nosair. Questo Muse, come giunse al Cairoan, vi si fermò per molti dí, fin che fu bene riposato l'esercito. Dipoi se n'andò verso ponente, spogliando e saccheggiando molte città, per insino a tanto che egli giunse alla riviera del mare Oceano, dove entrò nell'onde col cavallo tanto che bagnò le staffe; e parendogli per quella fiata avere acquistato assai, tornò al Cairaoan e mandò in sua vece in Mauritania un suo capo detto Tarich, il quale molte città similmente acquistò, di maniera che Muse, avendogliene invidia, comandò che fermar si dovesse e attender la sua persona: il che fece Taric alla riviera della Andologia. Nello spazio di 4 mesi arrivò Muse con grande esercito, e ambi, congiuntisi insieme, passarono il mare in Granata e se n'andarono fra terra per affrontare l'esercito dei Gotti. Mossesi allora contra questi Roderigo re di Gotti e fece giornata, ma per non buona ventura fu rotto e distrutto tutto il suo esercito. Onde i due, seguitando la vettoria, andarono insino in Castiglia e presero Toleto, dove trovarono molti tesori, molte facultà e molte reliquie di santi che erano nella basilica di Toleto, sí come fu la tavola sopra la quale cenò Cristo con li suoi apostoli, la quale era coperta d'oro e d'intorno ornata di gioie istimate mezzo milione di ducati; doppo la qual presa si partí Muse con una parte dell'esercito, seco portando quasi tutti i tesori di Spagna, e passò il mare per tornar verso Cairaoan. Ma ebbe fra questo mezzo lettere di richiamo da Qualid, pontefice di Damasco, onde Muse, caricati tutti i tesori, s'inviò verso Egitto; e come fu giunto in Alessandria, ebbe aviso da un fratello del pontefice di Damasco, il quale si chiamava Hescian, che 'l pontefice era in termine di morire: perciò non si curasse di venire allora in Damasco, perché seguitandone la morte quei tesori anderebbono di leggiero a pericolo d'essere saccheggiati. Di ciò non si curò Muse, ma venne a Damasco e assegnò il tutto a Qualid, il quale doppo 5 giorni si morí. E asceso il fratello nel pontificato, levò a Muse il governo di mano dell'Africa e fece un altro capitano detto Iezul; il cui figliuolo, fratello e nipote un doppo l'altro successero e governarono la città, fin che fu priva la casa di Qualid di quella dignità e fu fatto locotenente Elagleb, il quale dominò a guisa di signore, percioché allora i pontefici macomettani, lasciando la sedia di Damasco, quella fecero in Bagded, come nelle croniche si narra. Onde, morto costui, regnorno i figliuoli, e cosí succedendo di mano in mano, rimase la signoria in questa famiglia 170 anni, fin che fu scacciato l'ultimo signore per el Mahdi eretico califa.
Nel tempo adunque di questi signori della casa di el Lagleb, accrebbe la città sí di grandezza come di numero di popolo, di modo che ella non basta a caperne tutti. Per il che il signore fece fabbricare appresso di questa un'altra città, a cui pose nome Recheda, nella quale abitava egli e i primieri della sua corte. In questo tempo fu presa Sicilia dalli suoi eserciti, mandativi per mare con un capitano detto Halcama, il quale nella detta isola edificò una piccola città per fortezza e sicurtà della sua persona, chiamandola dal suo nome: la quale v'è fin oggi chiamata da' Siciliani Halcama. Dapoi quest'Halcama fu quasi assediata dagli eserciti che vennero in soccorso di Sicilia; allora il signore di Cairaoan mandò un altro esercito piú grande, con un valente capitano chiamato Ased, il quale rinfrescò Halcama, e tutti si ridussero insieme e occuparono il resto delle terre che rimaseno: e per tale impresa e dominio della detta isola crebbe in civilità e abitazione il Cairaoan.
Il sito del quale è in una campagna di arena diserta, dove non nasce né albero né grano, e questo e ogni altro frutto pertinente al vivere è portato dalla riviera del mare, o da Susa o da Monaster o da el Mahidia, che son tutte lontane 140 miglia. E discosto da questa città 12 miglia è un monte detto Gueslet, nel quale rimangono certe vestigia degli edifici romani: e in lui sono molti fonti e terreni di carobe, le quali si portano al Cairaoan, dove non è né fonte né pozzo d'acqua viva, eccetto qualche cisterna. Ma di fuori della città sono certe conserve d'acqua antiche, le quali con le pioggie s'empiono: ma passato il mese di giugno non vi si truova acqua, percioché gli abitatori ne danno bere alle lor bestie. Gli Arabi vengono la state a starsi d'intorno alla detta città, i quali raddoppiano la carestia del grano e dell'acqua, ma fanno venire abbondanza di carne e di datteri, i quali portano dalle città di Numidia, discoste dalla detta circa a 170 miglia.
In questa città molto fiorí un tempo lo studio della legge, di maniera che la piú parte dei dottori d'Africa sono creati in essa. Ora la detta città, dopo il guasto che di lei fecero gli Arabi, cominciò a esser riabitata, ma miseramente: e gli abitatori d'oggi sono tutti poveri artigiani, e per la piú parte conciatori di pelle di agnelli e di capretti, e pellicciai, le cui pellicce si vendono nelle città di Numidia dove non si truova panno d'Europa; e di cotai mestieri assai parcamente vivono. Appresso l'esser gravati dal re di Tunis gli ha compiutamente ridotti ad estrema calamità, sí com'io vidi nel tempo d'un mio viaggio da Tunis a Numidia, dove era il campo del re di Tunis: e fu l'anno 922 di legira.


Capes città.

Capes è una grandissima città edificata da' Romani sul mare Mediterraneo e dentro d'un golfo, la qual città è murata d'alte mura e antiche, e cosí la rocca. E appresso lei passa un fiumicello, ma d'acqua calda e quasi salsa. L'esser saccheggiata dagli Arabi molto le tolse di civilità e grandezza, anzi tanto avanti le fece di danno che gli abitatori, lasciandola, abitarono nella campagna, in luogo dove è molta quantità di datteri, i quali non durano per tutto l'anno, ma si ammarciscono. Né altro vi nasce per tutto quel terreno, eccetto un frutto che nasce sotto terra, di grossezza come un radicchio ma piccolo come fave, el qual succiano: ed è dolce come mandrole e ha qualche sapore di mandrole, e se usa in tutto il regno di Tunis, e dagli Arabi è chiamata habbhaziz. Sono i detti abitatori uomini negri e poveri lavoratori di terra o pescatori, molto aggravati dagli Arabi e dal re di Tunis.


El Hamma città.

El Hamma è una città antica edificata da' Romani fra terra, discosta da Capes circa a 15 miglia: è cinta di mura fatte di pietre grosse e molto ben lavorate, e fino al dí d'oggi si veggono tavole di marmo con lettere intagliate su le porte. Le case e le strade di questa città sono brutte, e gli abitatori poveri e ladri; e il terreno è aspro e secco, dove altra cosa non nasce che palme, i cui datteri non sono molto buoni. Lontano dalla città un miglio e mezzo verso mezzogiorno nasce un capo grosso d'acqua caldissima, il quale entra nella città e vi passa per mezzo, ma per cotai canali larghi. E sotto la terra e dentro il canale sono certi edifici, come camere separate l'una dall'altra, e il pavimento di queste camere è il fondo del canale, e a ciascuno che vi entra l'acqua aggiunge per insino all'ombilico: ma a niuno basta l'animo d'entrarvi, per lo superchio caldo dell'acqua. Nondimeno gli abitatori beono della detta: è vero che, volendo bere la mattina, la cavano la sera, e cosí all'incontro. Dalla parte di tramontana pur fuori della città l'acqua si raccoglie insieme e fa un lago, che è detto il lago dei leprosi, percioché ha virtú di sanar la lepra e saldar le piaghe: perciò vi abitano sempre al d'intorno gran moltitudine di leprosi, con capanne fatte a torno detto lago, e infiniti si risanano. Questa acqua ha odore di solfo e mai non sazia chi la bee, come ho provato io che piú volte ve ne pigliai, ancora che non mi facesse di bisogno.


Machres castello.

Machres è un castello edificato dagli Africani alla nostra età su la bocca del golfo di Capes, e quasi fu edificato per guardare il detto golfo dalle offese delle navi dei nimici. È discosto dall'isola del Cerbo circa a cinquanta miglia, e abitato da alcuni tessitori di certe sorte di panni di lana. E vi sono molti barcaruoli e pescatori, i quali hanno molta pratica nella detta isola; e tutti parlano in lingua africana come quelli del Cerbo. E perché non hanno altro terreno né possessione alcuna, trattone i tessitori, gli altri tutti vivono del mestiero del mare.


Il Gerbo isola.

Gerbo è un'isola vicina alla terra ferma a... miglia, tutta pianura e arenosa, dove sono infinite possessioni di datteri, d'uve, d'olive e d'altri frutti; e circonda quasi diciotto miglia. Le abitazioni della quale sono casali separati, cioè ogni possessione ha la sua casa, dove abita da per sé una famiglia: ma sono pochi i casali dove siano molte case insieme. I terreni sono magri, di modo che, con molti lavori e cure d'acquare i detti terreni con l'acque di certi profondi pozzi, non vi nasce appena un poco d'orzo, onde quivi è sempre carestia di grano, il quale quasi sempre vale sei doble il moggio e alle volte piú, e la carne è similmente carissima. È nell'isola una rocca sul mare, dove abita il signore e la sua famiglia, e vicino alla rocca è un gran casale, nel quale alloggiano i mercatanti forestieri, mori, turchi e cristiani. E nel detto casale ogni settimana si fa il mercato, il quale è simile a una fiera, percioché tutti quelli dell'isola si riducono a questo mercato, e molti Arabi parimente vi vengono dalla terra ferma, menando bestiame e portando lana in molta quantità all'isola. Ma gli isolani vivono per la maggior parte di mercatanzia dei panni di lana, che si fa nella detta isola, i quali portano da Tunis in Alessandria; e medesimamente l'uva secca.
E circa anni cinquanta sono che detta isola fu assaltata da una armata di cristiani, la quale la prese e saccheggiò; ma subito fu recuperata dal re de Tunis e fatta riabitare, e allora fu edificata la sopradetta rocca, perché per il passato non vi erano se non casali. E di continuo fu governata da duoi capi di parte di duoi popoli che abitano in detta isola, sotto il nome del re di Tunis, quale vi mandava un governatore giudice e un fattore; ma venuto a morte il re Hutmen, li suoi successori mancandoli le forze, l'isola si vendicorno in libertà, e il popolo immediate ruppe il ponte che della terra ferma butta sopra l'isola, per tema di qualche esercito terrestre. E un di questi capi ammazzò tutti li principali de l'altra parte, di modo che esso solo rimase signore, e tutti li suoi, fin al giorno presente.
Detta isola dà d'intrata fra le gabelle e dogane ottantamila doble, per li gran traffichi che si fanno, essendo molto frequentata da mercatanti alessandrini, turchi e dalla città di Tunis; ma questi che al presente la dominano usano fra loro di gran tradimenti, perché il figliuolo ammazza il padre e il fratello l'altro fratello per signoreggiare, di modo che in quindici anni furono ammazzati da dieci signori. A' nostri tempi Ferdinando re di Spagna vi mandò una grande armata, capitano della quale era il duca di Alba, qual, non essendo pratico della detta isola, fece dismontare l'esercito delle navi molte miglia lontano dalla terra: la qual essendo difesa gagliardamente da' Mori, gli fu forza di ritirarsi adrieto, e massimamente per il gran caldo e sete che pativano, non vi essendo acqua da bere. E perché quando smontorono l'acqua era cresciuta in colmo e a questo suo ritorno l'acqua era calata, le navi per non restar in secco s'erano ritirate drieto la marea, di modo che era discoperto il spazio di quattro miglia, li quali aggionti agli altri che avean lasciati, messe in tanto pericolo e travaglio li soldati, che senza niun ordine camminavan alla volta delle navi, ed eran seguitati da' cavalli di Mori, di sorte che la maggior parte furon morti e presi, eccetto alcuni pochi che si condussero con l'armata in Sicilia. Dapoi ancora Carlo imperatore vi mandò un'altra armata, capitano un cavalier di Rhodi dell'ordine di Santo Giovanni di Messina, e costui si governò con tanta prudenza che li Mori si resero a patti, obligandosi di pagar certo tributo; e fu mandato un ambasciatore fino nella Magna a sua maiestà, la qual sottoscrisse alli capitoli e ordinò che ogni anno pagassero cinquemila doble al vice re di Sicilia, e cosí stanno con questa triegua.


Zoara città.

Zoara è una piccola città edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo, discosta del Gerbo circa a cinquanta miglia verso levante. È murata di triste e deboli mura, e abitata da un povero popolo, perché d'altro non vive che di far calcina e gesso e portagli a Tripoli, né ha terreno da seminar, e sta in continova paura d'essere assaltata da' corsari cristiani, massimamente da che fu preso Tripoli.


Lepede.

Anche questa città fu edificata da' Romani, con mura alte di pietre grosse, la quale fu due volte rovinata da' macomettani e delle sue pietre e colonne fu edificata Tripoli.


Tripoli vecchia.

Questa è una città antica edificata pur da' Romani, e dapoi fu signoreggiata da' Gotti e finalmente da' maumettani, nel tempo di Homar califa secondo, i quali tennero sei mesi assediato il duca loro e constrinsonlo a fuggire verso Cartagine. Onde la città fu saccheggiata, e degli abitatori altri uccisi e altri menati cattivi in Egitto e in Arabia, sí come racconta Ibnu Rachich, istorico africano.


Tripoli di Barberia.

Tripoli fu edificata dagli Africani doppo la rovina della vecchia Tripoli, e murata di mure alte e belle, ma non molto forti; ed è posta in un piano di arena, dove sono molti piedi di datteri. Le case di questa città sono belle a comparazione di quelle di Tunis, e similmente le piazze ordinate e distinte di diverse arti, massimamente di tessitori di tele. Non vi sono pozzi né fonti, ma solamente cisterne, e sempre v'è carestia di grano, percioché tutte le campagne di Tripoli sono arena, come quelle di Numidia. La cagione è che 'l mare Mediterraneo entra assai verso mezzogiorno, in modo che i luoghi che debbono esser temperati e buoni terreni sono tutti coperti dall'acque. La oppenione degli abitatori di questa riviera è che anticamente vi fusse gran spazio di terreni che s'estendessero verso tramontana, ma che per molte migliaia d'anni il mare con gli gran flussi gli abbi coperti, sí come si vede e conosce nelle spiaggie di Monestier, di el Mahdia, di Asfacos, di Capes e dell'isola del Gerbo e altre città che sono verso levante, le qual da spiaggie hanno poca profondità d'acqua, di maniera che alcuno va dentro il mare un miglio e dui, e l'acqua non gli aggiunge alla cintura. Adunque li luoghi che sono di tal sorte dicono esser terreni coperti modernamente dal mare. Tengono ancora gli abitatori che la loro città fusse piú verso tramontana, ma pel roder dell'acque sempre si sono venuti ritirando verso mezzogiorno; e dicono che fin ora si veggono case ed edifici sotto l'acqua.
Furono nella detta città molti tempii, e qualche collegio vi fu di scolari; medesimamente v'erano spedali, per dare alloggiamento a poveri e forestieri. Il cibo degli abitatori è parco e misero: usano il bezin e 'l besis d'orzo, percioché le vettovaglie che vengono portate in Tripoli non la tengono appena fornita un giorno, ed è ricco quel cittadino il quale può serbare per suo uso uno o due moggia di grano. Nondimeno questo popolo si dà molto al traffico, percioché la città è vicina a Numidia e a Tunis, e fino ad Alessandria non v'è altra città che questa. È ancora vicina a Sicilia e a Malta, e già al suo porto solevano ogni anno venire le galee de' Veneziani, i quali facevano di gran faccende con li mercatanti di Tripoli, e con quelli che vengono a posta ogni anno per dette galee.
Questa città fu sempre sotto il dominio di Tunis, fuor che al tempo che venne Abulhasen re di Fessa a campo a Tunis, e constrinse el re di Tunis a fuggirsene nelli diserti con gli Arabi; ma poi che Abulhasen fu rotto e destruttogli lo esercito, il re di Tunis si tornò in stato. Tripoli rebellò e durò questa sua rebellione anni cinque, fino che venne Abuhenan re di Fessa contro similmente del regno di Tunis, il re del qual, che allora si chiamava Abulhabbes, si fece all'incontro: e tutti dui gli eserciti fecero la giornata, e il re di Tunis fu rotto e se ne fuggí in Constantina, dove vi andò a campo il re di Fessa. E fu la ossidione cosí gagliarda che 'l popolo, non potendo sopportarla, aperse le porte: e fu preso il re di Tunis e menato cattivo a Fessa, e poi posto in pregione nella rocca di Sebta. E in questo tempo che 'l re di Fessa menava cattivo questo re di Tunis, Tripoli fu assaltata da una armata di venti navi di Genovesi, che la combatterono gagliardamente e la presero e saccheggiorono, faccendo pregioni tutti gli abitanti. Immediate il luogotenente che era in la città scrisse al re di Fessa la cosa come era passata, qual si compose con Genovesi di darli ducati cinquantamila: quali pagati, lassorono la città e il popolo che era cattivo, ma, dapoi partiti, trovorono la metà di detti danari esser falsi. Dapoi il re di Tunis fu liberato di prigione da Abuselim re di Fessa, per causa del parentado che 'l fece con lui, e tornossene al stato: e cosí Tripoli tornò similmente sotto il governo del re di Tunis, e durò fino al tempo del principe Abubacr, figliuolo di Hutmen re di Tunis, che fu ucciso con uno suo figliuolo in la rocca di Tripoli per comandamento di Iachia, nepote del detto principe, che si fece re di Tunis; e Tripoli si dette al detto re Iachia. Poi costui fu ucciso in una battaglia da Habdulmumen suo cugino, che li tolse il regno e lo godette fino alla morte; a costui successe Zacharia, figliuolo del sopradetto Iachia, e dopo non molti mesi moritte da peste. Allora il popolo e li principali di Tunis elessero re Mucamen, figliuolo di Hesen, cugino del sopradetto Zacharia, e lo posero nella sedia regale: ma costui, vedendosi alzato tanto in alto, cominciò a superbire e usar la tirannide e aggravar la città di Tripoli, di sorte che 'l popolo scacciò di Tripoli il governatore e' ministri del re, ed elessero un suo cittadino per loro signore, e li posero in le mani tutte l'intrade e tesori publici, qual governava con gran modestia la città.
Ma il re di Tunis, per vendicarsi di questa rebellione, vi mandò un esercito grosso con un suo vicegerente, qual fu attossicato dagli Arabi per opera de' principali di Tripoli, e l'esercito si disfece. Successe che questo signor di Tripoli, che prima pareva modesto, cominciò a far il tiranno e fu morto da un suo cognato: allora il popolo sforzò un cortegiano del principe Abubacr, che s'era fatto romito, ad esser loro signore, qual resse Tripoli molti mesi, fino al tempo che 'l re catolico Ferdinando vi mandò una armata, capitano il conte Pietro Navarro, la qual gionta a l'improviso una sera, il dí dietro la città fu presa e fatto cattivo ognuno. E il signore di Tripoli insieme con un suo genero furono menati a Messina, dove molti anni in prigione stettero; dipoi a Palermo, e d'indi fu lor data licenza da Carlo imperadore, onde essi di propria volontà si ritornarono a Tripoli, la quale fu poscia rovinata da' cristiani. Vero è che 'l castello fortificarono con forti mura e con grosse artiglierie, sí come noi abbiamo veduto negli anni MDXVIII di Cristo. E sí come ho da poco tempo inteso, il signore di Tripoli ha incominciato a far riabitar la città a nome di Cesare.
E questo è quanto si può dire delle città del regno di Tunis.


Monti dello stato di Buggia.

Quasi tutto lo stato di Buggia è di monti asperi e alti, dove sono molti boschi e fonti, i quali monti sogliono abitar ricchi popoli, nobili e liberali. Questi tengono assai numero di capre, di buoi e di cavalli, e quasi sempre sono vissi in libertate, massimamente dopo che Buggia fu presa da' cristiani. E quasi tutti particolarmente portano su la guancia una croce negra per antica usanza, come si disse disopra. Il loro cibo è per lo piú pane d'orzo, e hanno gran copia di noci e fichi: spezialmente se ne truovano in quei monti che sono maritimi, detti Zoaoa. Sono in alcuni di questi monti alquante mine di ferro, del quale ne fanno alcuni pezzi piccoli di mezza libbra, e gli spendono come la moneta. Fanno eziandio batter certe piccole monete d'argento, del peso di quattro grani. Nascevi ancora molto lino e canapo, e di quello fanno gran quantità di tele, ma tutte grosse. Sono questi abitatori persone gelose, ma per altro gagliarde e molto aitanti della persona, e quasi tutti vestono male. Lo detto stato di Buggia verso i monti s'estende sul mare Mediterraneo circa a centocinquanta miglia, e per larghezza è circa a quaranta. E in ciascun di questi monti è una stirpe di popolo separata, ma non ha differenza circa al vivere: perciò pretermetto di ragionarne.


Auraz monte.

Questo monte è molto alto, e abitato da un popolo rozzo d'intelletto, ma ladro e assassino. È discosto da Buggia circa a ottanta miglia, e da Costantina sessanta. È separato da altri monti, e s'estende per lunghezza circa a settanta miglia, e dalla parte di mezzogiorno confina con il diserto di Numidia, e da tramontana con li contadi di Mesila, di Stefe, di Necaus e di Costantina. Nella sua cima nascono molti capi d'acqua, i quali si spargono per lo piano e fanno alcune quasi paludi: ma come il tempo si riscalda tutte diventano saline. Nessuno può aver pratica con gli abitatori, percioché per rispetto degli Arabi loro nimici e dei vicini signori, come è il re di Tunis, non vogliono che siano i lor passi conosciuti.


De' monti dello stato di Costantina.

Tutta la parte di tramontana e di ponente, che è vicina a Costantina, è piena di moltissimi monti, i quali incominciano da' confini dei monti di Buggia e s'estendono sul mare Mediterraneo insino al confino di Bona, che è di spazio circa a centotrenta miglia. E sono tutti abbondanti, percioché i terreni che sono fra loro nel piano sono fertilissimi, e producono molte olive, fichi e altri frutti, di maniera che forniscono tutte le vicine città, come è Costantina, Collo e Gegel, e ancora gli Arabi. Gli abitatori sono piú civili che quelli di Buggia, ed esercitano diverse arti, e sopra tutto fanno gran quantità di tele. Ma spesso insieme combattono, per cagione delle mogli che fuggono da un monte a l'altro a cambiar mariti. Sono molto ricchi, percioché sono liberi dai tributi, ma non possono praticar nel piano per tema degli Arabi, né meno nelle cittadi per tema similmente dei signori. Fassi ogni settimana il mercato in diversi giorni, a' quali vengono molti mercatanti di Costantina e Collo: e bisogna avere da ciascun di questi monti un amico che gli favorisca, altramente, s'egli è tradito, nessuno gli fa ragione. Né v'è né giudice, né sacerdoti, né un solo che sappia lettere, e se alcuno ha bisogno d'uno che gli scriva una lettera, gli convien cercarne dodici o quindici miglia lontano. Questi monti fanno communemente quarantamila combattenti, de' quali ne sono circa a quattromila cavalli: e se fussero i detti abitatori tutti uniti insieme, potrebbono di leggiere dominar tutta l'Africa, percioché sono valentissimi.


Monti di Bona.

Bona ha di verso tramontana il mare, e di verso mezzogiorno e ponente ha pochi monti, i quali sono colligati ai monti di Costantina. Ma verso levante sono alcuni monti a guisa di colline di buoni terreni, dove furono già molte cittade e castella fabbricate da' Romani, che or sono solamente rovine e vestigia, né si sa il nome di alcuno. Questi terreni sono disabitati per causa degli Arabi, eccetto una piccola parte, coltivata da certi popoli che dimorano nella campagna, i quali per forza d'arme se gli tengono a mal grado degli Arabi. Queste colline s'estendono da ponente a levante per lunghezza circa a ottanta miglia, che è da' confini di Bona fino a Bege, e per larghezza circa a trenta. E sono in quelli molti fonti, dai quali parecchi fiumi ne nascono, che passano per lo piano che è fra le colline e il mare Mediterraneo.


Monti vicini a Tunis.

Tunis è posto nel piano e quasi da vicino non ha monte alcuno, eccetto certe braccia sopra il mare verso ponente, come è quello dove è Cartagine. V'è bene un altro monte altissimo e freddo vicino a Tunis circa a trenta miglia verso silocco, il quale è detto Zagoan: ma è disabitato, eccetto che vi sono pure alcune poche capanne di certi villani, che attendono alla cura delle api e vi sogliono seminar qualche poco d'orzo. I Romani anticamente fabbricorono molti castelli su la cima, ne' fianchi e a' piedi del detto monte, di quali ora si veggono le rovine, e leggonsi alcuni epitaffi in marmo scritti nella lingua latina. Dal detto in que' tempi si conduceva l'acqua per insino a Cartagine, e si veggono ancora gli acquedutti.


Monti di Beni Tefren e di Nufusa.

Questi monti sono separati dal diserto, e discosto dal Gerbo e de Sfacos circa a trenta miglia, alti e freddi; né in loro nasce molta quantità di formento, ma appena qualche poco di orzo, il quale non basta per la metà dell'anno. Gli abitatori sono nel vero uomini valenti, ma eretici appresso li macomettani della setta de' pontefici del Cairaoan: e ogni paese in Africa ha lassata questa setta, eccetto questi montanari, e per tal causa vanno intorno a Tunis e altre città, faccendo arte vili per guadagnarsi il vivere, ma non osano appalesar la lor eresia, temendo di essa dagli inquisitori esser puniti.


Monte di Garian.

Garian è un monte alto e freddo, lungo circa a quaranta miglia e largo circa a quindici, separato dagli altri monti per l'arena e discosto da Tripoli circa a cinquanta miglia, nel quale nasce gran quantità d'orzo e di datteri buonissimi, ma vogliono esser mangiati freschi. Vi nascono ancora molte olive, delle quali cavano infinita quantità d'olio, che poi viene portato in Alessandria e alle città vicine. Nascevi eziandio grandissima copia di zafferano, mirabile sí di colore come di bontà, e il piú perfetto che se ne venga d'altra parte del mondo, percioché se nel Cairo, o Tunis, o di Grecia, el zafferan vale dieci sarafi la libbra, questo, come mi fu riferito da uno che fu vicario nel detto monte, ne vale quindici. Costui mi disse ancora che, nel tempo del principe di Tripoli, questo monte fruttava l'anno sessantamila doble, e che nel tempo del suo vicariato si trassero trenta cantari di zafferano, che sono quindici some di muli. Ma sempre gli abitatori furono aggravati dagli Arabi e dal re di Tunis. Vi sono molti casali, e circa a centotrenta casali, ma le case sono vili e triste.


Beni Guarid monte.

Beni Guarid monte è discosto da Tripoli circa a cento miglia, abitato da valente e ricco popolo, il quale si vive in libertà: e sono in liga con certi altri monti, confini con li deserti di Numidia.


Casr Acmed castello.

Casr Acmed è un castello edificato da un capitano degli eserciti venuto in Africa, sul mare Mediterraneo, discosto da Tripoli circa miglia...: e dipoi fu rovinato dagli Arabi.


Subeica castello.

Subeica fu un castello edificato pure nel tempo che i maumettani vennero in Africa, il quale fu molto abitato, ma poi distrutto dagli Arabi, come che oggi sia abitato da certi pochi pescatori e da altra povera gente.


Casr Hessin castello.

Questo fu un altro castello sul mare Mediterraneo, edificato dai sopradetti e medesimamente rovinato dagli Arabi.

SEXTA PARTE

Gar.

Avendo fin qui detto d'alcuni monti, seguiremo di certi villaggi, che non hanno né città né castelli, e di alcune poche provincie, e poscia descriveremo Numidia.
Cominciando adunque da Gar, questa è una villa sul mare Mediterraneo, la quale è abbondante di datteri. Il terreno è asciutto, e nascevi qualche poco d'orzo, di che si nudriscono gli abitatori.


Garel Gare.

Garel Gare è un terreno nel quale sono molte cave grandi e maravigliose, dalle quali si stima che fussero cavate le pietre con che fu edificata Tripoli vecchia, perché questo luogo gli è vicino.


Sarman.

Sarman è una villa assai grande e bene abitata vicina a Tripoli vecchia, e abbonda di datteri, ma quasi non vi nasce grano d'alcuna sorte.


Zauiat Ben Iarbuh.

Zauiat Ben Iarbuh è un altro villaggio discosto poco dal mare, dove nasce pochissimo grano, abitato da certi religiosi, con molti arbori di datteri.

Zanzor.

Zanzor è un villaggio vicino al mare Mediterraneo e discosto da Tripoli circa a dodici miglia, il quale è ripieno di artigiani, fertilissimo di datteri, di granate e di cotogne. Gli abitatori sono poveri, massimamente dapoi che Tripoli fu presa da' cristiani, co' quali nondimeno sogliono aver pratica, e vendono a quelli i frutti loro.


Hamrozo.

Hamrozo è un casale sei miglia vicino a Tripoli fra terra, ripieno di datteri e di giardini di diversi frutti.


Taiora.

Taiora è una campagna vicina a Tripoli circa a tre miglia verso levante, dove sono molti casali e giardini di datteri e d'altri frutti. Doppo la presa di Tripoli questa campagna divenne assai nobile e civile, percioché molti de' cittadini fuggirono in lei; ma in tutti i sopradetti villaggi o casali sono uomini vili, ignoranti e ladri, e le case loro sono di frasche di palme. Il cibo è pan d'orzo e di besin. E tutti sono soggetti al re di Tunis e agli Arabi, eccetto questa campagna.


Mesellata provincia.

Mesellata è una provincia sul mare Mediterraneo, discosta da Tripoli circa a trentacinque miglia, nella quale sono molti casali e castelli bene abitati e da gente ricca, percioché vi sono molti terreni di datteri e d'olive. E questo popolo è in libertà e crea un suo capo a guisa di signore, il quale amministra le paci e le guerre con gli Arabi. Fa circa a cinquemila combattenti.


Mesrata provincia.

Mesrata è ancor ella una provincia sul mare Mediterraneo, lontana da Tripoli circa a cento miglia, dove sono parecchi castelli e villaggi, quale in piano e quale in monte. E gli abitatori sono ricchissimi, perché non pagano alcun tributo, e attendono alla mercatanzia, pigliando le robbe che vengono a quei paesi con le galee de' Veneziani, le quali portano a Numidia dandole per contracambio di schiavi, zibetto e muschio che vien della Etiopia, e portandogli in Turchia: onde fanno guadagno e nello andare e nel tornare.


Diserto di Barca.

Questo diserto incomincia da' confini del contado di Mesrata e s'estende verso levante insino a' confini d'Alessandria, il che è di spazio circa a milletrecento miglia; e per larghezza s'estende circa a dugento. Barca è una campagna diserta e aspera, dove non si truova né acqua né terreno da coltivare. Prima che gli Arabi venissero in Africa, fu il detto diserto disabitato; ma poi che essi vi vennero, i piú possenti abitarono nei paesi abbondanti, e quelli che men poterono rimasero nel detto diserto scalzi e nudi, e con grandissimo assalto di fame. Percioché il diserto è lontano da ogni abitazione e non vi nasce cosa alcuna, onde, se vogliono aver grano o altre cose necessarie alla lor vita, convien che i miseri impegnino i loro figliuoli: il qual grano e le quali cose sono loro portate per mare da' Siciliani, i quali se ne tornano con questi ostaggi. In questo mezzo eglino vanno a rubbare discorrendo sino a Numidia, e sono i maggior ladri e traditori che siano in tutto il mondo. E spogliando i poveri pellegrini, danno loro a bere latte caldo, dapoi gli crollano e levano in alto, per sí fatto modo che i poveri uomini sono costretti a vomitar per insino alle interiora; ed essi cercano in quella bruttura se vi è qualche ducato, percioché dubitano queste bestie che i viandanti, come s'appressano a quel diserto, inghiottino i danari perché non gli siano trovati adosso.


Tesset, città di Numidia.

Parmi aver detto, nella prima parte dell'opera, che Numidia era meno istimata dai cosmografi e istorici africani; e penso di avervi dette le cagioni. Alcune delle sue città sono vicine al monte Atlante, come nella seconda parte si disse, quando trattai di Heha; cosí parimente Sus, Guzula, Helchemma e Capes sono nel regno di Tunis. Vogliono ancora i detti che queste città siano di Numidia: ma io, accostandomi alla opinion di Tolomeo, metto tutta la riviera del regno di Tunis per Barberia. Ora, volendo io darvi particolare informazione di questa parte di Numidia, incominciarò da Tesset, la quale è una piccola città anticamente edificata dai Numidi ne' confini dei diserti di Libia, murata di mura di pietre crude. In lei c'è poco o nulla di civiltà, e fa circa a quattrocento fuochi. D'intorno altro non v'è che campagna di arena; gli è vero che vicino alla città è qualche piccolo terreno di datteri e alcun altro dove si semina orzo e miglio, col quale gli abitatori sostengano la loro povera e misera vita, e pagano grandissimo tributo agli Arabi, lor vicini del diserto. Sogliono andar d'intorno con le loro mercatanzie ai paesi dei negri e a Guzula, di maniera che non si truova mai quasi la metà nelle lor case. Sono molto brutti e quasi negri, e senza niuna cognizion di lettere, percioché in loro vece le donne usano gli studi, e insegnano a fanciulle e fanciulli, i quali, pervenuti a certa età, si danno alla zappa e al lavoro dei terreni. E queste donne sono piú degli uomini bianche e grasse e, trattone fuori quelle che studiano o filano lana, tutte l'altre si stanno oziose e con le mani a cintola. Quivi la povertà è comune, e pochi sono quegli uomini ch'abbiano quantità di bestiami, e queste sono pecore. L'arar de' loro terreni si è con un cavallo e con un camello: e cosí si suol fare per tutta Numidia.


Guaden.

Guaden è certo casale nel diserto di Numidia, che confina con Libia, il quale è abitato da un popolo bestiale e povero: e in questo altro non nasce che qualche poca quantità di datteri. Sono gli abitatori poveri e vanno quasi ignudi, né possono andar fuori delli loro casali, per le nimicizie che tengono co' vicini. Si danno alla caccia con trappole e pigliano qualche animal salvatico di quei paesi, come elamth e struzzi, e non si truova altra carne eccetto di questi animali; è ben vero che hanno qualche capra, ma la tengono pel latte. Sono piú tosto neri che bianchi.


Ifran.

Ifran sono circa a quattro castelli edificati dai Numidi, l'uno discosto dall'altro quasi tre miglia, sopra un fiumicello vivo il verno e secco la state. Sono fra questi castelli molti terreni di datteri, e gli abitatori posseggono qualche ricchezza, percioché contrattano le loro mercatanzie con Portogallesi nel porto di Gart Guessem, pigliando da loro panni grossi, tele e tai cose, i quali portano ai paesi dei negri, come Gualata e Tambutu. Nei castelli sono molti artigiani, massimamente d'alcuni che fanno vasi di rame, de' quali ne fanno buona vendita nei paesi dei detti negri, percioché vicino ai loro paesi, ne' piedi d'Atlante, sono molte vene di rame. Una volta la settimana sogliono fare il mercato per ciascun castello, ma v'è sempre carestia di grano. E vanno costoro vestiti di bello abito. Hanno un bellissimo tempio, e tengono sacerdoti e un giudice nelle cose civili; nelle capitali altra giustizia non si fan che bandire quelli che alcun male commettono.


Accha.

Accha sono tre piccoli castelli l'uno vicino all'altro nel diserto di Numidia, e ne' confini di Libia. Furono molto abitati, e per discordie civili mancarono gli abitatori; dipoi per opera d'un religioso furono sedate le discordie e, fatto tra loro parentado, di nuovo furono riabitati: e questo uomo fu lor signore. Questa è invero la piú povera gente che sia, né alcuno ha altro esercizio che raccogliere i datteri.


Dara.

Dara è una provincia la quale incomincia dal monte Atlante e s'estende verso mezzogiorno circa a dugentocinquanta miglia per lo diserto di Libia. Questa provincia è assai stretta, percioché gli abitatori sono sopra un fiume del medesimo nome, il quale tanto cresce il verno che assembra un mare, e la state scema in modo che l'uomo lo passa a piedi. Ma crescendo adacqua tutti quei paesi: e se egli non cresce al principio di aprile, tutto il seminato è perduto; e se cresce nel detto mese, fanno assai buone ricolte. Sopra la riva di questo fiume sono infiniti casali e castelli murati di pietre crude e di creta, e tutti i tetti sono coperti con travi di datteri, de' quali eziandio ne fanno le tavole, benché di loro poco si ponno valere, percioché questo legno è tutto filoso e non sodo come gli altri. E d'intorno al fiume e discosto ancora cinque e sei miglia sono infinite possessioni di datteri perfettissimi e grossi, i quali potrebbono starsi sette anni in un magazino che non si guastarebbono: ma li magazeni vogliono esser nel secondo solaio. E sí come sono di diverse sorti e colori, cosí sono eziandio di diversi prezzi: alcuni vagliano un ducato il moggio e alcuni altri un quarto, e tali solamente si danno mangiare ai camelli o ai cavalli. E sono questi piedi di datteri maschi e femine: le femine fanno i frutti, e i maschi non producono altro che graspi de fiori. Ma è bisogno, prima che s'aprino i fiori della femina, torre un ramoscello coi fiori del maschio e innestarlo nel fior della femina, altrimenti i datteri nascono tristi, magri, e fanno l'osso molto grosso. Gli abitatori si nudriscono di sí fatti datteri, spezialmente ne' giorni che altro cibo non pigliano: il quale cibo è orzo in minestra e certi altri cibacci miseri, né usano mangiar pane se non nei dí solenni e nelle nozze.
Nei castelli di questa provincia c'è poca civilità; pur vi sono degli artigiani e orefici giudei, come ne' suoi confini che rispondono verso Mauritania, sopra la strada che è fra Fez e Tombutto. Nondimeno in questi luoghi sono circa a tre o quattro città grosse, dove ci sono e mercatanti forestieri e del paese, e botteghe, e tempii molto ben forniti. La piú eccellente è appellata Beni Sabih, la quale ha un solo muro ed è divisa in due parti, ma governata da diversi capi, i quali le piú volte discordando combattono tra loro, massimamente nel tempo che si adacquano i terreni per la penuria dell'acqua. Gli abitatori di questa città sono uomini valenti e liberali, e usano di tenere in casa a loro spese un mercatante un anno e piú, né altro pigliano da lui che quello che egli secondo la sua discrezione gli lascia. Fra questi sono molti capi di parte, e di continovo vengono alle armi; e ogni parte si fa aiutare dagli Arabi loro vicini, ai quali danno molto buon salario, che è mezzo ducato per giorno, e di piú ancora a ciascun cavallo che combatte per loro: ma gli pagano giorno per giorno per quei pochi dí quando fanno i fatti d'arme. E da certo tempo in qua sogliono adoperare archibusieri e schioppi, e sanno meglio tirar che uomini ch'io abbi mai veduto, perché darebbono nella punta d'un ago, e con i detti archibusi n'amazzano assai fra loro.
Nasce nel detto paese gran copia d'endico, che è certo colore che somiglia al guasto, del quale ne fanno baratti con i mercatanti di Fez e di Telensin. I grani vi sono assai cari, ma ve n'hanno per datteri, e sono loro recati da Fez e d'altre vicine cittade. Hanno poco numero di cavalli e similmente di capre, e a' cavalli, in luogo di biada, danno datteri e di quel fieno che si truova nel regno di Napoli, detta farfa; e alle capre danno gli ossi dei datteri da loro primieramente rotti, e per questo cibo le capre ingrassano e abbondano di latte. Sogliono mangiar molta carne di becchi vecchi, e cosí di camelli vecchi, che è cosa tristissima. Somigliantemente allevano dei struzzi e gli mangiano: la lor carne ha del sapore del gallo, ma è dura e puzza oltre modo, e massimamente quella delle coscie, che è viscosa. Le donne sono belle, grasse e piacevoli, e molte ve ne sono da partito. Tengono schiave e schiavi negri, i quali figliano, e poscia adoperano i figliuoli e i padri nei loro servigi: per questa cagione molti di costoro son bruni e pochissimi sono bianchi.


Segelmesse.

Segelmesse è una provincia detta dal nome della città principale, la quale s'estende sul fiume Ziz, incominciando dallo stretto che è vicino alla città di Gherseluin, e va verso mezzogiorno centoventi miglia, insino a' confini del diserto di Libia. È abitata da diversi popoli barbari, i quali sono Zeneta, Zanhagi e Haoara. E anticamente era sottoposta a un signor che da per sé la reggeva, ma dipoi fu dominata da Giuseppe re de Luntuna, poi da Muahidin, poi dai figliuoli dei re della casa di Marin. Finalmente il popolo si ribellò e, uccisone il signore, distrusse la città, la quale è rimasa abbandonata fino al dí d'oggi. Gli abitatori si ridussero insieme, e fra le possessioni e i contadi della detta provincia edificarono alcuni grossi castelli, de' quali parte sono liberi e parte soggetti agli Arabi.


Cheneg.

Cheneg è una provincia, o contado che dire lo vogliamo, sul fiume di Ziz, e confina con i monti d'Atlante, nella quale sono molte castella e casali, e possessioni di datteri non molto buoni. I terreni sono magri e angusti, eccetto certe poche liste che s'estendono dalle rive del fiume fino a' piedi del monte (che alle volte non c'è di larghezza un tratto di mano), dove si semina qualche poco d'orzo. Degli abitatori alcuni sono vassalli degli Arabi e anco della città di Gherseluin, e alcuni liberi. Quei sono poveri e quasi mendichi, e questi molto ricchi, percioché hanno dominio del passo che è fra Fez e Segelmesse, e fanno pagar buona gabella alli mercatanti. In questa strettezza sono tre principali castelli: uno detto Zehbel, il quale è sopra una rupe altissima propio nel principio del passo, e pare che egli tocchi il cielo con la sua altezza; a' piedi del castello vi sta la guardia, la quale piglia un quarto di ducato per camello. L'altro castello è detto Gastrir, discosto dal sopradetto circa a quindici miglia, ma è nella costa del monte quasi nel piano, ed è piú ricco e piú nobile del primo. Il terzo è chiamato Tammaracrost, il quale è lontano dal secondo circa a venti miglia verso mezzogiorno e sopra la via maestra. Ciò che resta sono casali e alcuni piccoli castelli. E hanno gli abitatori di questa strettura molto carestia di grano, ma gran numero di capre, le quali tengono il verno in certe grotte grandi e larghe, che sono le lor fortezze, percioché sono molto alte da terra e hanno l'entrata molto stretta e le vie piccole fatte a mano, di maniera che due uomini potrebbono sostener l'empito di tutta la provincia. Questo cotale stretto della detta provincia s'estende per lunghezza circa a quaranta miglia.


Matgara.

Matgara è un altro contado, il quale confina col sopradetto di verso mezzogiorno fuori del detto stretto, dove sono molti castelli pure sul fiume di Ziz. E il piú nobile è chiamato Helel, nel quale è la stanza del signore del contado, che è arabo e tiene una famiglia del suo popolo coi padiglioni nella campagna; ve ne tiene eziandio un'altra con parecchi soldati nel suo castello. Né può alcuno passar per lo suo stato senza espressa licenza del detto, e se i suoi soldati incontrano nel suo stato una carovana senza salvocondotto, subito la rubano e spogliano tutti i mercatanti e vetturali. Vi sono ancora degli altri castelli e casali, ma tutti vili e di niun prezzo, come io medesimo ho veduto.


Retel.

E questo è similmente un altro contado, il quale confina con Matgara e s'estende sul fiume di Ziz verso mezzogiorno circa a cinquanta miglia, insino al territorio di Segelmesse, dove sono infiniti castelli e possessioni di datteri. E sono gli abitatori sottoposti agli Arabi, avarissimi e di poco animo, di maniera che cento di lor cavalli non ardirebbono di affrontar dieci cavalli arabi. E i loro terreni coltivano per li detti Arabi come se li fussero schiavi. Dalla parte di levante confina questo contado con un certo monte disabitato, e da quella di ponente con una pianura diserta e arenosa, dove sogliono alloggiare gli Arabi quando tornano dal diserto.


Territoro di Segelmesse.

Come che io abbia detto di sopra della provincia di Segelmesse con brievi parole quello che mi parve degno di notizia, nondimeno non resterò ora di dire che nel suo territoro, che s'estende da tramontana a mezzogiorno 20 miglia sopra il fiume Ziz, sono circa a trecentocinquanta castelli, qual grande qual piccolo, fuori dei casali, dei quali i principali sono tre. Uno è detto Tenegent, che fa circa a mille fuochi, e piú vicino alla città, dove è qualche artigiano. Il secondo è chiamato Tebuhasant, discosto dal primo circa a otto miglia verso mezzogiorno, il quale è maggior e piú civile, e sono in lui molti mercatanti forestieri e molti giudei artigiani e mercatanti: e nel vero è piú popolo in questo castello che in tutto il resto della provincia. Il terzo è appellato Mamun, che è ancora esso grande e forte e ripieno di molto popolo, come di mercatanti giudei e mori. E ciascuno di questi castelli si governa per un particolar signore, cioè capo di parte, perciocché sono fra queste genti molte discordie e sempre combattono insieme faccendo il peggio che ponno, cioè di guastarsi li condotti che vengono dal fiume per adacquare i loro terreni, dove vi va gran fatica e spesa a rifarli; tagliano anco li datteri da' piedi e si saccheggiano l'un l'altro, il che gli Arabi l'aiutano. Fanno costoro ne' lor castelli batter moneta d'argento e d'oro, e i lor ducati sono come quelli dei bislacchi d'oro basso. Le monete sono d'argento fino, di peso di quattro grani l'una, e ottanta di loro fa un ducato. Parte delle loro rendite sono tirate da quei capi di parte, cioè il tributo delli giudei e l'utile della zecca, e parte degli Arabi, come è l'utile della dogana.
È vil popolo, e quando vanno fuori fanno tutti li vili mestieri; e vi sono alcuni gentiluomini ricchi, e molti vanno nella terra negra e vi portano robbe di Barbaria, dandole per oro e per ischiavi. Il cibo è di datteri e di qualche poco di grano, e per tutti i lor castelli vi sono infiniti scorpioni, ma non hanno pulici. E nella state il caldo è tanto eccessivo e levasi tanta polvere, che io penso che da questo proceda che ciascun di loro ha enfiati gli occhi. V'è eziandio in tale stagione le piú volte, sciemando il fiume, gran penuria d'acqua, la qual è salata, de' pozzi fatti a mano. Intorno a detto territorio vi sono circa ottanta miglia di circuito, quale, dapoi la rovina della città, essendo questo popolo in unione, fecero murare con mura di poca spesa accioché li cavalli non vi potessero correre; e fino che stettero uniti e d'un volere furono liberi, ma venuti in parte le mura furono rotte, e cadauno chiamò gli Arabi in loro difesa, alli quali a poco a poco divennero soggetti e quasi schiavi.


Segelmesse città.

Questa città, secondo alcuni nostri scrittori, fu edificata da un capitano de' Romani, il quale, partito di Mauritania, acquistò tutta la Numidia e andò verso ponente fino a Messe, dove edificò questa città, e le pose nome Sigillummesse per esser ultima nello stato di Messe, quasi sigillo doppo il fine della sua vettoria. Dipoi fu corrotto il nome e cangiossi in Segelmesse. Un'altra oppenione è quasi del vulgo e del Bicri nostro cosmografo, che la detta città fosse edificata da Alessandro Magno per gli amalati e storpiati del suo campo, la quale al mio giudicio è falsa, percioché non si truova fra gli istorici che Alessandro arrivasse mai a tali paesi. Questa città è edificata in una pianura sopra il fiume Ziz, d'intorno murata di belle e alte mura, come ancor se ne vede qualche parte; e quando li macomettani introrono nell'Africa, fu soggetta a certi signori del popolo di Zeneta, quali durorono fin che Iosef re, figliuol de Tesfin de Luntuna, gli discacciò. Era civile, fatta con buone case, e gli abitatori ricchi per il traffico che aveano in terra di negri, e ornata di belli tempii e collegii, con assai fontane, l'acqua delle quali era cavata con certe ruote grandi del fiume, che la facevan sbalzare sopra il condotto che andava per la città. Vi era buon aere, eccetto che 'l verno è molto umido, e però vi regnavano assai catarri negli abitatori, e nella state mal d'occhi: ma presto guarivano. Al presente è tutta rovinata e, come abbiamo detto, il popolo si ridusse ad abitare per li castelli e territorio. Io vi son stato sette mesi di continuo, nel castello detto Mamun.


Essuoaihila castello.

Essuoaihila è un castello piccolo, discosto dal territorio della detta città circa a dodici miglia verso mezzogiorno, edificato dagli Arabi in un diserto, nel quale tengono le robbe loro e le vettovaglie per assicurarle dai nimici loro. D'intorno altro non è che la maledizione di Dio, perché non c'è né giardino né orto né terreno né bene alcuno, se non pietre negre e arena.


Humeledegi.

Humeledegi è un altro castello, lontano da Segelmesse circa a diciotto miglia, edificato pur dagli Arabi nel diserto per la cagione sopra detta; né altro c'è intorno di buono che una campagna aspra, dove nasce gran copia di certi frutti, li quali da lontano paiono alla vista melaranci gettati e sparsi per la detta campagna.


Ummelhefen.

Ummelhefen è un malvagio castello, discosto da Segelmesse circa a venticinque miglia, edificato dagli Arabi in un aspro diserto sopra la strada che è fra Segelmesse e Dara, il quale è murato di pietre cosí negre che paion carboni. In lui sta di continuo la guardia di certi signori arabi, né vi può passare alcuno che non paghi un quarto di ducato per camello; e cosí riscuotono da cadaun giudeo. Io vi passai una fiata con la compagnia di quattordici giudei, ed essendo noi dimandati dalla guardia quanti eravamo, e noi dettole due di meno, quella ricercando il numero volevano ritener due. E inteso che erano due maumetani e il resto giudei, volle certificarsi minutamente, di modo che fece ai detti due legger l'uficio di Maumetto; poi, chiesto loro perdono, ci lasciò andare.


Tebelbelt.

Tebelbelt è un'abitazione in mezzo del diserto di Numidia, discosta da Atlante circa a dugento miglia e da Segelmesse circa a cento verso mezzogiorno. E sono appunto tre molto bene abitati castelli, i cui terreni sono possessioni di datteri. V'è penuria d'acqua e carne, ma vi si mangia dei struzzi e cervi che vanno cacciando; e ancor che faccino mercanzia in terra di negri, nondimeno sono poveri per esser vassalli d'Arabi.


Todga.

Todga è una piccola provincia sopra un fiumicello del medesimo nome. È abbondante di datteri, di persiche, d'uva e di fichi, e sonovi circa a quattro castelli e dieci casali abitati da povera gente, che è per la piú parte de lavoratori de terreni e conciatori di cuoi. È discosta da Segelmesse circa a quaranta miglia verso ponente.


Farcala.

Farcala è un'altra abitazione sopra un fiumicello, la quale è copiosa similmente di datteri e d'altri frutti, ma non vi nasce grano eccetto qualche piccola e misera quantità. Sonovi tre castelli e cinque casali. È discosta da Atlante verso mezzogiorno circa a cento miglia, e da Segelmesse sessanta. Gli abitatori sono vassalli degli Arabi e poverissimi.


Tezerin.

Tezerin è una bella abitazione pur sopra un fiumicello, discosta da Farcala circa a trenta miglia e da Atlante circa 60 miglia, molto fertile di datteri. Sono in lei quindici casali e sei castelli, e le vestigia di due città di cui non si sa il nome, dal che è derivato il nome della città, percioché Tezerin, nella lingua africana, tanto suona quanto nella italiana "cittadi".


Beni Gumi.

Beni Gumi è una abitazione sopra il fiume Ghir, copiosa pur di datteri. Gli abitatori sono poveri e fanno ogni vil mestiero in Fez, e del danaro del guadagno comprano qualche cavallo, e rivendono poi a' mercatanti che vanno nelle terre de' negri. In questa sono a otto piccoli castelli e quasi piú di quindici casali, discosti da Segelmesse circa a centocinquanta miglia verso silocco.


Mazalig e Abuhinan castelli.

Questi sono due castelli nel diserto di Numidia, discosti da Segelmesse circa a cinquanta miglia, gli abitatori de' quali, perché sono arabi, hanno con esso loro di continovo la miseria e la calamità, percioché non nasce nel lor terreno grano d'alcuna sorte, e sonovi pochi piedi di datteri. Sono questi due castelli su la riva del fiume Ghir.


Chasair.

Chasair è una piccola città nel diserto di Numidia, vicina ad Atlante circa a venti miglia. È in lei una vena di piombo e un'altra d'antimonio, i quali due metalli sono l'esercizio degli abitatori, e ne gli portano a Fez. Né altro vi nasce appresso di loro.


Beni Besseri.

Beni Besseri è un'altra abitazione, nella quale sono circa a tre castelli ne' piedi di Atlante. È abbondevole di molti frutti, ma non vi nascono né datteri né grani. V'è una vena di ferro, la quale fornisce tutta la provincia di Segelmesse. Vi sono pochi casali, e tutti sottoposti al signore di Dubdu e agli Arabi. Gli abitatori sono tutti egualmente lavoratori della detta vena.


Guachde.

Guachde è una abitazione discosta da Segelmesse circa a 70 miglia verso mezzogiorno, e sono tre grossi castelli e molti casali, tutti sopra il fiume Ghir. Vi nasce qualche poco di grano, ma gran copia di datteri. Gli abitatori fanno portare le loro mercatanzie alla terra de' negri, e sono tutti tributari agli Arabi.


Fighig.

Questi sono tre altri castelli in mezzo del diserto, dove è grandissima abbondanza di datteri. Le donne intessono certi panni di lana a modo di coltre, ma tanto sottili e delicati che paion di seta, i quali si vendono molto cari per le città di Barberia, come in Fez e in Telensin. Gli uomini sono di grande ingegno, percioché altri si danno alla mercatanzia in terra di negri e altri in Fez agli studii di lettere. E come uno ha ricevuto le insegne del dottorato, ritorna in Numidia e fassi sacerdote e predicatore, di modo che tutti sono ricchi. Questi castelli sono lontani da Segelmesse circa a centocinquanta miglia verso levante.


Tesebit.

Tesebit è una abitazione nel diserto di Numidia, discosta da Segelmesse circa a dugentocinquanta miglia verso levante, e da Atlante circa a cento. E sono circa a quattro castelli e molti casali ne' confini di Libia, su la strada per cui si va da Fez o da Telensin al regno di Agadez, nella terra de' negri. Gli abitatori sono molto poveri: non nasce in lor paese bene alcuno eccetto datteri e un poco d'orzo. Gli abitatori sono quasi tutti neri, ma le donne sono belle, ma brune.


Tegorarin.

Tegorarin è una grande abitazione nel diserto di Numidia, discosta da Tesebit circa a centoventi miglia verso levante, dove sono circa a cinquanta castelli e piú di cento altri casali, tutti fra possessioni di datteri. È il popolo di questa abitazione ricco, percioché usa spesso andare con mercanzie alla terra dei negri; e nella detta abitazione si fa il capo, percioché li mercatanti di Barberia aspettano quelli della terra de' negri, e ne vanno poi tutti insieme. Nel paese è molto terreno da seminare, ma bisogna adacquarlo con acqua de pozzi, per esser molto secco e magro: onde ancora l'ingrassano col letame. E per questa cagione sogliono prestar le lor case a' forestieri senza pigione, solamente per avere i letami dei cavalli e lo sterco: e lo serbano con gran diligenza, e il maggior dispiacer che possi ricever un dal suo ospite, è quando lo vede votar il peso del corpo fuori di casa, e si corroccia dicendogli: "Forse tu non hai veduto il luogo deputato a questo". Quivi la carne è molto cara, percioché non si può tener bestie per la seccaggine del paese. V'è qualche capra, la quale si tiene per cagione del latte. Sogliono mangiar carne di camello, che gli abitatori comperano dagli Arabi che vengono nel detto paese alli mercati che vi si fanno: e sono cotai camelli rifiutati, né piú buoni da soma. Adoperano ancora sevo salato ne' loro miseri cibi, portato da' mercatanti di Fez e di Telensin, del quale molto buon profitto ne fanno. V'erano già certi giudei ricchissimi, i quali per cagione d'un predicatore di Telensin furono saccheggiati, e la piú parte uccisi dal popolo: e questa istoria fu l'anno proprio che li giudei furono cacciati di Spagna dal re catolico, e di Sicilia. Il governo di questi tali è nelle mani d'alcuni capi di parte, e molto spesso si uccidono tra loro, ma non fanno dispiacer a' forestieri; usano di dare qualche poco di tributo ai lor vicini Arabi.


Meszab.

Meszab è una abitazione nei diserti di Numidia, discosta da Tegorarin circa a 300 miglia verso levante, e dal mare Mediterraneo altretante, nella quale sono sei castelli e molti casali. Sono gli abitatori ricchi, e molto solleciti alle mercanzie nelle terre de' negri; e ancora i mercatanti dal Gier e di Buggia fanno capo in questo luogo con li mercatanti de' negri. Danno nondimeno tributo agli Arabi, dei quali sono vassalli.


Techort.

Techort è una città antica, edificata dai Numidi sopra una montagna come un toffo, e di sotto passa un fiumicello, sopra il quale è un ponte che si sbassa e lieva, come hanno alle porte della città. È murata con mura di pietra viva e di creta, non dalla parte del monte, percioché ivi è difesa dalle rupi. Questa città è discosta dal mare Mediterraneo circa a 500 miglia verso mezzogiorno, e lontana da Tegorarin circa a trecento; e fa duemilacinquecento fuochi. Tutte le sue case sono fatte di mattoni e di pietre crude, eccetto il suo tempio, che è fatto di pietre belle e lavorate. È bene abitata sí di artigiani come di gentiluomini, i quali sono ricchi di possessioni di datteri, ma hanno carestia di grani, benché siano lor portati di Costantina dagli Arabi, a baratto di datteri. Amano molto i forestieri e gli alloggiano nelle lor case senza pagamento niuno, e piú volentieri maritano le lor figliuole a forestieri che a quei del paese; usano di dar dote di possessioni alle lor figliuole come si fa in Europa. Fanno ancora molti presenti d'importanzia alli forestieri, ancor che pensino che mai debbino tornare, e questo per esser molto liberali. Fu prima sotto il dominio dei re di Marocco; dipoi fu tributaria ai re di Telensin; finalmente è venuta tributaria al re di Tunis, al quale dà cinquantamila ducati l'anno, ma con patto che vi vadi lui in persona a torre il tributo: e il re presente di Tunis v'è stato due volte.
D'intorno di lei sono molto castelli e villaggi, e ancora abitazioni discoste dalla medesima tre o quattro giornate, ogniun dei quai è tributario al signor della città, il quale ha di rendita centotrentamila ducati. E tiene buona guardia di cavalli, di balestrieri e di schioppettieri turchi, e dà loro buono salario, di maniera che ciascuno si sta volentieri nella sua corte. Ed è invero giovane magnanimo e liberale, nominato Habdulla. Io ebbi pratica con esso lui, e lo trovai tutto amorevole, suave e molto allegro, e vede volentieri forestieri.


Guargala.

Guargala è una città antichissima, edificata dai Numidi nel diserto di Numidia, murata intorno di crudi mattoni. Vi sono di belle case, e d'intorno infinite possessioni di datteri, molti castelli e infiniti casali. È fornita d'artigiani, e sono gli abitatori molto ricchi, percioché confinano con il regno di Agadez, fra' quali si truovano assai mercanti forestieri, massimamente di Costantina e di Tunis. Questi portano alla città robbe che traeno di Barberia, e ne fanno baratto co' mercatanti della terra de' negri; v'è tuttavia gran carestia di grano e di carne, la quale essi mangiano di camelli e di struzzi. Sono uomini la piú parte negri, non per cagione dell'aere del clima, ma percioché essi tengono molte schiave negre, con le quali dormeno, onde tali figliuoli ne nascono. Costoro sono liberali e piacevoli e accarezzano i forestieri, perché non hanno bene alcuno se non da loro, cioè grano, carne salata, sevo, panni, tele, arme, coltelli e tutto quello che fa di bisogno. Hanno un signore il quale onorano come re, ed egli tiene fra la sua guardia circa a mille cavalli. Ha di rendita dal suo stato centocinquantamila ducati, e risponde agli Arabi suoi vicini gran tributo.


Zeb provincia.

Questa provincia è nel mezzo dei deserti di Numidia, la quale incomincia dalla parte di ponente del confino di Mesila, e confina da tramontana co' piedi del monte del regno di Buggia, in levante nel paese dei datteri che risponde al regno di Tunis, e da mezzogiorno in certi diserti, dove è la strada di Techort e di Guargala. Questa città è molto calda e arenosa, ed è in lei poca acqua, e ha pochi terreni per seminar grano, ma infiniti ve ne sono di datteri.
Sono ancora in questa provincia cinque città e infiniti casali, le quali città ordinatamente vi si descriveranno.


Pescara.

Pescara è una città antica, edificata nel tempo che i Romani signoreggiarono la Barberia; dipoi fu rovinata, e rinovata allora che gli eserciti de' maumettani entrarono in Africa. E oggidí è onestamente abitata, e le mura sono di mattoni crudi, e gli abitatori sono civili ma poveri, percioché ne' loro terreni altro non nasce che datteri. Questa città ha mutato molti signori; è stata per un tempo sotto il re di Tunis, fino alla morte del re Hutmen; allora il sacerdote della città la fece ribellare e se ne fece signor, né piú il re di Tunis l'ha potuta riavere. È in lei gran moltitudine di scorpioni, de' quali come uno è punto, di subito si muore: e per questa cagione gli abitatori la state abbandonano la città, e dimorano nelle loro possessioni fino al mese di novembre.


Borgi.

Borgi è un'altra città, discosta da Pescara circa a quattordici miglia verso ponente, civile e bene abitata, nella quale sono molti artigiani, ma in maggior copia sono i lavoratori delle possessioni. Hanno tanta penuria d'acqua che, volendo adacquarne il terreno d'un canale di cui si servono, ciascuno separatamente fa correr l'acqua ai suoi campi per lo spazio d'una o due ore, secondo la quantità del terreno; dipoi se ne vale un altro, tenendovi l'orologio, in modo che spesso tra loro ne nascono molte quistioni e morti.


Nefta.

Nefta è una città, o piú tosto abitazione, divisa in tre castelli molto grandi, e massimamente uno dove è la rocca. Penso che fusse edificata da' Romani per gli edificii che si veggono; ma, come che ella sia bene abitata, non è perciò in lei civilità alcuna. Ben solevano esser gli abitatori ricchi, percioché essi sono ne' confini di Libia e su la strada per cui si va al paese dei negri; ma essendo da cento anni in qua stata sempre ribella al regno di Tunis, il presente re v'andò a campo e la prese e la saccheggiò, molti di loro uccidendo e le mura rovinando, in modo che tutti tre i castelli oggi sono divenuti un solo casale. Le passa da vicino una certa acqua viva, piú tosto calda che fredda, della qual beono e n'adacquano i terreni.


Teolacha.

Teolacha è una città edificata dai Numidi e murata di triste mura, appresso la quale passa un fiumicello d'acqua calda. Il suo terreno è abbondante di datteri, ma povero di formento. Poveri sono similmente gli abitatori, e molto gravati dagli Arabi e dal re di Tunis, ma avari e superbi oltre modo, e vedono mal volentieri forestieri.


Deusen.

Deusen è una città antichissima, edificata da' Romani dove confina il regno di Buggia col diserto di Numidia. Fu rovinata nell'intrar degli eserciti de' macomettani nell'Africa, percioché in ditta città v'era un conte romano con gran numero di valentissimi uomini, né mai volse render la città alli capitani saraceni, di maniera che durò l'assedio un anno e poi fu pigliata per forza, e uccisone dentro tutti gli uomini, e le donne e fanciulli fatti prigioni. E la terra fu rovinata, cioè le case, perché le mura, essendo fatte di pietre grossissime, non poteron andar a terra: pur due facciate si vedono rovinate, non so se per artificio over per qualche terremoto. Sono vicine alla terra alcune vestigia che pareno sepolture, e i cacciatori nel tempo delle pioggie vi truovano certe grosse medaglie d'oro e d'argento con teste e lettere, delle qual mai non fu uno che mi sapesse esporre il significato.


Biledulgerid provincia.

Biledulgerid provincia s'estende dal confino di Pescara insino a' confini dell'isola del Gerbo. E una parte che è molto discosta dal mare Mediterraneo, come è Caphsa e Teusar, le quali sono lontane trecento miglia fra terra. Questo paese è molto caldo e secco, né in lui nasce grano, ma gran copia di datteri molto buoni e perfetti, che vanno per tutta la riviera di Tunis. E ha molte cittadi, come vi si diranno.


Teusar.

Teusar è una città antica, edificata da' Romani nel diserto di Numidia, sopra un piccol fiume, il quale viene da certi monti nella parte di mezzogiorno. Le mura sue solevano esser bellissime e forti, e molto terreno circondavano, ma furono rovinate da' maumettani insieme con molti belli palazzi antichi: ora sono tristissime. Gli abitatori sono ricchi di possessioni e di danari, percioché fanno nella lor città molte fiere, alle quali vengono diversi popoli numidi e barberi. Sono divisi in due parti, e dividegli il piccol fiume: l'una parte, nella quale è il natio e il nobile della città, è detta Fatnasa; l'altra è appellata Merdes, che è di certi Arabi che rimasero nella città, dapoi che fu presa da' maumettani. E sempre queste due parti sono fra se stesse contrarie, e poche volte danno obbedienza al re di Tunis, il quale, quando vi va in persona, molto malamente gli tratta, e massime il presente re.


Caphsa città.

Caphsa è una città antica edificata da' Romani, e rimase in mano d'alcuni duchi fino che vi venne a campo Hucba, capitano di Hutmen califa: allora fu presa da' maumettani, i quali disfecero le sue mura; ma non poterono disfar la rocca, che è invero singularissima, percioché ha le mura alte venticinque braccia e larghe cinque, fatte di grossissime pietre lavorate, come sono quelle del Coliseo di Roma. D'indi a certo tempo furono le dette mura rifatte, e un'altra volta gettate a terra da Mansor, che, fatto giornata col signore della città, uccise lui e i suoi figliuoli, e pose governatori e rettori per tutta la provincia. Oggi la città è tutta abitata, ma ha vili case, cavandone il tempio e altre moschee; le sue strade sono molto larghe e tutte lastricate di pietre negre, come sono le strade di Napoli e di Firenze. Gli abitatori sono civili ma poveri, per esser troppo gravati dal re di Tunis. In mezzo della città sono certe fontane fatte in forma di fosse, quadre e profonde e larghe, e d'intorno cinte di mura; pure v'è uno spazio fra i muri e le rive delle fonti, dove si possono star gli uomini a lavar la loro persona, percioché l'acqua è calda: e d'essa beono, lasciandola prima raffreddare una o due ore. L'aere di questa città è pessimo, e la metà degli abitatori per tal cagione è sempre offesa da febbre; i quali sono uomini poveri, ma sopra modo maligni, né vogliono amicizia di forestieri: e perciò sono vituperati per tutta l'Africa. Fuori della città sono infinite possessioni di datteri, d'olive e di melangole: e i datteri sono i piú belli, i migliori e i piú grossi che si truovino in tutta la provincia, e le olive similmente, onde ne fanno perfettissimo olio, sí di sapore come di colore. E quattro cose nobili sono in questa città: datteri, olive, tele e vasi. Vestesi eziandio assai gentilmente, ma s'usano cotai scarpaccie di cuoio di cervo larghissime, per poter piú volte mutar la suola.


Nefzaoa.

Nefzaoa sono tre castelli l'uno all'altro vicino, tutti abitati e popolosi, ma murati di triste mura: e peggiori sono le case. I terreni hanno fertilità pur di datteri, ma non vi nasce grano; e gli abitatori sono molto poveri, per esser gravati dal re di Tunis. La loro distanza dal mare Mediterraneo è circa a cinquanta miglia.
Della città di Clemen, di Capes, del Gerbo, ne abbian parlato discorrendo il regno di Tunis, e delle abitazioni di Numidia che rispondeno allo stato di Tripoli vi dirò adesso.


Teorregu.

Teorregu è una abitazione ne' confini dello stato di Tripoli, cioè dove esso confina col diserto di Barca, e sono tre castelli e parecchi casali, ne' quali è gran quantità di datteri, ma grano niuno. E gli abitatori sono non men poveri di robbe che di danari, perché sono confinati in quel diserto discosto da ogni luogo civile.


Iasliten.

Iasliten è una abitazione sopra il mare Mediterraneo, dove sono molti casali e terreni di datteri, gli abitatori della quale sono mediocremente ricchi percioché, essendo sopra il mare, contrattano loro mercatanzie con gli Egizii e con i Siciliani.


Gademes abitazione.

Gademes è una grande abitazione, dove sono molti castelli e popolosi casali, discosti dal mare Mediterraneo verso mezzogiorno circa a trecento miglia. Gli abitatori sono ricchi di possessioni di datteri e di danari, percioché sogliono mercatantare nel paese di negri, e si reggono da lor medesimi, e pagano tributo agli Arabi; ma prima erano sotto il re di Tunis, cioè il locotenente di Tripoli. È vero che quivi il grano e la carne sono molto cari.


Fezzen.

Fezzen è similmente una grande abitazione, nella quale sono di grossi castelli e di gran casali, tutti abitati da un ricco popolo sí di possessioni come di danari, percioché sono ne' confini di Agadez e del diserto di Libia che confina con lo Egitto, ed è discosto dal Cairo circa a sessanta giornate. Né pel diserto altra abitazione si truova che Augela, ch'è nel diserto di Libia. Fezzen è dominato da un signore, che è come primario del popolo, il quale tutta la rendita del paese dispensa nel comun beneficio, pagando certo tributo a' vicini Arabi. Similmente in cotal paese è molta penuria di pane e di carne, e si mangia carne di camello, la quale è tuttavia carissima.


Diserti di Libia, e prima di Zanhaga

Poscia che abbiamo detto di Numidia, seconda parte di Africa, ora vi raccontaremo dei diserti di Libia, i quali sono divisi in cinque parti, come nel principio dell'opera s'è detto. E per incominciar dal diserto di Zanhaga, è questo diserto secco e arido, e ha principio dal mar Oceano, cioè da ponente, e s'estende verso levante insino dove sono le saline di Tegaza, e nella parte di tramontana termina ne' confini di Numidia, cioè con la provincia di Sus, di Haccha e di Dara, ed estendesi verso mezzogiorno fino alle terre di negri, cioè fino al regno di Gualata e di Tombutto. In lui non si truova acqua se non da cento miglia ad altretante, e quella ancora è salsa e amara, in profondissimi pozzi, massimamente per la strada che è fra Segelmesse e Tombutto. Vi sono molti animali salvatichi e serpi, come al suo luogo vi si dirà. In questo diserto vi si truova un diserto molto aspro e doloroso chiamato Azaoad, dove per dugento miglia non si truova acqua né abitazione, cominciando dal pozzo di Azaoad fino al pozzo di Araoan, che è vicino a Tombutto cento e cinquanta miglia, dove, e per lo gran calore e per la penuria d'acqua, vi muoiono molti uomini e animali, come mi ricorda avervi detto.


Diserto dove abita Zuenziga popolo

Il secondo diserto incomincia da' confini di Tegaza dalla parte di ponente, e s'estende verso levante fino a' confini di Hair diserto, dove abita Targa popolo, e di verso tramontana col diserto di Segelmesse, di Tebelbelt e di Benigorai, e di verso mezzogiorno confina con Ghir diserto, che risponde verso il regno di Guber: ed è questo diserto piú aspro e piú arido del sopradetto. Quivi è il passo de' mercatanti che vanno da Telensin a Tombutto, e passano per il diametro di questo diserto, di modo che per l'asprezza e per il sito vi muoiono uomini e animali molti, per la penuria dell'acqua. Fra questo diserto vi è un particolar diserto chiamato Gogdem, dove non si truova acqua per nove giorni, eccetto quella che si porta sopra li camelli, e alle volte qualche lago fatto dalle pioggie, ma d'improviso e a caso.


Diserto dove abita Targa popolo

Il terzo diserto incomincia da' confini di Hair dal lato di ponente, e s'estende fino al diserto d'Ighidi verso levante, e di verso tramontana confina con li diserti di Tuath e di Tegorarin e di Mesab, da mezzogiorno con li diserti vicini al regno di Agadez. Questo diserto non è cosí aspro e crudele come sono i due primieri, e truovavisi acqua buona e pozzi profondissimi, massimamente vicino ad Hair, nel quale è un temperato diserto e di buono aere, dove nascono molte erbe. E piú oltre vicino di Agadez si truova assai manna, che è cosa mirabile: e gli abitatori vanno la mattina per tempo a raccorla e ve n'empiono certe zucche, e vendonla cosí fresca in la città de Agadez, e un fiasco che tien un boccale val duoi baiocchi; beesi mescolata con acqua ed è cosa perfettissima; la mescolano ancora nelle minestre, e rinfresca molto. Penso che per tale cagione li forestieri rade volte s'ammalano in Agadez come in Tombutto, ancora che vi sia aere pestifero. Questo diserto s'estende da tramontana verso mezzogiorno 300 miglia.


Diserto dove abita Berdoa popolo.

Il quarto diserto incomincia dal confino del sopradetto Ighidi, e s'estende fino a' confini del diserto dove abita Berdoa popolo; e di verso tramontana confina col diserto di Techort, di Guarghala e di Gademis, e da mezzogiorno verso i diserti che vanno a Cano, regno nelle terre dei negri. È secco e di molto pericolo a' mercatanti che vi passano, come sono quei che vanno da Costantina alle dette terre. E perché gli abitatori pretendono che la signoria di Guargala tocchi al loro dominio, sono nimici di quel signore, e spogliano quanti mercatanti incontrano nel diserto, ma quei di Guargala gli uccidono senza averne pietà o compassione alcuna.


Diserto dove abita Lemta popolo

Il quinto diserto incomincia da ponente da' confini del sopradetto diserto, e s'estende verso levante fino al diserto di Augela; da tramontana confina con li diserti di Fezzen e di Barca, e s'estende verso mezzogiorno fino a' confini del diserto di Borno. E in questo diserto è ancora grande seccaggine di terreno, né vi può sicuramente passare se non il popolo di Gademis, li quali sono amici del popolo di Berdoa, e a Fezzen pigliano le vettovaglie e panni e altre cose necessarie per passare. Il resto dei diserti di Libia, cioè di Augela fino al Nilo, è abitato d'Arabi e da un popolo detto Leuata, che è pure africano.
E finiscono i diserti di Libia.


Nun abitazione.

Nun è una abitazione sopra il mare Oceano, che sono tutti casali abitati da un povero popolo, la quale abitazione è fra Numidia e Libia: nondimeno tocca maggior parte di Libia. Non vi nasce altro grano che orzo, e qualche quantità di datteri, ma tristi. Gli abitatori vanno male ad ordine e sono poveri, perché gli Arabi gli gravano assai; vi sono di loro alcuni che vanno con mercanzie nel regno di Gualata.


Tegaza.

Tegaza è una abitazione nella quale sono molte vene di sale che paion marmo, e il detto si cava d'alcune grotte, d'intorno le quali vi sono molte capanne, dove alloggiano quelli che attendono a tale mestiero: e questo non è fatto dagli abitatori, ma da uomini di straniere contrade, che vengono con le carovane e rimangono in quel luogo a cavarlo, e lo salvano fin che viene un'altra carovana che compri detto sale dalli lavoranti, qual portano a Tombutto dove è gran carestia; e cadaun camello porta quattro tavole del detto sale. Né altra vettovaglia hanno questi lavoranti se non quella che li vien portata da Tombutto over Dara, che sono lontane al cammino di venti giornate da Tegaza; e alle volte de' detti sono stati trovati morti tutti nelle loro capanne, per causa della vettovaglia che gli era venuta a manco, e la carovana non era venuta. Oltra di questo nella state si muove un vento da silocco che gli storpia i ginocchi e a molti fa perder la vista, di modo che l'abitar in questo loco è molto pericoloso. Io vi stetti una fiata tre giorni continui, fino che li mercatanti finirono di caricare il sale, e di continovo mi convenne bere acqua salsa di certi pozzi vicini alle cave del sale.


Augela.

Augela è una abitazione nel diserto di Libia, la quale è discosta dal Nilo circa a quattrocentocinquanta miglia; e sono tre castelli e qualche piccolo casale, d'intorno a' quali sono molti terreni di datteri, ma non vi nasce grano; egli è vero che gli Arabi ve ne portano d'Egitto. È questa abitazione sopra la strada maestra per la quale si va da Mauritania ad Egitto, che è per lo diserto di Libia.


Serte.

Serte è una città antica, edificata, come alcuni vogliono, dagli Egizii, e secondo altri da' Romani, benché siano alcuni di oppenione che ella fusse edificata dagli Africani. Come si fu, ora è rovinata, e credesi che la distrussero i maumettani, ancor che Ibnu Rachic istorico dica da' Romani; né altro in lei si vede fuori che qualche piccolo vestigio delle mura.


Berdeoa abitazione.

In mezzo del diserto di Libia, discosto dal Nilo circa a cinquecento miglia, sono tre castelli e cinque o sei casali, ne' quali è gran quantità di perfetti datteri. Questi tre castelli da 18 anni in qua furono trovati da una guida chiamata Hamar, qual smarrí la strada per causa d'una malattia che li venne agli occhi e, non vi essendo in la carovana altri che lui che sapesse la strada, andava avanti sopra un camello e ogni miglio di continuo si faceva dar della arena e l'odorava, e per questa sua pratica, come la carovana fu vicina quaranta miglia dalla detta abitazione, costui disse: "Sappiate che noi siamo vicini ad una abitazione". Né alcuno lo poteva credere, perché sapevan che eran discosti da Egitto 480 miglia, e dubitavan di esser tornati ad Augela: ma nel terzo giorno la carovana si vidde vicina a questi tre castelli. La gente dei quali, maravigliandosi di vedere uomini forestieri, si ritirò nei castelli e serrò le porte, ricusando di dar loro acqua da bere, del che la carovana pativa molto; e i pozzi erano di dentro. Onde essi, doppo una leggier battaglia, presero i castelli e, provedutisi a bastanza d'acqua, se n'andarono al loro viaggio.


Alguechet.

Alguechet è una abitazione vicina ad Egitto centoventi miglia nel diserto di Libia, dove sono tre castelli, molte case e parecchie possessioni di datteri. Gli abitatori sono uomini negri e vili e avari, ma ricchi per esser fra Egitto e Gaogao. Hanno un capo a guisa di re, e nondimeno danno tributo agli Arabi loro vicini.


SETTIMA PARTE

Nella quale si tratta del paese de' negri, e nella fine dell'Egitto

Gli antichi nostri scrittori dell'Africa, come il Bichri, el Meshudi, non hanno scritto alcuna cosa del paese di negri, se non del Guechet e di Cano, percioché nel tempo loro non vi era notizia alcuna d'altri paesi di negri; ma nell'anno 380 di legira furono scoperti, e la causa fu questa, che allora Luntuna e tutto il popolo di Libia per causa d'un predicatore si fece maumettano, e venne ad abitare in la Barberia, e cominciò a praticare e aver cognizione di detti paesi. Tutti adunque questi paesi sono abitati da uomini che vivono a guisa di bestie, senza re, senza signore, senza republiche e senza governo e costume alcuno, e appena sanno seminare il grano. Il loro abito è di pelle di pecore, né alcuno ha propia o particolar moglie, ma vanno il giorno pascolando le bestie o lavorando i terreni, e la notte s'accompagnano insieme dieci o dodici uomini e donne in una capannetta, e ciascuno si giace con quella che piú gli piace, dormendo e riposando sopra qualche pelle di pecora. Non sogliono a niuno far guerra, né alcuno mette il piè fuori del suo paese. Alcuni adorano il sole, e se gli inchinano tosto che lo veggono spuntar fuori; altri riveriscono il fuoco, come il popolo di Gualata; e altri sono pure cristiani a guisa degli Egizii, cioè quelli della regione di Gaogao.
Giuseppe, re ed edificator di Marocco, del popolo di Luntuna, e i cinque popoli di Libia dominarono questi negri, e a loro insegnarono la legge di Macometto e l'arte necessarie al vivere, e molti di loro si fecero maumettani. Allora non pochi mercatanti di Barberia incominciarono andare ai detti paesi contrattando diverse mercatanzie, in modo che essi impararono la lingua; e i cinque popoli di Libia divisero fra loro tali paesi in quindici parti, e ogni parte risponde a un terzo dei detti popoli. Egli è vero che il presente re di Tombutto, Abubacr Izchia, è del popol negro: il quale, essendo fatto capitano di Soni Heli, re di Tombutto e Gago, della stirpe di Libia, doppo la morte del detto si ribellò contra i figliuoli e quelli fece morire, e tornò il dominio nei negri, acquistando in anni 15 appresso molti regni. E poi che ebbe reso pacifico e quieto il suo, gli venne disio di andar come pellegrino alla Mecca, nel quale pellegrinaggio spese tutti i suoi tesori e rimase debitore di centocinquantamila ducati.
Tutti questi quindici regni cogniti a noi s'estendono da un canto all'altro sopra il fiume Niger e sopra altri fiumicelli che entrano nel detto, e sono in mezzo de due lunghissimi diserti: uno è quello che incominciando da Numidia termina al sopradetto paese, l'altro dalla parte di mezzogiorno s'estende fino al mare Oceano, nei quali sono moltissime regioni, ma la piú parte a noi incognite, sí per lo lungo e difficile viaggio e sí per la diversità della lingua e della fede. E per questo loro non praticano con questi nostri cogniti, né manco li nostri con loro: pure si tiene qualche pratica con quelli che abitano sopra il mare Oceano.


Gualata regno.

Questo regno appresso gli altri regni è piccolo e di poca condizione, percioché altra abitazione non è in lui fuori che tre gran casali e certe altre capanne in alcune possessioni di datteri: questi casali sono discosti da Nun circa a trecento miglia verso mezzogiorno, da Tombutto circa a cinquecento verso tramontana, e dal mare Oceano circa a cento. I popoli di Libia, nel tempo che vi dominarono, qui fecero la real sedia, onde soleano venirci molti mercatanti della Barberia; ma quando vi regnò Heli, che fu un gran principe, essi abbandonarono questo viaggio e se n'andarono a Tombutto o a Gago, in modo che il detto signore è divenuto povero e impotente. Questa gente usa un certo linguaggio detto sungai, e sono uomini negrissimi e vili, ma molto piacevoli, massimamente con forestieri. A' nostri tempi il re di Tombutto prese questo regno, e il signore se ne fuggí nel diserto dove sono tutti li suoi parenti: il che vedendo detto re e dubitando che, partito che si fusse, il signor torneria con l'aiuto di quelli del diserto, s'accordò con lui che li pagasse una certa quantità di tributo, e cosí fino al presente è suo tributario. Il vivere e i costumi loro sono simili a quelli de' lor vicini abitanti ne' diserti. E nasce in questo paese poco grano, e questo è miglio e una altra sorte di grano tondo e bianco come ceci, che non se ne vede nell'Europa; di carne v'è grandissima carestia. Le donne e gli uomini usano similmente di portare i loro visi coperti. In questa lor abitazione non è civilità, né cortegiani, né giudici, ma vivono con gran miseria e povertà.


Ghinea regno.

Questo secondo regno è chiamato da' nostri mercatanti Gheneoa, dagli abitatori Genni, e da' Portogallesi e da alcun altro dell'Europa che ne abbia notizia è detto Ghinea. Confina col passato, ma pure c'è fra l'uno e l'altro circa a cinquecento miglia di spazio per lo diserto, e Gualata rimane verso tramontana, Tombutto verso levante e Melli verso mezzogiorno. Estendesi sopra il fiume Niger circa a dugentocinquanta miglia, e una parte è sul mare Oceano, cioè dove il Niger entra nel detto mare. È abbondantissimo d'orzo e riso, di animali, pesci e di bambagio, e molto guadagnano gli abitatori nel traffico delle tele bambagine, il quale fanno co' mercatanti di Barberia; ed essi allo incontro vi vendono molti panni d'Europa, rame, ottone, arme e cotai cose. La moneta di questi negri è oro non battuto e qualche pezzo di ferro, che spendono nelle cose di poco momento, come latte, pane, mele, del peso d'una libbra, di mezza e d'un quarto. In questo paese non è albero alcuno che faccia frutto, né meno si vede frutto d'alcuna sorte, fuor che datteri che si portano di Gualata o di Numidia. Né v'è città né castello, eccetto un gran casale, dove abita il signore, sacerdoti, dottori, mercatanti e gli uomini di stima. Tutte le case di costoro sono fatte a modo di capanne, ma investite di creta e coperte di paglia. Gli abitatori vestono assai bene, l'abito de' quali è panno di bambagio negro o azurro, del quale se ne cuoprono eziandio il capo; ma i sacerdoti e i dottori l'usano bianco. In fine questo casale per tre mesi dell'anno, cioè il luglio e lo agosto e il settembre, si rimane come un'isola, percioché il Niger allora cresce non altrimenti che faccia il Nilo. Nel qual tempo soglion venirci mercatanti da Tombutto, conducendo le loro merci in certe barchette molto strette, e fatte d'una metà d'albero cavato; tutto il giorno navigano, e la notte ligano le barche a canto la ripa e lor dormeno in terra.
Questo regno fu signoreggiato già da una famiglia della origine del popolo di Libia, ma nel tempo che Soni Heli re, il signor di questo regno divenne suo tributario; ma, privato che fu Soni Heli da Izchia suo successor, questo signor fu preso dal detto Izchia e tenuto in Gago fino alla morte, governando il regno con un suo locotenente.


Melli regno.

Melli s'estende sopra un ramo del Niger forse a trecento miglia, e confina da tramontana col superiore, da mezzogiorno col diserto e con certi aridi monti; da ponente confina con alcuni boschi selvaggi che giungono per insino al mare Oceano, e da levante col tenitoro di Gago. In questo paese è un grandissimo casale, il quale fa presso a seimila fuochi ed è detto Melli, onde è appellato tutto il resto del regno, e in questo abita il re e la sua corte. Il paese è abbondante di grano, di carne e di bambagio; si truovano nel casale moltissimi artigiani e mercatanti natii e forestieri, ma molto piú dal re sono accarezzati i forestieri. Gli abitatori sono ricchi per le mercatanzie che soglion fare, tenendo di molte cose fornite Ghinea, e Tombutto. Hanno molti tempii, sacerdoti e lettori, quali leggono nei tempii, perché non hanno collegii: e sono costoro i piú civili, i piú ingeniosi e i piú riputati di tutti i negri, percioché essi furono i primi che s'accostarono alla fede di Maumetto. In quel principio furono signoreggiati da un principal principe fra li popoli di Libia, ch'era zio di Giuseppe re di Marocco, e cosí durò la signoria in li suoi descendenti fino al tempo di Izchia, qual lo fece tributario, di modo che questo signore non può avanzare tanto che pasca la sua famiglia, per la gravezza che li vien data.


Tombutto regno.

Il nome di questo regno è moderno, detto dal nome d'una città che fu edificata da un re chiamato Mense Suleiman, gli anni di legira seicento e dieci, vicina a un ramo del Niger circa a dodici miglia, le cui case sono capanne fatte di pali, coperte di creta, coi cortivi di paglia. Ben v'è un tempio di pietre e di calcina fatto da uno eccellente maestro di Granata, e similmente un gran palazzo fatto dal medesimo artefice, nel quale alloggia il re. E in questa città sono molte botteghe di artigiani e mercatanti, e massimamente di tessitori di tele di bambagio; vengono ancora a lei panni d'Europa portati da mercatanti di Barberia. Le donne di questo usano ancora elle di coprirsi il viso, eccetto le schiave, le qual vendono tutte le cose che si mangiano; e gli abitatori sono persone ricchissime massimamente i forestieri che vi sogliono abitare, in tanto ch'el re d'oggi ha dato due sue figliuole per ispose a due fratelli mercatanti, mosso dalle ricchezze loro. Nella detta città sono eziandio molti pozzi d'acqua dolce, benché, quando cresce il Niger, ei se ne va per certi canali vicino alla città. V'è grandissima abbondanza di grani e di animali, onde il latte e il butiro è molto da loro frequentato; ma di sale v'è molta carestia, percioché è portato da Tegaza, discosta da Tombutto circa a cinquecento miglia. E io mi trovai a Tombutto una fiata che la soma del sale valse ottanta ducati.
Il re possiede gran ricchezza in piastre e verghe d'oro, delle quali alcuna è di peso di milletrecento libbre. La sua corte è molto ordinata e magnifica, e quando egli va da una città all'altra con li suoi cortigiani, cavalca sopra camelli e gli staffieri menano i cavalli a mano; e se va a combattere, essi legano i camelli e tutti i soldati cavalcano su cavalli. Qual volta alcuno vuol parlare a questo re, se gli inginocchia innanzi, e piglia del terreno e se lo sparge sopra il capo e giú per le spalle: e questa è la riverenza che se gli fa, ma da quelli solamente che non gli hanno piú parlato, o da qualche ambasciadore. Tiene egli circa a tremila cavalli e infiniti fanti, i quali portano cotai archi fatti di bastoni di finocchi salvatichi, usando di trar con quelli velenate saette. Suole ancora spesse volte far guerra co' vicini nimici e con quelli che non gli vogliono dar tributo, e avendo vittoria fa vendere in Tombutto per insino a' fanciulli presi nella battaglia.
Non nascono in questo paese cavalli, eccetto alcune piccole chinee, le quali sogliono cavalcare i mercatanti per loro viaggio, e anco qualche cortigiano per la città. Ma i buoni cavalli vengono di Barberia, e tosto che sono giunti con la carovana di Barberia, il re manda a scrivere il numero, e se passa a dodici, egli subito si elegge quello che piú gli piace e pagalo assai onestamente. È questo re nimicissimo di giudei, né vuole che niuno stanzi nella sua città: e s'egli intende che alcuno de' mercatanti di Barberia tenga con loro pratica o faccia alcun traffico, gli confisca i suoi beni. Sono nella detta città molti giudici, dottori e sacerdoti, tutti ben dal re salariati, e il re grandemente onora i letterati uomini. Vendonsi ancora molti libri scritti a mano che vengono di Barberia, e di questi si fa piú guadagno che del rimanente delle mercatanzie. Usasi in luogo di moneta spendere alcuni pezzi di puro e schietto oro, e nelle cose minime cotai concoline, o diciamo cocchiglie, recate di Persia, le quali s'apprezzano quattrocento al ducato; i ducati loro entrano sei e due terzi per una dell'oncie romane. Sono questi abitatori uomini di piacevol natura, e quasi di continovo hanno in costume di girsi, passate che sono le ventidue ore, fino ad una ora di notte, sonando e danzando per tutta la città; e i cittadini tengono a loro bisogne molte schiave e schiavi maschi. Questa città è molto sottoposta a' pericoli del fuoco, e nel secondo viaggio che io vi fui s'abbruciò quasi la metà in spazio di cinque ore. D'intorno non v'è giardino né luogo niuno fruttifero.


Cabra città.

Cabra è una città grande a modo d'un casale, senza mura d'intorno di niuna sorte, vicina a Tombutto circa a dodici miglia sopra il fiume Niger, dove s'imbarcano i mercatanti per andare a Ghinea e a Melli. Le case e gli abitatori sono simili alle case e agli abitatori detti di sopra. Quivi si truovano molte generazioni di negri, percioché è il porto dove essi vengono con le loro barchette da diversi luoghi. Il re di Tombutto manda in questa città un suo luogotenente, per accommodar li popoli dell'audienza e per levarsi questo fastidio d'andar dodici miglia per terra. E ne' tempi che io mi truovai ve n'era uno parente del re, chiamato Abu Bacr e per sopranome Pargama: era costui negrissimo uomo, ma valoroso d'intelletto e molto giusto. È la città danneggiata da spesse infermità, per cagione della qualità dei cibi che si mangiano, che sono pesci, latte, butiro e carne, tutti mescolati insieme. E da lei se ne vengono quasi la maggior parte delle vettovaglie che sono in Tombutto.


Gago e suo regno.

Gago è una grandissima città simile alla sopradetta, cioè senza mura, ed è discosta da Tombutto circa a quattrocento miglia verso mezzogiorno, e quasi inchina alla parte di silocco. Le case sono comunemente brutte; pure alcune ve ne ha assai apparenti e commode, nelle quali è l'albergo del re e della corte. Gli abitatori sono ricchi mercatanti, e vanno di continovo con le loro mercatanzie d'intorno. Vengono in lei infiniti negri, i quali vi portano grandissima quantità d'oro per comperar robbe che vengono di Barberia e di Europa: ma non ve ne truovano mai tante che supplischino alla quantità dell'oro, e ne portano indrieto sempre la metà o li duoi terzi. Questa città a comparazion dell'altre è molto civile, e vi è moltissima abbondanza di pane e di carne, ma vino o frutto non si può trovare; vero è che è abbondante di melloni, di cetrioli e di coccuccie perfettissime e riso infinito. Sonovi ancora molti pozzi d'acqua dolce. V'è una piazza dove il giorno del mercato si vendono infiniti schiavi, cosí maschi come femine, e una garzona di quindici anni è comperata per sei ducati, e per altretanti un fanciullo.
Il re tiene in un palazzo separato infinito numero di moglieri, di concubine, di schiave e d'eunuchi, i quali sono per guardia delle dette femine. Usa eziandio di tener buona guardia di cavalli e di fanteria con archi. E fra la porta publica e la segreta del suo palazzo è una gran piazza murata d'intorno, e da ciascuna parte è una loggia dove il detto re dà udienza: e come che egli in persona ispedisca quasi tutte le faccende, nondimeno ha molti uficiali, come sono secretari, consiglieri, capitani, tesorieri e fattori. L'entrata del regno è grande, ma piú grandi sono le spese, percioché un cavallo che vale nell'Europa dieci ducati quivi si vende quaranta e cinquanta; il piú tristo panno d'Europa si vende quattro ducati la canna, e il monachino è minimo ducati quindici, e il veneziano fino, come è lo scarlatto o il pavonazzo o il turchino, trenta ducati la canna; la piú trista spada vale similmente in questo paese tre e quattro ducati: cosí gli sproni, le briglie, e cosí parimente tutte le cose di merceria o di speziaria; ma il sale vale piú di ogni altra merce che vi si porta.
Il resto di questo regno è di villaggi e di casali, dove si stanno i lavoratori di terreno e quegli che vanno con le pecore, i quali il verno vestono di pelle di pecora e la state vanno ignudi e scalzi, se non che pur cuoprono le parti vergognose con un poco di pannicello, e alle volte portano sotto alla suola del piede cuoio di pelle di camello. Sono uomini ignorantissimi, e nello spazio di cento miglia a fatica si può trovare uno che sappia scrivere o leggere. Ma il re gli tratta come è il lor merito, percioché appena tanto gli lascia che si possino francar il vivere, per li gran tributi che li fa pagare.


Guber regno.

Questo è discosto da Gago circa a trecento miglia, verso levante, e fra questi due regni egli si va per un diserto, dove si truova poca acqua, per esser discosto dal Niger quasi quaranta miglia. E il detto regno fra altissimi monti, e sono in lui infiniti casali, ne' quali abitano guardiani di pecore e vaccari, percioché v'è gran numero di pecore e di buoi, ma di piccola statura. Le genti comunemente sono assai civili, e truovanvisi molti artigiani tessitori, massimamente calzolai, i quali fanno alcune scarpe simili a quelle che portavano anticamente i Romani, e di queste molte sono recate a Tombutto e a Gago. V'è eziandio gran quantità di miglio e riso e d'altri grani che io non ho veduto in Italia, ma credo che se ne truova di cotali in Ispagna. Quando cresce il Niger cuopre tutte le pianure vicine alle abitazioni di questo popolo, ed esso sopra l'acqua suole seminare il grano.
Fra le dette abitazioni è un grandissimo casale che fa seimila fuochi, nel quale abitano i mercatanti cosí del paese come forestieri. E quivi era già la stanza e la corte del re, il quale alla nostra età fu preso da Ischia re di Tombutto e fatto uccidere; i suoi piccoli figliuoli il detto Ischia fece similmente castrare, e messegli al servigio del suo palazzo. Cosí egli si fece padrone di questo regno e mandovvi governatore, aggravando molto la gente, la quale molto guadagnava di mercanzie, ma oggi è impoverita e mancatavi piú che la metà, percioché Ischia menò da questi paesi grandissima quantità di uomini, tenendogli in cattività e parte per ischiavi.


Agadez e suo regno.

Agadez è una città murata, edificata dai moderni re ne' confini di Libia, e questa città è quasi vicina alle città dei bianchi piú che alcun'altra dei negri, trattone fuori Gualata. Le case sono benissimo edificate, a modo delle case di Barberia, percioché gli abitatori sono quasi tutti mercatanti forestieri, e pochi sono paesani, e que' pochi sono tutti o artigiani o soldati del re della detta città. E ciascuno dei mercatanti tiene gran quantità di schiavi, per valersi dell'aiuto loro ne' passi da Cano a Borno, i quali sono infestati da diversi popoli del diserto, come da Zingani, poverissima e ladra gente. Vanno dunque i mercatanti con la compagnia degli schiavi, molto ben forniti di partigiane e di spade e d'archi, e oggidí hanno incominciato a usar balestre, di maniera che cotai ladri non possono far profitto. E subito che alcun mercatante è pervenuto a qualche città, mette i suoi schiavi a diversi lavori acciò si guadagnino il vivere, serbandone dieci o dodici alle bisogne della persona del mercatante e a guardia delle mercatanzie.
Il re della detta città tiene ancora egli buona guardia e un bel palazzo in mezzo della città, ma il suo esercito è degli abitatori della campagna e nelli diserti, percioché la sua origine è di quelli popoli di Libia. E alle volte questi scacciano il re e pongono qualche suo parente in luogo di lui, né usano amazzar alcuno, e quel che piú contenta gli abitatori del diserto è fatto re in Agadez. Il rimanente di questo regno, cioè quelli che abitano verso mezzogiorno, tutti attendono alle capre e vacche; le loro abitazioni sono di frasche o di stuore, che di continuo portano sopra buoi dove vanno e le pongono dove pascolano, come fanno anco gli Arabi. Riceve il re gran rendita delle gabelle che pagano le robbe de' forestieri, e anco di quello che nasce nel regno, ma paga di tributo al re di Tombutto circa a cento e cinquantamila ducati.


Cano.

Cano è una gran provincia discosta dal Niger circa a cinquecento miglia verso levante, dove sono molti popoli i quali abitano in casali e attendono alle pecore e alle vacche, e gli altri sono lavoratori di terra. Nasce in questa provincia assai grano e riso, e ancora gran copia di bambagio; vi si truovano per lei molti monti diserti pieni di boschi e di fonti, e ne' boschi sono molti alberi di melaranci e di limoni salvatichi, i quali tuttavia nel sapore sono poco differenti dai domestici. E nel mezzo della provincia è la città la quale gli dà il nome: è d'intorno murata di pali e di creta, e cotali sono le case. Gli abitatori sono civili artigiani e ricchi mercatanti, e il re loro fu un tempo molto possente, e teneva gran corte e molti cavalli, in modo che si feciono tributari al re di Zegzeg e al re di Casena. Ma Ischia re di Tombutto, fingendo di volere essere in aiuto dei detti due re, con inganno gli uccise e ottenne i loro regni. D'indi circa a tre anni mosse guerra a questo re di Cano, e per molto assedio lo indusse a tor per moglie una sua figliuola e a dargli ogni anno il terzo dell'entrata, lasciando in quel regno molti fattori e tesorieri per riscuotere la sua parte.


Casena e suo regno.

Casena è un regno vicino al sopradetto verso levante, dove sono assai monti, e i suoi terreni sono asperi ma buoni per orzo e miglio. Il popolo è negrissimo, e ciascuno ha il naso sconciamente grosso e parimente le labbra. Tutte le abitazioni di questo paese sono piccoli casali fatti a guisa di capanne, e tutti tristi, né v'è alcuno che passi trecento fuochi. Quivi è la povertà accompagnata con la viltà. Già fu bene il detto popolo dominato dal re, ma egli fu ucciso da Ischia e il popolo mezzo distrutto, e fecesi padrone del regno, come dicemmo di sopra.


Zegzeg e suo regno.

Questo è un paese che confina con Cano dalla parte di silocco, ma è discosto da Casena circa a centocinquanta miglia. È abitato da un ricco popolo, il quale in ogni luogo contratta mercatanzie. E una parte del paese è nel piano, un'altra nel monte: quella è molto calda e questa fredda, di maniera che gli abitatori, non potendo sofferir l'inverno, sogliono far nel battuto delle lor stanze alcuni gran focolari, nei quali accendono di molta bracia, e la pongono sotto le lor lettiere che sono alte, e cosí dormono. Nondimeno esso terreno è fruttifero e abbondante d'acqua e di grani; le case e i casali sono come i detti di sopra. Soleva aver questo paese un re che da per sé lo reggeva, ma fu ucciso dal sopradetto Ischia, il quale similmente si fece signore di questo regno.


Zanfara.

Zanfara è una regione che confina con la sopradetta dalla parte di levante, nella quale abitano molti vili e rozzi popoli. Il paese è abbondante di grano, di riso, di miglio e di bambagio. E sono i medesimi abitatori uomini di statura grandi, ma negrissimi sopra modo; hanno cotai faccie larghe e brutte, e partecipi piú della bestia che dell'uomo. Ischia avvelenò il re loro e distrussene una gran parte.


Guangara e suo regno.

Questa è una regione che di verso silocco confina con la sopradetta, dove abita gran popolo dominato da un re, il quale può avere settemila fanti con archi e circa a cinquecento cavalli forestieri, e cava grande entrata delle mercatanzie e gabelle. Tutte le abitazioni di lei sono casali di capanne, eccetto uno che è grande e piú bello degli altri. Gli abitatori sono molto ricchi, percioché vanno con loro mercatanzie in lontani paesi, e dalla parte di mezzogiorno confinano con certi paesi ne' quali si truova molta quantità d'oro. Come che oggidí il popolo non può esercitar la mercatanzia di fuori, percioché ha due possenti e fieri nimici: da ponente Ischia e da levante il re di Borno. E quando fui in Borno, il re, che si chiamava Abram, congregò tutto il suo esercito per venir adosso al re di Guangara, e come fu vicino al detto regno ebbe nuova che Homar, signor di Gaogao, veniva verso Borno, e fu astretto di tornarsene indrieto, che fu gran ventura al re di Guangara. Li mercanti di Guangara, quando vanno al paese dell'oro, convien che passino per alti e scabrosi monti, di maniera che non vi possono andar le bestie; ma essi fanno che i loro schiavi portano sopra la testa le mercatanzie e le cose lor necessarie in certe zucche secche, che sono larghe e grandi, e ciascuno schiavo può far di cammino dieci e piú miglia col carico in testa di cento libbre: e io n'ho veduti alcuni aver reiterato due volte in un giorno il viaggio. E non tengono capelli in cima del capo per li gravi pesi che usano di portare, che oltra le mercanzie portano le vettovaglie per li patroni e per tutti gli schiavi che vanno armati per custodia di mercatanti.


Borno e suo regno.

Borno è una gran provincia, la qual confina con Guangara dalla parte di ponente, e s'estende verso levante circa a cinquecento miglia, discosta dal capo donde nasce il Niger circa a centocinquanta miglia, e verso mezzogiorno confina col diserto di Seu, e da tramontana confina pure con li diserti che rispondono verso Barca. Questa provincia non è uguale di sito, percioché alcuni luoghi sono monti e alcune pianure. Nel piano sono molti casali abitati da gente civile e da mercanti forestieri negri e bianchi, dove sono terreni grassi per grani: e nel maggiore de' detti casali abita il re co' suoi soldati. I monti vengono abitati da guardatori di capre e buoi, e vi si semina eziandio pur miglio e alcuni altri grani a noi incogniti. E questi la state vanno ignudi con certe brache di cuoio, e il verno portano a torno pelle di pecore, e di quelle sono i loro letti. E sono uomini che non tengono fede alcuna, né cristiana né giudea né macomettana, ma stanno senza, a modo di bestie, tenendo le moglie e i figliuoli in comune. E secondo che io udi' raccontare da uno mercante, che fu longamente in questo paese e intendeva la loro lingua, essi non si pongono propii nomi come fanno le altre genti, ma se uno è di persona grande lo chiamano lungo, se piccolo corto, se è guercio guercio, e cosí somigliantemente da tutti gli altri accidenti e particolari.
La detta provincia è dominata da un potentissimo signore, che è pure della origine di Bardoa popolo di Libia, e tiene circa a tremila cavalli e di fanti quanto numero egli vuole, perché tutto il popolo è in suo servizio e lo mena dove gli piace; non gli dà gravezza alcuna, se non della decima delli frutti della terra. Questo re non ha altra intrata se non il robbare e assassinare i loro vicini che li sono inimici, e abitano oltra il diserto di Seu, e sono infiniti, li quali anticamente passavan detto diserto a piedi e rubavan tutto il regno di Borno. Ma questo re, avendo fatto venir mercatanti di Barberia a condur li cavalli, li quali barattano per schiavi, e hanno per ciascun cavallo 15 e vinti schiavi, in questo modo mette ordine di correr contra li loro inimici, e fa aspettar li mercatanti fin che 'l ritorni, li quali qualche fiata stanno due e tre mesi ad aspettare: e in questo tempo hanno sempre le spese dal re, qual, quando torna dalla correria, alle volte mena quantità sufficiente per pagar li mercatanti, e alle volte bisogna che li mercatanti aspettino l'anno futuro, non avendo schiavi da pagarli, perché non può fare questa correria senza pericolo se non una volta l'anno. Quando io fui in questo regno, vi trovai molti mercatanti disperati che volevan lasciar la pratica di mai piú tornarvi, essendo stati un anno ad aspettar il pagamento. E tutta volta il re dimostra esser ricco e possessore d'un infinito tesoro, percioché io ho veduto tutti i fornimenti dei suoi cavalli, come sono staffe, sproni, briglie e morsi, tutti d'oro, e le scodelle e catini nei quali egli mangia e bee similmente per la maggior parte esser d'oro, cosí le catene dei cani del re tutte di finissimo oro: nondimeno egli, come s'è detto, è avarissimo, e dà piú volentieri in pagamento schiavi che oro. Sono a questo re di Borno molti regni di negri e bianchi soggetti, dei quali per non aver particolar notizia, essendovi stato se non un mese, non posso scrivere altramente.


Gaogà e suo regno.

Gaogà è una provincia che confina con Borno da ponente e s'estende verso levante insino a' confini del regno di Nubia, il quale è sopra il Nilo; da mezzogiorno termina in un diserto, che confina pure con un certo giro che fa il Nilo, e da tramontana confina con i diserti di Serta e a' piedi di Egitto; e s'estende da ponente a levante circa a cinquecento miglia e quasi per larghezza altretanto. Né in lui è civilità, né perizia di lettere, né governo: gli abitatori sono piú tosto uomini senza intelletto che no, massimamente quei che abitano ne' monti, i quali vanno la state nudi e scalzi, eccetto che pur cuoprono le vergogne con certe mutande di cuoio. Le lor case sono capanne di frasche, le quali le piú volte leggermente per ogni piccolo vento s'abbruciano; hanno gran copia di pecore e di buoi, e alla lor cura attendono.
Vissero costoro gran tempo in libertà, ma da cento anni in qua gliela tolse uno schiavo negro del detto paese, il quale essendovi menato da un suo padrone ricchissimo mercatante, egli come si vidde vicino al suo terreno uccise il padrone, mentre che colui senza sospetto dormiva, e con le facultà sue, le quali erano molte some di panni e d'arme, se ne tornò qui a casa sua, compartendo il tutto co' suoi parenti e amici. E avendo comperati alcuni cavalli da mercanti bianchi, incominciò a far correrie nel terreno de' nimici, onde che sempre ne riportava vettoria, perché egli e li suoi avean arme, ma non gli nimici, se non alcuni archi mal fatti di legno. E guadagnando molti schiavi, quali barattava per cavalli che venivan d'Egitto, e accrescendo il numero de' suoi soldati, era ubbidito da tutti a guisa di lor capo e signore. Doppo la cui morte successe il figliuolo, non men prode e ardito del padre, il quale dominò quaranta anni, e doppo lui un suo fratello detto Mosè, e finalmente un suo nepote chiamato Homara, che oggidí regna. Costui allargò molto la signoria, e con presenti e amorevolezze acquistò l'amicizia e benivolenza del soldano del Cairo, quale li manda arme, panni, cavalli; e li paga il doppio per esser liberale, in tanto che i mercatanti di Egitto non vanno piú oltra se non alla sua corte, e molti poveri del Cairo lo vanno a trovare portandoli qualche presente che sia bello e raro, e costui gli remunera il doppio, di modo che ciascuno da lui si diparte mirabilmente sodisfatto; fa grande onore agli uomini dotti, e massimamente a quelli della casa di Macometto. Io mi trovai presente a tempo che un uomo nobile di Damiata appresentò a questo re un bellissimo cavallo, una spada turchesca, una camicia di maglia, uno schioppo e certi altri belli specchi e pettini, corone di coralli e alcuni coltelli: le quai tutte cose potevano valere nel Cairo centocinquanta ducati. Il re all'incontro donò a colui cinque schiavi, cinque camelli e cinquecento ducati della loro moneta, e appresso cento denti grossissimi di elefante.


Nubia e suo regno.

Il regno di Nubia dalla parte di ponente col sopradetto confina, cioè con i suo' diserti, ma estendesi sopra il Nilo; da mezzogiorno confina col diserto di Goran, e da tramontana coi terreni di Egitto. Dal detto regno non si può navigare ad Egitto, percioché l'acqua del Nilo, spargendosi per certe pianure, è tanto bassa che gli uomini e le bestie vi passano a guazzo. In questo regno è una principale città chiamata Dangala, la quale è molto bene abitata e fa circa a diecimila fuochi, ma le case sono tutte triste, fabbricate con creta e pali. Gli abitatori sono uomini molto ricchi e civili, perché fanno mercatanzie nel Cairo e in tutti i luoghi d'Egitto, d'arme, di panni e di diverse altre merce. Nel rimanente del regno sono casali sopra il Nilo abitati dai lavoratori dei terreni, ed è per tutta Nubia grande abbondanza di grano e di zucchero, ma non lo sanno cuocere, in modo che esso divien negro e brutto. Si truova ancora in Dangala molto zibetto e legno di sandolo, e gran quantità d'avorio, percioché vi si prendono molti elefanti. Si truovano eziandio veleni acutissimi, un grano de' quali, partito fra 10 uomini, gli fa morire nello spazio d'un quarto d'ora, ma preso per un solo muore subitamente: e val ducati cento l'oncia. E questo veleno non si vende se non a forestieri, con sicurtà e giuramento che essi non l'abbiano a usare ne' loro paesi, e chi lo compera paga altretanto di dazio al signore quanto fu il prezzo del veleno, onde niuno lo può vender segretamente, sotto la pena della vita.
Il re di Nubia sempre è in guerra, ora con quei di Goran, che sono una generazione di Zingani, i quali rozzamente abitano nel diserto, e niuno intende il lor linguaggio; ora è in fatto d'arme con un'altra sorte di gente, la quale alberga nel diserto oltra il Nilo verso levante, e tende fino al mar Rosso verso i confini di Suachin: e ha questa gente una cotal lingua mescolata al mio giudicio con la caldea, e molto si conforma con quella di Suachin e dell'alta Etiopia, dove è la stanza del Prete Gianni; e questa generazione è detta Bugiha. Sono uomini vili, disarmati, poveri, e vivono di latte di camello, della carne del detto e delle fiere salvatiche; alcuna fiata riscuotono qualche tributo dal signore di Suachin o dal signore di Dangala, e solevan avere una città grossa sopra il mar Rosso chiamata Zibid, dove è un porto che dirittamente risponde al porto del Zidem, il quale è vicino alla Mecca quaranta miglia. Ma da cento anni in qua, per cagione che costoro rubbarono una carovana che portava robba e vettovaglia alla Mecca, il soldano si sdegnò e mandò un'armata pel mar Rosso, la quale assediò e disfece la detta città e il porto de Zibid, che dava loro d'entrata dugentomila saraffi. Allora quelli che fuggirono incominciarono a girsene a Dangala e Suachin, qualche piccola cosa guadagnando. Ma dipoi il signor di Suachin, col favor di certi Turchi armati di schioppi e d'archi, gli dette una gran rotta, percioché in una giornata ammazzarono, di questa canaglia che andava nuda, piú che quattromila persone, e mille ne menarono vivi a Suachin, i quali furono uccisi dalle femine e da' fanciulli.
Questo è quanto brevemente ho potuto scrivere del paese de' negri, de' quali piú particolare informazione dare non si può, percioché ciascuno dei quindici regni è all'altro conforme, sí di sito come di civilità, costume e ordine di vivere, e signoreggiati da quattro signori. Ora io seguiterò dell'Egitto.


OTTAVA PARTE

Dell'Egitto.

Egitto, famosissima provincia, termina da ponente ne' diserti di Barca, Numidia e ancor di Libia; da oriente termina e confina ne' diserti che sono fra Egitto e il mare Rosso, da tramontana nel Mediterraneo, e da mezzogiorno confina pure col terreno e abitazioni di Buggia sopra il Nilo. Estendesi per lunghezza dal Mediterraneo fino al paese di Buggia circa a quattrocentocinquanta miglia; di larghezza ha quasi niente, percioché altro non v'è che quel poco di terreno che è sopra le rive del Nilo, il quale corre fra alcuni monti secchi che confinano coi sopradetti diserti, e tanto è di culto e di abitato quanto è dalle rive del fiume ai detti monti. Vero è ch'è qualche poco larga verso il mare Mediterraneo, percioché il Nilo, di là dal Cairo circa a ottanta miglia, si divide in due parti e fa un ramo che entra piú verso ponente, e pure ritorna al primiero ramo di donde è nato; e passato el Cairo circa sessanta miglia, si divide in altre due: l'una ne va a Rosetto e l'altra a Damiata. Da quella che va a Damiata deriva un altro ramo, il quale si converte in un lago; pure vi rimane una goletta che congionge il mare col lago, e sopra quella è Tenesse, antichissima città. Da questa divisione del Nilo in piú parti procede, come abbiamo detto, qualche poca di larghezza. Tutta questa provincia è piana e fertile di grani e di legumi, e vi sono buonissimi pascoli per gli animali e infiniti polli e oche.
Gli uomini del paese sono quasi tutti di color bruno, ma gli abitatori delle città sono bianchi, i quali vanno comunemente tutti in buono abito: questo è stretto, cucito nel petto, e d'indi aperto insino a' piedi; hanno le maniche similmente strette, e nel capo usano dolopani grandi sopra certi invogli tondi, fatti di ciambellotto. Portano ne' piedi alcuni calciamenti all'antica, e pochi costumano di portare scarpe, ma non le calzano tutte, anzi portano la parte di dietro piegata sotto il calcagno. La state usano panni di tela bambagina lavorati di diversi colori, e il verno cotai drappi pieni di bambagio, i quali chiamano chebre; e i grandi cittadini e mercanti vestono di panni della Europa. Sono uomini da bene, piacevoli e piú tosto liberali che altramente. Frequentano molto nel loro cibo latte e cacio fresco, ma il latte lo mangiano agro e duro per certi loro artificii, e nel cacio pongano assai sale: e uno forestiero non avvezzo non può gustare quel che a loro è suavissimo; e quasi in tutte le minestre usano di porre del detto latte agro.

Divisione della detta provincia.

A' tempi nostri, il che è dapoi che maumettani incominciarono a dominar la detta provincia, fu l'Egitto diviso in tre parti: cioè dal Cairo fino a Rosetto, e chiamata la riviera di Errif; dal Cairo in su fino a' confini di Buggia, detta Assahid, cioè terreno; e la parte che è sopra il ramo che va a Damiata e a Tenesse dicono el Bechria, cioè maremma. Tutte queste tre parti sono abbondantissime e fertili, ma Sahid è molto piú copiosa di grani, di legumi, d'animali, di polli e di lino; Errif è piú abbondevole di frutti e riso; la maremma di bambagio e di zucchero, d'alcuni altri frutti detti el maus, cioè muse. Gli abitatori di Errif e di maremma sono piú civili di quelli di Sahid, percioché queste due parti, per esser vicine al mare, sono molto piú frequentate da forestieri di Barberia, d'Europa e di Assiria; ma quelli di Sahid sono dentro fra terra, né mai veggono forestieri, percioché sono di là dal Cairo, dove non sogliono andar forestieri, eccetto alcuni d'Etiopia.


Origine e generazion de Egizii.

Gli Egizii, sí come scrive Mosè, sono della origine di Mesrain figliuolo di Cus, figliuolo di Cam, che fu figliuolo di Noè; e gli Ebrei chiamano la regione e gli abitatori con un medesimo vocabolo, il quale è Mesrain. Cosí medesimamente gli Arabi dicono a tutto il paese Mesre, ma gli abitatori appellano el Chibth, e dicono che Chibth fu uno che primo incominciò a dominare il detto paese e a fabbricarvi case. E i detti abitatori fra lor medesimi parimente cosí si chiamano, né altri vi sono rimasi veri Egizii che quei cristiani che ci sono ora; gli altri tutti s'accostarono alla fede di Maumetto, e s'accompagnarono con gli Arabi e con gli Africani.
Questo regno restò molti anni sotto il dominio degli Egizii, cioè de' faraoni, che furono potentissimi e grandissimi, come ne fanno testimonio li vestigii di cosí superbi e admirabili edificii, e ancora l'istorie ne parlano, e delli re Ptolemei. Dipoi fu soggiogato da' Romani, e doppo l'avvenimento di Iesú Cristo gli Egizii divennero cristiani, e il regno rimase pur sotto l'imperio romano. E mancato questo imperio, fu trasferito all'imperio di Costantinopoli, e molto ebbero caro quegli imperadori di mantener cotal regno. Infine, doppo la pestilente venuta di Maumetto, il detto regno fu preso da' maumettani: preselo Hamr figliuolo di Hasi, capitano d'un esercito arabo di Homar, secondo pontefice. Costui lasciò ciascuno nella sua fede, né altro vi volle che il tributo, e fabbricò sul Nilo una piccola città, detta fra gli Arabi Fustato, che nella lor lingua "padiglione" significa, percioché quando egli venne a questa impresa trovò quei luoghi tutti disabitati e inculti, di maniera che alloggiò ne' padiglioni. Il volgo appella questa città Mesre Hatichi, cioè città vecchia, percioché ella a comparazione del Cairo, che è nuovo, si può cosí dire.
Molti eccellenti uomini d'oggidí, cosí maumettani come cristiani e giudei, s'ingannano a credere che la detta Mesre sia quella dove abitò Faraone di Mosè e Faraone di Giuseppe, percioché la città di Faraone è nella parte d'Africa, cioè dove è il passo del Nilo verso ponente e dove sono le piramidi. E quasi la Scrittura testimonia questo nel libro della Generazione, quando ella fa menzione che li giudei furono adoperati nella fabbrica di Apthun, città edificata da Faraon nel tempo di Mosè, pur nella parte dove il Nilo passa verso l'Africa, discosta dal Cairo circa a cinquanta miglia verso mezzogiorno, sopra quel ramo del Nilo il quale abbiamo detto che piú entra verso ponente. V'è un altro testimonio che la città di Faraon fosse dove io dico, percioché su l'entrar d'un ramo del Nilo nell'altro è un edificio antichissimo, il quale è detto la sepoltura di Giuseppe, dove egli fu sepolto prima che gli Ebrei lo portassero di Egitto alle sepolture de' suoi antichi. Adunque el Cairo e tutti li suoi vicini luochi non hanno da fare cosa alcuna con le terre degli antichi faraoni. Ed è da sapere che la nobiltà degli antichi Egizii soleva essere verso Sahid dal Cairo in su, in le città dette el Fium, Manf, Ichmim, e in altre città famose; ma dapoi che 'l regno fu occupato da' Romani, tutto il fiore si ridusse verso Errif, cioè alla riviera del mare dove è Alessandria e Rosetto, e fin ora si truovano molte città e luoghi che hanno nome latino. E ancora, nel traslatar dell'imperio di Roma in Grecia, la detta nobilità si ristrinse sempre verso la maremma, e il locotenente dello imperadore soleva far residenza in Alessandria. Ma quando vi vennero gli eserciti maumettani, si fermarono quasi in mezzo del regno, pensando di partorir in un medesimo tempo due buonissimi effetti: l'uno di pacificare il regno dalle due parti, l'altro d'esser sicuri dagli assalti de' cristiani, dei quali potevano molto temere se fossero nella maremma.


Qualità e accidenti dell'aere di Egitto.

L'aere è molto nocivo e caldissimo, e mai in quella regione non piove se non alcune rare volte: e allora le pioggie sono cagione di molte infermità, percioché alcuni sono molestati da febbre e catarro, ad altri si gonfiano i testicoli di maniera che è maravigliosa cosa a vedere, e i medici ne fanno la colpa al cacio salato e alla carne di buffolo che si mangiano. La state pel soverchio calore il paese s'abbrucia, di modo che per riparo di ciò per tutte le cittadi si suol fare alcune torri alte, che hanno un uscio nella sommità e un altro a' piedi, che risponde agli alberghi delle case, e dal capo di quelle torri entra il vento, il quale uscendo dalla parte di sotto rende pure alquanto di fresco: altrimente non si potrebbe vivere per lo insopportabil caldo. Alle volte vi viene la peste, la quale uccide infinite persone, massimamente nel Cairo, nella qual città alcune volte muoiono il dí dodicimila persone; e da mal franzese non credo che altra parte del mondo abbia ricevuto tanto danno quanto questo paese, e veggonsi nel Cairo non pochi storpiati e guasti da cotal morbo.
Quivi si taglia il grano il principio di aprile, e una parte si batte pur di aprile e un'altra il maggio; ma prima che fornischino i venti giorni di maggio, non rimane alcun grano nella campagna. Il Nilo incomincia a crescere a mezzo giugno, e dura questo suo accrescimento quaranta giorni, e cosí il suo discrescere parimente altri quaranta. Onde fra questo spazio, che è di ottanta giorni, tutte le città e villaggi dell'Egitto paion isole, né si può andar da una villa all'altra se non con barche: ma allora egli s'ha commodità di poter caricare grossi burchi, de' quali alcuno porta sei o settemila moggia di grano, e insieme qualche centinaio di pecore; questi burchi non possono andar cosí carchi se non nel tempo del crescimento del Nilo e a seconda del fiume, perché a contrario dell'acqua a pena torneriano voti. Gli Egizii nel crescer del Nilo antiveggono assai bene quello che può valere il grano per tutto l'anno, come vi ragionerò dove si parla dell'isola del Nilo, scontro alla terra vecchia, dov'è la misura del Nilo. Quantunque non è mia intenzione di narrarvi di tutte le città d'Egitto, percioché gli scrittori nostri sono tra loro medesimi discordanti, e alcuni non vogliono che l'Egitto abbia parte in Africa, altri sono di contraria oppenione, e molti affermano quella parte la quale è verso il diserto di Barberia, di Numidia e di Libia, esser d'Africa. Non pochi tengono che tutta l'abitazione che è sopra il ramo principale del Nilo sia d'Africa e l'altra no, come è Manf, Fium, Semmenud, Damanhore, Berelles, Tenesse e Damiata: e questa è similmente l'oppenion mia per molti ragionevol respetti, e perciò non descriverò altre città che quelle le quali sono sopra il detto ramo.


Bosiri città.

Bosiri fu una città antica, edificata dagli Egizii sul mare Mediterraneo, discosta da Alessandria verso ponente circa a venti miglia. Soleva esser cinta di fortissime mura, ed era addorna di bellissime case. Ora d'intorno vi sono molte possessioni di datteri, ma non è alcuno che ve n'abbia cura, percioché, allora che fu Alessandria presa da' cristiani, gli abitatori lasciarono la loro città e fuggirono verso il lago che è detto el Buchaira.


Alessandria, gran città in Egitto.

La gran città d'Alessandria fu, come è noto, da Alessandro Magno edificata: edificolla non senza il consiglio di nobili e periti architetti, di forma bellissima e in bel sito, su la punta del mare Mediterraneo, discosta dal Nilo verso ponente quaranta miglia. Non è dubbio ch'ella fu nobile e di fortezza e di bellezza di palazzi e di case quanto alcun'altra ne fosse, e con una cotal fama si rimase gran tempo, per insino a tanto che venne in mano dei maumettani. Onde per molti anni andò scemando e perdendo della sua antica nobiltà, percioché non v'era mercatante niuno, o di Grecia o di Europa, che piú in lei praticasse, in modo che fu quasi disabitata. Ma uno astuto pontefice, maumettano, con colorita menzogna dicendo che Maumetto, in una sua profezia, avea lasciato di molte indulgenzie a' popoli abitatori di questa città, e a quelli che vi verranno stare qualche giorno per custodia, e a quelli che faranno elemosine, in poco tempo la riempié di abitazioni e di gente forestiere e d'ogni sorte, venute per la detta indulgenzia. Per le quali furon fabbricate molte case ne' torrioni delle mura della città, e molti collegi per scolari e studenti di lettere, e ancora molti monasteri per gli uomini religiosi venuti per devozione.
È la città di forma quadra, con quattro porte: l'una verso levante, alla parte del Nilo; l'altra verso mezzogiorno, al lago detto el Buchiara; la terza verso ponente, al lato del diserto di Barca; la quarta porta verso la marina, dove è il porto. E in questa stanno i guardiani e i ministri della dogana, i quali cercano per insino dentro alle mutande di chi vien per mare, percioché non pure della robba, ma dei danari, si paga un tanto per cento. E sono similmente due altre porte appresso le mura della città, l'una dall'altra separate con un corridore, e una fortissima rocca, la quale è sopra la bocca d'un porto chiamato Marsa el Borgi, cioè il porto della torre. A quello si riducono le navi piú nobili e di piú importante mercatanzia, come sono i legni de' Veneziani, de' Genovesi, de' Ragusei e d'altri navili d'Europa, percioché a questa città sogliono venire per insino a legni di Fiandra, d'Inghilterra, di Biscaglia, di Portogallo e di tutta la riviera d'Europa. Ma in molto maggior copia sono gli Italiani, massimamente Pugliesi e Siciliani; ancora le navi di Grecia, cioè turchesche, vengono insieme a questo porto, per esser piú sicuro da' corsali e dalla fortuna. V'è un altro porto chiamato Marsa Essil Sela, che tanto è a dire il porto della catena, nel quale si riducono i navili che vengono di Barberia, come sono quegli di Tunis, dell'isola del Gerbo e d'altri luoghi. I cristiani pagano di dogana quasi dieci per cento e i maumettani cinque, cosí nell'entrare come nell'uscire, ma delle mercatanzie che per terra si portano al Cairo non si paga gabella alcuna. Questo porto è oggidí la piú nobile e famosa parte che abbia la città, per esser vicino al Cairo, dove si vendono infinite merci e vi corrono mercatanti da tutte le parte del mondo.
Nell'altre cose in questa età ella invero non ha molta civilità, né gran numero d'abitazioni, percioché, trattone una lunga strada per cui si va dalla porta di levante a quella di ponente, e un canto che è vicino alla porta della marina, dove sono molte botteghe e fondachi dove alloggiano i cristiani, il resto è voto e distrutto. E ciò avvenne che, poscia che Lodovico quarto re di Francia fu liberato dalle mani del soldano, allora il re di Cipri insieme con certi legni de Veneziani e ancora de Francesi assaltorono all'improviso Alessandria, e la presero e saccheggiarono, e uccisero infiniti uomini. Ma, venutovi in persona il soldano con grande esercito a soccorrerla, veggendo che tenere non la potevano, acceso il fuoco nella città abbruciarono tutte le case, e cosí partendosi la lasciarono. Il soldano ristaurò le mura meglio che possette, e fece fabbricar la rocca che è sopra il porto, e a poco a poco la ridusse nell'essere in che ora la veggiamo.
Nella città è una montagna altissima, la quale somiglia a quella del Testaccio di Roma, nella quale si truovano molti antichi vasi e invero ella non ha sito naturale. Sopra la detta montagna è una torricella, su la quale di continovo sta uno che spia i legni che passano, e per ogni legno di cui egli dà notizia ai ministri della dogana ha un certo premio; e se 'l dorme over va a spasso, e che giunga qualche navilio che non abbia data la notizia agli uficiali, è condannato nel doppio: i quali sono diputati alla camera del soldano. Quasi tutte le case della città sono fabbricate sopra certe grandi cisterne fatte a volto, similmente sopra grosse colonne e archi, alle quai cisterne se ne viene l'acqua del Nilo, percioché quando ei cresce l'acqua va per un canale artificiosamente fatto per la pianura tra il Nilo e Alessandria, per insino a tanto che, passando sotto le mura della città, entra come abbiamo detto nelle dette cisterne. Ma in processo di tempo queste cisterne sono divenute torbide e fangose, di maniera che la state molti per cagion di quelle s'infermano. Cerca alla abbondanza, la città è posta in mezzo d'un diserto di arena, in modo che non v'è né terreno da seminare, né vite, né giardino alcuno, e il grano è condotto quaranta miglia di lontano. Egli è vero che appresso il canale per cui vien l'acqua del Nilo sono alcuni piccoli orticelli, ma i lor frutti sono piú tosto pestilenti che altrimente, percioché nel tempo che se ne mangia gli uomini per la piú parte sono offesi da febbre o da altro male.
Discosto da Alessandria forse a sei miglia verso ponente si truovano certi antichissimi edifici, fra' quali è una colonna grossissima e altissima, la quale nella lingua arabica è detta Hemadussaoar, che tanto vuol dire quanto la colonna degli alberi. E di questa raccontasi certa favola, la quale è che un Tolomeo re di Alessandria fece far la detta colonna per render la città sicura e inespugnabile dagli assalti dei suoi nimici, faccendo nel capo di quella porre un grande specchio di acciaio, il quale aveva cotale virtú, che tutti i legni che passavano vicini alla colonna a tempo che lo specchio fusse scoperto, subito miracolosamente ardevano. Perciò aveva egli fatto porre questa colonna sopra la bocca del porto. Ma dicesi che poi i maumettani guastarono lo specchio, onde esso perdé la virtú, e fecero portar via la colonna: cosa invero ridicolosa e da far credere a' fanciulli.
Sono ancora in Alessandria, fra i suoi antichi abitatori, molti di quei cristiani che sono detti giacobiti, i quali tengono una lor chiesa dove già era il corpo di san Marco evangelista, qual fu tolto nascosamente da Veneziani e a Venezia portato: e sono questi giacobiti tutti artigiani e mercanti, e pagano tributo al signor del Cairo. Non è da pretermettere che nel mezzo della città, fra le rovine che si veggono, è una piccola casa a modo di chiesetta, nella quale è una sepoltura molto onorata da' maumettani, percioché affermano in quella serbarsi il corpo d'Alessandro Magno, gran profeta e re, sí come essi leggono nell'Alcorano: e molti forestieri vengono di lontani paesi per vedere e riverir la detta sepoltura, lasciando a quel luogo grandi e spesse limosine. Molte altre cose notabili vi lascio di scrivere, per non crescer l'opera con fastidio e noia dei lettori.


Bocchir città.

Bocchir era una piccola e antica città edificata sul mare Mediterraneo, e discosta da Alessandria circa a otto miglia verso levante: ma a' nostri dí fu distrutta, e rimangono ancora molte vestigia delle sue mura. Sono, dove ella fu, molte possessioni di datteri de' quali si nutrisce certa povera gente, la quale abita in piccole e diserte capanne. C'è una torre sopra una piaggia pericolosa, nella quale molti navili di Soria che vengono di notte rompono, percioché arrivando di notte, non vi essendo alcuno che sappi entrar nel porto d'Alessandria, s'affermano sopra detta spiaggia. D'intorno la città non sono altri terreni che campagne d'arena per insino al Nilo.

Rasid, detto dagli italiani Rosetto.

Rosetto over Rasid è una città sopra il Nilo dalla parte d'Asia, discosta dal mare Mediterraneo tre miglia dove entra il Nilo nel detto mare. Fu edificata da uno schiavo d'un pontefice, il quale era luogotenente dell'Egitto. Ha di belle case e palazzi posti sopra il Nilo, e una gran piazza ripiena di diversi artigiani e mercanti; oltre a ciò un tempio bellissimo e allegro, che ha alcune delle sue porte verso la piazza e altre sul fiume, dove si discende per certe bellissime scale. Sotto il detto tempio è un porto, al quale si sogliono ridurre alcuni burchi che portano merci al Cairo. Ma la città non è cinta di mura, e ha piú tosto forma d'una gran villa che di città; e d'intorno sono molte case dove si suol batter il riso con certi artificii di legno, e credo che ciascun mese se ne purghino e nettino piú di tremila moggia. E fuori della detta città è un luogo, come un borgo, nel quale si tengono molti muli e asini a vettura per chi vuole andare in Alessandria, e l'uomo che gli piglia altra fatica non ha che di lasciargli andare alla diritta via, percioché essi lo portano per insino alla casa dove si ha a lasciar la bestia; e hanno cosí veloce portante che fanno quaranta miglia di cammino dalla mattina insino al vespro, sempre costeggiando per la marina, di maniera che alcuna volta l'onda del mare percuote ne' piedi della bestia. D'intorno alla città sono molte possessioni di datteri e terreni bonissimi per riso. Gli abitatori sono uomini domestici e piacevoli con forestieri, e con quegli che volentieri si danno buon tempo. Di dentro è una bellissima stufa, la quale ha in lei diversi fonti non meno freddi che caldi, e invero di bellezza e di commodità non è un'altra simile in tutto l'Egitto. Io fui in questa città nel tempo che Selim gran Turco passò per lei nel suo ritorno d'Alessandria, ed egli in persona, insieme con i suoi piú favoriti e cari, volle veder questa stufa e mostrò d'averne preso grandissimo piacere.


Anthius città.

Anthius è una bella città edificata da' Romani su la riva del Nilo nella parte d'Asia, e finora si veggono molte lettere latine intagliate sopra tavole di marmo. È civile e fornita di tutte l'arti, e le sue campagne sono buonissime per riso e per grano, e v'ha molte possessioni di datteri. Gli abitatori sono mirabili in bontà e piacevolezza; usano tutti di condur il riso al Cairo, e ne fanno un largo e ottimo guadagno.


Barnabal.

Barnabal è una città antica, edificata sopra il Nilo dalla parte d'Asia; fu fabbricata nel tempo che gli abitatori dell'Egitto divennero cristiani. È bellissima e abbondante, massimamente di riso, e si truovano nella città piú di quattrocento case dove il detto riso si batte, e i battitori sono uomini forestieri e per la maggior parte di Barberia, i quali si stanno quasi sempre nelle delicatezze e nelle lascivie, di modo che tutte le meretrici d'Egitto vengono per tal cagione alla detta città, le quai senza rasoio e forfice lor tagliano i capegli e gli radono insino sopra all'ossa.


Thebe città.

Thebe è una molto antica città edificata sopra il Nilo dalla parte di Barberia. Gli istorici sono tra loro differenti dell'edificatore: alcuni vogliono che ella fusse fabricata da Egizii, alcuni da Romani e altri da Greci, percioché fino al dí d'oggi si truovano in lei molti epitaffi, quale scritto con lettere latine, quale con greche e quale in lingua egizia. Questa città a' nostri tempi non fa piú che trecento fuochi, ma è ornata di belle case, abbondante di grano, di riso e di zucchero, e di alcuni altri frutti detti muse, che sono perfettissimi. E vi sono molti mercanti e artigiani, ma la piú parte degli abitatori coltivano i terreni. E chi va il giorno per la città altro quasi non vede che femmine, le quali certamente non sono men belle che piacevoli. E d'intorno alla città sono molte possessioni di datteri, intanto che non si può veder la città per insino che l'uomo non è appresso le mura. Sonvi eziandio molti giardini di uva, di fichi e di persiche, dei quai frutti gran quantità si porta al Cairo. Fuori ci sono molte vestigia d'anticaglie, di colonne, di epitaffii e di alcune mura fatte di grossissime e lavorate pietre, e mostra esservi stata una grandissima città, tante sono le rovine che si veggono.


Fuoa città.

Fuoa è una città antica edificata dagli Egizii sopra il Nilo dalla parte d'Asia, discosta da Rosetto circa a quarantacinque miglia verso mezzogiorno, bene abitata e civile e abbondantissima. Ha di belle botteghe di mercanzie e d'artigiani, ma le piazze sono strette. E gli abitatori amano la quiete e i piaceri, e le loro mogli hanno tanta libertà che elle si stanno il giorno dove piú gli piace, e la sera ritornano a casa senza niuna questione del marito. E fuori della città è una contrada, o vogliamo dir borgo, dove dimorano le meretrici, la quale è quasi una buona parte di lei. D'intorno sono assaissime possessioni di datteri, e una buona campagna per zucchero, e ancora medesimamente per grano; ma le canne di questo terreno non fanno buon zucchero, ma in luogo di zucchero producono certo mele come sapa, il quale s'adopera per tutto l'Egitto, percioché in lui suol trovarsi poco mele.


Gezirat Eddeheb, cioè l'isola dell'oro.

Gezirat Eddeheb è un'isola dirimpetto alla sopradetta città, ma in mezzo del Nilo. Ha il terreno alto, di modo che si truova nella detta isola ogni sorte di alberi fruttiferi, fuori che olive. In lei sono molti casali e bei palazzi, ma non si possono veder per la spessezza dei datteri e di altri alberi. Il terreno è buonissimo per zucchero e riso, e tutti gli abitatori attendono a lavorare il detto terreno, o a condur le loro robbe al Cairo.


Mechella.

Mechella è una città edificata a' nostri dí da maumettani sopra il Nilo nella parte d'Asia, cinta intorno di triste mura, la quale è benissimo abitata, ma la piú parte degli abitatori sono tessitori di tele o lavoratori di terreno. Sogliono tener grandissima quantità d'oche, e le vendono al Cairo. E intorno alla città sono terreni buoni per grani e lino. E dentro la città è poca civilità e poco intertenimento o pratica d'uomini.


Derotte città.

Derotte è una nobile città edificata al tempo de' Romani sopra il Nilo nella parte d'Africa, né ha alcune mura d'intorno. È bene abitata e adornata di belle case fatte con bellissima forma, e i suoi borghi sono larghi e ripieni di belle botteghe. Ha similmente un bel tempio, e gli abitatori sono ricchissimi, percioché hanno molti terreni di zuccheri: e il comune della città paga l'anno circa a centomila saraffi al soldano, per aver libertà di far detto zucchero. Hanno una grandissima stanza, la quale pare un castello, in cui sono i torcoli e le caldaie dove fanno e cuocono il zucchero, né mai ho veduto altrove tanto numero di lavoratori di cotal cosa: e intesi da uno ministro della comunità che si spende per ciascun giorno nei detti circa a dugento saraffi.


Mechellat Chais.

Mechellat Chais è una città moderna, edificata al tempo dei maumettani sul Nilo dalla parte d'Africa sopra un alto colle, e tutti i suoi terreni sono alti, in modo che le possessioni di questa città servono per vigne, percioché quando cresce il Nilo non può giugnere alle dette possessioni: e la città fornisce il Cairo d'uva fresca quasi per la metà della stagione. In lei è poca civilità, e gli abitatori sono per la maggior parte barcaruoli, percioché poco terreno hanno da coltivare.


La grandissima e mirabile città del Cairo.

Cairo, la cui fama risuona per tutto esser delle maggior e mirabili città che siano nel mondo. Ma io vi narrerò di parte in parte la sua forma e come ella sta, lasciando da parte le menzogne che in diversi luoghi si dicono. E per incominciar dal suo nome, dico il Cairo esser vocabolo arabico, ma corrotto nella comune lingua dell'Europa, percioché dirittamente è detto el Chahira, che tanto dinota quanto "coatrice". E fu questa città edificata a' tempi moderni da un ischiavo schiavone detto Gehoar el Chetib, sí come parmi di aver detto nella prima parte del libro. E vi affermo che 'l Cairo, cioè la città murata, fa circa a 8 mila fuochi, nella quale abitano gli uomini di maggior condizione, dove si vendono le ricchezze che vengono da ogni parte, e dove è il famosissimo tempio detto Gemih el Hashare, cioè il tempio illustre, il quale fu fabbricato dallo schiavo che fabbricò la città, il cui cognome era el Hazhare, cioè lo illustre, ed ebbe questo cognome dal pontefice suo padrone.
La detta città è edificata in una pianura, sotto un monte appellato el Mucattun, discosta dal Nilo circa a due miglia. È cinta di bellissime e forti mura, con bellissime porte ferrate, e le piú famose sono tre: una che è detta Babe Nansre, cioè la porta della vettoria, la quale è di verso levante e verso il diserto del mar Rosso; un'altra è chiamata Beb Zuaila, la quale va verso il Nilo e la città vecchia; e la terza s'appella Bebel Futuh, cioè la porta dei trionfi, la quale conduce verso un lago e certe altre campagne e possessioni. Questa città è ben fornita di artigiani e mercatanti d'ogni sorte, massimamente tutta la strada ch'è dalla porta di Nansre fino alla porta di Zuaila, dove è la maggior parte della nobiltà di lei. Per la detta strada sono alcuni collegi mirabili di grandezza e di bellezza, sí di edificio come di ornamenti, e sono eziandio molti tempii grandissimi e bellissimi, fra i quali è il tempio di Gemith Elhecim, terzo pontefice del Cairo scismatico. Vi sono ancora infiniti altri tempii grandi e famosi, ma non accade a narrarli ad uno per uno. Vi sono similmente molte stufe, fatte con bellissimo disegno di perfetta architettura. V'è una contrada chiamata Beinel Casrain, dove sono alcune botteghe nelle quali si vendono le vivande cotte, e sono circa a sessanta, fornite tutte di vasi di stagno. Ve ne sono certe altre nelle quali si vendono acque fatte d'ogni sorte di frutti, e queste acque sono nel vero molto delicate, onde tutti i nobili sogliono bere di quelle, e quei che le vendono le tengono in certi molto gentili vasi di vetro e di stagno, e molto gentilmente lavorati. Sono appresso altre botteghe dove si vendono confezioni fatte in buona e bella forma, e molto differenti da quelle che si sogliono vender per la Europa, le quali sono di due sorte, cioè di mele e di zucchero. Poi vi sono alcuni fruttaiuoli i quali vendono i frutti che vengono di Soria, come sono pere cotogne, melagrane e altri frutti che non nascono in Egitto. Fra queste hanno luogo diverse altre botteghe, nelle quali si vende pan fritto in olio, uove fritte e cacio fritto. Doppo queste botteghe è una contrada ripiena di diversi artigiani di nobile arte, e piú oltre è il nuovo collegio fatto dal soldano detto Ghauri, il quale fu ucciso nella guerra che fu tra lui e Selin imperador di Turchi. Doppo il collegio sono i fondachi dei panni, e in ogni fondaco sono infinite botteghe. Nel primo vendonsi alcune tele forestiere in tutta perfezione, come sono tele di Bahlabach, cioè le bambagine sottilissime oltr'a modo, e altre tele dette mosal, cioè de Ninou, le quali sono mirabili e di sottilezza e di fermezza, delle quali tutti i gran maestri e persone di riputazione fanno i lor camicioni e gli sciugatoi che portano sopra i dolopani. Oltr'a questi sono i fondachi ne' quali si vendono i piú nobili panni d'Italia, come sono rasi damaschini, velluti, taffettà, broccati e altri, a quai posso affermare di non aver veduto uguali in Italia, dove si fanno. Piú oltre sono i fondachi dei panni di lana, che vengono pure d'Europa, veneziani, fiorentini, fiandresi e d'ogni altro paese. Piú oltre si vendono i ciambellotti e cose tai.
E di mano in mano si giunge alla porta di Zuaila, dove similmente sono infiniti artigiani. Vicino a questa via maestra è un fondaco chiamato Canel Halili, dove alloggiano i mercanti persiani, il quale fondaco pare un palazzo d'un gran signore. È altissimo e fortissimo e fatto in tre solai, e a basso vi sono certe stanze dove li mercanti danno audienza e fanno li baratti di grosse mercanzie, percioché altri mercanti non stanziano in questo fondaco se non quegli che hanno grandissima facultà: e sono le loro merci spezie, gioie, tele indiane, come veli e tai cose. Da un'altra parte della sopradetta via è una contrada dove sono i mercatanti dei profumi, come è zibetto, muschio, ambracane e belzui, i quai odori sono in tanta copia che se tu domandi venticinque libbre di muschio te ne verran mostrate cento. Da un'altra parte della detta via è una contrada dove si vende la carta bella e liscia, e i medesimi che vendono la carta vendono similmente qualche rara e bella gioia, la quale è portata da una all'altra bottega da un sensale che grida il prezzo. Ancora in la detta via maestra vi è una contrata dove stanzano gli orefici, i quai sono giudei e maneggiono di gran ricchezza. Sono eziandio altre contrade in detta via di stracciaruoli, i quali rivendono gran quantità di belli e nobili panni de cittadini e d'uomini di gran stima: né questi sono gabbani né casacche né lenzuola, ma cose mirabili e d'incredibile prezzo, e io fra le altre vi viddi un padiglione tutto fatto ad ago e coperto tutto di sopra da una rete di perle, e dissemi colui che 'l vendeva che quelle perle pesavano quarantacinque libbre, e che 'l padiglione senza le perle fu venduto diecimilla saraffi. E ho veduto molte altre cose mirabili in dette botteghe, che sono simile di questi prezii grandi. È nella detta città un grande spedale, il quale fu edificato da Piperis primo soldano dei Mammalucchi, e ha d'entrata dugentomila saraffi. Ogni infermo può stare in questo spedale con ogni commodità e cura di medici e di ciò che gli fa bisogno per fin ch'ei guarisce; ma se aviene che egli vi muoia dentro, tutta la facultà è dello spedale.


Borgo detto Bebzuaila.

Beb Zuaila è un grandissimo borgo e fa circa a dodicimila fuochi. Incomincia dalle porte di Zuaila e s'estende verso ponente circa a un miglio e mezzo, verso mezzogiorno fino alla rocca del soldano, e verso tramontana circa un miglio fino al borgo chiamato Bede Elloch. E in questo borgo è quasi la medesima nobiltà ch'è nella città; molti hanno botteghe nel detto borgo e case nella città, e cosí per lo contrario. Vi sono molti tempii, monasteri e collegi, massimamente il famoso collegio fabbricato da Hesen soldano, il quale è di mirabil altezza di volti e forte di mura, in modo che tal volta si ribella uno soldano contra l'altro, e a quello di fuori li basta d'animo di fortificarsi nel detto collegio e dar la battaglia alla rocca del soldano, percioché detto collegio è vicino alla detta rocca mezzo tratto di balestra.


Borgo detto Gemeh Tailon.

Gemeh Tailon è un altro gran borgo, il quale confina col sopradetto dalla parte di levante, e s'estende verso ponente insino a certe rovine che sono verso la città vecchia. Il quale borgo fu edificato innanzi il Cairo da un certo Tailon, che fu schiavo o schiavon d'un pontefice di quei di Bagded, e fu locotenente d'Egitto, uomo savio e prudente. Costui lasciò l'abitazione della città vecchia e venne ad abitare in questo borgo, e fecevi fabbricare un grandissimo e mirabilissimo palazzo e un tempio di pari bellezza e grandezza, nel qual vi sono assaissimi artigiani e mercanti, e massime della Barberia.


Borgo detto Beb Elloch.

Beb Elloch è ancora egli un gran borgo, discosto dalle mura del Cairo circa a un miglio; fa circa a tremila fuochi, e sono in lui artigiani e mercanti d'ogni sorte. V'è una piazza grande, dove è un grandissimo palazzo e un mirabile collegio, edificato da un Mammalucco detto Iazbach, il quale fu consigliere d'uno antico soldano: e la piazza è chiamata dal suo nome Iazbachia. Alla qual piazza, poi che è fornita la orazione e la predica, ogni venerdí tutto il popolo del Cairo suol ridursi, percioché nel borgo sono molte cose disoneste, come le taverne e le femmine da partito. Vi si riducono similmente molti ciurmatori, massimamente di quegli che fanno ballare i camelli, gli asini e i cani, cosa in vero molto piacevole, come è dell'asino. Percioché alle volte uno di questi ciurmatori, come ha ballato un poco, parlando con lui gli dice che 'l soldano vuol far una gran fabbrica, perciò gli conviene adoperar tutti gli asini del Cairo per portare la calcina, le pietre e l'altre cose necessarie: allora lo asino subito si lascia cadere a terra e, rivolgendo i piedi al cielo, gonfia il ventre e serra gli occhi, non altrimenti che s'egli fusse morto. Intanto colui si lamenta coi circostanti di aver perduto il suo asino, e gli prega che l'aiutino ricomperarsene un altro; e raccolta la offerta ch'e' può, dice che essi non istimino che 'l suo asino sia morto, percioché il ghiotto, conoscendo la povertà del padrone, finge affine che con i presenti che gli vien fatti possa comperargli della biada. Poi, volto all'asino, gli dice ch'ei levi suso, ma quello non si movendo lo carica di piene e spesse bastonate, né perciò l'asino si muove punto. Onde egli ripiglia la favola e dice: "Signori, io voglio che sappiate che 'l soldano ha fatto bandire che domani tutto il popolo debba uscir fuori del Cairo per veder un suo trionfo, e comanda che tutte le gentil donne e le belle del Cairo cavalchino sopra belli asini, e diano lor mangiare orzo e bere buona acqua del Nilo". Né appena ha il ciurmatore fornito di dire tai parole, che l'asino salta in piede e brava e mostra grande allegrezza. Seguita poi il ciurmatore: "Egli è vero che 'l caporione della mia contrada mi ha dimandato in presto il mio galante asino per servirne una sua vecchia e brutta moglie". A queste parole l'asino, come avesse intelletto umano, piega gli orecchi e incomincia a gir zoppo, fingendo d'essere storpiato. Allora dice il maestro: "Adunque a te piacciono le giovani?" E l'asino chinando il capo pare che dica che sí. "Orsú, - segue colui, - qui ci sono molte giovani, dimostrami quale piú ti piace". L'asino corre fra il cerchio dove è qualche femmina che sta a riguardare, e scegliendo la piú onorevole, a quella se ne va e la tocca col capo. E tutti i presenti gridano con alta voce: "O la madonna dell'asino", per dar la baia a quella donna; a questo il ciurmatore, salito sopra il suo asino, se ne va altrove.
V'è un'altra sorte di ciurmatori, i quali tengono alcuni piccoli uccelletti legati a una cassetta fatta a modo d'una credenza, i quali uccelli col becco cavano fuori i bollettini delle sorti, sí di buono come di cattivo augurio, e quei che vogliono saper la lor ventura gettano un quattrino innanzi all'uccelletto, il quale lo piglia col becco e lo porta dentro la cassa, dipoi torna fuori recando nel medesimo becco un bollettino della risposta: e a me intravenne che mi toccò un bollettino di male, al qual io non detti mente, ma m'intravenne peggio di quello ch'era scritto. Vi sono diversi altri giuocatori di spada, di bastone, di braccia e di tai cose, e altri che cantano le battaglie successe fra gli Arabi e gli Egizii, nel tempo che gli Arabi acquistarono lo Egitto: e sono infinite le pazzie e favole che si cantano.


Borgo detto Bulach.

Bulach è un grandissimo borgo, discosto dalla città murata circa a due miglia; ma per tutta la strada si truovano case e mulini che macinano per forza di bestie. E questo borgo è antichissimo, edificato su la riva del Nilo; fa circa a quattromila fuochi, e sono in lui molti artigiani e mercanti, massimamente di grano, d'olio e di zucchero. Nel detto borgo sono eziandio di belli tempi, case e collegi di studenti, e bellissime sono le case fabbricate sopra il Nilo. Ed è un gran piacere mentre si sta sopra le finestre delle dette case a vedere i navili che vengono pel Nilo al porto del Cairo, che è in questo borgo: e tal volta l'uomo vede un migliaio di burchi nel detto porto, spezialmente alla stagione della raccolta del grano. E quivi si stanno i gabellieri diputati sopra le robbe che vengono di Alessandria e di Damiata, benché poco vi si paga, avendosi già pagato la dogana su la marina; ben è vero che le merci che vengono d'Egitto pagano intera gabella.


Borgo detto Charafa.

Charafa è un borgo a guisa d'una piccola città, vicino al monte una tirata di mano, e discosto dalla città murata circa a due miglia e dal Nilo circa a un miglio. Fa circa a duemila fuochi, e oggidí è quasi la metà distrutto. Si veggono in lui molte sepolture d'alcuni uomini, dallo sciocco volgo tenuti santi, le quali sono fatte in volti bellissimi e altissimi, e di dentro ornate di varii lavori e colori, e coperte in terra e le mura di tappeti finissimi: a queste ogni venerdí mattina molti vengono dal Cairo e dagli altri borghi per cagione di divozione, lasciandovi molte limosine, ogni venerdí.


La città vecchia detta Misrulhetich.

Misrulhetich è la prima città che fu edificata nell'Egitto al tempo dei maumettani, da Hamre, capitano di Homar secondo pontefice, la quale fu edificata sopra il Nilo. Non è cinta di mura, ma fatta a modo d'un gran borgo che s'estenda sul Nilo; fa circa a cinquemila fuochi. Sono in lei molti palazzi belli e alti, massimamente quelli che riguardano sopra il Nilo, e v'è un tempio molto nobile, detto il tempio di Hamr, il quale è stupendo sí di bellezza e di grandezza come di fortezza. Di artigiani di varie e di diverse arti la città è a bastanza fornita.
Quivi è quella famosa sepoltura della santa femmina, tanto dai maumettani riverita, chiamata santa Nafissa, la quale fu figliuola d'uno chiamato Zeinulhebidin, figliuolo del Husein figliuolo di Heli, fratello consobrino di Maumetto. Costei, veggendo la sua casa esser privata del pontificato dai medesimi suoi parenti, disperata si partí da Cufa, città nella Arabia Felice, e fece la sua abitazione in questa città, onde, tra per essere ella della casa di Maumetto, e tra perché assai onesta vita menava, doppo la sua morte fu dal volgo riputata santa. Perciò, nel tempo che regnarono nell'Egitto i pontefici eretici parenti di questa donna, fu a questa santa donna fabbricata una bellissima sepoltura, la quale si tiene oggidí adorna di lampade di argento, di tappeti di seta e di cose tai. E tanta è la fama di questa loro Nafissa, che non è maumettano, mercante o altro, che venghi al Cairo per mar o per terra, che non vadi a onorar la sua sepoltura, tutti faccendo le loro offerte; e il simil fanno tutti gli abitatori circonvicini, di maniera che queste limosine giungono l'anno a centomila saraffi, i quali sono dispensati a' poveri della casa di Maumetto e a quegli che hanno cura del governo della detta sepoltura, i quali ogni giorno con mentiti miracoli che fa quel corpo santo accendono gli animi de' semplici a vie maggior divozione, e piú all'allargar la mano nell'utile loro. Nell'entrata di Selin gran Turco nel Cairo, i ghiannizzeri saccheggiarono questa sepultura, e trovarono cinquecentomila saraffi che erano serbati in danari contanti, senza le lampade d'argento, le catene e i tappeti: egli è vero che Selin ve ne fece ritornare una gran parte. Quelli che hanno scritto le vite dei santi macomettani non fanno menzion alcuna di questa donna chiamata Nafissa, ma dicono che fu onesta e casta e nobile, della casa di Heli; ma il semplice volgo ha trovato questi tanti miracoli, e cosí quelli che serveno a quel maledetto sepolcro.
Sopra il detto borgo, appresso il Nilo, è la dogana delle mercanzie che vengono da Sahid. Fuori della città murata sono belle e magnifiche sepolture dei soldani, fatte a guisa di volti grandi. E un soldano che fu a' tempi moderni fece fare un corridore fra due alti muri, il quale incomincia dalla porta della città e viene per insino al luogo dove sono le sepolture, e nei capi dei detti muri sono due torrioni altissimi, dove sta una guardia per li mercanti che vengono dal porto di monte Sinai. Discosto da queste sepolture circa a un miglio e mezzo sono i terreni chiamati Almathria, dove è il giardino dell'unico albore che produce il balsamo, percioché in tutto il mondo altra non v'è che questa sola pianta. Ella è piantata nel mezzo d'una fonte a modo d'un pozzo; non è molto grande, e le sue foglie sono come sono quelle della vite, ma piccole: e, come io ho udito dire, se l'acqua della fonte venisse meno la pianta si seccarebbe. Il giardino dove ella è è tutto cinto di forti mura, né vi si può andare se non per via di grandissimo favore, o con qualche dono ai guardiani.
In mezzo del Nilo, dirimpetto alla città vecchia, è un'isola detta el Michias, cioè la misura, perché si vede la misura segnata del Nilo, con il crescer del quale si sa l'abbondanza o la carestia che ha da esser nell'Egitto: ed è una sperienza che non erra già mai, trovata dagli antichi Egizii. La detta isola è bene abitata e fa circa a millecinquecento fuochi. Nel capo è un bellissimo palazzo, fabbricato da un soldano che fu a' dí nostri, e appresso un tempio assai grande e allegro, per esser sopra il fiume. Da uno de' lati c'è una stanza separata e serrata, nel cui mezzo sotto un scoperto è una fossa quadra, la quale ha di profondo diciotto braccia: e in una parte del profondo è un acquedutto, che va di sotto la terra e risponde alla riva del Nilo. In mezzo della fossa è piantata una colonna, divisa e segnata in altretante braccia quante è profonda la fossa, cioè 18: e quando il Nilo incomincia a crescere, che è alli 17 de giugno, entra di subito l'acqua del detto acquedutto e ne va alla fossa, e quivi alcun giorno crescerà due dita, altro tre e altro mezzo braccio. Onde a questa colonna vengono ogni dí gli uomini diputati e, veggendo quanto è cresciuto il Nilo, lo dicono a certi fanciulli che portano una tovaglia gialla sopra il capo per segno, i quali sono tenuti di publicar quella quantità per tutto il Cairo e per li suoi borghi, e pigliano presenti da tutti gli artigiani, mercanti e donne, ogni dí fin che il Nilo cresce. La sperienza è che, quando il fiume cresce a quindici braccia della colonna, è tutto quell'anno abbondantissimo; se sciema da quindici a dodici, sarà mediocre raccolta; e se giunge da dodici fino a dieci, dimostra che 'l grano dee valere dieci ducati il moggio. Ma se 'l detto fiume passa da quindici insino a diciotto, annunzia alcun danno per la moltitudine dell'acqua, e avanzando i diciotto è gran pericolo d'affogar tutte le abitazioni dell'Egitto: gli uficiali annonzian tal segno, e li fanciulli deputati vanno gridando: "O popolo, temete Iddio, perché l'acqua arriva alla summità degli argini che tengono il fiume". E allora il popolo si comincia a spaventare, e fanno orazioni ed elemosine.
E cosí il Nilo va crescendo per quaranta dí e altretanti va calando, di maniera che con tanto flusso d'acqua si truova qualche carestia di vettovaglie: perciò, fra questo crescer e dicrescere, ciascuno ha libertà di venderle come a lor piace; pur usano discrezione. Ma come sono passati li 80 giorni, il consolo della piazza limita il prezzo delle vettovaglie, massime del pane, la qual limitazion fa una volta sola l'anno, perché secondo il crescer del Nilo gli uficiali sanno li paesi che sono bene adacquati, e quelli che ne hanno di superchio, e quelli che mancano, secondo la diversità dell'altezze e bassezze delli loro terreni, e secondo quello fanno il prezzo del grano. E in capo di cotali giorni si fa una grandissima festa nel Cairo, con suoni, gridi e tante sorte strumenti che par che la città vadi sottosopra; e cadauna famiglia piglia un burchio, e lo adornano con panni finissimi e bellissimi tappeti, e portano seco carne d'ogni sorte in grande abbondanza e confezioni con bellissimi torchi di cera, e tutto il popolo si truova in barca, sollazzandosi secondo la loro qualità. E il soldano medesimo con tutti li suoi principali signori e uficiali vi viene, e se ne va ad un canale detto il maggior, ch'è murato, e il soldano piglia una scure in mano e rompe il muro, e li suoi primarii fanno il simile, di modo che, essendo rotta quella parte del muro che impediva l'acqua, subito il Nilo entra dentro con gran furia e va per il detto canale, e poi si parte per altri canali e passa per tutti li canali delli borghi e anco della città, in modo che quel giorno il Cairo è simile alla città di Venezia, che si può andare per barca per tutte le abitazioni e luoghi d'Egitto. E dura questa festa 7 dí e 7 notti, in modo che quello che un mercante o artigiano si guadagna in tutto l'anno, se lo spende in quella settimana in pasti, confezioni, torchi e profumi e musiche: e questa è una delle reliquie delle feste degli antichi Egizii.
Fuori del Cairo, nel confino del borgo di Bebzueila, è la rocca del soldano, edificata su la costa del monte Mochattan, la qual rocca è cinta di alte e forti mura, e ha d'intorno quivi belli e maravigliosi palazzi, che non si possono descriver perfettamente, i pavimenti dei quali sono di marmi di diversi colori e mirabilmente lavorati, e i cieli delle sommità sono tutti d'oro e di finissimi colori dipinti. Le finestre sono di vetro di varii colori, come ne veggiamo in alcuni luoghi d'Europa, e le porte sono di bellissimi legni intagliati con mirabili lavori, e adorne d'oro e di colori. E questi palazzi erano diputati quale per la propria famiglia del soldano, quale per la moglie, quale per le sue concubine, quale per gli eunuchi e quale per la guardia. E ve ne sono alcuni dove il soldano soleva fare i conviti publici, o dare udienza agli ambasciatori e mostrar la sua pompa con gran cerimonie, e altri per gli uficiali deputati al governo della sua corte. Ma tutti questi ordini al presente sono stati levati via e annichilati da Selim gran Turco.


Costume, abito e usanza degli abitatori del Cairo e de' suoi borghi.

Gli abitatori del Cairo sono comunemente uomini molto piacevoli, buoni compagni e di allegra vita, ma larghi nelle promesse e stretti ne' fatti. Sogliono esercitarsi nelle mercanzie e nelle arti, ma non si dipartono dal loro paese. Ci sono molti che attendono agli studii delle leggi, pochissimi a quegli dell'arti, e come che i collegi siano sempre pieni di scolari, poco nondimeno è sempre il numero di coloro che faccino profitto. Gli abitatori vanno ben vestiti nell'inverno con panni di lana e certe veste piene di bambagio; nella state con certi camicioni di tele sottili, e di sopra qualche altro abito di tela tessuta con seta vergata di colore, alcuni ciambellotti, e sopra il capo turbanti grandi di veli che vengono d'India. Le donne vestono riccamente e vanno molto superbe di gioie, le quali portano in certe ghirlande sopra la fronte e d'intorno al collo, e in capo alcune cuffie di gran prezzo strette e lunghe come un cannone alto un palmo. I lor drappi sono certe gonne d'ogni sorte di panno, con maniche strette e molto sottilmente lavorate e con bei ricami, d'intorno alle quali usano alcune lenzuola di finissima e liscia tela di bambagio, che viene recata d'India. Sopra la faccia portano un certo drappicino negro e sottilissimo, ma alquanto ha dell'aspretto e par fatto di capelli, sotto il quale esse veggono gli uomini, né possono essere da lor vedute. Ne' piedi portano borzacchini e certe scarpe bellissime alla turchesca. E tengono queste femmine tanta pompa e reputazione che niuna si degna di filare né di cucire né di cucinare, onde il marito convien comprar ogni cosa cotta dalli cuochi fuor di casa, e sono pochi quelli che faccino cuocere in casa, se non han gran famiglia. Hanno eziandio queste donne gran libertà e auttorità, percioché, come el marito è andato alla sua bottega, la donna si veste e si profuma con odori preziosi e va a spasso per la terra a visitar li suoi parenti o amici per parlar onestamente. E usano non cavalli ma asini, i quali hanno un portante suave e delicato come le chinee, percioché a questo i loro padroni gli avezzano, i quali gli tengono forniti di bellissimi drappi, e gli danno parimente a vettura a sí fatte donne, aggiuntovi un loro garzone per guida e istaffiere. E vi sono infinite persone che non anderebbono un quarto di miglio se non a cavallo.
In questa città, come in molte, vanno il dí infiniti uomini d'intorno vendendo diverse cose, come sono frutti, cacio, carne cruda e cotta e sí fatti cibi. Vi sono anco molti che portano sopra a camelli some di grossi utri pieni d'acqua, percioché la città, come io dissi, è discosta dal Nilo due buone miglia. Altri sono che portano un otre in collo molto ornato, con una cannella di ottone nelle braccia e in mano una tazza damaschina fatta con bei lavori, e va gridando l'acqua, e chi beve paga mezzo quattrino di quella moneta. Vanno eziandio per la città molti che vendono un numero infinito di polli, i quali sogliono dare a misura, percioché usano un modo mirabile a fargli nascere, il quale è che, pigliando uno di costoro mille uova e piú, le pone tutte insieme in certi fornelli fatti in molti solai, e nell'ultimo è un buco: sotto questi fornelli si suole fare un fuoco temperato, e in capo di sette giorni i polli cominciano a nascere in molta fretta. E questi maestri li raccogliono in certi vasi grandi e li vendono a misura, e usano di far certe misure senza fondo, quali pongono in la sporta del compratore e le empiono di polli piccolini, e come sono piene le alzano, e i polli rimangono senza votarli nella sporta. Questi compratori, dapoi che gli hanno allevati alquanti giorni, gli vanno vendendo per la città, e questi maestri che li fanno nascere pagano un gran dazio al soldano. Gli artigiani che vendono le cose da mangiare tengono le loro botteghe aperte insino a mezzanotte; gli altri tutti innanzi a ventitre ore le serrano, e vanno da un borgo all'altro pigliando diporto e sollazzo per la città.
Nel parlare sono i medesimi abitatori molto disonesti, e per tacer delle altre disonestà loro, non poche volte aviene che la moglie si lamenta al giudice che 'l marito non fa il convenevole uficio suo ogni notte, nei congiungimenti di Venere, onde spesso ne nascono le separazioni e il pigliare altri mariti, come si concede nella legge di Maumetto. Gli artigiani, quando aviene che alcun di lor mestiero faccia qualche bel lavoro nuovo e ingenioso, non mai piú veduto, vestono colui d'una casacca di broccato e lo menano per tutte le bottege, accompagnato da diversi sonatori, come se 'l trionfasse, e ciascuno gli dona qualche moneta. E io viddi un giorno uno condotto con tal suoni che andava trionfando per aver fatto una catena ad uno pulice, lo qual mostrava sopra una carta. Nelle altre cose i detti abitatori sono di poco animo, né tengono arme di sorte alcuna nelle lor case, e appena vi si truova un coltello per uso di tagliare il cacio. E se fanno alle volte quistione, giuocano di pugna, e gli correno i centenari di uomini a vedere, né si parteno fin che non hanno fatta la pace.
Il cibo piú usato è carne di buffolo e gran quantità di legumi, e quando mangiano, se la famiglia è poca, distendono un mantile corto e tondo, e se è molta lungo, come si usa nelle corti. Vi è una religione de mori che usano mangiar carne di cavallo, e come si storpia un cavallo, gli beccai di costoro lo comprano e ingrassato amazzano, e la carne sua si vende in furia: e questa tal religione è chiamata el chenefia. Li Turchi e Mammalucchi e la maggior parte dell'Asia sono di tal setta, e ancor che questa tal cosa sia lecita a' Turchi, pur non la usano di fare.
Nel Cairo e per tutto l'Egitto si truovano quattro religioni, una differente dall'altra in le cerimonie della legge spirituale, nelli consigli della civile e canonica: ma tutte hanno il suo fondamento sopra la scrittura macomettana, perché dovete sapere che anticamente furono quattro valenti e dotti uomini, quali con loro sottil ingegno trovorono modo di far terminar le cose particolari sotto le cose universali scritte da Macometto, e ognun di loro interpreta e tira la detta scrittura a suo proposito, per il che sono molto differenti nelle opinioni. Costoro, avendo acquistato gran credito per la somma existimazione che si faceva delle loro regole, furono capi e principio delle dette quattro religioni, di maniera che tutti li popoli macomettani seguitano la via dell'uno o dell'altro. E come hanno presa la opinion d'una di queste tal religioni, non possono lasciarla né accostarsi all'altra, se non sono uomini dotti e che intendino e cognoschino le ragioni.
Nella città del Cairo sono quattro che si chiamano capi di giudici, quali giudicano le cose d'importanza, e sotto questi quattro capi vi sono infiniti giudici, di sorte che per ogni contrada si truovano due o tre giudici per le cose di manco momento, e se un litigante è d'una religione e l'altro dell'altra, quello che cita e chiama prima il suo adversario al suo giudice, a quello si vanno; ma l'altro si può appellar poi ad un altro capo ordinato sopra li detti quattro capi di giudici, e questo capo è il giudice della religione chiamata essafichia, che ha suprema auttorità sopra li detti quattro capi e sopra tutti gli altri giudici. Se una persona d'una religione fa alcuna cosa proibita nella sua religione, il suo giudice lo castiga gravemente. Al medesimo modo sono li sacerdoti di dette religioni differenti fra loro, sí nel far l'orazione come in molte altre cose. e ancor che siano differenti queste quattro religioni, non però si portano odio over hanno inimicizia l'una con l'altra, e massimamente il volgo; ma gli uomini d'intelletto e che hanno studiato vengono spesso a parole, argomentando l'un con l'altro in cose particolari, volendo difender e provar che la regola del suo dottor, qual seguitano, sia la migliore. Ma non però possono dir male d'alcun delli sopradetti quattro dottori, perché sarian puniti gravemente di pena corporale. In la fede veramente tutti sono equali, perché tengono la via e regola del Hashari, capo di tutti li teologi, e la regola di costui si osserva per tutta l'Africa e per l'Asia, eccetto dove signoreggia il Sofi, che quelli popoli non osservano la detta regola del Hashari né alcuna delle quattro religioni, e per questo vengono reputati eretici. Lunga e fastidiosa cosa saria s'io volesse al presente esplicar le ragioni delle quali è processa tanta differenza de opinioni fra li detti quattro dottori; ma avendole io scritte in una mia opera molto longa sopra la fede e legge di Macometto, seguendo la dottrina del Malichi, che fu uomo di grande ingegno e dottrina nasciuto in la città de Medina Talnabi, dove è il corpo di Macometto, la qual dottrina è seguita da tutti gli abitanti l'Egitto, Soria e Arabia, però, se alcun si deletterà di saperne piú particolarità, legga detta mia opera, dove apieno sarà satisfatto.
Le pene che si danno a' malfattori sono gravi e crudeli, massimamente quelle che si danno nella corte. Chi rubba è impiccato, e chi fa un omicidio a tradimento ha la sua punizione in questa guisa: l'uno dei ministri del boia lo tiene per ambi e' piedi e l'altro lo piglia pel capo, e il giustiziere con una spada da due mani lo taglia in due parti. La parte dove è il capo esso dipoi subito pone sopra un focolare pieno di calcina viva: egli è cosa mirabile e spaventosa a dire che quel busto vive lo spazio d'un quarto d'ora, parlando sempre e rispondendo a chi gli dimanda. Gli assassini o rubelli si scorticano vivi, ed empiendo la pelle di crusca, la cuseno in modo che 'l pare un uomo, e quello posto sopra un camello lo menano per tutta la città, publicando il male che egli ha commesso.
E questa è la piú crudel giustizia ch'ho veduto pel mondo, percioché l'uomo assai pena a morire; ma se il carnefice giunge all'umbilico col ferro, egli di subito muore: ma non può ciò fare se non è di espresso ordine dei superiori. Quelli che sono nelle prigioni per cagione di debito, se essi non hanno da pagare, il capitano delle prigioni sodisfa al creditore in loro cambio e tiene quei miseri incarcerati, mandandogli ogni giorno, con le catene al collo e accompagnati da alcuni garzoni, per la città accattando limosina, la quale perviene in lui, lasciandogliene tanta parte che appena ei si può vivere miseramente. Vanno similmente per la città alcune donne vecchie gridando, né si sa quello che esse si dicano, ma il loro uficio è di tagliar la punta della cresta della natura delle femmine, cosa lor comandata da Maumetto, ma non osservata se non in Egitto e in Soria.


Come si crea il soldano, e l'ordine di gradi e ufici della sua corte.

La dignità e potenza del soldano già era grande e maravigliosa, ma fu privata da sultan Selin imperadore dei Turchi gli anni di Cristo, se io non m'inganno, MDXVII, e furon mutati tutti gli ordini e le regole dei soldani. Ma, per avermi io trovato nell'Egitto poco dipoi di questi mutamenti, nel quale fui tre viaggi, m'è parso convenevole della corte che tenevano i detti soldani dire alcuna cosa. Soleva essere eletto a questo grado e dignità di soldano un de' piú nobili Mammalucchi, e questi Mammalucchi erano tutti cristiani rubbati piccoli fanciulli da' Tartari nella provincia detta Circassia sopra il mar Maggiore e venduti in Caffa, di dove menati da mercanti al Cairo, erano comperati dal soldano, il quale, subito fatto loro rinegare il battesmo, gli faceva ammaestrare nelle lettere arabiche e nella lingua turchesca e nel mestiero dell'arme, onde essi di mano in mano salivano nei gradi e nelle degnità, per insino che pervenivano a questa maggioranza. Ma sí fatto costume, cioè che 'l soldano sia Mammalucco e schiavo, non si è servato se non da 250 anni in qua, cioè doppo che mancò la casa del valoroso Saladino, la cui fama è nota per tutto.
Nel tempo che l'ultimo re di Gierusalem voleva occupare il Cairo, qual già, per la imprudenza e viltà del califa over pontefice che solo il governava, era per farsi tributario, i dottori e giudici con consentimento del detto pontefice mandoron a chiamar un principe in Asia de una nazion detta Curdu, popolo che, come fanno gli Arabi, abitava ne' padiglioni, el qual principe si chiamava Azedudin, e un suo figliuolo, detto Saladin, volendo far un capitano general contra detto re di Gierusalem. Questo principe venne con cinquantamila cavalli, e ancora che Saladino fusse giovane, nondimeno per la gran valorosità che in lui si vedeva lo creorono capitano, con auttorità di riscuoter e spender tutte l'intrate dell'Egitto. Costui, ordinati li suoi eserciti, andò contro a' cristiani, de' quali ebbe presta vittoria, e scacciolli di Gierusalem e di tutta la Soria. Tornato dapoi al Cairo, si messe in animo di farsi signore, onde amazzò li capi delle due guardie del califa, le quali erano di due diverse nazioni, cioè de negri della Etiopia e di schiavoni, e questi capi governavan tutto lo stato. Il califa, vedendosi esser rimaso senza difesa, volse far attossicar il Saladino, ma lui, accortosene, lo fece morire e subito mandò a dar obedienza al califa di Bagadet, che era il vero. Allora il califa del Cairo, che era scismatico e aveva regnato 230 anni, mancò e restò solo il califa di Bagadet, ch'è il vero pontefice. Levato via questo scisma de' califi o vero pontefici, nacque discordia fra il soldan di Bagadet e il Saladino, qual si fece soldan del Cairo, percioché quel di Bagadet, qual è d'una nazion d'Asia e già il signore di Mazangran ed Evarizin, che sono due provincie sopra il fiume Ganges, pretendeva che 'l Cairo fusse suo; e volendoli far guerra fu intratenuto da' Tartari, i quali, venuti nel Corasan, gli erano molto molesti.
Dall'altra parte il Saladino dubitava che i cristiani venissero nella Soria per far vendetta dell'oltraggio da lui ricevuto, e le sue genti altre erano state uccise nelle guerre, altre tolte dalla pestilenza e altre erano ai maneggi e governi del regno: e di qui nacque la cagione che egli incominciò a comperar degli schiavi di Cercassia, che allora li re d'Armenia usavan di pigliar e mandar a vender nel Cairo, e li faceva renegar e imparar il mestiero dell'armi e la lingua turchesca, che era quella del Saladino, i quali schiavi accrebbero in valore e tanto numero, che egli si trovava di loro e buoni soldati ed espertissimi capitani e ministri di tutto il regno. Morto il Saladino, lo stato rimase nella sua casa centocinquanta anni, e i suoi successori servarono pure il costume di comperar de' detti schiavi, laonde, mancata la casa del soldano, gli schiavi elessero per loro signore e soldano un Mammalucco di molto pregio, il cui nome fu Peperis. E questa usanza dipoi sempre si tenne, di modo che 'l figliuolo del soldano non poteva ascender nella dignità, né meno un Mammalucco che non sia stato cristiano e dipoi rinegato, e che non sappia la lingua di Cercassia e la turchesca. E furono molti soldani che mandorono i suoi figliuoli piccoli in Cercassia per imparar quella lingua e costumi rustichi, acciò che fussero abili ad esser soldani, ma questo loro desiderio mai non ha avuto effetto, perché li Mammalucchi non hanno voluto consentire. Questo è il successo dell'istoria del regno de' Mammalucchi e dei lor principi chiamati soldani fino alli presenti tempi.


Eddaguadare.

Questa appresso il soldano era la seconda dignità, a cui egli dava auttorità di comandare, di rispondere, di dar gli ufici e rimovergli e ordinare, poco meno che la sua persona. E tiene una corte non molto differente da quella del soldano.


Amir cabir.

Cotesta era la terza dignità, e chi la possedeva era come un general capitano: faceva gli eserciti e gli moveva contra gli Arabi e nimici, ponendo castellani e governatori per le città, e aveva libertà di spendere i tesori in tutte le cose che gli parevano necessarie.


Nai bessan.

Questo era il quarto ministro, ed era nella Soria il vice soldano: amministrava quello stato, e riscoteva e spendeva l'entrate d'Assiria come gli piaceva. È vero che i castelli e le rocche erano tenute per castellani fatti dal soldano, e il detto ministro era obbligato di dare a esso soldano alquante migliaia di saraffi per qualunque anno.


Ostadar.

Il quinto era il maestro del palazzo del soldano, il quale aveva cura di tener la persona del soldano e la famiglia forniti di vettovaglie e di tutti gli ornamenti e cose necessarie. E sogliono li soldani metter qualche uomo vecchio delli suoi onorati, che l'abbi allevato da piccolo e sia virtuoso.


Amiri achor.

Il sesto teneva il carico di fornir la corte di cavalli e di camelli e dei lor fornimenti e vettovaglie, e compartivagli fra la famiglia della corte secondo la qualità e il grado di ciascuno.


Amiralf.

Questo settimo era tenuto da certi gran Mammalucchi, i quali erano sí come sono nell'Europa i colonnelli; ogniun di loro era capo di mille Mammalucchi, e sono molti, e questi avevano auttorità d'ordinar le battaglie e trattar l'arme del soldano.


Amirmia.

Nell'ottavo erano alcuni, ciascun de' quali soprastava a cento Mammalucchi; e quando cavalcava il soldano sempre gli andavano d'intorno, cosí quando egli faceva alcun fatto d'arme.


Chazendare.

Nel nono era il tesoriere, il quale teneva il conto dell'entrate del regno, riscotevale e assegnavale al soldano; e metteva in mano di banchieri quel danaio che si dovea spendere, il resto teneva nella rocca del soldano.


Amirsileh.

Costui nel decimo grado aveva cura dell'arme del soldano, delle quali n'era guardiano, e tenevale serrate in una gran sala, faccendole pulire e rinovare secondo il bisogno; e per governo delle dette arme lo servivano molti Mammalucchi.


Testecana.

Questo testecana nell'undecimo grado aveva carico di governar le vesti del soldan, consegnate a lui dal maestro del palazzo, e dispensavale secondo l'ordine del signore, percioché il soldano soleva vestir ciascuno a cui dava dignità: le vesti erano di broccato o di velluto o di raso. E costui per strada sempre andava accompagnato da molti Mammalucchi.
V'erano altri ufici, come serbedare, ch'era uno che aveva la cura del bere del soldano, tenendo certe acque gentili di zucchero e altre acque composte. V'erano i farrasin, cioè diversi camerieri, i quali avevano non men carico di tenere ornate le stanze del soldano di panni di razzo e di tappeti, che delle candele e dei torchi di cera che s'abbruciavano, le quali erano incorporate con ambracane, onde servivano per lumi e per profumi odoriferi. V'erano i sebabathia, cioè gli staffieri; vi sono altri chiamati taburchania, che sono li allabardieri che stanno appresso il soldano quando cavalca e dà audienza; li addavia, che stanno avanti il carriaggio del soldano quando sta in campagna over è in viaggio: e di costoro si elegge il boia quando ei manca, e ogni fiata che fa il suo uficio sopra alcun malfattor lo vanno a compagnare per imparar il mestiero, e massime di scorticare gli uomini vivi, overo quando si dà tormento per fargli confessare. Vi sono gli esuha, li quali portano le lettere del Cairo in Soria, e vanno a piedi faccendo ogni giorno sessanta miglia, per non vi esser né monte né luoghi fangosi ma sola arena fra l'Egitto e Soria: ma quelli che portano lettere di maggior importanza cavalcano camelli.


Soldati del soldano.

I soldati del soldano erano divisi in quattro parti. I primieri s'appellavano caschia, cioè i cavalieri, e costoro erano uomini eccellentissimi nel maneggio dell'armi: e di questo numero creava il soldano i castellani e i capitani e governatori delle città. Alcuni avevano provisione dalla camera del soldano in danari contanti, e altri possedevano l'entrate di villaggi e castelli. I secondi erano detti eseifia, e questi erano fanti a piè, che altra arma non portavano che la spada; il loro salario se ne veniva pure dalla camera del signore. I terzi si addimandavano el charanisa, cioè quelli che hanno la spettativa, i quali sono oltra il numero dei soldati provisionati, né altro avevano che le spese: e come muore un Mammalucco provisionato, costoro entrano in suo luogo. Erano chiamati gli ultimi soldati el galeb, e questi erano i Mammalucchi di nuovo venuti, i quali non avevano ancora cognizion della lingua turchesca né moresca, né avevano fatto prodezza alcuna.


Uficiali deputati al governo delle cose piú universali. Nadheasse.

Questo era come un camarlingo, il quale aveva carico d'affittar le dogane e le gabelle di tutto lo stato del soldano, e l'entrata assegnava al tesoriere. Ancora nel Cairo egli in persona faceva l'uficio di doganiere, e in ciò guadagnava centinaia di migliaia di saraffi. Egli è vero che nessuno poteva entrare a questo maneggio se prima non pagava al soldano centomila saraffi, i quali poi ricoverava in sei mesi.


Chetebeessere.

Era costui il segretario, il quale, oltre il comune uficio di dettar le lettere e brievi, rispondere a nome del soldano, teneva particolar conto eziandio di tutto il censo del terreno d'Egitto, e raccoglie l'entrata da molti che sono suoi sudditi.


Muachih.

Questo era il secondo segretario, di manco condizione ma piú fedele al soldano, il quale aveva cura di rivedere i brievi scritti dal primo, se erano conformi alle comissioni del soldano, e poi notava nel luogo bianco lasciatogli dal scrittore il nome del soldano. Ma il detto primo secretario tien molti abbreviatori, che sono tanto pratichi di scriver detti brievi che rare volte el muachih truova cosa da cancellare, tanto sono esercitati in questo mestiero.


Muhtesib.

Questo era sí come un consolo, o diciamo capitano della piazza, il quale era sopra i prezzi del grano e di tutte le cose che si mangiano, accrescendogli e calandogli secondo il numero de' navilii che vengono di Sahid e da Rif, e ancora secondo l'accrescimento del Nilo, e faccendo a' trasgressori patir quelle pene che erano ordinate dal soldano. Io intesi, quando fui nel Cairo, che questo capitano cavava per ciascun giorno dal detto uficio circa a mille saraffi, non solamente dal corpo del Cairo, ma di tutte le città e luoghi d'Egitto, ne' quali mette suoi soprastanti e vicari, e gli sono tributari.


Amir el cheggi.

Questo era uficio non men di gran dignità che di gran carico, e davasi dal soldano al piú sufficiente e piú ricco Mammalucco che egli avesse. Era costui capitano della carovana che andava una volta l'anno dal Cairo alla Mecca: non poteva egli fare cotale uficio senza molta spesa, volendo andarvi con pompa e commodità, e menava per custodia della detta carovana in sua compagnia molti altri Mammalucchi; e stavano tre mesi nell'andar e tornare, né si potria dir il gran travaglio e spesa che avea detto capitano, senza utilità né dal soldano né da quelli della carovana.
V'erano altri ufici di poca importanza, che non fa di mestiero raccontargli.


Geza città.

Geza è una città sopra il Nilo, dirimpetto alla città vecchia, e l'isola la separa dalla detta città. È bene abitata e civile, e sono in lei di bei palazzi fatti fabbricar da gran Mammalucchi a lor diletto, fuori della gran turba del Cairo. Vi sono ancora molti artigiani e mercanti, massimamente di bestiami menati dagli Arabi, i quali conducono da' monti di Barcha, e li rincresce di fargli passare il fiume con le barche, e per tanto ivi sono mercanti che li comprano e poi rivendono a beccai del Cairo, che vengono a questo effetto. Sopra il fiume è il tempio della città e altri belli e dilettevoli edifici; d'intorno alla città vi sono giardini e possessioni di datteri. Vengono alla detta città per loro bisogne dal Cairo diversi artigiani, i quali poi ritornano la notte alle lor case. E chi vuole andare alle piramidi, le quali sono sepolture d'antichi re d'Egitto, che dove sono si chiamava Memphis anticamente, per questa città è la dritta via. Ma da lei insino alle piramidi tutto è diserto di arena, e vi sono molte pozze d'acqua fatte nello accrescer del Nilo; tuttavia con buona guida e bene esperta del paese puossi andare con poco disconcio.


Muhallaca.

Muhallaca è una piccola città discosta dalla città vecchia circa a tre miglia, edificata sul Nilo nel tempo degli antichi Egizii, la quale ha di belle case ed edifici, come ha il tempio ch'è sopra lo istesso Nilo. D'intorno sono molte possessioni di datteri e di fiche egizie. Gli abitatori tengono quasi i medesimi costumi di quegli del Cairo.


Chancha.

Chancha è una gran città edificata nel principio del diserto che va a Sinai, discosta dal Cairo circa a sei miglia, nella quale sono di belle case, di belli tempii e collegi; e fra lei e il Cairo per tutti sei miglia sono molti giardini di datteri. Ma da questa città insino al porto di Sinai non si truova alcuna abitazione, e c'è di spazio circa a cento e quaranta miglia. Gli abitatori sono ricchi assai, percioché, quando si parte la carovana per andare in Soria, qui si raccogliono le brigate, comperando diverse cose, le quali vengono dal Cairo percioché, fuor che i datteri, altro nel suo terreno non nasce. In lei sono due vie maestre, l'una per cui si va in Arabia e l'altra per cui si va in Soria. Né v'è altra abbondanza d'acqua che quella che rimane nei canali quando cresce il Nilo, e se rompono i canali, quell'acqua corre per li piani e fa certi laghetti, e dipoi viene alla città per certi aquedutti ed entra nelle conserve.


Muhaisira.

Muhaisira è una piccola città edificata doppo il Cairo sopra il Nilo, ed è discosto dal Cairo circa a trenta miglia verso levante, dove nasce gran quantità di sesamo, e sono nella detta molte mole, le quali lavorano in fare olio de' grani del detto sesamo. Tutti gli abitatori sono lavoratori di terreno, eccetto alcuni che tengono botteghe.


Benisuaif.

Benisuaif è una piccola città edificata sul Nilo nella parte d'Africa, discosta dal Cairo circa a centoventi miglia. Ha d'intorno una grandissima e perfettissima campagna per seminar lino, canapo; e il lino è in tutta bontà, di maniera che ve n'è portato per insino a Tunis di Barberia, e di lui si fa una tela mirabile, sottile e saldissima: e di questo lino si tiene fornito tutto l'Egitto. Egli è vero che 'l Nilo, di continovo rodendo e a' suoi tempi crescendo, scema e sminuisce il terreno: massimamente quando io v'era, che ve ne trasse seco piú della metà delle possessioni di datteri. Gli abitatori tutti attendono a' diversi lavori del detto lino, quando è raccolto. Pure oltre di questa città si truovano i cocodrilli, i quali mangiano le creature umane, come vi si dirà nel libro degli animali.


Munia.

Munia è una bellissima città, edificata nel tempo dei maumettani da un luogotenente chiamato el Chasib, che fu famigliare d'un pontefice di Bagded, sopra il Nilo nella parte d'Africa in un alto sito. E d'intorno ha molti giardini e vigne, che fanno buonissimi frutti e perfettissime uve, de' quali gran quantità se ne porta al Cairo: ma non vi possono giugner freschi, percioché la città è discosta dal Cairo circa a centoottanta miglia. E in questa città sono molti belli edifici, palazzi, tempii, e certe rovine degli antichi Egizii. Gli abitatori sono uomini ricchi, percioché essi vanno per mercanzia a Gaogao, regno dei negri.


El Fium.

El Fium è un'antica città, edificata da uno de' faraoni che fu nelli tempi che si partirno gli Ebrei dello Egitto: costui adoperò gli Ebrei in far pietre e altri servigi. Edificolla sopra un piccol ramo del Nilo in un alto sito, dove si truova gran quantità di frutti e d'olive: ma le olive sono buone solamente da mangiare e non da fare olio. E in questa città fu sepellito Iosef, figliuolo d'Israel; poscia d'indi fu da Mosè cavato, allora che gli Ebrei fuggirono d'Egitto. La città è civile e bene abitata; ci sono molti artigiani, massimamente tessitori di tele.


Manf Loth.

Manf Loth è una grandissima e antichissima città, la quale fu edificata dagli Egizii e rovinata da' Romani, e nel tempo dei maumettani fu incominciata a riabitare, ma quasi niente a comparazione de' primi tempi. Oggidí si veggono certe grosse e alte colonne e portichi, dove sono scritti versi in lingua egizia; e appresso il Nilo v'è una gran rovina d'un grande edificio, il quale dimostra essere stato un tempio: gli abitatori alle volte vi truovano medaglie d'oro, d'argento e di piombo, le quali da una parte hanno lettere egizie e nell'altra teste di antichi re. Il terreno è abbondante, ma c'è gran caldo e i cocodrilli fanno di molti danni: e per questa cagione si giudica che questa città fosse abbandonata da' Romani. Pure gli odierni abitatori sono uomini onestamente ricchi, percioché esercitano la mercanzia nel paese dei negri.


Azioth.

Azioth è città antichissima, edificata dagli Egizii sul Nilo, discosta dal Cairo circa a dugentocinquanta miglia. È mirabile città di grandezza e d'antichi edifici e molti epitaffi, ma tutti rovinati e guasti, con lettere pure egizie. Nel tempo de' maumettani fu questa città abitata da molti nobili cavalieri, e fin ora ha grande nobilità e ricchezza. Ci sono circa a cento case di cristiani egizii e tre o quattro chiese, e di fuori è un monastero dei detti cristiani, nel quale vi sono piú di 100 monachi che non mangiano carne né pesce, ma pane, erbe e olive: fanno assai cibi delicati, dove non intra grasso alcuno. Il monastero è ricco e usa di dar mangiare e albergo a tutti i forestieri che di là passano per tre giorni, tenendo molti colombi, polli e animali per questo effetto.


Ichmin.

Ichmin è la piú antica città d'Egitto, edificata da Icmin figliuolo di Misrain, a cui fu padre Cus figliuolo di Hen: edificolla sopra il Nilo nella parte d'Asia, discosta dal Cairo circa a trecento miglia verso levante. Ma fu distrutta nel principio che i maumettani vennero nello Egitto, per cagioni nelle istorie contenute, in modo che altro non si truova della detta città che le fondamenta, percioché le colonne e le altre pietre furono portate dall'altra parte del Nilo, con le quali fu edificata la seguente città.


Munsia.

Munsia città fu edificata sopra il Nilo nella parte d'Africa da un certo luogotenente d'un pontefice, ma non è in lei grazia né bellezza alcuna, e tutte le sue strade sono strette, e la state non vi si può andare per la molta polvere; è bene abbondante di grano e di animali. E possedeva questa città e il suo contado un signore africano del popolo barbero, il cui nome fu Haoara, percioché i suoi antecessori furono signori di Haoara; ed ebbe questa città per merito di certo aiuto che egli diede allo schiavo edificator del Cairo; ma io non posso creder che tanto tempo abbi durata la signoria in questa famiglia. Suliman nono imperadore de' Turchi al tempo nostro gli levò di mano la signoria.


Giorgia.

Giorgia fu un ricchissimo e gran monastero di cristiani chiamato San Giorgio, discosto da Munsia circa a sei miglia, il quale possedeva d'intorno grandissimi terreni e pascoli. Ed erano nel detto monastero piú di dugento monachi, i quali ancora essi solevano dar mangiare a' forestieri, e quello che avanzava delle loro entrate mandavano al patriarca del Cairo, il quale faceva dispensare fra poveri cristiani. Ma da cento anni in qua venne una pestilenza in Egitto, la quale estinse tutti i monachi del detto monastero, onde il signor di Munsia lo fece murar d'intorno, e far case nelle quali abitarono mercanti e artigiani di diverse sorti; ed egli ancora v'andò ad abitare, tratto dall'amenità d'alcuni bellissimi giardini, che sono sopra alcuni colli non molto discosti. Ma il patriarca dei giacobiti si lamentò al soldano, onde egli fece fabbricare un altro monastero nel luogo dove fu edificata la città vecchia, e diegli tanta pensione che poteva commodamente sostenere trenta monachi.


El Chian.

El Chian è una piccola città sul Nilo edificata nel tempo dei maumettani, ma pur non abitano nella detta città se non cristiani giacobiti, i quali sono tutti lavoratori di terreno, e usano allevar pollami e oche e infinito numero di colombi: per duoi baiocchi ne averete dieci. In lei sono alcuni monasteri di cristiani, i quali sogliono pure dar mangiar a' forestieri; e in questa città non è altro maumettano che 'l governatore e la sua famiglia.


Barbanda.

Barbanda è una città edificata dagli antichi Egizii sopra il Nilo, discosta dal Cairo circa a quattrocento miglia, la quale fu distrutta da' Romani, né ora se ne vede altro che le rovine grandissime, percioché il meglio fu portato ad Asna, di cui di sotto diremo. Si trovano nelle dette rovine molte antiche medaglie d'oro e d'argento, e ancora si truovano molti pezzi di smeraldi.


Chana.

Chana è antica città edificata dagli Egizii sul Nilo dirimpetto a Barbanda; è cinta di mura, ma fatta di pietre crude. Gli abitatori sono uomini di poco prezzo e lavoratori di terreni, ma la città è abbondante di grano, percioché quivi si fa la scala delle mercanzie che sono portate per lo Nilo dal Cairo alla Mecca. Percioché la detta città è vicina al mar Rosso circa a centoventi miglia per lo diserto, dove non si truova acqua dal Nilo per insino alla riviera del detto mare, nella quale è un porto chiamato Chossir, dove sono molte capanne nelle quali si scaricano le dette mercanzie: e tutte le case del porto sono di stuore; pigliavisi gran quantità di pesce. E dirimpetto al detto porto dalla parte d'Asia, sul mare Rosso, v'è un altro porto detto Iambuh, e in quest'altro si fa scala per gire a Medina, dove è il corpo di Maumetto. Si forniscono dei grani di questa città la detta Medina e alla Mecca, nelle quali due n'è grandissima carestia.


Asna, cioè Siene, sotto il tropico di Cancro.

Asna fu anticamente detta Siene, ma cosí la chiamarono gli Arabi, percioché il primo nome di Siene era simile ad un lor vocabolo che dinota brutto, ed essi la chiamarono Asna, che vuol dire bella, percioché la città è molto bella, edificata sul Nilo dalla banda d'Africa. E ben che fusse da' Romani mezza distrutta, nondimeno fu molto bene rinovata nel tempo dei macomettani. E sono i suoi abitatori ricchi sí di grani e di animali come di danari, percioché usano di trafficar nel regno di Nubia, parte per lo Nilo e parte per lo diserto. Si veggon nel gran circuito di questa città grandissimi edificii, e certe sepulture mirabili con epitaffii scritti con caratteri egizii e ancora con lettere latine.

Assuan città.

Assuan è una grande e antica città edificata dagli Egizii sul Nilo, discosta da Asna circa a ottanta miglia verso levante, la quale ha d'intorno buonissimi terreni per grani. Ed è questa città molto abitata e molto inclinata alle mercanzie, percioché confina col regno di Nubia. E piú oltre della detta non si può navigare per Nilo, percioché egli s'allaga per le pianure, l'acqua delle quali non serve. Confina ancora la istessa città col diserto per cui si va alla città di Suachin sopra il mare Rosso, e nel principio d'Etiopia. E quivi nella state è uno smisurato caldo, e gli abitatori sono quasi tutti bruni, sí per questo e sí per esser mescolati con li Nubi e con quelli d'Etiopia. Sono eziandio per molti luoghi edifici degli antichi Egizii, e certe torri altissime, le quali dai detti sono dette Barba.
Piú oltre finalmente non si truova né città né abitazione che sia degna di memoria, se non alcuni casali di gente bruna, il cui linguaggio è mescolato con l'arabo, con l'egizio e con quello d'Etiopia. E questa gente è soggetta ad una generazion detta Buge, che vivono in campagna a modo d'Arabi, e il soldano non ha da far in questi luoghi, ma quivi finisce il suo stato.
Queste sono le città piú famose poste sopra il ramo grande del Nilo, delle quali alcune ho vedute, in alcune sono intrato dentro e ad altre passatovi a canto, e sempre ho avuta particolar informazion dagli abitanti d'esse e da' marinari che mi condussero dal Cairo fino alla città d'Assuan, con li quali tornai fino a Chana, e camminando per lo diserto arrivai al mar Rosso, qual trapassai sopra l'Arabia Diserta al porto di Iambuh e di Zidden, che sono in Asia, delli quali non mi accade che ne parli per non esser dell'Africa. Ma se Dio mi concederà vita, io ho desiderio di scriver delle parti d'Asia quanto che ne ho veduto, come l'Arabia Diserta, Felice e Petrosa, e ancora dell'altra parte dell'Egitto qual è in Asia, e di Babilonia, e d'una parte della Persia e Armenia, e parte della Tartaria, che nel principio della mia gioventú viddi e transcorsi; e appresso quel ultimo mio viaggio che feci da Fez a Costantinopoli, e da Costantinopoli in Egitto, e dapoi d'Egitto in Italia, dove viddi molte isole. Qual tutte mie peregrinazioni con l'aiuto di Dio, tornato che sia d'Europa, scriverò particolarmente, ponendo nel principio le piú degne e nobili parti d'Europa, poi d'Asia, cioè dove sono stato, e nell'ultima questa presente opera d'Africa, per dar piacer agli studiosi che di leggere tal cose si diletteranno.

NONA E ULTIMA PARTE

Nella quale si tratta ti tutti i fiumi, animali ed erbe più notabili che sono nell'Africa

Tensist fiume.

Incominciando dalla parte occidentale in Barberia, Tensist è un gran fiume, il quale nasce dal monte Atlante vicino alla città detta Hanimmei nel tenitoro di Marocco, cioè verso levante, e s'estende verso tramontana per le pianure, per insino che egli entra nel mare Oceano nel contado d'Azafi, nella region di Ducala. Ma prima che esso entri nel detto mare, entrano in lui molti altri fiumi, de' quali due sono cognosciuti. L'uno è Sifelmel, il quale nasce da Hanteta monte vicino a Marocco, e scende per lo piano fin che entra nel detto fiume. L'altro è Niffis, che nasce da Atlante pur vicino a Marocco, e viene per lo piano d'intorno a Marocco, e poi entra nel sopradetto. Questo Tensist è abbondantissimo e profondo d'acqua; pure v'ha alcuni luoghi dove egli si può passare a guazzo, quantunque l'acqua superchi le staffe e a chi è a piè convenga passare ignudo. Vicino a Marocco è un ponte che attraversa il fiume, edificato dal re Mansor e fatto sopra a quindici volti, il quale è uno dei piú belli edifici che si truovino in tutta l'Africa. Ma furon disfatti tre delli suoi volti da Abu Dubus, ultimo re e pontefice di Marocco, per impedire il passo a Giacob, primo re della casa di Marin: ma il suo pensiero non ebbe effetto.


Teseuhin.

Teseuhin sono due fiumi i quali nascono dal monte Gugideme, uno discosto dall'altro circa a tre miglia, e vanno per una pianura passando per la provincia di Hascora, ed entrano nel fiume Lhebich. Questi due fiumi hanno, come s'è detto, un medesimo nome, ch'è Teseut nel numero del meno, e in quello del piú Teseuhin, il che significa nella lingua africana "le liste".


Quadelhabid, cioè il fiume di Servi.

Quadelhabid fiume nasce d'Atlante fra certi monti alti e freddi, e passa per difficili e scabrose valli, dove Hascora confina con la provincia di Tedle, e scende alla pianura stendendosi verso tramontana per insino che entra nel fiume Ommirabih. È assai grande, massimamente il maggio, allora che le nevi si sogliono liquefare.


Ommirabih.

Ommirabih è un fiume grandissimo, il qual nasce d'Atlante fra alti monti, dove Tedle confina col regno di Fez, e corre per certi piani chiamati Adachsan, e dipoi passa piú oltre per certe valli strette, dove è un ponte molto bello, fatto fabbricar da Abulhasen, quarto re della casa di Marin. E doppo questo ponte, verso mezzogiorno, passa per le pianure che sono fra la regione di Ducala e di Temesne, per insino che entra nel mare Oceano, appresso il muro della città di Azamor. Questo fiume il verno e la primavera non si può passare a guazzo, ma gli abitatori per le ville d'intorno tragettano le persone e le robbe sopra a certe rastelle, che pongono a traverso le rive sopra gli utri gonfi. Nel fine del mese di maggio si pescan in questo fiume gran quantità di pesce chiamato in Italia lasche, del qual si sazia la città di Azamor, e appresso ne portano molte caravelle di salato in Portogallo.


Buregrag.

Buregrag fiume nasce da uno de' monti che procedono d'Atlante, il quale passa fra molte valli e boschi; dapoi riesce fra certi colli, s'estende per una pianura, di donde entra nel mare Oceano, dove sono le due città Sala e Rabat, che sono nel principio del regno di Fez. E queste città non hanno altro porto se non nella gola del detto fiume, il qual porto è tuttavia difficile all'entrar de' legni, di maniera che, se il nocchiero non è molto bene esperto della qualità del luogo, di facile si rompono nell'arena. Il che è il riparo e la fortezza delle due città contra l'arme de' cristiani.


Baht.

Baht è un fiume che pur nasce d'Atlante, e s'estende verso tramontana fra monti e boschi e, riuscendo fra certi colli, dipoi si sparge in una pianura della provincia d'Azgar, in modo che 'l detto fiume si converte in paludi, valli e laghi, nei quali si truovano infinite anguille e lasche di grandezza e perfezione mirabile. D'intorno di questi abitano molti pecorai arabi, i quali vivono delle loro pecore e di pescare: e per la gran quantità del pesce, del latte e del butiro che mangiano, molti sogliono patire una infirmità detta morfia. Questo fiume d'ogni tempo si può passare a guazzo, se non allora che si gonfia per le gran pioggie over nevi disfatte, ed entrano in lui alcuni pochi fiumicelli, che vengono pure d'Atlante.


Subu.

Subu è un fiume che nasce da un monte detto Selilgo, in Cheuz, provincia del regno di Fez. Ha principio da una grandissima fonte in uno spaventoso bosco, e passa per molte valli fra monti e colli; dipoi s'estende per lo piano, e corre discosto da Fez circa a sei miglia; indi passa oltra per una pianura, separando Habat da Azgar, e se ne va oltre, fin che egli entra nell'Oceano vicino a un luogo detto Mahmora, discosto dalla città di Sala. In questo fiume entrano molti altri fiumi, de' quali alcuni scendono da' monti di Gumera, come Guarga e Aodor, e alcuni altri se ne vengono da' monti che sono nello stato di Teza. Ha gran corso e gran quantità d'acqua, ma pure ci sono molti luoghi ove si passa a guazzo: ma il verno e la primavera non vi si può passare altrimenti che in certe pericolose barchette. E nel detto fiume entra pure quel fiume che passa per la città di Fez, il quale nel lor linguaggio è chiamato il fiume delle Perle: in lui si truova gran quantità di pesce, massimamente laccie, che è in vil prezzo. E quando entra in mare forma una larghissima e profondissima bocca, nella quale possono entrar grosse navi, come fu provato da Portogallesi e Spagnioli. Vi si potrebbe ancora navigare, ma l'ignoranza degli abitatori nol comprende; e se i mercanti di Fez pigliassero cura di far portare il grano, che vien per terra d'Azgar, per questo fiume, egli invero valerebbe in Fez la metà meno.


Luccus.

Luccus è un fiume il quale, nascendo da' monti di Gumera, s'estende verso ponente per le pianure di Habat e di Azgar, e passa da presso la città del Casar Elcabir, e s'estende oltra fin che entra nell'Oceano vicino ad Harais, città nella regione di Azgar, pure ne' confini di Habat. E nella goletta di questo fiume è il porto della detta città, ma difficilissimo da entrarvi, massimamente da uno che non ve n'ha avuto pratica.


Mulullo.

Mulullo è un fiume che nasce dal monte Atlante, nelli confini fra Tezza città e Dubdu, ma piú vicino a Dubdu, qual fiume passa per certe pianure aspre e secche, dette Terrest e Tafrata; di sotto poi entra nel fiume Muluua.


Muluua.

Muluua è un gran fiume il quale nasce da Atlante, cioè nella regione del Cheuz, vicino alla città di Gherseluin circa a venticinque miglia, e passando per certe aspre e secche pianure descende in un'altra pianura via peggiore di questa, cioè nel mezzo del diserto di Angad e di Garet, se ne va oltre sotto il monte di Beni Iezneten, ed entra nel mare Mediterraneo non molto discosto dalla città di Chasasa. Questo fiume la state sempre si passa a guazzo, e in lui vicino al mare si truovano perfettissimi pesci.


Zha.

Zha è un fiume che nasce dal monte Atlante, e s'estende per certa pianura nel diserto di Angad, cioè dove il regno di Fez confina con quello di Telensin. Questo fiume io mai non viddi pieno, ma ha grande profondità. In lui è molta quantità di pesce, ma gli abitatori non ve ne posson prendere, sí per non avere strumenti atti a pescare, e sí per esser il fiume d'acqua molto chiara, dove non è buon pescare.


Tefne.

Tefne è un fiume piú tosto piccolo che altrimente, il quale, nascendo da certi monti ne' confini di Numidia, s'estende verso tramontana per lo diserto di Angad insino a tanto che entra nel mare Mediterraneo, vicino alla città di Telensin circa a quindici miglia. In questo fiume non si truovano se non alcuni piccoli pesci.


Mina.

Mina è un fiume alquanto grande, il qual discende da certi monti vicini alla città di Tegdemt, e passa per le pianure della città di Batha. Doppo se ne va verso tramontana, per insino che gli entra nel Mediterraneo.


Selef.

Selef è un gran fiume, il quale, nascendo da' monti di Guanseris, e discendendo per le pianure diserte che sono dove confina il regno di Telensin con quello di Tenez, passa oltre per insino che gli entra nel Mediterraneo, separando Mezzagran da Mustuganin. Nella gola di questo fiume, cioè dove egli sbocca nel mare, si piglia buonissimo pesce d'ogni maniera.


Seffaia.

Seffaia è un certo fiume non molto grande, il quale nasce d'Atlante e s'estende per la pianura detta Mettegia, che è vicina alla città d'Alger, e non lungi dall'antica città il cui nome è Temendefust entra nel mare Mediterraneo.


Fiume chiamato il Maggiore.

Questo fiume nasce da monti i quai confinano con la provincia di Zab, e discende fra altissimi monti; anche entra nel mare Mediterraneo, vicino alla città di Buggia circa a tre miglia. Egli non cresce se non al tempo delle pioggie e delle nevi. Quei di Buggia non sogliono pescarvi dentro, percioché hanno il mare.


Sufgmare.

Sufgmare nasce in certi monti i quali confinano col monte chiamato Auraz, e discendendo per certa secca campagna riesce nel tenitorio della città di Costantina, e passa sotto le sue rive, e congiungesi con un altro piccolo fiume, e va verso tramontana, talvolta fra colli e alcuna fra monti, fin che gli entra nel mare Mediterraneo, separando il contado di Chollo città dal contado di Gegel castello.


Iadog.

Iadog fiume non è molto grande, qual nasce da certi monti vicini alla città di Costantina e scende fra detti monti verso levante, finché entra nel Mediterraneo appresso la città di Bona.


Guadilbarbar.

Nasce questo fiume da certi monti che confinano col contado di Urbs città, e scende sempre fra colli e monti, e si torce in modo che quelli che tengono il cammino fra Tunis e Bona sono constretti a passarlo venticinque volte, e non c'è né ponte né barche. Ultimatamente entra nel Mediterraneo vicino a un porto diserto detto Tabraca, discosto dalla città di Bege non piú che quindici miglia.


Megerada.

Megerada è un fiume molto grande, il qual nasce da alcuni monti che confinano con la provincia di Zeb, ed è vicino a Tebessa città, e s'estende verso tramontana per insino che gli entra nel mare Mediterraneo in un luogo detto Gharel Meleh, discosto da Tunis circa a quaranta miglia. Questo fiume nel tempo delle pioggie cresce mirabilmente, in tanto che i passaggieri convengono alle volte indugiar due e tre dí attendendo il discrescer dell'acqua, percioché non si truova barca né ponte alcuno, massimamente in un luogo dove correndo questo fiume si fa vicino alla città di Tunis sei miglia. Vedete quanto gli Africani sono tralignati d'ingegno e d'animo da quegli antichi che piú volte fecero tremare il popolo romano.


Capis fiume.

Capis fiume nasce da un diserto verso mezzogiorno, e discende per certe pianure d'arena, fin che gli entra nel Mediterraneo appresso la città detta dal suo nome. La sua acqua è salsa e calda tanto che, volendosi bere, fa di mestiero lasciare ch'ella si raffreddi lo spazio d'un'ora.
E questi sono i fiumi piú nobili di Barberia. Ora seguiremo di quei di Numidia.


Sus.

Sus è un gran fiume il quale nasce da' monti d'Atlante, cioè da quelli che separano Heha da Sus, e discende verso mezzogiorno fra i detti monti, uscendo nella campagna della detta regione. Dipoi s'estende verso ponente, per insino che entra nel mare Oceano, vicino al luogo chiamato Gurtuessen. E lo inverno molto cresce, di maniera che disfa assai terreni, ma la state si rimane meno che mediocre.


Darha.

Darha è un fiume il quale nasce d'Atlante ne' confini d'Hascora, e scende verso mezzogiorno per la provincia di Darha; dipoi passa al diserto, spargendosi per certe campagne nelle quali nasce gran copia d'erba nella primavera, onde vi vengono gli Arabi a pascolar le lor bestie, cioè i camelli. La state il fiume si secca, di maniera che vi si può passare senza bagnar le scarpe, ma l'inverno cresce in modo che non si può far questo varco, posto che vi fussero le barche. E ne' gran caldi l'acqua è amara.


Ziz.

Ziz fiume nasce d'Atlante, cioè da' monti abitati dal popolo Zanaga, e scende verso mezzogiorno fra molti monti, passando da vicino alla città chiamata Gherseluin, e se ne va oltre per lo contado di Cheneg, di Metgara e di Reteb, ed entra nel tenitoro di Segelmesse città e passa per le sue possessioni, ed esce nel diserto appresso a Sugaihila castello; dapoi forma un lago in mezzo l'arena, dove non si truova abitazione alcuna, ma vi usano andar d'intorno alcuni Arabi cacciatori, percioché essi fanno di gran preda.


Ghir.

Ghir è un fiume che nasce pure d'Atlante, e s'estende verso mezzogiorno discendendo per certi diserti, e dapoi esce per quella abitazione chiamata Benigumi, e passa al diserto trasformandosi ancor egli in un lago in mezzo il diserto.
Già io vi dissi del fiume chiamato da Tolomeo Niger nel principio della opera, trattando della division dell'Africa: perciò, non volendo altrimenti replicarne, passerò a dire brievemente del Nilo.


DEL GRANDE FIUME NILO

Mirabili sono nel vero i corsi e le novità del Nilo, e stupendi sono gli animali che si truovano in lui, sí come cavalli e buoi marini e cocodrilli, che sono nocevolissimi e ferocissimi animali, come poco piú basso raccontaremo. Né a tempo degli Egizii e de' Romani solevano far tanti danni come oggidí, ma sono peggiorati dapoi che i macomettani occuparono l'Egitto. Dice il Meshudi, in una sua opera dove tratta delle cose mirabili scoperte alli tempi moderni, che quando Hameth, figliuolo di Thaulon, che fu luogotenente in Egitto di Gihsare el Mutauichil, pontefice di Bagadet, nell'anno 270 di legira, che fu trovata una statua di piombo della grandezza d'un cocodrillo, con lettere egizie, nelli fondamenti d'un tempio de' gentili egizii, fatta sotto certe costellazioni contra detto animale, la qual detto luogotenente fece disfare e rompere: e allora detti animali cominciarono a far molti danni. Ma io non so donde egli avvenga che i cocodrilli che sono nel Nilo dal Cairo in giú verso il mare non fanno alcun dispiacere, e quegli altri che si truovano dal Cairo in su uccidono e divorano molte persone.
Ora tornando al Nilo, esso, come detto abbiamo, cresce quaranta giorni, il che è a' dicessette di giugno, e altri quaranta discresce, percioché si dice che nella Etiopia alta piove maravigliosamente il principio di maggio, ma i corsi dell'acque tardano per tutto maggio e una parte di giugno prima che giunghino all'Egitto. Della origine di questo fiume sono diverse oppenioni, e niuna certa, percioché alcuni vogliono ch'ei nasca dai monti della Luna, e alcuni altri da certe diserte pianure sotto a' piedi dei detti monti, da molti gran fonti che ivi si truovano, l'uno molto dall'altro discosto. Ma i primi affermano che quando il Nilo cade da quei monti, portato dal grandissimo suo furore e impeto, entra sotto la terra e forma quei fonti. L'una e l'altra oppenione è falsa, percioché non s'è mai veduto donde egli abbia nascimento. Dicono i mercanti d'Etiopia, i quali hanno pratica nella città di Dangala, che 'l detto fiume verso mezzogiorno si va allargando e diventa come un lago, in modo che non si conosce dove vada il suo corso, e che pur verso mezzogiorno fa molti rami li qual, scorrendo per diversi alvei, s'estendono verso levante e ponente, e impediscono le persone, che non possono andare d'intorno ai giri del detto. Affermano ancora molti Etiopi, i quali dimorano nella campagna come fanno gli Arabi, che alcuni di loro alle volte, avendo smarrito alcuno dei suoi camelli nel tempo che essi sentono il caldo d'amore, saranno andati verso mezzogiorno cerca 500 miglia ricercandogli, e sempre l'acque del medesimo fiume hanno vedute a un modo, cioè spessi laghetti e gran rami; e truovano assai monti secchi e diserti, nei quali Meshudi istorico dice che si truovano molti smeraldi, il che mi si fa piú verisimile a credere che di alcuni uomini salvatichi che, secondo lui, corrono come caprioli e vivono nel diserto di erbe come fanno le fiere. Se io scrivessi tutte le cose che hanno detto li nostri istorici del detto Nilo, pareriano favole, e sariano tediose a chi leggesse.


DEGLI ANIMALI

Ora passiamo a dire degli animali, nel che non mi offerisco di raccontare di tutti gli animali che si truovano in Africa, che sarebbe invero quasi cosa impossibile, ma di quelli solamente che non sono nell'Europa o di quelli che hanno qualche differenza da quest'altri, trattandone ordinatamente, sí dei terrestri come degli aquatici e di quei che volano, e molte cose trapassando che sono scritte da Plinio. Il quale certamente fu un dotto e singulare uomo, quantunque in alcune piccole cose dell'Africa egli certamente prese errore, non per colpa di lui, ma di chi lo informò e degli auttori che inanzi a lui scrissero: ma pure una macchietta non ha forza di estinguere tutta la bellezza d'un leggiadro e ben formato corpo.


Elefante.

L'elefante è animale salvatico, ma atto ad imparare. E gran copia di questi animali si truovano nei boschi della terra negra, i quali sogliono andare molti insieme, e come incontrano un uomo lo schifano e gli danno luogo. Ma se l'uomo cerca di fargli dispiacere, egli lo piglia con quel suo lungo rostro e, sollevandolo in alto, lo percuote in terra stropicciandogli adosso co' piedi, tanto che lo lascia morto. Ma come che il detto sia animale grande e feroce, pure i cacciatori nell'Etiopia ve ne pigliano molti, il che è in cotal modo. Essi, ne' folti boschi dove sanno che la notte questi animali si riposano, fra molti alberi fanno un serraglio di forti e spesse frasche, lasciandovi da una parte un poco d'intervallo voto, dove attaccano una porta che tengono distesa sul terreno a guisa di rastrello, la quale si può con una fune alzare e con essa leggiermente serrare il passo. Come adunque lo elefante, che vien per dormire, è entrato in quel serraglio, ed essi tosto tirano la fune e l'hanno in prigione, onde discendendo dagli alberi con saette l'uccidono, dipoi ne traggono i denti e gli vendono. Ma se gli scampa fuor del serraglio, ammazza quanti uomini ch'ei ritrova. Nella India ed Etiopia alta è un'altra sorte di caccia, la quale pretermetto.


Giraffa.

Questo animale è cotanto salvatico che rade volte si può vedere, percioché si nasconde ne' boschi e ne' diserti dove non si truovano altri animali, e come vede gli uomini fugge, ma non ha molta velocità nel suo corso. Ha il capo simile al camello, le orecchie di bue e i piedi di... I cacciatori non ve ne pigliano se non di piccoli, ne' luoghi dove sono di poco nati.


Camello.

Il camello è animale domestico e piacevole assai. Se ne truova in Africa grandissima quantità, massimamente ne' diserti di Numidia, di Libia e ancora di Barberia. Questi animali tengono gli Arabi per lor ricchezze e per lor possessioni, e come vogliono dir della ricchezza d'uno lor principe o nobile, usano di dire: "Il tale ha tante migliaia di camelli", e non dicono ha tanti ducati, né tante possessioni. Tutti gli Arabi che hanno detti animali sono signori, over vivono liberi, perché con quelli possono viver nelli diserti, dove non può andare né re né signori, per la siccità delli detti. Questi animali si truovano in tutte le parti del mondo, cioè Asia, Africa e ancora Europa. In Asia gli usano tenere li popoli tartari, curdi, dailemi e turcomanni; in Europa gli tengono li signori turchi per portar li carriaggi, e il simile fanno in Africa tutti gli Arabi e quelli che abitano i diserti di Libia, e ancora tutti li re per le vettovaglie e carriaggi. Ma li camelli d'Africa sono piú perfetti che non sono quelli d'Asia, perché portano quaranta o cinquanta giorni la soma senza toccar la sera la biada; ma, come sono discaricati, gli lasciano pascolar nella campagna qualche poco d'erba, spini o qualche ramo d'arbori, la qual cosa non possono fare li camelli d'Asia. E quando cominciano a far un viaggio, allora il camello vuol esser molto ben grasso e pieno, e per esperienza s'ha veduto che, come el detto animal ha fatto un viaggio di cinquanta giorni senza mangiar biada essendo caricato, la grassezza della gobba manca prima, dapoi della pancia, e l'ultima è quella delle coscie, le qual mancate, il detto animal allora non porteria cento libbre di peso. Nell'Asia li mercanti gli danno la biada, e sono sforzati a menare per ogni camello carico un altro camello con la biada, perché vanno caricati nelle sue carovane e tornano caricati, e però gli mantengono grassi, perché raddoppiano il viaggio. Ma li mercanti africani che vanno nella Etiopia, non si curano della tornata, perché ritornano discaricati, né riportano d'Etiopia cosa di troppo peso rispetto a quella che vi hanno portato. Di sorte che li camelli, come giungono nella Etiopia, sono magri e piagati tutta la schiena, e cosí gli vendono per pochi danari agli abitatori de' diserti, li quali gli menano ad ingrassare. Li mercanti che ritornano in Numidia o in Barberia hanno bisogno di pochi camelli, cioè per cavalcare e per portar vettovaglia e oro e qualche cosa leggiera.
Sono tre spezie, o vogliamo dire sorte, di camelli. Quelli della prima sono addimandati camelli hugiun, i quali sono grossi e grandi di persona e buonissimi per someggiare, ma non possono portar la soma fin che non aggiungano a quattro anni: e allora ogni mediocre camello porta mille libbre di peso d'Italia. Ma quando si caricano, il camello, tocco d'una verghetta su le ginocchia e sopra il collo, per natural costume subito si corica a terra, e come sente il peso bastevole alla sua persona, allora si lieva. Gli Africani e tutti communemente, volendo mantenere i camelli perfetti alla soma, usano di castrargli, e fra dieci femmine ne lasciano un maschio solo. I camelli della seconda spezie sono detti el becheti, i quali hanno due gobbe, l'una e l'altra delle quali son parimente buone per someggiare e per cavalcarvi sopra: ma di questa non se ne truova se non in Asia. Quei della terza sono appellati el raguahil, e sono piccoli di persona e sottili di membra, né son buoni se non per cavalcare; ma hanno gran velocità, di maniera che molti ne sono che in un giorno camminaranno cento miglia e ancora molto piú, continovando questo cammino otto e dieci giorni per lo diserto con pochissima vettovaglia. E tutti li nobili arabi di Numidia e africani di Libia usano di cavalcare detti camelli; e il re di Tombutto, quando vuole con prestezza fare intendere a' mercanti di Numidia qualche cosa importante, manda il messaggio con uno di questi camelli, il quale fa da Tombutto insino a Darha o a Segelmesse in termine di sette o otto giornate novecento miglia. Ma quei che vanno per tai negoci, fa di mestiero che siano uomini molto pratichi per li diserti, e vogliono cinquecento ducati per lo viaggio fra l'andare e il tornare.
I camelli sono tocchi d'amore il principio del verno, e allora non solo si offendono l'un l'altro, ma nuociono mortalmente a ciascuno uomo dal quale hanno ricevuto ingiuria, percioché allora si raccordano d'ogni minuta percossa ricevuta dai padroni. E se ve ne possono pigliare uno co' denti, lo alzano in aere, poi lo lasciano cascar giú, calpestandolo stranamente co' piedi dinanzi. Non durano in amore se non quaranta giorni, poi ritornano quieti. Questo animale, sí come è paziente di fame, cosí ancora è pazientissimo di sete, percioché può stare quindici dí senza bere e non li fa male: e se i patroni danno ai camelli da bere in capo di tre dí, l'acqua gli offende, percioché il loro consueto bere è di cinque in cinque giorni, o di nove, e al piú per necessità in quindici. Sono ancora i camelli di natura pietosi e hanno qualche sentimento umano, onde avviene che alle volte fra Etiopia e Barberia, convenendo a quei che gli conducono per qualche necessità far la giornata piú lunga dell'usato, veggendo che i camelli non vogliono andar piú avanti, non gli sforzano a camminar con le battiture, ma cantano certe loro particulari canzone, dal diletto delle quali mossi, i camelli seguitano il loro cammino con maggiore velocità che non farebbe un cavallo ben battuto e punto dagli sproni, in modo che essi appena gli possono tener dietro. E io viddi nel Cairo un camello ballare al suono d'un tamburo, e il maestro m'insegnò l'arte con che egli avea fatto imparare al suo. Questa è tale: si elegge un giovinetto camello, il quale si lascia stare per una mezza ora in una stanza fatta aposta come una stufa, il cui terrazzo sia riscaldato dal fuoco; e sonando uno di fuora il tamburo, il camello, non per virtú del suono, ma per cagione di quel caldo che gli offende i piedi, ora alza una gamba ora un'altra, come fanno quei che danzano. Ed essendo egli avezzo a questo per dieci mesi o per un anno, dipoi menato in un luogo publico, tosto ch'ei sente il suono del tamburo, per rimembranza di quei giorni ne' quali sentiva il calore del fuoco, tenendosi di esser su quel battuto alza similmente i piedi e par ch'ei balli. Cosí l'uso ne forma una natura, che esso dapoi in alcun tempo non lascia. Molte altre cose potrei dire del detto animale, le quali per non v'infastidire lascio da parte.


Cavallo barbero.

Questi cavalli sono detti nell'Italia e parimente in tutta l'Europa barberi, percioché vengono di Barberia, e sono d'una spezie che si genera in quei paesi. Ma quelli che hanno sí fatta oppenione s'ingannano, percioché i cavalli comuni di Barberia sono come gli altri, ma questi cosí agili e correnti vengono chiamati nella lingua arabica, cosí in Soria, in Egitto, in Arabia Diserta e Felice e in Asia, cavalli arabi. E tengono gli istorici che questa sorte fosse di cavalli salvatichi che andavano errando per li deserti di Arabia, e che da Ismahel in qua gli Arabi gli incominciassero a domesticare, in tanto che crebbero in quantità e n'empierono l'Africa. La quale openione si conosce esser vera, percioché se ne veggono ancora oggidí non pochi di questi cavalli salvatichi per li diserti d'Arabia e d'Africa, e io ancora ne viddi un piccolo puledro nel diserto di Numidia, di pelo bianco e con i crini ricci sopra il collo. La maggiore esperienza nel corso che si possa fare d'uno di questi cavalli, si è quando essi giungono una fiera detta lant, overo uno struzzo: e se riescono in una di queste due esperienze, allora il cavallo è apprezzato il valore di mille ducati o per cento camelli. E pochi se ne truovano in Barberia, ma gli Arabi del diserto e i popoli di Libia, che usano di allevarne molti, non gli cavalcano nei viaggi né gli adoperano nelle battaglie, ma solamente nelle caccie. Né essi danno loro altro cibo che latte di camella due volte fra il dí e la notte, e cosí gli mantengono gagliardi e leggieri, e piú tosto magri che altrimente; e nel tempo delle erbe ben gli lasciano mangiar delle dette erbe, ma allora non gli cavalcano. Quelli che tengono i signori di Barberia non sono cosí veloci di corso, ma vie piú belli e piú grossi, perché gli danno biada a mangiare; e con questi se ne vagliono ne' bisogni, quando convien loro scampar la furia de' nimici.


Cavallo salvatico.

Il cavallo salvatico è tenuto per una fiera, e non si vede se non rare volte. Gli Arabi del diserto, quando lo pigliano, se lo mangiano, e dicono quella carne esser perfettissima, e piú se è giovane. Ma di rado si può pigliare, né con cavalli né con cani: essi formano certi lacci e gli pongono su l'acqua dove pratica l'animale, coprendogli con l'arena; e tosto che il cavallo pone il piè sopra quel laccio, gli s'annodano i piedi di modo che convien ch'ei si fermi, e in tal guisa si prende.


Lant over dant.

Questo è un animale che somiglia al bue di forma, ma è piú piccolo e ha piú gentili gambe e corna. Il suo colore è quasi bianco, e l'unghie de' piedi sono negrissime. È velocissimo di corso, in modo che non è altro animale che lo avanzi, fuor che, come s'è detto, qualche cavallo barbero. Piú agevolmente si piglia la state, percioché, per lo calor dell'arena e per la velocità del correre, l'unghie gli si muovono, onde per la passione non può correre. Cosí parimente si pigliano i caprioli e i cervi. Del cuoio di questo si soglion fare alcune targhe fortissime, per modo che altra cosa non le può passare che un schioppo: ma molto care si vendono.


Bue salvatico

Quest'altro assomiglia pure al bue, ma è similmente piú piccolo, e sono quasi tutti di color bigio, velocissimo ancora esso. Né si truovano in altro luogo che ne' diserti o ne' confini dei diserti. La sua carne è perfettissima.


Asino salvatico

Si truovano per li deserti o ne' loro confini molti di questi asini, pure di color bigio e velocissimi, e solamente cedeno ai barberi. Questi, come veggiono un uomo, subito cominciano ad urlare tirando de' calci, e stanno fermi fin che l'uomo gli è tanto vicino che gli può giunger con mano: allora fuggono. Gli Arabi delli diserti gli pigliano con le trappole e altri ingegni. E vanno sempre molti insieme allora che si pascono o beono. La lor carne è buona, ma quando è calda pute e sa del salvatico; ma, lasciandola raffreddare due dí doppo cotta, è cosa perfetta e saporita.


Buoi di monti d'Africa.

Tutti i buoi domestichi che nascono ne' monti d'Africa sono tanto piccoli che paion vitelli di due anni, a comparazione degli altri. Pure i montanari gli adoperano in arare i terreni, e dicono che sono molto gagliardi e molto durano alle fatiche.


Adimmain.

Questo animale è domestico e ha la forma di montone, ma è grande come un mediocre asino; ha le orecchie molto lunghe e pendenti. E gli abitatori di Libia tengono questi animali per le loro pecore, e ne cavano gran copia di latte, del quale fanno butiro e cacio. La lana di questi è buona, ma non molto lunga, e solamente le femmine, non i maschi, mettono le corna e sono piacevoli. Io, invaghito dalla giovanezza, piú volte volli cavalcar sopra queste bestie, ed era portato gagliardamente un quarto di miglio. Non se ne truovano in gran quantità, se non ne' diserti di Libia; ben se ne vede alcuno nei terreni di Numidia, ma per cosa mostruosa si tiene.


Montoni.

Questi montoni non hanno altra differenzia dagli altri se non nella coda, la quale è larghissima; e tanto uno ha piú grossa la coda, quanto egli è piú grasso: ve n'è alcuno la cui coda pesa dieci e venti libbre, e ciò avviene quando s'ingrassano da per loro. Ma in Egitto sono molti che attendono a ingrassare i detti castroni, e gli pascono di remola e di biada, onde tanto s'ingrossa loro la coda che non si posson muovere, ma quelli che ne hanno cura legano la detta coda sopra certi carri piccoli, e a quel modo essi camminano. Io viddi una coda di questi castroni in Asiot, città di Egitto discosta dal Cairo centocinquanta miglia sopra il Nilo, la quale pesava ottanta libbre; e molti mi affermavano averne veduto di peso di centocinquanta. Tutto adunque il grasso di cotai bestie è nella coda solamente, né se ne truovano di tal sorte se non in Tunis e in Egitto.


Leone.

Questi animali sono salvatichi e nocivi a tutti gli altri animali, e sono piú di tutti gli altri gagliardi, animosi e crudeli. Mangiano non pur le bestie ma gli uomini, e alcuno in tal luogo ve n'è che ha ardimento di assaltare dugento uomini a cavallo. Ciascuno assalta securamente i greggi degli armenti, e ve ne piglia e porta nel suo bosco e nelle grotte dove sono i suoi piccoli figliuoli. Ma degli uomini a cavallo tale, come io vi dico, ve n'è, che n'ammazzarà cinque e sei. I leoni che abitano ne' monti freddi sono meno audaci e men fieri, né possono tanto nuocere, massimamente agli uomini. All'incontro, quanto piú participano del caldo, tanto sono piú rabbiosi e audaci, come sono quelli che si truovano fra Temesna e il regno di Fez, e nel diserto di Angad vicino a Telensin, e fra Bona e Tunis: questi sono i piú famosi e i piú crudeli leoni di tutta l'Africa. Il verno, quando essi vanno in amore, combattono insieme a sanguinosa battaglia: tristo a colui che gl'incontrano; e alle volte otto e dodici si veggono insieme dietro a una leonessa. Ho inteso da molti uomini e donne che, quando avviene che una femmina s'abbatta sola in luogo rimoto in uno di questi leoni, mostrandogli ella la sua natura, il leone subito grida forte e abbassando gli occhi se ne va via. Ciascuno creda quello che gli pare. Infine tutto quello che piglia un leone, se ben fosse un camello, se lo porta in bocca. Due volte io fui vicino ad esser divorato da' leoni, e per bontà di Dio amendue ne scampai.


Leopardi.

Abitano questi animali ne' boschi di Barberia, e sono molto gagliardi e crudeli, ma non nuociono all'uomo se non quando, alcune rare volte, avviene che lo incontri in qualche stretto calle, dove l'uomo non possa dargli luogo, o se alcuno gli sgrida o dà loro noia. Allora gli s'avventa adosso, e con gli artigli aggrapandogli il volto, tanta carne ne porta via quanta egli ne prende, e tal volta gli spezza il cervello e uccide l'uomo. Non usa di dar molto assalto al gregge, ma de' cani è nimico mortalissimo, e gli ammazza e mangia. I montanari della regione di Costantina sogliono loro dar la caccia co' cavalli, chiudendone tutti i passi, onde il leopardo, fuggendo, come truova a uno de' passi la quantità de' cavalli, corre a un altro, e ivi trovando il medesimo, al fine doppo molto ritornare in su e in giú è occiso. E chi se lo lascia fuggire dalla sua parte è tenuto di fare un convito a tutto il numero dei cacciatori, se fussero ben trecento.


Dabuh.

Dabuh è un animale grande e come un lupo, e quasi ha forma di lupo, e i suoi piedi somigliano a piedi umani, e similmente le gambe. Gli Arabi cosí lo chiamano, ma gli Africani iesef. Non nuoce alle altre bestie, ma cava i corpi umani delle sepolture e gli mangia. È vile e semplice animale. I cacciatori, informati della grotta ove egli abita, vanno a quella grotta sonando un tamburino e cantando, e l'animale tanto si diletta di quell'armonia che non s'accorge d'uno che, fra quello spazio, gli annoda ambe le gambe con una salda fune e legato lo strascina fuori, onde gli altri l'uccidono.


Il gatto che fa il giubetto.

Sono questi gatti naturalmente salvatichi, e si truovano ne' boschi d'Etiopia. I mercatanti gli pigliano piccoli e gli fanno allevare in gabbie, nudricandogli di latte e di alcune minestre di remola, e ancora danno lor carne. Il giubetto cavano due e tre volte il giorno, il quale altro non è che sudore del detto animale, percioché essi, con una verghetta percotendolo, lo fanno spesso muovere di qua e di là per la gabbia, per insino a tanto che n'esce il sudore. E allora glielo cavano di sotto le braccia, le coscie, il collo e la coda: e quello è il giubetto.


Simia.

Simie sono de diverse sorti, alcune dette monne, con la coda, altre dette babuini, senza. Si truovano in gran quantità ne' boschi di Mauritania, ne' monti di Buggia e ancora in quelli di Costantina. Hanno, come si vede, non pure i piedi e le mani, ma ancora la faccia molto simile all'uomo, e sono dotate dalla natura di maravigliosa astuzia e ingegno. Si nutriscono di erbe e di grano, e quando vogliono rubbar le spighe, vanno venti e trenta insieme, e una riman fuori del campo a far la guardia: e subito che vede venire il padron del grano grida forte, onde le altre sgombrano velocemente, saltando sugli alberi e faccendo d'uno all'altro albero salti grandissimi. Le femmine portano i loro figliuoletti sopra le spalle, e con essi saltano similmente pure d'un albero all'altro. Quelle che sono ammaestrate fanno cose incredibili; ma sono sdegnosi e crudeli animali, benché di facile si placano.


Conigli.

Gran quantità di conigli salvatichi è ne' monti di Gumera e in Mauritania. Dico che si tengono per salvatichi, ma io ho ferma oppenione che essi siano della spezie dei domestici, il che lo dimostra la carne, che non è dai domestici differente né di colore né di sapore.

DE' PESCI

Ambara pesce.

Ora, per dire de' pesci, ambara è un pesce spaventoso di forma e di grandezza, il quale non si può vedere se non quando e' muore, percioché allora il mare lo getta al lido. La testa sua è durissima, come ella fosse di pietra; e ve ne sono alcuni lunghi venticinque braccia e altri piú. Dicono gli abitatori della riva dell'Oceano che questo è quel pesce che getta l'ambracan, ma sono fra sé differenti, se ciò è sterco o sperma. Come si sia, egli merita per la sua grandezza esser chiamato balena.


Cavallo marino.

Nel Niger e ancora dentro il Nilo si truova questo animale, il quale ha forma di cavallo, ma non ha pelo. La sua pelle è durissima ed è grande come un asino; vive cosí nell'acqua come nel terreno, ma non esce dell'onde se non la notte. È maligno e pericoloso per le barchette che vanno cariche giú pel Niger, percioché esso, accostandovi la schiena, le travolge e affonda: e guai a chi non sa notare.


Bue marino.

Questo è un altro animale che somiglia in ogni sua parte al bue, ma è molto piccolo, di maniera che pare un vitello di sei mesi; e si truova nel Niger e nel Nilo ancora. I pescatori alcuni ve ne pigliano, i quali molti dí vivono in terra; e la loro pelle è molto dura. Io ne viddi uno nel Cairo, menato con una catena onde aveva legato il collo, da uno che mi disse averlo preso nel Nilo vicino ad Asna, città discosta dal Cairo verso mezzogiorno cerca a quattrocento miglia.


Tartaruca testuggine.

Questo animale si doveva porre nel numero degli animali terrestri, percioché vive ne' diserti, e molti se ne truovano nel diserto di Libia di grandezza d'una botte. Scrive Bicri geografo nel libro delle regioni e vie d'Africa che, trovandosi un uomo da bene la notte in questo diserto stracco dal lungo cammino, vidde dapresso una pietra molto alta, sopra la quale fe' pensiero di dormire, acciò qualche animale velenoso non gli nocesse. Il che avendo fatto, trovossi la mattina discosto da quel luogo circa tre miglia, del che maravigliandosi, intese poi quella che egli stimò che fosse pietra esser stata una testuggine. La quale suol starsi nel giorno ferma e camminar la notte pascolando, ma cammina cosí lenta che l'uomo non se n'accorge. Io per me non ve ne viddi mai di cosí grandi; ben ne ho vedute alcune della grandezza d'un gran barile. Dicesi che la carne di queste testuggini guarisce la lepra, se non passa a sette anni, e bisogna che se ne mangi sette giorni continui.


Cocodrillo.

Si truova gran quantità di questi cocodrilli nel Niger, ma piú nel Nilo. È animale maligno e molto nocevole. La sua lunghezza è di dodici braccia e ancora piú, e tanto è lunga la coda quanto il rimanente del corpo: ma rari si truovano di questa grandezza. Ha quattro piedi ed è simile al ramarro, né è piú alto d'un braccio e mezzo. La coda è annodata di molti nodi, e la pelle ha tanto dura che non si può passare con una balestra grossa. Alcuni cocodrilli non mangiano altro che pesci, altri mangiano degli animali e degli uomini, i quali con grande astuzia si stanno ascosi vicino ai liti dove pratican gli uomini e molte bestie, e come gli veggono mandano velocemente quella lor coda fuori dell'acqua, e con quella legono o bestia o uomo e tirano in acqua e lo mangiano. Ma quando mangiano, non muovono se non il palato di sopra, percioché quel di sotto è congiunto con l'osso del petto. Non sono tutti di questa natura, percioché se fussino non si potria abitar alle ripe del fiume Niger o del Nilo.
Navigando io per il Nilo in una barca dal Cairo a Cana (ch'è una città nell'Egitto alto discosta dal Cairo quattrocento miglia), quando fussemo a mezzo il viaggio, una notte che la luna era alquanto coperta di nugole e con buon vento navigavamo, tutti li marinari e passaggieri dormivano. Io veramente, che mi era ritratto nella mia cameretta studiando con la candela, fui chiamato da un vecchio, che era uomo di buona vita, qual veggiava e leggeva certe orazioni, e mi disse: "O tale, sveglia alcun de' nostri, che venghi aiutarmi a pigliar un gran pezzo di legno, che sarà buono diman per far la cucina". Io gli risposi: "Volete venga io medesimo?", piú presto che svegliar alcuno a quell'ora, che era quasi mezzanotte. Disse adunque costui: "Io farò la pruova se da per me lo potesse pigliare". E come la barca fu appresso, secondo lui, al legno, cominciò a distender le mani per mettervi un laccio e tirarlo suso. Ecco che subito sbalzò fuori d'acqua una lunga coda, che lo cinse e lo tirò giuso sotto acqua in un momento. Io allora cominciai a gridare, e tutti della barca saltarono suso, e si calò la vela e si fermassemo, e molti saltarono in acqua per trovarlo, e si stette una buona ora legati a terra: ma il tutto fu indarno, che mai piú fu veduto, e tutti affermarono quello esser stato un cocodrillo. Piú oltre navigando, molti in frotta ne vedemmo sopra a certe isolette in mezzo il Nilo, che si stavano al sole; e tenendo le lor bocche aperte, certi uccelletti bianchi della grandezza d'un tordo v'entravano dentro, e statovi aliquanto spazio fuori uscivano e volavano altrove. E dimandando io la cagione di ciò, mi fu risposto che nelle gingive e fra i denti dei cocodrilli, che assai pesce over animali mangiano, sempre rimane qualche reliquia di carne attaccata, la quale putrefatta crea alcuni piccoli vermi che fan lor noia: onde quegli uccelli, che volando vedeno i vermi, entrano nella lor bocca per mangiargli. Ma, come gli hanno mangiato, il cocodrillo serra la bocca per inghiottir l'uccello; ma egli ha sopra il capo una acuta e dura spina con la quale punge il palato al cocodrillo, onde conviene ch'ei torni ad aprir la bocca, e l'uccello via se ne fugge. Se avverrà che io possa avere un di questi uccelli, narrerò questa istoria piú securamente.
I cocodrilli fanno le lor uove nel terreno e le cuopreno con la sabbia, e tosto che nascono i figliuolini, essi entrano nel fiume. Ben sono alcuni che, sviandosi dall'acqua, stanno nel diserto: questi sono velenosi; ma quelli che vivono nel fiume non hanno veleno. Nell'Egitto molti sogliono mangiar della lor carne e affermano che è molto buona, e nel Cairo è in gran prezzo il grasso, e dicesi che è buono a guarir le piaghe vecchie e incancherite.
S'usa di pigliare il cocodrillo in questa guisa. I pescatori pigliano una lunga e grossa fune di cento e piú braccia, l'un capo della quale legano saldamente a un grosso albero, o a una colonna a questo effetto piantata su la riva del Nilo. Dall'altro capo della fune legano uno uncino di ferro, lungo un braccio e grosso come un dito d'un uomo, al quale attaccano o castrato o una capra viva, al grido della quale esce il cocodrillo al lito e subito l'inghiotte con tutto l'uncino, il quale gli s'attraversa e ficca nelle interiori, in modo che non si può lasciare. Onde essi ora allungando ora scortandogli la fune, il cocodrillo dibattendosi e or qua or là percotendo, al fine vinto si lascia cadere come morto, e allora i pescatori l'uccidono con certe partigiane, forandogli la gola, le braccia e di sotto le coscie verso il ventre, nei quali luoghi tenerissima ha la pelle, perché un archibuso o falconetto a pena è bastante a passargli la pelle della schiena, tanto è grossa e durissima. Su le mura di Cana viddi piú di trecento capi di questi animali appiccati con le bocche aperte, le quali erano tanto ampie e grandi che vi sarebbe entrata una vacca intera; i denti erano acuti e grandi. Tutti li pescatori delle terre d'Egitto hanno costume, come pigliano uno cocodrillo, di tagliarli il capo e attaccarlo alle mura, come fanno li cacciatori li capi delle fiere.


Dragone.

Nel monte Atlante in certe grotte si truovano molti dragoni grossissimi, i quali sono gravi della persona e con fatica si muovono, percioché una parte è grossissima, cioè quella del busto, e l'altra verso la coda è molto sottile, e cosí verso il capo. Sono animali velenosissimi, e se uno a caso gli tocca o è morso da loro, subito le sue carni diventano fragili e s'ammolliscono come il sapone, né v'è scampo alla sua vita.


Idra.

Idra è una serpe corta e sottile di coda, e cosí verso il capo. Si truovano molte di queste serpi nel diserto di Libia, le quali hanno un veleno acutissimo, né altro rimedio dicono essere a chi è morso dalle dette che a tagliar quella parte di membro dove è la morsicatura, prima che il veleno discorra per le altre membra.


Dubh.

Questo animale vive ne' diserti ed è simile di forma alla tarantola, ma è piú grosso, e lungo come un braccio d'un uomo, e largo quattro dita. Non bee mai acqua, e se alcuno a bere ne lo sforzasse buttandoli acqua in bocca, senza intervallo si morrebbe. Fa le uova come la testuggine, non ha veneno alcuno. Io ho veduto gli Arabi pigliarlo nelli diserti, e ancora io ne volsi pigliare e scannare, ma non esce molto sangue. Dapoi che è arrostito se li leva la scorza e si mangia: ha la carne saporita come di ranocchia, e il medesimo gusto. È veloce come le lucertole e, s'egli si caccia in un buco e che la coda rimanga fuori, non è forza che lo possa cavar di là: ma i cacciatori con zappette allargano il buco, e a quel modo lo prendono. Doppo tre giorni che è ucciso, accostato al fuoco, si muove non altrimenti che se allora scannato fosse.


Guaral.

Guaral è un animale che somiglia al sopradetto, ma è piú grande, e ha nel capo il veleno e nella coda. Gli Arabi, sí come io ho veduto, gli tagliano quelle due parti e lo mangiano. Ha brutto colore e brutta figura d'animale, di modo che non mi bastò mai l'animo di mangiar della sua carne.


Cameleonte.

Il cameleonte è animal grande come un ramarro, ma è brutto e gobbo e magro, e ha la coda lunga come il topo; cammina piano; si nudrisce d'aria e de' razzi del sole, allo spuntar de' quali verso loro si rivolge aprendo la bocca, e dove si gira il sole ancora egli si volge. Muta eziandio colore secondo la varietà dei luoghi dove si truova, onde se il detto è sopra il negro diventa negro, se sopra il verde verde, e somigliantemente degli altri colori: del che io stesso ne feci la esperienza. È nimicissimo delle serpi che hanno veleno, e quando ne vede una sotto un albero addormentata, subito monta sopra l'albero e considera di esser in luogo che sia diritto sopra il capo della serpe; e allora manda fuori della bocca un filo di sputo come quello dei ranocchi, el quale ha in cima una gocciola a guisa d'una perletta, e se 'l vede che 'l filo non descende diritto sopra il capo della serpe, muove li piedi del luogo, e questo fin che 'l fa cascare detta gocciola sopra la testa, la quale ha questa virtú, che come gliela tocca la penetra e fa morire. Li nostri scrittori africani hanno detto assai cose della sua proprietà e virtú, le quali per ora non mi ricordo.


Struzzo.

Per ragionare eziandio alquanto degli uccelli, lo struzzo è uccello salvatico grande di persona, e ha quasi forma di oca. Ma le gambe ha molto lunghe e cosí il collo, di modo che tali vi sono che gli hanno lunghi due braccia. Il suo corpo è grosso e nelle ali hanno penne grandi, onde non può volare, ma nel correre molto s'aiuta col percuotere delle dette ali e della coda, le quali sono negre e bianche come quelle della cicogna. Suole abitare in secchi diserti dove non si truovi acqua, e fa le sue uova nell'arena, dieci e dodici insieme; e ciascun uovo è grande quanto una pallottola di artigliaria che pesasse quindici e sedici libbre, ma li gioveni le fanno piú piccole. Ma fatte che l'ha, è di sí poca memoria che si scorda il luogo dove gli ha fatti, onde, come la femmina si abbatte in questi uovi, o che essi siano suoi o d'altri, ella gli cova e scalda: e subito che sono nati i piccoli figliuoli, essi vanno per la campagna cercando il cibo, e sono molto veloci nel correre prima che nascano loro le penne, di maniera che non si posson giugnere. Lo struzzo è semplice e non sente cosa alcuna per le orecchie ed è sordo, e mangia ciò che truova, per insino al ferro; e la sua carne è puzzolente e viscosa, massimamente quella delle coscie. Pure nei terreni di Numidia se ne mangia gran quantità, percioché prendono gli struzzi giovani e gli nudriscono e ingrassano, come di sopra si disse. Ed essi vanno a schiera a schiera per lo diserto, onde a chi gli vede dalla lunga par di vedere altretanti uomini a cavallo, il che causa assai volte di gran romori e paure alle carovane. Io ancora ho mangiato di questa carne quando era in Numidia, né mi parve molto cattiva.


Aquila.

Questi uccelli sono divisi in molte spezie circa alla proprietà, alla grandezza e al colore, e la maggiore è detta nella lingua araba nesr.


Nesr.

Questo è il piú grande uccello che si truovi in Africa, ed è maggior della grue, ma ha piú corto il rostro, il collo e le gambe. Tanto ad alto ascende volando che non si vede, e come vede qualche animal morto si cala subito sopra, ma quando vola ne va sempre in compagnia di molti; e vive una lunga età, di maniera che molti se ne hanno veduti ignudi e senza penna alcuna sopra il capo, come se fusse raso. Vivono come è detto molti anni, e per la lunghezza del tempo cascandoli tutte le penne e piume, si riducono a star nelli nidi come se fussero nati allora, e li gioveni gli proveggono di cibo. M'è stato detto che in lingua italiana vien chiamato buettere, il che non ho mai sentito. Usano di abitar nelle rupi delle cime degli altissimi e diserti monti, e piú in quelli d'Atlante; pure coloro che sono pratichi de' luoghi ve ne prendono alcuni.


Bezi, altrimente astore.

Il bezi, detto nella lingua italiana lo astore, si truova in Africa in molta copia. Alcuni sono bianchi, e questi si prendono in certi monti dei diserti di Numidia, e sono i piú cari e i piú perfetti, e con essi si pigliano le grue. Sono di diverse spezie: alcuni sono atti a pigliare coturnici e starne, e alcuni sono buoni per lepri. Nell'Africa s'insegna all'aquile comuni a pigliar volpi e lupi, e combattono insieme, ma l'aquile pratiche gli pigliano sopra la schiena con gli artigli e sopra il capo con il becco, di modo che non gli può aggiunger a morsicargli con la bocca, e se l'animale rivolta la sua schiena verso la terra, l'aquila non si cura fin che l'amazza o cava gli occhi. Dicono molti nostri istorici africani che 'l mascolo dell'aquila qualche fiata si congiunge con la lupa e la ingravida, ma ella tanto sgonfia che crepa, e n'esce fuori un dragone, il quale ha il rostro e le ali di uccello, la coda di serpe e i piedi di lupo, e il pelo pur di serpe macchiato di diversi colori; non ha forza d'alzar le ciglia degli occhi, e abita nelle grotte. Ma io mai nol vidi, né intesi da alcuno che veduto l'avesse; nondimeno è fama publica per tutta l'Africa che si vede questo mostro.


Nottole, altrimenti pipistrelli.

Questi brutti uccelli e nimichi della luce si truovano per tutto il mondo, ma in certe grotte del monte Atlante se ne veggono molti, grandi come colombi e ancora piú, massime nelle ale. Io proprio non gli ho veduti, ma m'è stato referito da infinite persone.


Pappagallo.

Ne' boschi d'Etiopia si truova gran quantità di questi uccelli, di varii e diversi colori, ma i migliori, e quelli che piú perfettamente imparano a formar gli accenti umani, sono i verdi. Se ne veggono molti grandi come colombi, ma sono pure di diversi colori, cioè nero, rosso e berrettino: questi non sono molto atti a imitar le parole, ma hanno suave e dolce voce.


Locuste.

Di questi animali si vede nell'Africa alle volte tanta quantità che, quando esse volano, a guisa di nebbia ricuoprono la luce del sole. Mangiano gli alberi, i frutti e le foglie degli alberi, e partendosi lasciano le loro uove, delle quali altre poi ne nascono, le quali non volano, ma sono peggiori delle madri: queste mangiano per insino alle scorze degli alberi; dove si truovano lasciano gran carestia, massimamente nella Mauritania. Ma i popoli dell'Arabia Diserta e di Libia hanno per somma ventura la venuta di sí fatte locuste, percioché alcuni le mangiano lesse, e altri le asciugano al sole, dipoi le pestano e le fanno come farina, e cosí le mangiano.
Questa è quasi tutta la qualità degli uccelli e degli animali che non si truovano nell'Europa, o sono da quelli che si truovano in qualche parte differenti. Ora, detto che averemo d'alcune poche cose minerali che si truovano in Africa, e di alcuni frutti e arbori domestichi e salvatichi, all'opera imporremo fine.


DE' MINERALI

Sale.

Nella maggior parte d'Africa altro sale non si truova che quello che si cava delle minere nelle grotte, non altrimente che s'ei fusse marmo o gesso, e ve n'è di berrettino, di bianco e di rosso. Nella Barberia se ne truova gran quantità e nella Numidia mediocremente, ma tanto che basta; nel paese de' negri non ve n'è, massimamente nell'Etiopia interiore, dove il detto vale mezzo ducato la libbra. E quelle genti non usano a tenerlo nel salarino sopra la mensa, ma mangiando il pane tengono un pezzo di sale in mano, e per ogni boccone che pigliano pongono la lingua sopra il sale e lo leccano, e ciò fanno per non ve ne consumar molto. In alcuni laghetti e paludi di Barberia si congela la state del sale, il quale è uguale e bianco come ne' luoghi vicini a Fez.


Antimonio.

Questo nasce in alcuni luoghi d'Africa nelle minere del piombo, e i maestri lo dipartono dal piombo col zolfo. Se ne truova gran quantità ne' piedi del monte Atlante verso mezzogiorno, massimamente dove Numidia confina col regno di Fez. Eziandio in altri luoghi si truova molto zolfo.


Euforbio.

Euforbio è gomma di certa erba che nasce a modo d'un capo di cardo salvatico, fra i rami della quale nascono certi frutti grossi come cetriuoli e verdi, i quali hanno pure quei granetti di sopra come il cetriuolo, ma sono molto lunghi, alcuni un braccio e altri piú. Li detti frutti non nascono sopra li rami della detta pianta, ma escano di sotto terra come stipite o fusto: e da uno cespite di questa pianta n'escono venti, venticinque e trenta. I villani di quel paese, come essi sono maturi, gli pungono con un coltello, e fuori n'esce un liquore a guisa di latte, il quale diviene viscoso; dipoi lo levano pur col coltello e lo mettono negli utri, e in quel modo si asciuga. Ed è da sapere che la pianta è tutta spinosa.


Pece.

Sono due sorti di pece: l'una è materiale, e si raccoglie d'in su le pietre le quali sono in mezzo l'acqua d'alcune fonti, e quell'acqua molto pute e ha il sapore della medesima; l'altra sorte è artificiale, e si cava del ginepro o del pino. Io l'ho veduta far nel monte Atlante: fanno un forno tondo e profondo, che ha di sotto una buca che è sopra una fossa come un vaso; pigliano i rami verdi de' detti arbori e, tagliati in pezzi minuti, pongono dentro il forno, e turando la finestra del forno vi si fa un fuoco tiepido, per lo calor del quale il legno si distilla e corre nella fossa, per la buca che è nel fondo del forno, e in questa guisa si raccoglie e si pone negli utri.


Maus frutto, cioè musa.

Questo frutto è molto gentile e dolce, della grandezza de' cetriuoli piccoli, e nasce di piccola pianta, e ha le foglie grande, larghe e lunghe un braccio. Dicono i dottori maumettani questo esser quel frutto che vietò Dio in cibo ad Eva e Adam, percioché come l'ebbe mangiato si scoperse le sue vergogne e, volendole coprire, pigliò le foglie di questo frutto, le qual sono piú atte a coprire che foglie di alcun frutto. Ne nascono molti in Sela, città nel regno di Fez, ma maggior copia in Egitto, massimamente in Damiata.


Cassia.

Gli alberi che fanno la cassia sono grossissimi, e hanno le foglie quasi simili alle foglie del moro. I fiori sono larghi e bianchissimi, e producono tanti frutti ch'è di bisogno levarne molti, innanzi che siano maturi, per potere alleggerirgli, percioché la gravezza gli romperebbe. Nascono solamente nell'Egitto.


Terfez.

Questo si può dire vie piú tosto radice che frutto. È simile alle tartufole, ma è piú grossa e ha la scorza bianca, e nasce nell'arena in luoghi caldi: si conosce dove ella giace al gonfio del terreno un poco rotto. Alcuni sono grandi come le noci, e alcuni piú grossi come le melangole. Secondo i medici, che la chiamano camha, è frutto rinfrescativo. Ne nasce in gran quantità ne' diserti di Numidia, e gli Arabi lo mangiano cosí volentieri come s'ei fusse zucchero. E invero che, arrostito su la bracia e dipoi netto e cotto in brodo grasso, è cibo delicatissimo: gli Arabi lo mangiano bollito in acqua over in latte. Se ne truova ancora in gran quantità nell'arena vicina alla città di Sela.
Del dattero ora niente diremo, per averne parlato a bastanza quando trattammo di Segelmesse, città di Numidia.


Fico egizio, detto dagli Egizii "giumeiz".

L'albero e le foglie di questo fico sono come quelli degli altri fichi, ma sono altissimi e grossissimi. E i frutti non nascono fra le foglie sui rami, cioè sopra il capo delle gemme, ma nel tronco dell'albero, dove non nasce foglia; e hanno il medesimo sapor dei fichi comuni, ma la scorza è molto grossa e il colore pavonazzo.


Ettalche albero.

Questo è un grande e spinoso albero, ha le foglie come il ginepro, e fa una gomma simile ai mastici. Gli speziali d'Africa usano di falsificar li mastici con la detta gomma, percioché ha il medesimo colore e ancora un poco di odore. Simigliante si truova nel diserto di Numidia e di Libia e nel paese de' negri; ma gli alberi di Numidia, quando s'aprono, hanno in mezzo il legno la istessa bianchezza che hanno gli altri alberi, e quelli di Libia sono di dentro pavonazzi, negrissimi quelli della terra de' negri. E questa tal medolla negra è chiamata nell'Italia sangu, e di lei si fanno alcuni belli e gentili strumenti. Il pavonazzo oggidí si adopera dai medici d'Africa a guarire il male francioso, e volgarmente dallo effetto lo chiamano il legno del mal francese.


Tauzarghente radice.

Questa è una radice assai odorifera, la qual si truova nelle rive dell'Oceano di verso ponente. I mercanti di Mauritania ve ne portano nel paese de' negri, dove s'adoperano in luogo di delicato profumo. Ma non bisogna abbruciarla o altrimente scaldarla, percioché tenuta nelle camere rende da se medesima buon odore. In Mauritania una soma di camello vale un ducato e mezzo, ma nel paese de' negri la medesima soma è di valuta di ottanta e cento ducati, e alcuna volta piú.


Addad radice.

Questa è un'erba amara, e la sua radice ha tal veleno che una dramma di quell'acqua stillata ha forza d'uccider l'uomo in termine d'un'ora: e questo è noto in tutta l'Africa per insino alle femine.


Surnag radice.

Quest'altra è similmente una radice, che nasce nel monte Atlante, ma nelle parti di ponente, la qual, come dicono quelle genti, ha virtú di confortare il membro dell'uomo, e moltiplicare il coito a chi la mangia in qualche lattovaro. Ancora affermano che se uno per aventura s'incontra ad orinar sopra la detta radice, che subito il detto membro se gli rizza. Né voglio tacer ancora quello che dicono tutti gli abitatori del monte Atlante, che si hanno truovate molte gioveni, di quelle che vanno pascendo gli animali per questo monte, che hanno perso la loro virginità non per altro accidente se non per aver orinato sopra detta radice: alli quali per giuoco io respondeva creder esser vero ciò che dicevan di detta radice, e appresso che se ne trovavan di tanto avvelenate che non solamente facevan perder la virginità, ma ancora enfiarli tutto il corpo.
Questo è in somma quanto di bello e memorabile ho veduto io, Giovan Lion