Giovanni Battista Ramusio

NAVIGAZIONI ET VIAGGI

Volume primo



All'eccellentiss. M. Ieronimo Fracastoro
Gio. Battista Ramusio


Fu costume degli antichi, continovato insino ai tempi nostri, che quelli che le lor composizioni o in prosa o in verso desideravano di mandare in luce, le dedicassero a uomini che potessero far giudicio di quelle, o vero ad amici che le desiderassero di leggere, o vero a quelli che con lo splendor del nome loro le facessero aver maggior credito e riputazione. La qual usanza volendo io osservare in questa mia fatica - quale ella si sia - ch'io ho preso in raccogliere e metter insieme alcuni scrittori delle cose dell'Africa e dell'India, non truovo uomo a chi la debba piú convenientemente raccomandare, che mi sodisfaccia nelle cose sopradette, salvo che l'Eccel. Vostra, perciocbé nessuno penso che la possa meglio di lei giudicare, o che con maggiore affezione la desideri di leggere, o che col chiaro nome suo gli acquisti e piú credito e piú lunga memoria. Prima perché essa, cb'è tanto instrutta della geografia quanto altri ch'io conosca, giudicando ch'io in ciò avessi a recar qualche giovamento agli uomini, fu quella che da principio m'indusse con la sua auttorità a questa impresa, e ancora con molte ragioni altre fiate me ne confortò per mezo de' suoi savi discorsi e dolci ragionamenti avuti col magnifico conte Rimondo dalla Torre, che con tanto suo diletto l'ascoltava disputare sí dottamente de' moti de' cieli e del sito della terra. Poscia, perché ho voluto lasciare a' nostri posteri con questa mia fatica quasi una testimonianza della nostra lunga e santa amicizia, non potendo meglio al debito della riverenza ch'io le debbo e all'agezione ch'essa mi porta sodisfare, essendo certissimo che le sarà cara e la leggerà volentieri.
Ma se voglio poi adempire il desiderio ch'io ho, che questa mia fatica resti qualche tempo viva appresso degli uomini, con qual miglior modo lo posso fare che col raccomandarla al chiaro nome vostro? Il qual tengo per fermo che dopo la morte del corpo abbia da rimanere immortale, conciosiacosaché l'Eccel. Vostra sia stata quella che sola a' tempi nostri abbia rinovato il divino modo dello scrivere degli antichi circa le scienzie, non imitando o da libro a libro mutando e trascrivendo o dichiarando - come molti fanno - le cose d'altri, ma piú tosto, con la sottilità dell'ingegno suo diligentemente considerando, abbia recato al mondo molte cose nuove prima non udite né punto d'altrui imaginate: come nell'astronomia alcuni nuovi e certissimi moti de' cieli e la sottilissima ragion degli omocentrici; in filosofia il secreto modo per lo qual si crea in noi la intelligenza e la non conosciuta via di cercar le cause mirabili ch'a tutti i passati secoli erano state occulte, come e della concordia e discordia naturale che in molte cose esser veggiamo; in medicina le cause delle contagiose infermitadi e gli exquisiti e presentanei rimedi di quelle, lasciando adietro il divino poema della sua "Sifilide", il quale, benché nella gioventú da lei fusse scritto come per giuoco, nondimeno è pieno di tante belle cose di filosofia e di medicina, e di sí divini concetti vestito, e dipinto di tanti vari e poetici fiori, che gli uomini de' tempi nostri non dubitan punto di agguagliarlo all'antiche poesie e averlo nel numero di quelli che meritano di vivere ed esser letti per infiniti secoli.
Gli stati, le signorie, le ricchezze e cose simili concedute dalla fortuna furon sempre riputate - sí come veramente sono - instabili e di poca vita, dove il tesoro dell'animo, e massimamente del pregio ch'è quello di V. Eccell., si sa certo ch'è saldo e che resiste ad ogni ingiuria e violenza di tempo e si sforza a mal suo grado di farsi eterno e immortale. E che questo cb'io dico sia vero,. chi vorrà discorrer la vita d'infiniti gran principi e signori stati in Italia e in altre parti del mondo e, per dir meglio, di quelli che furon poco avanti a' nostri tempi, troverà cbiaramente di molti, anzi. della maggior parte, che il medesimo sepolcro che coperse il corpo oscurò parimente il nome loro, e pur di molti dotti scrittori morti già molti secoli vive ancora la memoria negli uomini e ogni ora piú fresca fiorisce. Giudico adunque, per quel fine ch'io debbo sopra il tutto desiderare, di aver fatto ottima elezione. oltracbé io sono anche stato indotto da un certo instinto di naturale affezione e osservanza verso gli uomini ornati di lettere e della scienza delle celesti e naturali cose ripieni, parendomi che in sé ritenghino non so che di divino che sopra gli altri uomini gli fa degni di onore e di maraviglía.
Ma la cagione che mi fece affaticar volentieri in questa opera fu che, vedendo e considerando le tavole della "Geografia" di Tolomeo, dove si descrive l'Africa e la India, esser molto imperfette rispetto alla gran cognizione che si ha oggi di quelle regioni, ho stimato dover esser caro e forse non poco utile al mondo il mettere insieme le narrazioni degli scrittori de' nostri tempi che sono stati nelle sopradette parti del mondo e di quelle han parlato minutamente; alle quali aggiugnendo la descrizion delle carte marine portoghesi, si potrian fare altretante tavole che sarebbero di grandissima satisfazione a quelli che si dilettano di tal cognizione, perché sarian certi dei gradi, delle larghezze e lunghezze almanco delle marine di tutte queste parti, e de' nomi de luoghi, città e signori che vi abitano al presente, e potrian conferirle con quel tanto che ne hanno scritto gli auttori antichi. Nella qual opera quanto un debile e piccolo ingegno come è il mio abbia durato di fatica, massimamente per la diversità delle lingue nelle quali detti auttori banno scritto, non voglio ora dirlo, accíoché non para che con parole aggrandisca le fatiche e vigilie mie: ma i benigni lettori, a ciò pensando, spero che per se medesimi in qualche parte lo conosceranno. E se pur noi abbiamo mancato in molti luoghi - il che confesso esser il vero -, non è però proceduto dalla poca diligenza nostra, ma píú tosto perché il valor dell'ingegno non ha potuto pareggiarsi all'ardore della buona volontà. Oltraché gli esemplari che mi son venuti alle mani erano estremamente guasti e scorretti, cosa che averia sbigottito ogni forte e gagliardo intelletto, se non fusse stato sostenuto dalla considerazione del piacere ch'erano per dover pigliar tutti gli studiosi delle cose di geografia, e massimamente di questa parte dell'Africa scritta da Giovan Lioni; della quale a' tempi nostri non si sa che per alcuno altro auttore ne sia stata data notizia, o almeno cosí copiosamente e con tanta certezza. Ma che dico io del piacere che ne aranno li dotti e studiosi? Chiè colui che possa dubitare che ancor molti dei signori e principi non si abbiano a dilettare di cosí fatta lezione? Ai quali piú che ad alcuno altro appartiene il saper i secreti e particolarità della detta parte del mondo e tutti i siti delle regioni, provincie e città di quella, e le dependenzie che hanno l'uno dall'altro i signori e popoli che vi abitano. Perché, ancora che ne possino esser informati e instrutti da altri che abbino quei paesi trascorsi, gli scritti e ragionamenti de' quali essi leggendo e udendo hanno già fatto giudicio esser molto copiosi, son certissimo che, leggendo questo libro e considerando le cose in esso comprese e dichiarate, conosceranno quelle lor narrazioni a comparazione di questa esser brievi, manche e di poco momento, tanto sarà il frutto ch'a piena satisfazione d'ogni lor desiderio ne trarranno i lettori.
Questo nostro auttore ebbe molta pratica nelle corti de' príncipi di Barberia e fu con essi in molte espedizioni ne' tempi nostri, della cui vita dirò quello che ne ho ritratto da persone degne di fede, che nella città di Roma l'han conosciuto e praticato. Costui duncbe fu Moro, nato in Granata, e nell'acquisto che di quel regno fece il Re Catolico essendo con tutti i suoi fuggito in Barberia e nella città di Fessa avendo dat'opera agli studi delle lettere arabe, nella qual lingua compose molti libri d'istorie che fin ora non si son vedute e anche un libro di grammatica, che diceva maestro Iacob Mantíno ebreo, medico eccellente della nostra età, avere appresso di se, andò peragrando tutta la Barberia, regni di Negri, Arabia, Soria, sempre scrivendo tutto ciò che vedeva e intendeva. Ultimamente nel pontificato di papa Leone preso sopra l'isola del Zerbi da alcune fuste di corsari e condotto a Roma, fu donato a Sua Santità, la quale, avendo veduto e inteso che si dilettava delle cose di geografia e già ne avea scritto un libro che seco portava, assai benignamente lo raccolse e l'accarezzò molto e diedegli una buona provisione, acciò ch'egli non si partisse, e appresso l'esortò e indusse a farsi cristiano e gli pose i due suoi nomi, cioè Giovanni e Leone. Cosí abitò poi in Roma lungo tempo, dove imparò la lingua italiana e leggere e scrivere, e tradusse questo suo libro meglío che egli seppe di arabo. Il qual libro scritto da lui medesimo, dopo molti accidenti che sariano lunghi a raccontare, pervenne nelle nostre mani; e noi con quella maggior diligenza che abbiamo potuto ci siamo ingegnati con ogni fedeltà di farlo venir in luce, nel modo che ora si legge.


Tommaso Giunti alli lettori

Io non credo che da molti anni in qua sia stata persona alcuna che meriti d'esser piú lodata e celebrata di quel che fu la buona memoria di M. Gio. Bat. Ramusio, perché, lasciando noi stare da parte cb'egli fosse pieno di lettere, e costumato quanto altro io conoscesse giamai, e d'una singolar bontà per la quale era sommamente amato in questa città e da tutti gli uomini di giudicio, fu ancora di cosí nobile e singolar intelletto che, mosso dal desiderio solamente di giovare alla posterità col darle notizia di tanti e sí lontani paesi e in gran parte non conosciuti mai dagl'antichi, raccolse da diverse parti tre bellissimi volumi, con incredibile díligenzia e con somma accortezza, i quali col suo indrizzo e governo furono da noi publicati col mezzo delle stampe nostre. E ben poteva egli ciò fare molto compíutamente, essendo tanto oltra nelle scienzie e nella cognizione ch'aveva della lingua greca e latina quanto fosse alcuno altro, e intendente anco della geografia, la cui notizia s'aveva esso acquistata parte dal continuo e diligente studio che egli poneva nel leggere i buoni autori che ne hanno trattato e parte dallo avere nella sua giovinezza praticato molt'anni in diversi paesi e provincie, mandatovi per onorati servizii di questa eccellentiss. Republica; dove gli avenne che fece medesimamente acquisto della lingua francese e della spagnuola, avendole cosí ben familiari come la sua propria natia, ed essene servito nel tradurre molte relazioni stampate in questo e negli altri volumi. Le quali fatiche cosí giudiziose e onorate se non usciron fuori la prima volta sotto il suo nome, avenne per la sua singolar e infinita modestia, che in ciascuna sua azione continuamente era solito d'usare, di modo che vivendo non comportò mai che vi fusse posto, come uomo ch'era lontano da ogni ambizione e aveva l'animo indrizzato solamente a giovare altrui.
Ma io, che mentre egli visse l'amai infinitamente sopra ciascuno altro e morto l'amerò infino che durerà la vita mia, sí come ho desiderato, cosí anco son tenuto a far tutte quelle cose le quali io stimi che sieno per acquistargli alcuna fama, non posso e non debbo in queste sue utili e onorate fatiche ormai tener piú celato il nome suo, del quale ora vederete ornati questi volumi. Da' quali si può avere piena e vera notizia, oltra le cose dell'Africa e del paese del Prete Ianni e delle Indie Orientali, delle parti anco del mondo che sono verso levante e greco tramontana fin sotto il nostro polo, e di quelle verso ponente a' nostri tempi da Spagnuoli e Francesi ritrovate, le quali non furono giamai in tanto spazio de secoli né sapute né conosciute dagli antichi: onde si può chiaramente comprendere che d'ogni intorno questo globo della terra è maravigliosamente abitato, né vi è parte alcuna vacua, ne per caldo o gíelo priva d'abitatori.
E veramente che noi possiamo dire che la sua morte è stata cagione agli uomini intendenti di gran perdita, attento cb'egli aveva in animo di produr tuttavia in questa materia cose utili e giovevoli a' begli intelletti, percioché, ancora che per i suoi molti meriti con questa Republica fusse, come uomo eccellente, stato eletto Segretario del Consiglio illustrissimo de' Signor Dieci, nel quale ufficio molti anni con beneficio publico s'esercitò in cose gravissime e importanti, pure, rubbando talora il tempo al tempo medesimo, dispensava sempre qualche ora a pro di coloro che, essendo prodi uomini, desiderano di sapere quelle cose ch'essi non sanno. Cosí Iddio n'avesse concesso grazia che vivendo lui fosse stata scoperta e pienamente conosciuta quella parte ch'è verso mezodí sotto il polo antartico, che egli averia fatto ogni opera di averne le relazioni e li viaggi per potere un giorno dar fuori anco il quarto volume, talché non avesse fatto piú di bisogno leggere né Tolomeo né Strabone ne Plinio né alcun altro degli antichi scrittori intorno alle cose di geografia.
Ora non resta dirvi altro se non che voi lodiate la diligenzia e fatica di questo uomo raro, dandogli quell'onore e lode che se gli deve, poi che con tanto vostro piacere e sodisfazione vi ha dato col suo sapere cosí grande e cosí chiaro lume nelle cose della geografia. E noi, dal lato nostro, vi promettiamo di non mancar mai in tutte quelle cose che noi conosceremo che v'abbiano da portare e diletto e giovamento, secondo il desiderio nostro, conosciuto oggimai da gran parte del mondo.


Della descrizione dell'Africa e delle cose notabili che quivi sono per Giovani Lioni Africano


PRIMA PARTE

Africa onde detta.

L'Africa nella lingua arabica è appellata Ifrichia, da faraca, verbo che nella favella degli Arabi suona quanto nella italiana "divide", e perché ella sia cosí detta sono due opinioni. L'una delle quali è percioché questa parte della terra è separata dalla Europa per il mar Mediterraneo e dall'Asia per il fiume del Nilo; l'altra è che questo tal nome sie derivato da Ifrico, re dell'Arabia Felice, il quale fu il primo che venisse ad abitarla. Costui, rotto in battaglia e scacciato dai re d'Assiria, non potendo far ritorno al suo regno col suo esercito velocemente passò il Nilo, e avendo dirizzato il cammino verso ponente, non si fermò prima che nelle parti vicine a Cartagine pervenne. E di qui è che gli Arabi non tengono quasi per Africa altro che la regione di Cartagine, e per tutta Africa comprendono la parte occidentale solamente.


Termini di Africa.
Secondo i medesimi Africani (quelli dico che hanno buona cognizione di lettere e di cosmografia) l'Africa, incominciando dai rami del lago del diserto di Gaogà, cioè da mezzogiorno, finisce dalla parte di oriente al fiume Nilo e si estende verso tramontana per insino ai piè di Egitto, cioè dove entra il Nilo nel mare Mediterraneo. Dalla parte di tramontana termina pure all'entrata del Nilo nel detto mare, estendendosi verso ponente fino allo stretto delle colonne di Ercole. Da quella di ponente si estende dal detto stretto sopra il mare Oceano fino a Nun, ultima città di Libia sul detto mare. E dalla parte del mezzogiorno comincia pure nella detta Nun e si sporge sopra l'Oceano, il quale fino ai diserti di Gaogà cinge e abbraccia tutta l'Africa.


Divisione di Africa.

Appresso i nostri scrittori l'Africa è divisa in quattro parti, cioè in Barberia, in Numidia, in Libia e nella terra de' negri. La Barberia incomincia da oriente dal monte Meies, che è la ultima punta di Atlante, appresso Alessandria circa trecento miglia. E dalla parte di tramontana ha fine al mare Mediterraneo, pigliando il principio dal monte Meies, e si estende in fino allo stretto delle sovradette colonne di Ercole. E dalla parte di ponente il termine incomincia dal detto stretto e passa oltra sul mare Oceano fino all'ultima punta di Atlante, cioè dove ha capo dalla parte occidentale sopra l'Oceano, vicino al luogo nel quale è la città chiamata Messa. E dalla parte di mezzogiorno finisce appresso il monte Atlante e nella faccia del detto monte che riguarda il mare Mediterraneo. Questa è la piú nobile parte dell'Africa, nella quale sono le città degli uomini bianchi, che per ordine di ragione e di legge si governano.
La seconda parte da' Latini è detta Numidia e dagli Arabi Biledulgerid, che sono i paesi dove nascono i datteri. Dal lato di levante incomincia da Eloacat, città discosta dall'Egitto circa cento miglia, e si estende verso ponente per insino a Nun, posta sul mare Oceano; e di verso tramontana compie al monte Atlante, cioè nella faccia che guarda verso mezzogiorno. Nella parte di mezzogiorno termina e confina nell'arena del diserto di Libia. E gli Arabi communemente chiamano i paesi che producono i datteri con un medesimo nome, percioché essi sono tutti in uno sito.
La terza parte, che nella lingua latina è appellata Libia e nell'arabica non altrimente che Sarra, cioè diserto, comincia dalla parte di oriente dal Nilo, cioè dal confino di Eloachat, e si estende verso occidente fino al mare Oceano; e dalla parte di tramontana confina con Numidia, cioè pure in quei paesi dove nasce il dattero. Dal lato di mezzogiorno confina con la terra de' negri, incominciando di verso levante dal regno di Gaogà, e si porge verso ponente insino al regno di Gualata, che è sul mare Oceano.
La quarta parte, che è la terra de' negri, dalla parte di oriente incomincia dal regno di Gaogà e procede verso occidente insino a Gualata; e dalla parte di tramontana confina con i diserti di Libia, e dal lato di mezzogiorno termina al mare Oceano: luoghi incogniti appresso di noi, ma pure molta notizia ne abbiamo da mercatanti che vengono da quella parte al regno di Tombutto. Per mezzo della terra dei negri passa il fiume detto Niger, il quale comincia da un diserto appellato Seu, cioè dalla parte di levante uscendo d'un lago grandissimo, e si rivolge verso ponente infino che esso entra nel mare Oceano. E secondo che affermano i nostri cosmografi, il Niger è un ramo del Nilo, il quale si perde sotto la terra e ivi esce formando quel lago. Alcuni dicono che 'l detto fiume incomincia uscire dalla parte d'occidente da certi monti e correndo verso oriente si converte in un lago. Il che non è vero, percioché noi navigammo dal regno di Tombutto dalla parte di levante scorrendo per l'acqua fino al regno di Ghinea o fino al regno di Melli, i quali due a comparazione di Tombutto sono verso ponente. E i piú belli regni dei negri sono quelli che giaciono sopra il fiume Niger.
E avertite che, come vogliono i detti cosmografi, la terra de' negri che è dove il Nilo passa, cioè dalla parte di ponente, e si estende verso levante insino al mare Indico e di verso tramontana confina alcune sue parti nel mar Rosso, cioè quella parte che è fuori dello stretto dell'Arabia Felice, questa parte non esser reputata parte d'Africa per molte ragioni, che in lunge opere si contengono, e i Latini la chiamano Etiopia. Da lei vengono certi religiosi frati, i quali hanno i lor visi segnati col fuoco, e si veggono per tutta l'Europa e specialmente in Roma. Questa parte è signoreggiata da un capo a modo di imperadore, a cui gli Italiani dicono Prete Gianni. E la maggior parte di cotal regione è abitata da cristiani; nondimeno v'è un signore maumettano che molto terreno ne possede.


Divisioni e regni delle dette quattro parti d'Africa.

La Barberia si divide in quattro regni. Il primo è il regno di Marocco, il quale è diviso in sette regioni: ciò sono Hea, Sus, Guzula e il territorio di Marocco, Duccala, Hazcora e Tedle. Il secondo regno è Fessa, il quale sotto di lui ha altretante regioni, e queste sono Temezne, il territorio di Fez, Azgar, Elabath, Errifi, Garet, Elcauz. Il terzo regno è quello di Telensin, che ha sotto di sé tre regioni: i Monti, Tenez ed Elgezair. Il quarto regno è quello di Tunis, a cui sono sottoposte quattro regioni: Bugia, Costantina, Tripoli di Barberia, Ezzab, che è una buona parte di Numidia. La region di Bugia fu sempre in combattimento, percioché alcune volte ella fu posseduta dal re di Tunis, altre la tenne il re di Telensin. Vero è che a' dí nostri si fece un regno da per sé, fino a tanto che dal conte Pietro Navarro per nome di Ferrando re di Spagna fu presa la principale città.


Divisione di Numidia, cioè dei paesi dove nascono i datteri.

Questa parte nell'Africa è men nobile di tutte l'altre, onde i nostri cosmografi non le hanno dato titolo di regno, percioché le abitazioni di lei sono molto lontane l'una dall'altra. Per cagione di esempio, Tesset città di Numidia fa cerca quattrocento fuochi, ma è discosta da ogni abitazione per li diserti di Libia cerca trecento miglia: adunque ella non merita titolo di regno. Io nondimeno vi narrerò i nomi dei terreni abitati, quantunque alcuni luoghi si truovano che sono al modo dell'altre regioni, come è lo stato di Segelmese, che è nella parte di Numidia la quale risponde verso Mauritania, e lo stato di Zeb riguardante verso il regno di Bugia, e Biledulgerid, che si estende verso il regno di Tunis. Ora, serbandomi molte cose nella seconda parte dell'Africa, incominciando dalla parte occidentale i nomi sono questi: Tesset, Guaden, Ifren, Hacca, Dare, Tebelbeth, Todga, Fercale, Segellomesse, Benigomi, Feghig, Teguat, Tsabit, Tegorarin, Mesab, Teggort, Guarghela. Zeb è provincia nella quale si contengono cinque città: queste sono Pescara, Elborgiu, Nesta, Taolacca e Deusen. Biledulgerid signoreggia altretante città: Teozar, Cafeza, Nefreoa, Elchama e Chalbiz. Doppo questa verso levante è l'isola di Gerbe, Garion, Messellata, Mestrata, Teoirraga, Gademis, Fizzan, Augela, Birdeua, Eloachet. Questi sono i nomi dei luoghi famosi di Libia incominciando dal mare Oceano, cioè, come s'è detto, dall'occidente e terminando ne' confini del Nilo.


Divisione dei diserti che sono fra Numidia e la terra negra.

Questi diserti appresso noi non sono appellati con nome alcuno, quantunque siano divisi in cinque parti e sia ogni parte nominata dal popolo che vi abita e in quella ha il suo vivere, cioè dai Numidi, i quali sono eziandio divisi in cinque parti. Queste sono Zanega, Guanziga, Terga, Lenta e Berdeoa. V'hanno appresso alcune campagne che dalla malignità o bontà del terreno particolari nomi prendono, come Azaoad, diserto cosí detto per la sterilità e seccaggine ch'è in lui, e Hair, diserto ancora esso, ma nomato dalla bontà e temperanza dell'aere.


Divisione della terra negra per ciascun regno.

Ancora la terra negra è divisa in molti regni, di quali nondimeno alcuni sono incogniti e lontani dal commerzio nostro. Per il che di quelli dirò ove sono stato io e ho avuta lunga pratica, e di quegli altri ancora da' quali partendosi i mercatanti che le lor mercanzie contrattavano nel paese dove io era, me ne diedero buona informazione. Né voglio tacer d'esser stato in quindici regni di terra negra, e tre volte piú ce ne sono rimasi di quelli dove io non fui, ciascuno assai noto e vicino a' luoghi ne' quali mi trovava. I nomi di questi regni, togliendo il principio dall'occidente e seguendo verso oriente e verso mezzogiorno, sono tali: Gualata, Ghinea, Melli, Tombutto, Gago, Guber, Agadez, Cano, Casena, Zegzeg, Zanfara, Guangara, Burno, Gaogà, Nube. Questi sono quindici regni i quali per la maggior parte sono posti sul fiume Niger, e per quelli fanno la strada loro i mercatanti che partono di Gualata per andare al Cairo. Il cammino è lungo, ma molto sicuro. Sono questi regni discosti l'uno dall'altro, e dieci di loro sono o da qualche diserto dell'arena separati o dal fiume Niger. Ed è da sapere che anticamente ogni regno da per sé era posseduto da un signore, ma a' tempi nostri tutti i quindici regni sono sottoposti al dominio di tre re, cioè del re di Tombutto, e questo ne possede la maggior parte, del re di Borno, il quale ne ha la minore, e l'altra parte è in potere del re di Gaogà. Egli è vero che 'l signore di Duccala ve ne tiene pure un piccolo stato. Confinano con questi regni dalla parte di mezzogiorno molti altri regni, cioè Bito, Temiam, Dauma, Medra, Gorhan; e di loro i signori e gli abitanti sono ricchi e assai pratichi, amministrano giustizia e vi tengono buon governo. Gli altri sono di peggior condizione che le bestie.


Abitazioni di Africa, e la significazione di questa voce "barbar".

Dicono i cosmografi e gli scrittori delle istorie l'Africa anticamente esser stata per ogni sua parte disabitata fuori che la terra negra, e hassi per cosa certa che la Barberia e la Numidia è stata priva d'abitatori molti secoli. Quelli che vi abitano, cioè bianchi, sono appellati el barbar, nome derivato, secondo che alcuni dicono, da barbara, verbo che nella lingua loro tanto significa quanto nella italiana "mormorare". Percioché la favella degli Africani tale è appresso gli Arabi quali sono le voci degli animali, che niuno accento formano eccetto il grido. Alcuni altri vogliono che barbar sia nome replicato, percioché bar nel linguaggio arabico dinota diserto. E dicono che ne' tempi che 'l re Africo fu rotto dagli Assirii, o come si fosse dagli Etiopi, egli fuggendo verso Egitto e tuttavia essendo seguitato da' nimici, non sapendo come difendersi chiedeva alle sue genti che lo consigliassero qual partito potesse prendere per la salute loro. Al quale essi altra risposta non davano se non gridando: "el bar bar", cioè "al diserto, al diserto", volendo inferire che per loro non si conosceva altro rimedio fuori che passando il Nilo ridursi nel diserto di Africa. E questa ragione è conforme con quelli che affermano la origine degli Africani procedere dai popoli dell'Arabia Felice.


Origine degli Africani.

Cerca la origine degli Africani sono i nostri istorici non poco tra lor differenti. Alcuni dicono ch'essi discesero da' Palestini, percioché anticamente scacciati dagli Assirii fuggirono verso l'Africa, e sí come la trovarono buona e fruttifera, cosí vi si fermarono. Altri sono di oppenione che la origine loro venisse da' Sabei, popolo dell'Arabia Felice, come s'è detto, innanzi che fossero scacciati o dagli Assirii o dagli Etiopi. Altri vogliono che gli Africani siano stati degli abitanti di alcune parti di Asia. Onde dicono che essendo lor mossa guerra da certi loro nemici, se ne vennero fuggendo verso Grecia, la quale era a que' tempi disabitata; ma seguitandogli i nimici, essi furono costretti a passare il mare della Morea, e pervenuti in Africa quivi si fermarono, e i nimici in Grecia. Questo si dee intender solamente intorno alla origine degli Africani bianchi, cioè di quelli che abitano nella Barberia e nella Numidia. Gli Africani veramente della terra negra dipendono tutti dalla origine di Cus figliuolo di Cam, che figliuolo fu di Noè. Adunque, qual sia la differenza tra gli Africani bianchi e tra i neri, eglino tuttavia discendono quasi da una medesima origine, conciosiacosaché, se essi vennero da' Palestini, i Palestini medesimamente sono del legnaggio di Mesraim figliuolo di Cus, e se procedettero da' Sabei, Saba eziandio fu figliuolo di Rama, e Rama nacque pure di Cus. Sono molte altre oppenioni cerca ciò, le quali, per non esser cosa molto necessaria, mi parve di pretermettere.


Divisione degli Africani bianchi in piú popoli.

I bianchi dell'Africa sono divisi in cinque popoli: Sanhagia, Musmuda, Zeneta, Haoara e Gumera. Musmuda abitano nel monte Atlante, cioè nella parte occidentale, incominciando da Heha insino al fiume di Servi. Abitano eziandio in quella parte del medesimo Atlante la quale riguarda verso mezzogiorno, e in tutte le pianure che v'hanno d'intorno. Questi tengono quattro provincie, le quali sono Heha, Sus, Guzula e la region di Marocco. I Gumera similmente abitano ne' monti di Mauritania, cioè ne' monti riguardanti sul mare Mediterraneo, e occupano tutta la riviera detta Rif, la quale ha principio dallo stretto delle Colonne e segue verso il levar del sole per insino a' confini del regno di Telensin, quello che da' Latini è chiamato Cesaria. Questi due popoli abitano separatamente dagli altri popoli, i quali sono communemente mescolati e sparsi per tutta l'Africa, ma si conoscono nella guisa che si conosce il natio dal forestiere, e sempre tra loro medesimi guerreggiano e stanno in continove battaglie, massimamente gli abitanti di Numidia. Dicono molti autori che questi cinque popoli sono di quelli che sogliono per loro abitazioni avere i padiglioni e le campagne. Affermano adunque che negli antichi tempi, avendo costoro fatta lunga guerra insieme, quelli che rimasero perditori, divenuti vassalli de' vincitori, furono mandati ad abitar nelle ville, e i vettoriosi si fecero padroni della campagna e là ridussero le loro magioni. E la ragione è quasi provata, percioché molti di quelli che abitano nella campagna usano la medesima lingua degli abitatori delle ville: per cagione di esempio, i Zeneti della campagna favellano nella guisa che fanno i Zeneti delle ville, e il simile aviene degli altri. I tre popoli detti di sopra dimorano nella campagna di Temesna, cioè Zeneta, Haoara, Sanhagia. Alcuna volta si stanno in pace e alcuna volta combattono aspramente, mossi mi cred'io dall'antica parzialità.
Alcuni di questi popoli ebbero regno per tutta l'Africa, come Zeneti, che furono quelli che scacciarono la casa d'Idris, dalla quale erano discesi i veri signori di Fez ed edificatori di questa città; la stirpe di costoro è detta Mecnasa. Venne dipoi un'altra famiglia di Zeneti di Numidia, appellata Magraoa, la quale scacciò Mecnesa del regno di che essi avevano scacciati i signori. E d'indi a poco tempo i medesimi Zeneti furono similmente scacciati da alcuni che vennero dal diserto di Numidia, e questi furono d'una prole di Zanhagi, detta Luntuna. Essi ruinorono tutta la regione di Temesna e distrussero ogni spezie di popolo che in quella si trovava, eccetto quelli che erano della origine loro, i quali posero ad abitare in Duccala. Questa cotal famiglia edificò la città di Marocco. Avvenne poi, secondo le mutazioni della fortuna, che un grande uomo nelle cose della lor fede e predicatore appresso loro molto estimato, chiamato Elmahdi, si ribellò e fatto certo trattato con gli Hargia, che furono della stirpe di Musmoda, scacciò questa famiglia di Luntuna e fecevisi signore. Doppo la morte del quale fu eletto uno dei suoi discepoli, detto Habdul Mumen da Banigueriaghel, legnaggio di Sanhagia, e rimase il regno della famiglia di costui cerca centoventi anni, la qual famiglia signoreggiò quasi tutta l'Africa. Ella poi fu privata del regno da Banimarini, che furono della famiglia di Zeneti, i quali durarono cerca centosettanta anni. Cessò il dominio per opera di Baniguatazi, stirpe di Luntuna. Questi Banimarini sempre hanno fatto guerra con Banizeijan re di Telensin, che sono della origine di Zenhagi e della stirpe di Magraoa. Guerreggiarono ancora con Hafaza i re di Tunis, i quali vennero dalla origine di Hantata, stirpe di Musmoda.
Vedesi adunque come ciascuno dei cinque popoli sono stati in travagli e hanno avuto che fare in quelle regioni. Vero è che 'l popolo di Gumera e di Haoara non ebbe mai titolo di dominio, quantunque esso abbia pure signoreggiato in alcune parti particolari, come nelle croniche degli Africani si legge, e il tempo che questo signoreggiò fu dapoi che egli entrò nella setta di Maumetto. Percioché per adietro ogni popolo tenne separatamente il suo albergo nella campagna, e ciascuno di questi popoli favoreggiava la parte loro. E avendo tra loro compartiti i lavorii necessarii al vivere umano, i padroni della campagna si danno al governo e al levamento delle bestie, gli abitatori delle ville attendono alle arti manuali e a lavorare i terreni. E tutti questi cinque popoli comunemente sono divisi in seicento stirpi, sí come nell'arboro della generazion degli Africani si contiene, di che appo loro ne fu scrittore un certo Ibnu Rachu, il quale io lessi piú volte. Tengono eziandio molti istorici che 'l re il quale è oggidí di Tombutto, e quello che fu di Melli, quello di Agudez, sono della origine del popolo di Zanaga, cioè pur di quegli che abitano nel diserto.


Diversità e conformità della lingua africana.

Tutti i cinque popoli, i quali sono divisi in centinaia di legnaggi e in migliaia di migliaia d'abitazioni, insieme si conformano in una lingua, la quale comunemente è da loro detta aquel amarig, che vuol dire "lingua nobile". E gli Arabi di Africa la chiamano lingua barberesca, che è la lingua africana natia, e questa lingua è diversa e differente dalle altre lingue. Tuttavia in essa pur truovano alcuni vocaboli della lingua araba, di maniera che alcuni gli tengono e usangli per testimonianza che gli Africani siano discesi dall'origine dei Sabei, popolo, come s'è detto, dell'Arabia Felice. Ma la parte contraria afferma che quelle voci arabe che si truovano nella detta lingua furono recate in lei dapoi che gli Arabi entrarono nell'Africa e la possederono. Ma questi popoli furono di grosso intelletto e ignoranti, intanto che niun libro lasciarono che si possa addurre in favore né dell'una né dell'altra parte. Hanno ancora qualche differenza tra loro non solo nella prononzia, ma eziandio nella significazion di molti e molti vocaboli. E quelli che sono piú vicini agli Arabi e piú usano la domestichezza loro, piú similmente tengono de' loro vocaboli arabi nella lingua. E quasi tutto il popolo di Gumera usa la favella araba, ma corrotta, e molti della stirpe della gente di Haoara parlano pure arabico, e tuttavia corrotto; e ciò aviene per aver lunghi tempi avuta conversazione con gli Arabi.
Nella terra negra favellasi in diverse lingue, una delle quali è da lor detta sungai, e questa serve a molte regioni, come è in Gualata, in Tombutto, in Ghinea, in Melli e in Gago. L'altra lingua essi chiamano guber, la quale è usata in Guber, in Cano, in Chesena, in Perzegzeg e in Guangra. Un'altra è tenuta nel regno di Borno ed è somigliante a quella che si costuma in Gaogà. Un'altra ve n'è ancora serbata nel regno di Nube, e questa partecipa dello arabico e del caldeo e della favella degli Egizii. Quantunque in tutte le città d'Africa, intendendo delle maritime poste sul mare Mediterraneo insino al monte Atlante, tutti quelli che vi abitano generalmente parlino nel linguaggio arabico corrotto, eccetto che in tutto il tener del regno di Marocco e in Marocco propio si favella nella lingua barberesca, e né piú né meno nei terreni di Numidia, cioè fra i Numidi che sono a Mauritania e a Cesaria vicini, percioché quelli che s'accostano al regno di Tunis e al regno di Tripoli tutti universalmente tengono e usano la corrotta lingua arabica.


Arabi abitanti nelle città d'Africa.

Nello esercito che mandò Otmen califa terzo nell'anno 400 di legira venne nell'Africa un grandissimo numero di Arabi, che furono, tra nobili e altri, dintorno a ottantamila persone; i quali sí come molte regioni acquistarono, cosí quasi tutti i principali e nobili tornarono alla Arabia. Rimase quivi con gli altri il general capitano dello esercito, il cui nome era Hucba Hicbnu Nafich, il quale già aveva edificata e fermata la città del Cairaoan, percioché egli stava in continuo timore che le genti della rivera di Tunis non lo tradissero, che qualche soccorso non venisse dall'isola di Sicilia e con quello gli movessero guerra. Per il che, con tutta la quantità del tesoro ch'egli acquistato si avea ritiratosi verso il diserto nella terra ferma, lontano da Cartagine cerca a centoventi miglia, fabbricò la detta città del Cairaoan e comandò a' suoi capi e ministri di quelli che seco restarono, che abitassero ne' luoghi piú forti e atti alla difesa loro, e dove non v'avessero rocche e fortezze ve le edificassero. Il che fu fatto e gli Arabi, rimasi sicuri, diventarono cittadini di quel paese e si mescolarono tra gli Africani, i quali allora, perché da Italiani furono molti anni signoreggiati, la lingua italiana ritenevano, e per questa cagione seco usando e vivendo corruppero a poco a poco la loro natia araba, la quale partecipò di tutte le favelle africane: cosí di due diversi popoli uno se ne fermò. Vero è che gli Arabi ebbero sempre in costume e hanno tuttavia di notar la origine loro dal canto del padre, come si usa tra noi, e i Barberi fanno il somigliante, in maniera che non v'è uomo di cosí bassa nazione che non aggiunga al suo nome il cognome della sua origine, o arabo o barbero che egli si sia.


Gli Arabi che nell'Africa in luogo di case abitano nei padiglioni.

Sempre i pontefici maumettani vietarono agli Arabi di passar con le loro famiglie e con i lor padiglioni il Nilo, fino agli anni 400 di legira, nel quale ebbero licenza da un califa scismatico: e ciò per cagione che uno, che amico e vassallo era del detto califa, si ribellò e regnò nella città del Cairaoan e in tutta quasi la Barberia, doppo la morte del quale rimase per qualche tempo il regno nella casa sua. Percioché, sí come io ho letto nelle istorie africane, nel tempo d'Elcain califa e pontefice di quella casa essi allargarono i loro regni, e crebbe la setta loro intanto che 'l detto califa mandò un suo schiavo e consigliere, il cui nome fu Gehoar di nazion schiava, con grandissimo esercito verso ponente, il quale acquistò tutta la Barberia e la Numidia e procedette per insino alla provincia di Sus, riscotendo i tributi e l'utile dei detti regni. Il che fatto avendo, al suo signore ritornò, al quale ripose in mano l'oro e tutto quello ch'egli di questi paesi aveva tratto. Per il che il califa, avendo conosciuto il valore e veduto il felice successo di costui, fece pensiero di metterlo in una impresa maggiore e dissegliene. A cui egli rispose: "Signor mio, io ti prometto che, sí come io t'ho fatto acquistar queste regioni di ponente, cosí sarò cagione che avrai l'imperio di tutti i regni del levante, cioè dell'Egitto, della Soria e di tutta l'Arabia, vendicando le offese e gli oltraggi che sono stati fatti ai tuoi antecessori dalla casa di Lhabas. Né cessarò di metter la persona mia in tutte le difficultà e pericoli, per insino a tanto che io t'abbia rimesso nel seggio antico dei tuoi nobili e generosi avoli e progenitori illustri del sangue tuo". Inteso il califa l'animo e la promessa del suo vassallo, fatto uno esercito di ottantamila combattenti, lui con molto oro e con molta vettovaglia licenziò.
Partitosi adunque il fedele e animoso schiavo, drizzò lo esercito per lo diserto che è fra la Barberia e lo Egitto, né prima giunse in Alessandria che il locotenente dell'Egitto si ritirò verso Bagaded, per essere insieme con Eluir califa. Laonde Gehoar fra lo spazio di pochi giorni e con piccolo impedimento acquistò tutte le regioni dell'Egitto e della Soria. Tuttavia non dimorava senza sospetto, dubitando non il califa di Bagaded, venendone di là con gli eserciti dell'Asia, gli desse qualche grande stretta e lo riducesse a pericolo di perder le difese e gli eserciti della Barberia. Per il che si diliberò di fare una fortezza nella quale, se il bisogno occorresse, potessero ricoverarsi le genti e sostener l'impeto dei nimici. Fece adunque edificare una città tutta circondata di mura, nella quale vi faceva star di continuo uno de' piú fidati a guardia con una parte del suo esercito. Alla città pose nome Elchaira, la quale poscia per l'Europa fu detta Cairo. Questa di giorno in giorno e di borghi e d'abitazioni di dentro e d'intorno è ita accrescendo, per sí fatto modo che in tutte le parti del mondo un'altra simile non si truova.
Ora Gehoar, vedendo che 'l califa di Bagaded non faceva contra di lui alcuno apparecchio di battaglia, allora avisò il suo signore come tutte le regioni per lui acquistate gli prestavano obbedienza, e che le cose erano ridotte in pace e ben difese e guardate. Perciò, quando paresse alla sua felicità di trasferirsi con la persona nello Egitto, valerebbe piú la presenza di lui allo acquisto di ciò che restava, che centinaia di migliaia di combattenti, e sarebbe cagione che 'l califa di Bagaded lasciando il ponteficato e il regno se ne fuggisse. Come questa bella e magnanima esortazione pervenne all'orecchie del signore, esso, senza altrimente considerare a quello che potrebbe avenire in contrario, insuperbito dalle lusinghe della seconda fortuna preparò un grosso esercito e partissi, lasciando per governatore e general capitano di tutta la Barberia un principe del popolo di Zanhagia, il quale gli era non pure amico, ma domestico servitore. Subito che 'l califa giunse al Cairo, ricevuto riverentemente dal suo schiavo, indrizzando l'animo a grandi imprese espedí grande esercito contra il califa di Bagaded. Avenne fra tanto che 'l governatore da lui lasciato della Barberia gli si ribellò e offerse obbedienza al califa di Bagaded, il quale, di ciò allegro, gli mandò larghi privilegi e fecelo re di tutta l'Africa. Questo nel Cairo inteso da Elchain, l'ebbe per amarissima novella, parte perché egli si trovava fuori del suo regno e parte perché aveva consumato tutta la quantità dell'oro e delle cose opportune ch'egli aveva portato seco; né sapendo a che partito appigliarsi spesse volte malediceva il consiglio del suo vassallo.
Era appresso di lui un suo secretario, dotto uomo e di bello e pronto intelletto, il quale, sentendo il ramarico del signore e antiveggendo la repentina rovina che soprastava al suo capo se presto riparo non se li poneva, lo cominciò a confortare e a consigliare in queste parole: "Signore, i mutamenti della fortuna sono varii, né perciò vi dovete voi diffidar della vostra virtú per lo nuovo accidente da lei avenuto: percioché, quando voi vorrete accostarvi a quello che io, che fedelissimo vi sono, bene e lealmente saprò consigliarvi, io non dubito che non riabbiate in brevissimo tempo tutto quello che per ribellione è stato da voi alienato, e appresso non otteniate l'intento vostro. Il che farete senza pagar soldato niuno, anzi io voglio che piú tosto lo esercito che vi porrò nelle mani paghi voi, per le cagioni che io vi dirò". Il signore ciò udendo si rallegrò, e domandollo in che modo questo si potesse fare. Ed egli allora seguitò: "Signor mio, voi dovete sapere che gli Arabi sono accresciuti in tanto numero che oggimai l'Arabia non gli può caper tutti, e le rendite a pena non sono bastevoli per le loro bestie, percioché la sterilità è grande, ed essi non solamente patiscono disagio d'abitazioni, ma di vivere ancora. Per il che spesse fiate sarebbono passati nell'Africa, se a loro fosse stato concesso da voi. Date adunque a costoro licenza di poter fare questo passaggio, e io vi metterò nelle mani una gran quantità d'oro". Detto fin qui dal secretario, il signor fu poco lieto di questo consiglio, considerando che gli Arabi sarebbono cagione della rovina dell'Africa, in modo che non se la goderebbe né il suo ribello né egli. D'altra parte, avendo riguardo che ad ogni modo il regno era perduto, giudicò che fosse men male a toccare una buona quantità di danari, sí come colui gli prometteva, e insieme vendicarsi del suo nimico, che perder parimente l'una cosa e l'altra. Disse adunque al consigliere che egli facesse fare uno bando, che a ciascun Arabo che volesse pagare un ducato e non piú per testa fosse lecito di passar nell'Africa con libera e larga licenza, ma sotto obligazione e giuramento d'esser nimici del detto suo ribello. Il che fatto, si messe a questo passaggio cerca dieci lignaggi di Arabi, che fu la metà dell'Arabia Diserta; vi fu ancora alcuna stirpe di quegli dell'Arabia Felice. Il numero di coloro che erano atti a combattere fu intorno a cinquantamila; le donne, i fanciulli e le bestie furono quasi infiniti. Del che fu tenuto diligente conto da Ibnu Rachic, istorico africano di cui di sopra dicemmo.
Ora fra pochi giorni gli Arabi, avendo passato il diserto che abbiam detto esser tra l'Egitto e la Barberia, prima si fermarono all'assedio di Tripoli di Barberia ed entrarono nella città per forza e la saccheggiarono, occidendo tutti quelli che occider poterono; di qui se n'andarono a Cabis città e la distrussero. Finalmente assediarono Elcairaoan, nella qual città il ribello, avendosi provisto di vettovaglie e di quanto facea bisogno, sostenne assai bene l'assedio otto mesi, in capo dei quali presero la città per forza e la saccheggiarono, e lui doppo molti strazii ammazzarono. Divisero poi gli Arabi tra loro quelle campagne e in esse abitarono, imponendo per ciascuna città gravissime taglie e gravezze.
Cosí rimasero signori di tutto il circuito dell'Africa per insino a tanto che successe nel regno di Marocco Iusef figliuolo di Ieffin, che fu primo re di Marocco. Costui con tutto il suo potere si rivolse a dare aiuto a quanti erano o parenti o amici del morto ribello, né cessò prima che levò dalle città il dominio degli Arabi. Gli Arabi tuttavia dimoravano nelle campagne, assassinando e rubbando ciò che potevano. In tanto i parenti del ribello regnavano in diversi luochi. Ma succedendo al regno di Marocco Mansor, quarto re e pontefice della setta del Muoachedin, sí come i suoi antecessori erano stati in favore dei parenti del ribello e gli avevano tornati in stato, cosí egli ebbe in animo d'esser loro contra e di torgli il dominio di mano. Per il che, astutamente composta con loro la pace, indusse gli Arabi a far lor guerra, e vennegli fatto con poca difficultà il vincergli. Mansor dipoi condusse seco tutti i maggiori e principali degli Arabi nei regni di ponente, e diè a' piú nobili per loro abitazione Duccala e Azgar; a quegli che di minor condizione erano assegnò Numidia. Ma in processo di tempo questi, che erano sí come schiavi di Numidi, ricovrarono la loro libertà e a mal grado loro dominarono quella parte di Numidia nella quale diede loro l'abitazione Mansor, e ogni giorno i confini allargavano. Quelli che abitarono Azgar e alcuni altri luoghi in Mauritania tutti furono ridotti alla servitú, percioché gli Arabi fuora del diserto sono come i pesci fuori dell'acqua. Sarebbono bene essi volentieri andati ai diserti, ma loro vietava il passo il monte Atlante, tenuto e posseduto da Barberi. D'altra parte non potevano uscire per la campagna, percioché di lei gli altri Arabi erano padroni. Laonde, ponendo giú la superbia, si diedero a pascolar le bestie e a lavorare il terreno, pure abitando, invece di pagliai e di case rusticane, ne' padiglioni. S'aggiunse alla loro miseria esser tenuti di pagare ciascun anno ai re di Mauritania certi tributi. Quelli di Duccala, aiutati dalla loro moltitudine, furono liberi da ogni tributo.
Una parte d'Arabi era rimasa in Tunis, percioché il Mansor aveva rifiutato di menargli seco. Questi, venuto a morte Mansor, presero Tunis e di quelle regioni s'impatroniron. E durò il dominio loro per insino a tanto che si sollevarono alcuni della famiglia di Abu Haf, co' quali gli Arabi s'accordarono di lasciar loro la signoria, con questo che lor dessero la metà dei tributi e dei frutti che si cavavano del regno. Il qual patto e accordo dura per fino a' nostri dí; ma i re di Tunis non gli possono contentar tutti, percioché è maggior la moltitudine degli Arabi che l'entrata e l'utile di tutto il regno. Onde, compartendone a una parte, questa è obligata di tener pacifica la campagna, il che fa, e non noce a niuno. Gli altri, che di tal provisione sono privi, si danno alle rapine, alle occisioni e al peggio che ponno, e stanno le piú volte imboscati: come passa un viandante sbucano fuori, e spogliatolo e di drappi e di danari l'amazzano, di maniera che mai non si trova la via sicura. E i mercadanti che vogliono andar da Tunis a qualche loco loro opportuno menano seco per loro sicurtà una compagnia d'archibugieri, e passano tuttavia per due non piccole difficultà: l'una è di pagare agli Arabi provigionati dai re una grossissima gabella; l'altra peggiore assai è che il piú delle volte sono assaliti da quest'altri Arabi, e talvolta, non giovando la difesa che seco menano, sono ad un medesimo tempo spogliati dell'avere e della vita.


Divisione degli Arabi venuti ad abitar nell'Africa, i quali sono detti Arabi barberi.

Gli Arabi ch'entrarono nell'Africa sono tre popoli: il primo si dimanda Chachin, il secondo è appellato Hilel e il terzo dicono Mahchil. Chachin si divide in tre lignaggi: Etbegi, Sumait e Sahid. Etbegi eziandio si divide in tre parti: Dellegi, Elmuntefig e Sobair, e queste parti si dividono in infinite generazioni. Hilel ancora è diviso in quattro: Benihemir, Rieh, Sufien e Chusain; e Benihemir si parte in Huroa, Hucba, Habru, Muslim; e Rieh in Deuuad, Suaid, Asgeh, Elcherith, Enedr e Garfa; e queste sei parti si dividono similmente in infinite generazioni. Mahchil si divide in tre: Mactar, Hutmen e Hassan. Mactar si divide in Ruche e Selim. Hutmen si divide in altretante: Elhasin e Chinana. Hassan si divide in Deuihessen, Deuimansor, Deuihubaidulla; Deuihessen in Dulein, Uodei, Berbus, Racmen e Hamr; Deuimansor in Hemrun, Menebbe, Husein e Abulhusein; Deuihubeidulla eziandio si divide in Garagi, Hedegi, Tehleb e Geoan. E tutte queste sono divise in infinite, delle quali sarebbe cosa non pur difficile, ma impossibile a ricordarsi.


Divisione delle abitazioni dei detti Arabi, e il numero loro.

Etbegi furono i piú nobili e i principali degli Arabi, e quelli quali Almansor condusse ad abitare in Duccala e ancora nelle pianure di Tedle. Questi a' nostri dí molto sono stati molestati, quando dai re di Portogallo e alcuna volta dai re di Fez; e sono cerca a centomila uomini da guerra, e la metà è a cavallo. Sumait rimasero ne' diserti di Libia, i quali rispondono verso i diserti di Tripoli, e rade volte vengono alla Barberia, percioché non hanno né dominio né luogo in quella, ma stannosi sempre coi lor camelli nel diserto; e sono intorno a ottantamila atti alla milizia, e la piú parte a piè. Sahid abitano similmente nei deserti di Libia; costoro sogliono tener domestichezza e conversazion nel regno di Guargala, hanno infiniti bestiami, e forniscono di carne tutte le città e luoghi che confinano coi loro diserti; ma ciò nel tempo della state, percioché il verno non si partono dal diserto. Sono di numero appresso centocinquantamila, ma pochi cavalli hanno. Dellegi abitano in diversi luoghi: la maggior parte tiene i confini di Cesaria e i confini del regno di Bugia, e questi hanno tributi dai signori loro vicini; la parte minore occupa nelle pianure di Acdesen i confini di Mauritania insieme col monte Atlante: questi danno tributo al re di Fez. Elmuntafic abitano nelle pianure di Azgar, e sono da' moderni chiamati Elchaluth; essi ancora danno tributo al re di Fez, e possono fare da ottomila cavalli molto bene in ordine. Sobaich, dico i maggiori e di piú valore, abitano ne' confini del regno del Gezeir e sono provigionati dai re di Telensin, e hanno nella Numidia molte terre loro soggette; sono poco meno di tremila cavalli e molto pronti nella milizia. Questi ancora sogliono il verno, perché hanno molta copia di camelli, ripararsi nel diserto. L'altra parte abita nelle pianure che sono fra Sala e Mecnesa: tengono pecore e buoi, lavorano il terreno e danno tributo pure al re di Fez. Essi son da quattromila cavalli bene e ottimamente in ordine.


Hilel popolo e l'abitazion d'esso.

Hilel è la maggiore stirpe di questo popolo, e Benihamir, i quali abitano ne' confini del regno di Telensin e di Oran, e vanno discorrendo per lo diserto di Tegorarin. Questi sono provigionati dal re di Telensin; sono uomini di molta prodezza e molto ricchi, fanno cerca seimila cavalli belli e bene in ordine. Hurua posseggono i confini di Mustuganim: sono uomini salvatichi e ladri, e vanno male in arnese. Non si discostano dal diserto, percioché non hanno né soldo né dominio nella Barberia; fanno intorno a duomila cavalli. Hucba hanno le abitazioni loro ne' confini di Meliana, e hanno qualche poco di provisione dal re di Tenes; ma pure sono genti assassine e lontane da ogni umanità. Questi fanno cerca a millecinquecento cavalli. Habru abitano nelle pianure che sono fra Oran e Mustuganim, sono lavoratori de' campi e tributari al re di Telensin; possono essere appresso cento cavalli. Muslim abitano nel diserto di Masila, il qual si estende verso il regno di Bugia, e sono essi ancora ladri e assassini; hanno tributi da Masila e da alcune altre terre. Riech abitano ne' diserti di Libia che sono verso Costantina, e questi hanno gran dominio in una parte di Numidia; sono divisi in sei parti, sono tutti prodi nell'armi e nobili, vanno bene in ordine e sono provigionati dal re di Tunis, e compiono il numero di cinquemila cavalli. Suaid abitano nei diserti che si dilatano verso il regno di Tenes, e hanno gran riputazione e dominio; il re di Telensin dà loro provisione, sono nobili, valenti e bene in assetto d'ogni cosa. Asgeh sono soggetti di molti Arabi, e c'è gran quantità di loro che abitano in Garit insieme con Hemram popolo; ve n'è un'altra parte la quale abita con gli Arabi di Duccala in luogo vicino di Azefi. Elcherit abitano nelle pianure di Heli in compagnia di Saidima, e hanno tributo dal popolo di Heha; sono uomini vili e male agiati. Enedr abitano pure nella pianura di Heha. E tutti gli Arabi di Heha fanno cerca quattromila cavalli; tuttavia sono ancora essi disagiati d'arnesi. Garsa abitano in diversi luoghi, non hanno capo, e sono mescolati con altri popoli, massimamente col popolo di Manebba e di Hemram. Costoro portano i datteri da Segelmesa al regno di Fez, e d'indi traggono le vettovaglie necessarie e a Segelmesa le conducono.


Mahchil popolo e le sue abitazioni e numero.

Ruche, prole di Mactar, abita ne' confini dei diserti vicini a Dedes e Farcala. Questi sono poveri, percioché hanno pochi dominii; sono tuttavia valenti uomini a piè, tanto che si recano a gran vergogna che uno a piè si lasci vincere da due a cavallo, né è alcuno cosí tardo in camminare che non possa per suo piacere andare a paro di qualsivoglia cavallo, quantunque avesse a fornire un lungo cammino. Sono cerca cinquecento cavalli e ottomila uomini a piè, cioè da guerra. Selim abitano appresso Dara fiume, discorrono per lo diserto, sono ricchi, e una volta l'anno vanno con lor mercanzie a Tombutto. Sono eziandio favoriti dai re di quello, e in Derha hanno molti poderi e terreni copiosissimi e un numero grande di camelli; fanno quasi tremila cavalli. Elhasim abitano accanto il mare Oceano ne' confini di Messe, e sono cerca cinquecento cavalli; vanno pessimamente in ordine, e una lor parte abita in Asgar: quelli di Messe hanno la libertà, ma questi di Asgar sono sudditi al re di Fez. Chinana abitano con Elchaluth, e sono sottoposti al medesimo re di Fez; sono uomini forti e molto ben forniti; fanno duemila cavalli. Deuihessem si divide ancora in Duleim, Burbus, Uodei, Deuimansor, Deuihubeidulla. Duleim abitano nel diserto di Libia insieme con Zanaga popolo africano, e questi tali non hanno dominio né censo niuno, per il che sono poveri e gran ladri. Vengono sovente alla provincia di Dara per fare iscambio di bestie con datteri, vanno male in ordine, e sono cerca diecimila persone, quattrocento a cavallo e il resto a piè. Burbus abitano pure nel diserto di Libia, il quale è verso la provincia di Sus, e sono molti e poveri; ma hanno molti camelli e signoreggiano Tesset, la quale non basta loro per ferrare quei pochi cavalli che hanno. Uodei abitano nei diserti posti fra i Guaden e Gualata. Questi hanno il dominio di Guaden, e ancora certo tributo dal signore di Gualata in terra negra; sono di numero quasi infinito, percioché sono estimati quasi sessantamila buoni da guerra, ma hanno pochi cavalli. Racmen tengono il diserto vicino di Haccha; hanno ancora essi dominio, e sogliono per loro bisogne andare il verno a Tesset; sono cerca dodicimila combattenti, ma hanno similmente pochi cavalli. Hamr abitano nel diserto di Taganot, hanno qualche poco di provigione dalla communità di Tagauost, vanno discorrendo per lo diserto per insino a Nun, e sono cerca a ottomila uomini da guerra.


Deuimansor.

Dehemrun, stirpe di Deuimansor, abitano ne' diserti che riguardano a Segelmesse, discorrono per lo diserto di Libia insino a Ighid, hanno tributo dal popolo di Segelmesse, dal popolo di Todga, da quello di Tebelbet e da quello di Dara; hanno molti terreni di datteri, possono vivere a guisa di signori e stanno in gran riputazione. Questi fanno cerca tremila cavalieri. Tra loro sono di molti Arabi, uomini vili, ma hanno cavalli e abbondano di bestiame, como Garfa Esgeh. E questo popolo di Hemrum ha un'altra parte, la quale ha dominio di certi terreni e casali in Numidia e discorre fino al diserto di Fighig; e tutti quei terreni e casali le danno molti e gravi tributi. Costoro ne' tempi della state vengono a starsi nella provincia di Garit, ne' confini di Mauritania, da quella parte ch'è verso oriente. Sono uomini nobili e di somma prodezza, perciò i re di Fez sogliono quasi tutti pigliar moglie tra le lor donne, di maniera che hanno con esso loro amicizia e parentado. Menebbe abitano pure nel medesimo diserto, e tengono il dominio di Matgara e di Reteb, provincie in Numidia. Questi ancora sono uomini valenti e hanno certa provisione dal popolo di Segelmesse, e fanno cerca duomila cavalli. Husein, lignaggio ancora essi di Deuimansor, abitano fra' monti di Atlante, e hanno sotto la loro signoria molti monti abitati e città e castelli, che furon lor dati dai viceré di Marin, percioché essi, quando quei re a regnare incominciarono, diedero lor buono e perfetto aiuto. È il dominio di questi fra il regno di Fez e Segelmesse, e il capo loro tiene una città detta Garseluin. Vanno pure per lo diserto di Eddahra, e sono ricchi e prodi uomini; fanno cerca seimila cavalli; vanno ancora in lor compagnia molte volte Arabi, ma tengongli per vasalli. Abulhusein parte abitano ne' diserti di Eddahra, e hanno poco dominio nel diserto; ma la maggior parte di loro è a tal miseria ridotta che essi non hanno facultà niuna di potersi mantener ne' loro padiglioni nel diserto. È vero che in quel di Libia hanno fabricate certe piccole terricciuole, ma pure si vivono miseri e combattuti dalla fame e danno tributo a loro parenti.


Deuihubeidulla.

Charragi è una parte di Deuihubeidulla, e questi abitano nel diserto di Benegomi e di Fighig; posseggono molti terreni nella Numidia. Hanno provisione dal re di Telensin, il quale s'affatica quasi di continuo di ridurli a vita pacifica e onesta, percioché essi sono ladri e assassinano quanti aggiunger possono. Fanno cerca quattromila cavalli, e nella state hanno per costume di trasferir l'abitazion loro ne' confini di Telensin. Hedegi abitano in un diserto vicino a Telensin, il quale è detto Hangad; non hanno né dominio né provisione alcuna, ma vivono solamente d'assassinamenti e di rubberie, e sono cerca cinquecento cavalli. Tehleb abitano nella pianura di Elgezair, e vanno discorrendo per lo diserto insino a Tegdeat; hanno sotto il dominio loro la città di Elgezair e la città di Teddelles, ma ne' tempi nostri queste due città furono lor tolte da Barbarossa che faceva il re. Allora il popolo di Tehleb fu distrutto, che era nobile e molto valoroso nella milizia. Furono questi cerca tremila cavalli. Gehoan abitano separatamente, l'una parte insieme con Garagi e l'altra con Hedegi, ma sono loro come vasalli, il che sopportano con buona pazienza.
Ora voglio che sappiate che i dui primi popoli, cioè Schachim e Hilel, sono Arabi dell'Arabia Diserta discesi dalla origine d'Ismael figliuolo di Abraham, e il terzo popolo, cioè Mahchil, è dell'Arabia Felice e dipende dalla origine di Saba. E appresso i maumettani è tenuto che quegli ismaeliti siano piú nobili di questi di Saba. E percioché tra loro s'è guerreggiato lungamente cerca la maggioranza della nobiltà, è avenuto che essi, cosí da una parte come dall'altra, hanno composti alcuni dialogi in versi ne' quali ciascuno racconta la virtú, i benefici e i buoni costumi del suo popolo. È da sapere ancora che gli antichi Arabi, i quali furono prima che nascessero gli ismaeliti, sono chiamati dagli istorici africani Arabi ariba, cioè Arabi arabici; e quegli che sono della origine d'Ismael vengono appellati Arabi mustahraba, cioè Arabi inarabati, il che tanto è quanto nella lingua degli Italiani Arabi per accidente, percioché essi non sono natii arabi. Gli Arabi che andorono dipoi ad abitar nell'Africa si dicono Arabi mustehgeme, il che dinota Arabi imbarberati, percioché avevano fatto l'abitazion loro con straniera nazione insino a tanto che, corrompendo la lor lingua, cangiarono costumi e diventarono barberi.
Questo è quanto m'è rimaso nella memoria dei lignaggi e division degli Africani e Arabi per dieci anni che io non ho né letto né veduto libro alcuno delle istorie loro. Ma se alcuno desidera di saperne piú abbondevolmente, potrà ciò veder nell'opera di Hibnu da me sopradetto.


Costumi e modi di vivere degli Africani che abitano nel diserto di Libia.

I cinque sopradetti popoli, cioè Zenaga, Guenziga, Terga, Lemta e Berdeua, tutti sono dai Latini chiamati Numidi, e vivono a un istesso modo, il che è senza regola o ragione alcuna. L'abito loro è un pannicello stretto di lana grossa, il quale cuopre la minima parte della loro persona, e alcuno usa di portare in capo, o rivoltovi d'intorno, un drappo di tela negra quasi alla foggia di dolipano. I maggiori e principali, per esser segnalati dagli altri, portano indosso una gran camicia con le maniche larghe e fatta di tela azurra e di bambagio, la quale vien loro recata da mercatanti che vengono dalla terra negra. Non cavalcano altri animali che camelli, sopra certe selle che essi pongono nello spazio che è fra la gobba e il collo de' detti camelli. E bella cosa è a veder questi tali quando cavalcano, percioché alcuna volta mettono le gambe una sopra l'altra, e ambedue poscia sopra il collo del camello; altre volte pongono i piè in certi staffili senza staffe, e in luogo di sproni adoperano un ferro il quale è attaccato in un pezzo di legno lungo un braccio, ma con questo ferro altra parte non pungono che le spalle del camello. I camelli che sono da cavalcare hanno tutti communemente forato il naso, nella guisa che hanno alcuni bufoli che nell'Italia si trovano, e nel luogo forato sogliono mettere una capezza di cuoio, con la quale volteggiano e reggono i camelli come si fa con la briglia i cavalli. Nel dormire usano alcune stuore intessute di giunchi molto sottili, e i padiglioni sono fatti di pelo di camello e d'altre lane aspre, le quali nascono fra i graspi dei datteri. Cerca al mangiare, chi non gli ha veduti non potrebbe creder la pazienza che essi portano in sofferir la fame. Costoro non hanno in costume né di mangiar pane né cibo fatto di niuna sorte, ma si nutriscono del latte dei loro camelli, ed è l'usanza loro di bersi la mattina una grande scodella di quel latte, cosí caldo come egli esce delle camelle. La sera poi è la cena loro certa carne secca bollita in latte e in botiro, la quale come è cotta, ciascuno se ne piglia la sua parte in mano, e mangiato che hanno beono quel brodo, adoprando in ciò le mani in vece di cocchiari. Dipoi beonsi una tazza di latte, e questo è il fine della cena. E mentre dura loro il latte non si curano altrimente di acqua, massimamente la primavera, in tutto il tempo della quale si trova alcuno fra loro che non s'ha lavato né mani né viso: e questo aviene sí perché in quella stagione essi non vanno alla campagna ove è l'acqua, avendo come s'è detto il latte, e sí ancora perché i camelli, quando mangiano l'erbe, non sogliono bere acqua. La vita loro fino al dí che muoiono è posta tutta o in cacciare o in rubbare i camelli dei loro nimici, né si fermano in un luogo per maggiore spazio di tre o quattro giorni, il che è quanto i camelli mangiando consumano l'erba che vi si trova.
Questi, ancora che detto abbiamo che vivono senza regola e senza ragione, hanno nondimeno per ciascun dei lor popoli un principe a modo di re, al quale rendono onore e gli obbediscono assai. Ben sono ignoranti e senza cognizione non pur di lettere, ma né di arte né di virtú alcuna. E fra un popolo a gran fatica trovar si può un solo giudice che tenga ragione, di modo che, se alcuno è astretto da qualche litigio o da ricevuto spiacere, per trovare il padiglione del giudice gli convien cavalcar cinque e sei giornate. Percioché essi non danno opera agli studi, né per cagione d'imparar si vogliono dipartir dai diserti loro, e i giudici malvolentieri vengono tra questa canaglia, per non poter sopportare i costumi e i modi del vivere. Ma quei che vi vengono sono molto bene salariati, percioché danno per ciascun d'essi all'anno mille ducati, e piú e meno, secondo che al povero giudicio loro paiono piú e meno sufficienti. I gentili uomini di questo popolazzo portano pure in capo, com'io ho detto, un drappo negro e con una parte di quello cuoprono il viso, ascondendo ogni sua parte eccetto gli occhi: e ciò portano continuamente, laonde, quando mangiar vogliono, per ogni volta che si mettono il mangiare in bocca scuoprono la bocca, e mangiato che hanno se la tornano a coprire. Adducono esser di questo uso la ragione che, sí come è vergogna all'uomo di mandare il cibo fuora, cosí è vergogna quando lo mette dentro. Le lor femine sono molto compresse e carnute, ma non molto bianche. Hanno le parti di dietro pienissime e grasse, cosí le poppe e il petto; dove si cigne sono sottilissime. Sono donne piacevoli cosí in ragionar come in toccar le mani, e alle volte usano cortesia di lasciarsi baciare, ma è dannoso il passar piú innanzi, perché mossi da sí fatte cagioni s'ammazzano l'un l'altro senza perdono niuno. E in cotesto sono piú savi di alcuni di noi, che per modo alcuno non vogliono portar le corna. Sono ancora questi popoli molto liberali, come che per la seccaggine di que' luoghi nessuno passa per li padiglioni loro, ed essi non vengono alle strade maestre. Ma le carovane che passano per li diserti loro sono tenute di pagare ai lor principi certa gabella, la quale è per ciascuna soma di camello un pannicello, che può importare il valor d'un ducato.
Io fra gli altri con la carovana vi passai già alcuni anni, e come arrivammo sul piano di Araoan, il principe di Zanaga ci venne incontra accompagnato da cinquecento uomini, tutti sopra camelli, e fattoci pagar l'ordinario, invitò tutta la carovana a girsene con esso lui nei lor padiglioni e a dimorarvisi per cagione di riposo due o tre dí. Ma perché questi padiglioni erano fuori del nostro cammino discosti cerca ottanta miglia, e i nostri camelli erano molto carichi, per non allungar la via non volevano i mercanti accettar l'invito. E il principe, per ritenerci, dispose in tutto che i camelleri andassero con le some seguitando il camino, e che i mercatanti seco fussero al suo alloggiamento. Al quale come giunti fummo, subito il buono uomo fece amazzar molti camelli e giovani e vecchi, e insieme altretanti castrati e certi struzzi che essi per la strada aveano presi. Ma gli fu fatto intender da mercatanti che non si dee amazzar camelli, e oltre a ciò che essi non usano, massimamente nella presenza d'altrui, mangiar carne di castrati. Ed egli rispose che appresso loro si aveva per vergogna di amazzar ne conviti animali piccioli solamente, e specialmente a noi che eravamo forestieri, né piú stati negli alloggiamenti loro. Mangiammo adunque di quello che ci fu posto dinanzi. La somma del convito fu di carni arroste e lesse; gli struzzi furono arrosti, e recatici alla mensa in certe teglie cariche d'erbe e di buona quantità di spezie della terra negra. Il pane era fatto di miglio e di panico, schiacciato e molto sottile. Ultimamente ci furono portati datteri in molta abbondanza e vasi grandi pieni di latte. Il signore ancora egli volle onorare il convito della sua presenza insieme con alcuni de' suoi piú nobili e parenti di lui, ma da noi separati mangiarono. Fece venire ancora alcuni religiosi, e quei litterati che si trovavano a seder con lui. E mentre si mangiò niun di loro toccò mai pane, ma solo presero delle carni e del latte. Per il che accorgendosi il principe, a certi nostri atti, che noi di ciò eravamo rimasi stupefatti molto e pieni di maraviglia, ci rispose con parole piacevoli, dicendo che eglino erano nati in quegli diserti ne' quali non nasceva grano, perciò si nudrivano di quello che produceva il loro terreno, e che del grano si provedevano ciascun anno per onorare i forestieri che passavano di là; ma che bene era il vero che solevano mangiar del pane i giorni di certe feste solenni, sí come il dí della pasqua e i dí de' sacrifici. Ora egli ci tenne nei suoi alloggiamenti due dí sempre faccendoci carezze e onorandoci. Il terzo giorno diede licenza a tutti e volle in persona accompagnarci insino alla carovana. E vi dico con verità che le bestie che 'l signore fece occider per lo nostro mangiare valevano dieci tanti rispetto al valor delle gabelle che gli pagammo. E negli effetti e nel parlare si poteva conoscer che egli era nobile e cortese signore, quantunque né esso intendeva la nostra lingua né noi avevamo notizia della sua, e ciò che egli a noi diceva e che rispondevamo era per via d'interprete. La vita e i costumi che avete inteso di questo popolo è simigliante agli altri quattro che sono sparsi per gli altri diserti di Numidia.


Vivere e costumi degli Arabi abitanti in Africa.

Gli Arabi, sí come sono di diversi luoghi, cosí hanno diversi modi e costumi di vivere. Quelli che abitano fra Numidia e Libia vivono vita misera e piena di molta povertà, né sono in ciò differenti dai sopra detti popoli africani abitanti in Libia, ma sono per altro di piú animo. Fanno mercanzie de' lor camelli nella terra de' negri, e tengono cavalli in gran numero: e questi sono quelli che nella Europa si dicono cavalli barberi. Di continuo si danno alle caccie, sí come di cervi, d'asini selvatichi, di struzzi e d'altri animali. Né è da tacer che la maggior parte degli Arabi di Numidia sono versificatori e compongono lunghi canti, descrivendo in quelli le lor guerre e caccie e anche cose d'amor, con grande eleganzia e dolcezza, e i lor versi sono fatti con rime nel modo de' versi vulgari d'Italia. Sono uomini liberali, ma non hanno facultà di poter mantener riputazione e usar cortesia, percioché in quei diserti sono carichi d'ogni disagio. Costoro vestono secondo il costume dei Numidi, fuori che le lor donne hanno qualche differenza nel vestire delle donne dei detti Numidi. I diserti ove abitano questi Arabi erano prima tenuti da popoli africani; ma quando la loro generazione entrò nell'Africa, allora con guerra scacciò di là i Numidi, ed ella si rimase ad abitar ne' deserti vicini ai paesi dei datteri, e i Numidi andarono a far le loro abitazioni ne' diserti che sono propinqui alla terra negra.
Gli Arabi che abitano dentro di Africa, cioè fra il monte Atlante e 'l mar Mediterraneo, sono piú agiati e piú ricchi degli altri, massimamente cerca il vestire e cerca ai fornimenti dei loro cavalli e alla bellezza e grandezza dei padiglioni. Hanno ancora cavalli molto piú belli, ma non sono cosí veloci nel corso come quei del diserto. Questi Arabi fanno lavorare i loro terreni e vi cavano grandissima copia di grano. Hanno di pecore e di buoi un numero quasi infinito, e per questa cagione non si possono fermare in un luogo solo, percioché un terreno non basta a pascer tante bestie. Sono eziandio piú barberi quasi e vili di natura di quei del diserto, ma sono nondimeno liberali, e una parte di loro, la quale abita nel regno di Fez, è soggetta e tributaria del re.
Quegli che abitano d'intorno al regno di Marocco e in Duccala un tempo vissero liberi da ogni gravezza, insino a tanto che i Portogalesi ebbero dominio di Azafi e di Azemor: allora tra loro si sollevarono parti e domestiche discordie, per le quali il re di Fez una parte ne roinò e un'altra il re di Portogallo, senza che la carestia, che in questi anni fu in Africa, gli oppresse in modo che i miseri Arabi volontariamente andarono in Portogallo, offerendosi per ischiavi a chiunque desse loro nutrimento. Cosí di essi niuno in Duccala rimase.
Ma gli Arabi i quali abitano nei diserti vicini al regno di Telensin e ne' diserti vicini a Tunis, tutti vivono nel modo che vivono i loro signori, percioché ciascun principe ha molto buone e larghe provisioni dai re, e queste distribuisce e va compartendo fra il suo popolo, per vietar le discordie e tenerlo in pace e in amica unione. Costoro hanno vaghezza di andar bene in ordine e tenere i cavalli molto ben guarniti, e i lor padiglioni sono belli e grandi. Sogliono il tempo della state andare a' confini di Tunis a pigliar le provisioni loro, e l'ottobre si forniscono di ciò che fa lor bisogno, sí come di vettovaglie, di panni e d'arme, e con queste ritornando nei diserti vi rimangono tutto il verno. Poscia la primavera si sollazzano nelle caccie, con cani e falconi seguitando ogni sorte di fiere e di uccelli. E io molte volte ho alloggiato con loro e mi sono valuto di molte cose, e hogli veduti nei lor padiglioni piú forniti di panni, di rami, di ferri e di ottoni che non sono molti nelle cittadi. Tuttavia non è da fidarsi di questi tali, percioché rubbano e assassinano volentieri; e pur sono assai cortesi: amano la poesia e nella lor lingua commune dettano versi elegantissimi, ancora che il linguaggio oggi sia corrotto, e un poeta di qualche nome è molto grato ai signori e dannogli di gran premi, né vi potrei dire quanta purità e grazia essi abbiano nei lor versi.
Le donne di costoro vanno secondo il paese molto ben vestite. Gli abiti sono camicie negre con larghe maniche, sopra le quali portano un lenzuolo del medesimo colore o pure azurro, e se lo involgono e aggroppano di maniera che, venendone gli orli su le spalle, di qua e di là è ritenuto da certe fibbie d'argento fatte assai maestrevolmente. Usano di aver nell'orecchie molti anelli pur d'argento, e cosí nelle dita delle mani, e similmente con alcuni cerchietti si cingono le gambe e le calcagna, come è costume degli Africani. Portano ancora queste donne certi pannicini su la faccia, i quali sono forati dirimpetto agli occhi, e quando essi veggono un uomo che non sia loro parente, con que' pannicini ascondono subito il viso e non parlano, ma quando sono fra mariti e parenti tengono sempre il drappicino alzato. E come gli Arabi si vanno mutando di luoco in luoco, cosí pongono le lor donne a seder sopra li camelli su certe selle per ciò fatte a modo di ceste, ma coperte con bellissimi tapeti, e sono tanto piccole che non vi può capere altro che una femina sola. E i giorni che sono eletti per combattere menano similmente seco le donne per confortarle e far che men temano. Sogliono ancora queste donne, avanti che elle vadano a marito, dipingersi la faccia, il petto e tutte le braccia insieme con la mano e le dita, percioché ciò tengono per cosa molto gentile. Questa cotale usanza hanno presa dagli Arabi africani, nel tempo che essi vennero ad abitar tra loro, che prima non l'avevano. Ma tra cittadini e nobili della Barberia non si costuma ciò fare, anzi le lor donne si mantengono nella medesima bianchezza con la quale nacquero. È vero che alle volte prendono certe tinte fatte col fumo di galla e di zaffrano, e con quelle tingendosi la metà della guancia formanvi una cosa tonda come uno scudo, e fra le ciglia fanno quasi uno triangolo, e sul mento non so che assomiglia a una foglia d'oliva, e alcune ancora tingono tutte le ciglia. E percioché questa foggia è lodata dai poeti arabi e dalle persone nobili, la tengono per leggiadra e per gentile. Ma non portano questi loro abbellettamenti piú che due o tre giorni, percioché tutto lo spazio che gli hanno non possono comparer dinanzi ai loro parenti, eccetto al marito e a' figliuoli, conciosiaché esse ciò fanno per incitar la lussuria, parendo a quelle di accrescere in cotal modo molto fieramente le loro bellezze.


Gli Arabi che abitano ne' diserti che sono fra Barberia ed Egitto.

La vita di questi è piena di miseria, percioché i paesi nei quali abitano sono sterili e asperi. Tengono pecore e camelli, ma per la piccola quantità dell'erba poco fruttano. E per quanto si estende la lunghezza di quelle campagne non c'è luogo alcuno da potervi seminar niuna sorte di grano, eccetto che si truovano in quei diserti certe terricciuole a modo di casali, nelle quali vi sono alcuni piccoli poderetti di datteri, e vi si semina pure qualche poca parte di grano, ma è sí poca che non potrebbe esser meno. Il che è cagione che gli abitanti di questi casali ricevino da loro continovi impacci e travagli. E se bene alle volte costumano di dar loro camelli e pecore all'incontro di datteri e di grani, nondimeno ciò, per la poca quantità, a tanta moltitudine non basta. Per la qual cosa aviene che ad ogni tempo si truovano molti figliuoli dei detti Arabi appresso i Siciliani, lasciati loro per pegno e securtà di grano che i poveri uomini pigliano in credenza. E se fra certo termine convenuto nei mercati non pagano la somma dei danari che sono debiti, i creditori tengono i figliuoli per ischiavi, e volendogli i padri riscuotere converrebbe accattar tre volte maggior quantità del debito, di modo che sono costretti a lasciarvegli. Dal che procede che questi Arabi sono i peggiori e i piú terribili assassini che siano nel mondo, e quanti forestieri vengono nelle mani loro, poi che gli hanno spogliati di ciò che lor trovano, gli vendono ai Siciliani. A tanto che da cent'anni in qua non è passata carovana nessuna per la rivera del mare che cinge il detto diserto nel quale è l'abitazione di questi Arabi, ma quando ve ne passa alcuna, ella suole andar per la terra ferma, discosto dal mare cerca cinquecento miglia.
Io fuggendo dalle loro mani corsi tutta quella rivera per mare con tre legni di mercatanti, e come questi ne viddero vennero correndo al porto, mostrando di voler con noi fare alcuni mercati che ci sarebbono a utile. Ma non ci fidando di loro, niuno volle smontar nel terreno prima che essi per sicurtà alcuni lor figliuoli diedero in poter nostro. Il che fatto, comprammo alquanti di lor castrati e botiro e si partimmo di subito, temendo per ogni poco di esser sovragiunti da corsali di Sicilia e di Rhodo. Costoro infine sono brutti, mal vestiti, asciutti e macilenti per la gran fame, e tali che pare che la maladizione d'Iddio sia ad ogni tempo stata data sopra questa dannata e pessima generazione, senza da quella partirsi mai.


Soaua, cioè quegli che attendono alle pecore, gente africana che segue lo stile degli Arabi.

Sono molti lignaggi d'Africani i quali tengono esercizio di levar pecore e buoi, né in altro si travagliano tutto dí. E la maggior parte di essi abitano a piè del monte Atlante, e ancora fra il detto monte. Questi, dovunque si trovino, sono sempre tributari o dei re o degli Arabi; tolgo fuori quelli che abitano in Temesna, i quali sono liberi e hanno gran potere. Parlano nella lingua africana, e alcuni tengono l'araba per la vicinanza e conversazione che essi hanno di continuo con gli Arabi che abitano in le campagne di Urbs, in li confini di Tunis.
V'è un altro popolo, che abita dove confina Tunis con i paesi dei datteri, il qual popolo molte volte ebbe ardimento di far guerra al re, come avenne negli anni poco adietro, ne' quai il figliuolo del detto re, partitosi da Costantina per riscuotere i tributi dal detto popolo, fu dal principe di quello assalito, il quale gli s'era fatto incontro con duemila cavalli, e combattendo ruppe la gente del figliuolo del re e ucciselo, togliendone i carriaggi: e ciò che v'era l'anno di legira 915. Doppo questa rotta il medesimo popolo cominciò a essere in buon nome e in molta riputazione appresso tutti. E molti di quegli Arabi che erano al servigio del re di Tunis, fuggendo da luoghi al re sottoposti, se ne vennero ad abitar coi vincitori, in modo che il principe è divenuto un de' maggiori e de' piú famosi signori che abbia tutta l'Africa.


Fede degli antichi Africani.

Gli Africani negli antichi tempi furono quasi idolatri, come sono i Persi, i quali adorano il fuoco e il sole, e tenevano belli e ornati tempi ad onore dell'uno e l'altro, e in quei di continovo ardeva il fuoco, dí e notte guardato che non si spegnesse, nella guisa che nel tempio della dea Veste si soleva osservare appresso i Romani. Il che nelle croniche degli Africani e dei Persi diffusamente si contiene. È vero che gli Africani di Numidia e di Libia adoravano i pianeti e a quelli sacrificavano; e alcuni degli Africani negri ebbero in venerazion Guighimo, che nella lor lingua significa il Signor del cielo: e questa buona mente ebbero senza essere informati né da profeta né da dottore alcuno. E d'indi a certo tempo furono introdotti nella legge giudaica, nella quale vi stettero molti anni, in fin tanto che alcuni regni de negri si fecero cristiani, e tanto rimasero nella fede di Cristo che si sollevò la setta di Maumetto, 268 di legira. Allora, andati a predicare in quelle parti alcuni discepoli di Maumetto, con le loro persuasioni tirarono gli animi degli Africani a quella legge, di maniera che tutti i regni dei negri che confinano con Libia diventarono maumettani. Pure oggidí v'è qualche regno nel quale ci sono rimasi fin ora, e rimangono, cristiani: solo quelli che erano giudei e da cristiani e da Africani furono totalmente distrutti. Quegli altri che abitano vicino al mare Oceano sono tutti gentili e adorano gli idoli, e questi hanno veduti, e ancora avuta qualche pratica con loro, molti Portogallesi.
Gli abitanti di Barberia rimasero essi ancora lungo tempo idolatri, e dugentocinquanta anni avanti il nascimento di Maumetto diventarono cristiani, percioché quella parte dove è Tunis e Tripoli fu dominata da certi signori pugliesi e siciliani, e la rivera di Cesaria e di Mauritania similmente fu signoreggiata da Gotti. In que' tempi eziandio molti signori cristiani, fuggendo dal furor di questi Gotti e lasciando adietro le natie e dolci contrade d'Italia, vennero ad abitar vicini a' terreni di Cartagine, dove poscia vi fecero dominio. Ma è da saper che questi cristiani di Barberia non tenevano l'osservanza e l'ordine della Chiesa romana, ma s'aderivano alle regole e alla fede degli arriani, e di quelli fu santo Agostino. Gli Arabi adunque, quando essi vennero per acquistar la Barberia, trovarono i cristiani già padroni e signori di quelle regioni, per che fecero insieme di molte battaglie. In fine piacque a Iddio di dare agli Arabi la vittoria, onde gli arriani si fuggirono, e chi andò in Italia e chi in Ispagna. Ma, doppo la morte di Maumetto cerca dugento anni, quasi tutta la Barberia divenne maumettana. Egli è vero che molte fiate queste genti ribellarono, e negando la fede di Maumetto amazzarono i lor sacerdoti e governatori; ma i pontefici, ogni volta che ciò udirono, subito mandarono eserciti contro ai detti Barberi. E questo intravenne fin che giunsero in Barberia gli scismatici, cioè quelli che fuggirono dalli pontefici di Bagaded: allora la fede di Maumetto fermò il piede. Tuttavia sempre furono e sono ancora rimase tra lor medesimi molte eresie e differenzie. Ma della legge di Maumetto, cioè delle cose di piú importanza, e della diversità che è fra gli Africani e quegli di Asia, col favor d'Iddio io penso trattarne pienamente in un'altra opera: in tanto forniremo questa.


Lettere usate dagli Africani.

Gli istorici arabi hanno per ferma oppenione che gli Africani non tenessero altra sorte di lettera che la latina, e dicono che quando gli Arabi acquistarono l'Africa, massimamente la Barberia, dove fu ed è la civiltà di Africa, essi altra lettera non vi trovarono che la latina. Confessano bene che gli Africani hanno una lingua differente e propria loro, ma che essi usano communemente le lettere latine, sí come fanno nell'Europa i Tedeschi. E quante istorie tengono gli Arabi degli Africani, tutte sono tradotte della lingua latina, opere antiche, e alcune scritte nel tempo degli arriani e alcune avanti. E gli autori di quelle sono nominati, ma i lor nomi mi sono usciti di mente. E penso che queste tali opere siano molto lunghe, percioché gli interpreti loro sogliono dire: "La tal cosa si contiene a settanta libri". Vero è che gli Arabi non tradussero le dette opere secondo gli ordini degli autori, ma pigliarono la somma dal nome dei signori, e di qui disposero e compartirono i tempi per li detti signori e principi, accordandogli con i tempi dei re di Persia o di quei degli Assiri o dei Caldei o dei re d'Israel. E ne' tempi che i scismatici regnarono nell'Africa, cioè quegli che fuggirono dai pontefici di Bagaded, essi comandarono che si devessero abbruciar tutti i libri delle istorie e delle scienze degli Africani, percioché pareva loro che i detti fossero cagione che gli Africani rimanessero nell'antica superbia, e che facessero ribellar e renegar la fede de Maumetto.
Alcuni altri nostri istorici dicono che gli Africani avevano proprie lettere, ma dapoi che i Romani dominarono la Barberia, e d'indi a molti tempi ne furono signori i cristiani che fuggirono della Italia e i Gotti, allora essi perderono le lettere loro. Percioché fa di mestiero ai soggetti seguitar le usanze dei padroni, se essi vogliono piacere a quelli: come sotto al dominio degli Arabi è avenuto ai Persi, i quali similmente hanno perdute le loro lettere, e tutti i loro libri furono abbruciati pur per comandamento dei pontefici macomettani, percioché estimavano che i Persi, mentre avevano i libri che conteneano le scienze naturali e le leggi e la fede degl'idoli, non potessero esser buoni e catolici maumettani. Abbruciate adunque l'opere, proibirono lor le scienzie, e il somigliante fecero i Romani e i Gotti quando, come s'è detto, signoreggiarono la Barberia. E parmi che per testimonio di ciò possa bastare che in tutta la Barberia, cosí per le città di mare come della campagna, cioè di quelle che sono anticamente edificate, quanti epitafi si veggono sopra le sepolture o nei muri di qualunque edificio, tutti sono in latine lettere e niuno altramente. Né io per tutto ciò crederei che gli Africani quelle tenessero per proprie lettere né che in quelle avessero scritto, percioché non è da dubitar che quando i Romani, che fur loro nimici, dominarono quei luoghi, essi, come è costume de' vincitori e per maggior lor disprezzo, levassero tutti i lor titoli e le lor lettere e vi mettessero i loro, per levar insieme con la dignità degli Africani ogni memoria e sola vi rimanesse quella del popolo romano. Sí come volevano eziandio degli edifici de' Romani fare i Gotti, o come volsero far gli Arabi di quelli dei Persi, e come alla giornata sogliono fare i Turchi ne' luoghi che prendono di cristiani, guastando non solamente le belle memorie e gli onorati titoli, ma nelle chiese le imagini de santi e sante che vi truovano. O non si vede egli in Roma medesima a' nostri tempi che alcuna volta, in principio d'un bello e degno edificio da un signore con grandissima spesa incominciato e per morte lasciato imperfetto, il successore o farà disfar per fino alle fondamenta per fare egli nuova fabrica, o, posto che quello fosse fornito o che lo lasci in piè, per ogni poco di novità che vi aggiunge vuole che siano levate le arme di quel signore e che vi si pongano le sue? O pure, se è tanto da bene che ve le lasci, le sue sono messe di sopra, e con lunghi epitafi fatti a misura e a compassi tengono il piú onorato luoco.
Non è adunque da maravigliarsi che la lettera africana sia perduta. E da 900 anni in qua gli Africani usano la lettera araba, e Ibnu Rachich scrittor africano nella sua cronica fa di questa materia una lunga disputa, cioè se gli Africani avevano proprie lettere o no, e conclude che essi l'avevano, dicendo che chi nega ciò può medesimamente negar che gli Africani abbiano avuta lingua propria. Aggiungeva ancora che è impossibile che un popolo che abbia una lingua particolare usi nello scrivere una lettera strana.


Sito di Africa.

L'Africa, sí com'è divisa in quattro parti, cosí esse parti sono nei siti differenti. La riviera del mare Mediterraneo, cioè dallo stretto di Zibeltara per insino a' confini di Egitto, tutta è occupata da monti, e si allargano verso mezzogiorno cerca miglia cento, e in alcuni luoghi piú e in alcuni altri meno. Da questi monti insino al monte Atlante v'hanno pianure e alcuni piccoli colli, e per tutti i monti della detta rivera si trovano molti fonti, i quali poscia si convertono in certi fiumicelli, chiari e all'occhio vaghi e dilettevoli molto. Dapoi delle quai pianure e colli è il monte Atlante, che incomincia dal mare Oceano, cioè dalla parte di ponente, e si estende verso levante fino a' confini di Egitto. Doppo Atlante si scuovrono le pianure dove è Numidia, nelle quali nascono i datteri, ch'è un paese quasi tutto arena. Doppo Numidia sono i diserti di Libia, pur tutti arenosi insino alla terra negra: nondimeno per li detti diserti si truovano molti monti, ma i mercatanti per quelli non fanno il loro cammino, percioché fra i monti vi sono molti passi larghi e piani. Doppo i diserti di Libia è la terra negra, le maggior parti della quale sono piane e arenose, fuor che le coste del fiume Niger e tutti quei luoghi dove bagnano e arrivano l'acque sue.


Luoghi fieri e nivosi di Africa.

Tutta la riviera di Barberia e i monti nella riviera contenuti partecipano quasi del freddo piú tosto che altramente, e a qualche stagione dell'anno vi nevica. Per tutti i detti monti nascono grani e frutti, ma frumento non molto in copia, e gli abitanti la piú parte dell'anno mangiano pane di orgio. I fonti che si trovano per li detti monti hanno certe acque che tengono il sapore del terreno e sono quasi torbide, e massimamente nelle parti che confinano con Mauritania. Sono eziandio sopra i detti monti molti boschi di alberi altissimi, e le piú volte pieni d'animali, quai buoni e quai cattivi. Ma i piccoli colli e le pianure che sono fra i detti monti e il monte Atlante sono tutti buonissimi terreni, che producono gran quantità di grani e d'ottimi frutti; e per tutti i detti colli e pianure passano tutti i fiumi che nascono di Atlante e vanno al mare Mediterraneo. Ma in questa parte si truovano pochi boschi, e migliori sono le pianure che v'hanno fra l'Atlante e l'Oceano, come è la regione di Marocco, la provincia di Duccala, e tutta Tedle e Temesne insieme con Azgar insino allo stretto di Zibeltara.
Il monte Atlante è molto frigido e sterile: in esso nascono pochi grani, e per ogni sua parte sono folti e oscuri boschi, e da lui ne nascono quasi tutti i fiumi di Africa. I fonti che si truovano nel detto monte nel mezzo della state sono freddissimi, di maniera che uno che tenesse la mano in quell'acqua per ogni piccolo spazio, senza dubbio ve la perderebbe. Le parti del detto monte non sono tutte ugualmente fredde, percioché v'hanno alcuni luoghi quasi temperati ne' quali vi si può assai bene abitare, e sono eziandio abitati, come vi si dirà partitamente nella seconda parte del nostro libro. Le parti disabitate o sono molto fredde o molto aspere: quelle che rispondono verso Temesna sono le aspere; le fredde riguardano verso Mauritania. Tuttavia quegli che attendono alle pecore vi vanno nel tempo della state a pascervi le loro bestie. Ma il verno non è possibile potervisi fermare per modo niuno, percioché sempre che la neve è venuta giú, subito si muove un vento dalla parte di tramontana, cosí dannoso ch'egli occide tutti gli animali che si truovano in quei luoghi, e molti uomini ancora vi muoiono, percioché quivi è il passo fra Mauritania e Numidia. E avendo in costume i mercatanti dei datteri partirsi di Numidia carichi di datteri nel fine di ottobre, alle volte la neve ve gli coglie di maniera che niuno ve ne resta vivo, conciosiaché, cominciando la notte a nevicare, la mattina si truova la carovana sepolta e affogata nella neve: né solamente la carovana, ma tutti gli alberi sono coperti, di modo che non si può vedere orma né segno dove siano i corpi morti. E io due fiate per gran miracolo sono scampato dal pericolo di questa morte nel tempo che io facevo questi cammini, delle quali non vi dispiacerà intender come una me ne avenisse.
Partiti insieme molti mercatanti da Fez, si trovammo con la carovana del sovradetto mese nell'Atlante. E cominciando cerca all'occaso del sole una fredda e folta neve, si ridussero insieme certi Arabi, i quali erano da dieci in dodici cavalli, e m'invitarono lasciando la carovana a girmene a buono albergo con esso loro. Io, non potendo ricusar lo invito e temendo di qualche inganno, feci pensiero di levarmi da dosso certa buona quantità di danari che mi trovava avere; e perché già questi tali incominciavano a cavalcare, affrettandomi essi, fingendo che 'l bisogno naturale m'astringesse n'andai in disparte sotto un albero, e quivi tra sassi e terreno come il meglio potei nascosi e riposi i danari, segnando con diligenza l'albero. Cavalcammo adunque taciti presso alla mezzanotte; allora un di costoro, parendo loro esser tempo di far quello che avevano in animo, cioè di tormi i danari e lasciarmi alla buona ventura, mi domandò se io alcun danaro aveva addosso. Io risposi che i miei danari aveva lasciato nella carovana a un mio caro e stretto parente. Non fui creduto, e per saperne essi il vero volsero che in quel gran freddo mi spogliassi per insino alla camicia, e nulla non vi trovando cominciarono meco a ridere, dicendo che ciò avevano fatto per ischerzo e per conoscer se io era uomo forte e s'io sapeva sopportare il freddo. Ora, seguendo il cammino sempre al buio e per gl'incommodi sí del tempo come della notte, quando piacque a Dio sentimmo il belar di molte pecore, verso il quale ci inviammo drizzando i cavalli tra boschi e alte rupi, di maniera che ci soprastava un altro pericolo. Infine in certe grotte alte trovammo alcuni pastori, i quali a gran fatica v'avevano condotte dentro le lor pecore e, acceso un buon fuoco, vi stavano al dintorno. I quali come noi viddero e conobbero questi essere Arabi, prima ebbero paura non qualche dispiacer gli facessero, dapoi s'assicurarono sopra la qualità del tempo e ne dimostrarono assai cortese accetto, e dieronci mangiar di ciò che avevano, cioè pane, carne e cacio. Fornita la cena, ci ponemmo a dormire a canto il fuoco, tutti tremando di freddo, e piú io che poco dianzi era stato spogliato ignudo, senza la paura che io aveva. Con questi pastori dimorammo due dí e due notti, che tanto continovò il nevicare. Il terzo dí fu cessato, onde i pastori incominciarono con gran diligenzia a levar via la neve, che aveva tutta rinchiusa e turata la bocca della grotta. Il che fatto ne menarono dove avevano allogati i nostri cavalli, che fu in certe altre grotte, e provedutogli di molto fieno; i quali trovando in buono essere su vi salimmo per dispartirci. Quel giorno si mostrò il sole chiaro e levò quasi tutta la freddezza dei dí trascorsi. I pastori vennero alquante miglia con noi, dimostrandoci alcune piccole vie dove sapevano che non poteva esser molto alta la neve: ma con tutto ciò i cavalli v'andavano sotto insino al petto. Giunti che fummo ne' confini di Fez in una villa, ci fu data certezza che la carovana era stata affogata dalla neve. Allora gli Arabi, perduta la speranza d'esser pagati delle loro fatiche, percioché avevano accompagnata la carovana e assecuratala, pigliarono un giudeo che era nella nostra compagnia, il quale aveva nella carovana cinquanta some di datteri, e il menarono prigione nei lor padiglioni con animo di tenervelo per insino a tanto che egli pagasse per tutti. A me levarono il cavallo e mi accomandarono a Dio. Io, preso a vettura un mulo fornito con certe bardelle che usano coloro tra quei monti, il terzo dí giunsi a Fez, dove trovai che già era stata recata la trista novella, e io similmente da' miei era stato riputato morto come gli altri. Ma ciò per sua bontà non era piaciuto a Dio.
Ora, lasciando di raccontar le mie sventure, ritornerò al lasciato ordine. Di là dal monte Atlante sono paesi secchi e caldi, dove si trovano pochi fiumi, i quali nascono pure in Atlante e corrono verso il diserto di Libia spargendosi nell'arena, e alcun di loro forma qualche lago. Nei detti paesi vi sono pochi terreni buoni alla semenza, ma infinite piante di datteri; si trova ancora qualche altro albero fruttifero, ma questi sono rari. E ne' luoghi di Numidia che confinano con Libia sono certi monti aspri, ma senza albero niuno, ne' piedi de' quali ci sono molti luochi di certi alberi tutti spinosi, i quali non fanno frutto. Né fonti vi sono né fiumi, se non alcuni pozzi quasi incogniti alle genti, tutti fra quei colli e monti diserti. In tutti i terreni di Numidia sono molti scorpioni e serpi, dai morsi e punture de' quali nella state ogni anno vi muore di gran gente. Libia è eziandio paese disertissimo, secco e tutto arena, dove non si trova né fonte né fiume né acqua, eccetto pure certi pozzi i quali hanno acqua piú tosto salsa che no, e questi non sono molti. E v'hanno alcuni luoghi ne' quali per sei e sette giorni di cammino non si trova acqua, e bisogna che i mercatanti se la portino negli utri sopra i camelli, massimamente nella strada che è da Fez a Tombutto o da Telensin ad Agadez.
E assai peggio è il viaggio che s'è trovato da moderni, il quale è di andar da Fez fino al Cairo per lo diserto di Libia. Nondimeno in questo viaggio si passa a canto d'un grandissimo lago, d'intorno al quale sono i popoli di Sin e di Gorrhan. Ma nel viaggio di Fez a Tombutto si trovano alcuni pozzi foderati dentro o dei cuori dei camelli o murati con le ossa de' detti animali, ed è gran pericolo a' mercatanti, quando si mettono a quel viaggio d'altro tempo che il verno, percioché allora soffiano alcuni silocchi o venti meridionali, e levano tanta arena che cuopre i detti pozzi, in tanto che i mercatanti, che si partono con speranza di trovar ne' luoghi consueti l'acqua, non vi discernendo né segno né vestigio di pozzo per esser coperti dalla arena, sono costretti a morirsi di sete, e sovente da viandanti si veggono l'ossa loro e di loro camelli biancheggiare in diversi luoghi. A questo c'è un solo rimedio e molto strano, il quale è che amazzano alcun camello, e spremendo dalle loro budella l'acqua che vi trovano, se la beono e compartono per insino che s'abbattino a qualche pozzo o che per la lunga sete muoiono. E trovansi nel diserto di Azaoad due sepolture fatte di non so che sasso, nel quale sono intagliate alcune lettere che dicono ivi esser sepelliti due uomini, uno de' quali fu ricchissimo mercatante, e passando per quel diserto infestato dalla sete comperò dall'altro, che era vetturale, una tazza di acqua per diecimila ducati: ma tuttavia morí dalla sete e il mercatante che comperò l'acqua e il vetturale che gliela vendé.
Sono nel detto diserto molti nocivi animali e degli altri ancora che non sono nocivi: ma di questi io sono per dirvi nella quarta parte del libro dove io tratterò di Libia, o vero dove io farò particolar menzione degli animali che si trovano in Africa. Penso ancora di raccontare altrove i pericoli che avenuti mi sono per li viaggi ch'io ho fatto in Libia, massimamente in quello di Gualata, di maniera che non poca maraviglia vi resterà nell'animo, conciosiaché alle volte abbiamo perduta la strada di trovar l'acqua percioché la guida si smarriva; e oltre abbiamo trovati i pozzi turati d'arena; e quando i nimici tenevano i passi dell'acqua, fu di necessità di risparmiar la poca che ci trovammo il meglio che per noi si poté, compartendo quella parte, che devea darci il bere a fatica per cinque giorni, per altretanti. Ma se io qui volessi distendere le particolarità di un solo viaggio, non bisognerebbe che io scrivessi di altro.
Nella terra negra sono i paesi caldissimi, e participano anco dell'umido per cagione del fiume Niger. E tutte le regioni che sono vicine al detto fiume hanno buonissimi terreni, dove vi nasce grandissima quantità di grani e trovavisi infinito numero di bestie; ma non v'ha frutto di niuna sorte, eccetto alcuni frutti che producono alberi molto grandi, i quali si assomigliano alle castagne ma tengono alquanto dell'amaro. Questi arbori si discostano dal fiume verso la terra ferma; il frutto ch'io dico è chiamato nella lor lingua goro. Egli è vero che qui nascono in quantità cocuccie, citrioli, cipolle e altri frutti. Né in tutta la riviera del Niger né ancora ne' confini di Libia si trovano monti o colle alcuno, ma ben molti laghi formati dall'inondazion del Niger; e intorno quelli sono molti boschi, ne' quali v'abitano elefanti e altri animali, come eziandio particolarmente a suoi luoghi vi si dirà.


Moti naturali dell'aere in Africa, e diversità che da quelli procedono.

In tutta quasi la Barberia, passata nella metà dello ottobre, incominciano le pioggie e il freddo; nel decembre eziandio e nel gennaio il freddo è maggiore, come negli altri luochi, ma quivi solamente nella mattina, di maniera che a niuno fa bisogno di scaldarsi al fuoco. Nel febraio ordinariamente v'ha quasi men freddo, ma sovente in un giorno il tempo farà cinque e sei volte mutazione. Nel marzo soffiano impetuosissimi venti di ponente e di tramontana, e questi ingravidano il terreno e fanno fiorire gli alberi; e nell'aprile quasi tutti i frutti cominciano a prender forma, intanto che ne' piani di Mauritania a' principii di maggio ed eziandio al fine di aprile si mangiano ciriegie. E come sono passate tre settimane di maggio, si colgono i fichi maturi come la state, e nella terza settimana di giugno incomincia a maturarsi l'uva e vi si mangia ancora. Le mele, le pere, armellini, grisomeli e i pruni divengono maturi fra il luglio. I fichi dell'autunno son maturi nello agosto, e cosí le giuggiole; ma nel settembre è il colmo e dei fichi e delle persiche. Passato mezzo agosto incominciano a seccar l'uva, e la seccano al sole; e se piove nel settembre, di tutta l'uva che è rimasa fanno vini e mosti cotti, massimamente nella provincia di Rif, come pure particolarmente vi si dirà. Nel mezzo d'ottobre colgono le mele, le granate e i cotogni; nel novembre l'olive: ma non si colgono con le scale, come si fa nella Europa, spiccandole con le mani, percioché non si può fare scale tanto lunghe che arrivino all'altezza degli alberi, conciosiacosaché là gli olivari sono grossissimi e altissimi, massimamente quegli di Mauritania, di Cesaria; ma quelli che sono nel regno di Tunis tengono somiglianza con gli altri che nascono nella Europa. Quando adunque gli uomini vogliono coglier le olive, vanno sugli alberi con bastoni lunghissimi in mano, e percotendo i rami le fanno giú cadere. Il che conoscono esser lor danno, percioché ciò faccendo danno sopra gli occhi dei ramoscelli giovanetti e molti ne guastano. Aviene ancora che le olive di Africa tale anno vi sono in abondanza e alcun altro non vi se ne trova acino. E v'hanno certe olive grosse che non sono buone da fare oglio, ma si mangiano concie, eziandio in tutte le stagioni.
Termini e qualità dell'anno. Sempre i tre mesi della primavera sono quasi temperati. Entra la primavera a' quindici di febraio e compie a' diciotto di maggio: e in tutta questa stagione è quasi di continovo il tempo bello, ma se non piove da' venticinque d'aprile insino a' cinque di maggio l'aricolta dell'anno è pessima, e chiamano l'acqua che apportano quelle pioggie acqua di Naisan. La quale essi tengono per benedetta aqua d'Iddio, e molti se la serbano in vaselli e ampolle, tenendosela in casa per divozione. La state pur dura per insino a' sedici di agosto, e tutto questo tempo è calidissimo, spezialmente il giugno e il luglio, e per tutti questi cotai tempi è sereno e bell'aere, eccetto che alcuni anni se piove o di luglio o di agosto. Da quelle acque procede malvagità di aere, e molti s'infermano d'una acuta e continova febbre, e pochi sono quelli che scampino. La stagione dell'autunno appo loro incomincia a' diciasette di agosto e segue fino a' sedici di novembre, e questi due mesi, cioè agosto e settembre, sono di minor calore; ma pur tuttavia que' dí che si framettono ne' quindici di agosto per insino a' quindici di settembre sono dagli antichi chiamati il forno del tempo, percioché agosto fa maturare i fichi, le melagrane e i cotogni, e secca l'uva. Da' quindici di novembre incomincia la stagione del verno e si estende fino a' quattordici di febraio, e nel suo principio s'incomincia a seminare i terreni del piano; ne' monti s'incomincia l'ottobre. Gli Africani hanno oppenione che nell'anno sono quaranta dí caldissimi, i quali sogliono principiar da' dodici di giugno; cosí all'incontro tengono che ce ne siano altretanti freddissimi, che cominciano a' dodici di decembre. E gli equinozii similmente tengono, e cosí sono, ne' sedici di marzo e ne' sedici di settembre; tengono eziandio che 'l sole ritorni ne' sedici di giugno e ne' sedici di decembre. Cosí questa tal regola è appresso loro, e la serbano sí nell'affitar dei loro poderi e sí nel seminare e raccorre, come nel navicare e nel trovar le stanze e le revoluzion dei pianeti. Ma molte cose pertinenti a ciò e piú utili fanno insegnar con diligenza nelle scole a' fanciulli.
Ci sono ancora molti contadini, e arabi e altri, che senza avere imparato mai lettera alcuna sanno parlar delle cose della astrologia molto copiosamente, adducendo di ciò che dicono ragioni evidentissime. Le regole e la cognizione che essi hanno sono cavate dalla lingua latina e portate nella arabica, e appellano i mesi per gli stessi nomi che gli appellano i Latini. Hanno similmente un gran volume in tre libri diviso, il quale essi chiamano nella lingua loro il Tesoro degli agricoltori, ed è tradotto dalla lingua latina all'arabica in Cordova nel tempo di Mansor, signore di Granata. Il qual libro tratta di tutte le cose che fanno di bisogno alla agricoltura, cioè del tempo e del modo del seminar, del piantare, d'incalmar gli alberi e di contrafare ogni frutto o grano o legume. E maravigliomi molto che appresso gli Africani siano molti libri tradotti dalla lingua latina, i quali oggi non si trovano appresso i Latini. I conti e le regole che tengono gli Africani, e ancora tutti i maumettani, per le cose pertinenti alla fede e alla legge loro tutti sono secondo la luna. E hanno l'anno loro di trecentocinquantaquattro giorni, percioché sei mesi fanno di trenta dí e altri sei di ventinove, il che posto insieme aggiugne alla detta somma. Le feste e i digiuni loro vengono in diversi tempi. L'anno adunque arabo e africano è meno del latino undici giorni, e quelli undici giorni fanno tornar l'anno nostro adrieto.
È da sapere ancora che nelle parti ultime dell'autunno e tutto il verno, ed eziandio alcuna parte della primavera, sono tempi tempestosi e orridi di grandini, di folgori e di saette, e molti luoghi sono in Barberia ne' quali nevica. In quella tre venti che soffiano da levante, da silocco e da mezzogiorno sono molto nocevoli, massimamente il maggio o il giugno, percioché guastano tutti i grani e non lasciano crescere né divenir maturi i frutti. Ancora ai grani fa gran danno la nebbia, e quella piú che si mostra quando fiorisce il grano, percioché alle volte ella dura tutto il dí. Nel monte Atlante l'anno non è piú che due stagioni, percioché d'ottobre insino ad aprile tutti i sei mesi sono verno, e d'aprile fino a settembre tutto è state; ma per tutto l'anno in tutte le sommità del detto monte si trova di continovo neve. In Numidia le stagioni corrono quasi con maggiore velocità, percioché il maggio si colgono i grani e i datteri nell'ottobre; e la metà di settembre con tutto ottobre fino a gennaio è la piú fredda parte di tutto l'anno. Se piove il settembre, i datteri quasi per la maggior parte si guastano e fassene trista raccolta. Tutti i terreni di Numidia vogliono essere adacquati per la sementa, onde, se aviene che non piova in Atlante, tutti i fiumi di Numidia rimangono quasi secchi, di maniera che non possono adacquare i terreni, e non piovendo similmente l'ottobre non bisogna aver speranza di seminar quell'anno; cosí, mancando l'acqua il mese d'aprile, non si può coglier grano nelle campagne. Ma quando non piove è buona raccolta di datteri, e quegli di Numidia stimano molto piú la raccolta dei datteri che del grano, percioché, ancora che egli fosse grandissima abondanza di grano, non perciò sarebbe a sufficienza per la metà dell'anno; ma quando la raccolta dei datteri è buona allora non mancano grani, percioché gli Arabi e i camelleri che seguono il mestieri della mercanzia dei datteri portano infinito grano per farne baratto con essi datteri.
Ancora ne' diserti di Libia, se si mutano le stagioni nella metà d'agosto e se durano le pioggie fino al novembre, ed eziandio per tutto decembre e gennaio e qualche parte di febraio, allora ne segue l'abondanza delle erbe, trovansi per tutta Libia molti laghi, e molta copia di latte. Per questa cagione i mercatanti della Barberia fanno il loro viaggio alla terra negra. In questa le stagioni incominciano piú per tempo e ivi comincia a piovere nel fine di luglio, ma non piove molto, e la pioggia nella terra negra ha questa virtú, che ella né giova né fa danno, percioché alla sementa dei terreni bastano le acque del Niger, le quali crescendo rendono morbidi e fertili tutte quelle campagne non altrimenti che faccia il Nilo nello Egitto. Egli è vero che in alcuni monti fanno di bisogno le pioggie; e il Niger né piú né meno cresce nel tempo che cresce il Nilo, il che è a' quindici di giugno e dura quaranta dí e altretanti decresce. E quando cresce il Niger, puossi discorrer con barche quasi tutti i paesi dei negri, percioché allora tutti i piani e le valli e i fossi diventano fiumi; ma è molto pericoloso il navicar con alcune barche che vi si usano, come nella quinta parte dell'opera abastanza descriverò.


Brevità e lunghezza di etadi.

Per tutte le città e terreni della Barberia le età degli uomini aggiungono per insino a sessantacinque o a settanta anni, e v'hanno pochi che questo numero passino; ma pur si trovano ne' monti della Barberia uomini che forniscono cento anni e alcuni che ve gli passano. E sono questi d'una gagliarda e forte vecchiezza, percioché ho veduto io vecchi d'ottanta e piú anni arar la terra e zappar le vigne, e far con destrezza mirabile tutti gli altri lavori che vi bisognano; e quel ch'è piú, ho veduto nel monte Atlante uomini di ottant'anni entrare in battaglia e combatter valorosamente con giovani, e molti di loro rimaner vincitori. In Numidia ancora, cioè nel paese dei datteri, sono uomini di lunga vita, ma caggiono loro i denti e molto si accorta la vista. Il cader dei denti procede dal continovo uso di mangiar datteri, e lo accortar della vista avviene perché que' paesi sono molto infestati da un vento di levante, il quale movendo l'arena la leva in alto, di maniera che la polvere offende loro molto spesso gli occhi e col tempo gli guasta. Quelli di Libia vivono quasi meno di quelli delle altre regioni, ma gagliardi e sani insino a sessanta anni o d'intorno; è vero che essi sono magri e sottili. Nella terra negra sono le vite molto piú corte di quelle dell'altre generazioni, ma gli uomini stanno sempre robusti e i lor denti sono sempre fermi e a un modo: ma sono uomini di gran lussuria, sí come anco quegli di Libia e di Numidia; e quei di Barberia sono generalmente di minor forza.


Infermitadi che spesse volte accadono agli Africani.

Nel capo ai piccioli fanciulli e ancora alle donne di matura età suol nascere certa tigna, della quale se non con grandissima fatica guariscono. Da dolore di capo molti uomini sono offesi, e questo alle volte lor viene senza alcuna febbre. Dolor di denti similmente non pochi offende, e pensasi che ciò avenga percioché, mangiando essi le minestre calde, dietro di quelle beono acqua fredda. Sono eziandio molestati da doglia di stomaco, la quale per ignoranza chiamano dolor di cuore; torgimenti e passioni di corpo acutissimi a molti intervengono quasi in ciascun giorno, e questo pur per cagione dell'acqua fredda che beono. Sciatiche e dolori di ginocchi sono assai frequenti, e procedono dal sedere spesso sul terreno e dal non portar calze di sorte alcuna. Pochi sono che patiscano difetto di podagre, ma si trovano alcuni signori che l'hanno, percioché sono avezzi a ber vino e a mangiar polli e delicate vivande. Per mangiar molte olive, noci e altri cibi grossi e di niun valore lor nasce la rogna, che ad essi molto è di fastidio. A quei che sono di natura sanguigni, per seder similmente il verno in terra, si move alle volte una fiera e maligna tosse. Pigliasi piacere molte fiate il venerdí, nel quale essendo costume di ragunarsi nei tempi migliaia di persone, quando il sacerdote è su la piú bella parte del predicare, se aviene che un tossa l'altro comincia a tossire e di mano in mano tutti quasi ad un tempo, né cessano insino al fornir della predica, di maniera che al partire nessuno l'ha udita.
Del male che nell'Italia è detto francioso io non credo che in tutte le città di Barberia la decima parte ne sia scampata, e suol venire con doglie, con bolle e con piaghe profondissime; ma molti tuttavia ne guariscono. È vero che nel contado e nei monti d'Atlante quasi niuno è offeso da questo male; similmente in tutta Numidia, cioè pure nel paese dei datteri, non si trova chi l'abbia. Né meno in Libia o in terra negra si ragiona di quello, anzi, se alcuno lo pate, tosto che si conduce in Numidia o nella terra negra, come sente quell'aere si risana e riman netto come un pesce. E io ho veduto con gli occhi miei quasi un centinaio di persone che, senza altri rimedii, per la mutazion sola dell'aere sono guariti. Questo tal male non era prima nell'Africa, anzi in quei luoghi niuno l'aveva sentito nominare, ma ebbe principio nel tempo che Ferrando re di Spagna cacciò di Spagna i giudei. Che, poscia che essi vennero nella Barberia, essendo molti di loro imbrattati, avenne che alcuni tristi e ghiotti Mori usarono con le loro donne e nel presero. D'indi seguitando di mano in mano s'incominciò a infettar la Barberia, in modo che non si trova famiglia che o sia netta o non abbia avuto questo male. E appresso loro per indubitata prova tiensi l'origine esser venuta di Spagna, e cosí gli dicono mal di Spagna; ma quei di Tunis lo chiamano francioso come gli Italiani, tra' quali molto crudele esso si ha fatto sentire per alcun tempo; cosí in Egitto e in Soria, dove cotal nome gli è detto.
Mal di fianco d'alcuni aviene. In Barberia pochi patiscono quel male o difetto che da' Latini è detto ernia; ma nell'Egitto molti se ne dolgono, e alle volte ad alcuni tanto si gonfiano i testicoli che è una maraviglia a vedere. Credesi che tale infermità proceda dal mangiar gomme e molto cacio salato. Il caduco spesse fiate nella Africa accade a fanciulli, ma essi venendo in età guariscono; e hannolo molte donne, massimamente nella Barberia e nella terra negra; ma per isciocchezza quei che sono inoffesi da questo male essi gli tengono spiritati. La peste nella Barberia usa venire in capo di dieci, di quindici o di venticinque anni, e leva quando viene gran quantità di gente, percioché essi non v'hanno niuno riguardo dal detto male né vi usano rimedii, fuori che dove è la ghiandussa sogliono far certe unzioni d'intorno con terra armenica. Questa nella Numidia non si fa sentire se non dopo lo spazio di cento anni, ma nella terra negra ella non vien mai.


Virtuti e cose lodevoli che sono negli Africani.

Gli Africani, cioè gli abitanti nelle città della Barberia e massimamente nella rivera del mare Mediterraneo, sono uomini che grandemente si dilettano di sapere, e si danno con molta cura agli studi: tra' quali quello della umanità e quello delle cose della fede e delle leggi loro tengono il primo luoco. Anticamente usavano di studiar nelle discipline matematiche, nella filosofia ed eziandio nell'astrologia; ma da quattrocento anni in qua, come s'è in parte detto, molte scienzie furono loro vietate dai dottori e dai principi loro, sí come fu la filosofia e l'astrologia giudiciaria. Quelli eziandio che abitano nelle città di Africa sono molto divoti nella fede loro, obediscono ai loro dottori e sacerdoti, e hanno gran cura di saper le cose necessarie di essa fede. Vanno continovamente a fare ordinarie orazioni nei tempi, sostenendo un fastidio da non credere, di lavar per cagione delle dette orazioni molte membra, e alle volte lavano tutto il corpo, come ho meco proposto di dire nel libro secondo della fede e legge maumettana.
Sono ancora gli abitanti nelle città di Barberia uomini ingeniosi, come si vede nell'artificio di belli e diversi lavori, e sono bene ordinati e molto gentili. Sono eziandio uomini di gran bontà, né hanno molto di malizia, e tengono il vero e nel cuore e nella lingua, ancora che negli antichi secoli, come di ciò fanno fede le istorie degli scrittori latini, siano stati altrimenti tenuti. Sono uomini valorosi e di grande animo, massimamente quelli che abitano ne' monti. La fede osservano sopra tutte le cose del mondo, e prima mancarebbe in loro la vita che essi mancassero di quello che hanno promesso. Sono sopra ogni altra cosa gelosissimi, e disprezzano piú tosto la vita che voglino sostenere una vergogna ricevuta per conto delle loro donne. Desiderosi di ricchezza e di onore sono oltra modo. Vanno appresso in tutte le parti del mondo mercatanti, e sono accettati per lettori e maestri in diverse scienzie: se ne veggono di ogni tempo in Egitto, in Etiopia, in Arabia, in Persia, in India e in Turchia, e dovunque essi vadino vengono molto ben veduti e onorati, percioché tutti sono sufficienti perfettamente in quella arte che hanno imparato. Sono ancora onesti e vergognosi, né parlano mai in publico parole disoneste. Il minore rende onore al maggiore e nei ragionamenti e in ogni altra particolarità. E tengono questo buon rispetto, che 'l figliuolo nella presenza del padre o del zio non ardisce ragionar né di amore né di giovane amata; e similmente hanno a vergogna di cantare canzone amorose, ove veggono l'aspetto dei loro maggiori. Se i fanciulli si abbattono per sorte fra ragionamenti pur d'amore, subito si dipartono da quel luogo. E questi sono i buoni costumi e le oneste creanze che sono ne' cittadini di Barberia.
Coloro che abitano ne' padiglioni, cioè gli Arabi e i pastori, sono uomini liberali, pieni di pietà, animosi, pazienti, conversabili, domestici, di buona vita, obedienti, osservatori di fede, piacevoli e di allegra natura. Gli abitanti dei monti ancora essi sono liberali, animosi, vergognosi e onesti nel viver commune. Quei di Numidia sono piú di questi ingeniosi, percioché si danno alle virtú e studiano nella legge loro, ma delle scienzie naturali non hanno molta cognizione; sono uomini esercitati nelle arme, coraggiosi e molto benigni similmente. Gli abitatori di Libia, cioè gli Africani e gli Arabi, sono liberali, piacevoli e ne' bisogni degli amici s'affaticano con tutto il cuore. Veggiono volentieri bene a' forestieri; sono di gran cuore, schietti e veri. I negri sono di vita buona e fedeli, accarezzano molto i forestieri e danno tutto il loro tempo a piaceri e a far vita allegra, danzando e stando le piú volte su conviti e in sollazzi di diverse maniere. Sono schiettissimi e fanno grandissimo onore agli uomini dotti e religiosi. E questi nell'Africa hanno il miglior tempo di tutti gli altri Africani che vi sono.


Vizii e parti biasimevoli che sono negli Africani.

Non è dubbio che queste genti, quante hanno in loro virtú, altretanti vizii non abbiano: ma veggiamo se questi vizii sono piú o meno. I sopradetti abitanti nelle città della Barberia sono poveri e superbi, sdegnosi senza comparazione, e ogni piccola ingiuria scrivono, come si dice, in marmo né mai se la lasciano uscir di mente. Ispiacevoli di maniera che raro è quel forestiere che possa acquistar l'amicizia loro, sono eziandio uomini semplici e crederebbono ogni cosa impossibile. Il volgo è molto ignorante nella cognizion naturale, in modo che tutte le operazioni e moti della natura tengono assaissimi per atti divini. Sono irregolati sí nel vivere come nelle azion loro, soggetti alla colera grandemente, e le piú volte che parlano usano parole superbe e con voce alta, e per le strade communi rara quella fiata che non se ne vegghino due o tre che facciano battaglia con le pugna. Sono di natura vile e appresso i lor signori tenuti in poco prezzo, onde si può dire che un signore faccia molte volte piú conto d'una bestia che d'un suo cittadino. Non hanno né primari né procuratori che gli abbiano a reggere o a consigliare in cosa alcuna cerca al governo. Sono eziandio molto grossi e ignoranti nella mercanzia: non hanno banchi di cambio, né meno chi da una città all'altra dia spedimento alle cose, ma conviene che ogni mercatante sia presso alla sua robba, e dove quella è condotta ivi ne va il padrone. Avarissimi piú di ogni altra cosa, in tanto che si trova gran quantità di uomini che mai non hanno voluto alloggiar forestieri, né per cortesia né per amor d'Iddio; e pochi ancora sono quelli che rendono il cambio a coloro da' quali hanno avuto piaceri. Sono sempre turbati e pieni di maninconia, né porgono volentieri orecchia a piacevolezza niuna, e questo aviene per esser di continovo occupati nelle bisogne del vivere, percioché la lor povertà è grande e i guadagni sono piccoli.
I pastori, cosí dei monti come delle campagne, vivono amaramente delle fatiche delle lor mani e stanno in continova miseria e necessità. Sono bestiali, ladri, ignoranti, né pagano mai cosa che lor si dia a credenza. E di costoro sono in maggior numero i cornuti che d'altra sorte. A tutte le giovani, prima che si maritino, è lecito d'avere amanti e di godersi dei frutti d'amore; e il padre medesimo accarezza l'innamorato della figliuola, e il fratello della sorella, di maniera che niuna porta la virginità al marito. È ben vero che come una è maritata gli amatori non la seguono piú, ma si danno a un'altra. La piú parte di questi non sono né maumettani né giudei, né men credono in Cristo, ma sono senza fede e senza non pur religione, ma ombra di religione alcuna, di modo che né fanno orazione né tengono chiese, ma vivono a guisa di bestie. E se pur si trova alcuno che senta qualche poco di odore di divozione, non avendo né legge né sacerdote né regola alcuna è costretto a viversi come gli altri.
I Numidi sono uomini lontani dalla cognizion delle cose, e sono ignoranti dei modi e ordini del vivere naturale, traditori, omicidi e ladri senza risguardo o considerazione alcuna. Sono vili e conducendosi nella Barberia si danno ad ogni vilissimo mistiere, e d'essi quai sono curatori di destri, quai cuochi e guatteri delle cucine e quai famigli di stalle, e infine per danari fanno ogni vituperosa operazione.
Quegli di Libia sono bestiali, ignoranti, senza lettere di niuna sorte, ladri e assassini, e vivono come fanno gli animali salvatichi. Sono eziandio senza fede e senza regola, e vissero in ogni tempo, e vivono, e sempre in miseria viveranno. Non è sí grande e orribile tradimento, che essi per cagione e desiderio di robba non facessero; né sono animali che piú portino lunghe le corna di quello che se le porta questa canaglia. Tutto il tempo della vita loro consumano o in far male o in cacciare o in far tra lor guerra o in pascer le bestie per li diserti, e sempre vanno scalzi e nudi.
Quei della terra negra sono uomini bestialissimi, uomini senza ragione, senza ingegno e senza pratica; non hanno veruna informazione di che che sia e vivono pure a guisa di bestie senza regola e senza legge; le meretrici tra loro sono molte e per conseguente i becchi; da alcuni in fuori che abitano nelle città grandi. Essi in fine hanno poco piú del sentimento umano.
Non m'è ascoso esser vergogna di me medesimo a confessare e scoprire i vituperi degli Africani, essendo l'Africa mia nudrice e nella quale io sono cresciuto e dove ho speso la piú bella parte e la maggiore degli anni miei. Ma faccia appresso tutti mia scusa l'officio dell'istorico, il quale è tenuto a dire senza rispetto la verità delle cose, e non a compiacere al desiderio di niuno: di maniera che io sono necessariamente costretto a scriver quello che io scrivo, non volendo io in niuna parte allontanarmi dal vero e lasciando gli ornamenti delle parole e l'artificio da parte. E in mia difesa voglio che ai gentili spiriti e alle virtuose persone, che si degneranno di legger questa mia lunga fatica, basti lo esempio d'una brieve novelletta.
Ragionasi che nel mio paese fu un giovane di bassa condizione e di malvagia e pessima vita, il quale, per un furto di piccolo momento preso, fu condannato a essere scopato. Venuto il giorno nel quale costui dovea aver le scopature, dato in mano de' ministri della giustizia, conobbe il boia esser suo amico; laonde ei si tenne piú che sicuro ch'egli a lui quel rispetto avrebbe che agli altri non era uso di avere. Ma il boia in contrario, incominciando le scopature, la prima gli diè molto crudele e incendosa, alla quale il povero compagno smarrito gridò forte: "Fratello, essendo io tuo amico, tu mi tratti molto male". Il boia allora, dandogli la seconda maggiore, rispose: "Socio, a me convien fare il mio officio come si dee fare, e qui non ci ha luogo amicizia". E seguitando di mano in mano tante ne gli diè, quante gli furono imposte dal giudice. Per il che quando io tacessi i vizii loro potrei cadere in giusta riprensione, e alcuni crederebbono che io ciò avessi fatto per avere ancora io di questi la parte mia, massimamente essendo all'incontro privo di quelle virtú che gli altri hanno. Nel che io, poi che altro a mia difesa non ho, mi propongo di tenere a punto il costume di uno uccello, la natura del quale se io vi voglio dire, a me conviene scrivervi un'altra brieve e piacevole novelletta.
Ne' tempi che gli animali parlavano, v'ebbe un vago e animoso uccelletto, e sopra tutto ornato d'un ingegno mirabile, il quale dalla natura aveva questo di piú, che esso poteva viver cosí ben sotto le acque tra i pesci come sopra la terra fra gli altri uccelli. Erano tenuti tutti gli uccelli di quella età di dar ciascun anno certo tributo a il loro re. Per il che questo uccelletto entrò in pensiero di non ne pagar niuno. E in quell'ora che il re mandò a lui uno de' suoi officiali per riscuotere il tributo, il cattivello, dandogli in pagamento parole, preso un gran volo non ristette prima che fu nel mare, e si cacciò tra l'acque. I pesci, vedendo questa novità, tutti gli corsero d'intorno a larghe schiere per saper la cagione che lo aveva mosso a venir tra loro. "Ohimè, - rispose l'uccelletto, - non sapete voi uomini da bene, che 'l mondo è venuto a tale che piú non si può vivere di sopra? Il poltroniere del nostro re, per certo capriccio strano che gli è venuto in capo, mi vuole isquartar vivo, non ostante alla mia bontà, che pure sono il piú netto e il piú da ben gentiluomo che sia fra tutti gli uccelli". E seguitò: "Per l'amor di Dio, siate contenti che io alberghi con voi, acciò che io possa dire di aver trovato piú bontà negli stranieri che nei miei proprii e tra la mia gente". Si contentarono di ciò i pesci, laonde egli vi stette uno anno senza esser gravato di cosa alcuna. In capo del quale il re de' pesci, venuto il tempo di riscuoter i tributi, mandò uno de' suoi servitori all'uccelletto, faccendogli intendere il costume e chiedendogli il suo diritto. "Egli è ben dovere", disse egli, e preso il volo uscí delle acque, lasciando colui con la maggior vergogna del mondo. Infine, quante volte a questo uccelletto veniva dal re degli uccelli dimandato il tributo, egli fuggiva sotto l'acque, e quante volte esso gli era dimandato dal re dei pesci, egli tornava sopra la terra. Voglio inferire che dove l'uomo conosce il suo vantaggio sempre vi corre quando e' può. Onde se gli Africani saranno vituperati, dirò che io son nato in Granata e non in Africa, e se 'l mio paese verrà biasimato, recarò in mio favore l'essere io allevato in Africa e non in Granata. Ma di tanto sarò agli Africani favorevole, che solamente dei loro biasimi racconterò le cose che sono publiche e piú palesi a ciascuno.


SECONDA PARTE

Proemio.

Avendo io nella prima parte della mia opera descritto generalmente e communemente le città, i termini, le divisioni e le cose che piú mi parvero degne di memoria degli Africani, nelle altre che seguiranno sono per darvi particolare informazione di varie provincie, di cittadi, di monti, di siti, di leggi e costumi loro, non lasciando adietro cosa che meriti di essere intesa. Incominciarò adunque primieramente dalle parti di ponente, seguitando di luoco in luoco, fino che terminarò il mio ragionamento nella terra di Egitto: il che sarà diviso in sette parti. Alle quali un'altra v'aggiungerò, e in quella con lo aiuto della bontà di sopra, senza la quale non si può far qua giú cosa che perfetta sia, è mio proponimento di descrivere i fiumi notabili, gli animali diversi, le varie piante, i frutti e l'erbe di qualche virtú che sono in tutta l'Africa.


Hea, regione verso occidente.

Hea, regione di Marocco, dalla parte dell'occidente e del settentrione termina al mare Oceano; dal mezzogiorno ha fine al monte Atlante; dall'oriente compie al fiume di Esifnual, il quale nascendo dal detto monte entra nel fiume di Tensist, e questo separa Hea dalla propinqua regione.


Sito e qualità di Hea.

Questa tal regione è paese molto aspero ed è pieno di altissimi e sassosi monti, di boschi, di valli e di piccoli fiumicelli; è molto popoloso e abitato. V'è moltitudine grande di capre e d'asini; pecore sono in poca quantità, e minor numero v'è di buoi e di cavalli. Trovansi eziandio pochi frutti, il che non procede dal difetto del terreno, ma dalla ignoranza degli abitanti, percioché ho veduto io molti luoghi dove v'era gran copia di fichi e di persiche. Di frumento piccola parte vi nasce, ma di orgio, di miglio e di panico v'è grandissima abondanza, e similmente di melle; il quale quei del paese mangiano per consueto cibo, e perché non sanno altrimente quello che si faccia della cera, la gittano via. Quivi si trova molta quantità di alcuni alberi spinosi, i quali producono certi frutti grossi come sono le olive che vengono di Spagna, e questi frutti nel linguaggio loro sono detti arga. Di essi ne fanno oglio, il quale è di odore molto cattivo: nondimeno ve lo adoperano nel mangiare, ed eziandio nell'arder dei lumi.


Modo di vivere di questo popolo.

Questa generazione ha quasi in continova consuetudine di mangiar pane di orgio, il quale formano piú tosto a somiglianza di schiacciate che di pane, e fannolo azzimo. Il modo di cuocerlo è in certe padelle di terra, fatte come sono quelle con che si cuoprono le torte in Italia, e pochi si trovano che cuocano il pane nel forno. Usano ancora un altro cibo insipido e vile, il quale è da loro chiamato elhasid, e fassi in questo modo: fanno bollir l'acqua in una caldaia, poi vi mettono dentro farina di orgio, e con un bastone or qua or là la vanno rivolgendo e mescolando, insino che ella è cotta. Indi la roversciano in un catino, e fattole nel mezzo una piccola fossa, vi pongono dentro di quell'oglio che hanno. Allora tutta la famiglia s'acconcia d'intorno al catino, e senza altri cocchiari, con le proprie mani pigliando ciascuno quanto può pigliare, mangiano per insino che ve ne rimane una minima particella. Ma la primavera e tutta la state sogliono bollire la detta farina in latte, e in vece di oglio vi mettono butiro. Questo costume serbano nelle cene, percioché nel desinare usano il verno mangiar pane con melle, e la state con latte e con butiro. Sogliono ancora mangiare carne bollita, e insieme cipolle e fave, o pure l'accompagnano con un altro cibo detto da essi cuscusu. E non vi adoperano tavole né tovaglie, ma distendono in terra alcune stuore tonde e mangiano sopra quelle.


Abito e costumi del medesimo.

La piú parte di cotal gente usa di portar per vestimento certo panno di lana detto elchise, il quale è fatto a simiglianza d'una coltre con la quale in Italia si suol coprir la letta. Essi se lo rivolgono intorno molto bene stretto, e cingonsi non il traverso, ma sopra il culo e le parti piú secrete dinanzi con certi sciugatoi pur di lana. Sul capo portano alcuni pannicelli della medesima lana, lunghi dieci palme e larghi due, i quali tingono con le scorza che cavano dalle radici delle noci, e se gli intorcono e aggroppano d'intorno la testa, di maniera che la sommità del capo riman sempre scoperta. Né hanno in costume di portar berrette altri che i vecchi e gli uomini dotti, se alcuno ve n'ha; e queste berrette sono doppie e tonde, e tengono la medesima altezza di quelle che sogliono portare in Italia alcuni medici. Pochissimi sono quegli che portino camicie, parte perché in quel paese non si usa di seminar lino, e parte che non v'ha chi le sappia tessere.
I loro sedili sono certe stuore pilose intessute di giunchi, e le letta alcune schiavine pure, come dicemmo, pilose di lunghezza di dieci braccia fino 20, delle quali una parte serve per materazzo e l'altra per lenzuolo e per coltre; e il verno le volgono col pelo verso il loro corpo, e la state infuori. I capezzali e guanciali sono di una sorte di sacchi di lana, grossi e aspri, nella guisa di certe coperte di cavalli che vengono di Albania o di Turchia. Le donne loro per la maggior parte portano la faccia scoperta. Usansi tra loro alcuni vasi di legno fatti non a tornio, ma cavati con lo scalpello; ma le pignatte e i catini sono pur di terra. Gli uomini che non hanno moglie non usano di portar barba, ma se la lasciano crescere allora che l'hanno presa. Hanno pochi cavalli, ma quei pochi che hanno sono avezzi a correr per quelle montagne con tanta agilità e destrezza che paion gatti, né gli mettono ferri ai piè. Arano la terra solamente con asini e con cavalli.
Trovasi in questa regione gran moltitudine di cervi, di capriuoli e di lepri; ma quivi non si usano caccie. E mi maraviglio assai che, essendovi molti fiumi, si trovano pochi molini: il che aviene che quasi ogni casa ha dentro gli instrumenti di macinare, e le femine fanno questa opera con le lor mani. Quivi non abita scienzia alcuna, né si trovano altri che sappiano lettere fuori che qualche semplice legista, il quale è voto di ciascuna altra virtú. Né v'ha medico di niuna sorte né barbiere né spiziale, e la maggior parte delli loro remedii e medicine sono con il cauterizare con il fuoco come bestie. Egli è vero che qualche barbiere pur si trova, il quale altra cura non ha che di circoncidere i fanciulli. In questo paese non si fa savone, ma in luoco d'esso adopravisi la cenere. Infine il detto popolo è sempre in guerra, ma la guerra è tra loro, di maniera che essi non fanno ingiuria a forestieri. E se ad alcun del popolo fa di bisogno di passar da un luoco all'altro, conviene che egli prenda la scorta di qualche o religioso o donna della parte avversa. Di giustizia in quella parte non si ragiona né molto né poco, massimamente tra quei monti dove non c'è né principe né ministro alcuno che gli governi, e i nobili e maggiori appena possono tener qualche apparenza di magistrato dentro le mura delle città. Ed esse città sono poche, ma sonvi molte terricciuole e castelli e casali, de' quali alcuni sono molto piccoli e altri assai grandi e agiati, sí come di ciascuna e di ciascuno partitamente vi scriverò.


Tednest, città in Hea.

Tednest è città antica, edificata dagli Africani in una assai bella e vaga pianura. È intorno tutta murata, e le mura sono di mattoni e di creta; cosí di dentro sono le case e le botteghe. Fa millecinquecento fuochi e piú. Fuori di quella esce un fiumicello, il quale corre vicino alle mura. Sono in lei poche botteghe di mercatanti, come di panni che si usano di là, e di tela che vien recata in quelle parti di Portogallo. Non ci sono artigiani fuori che calzolai, fabbri e sarti e qualche giudeo orefice, né v'è osteria né stuffa né barberia in niuna parte di questa città. Laonde, quando va in lei qualche mercatante forestiere, egli alberga in casa di alcun suo amico o conoscente, e non ne conoscendo alcuno, i gentiluomini della città cavano per sorte chi dee esser l'albergatore, di maniera che tutti i forestieri sono alloggiati. E sogliono costoro aver diletto di fare onore a un forestiere. È vero che colui nel partirsi è tenuto di lasciar qualche presente al signor della casa che gli ha dato lo alloggiamento, per segno di gratitudine. E se è alcun passaggiere il quale non sia mercatante, ha privilegio di elegger quale albergo di qual gentiluomo che piú gli piace, e alloggiarvi senza pagamento o presente alcuno. Se per aventura si abbatte qualche povero forestiere, a questo è deputato uno spedale, non per altro fabricato che per dare albergo e mangiare a' poveri.
Nel mezzo della città è un tempio molto grande, edificato assai bene di pietre e di calcina, il quale è antico e fatto nel tempo che quel paese era sotto il dominio dei re di Marocco; e nel mezzo di questo tempio è una gran cisterna. Vi sono molti sacerdoti e altri uomini deputati al governo di esso. Sonovi eziandio alcuni altri tempi e luoghi da orare, ma piccoli, e tuttavia con bella fabrica e ben governati.
In questa città v'hanno cento case di giudei, i quali non pagano tributo ordinario, ma a certi gentiluomini che li favoriscono usano di fare alcuni presenti. E la piú parte degli abitanti sono giudei, e questi tengono la zecca e fanno batter le monete, le quali sono d'argento, e d'una oncia si formano da centosessanta aspri, simili a certe monete che usano gli Ungheri, ma sono quadri. E in questa città non c'è gabella né dogana né ufficio alcuno, ma quando aviene che 'l bisogno astringa la communità a far qualche spesa, si ragunano allora gli uomini insieme, e secondo la qualità di ciascuno dividono la spesa tra loro.
Rovinò cotal città l'anno novecentodiciotto del millesimo di Maumetto, laonde tutti gli abitatori alle montagne si fuggirono, e di quindi a Marocco. La cagione fu che il popolo s'avide che i vicini Arabi erano d'accordo col capitano del re di Portogallo, che sta in Azafi, di dar la città ai cristiani. E io viddi la detta città doppo la sua rovina, le mura della quale tutte erano cadute, e le case abitate dalle cornacchie e da sí fatti uccelli. Il che fu l'anno 920.


Teculeth, città in Hea.

Questa Teculeth è una città posta nella costa d'una montagna, e fa cerca mille fuochi. Verso occidente è propinqua a Tedenest diciotto miglia, e a canto di essa passa un fiumicello, lungo il quale, cioè d'amendue le sponde, sono molti orti e giardini pieni di diversi frutti. Nella città ha molti pozzi di chiara e dolce acqua. V'è un tempio assai bello, e sonovi quattro spedali per li poveri e un altro per li religiosi. Gli abitatori di questa sono piú ricchi di quelli di Tedenest, percioché ella è vicina a un porto ch'è sopra il mare Oceano, il quale è detto Goz. Quivi vendono gran quantità di grano, perché la detta ha da lato una bella e spaziosa pianura; vendono ancora molta cera ai mercatanti portogalesi. Onde questa gente usa assai ornato vestire, e i suoi cavalli sono benissimo agiati di fornimenti.
Nel tempo che io fui in questo paese, trovavasi allora nella detta città un certo gentiluomo, il quale era come principe del consiglio loro e teneva il carico di tutto il governo, cosí cerca il dispensar dei tributi che si danno agli Arabi, come in trattar le paci e gli accordi che accadono fra i detti Arabi e il popolo della città. Costui era posseditore di molte ricchezze e ispendevale in acquistar benivolenzia, desideroso d'esser caro a tutti; faceva molte limosine porgendo aiuto col suo alle bisogne del popolo, di modo che non v'era alcuno che non l'amasse come padre. E io di ciò posso render buona testimonianza, che non solo fui di questo consapevole, ma alloggiai molti dí nelle sue case, dove viddi lessi molte istorie e croniche di Africa. Il misero fu amazzato nella guerra che ebbero con li Portogalesi, egli e un suo figliuolo insieme. Fu questo negli anni nostri novecentoventitre, e di Cristo MDXIIII. La città fu ancora ella posta a rovina, e alcuna parte del popolo fu presa, altra uccisa e altra se ne fuggí, sí come noi abbiam scritto nell'istorie moderne di Africa


Hadecchis, città di Hea.

Hadecchis è una certa città posta nel piano, lontana dalla detta Teculeth otto miglia verso mezzogiorno, e fa d'intorno a settecento fuochi. È murata di pietre crude: cosí è il tempio e cosí sono tutte le case. Passa dentro la città un fiume non molto grande, sopra le cui rive sono molte viti e bellissimi pergolati. V'è gran copia di artigiani giudei. Il popolo usa di vestire assai onestamente e ha de bei cavalli, e questo perché frequenta la mercatanzia, e va le piú volte d'intorno. Fa batter moneta di argento. E usasi ancora di far tra loro la fiera una volta l'anno, nella quale si ragunano tutti i convicini montanari, che hanno nel vero conformità piú tosto a bestie che a uomini, e truovasi in detta fiera gran multitudine d'animali, lana, butiro, olio di argan, e similmente ferri e panni del paese; e dura questo mercato quindici giorni.
Sono tra queste genti donne veramente bellissime, bianche e di temperata grassezza, sopra tutto leggiadre e piacevoli; ma gli uomini sono bestiali e gelosi, e uccidono quelli che hanno affare con le mogli loro. Non vi si trova giudice né uomo litterato che divida fra loro il maneggio degli uffici temporali, ma i maggiori governano a lor modo. Egli è vero che nelle cose spirituali tengono sacerdoti e altri ministri. Né vi è gabella né gravezza niuna, né piú né meno che sia nelle altre terre che detto abbiamo. Io eziandio alloggiai con uno di questi sacerdoti, il quale era uomo di risvegliato intelletto e dilettavasi delle retorica araba. E per tale cagione mi ritenne nella casa sua piú giorni, ne' quali io gli lessi una operetta in detta materia: onde egli molto mi accarezzò, né mi lasciò dipartire senza molti doni. Dipoi io ritornai a Marocco, e intesi la detta città esser similmente rovinata nelle guerre de' Portogalesi. Gli abitatori se ne fuggirono ai monti l'anno novecentoventidue, nel principio dell'anno che io la mia patria lasciai, e correndo gli anni di Cristo MDXIII.


Ileusugaghen, città in Hea.

Ileusugaghen è certa terricciuola fabricata a modo d'una fortezza sopra una grandissima montagna, lontana da Hadecchis dieci miglia verso mezzogiorno. Questa fa presso a quattrocento fuochi. Passa sotto lei un fiumicello; né di dentro né di fuori della detta v'è giardino, né vite, né albero alcuno fruttifero. La cagione è che gli abitanti sono uomini transcurati, e di tanta dappocaggine che non si curano d'altro cibo che d'orgio e olio d'argan; e vanno iscalzi, fuori che alcuni hanno in costume di portar certe scarpe di cuoio di camello o di bue. Fanno di continovo battaglia con gli abitatori della campagna, e si ammazzano insieme a guisa di cani. Non tengono né giudici né sacerdoti, né meno uomo alcuno riputato per far ragione, percioché essi non hanno né legge né fede, se non nella sommità della lingua. In tutti e' monti loro non si truova frutto di niuna sorte, eccetto gran quantità di melle: questo e se lo tengono per cibo e ne vendono a' vicini, ma la cera la gittano via insieme con le altre immondizie. Vi è un piccolo tempio che non cape piú di cento persone, percioché eglino, non avendo cura né di devozione né di onestà alcuna, dovunque vanno portano con esso loro i pugnali overo arma d'asta, e fanno diversi omicidi. Sono traditori e uomini sceleratissimi.
Io fui una volta nella detta città col serif, il quale si fa principe di Hea, e vi venne per pacificare insieme il popolo; né vi potrei dire la moltitudine dei litigi e delle querele, degli omicidi e degli assassinamenti ch'erano fra loro. Col principe non era né giudice né dottore alcuno, di maniera che egli mi pregò ch'io fossi quello che avessi a terminare, secondo il poter mio, le loro differenze. Onde subito comparse dinanzi a me e al principe grandissima turba. E tale v'era il quale diceva che alcuno avea ammazzato otto uomini della sua famiglia, ed egli di quella dell'aversario ne avea uccisi dieci, onde per l'accordo della pace dimandava tanti ducati secondo il costume dei loro antichi. L'altro rispondeva: "Gli doverresti dar tu a me, che dei miei ne hai tolti di vita due di piú di quelli che io ho tolto de' tuoi". Rispondeva il primo: "Per giusta cagione ho io i tuoi uccisi, percioché essi avevano con fraude levatami di mano una possessione che era mia, e avevola avuta per eredità da una mia parente; ma tu uccidesti i miei senza ragione, solamente per far vendetta di coloro che con ogni dever furono morti, conciosiacosaché si avevano usurpato lo altrui". Questo sí fatto contendimento durò per insino a notte; ed io cercando pure di acchetar le loro discordie, non potendo ridurgli a pace niuna, intorno alla mezzanotte sopravenne una parte e l'altra, e s'appiccò insieme con grandissima uccisione e spargimento di sangue. Per il che dubitando il principe di qualche tradimento, ambi eleggemmo per migliore e per piú sano consiglio di partirsi di là, e cosí ne andammo verso Aghilinghighil. È questa tale città sino a questo dí abitata, percioché costoro non temono le offese de' Portoghesi, avendo per loro iscampo le montagne.


Teijeut.

Teijeut è piccola terricciuola nel piano, ma fra i monti, lontana da Ileusugaghen dieci miglia verso ponente. Fa cerca a trecento fuochi, è murata di pietre cotte; gli abitatori di lei sono tutti lavoratori di campi. I loro terreni sono buoni per la sementa dell'orgio: altro grano non vi si mette. Hanno assai copia di giardini ripieni di viti, di fichi e di pesche; possiedono grandissima copia di capre. Evvi eziandio gran numero di leoni, i quali mangiano e guastano non poche delle dette bestie. Io vi rimasi una notte e albergai in un picciolo casale quasi distrutto; e avendo proveduto ai cavalli di molto orgio, e quelli ben legati e allogati ove si potea il meglio, l'entrata dell'uscio serramo con molta quantità di spine. Era allora il mese d'aprile, e perché ivi facea caldo salimmo nella sommità del tetto, per dormire quivi all'aere. Cerca alla mezzanotte vennero due leoni grandissimi, i quali si affaticavano di rimuover le spine, tratti all'odor di cavalli. I cavalli incominciarono ad annitrire e a far romore, di sorte che per noi si temeva non la debol casa avesse a cadere, perch'egli ci convenisse rimaner pasto di quei ferocissimi animali. Né appena si vidde biancheggiar l'alba che, sellati i cavalli, di là si partimmo e colà ci inviammo ov'era andato il principe. Né appena vi dilungammo il piede, che seguí la rovina di quella città: il popolo parte fu ucciso e parte a Portogallo menato. Fu l'anno novecentoventi.


Tesegdelt, città in Hea.

Tesegdelt è assai grandetta città: fa ottocento fuochi, ed è sopra una alta montagna. Tutta è d'intorno cinta da altissime ripe, intanto che non le fa bisogno di mura. È lontana dalla detta Teijeut quasi dodici miglia verso mezzogiorno. Passa sotto le dette mura un fiume: quivi sono molti giardini abbondantissimi d'ogni sorte di arbori, e massimamente di noci. Gli abitatori sono ricchi e hanno buona quantità di cavalli, di maniera che agli Arabi non danno tributo alcuno; fanno di continovo guerra con detti Arabi, e sovente ne uccidono gran quantità. Egli è vero che il popolo della campagna conduce tutto il grano nella città, per tema che gli Arabi non glielo tolghino. Quei della città hanno assai belle e accostumate usanze, massimamente in usar liberalità e cortesia, percioché commettono ai guardiani delle porte che, come arriva un forestiere, lo domandino s'egli ha alcuno amico nella città; e se egli gli risponde di no, questi sono tenuti di dargli albergo, intanto che niun forestiere paga denaro, ma ha piacevole e grato ricetto. Questi sono combattuti dalla gelosia, ma uomini molto osservatori della lor fede. Nel mezzo della città hanno un bellissimo tempio, amministrato da molti sacerdoti. Tengono un giudice, persona assai dotta nella legge, il quale suol tener ragione in tutte le altre cose, eccetto ne' malefici. I campi che si sogliono seminare sono tutti sopra montagne. Fui eziandio molti dí nella detta città, con il serif principe, l'anno 919.


Tagtessa città.

Tagtessa è una antica città edificata sopra una altissima montagna e tonda, e vi si sale per d'intorno della detta montagna come per una scala che si volge in giro. È lontana da Tesegdelt cerca a quatordici miglia. Sotto la detta città corre un fiume, del quale beono gli abitatori. È lontano il fiume dalla città sei miglia, e alla vista di chi è nella riva del fiume non pare che sia discosto piú d'un miglio e mezzo; le donne scendono a questo fiume per una via stretta, fatta a forza di scarpelli a modo pure di scala. Gli abitatori della città sono tutti assassini, e tengono nimicizie con tutti i loro vicini. I lor terreni e i lor bestiami sono sopra le montagne; tutti li boschi della detta terra sono pieni di porci selvatichi, né in detta città si truova un solo cavallo. Gli Arabi non possono passar per questa città né per tutto il loro contado senza espressa licenzia e salvocondotto. Io vi fui a tempo che vi si trovava gran copia di locuste: allora il formento era nelle spiche, ma avanzò dieci tanti la moltitudine delle locuste alla quantità delle spiche, in modo che appena si vedeva il terreno, dell'anno 919.


Eitdeuet città.

Eitdeuet è antica città edificata dagli Africani sopra un'alta montagna, ma nel sommo è una bellissima pianura. Fa cerca a settecento fuochi, ed è lontana da Tagtessa quasi quindici miglia verso mezzogiorno. Sono in mezzo di questa città molte fontane d'acque vive e correnti e freddissime. La circondano tutta rupi e boschi strani e spaventevoli; nasce nelle dette rupi grandissima quantità di alberi. Sono in questa città molti artigiani giudei, fabbri, calzolai, tintori di panni e orefici. Si dice che gli antichi popoli di detta città furono giudei della stirpe di David; ma, poscia che i maumettani fecero acquisto di quel paese, gli abitatori si diedero alla fede di Maumetto. Vi sono molti uomini dotti nella legge, e la maggior parte tiene ottimamente a memoria i decreti e i testi di legge; e conobbi io un vecchio che aveva benissimo in pronto un gran volume che si chiama Elmudeuuana, che significa "il congregato di leggi", il quale contiene tre libri dove sono le questioni piú difficili della legge e il consiglio di Melic sopra di quelle. Questa città è quasi un foro, nel quale si dà spedizione a tutti i litigi; fanvisi citazioni, bandi, accordi, strumenti e tai cose, di modo che tutti i vicini vi concorrono. Questi uomini legisti amministrano essi sí il governo temporale come spirituale: vero è che nelle cose capitali sono male obbediti dal popolo, e in questo poco giova loro il sapere.
Io, quando fui in questa città, mi riparai in casa d'uno avocato, per il che una sera tra le altre avenne che ivi si trovaron presenti molti dottori legisti, e doppo cena nacque tra loro una cotal disputa, se egli fosse lecito di vender quello che alcuno possedeva per le bisogne e necessità del popolo. Era quivi un vecchio che n'ebbe l'onore, nella lingua loro chiamato Hegazzare. Io, odendolo nominare, lo dimandai quello che il nome significava. Rispose egli: "Beccaio", e soggiunse: "La cagione è che, sí come un beccaio è molto pratico in trovare le gionture delle bestie, cosí io ancora sono eccellentissimo in trovare i nodi delle questioni che accadono nella legge".
La vita di questi tali è communemente molto aspra: si pascono d'orgio, d'olio d'argan e di carne di capre; di formento non si fa menzione tra loro. Le femine sono belle e colorite; gli uomini gagliardi della persona, e hanno naturalmente il petto molto peloso. Sono liberalissimi, ma oltre modo gelosi.


Culeihat Elmuridin, che suona "la rocca dei discepoli".

Questa è una picciola fortezza posta su la cima d'una montagna altissima, fra due altri monti uguali alla detta montagna. Sono tra questi monti altissime rupi e boschi serrati d'ogn'intorno; alla fortezza non si può ascendere se non per un picciolo e angusto sentiero, che è nella costa della montagna. Da una parte sono le rupi, da l'altra il monte di Tesegdelt, vicino quasi un miglio e mezzo, e da Eitdeuet è discosto diciotto miglia.
Questa fortezza fu fatta a' tempi nostri da Homar Seijef, rubello e capo degli eretici. Costui fu da prima predicatore e, avendo tirato a sé gran numero di discepoli ed essendo obbedito da quelli, diventò grandissimo tiranno e durò nel dominio dodici anni. Egli fu cagione della rovina di questo paese. Ucciselo una sua mogliere, la quale lo trovò che giaceva con una sua figliuola, ma d'un altro marito. Onde allora s'aviddero le genti quanto egli fosse stato scelerato e senza legge e fede niuna; per il che dopo la sua morte si sollevò il popolo, e pose a filo di spada tutti i suoi discepoli e chiunque era della sua setta. Rimasevi un nipote il quale, insignoritosi della fortezza, sostenne lo assedio dei sollevati e del popolo di Hea uno anno intero, di maniera che essi rimasero dalla impresa; e il medesimo fino al dí d'oggi tiene grandissima nimistà con quegli di Hea e con quasi tutti i vicini. Il viver suo è di rubberie, percioché egli ha certi cavalli co' quali assalta i viandanti, e stando in continove correrie piglia quando animali e quando uomini. Usa eziandio alcuni archibugi, co' quali di lontano, perché la strada maestra è discosta dalla fortezza un miglio, spesse volte ferisce e ammazza i poveri passaggieri. Ma tanto è odiato da tutti che egli non può né far seminare, né lavorare, né dominar pure un palmo di terreno fuori del suo monte. Fece il detto sepellire il corpo del suo avolo molto onoratamente nella detta fortezza, e fallo adorar come santo. Io passai molto vicino alla detta fortezza, e poco ci mancò che io non fui giunto da una tirata d'archibugio. Uno che già fu discepolo di detto Homar Seijef, mi diede buona informazione della vita e fede del detto eretico, e delle ragioni che egli avea contra la legge commune. E honne fatto memoria dell'abbreviamento della cronica de' maumettani.


Ighilinghighil, città di Hea.

Ighilinghighil è una picciola città sul monte, la quale fu edificata dagli antichi Africani. È discosta da Eitdeuet quasi sei miglia verso mezzogiorno; fa cerca a quattrocento fuochi. Sono nella detta città molti artigiani, cioè di cose necessarie. Il terreno di fuori è ottimo per li orgi; v'è gran copia di melle e d'olio d'argan. Per ascendere alla città v'è solamente una vietta nella costa del monte, strettissima e malagevole in tanto che con gran difficultà vi si può andare a cavallo. Gli abitatori sono uomini valentissimi con le armi in mano; stanno di continovo alla mischia con gli Arabi, ma sono sempre vincitori per la qualità del sito, per natura forte e arduo. Sono molto liberali, e fassi nella città gran copia di vasi, i quali si vendono in diverse parti, e penso che non se ne facciano altrove per quei paesi.


Tefethne, città di porto in Hea.

Tefethne è una fortezza sopra il mare Oceano, lontana da Ighilinghighil quasi quaranta miglia verso ponente. Fu edificata dagli Africani, e fa cerca a seicento fuochi. Quivi è assai buon porto per navi picciole; hanno in costume di venire a questo porto alcuni mercatanti portogallesi, i quali contrattano loro merci con cera e pelli di capre. La campagna che circonda questa città è tutta ripiena di monti, e nascevi gran copia d'orgio. Passa a canto la città un fiumicello, nel quale possono entrare assai bene i navili quando fa fortuna in mare. Ha la città fortissime mura, fatte di pietre lavorate e di mattoni. Tiensi dogana e gabella, e tutte le rendite si dividono fra gli uomini della città i quali sono atti alla difesa. Sonvi sacerdoti e giudici, ma questi non hanno auttorità sopra omicidi o ferite; anzi, se alcuno commette uno di questi due, essendo egli trovato da parenti dell'offeso, è ucciso. E se ciò non avviene, il micidiale è bandito dal popolo sette anni, e 'l termine del suo esilio giunge a sette anni, in capo de' quali, pagando certa pena a' congiunti dello ucciso, è assolto del bando. Gli abitatori di questa città sono uomini molto bianchi, domestichi e piacevolissimi; e fra loro molto piú onorano i forestieri che quelli della città, per alloggiamento de' quali tengono un grande spedale, come che la maggior parte si ripara nelle case de' cittadini.
Io fui nella città con il serif principe e vi dimorai tre giorni, i quali mi parvero altretanti anni, per cagione dei pulici, che ve n'erano infiniti, e per lo pessimo odore della orina e dello sterco delle capre; percioché ciascun cittadino ve n'ha gran copia, le quali il dí vanno ai pascoli loro, e la notte alloggiano nei corridori delle case e dormono appresso gli usci delle loro camere.


Ideuacal, prima parte del monte Atlante.

Avendo fin qui detto particolarmente delle città nobili che sono in Hea, parmi ben fatto che ora io ragioni dei monti, non lasciando adietro cosa che notabile mi paia, percioché la maggior parte del popolo abita ne' monti e in quelli sono di continovo le sue magioni. La prima parte adunque di Atlante, che è il monte di Ideuacal popolo, incomincia dal mare Oceano ed estendesi verso levante per insino a Ighilinghighil, e divide la regione di Hea dalla regione di Sus. È larga quasi tre giornate, perché la sovradetta Tefetna è nella punta della sua costa accanto il mare di verso tramontana, e Messa dall'altro lato della detta punta verso mezzogiorno, e infra Tefetna e Messa è di tratto tre giornate da me fatte nel cavalcare. Questo monte è molto bene abitato: sonvi molte ville e casali; gli abitatori vivono delle lor capre, di orgio e di melle. Nel vestire non usano portar camicia né cosa fatta con ago, percioché tra loro non si truova chi sappia cucire, ma portano i panni intorno la loro persona aggroppati come meglio sanno. Le donne hanno in costume di portare agli orecchi certe anella grandi d'argento e molte grosse, e tale ve n'ha che ne porta quattro per ciascuna orecchia. Usano ancora certe come fiubbe, di tanta grossezza che pesano una oncia, con le quali attaccano i panni sopra le spalle. Portano eziandio nelle dita delle mani e nelle gambe alcuni cerchietti pur d'argento; ma le nobili solamente e ricche ciò fanno, percioché le popolari e povere gli usano di ferro e di ottone. Evvi qualche cavallo, ma di picciola statura, e non gli ferrano, e sono cotai animali tanto agili che saltano allo ingiú come i gatti. Sonvi molti lepri, caprioli e cervi, ma quelle genti non gli apprezzano; fontane in molto numero e alberi, massimamente noci.
Questi popoli per la maggior parte sono come gli Arabi e vanno di un luoco in un altro. Le loro armi sono cotali pugnali larghi e torti, e cosí sono le spade, le quai hanno la schiena grossa come è quella d'una falce con che in Italia si taglia il fieno; e quando vanno a combattere portano in mano tre e quattro partigianelle. Quivi non ha giudice, né sacerdote, né tempio, né uomo che sappia dottrina. E sono generalmente uomini maligni e traditori. Fu detto al serif principe in la mia presenzia che 'l popolo di questo monte fa ventimila combattenti.


Demensera monte.

Questo monte è similmente una parte di Atlante e incomincia da' confini del detto. Estendesi verso levante circa a cinquanta miglia insino al monte di Nififa nella regione di Marocco, e divide buona parte di Hea da Sus, e nel suo confino è il passo di gire alla regione di Sus. È molto abitato, ma da gente barbera e bestiale. Hanno queste genti assai cavalli, e combattono spesse fiate co' vicini e con gli Arabi, vietando che essi entrino ne' loro paesi. Nel detto monte non è né città né castello né casa, sonvi molte ville e molti casali. E tra loro si truovano molti gentiluomini, i quali sono obbediti da tutta la plebe. I terreni per orgi e migli sono buonissimi; sonvi molti fonti che scorrono fra quelle valli e entrano nel fiume di Sisseua. Questo popolo veste assai bene. Quivi si cava gran copia di ferro, il quale vendono in diversi luoghi e accattano danari. Gran numero di giudei cavalca per quei monti, i quali portano arme e combattono in favore di loro padroni, cioè del popolo del detto monte; ma questi giudei fra gli altri giudei di Africa sono riputati quasi per eretici e sono chiamati carraum. In questo monte sono alberi alti e grossi di lentisco e di bosso, e alberi similmente grossissimi di noci. Gli abitatori sogliono mescolar le noci con argan, e ne cavano certo olio piú tosto amaro che no, il quale mangiano e abbruciano. Ho inteso da molti che il detto monte fa venticinquemila combattenti fra cavalli e fanti a piè. Nel mio ritorno da Sus io passai per questo monte, e per le lettere ch'io aveva di serif principe mi furon fatte molte carezze e onori, nell'anno novecentoventi.


Monte del ferro, detto Gebelelhadid.

Questo monte non è di Atlante, percioché incomincia dal lito del mare Oceano di verso tramontana e si estende verso mezzogiorno a canto il fiume di Tensift, e parte la region di Hea da quella di Marocco e dalla regione di Duccala. Abita in questo monte un popolo chiamato Regraga. Quivi sono grandissimi boschi, molti fonti, gran copia di melle e olio di argan; di grano hanno poca quantità, ma lo conducono da Duccala. Sono poveri uomini, ma da bene e divoti. Nella cima del detto monte si truovano molti romiti, che vivono di frutti di alberi e di acqua. Sono fedeli e amatori di pace, e come uno commette qualche latrocinio o altro male, lo bandiscono del paese per certo tempo. Semplici sono oltre a modo, di maniera che quando alcuno di quei romiti fa qualche operazione l'hanno per miracolo. Gli Arabi loro vicini danno lor spessi travagli, onde il popolo per viver quietamente suol pagare certo tributo.
Maumet re di Fes si mosse contra questa parte di Arabi, onde essi fuggirono ai monti. I montanari, aiutati dal favore del re, si fecero forti e assaltarono gli Arabi nelle strettezze dei passi, in modo che da questi e dallo esercito del re furono tagliati a pezzi, e menati al re degli uccisi tremilaottanta cavalli. Cosí i detti montanari furono liberi del tributo, e io allora mi trovai nell'esercito del re, che fu l'anno novecentoventuno. Gli abitatori del detto monte fanno circa a dodicimila combattenti.


Sus.

Ora dicasi della regione di Sus: questa è oltra il monte Atlante verso mezzogiorno e dirimpetto alla regione di Hea, cioè nello estremo di Africa, e incomincia sul mare Oceano dalla parte di ponente, e compie nel mezzogiorno nell'arena del diserto. Di verso tramontana termina nell'Atlante, cioè ne' confini di Hea; dal lato di levante ha fine nel gran fiume detto Sus, da cui è derivato il nome della detta regione. Io, incominciando dal canto di ponente, vi narrerò particolarmente ogni sua città e luochi nobili.


Messa città.

Messa sono tre piccole città, l'una vicina all'altra quasi un miglio, edificate dagli antichi Africani accosto la riva del mare Oceano e sotto la punta nella quale ha principio il monte Atlante, e sono murate di pietre crude. Passa fra le dette terricciuole il gran fiume Sus, e nella state varcasi questo fiume a guazzo; nel verno non vi si può passare, e hanno certe barchette che non sono atte se non per sí fatto tragetto. Il sito dove sono poste queste picciole città è un bosco non salvatico ma di palme, il quale è la loro possessione: vero è che i datteri che vi nascono non sono molto buoni, percioché non durano per tutto l'anno. Gli abitatori sono tutti agricoltori e lavorano il terreno quando cresce il fiume: il che è nel settembre e nel fine d'aprile; il grano raccolgono il maggio, e se il fiume sciemasse ne l'uno di questi due mesi non ve ne raccoglierebbono un solo. Hanno poche bestie.
Di fuori su la marina è un tempio, il quale tengono con grandissima divozione. Dicono molti istorici che di questo tempio uscirà il pontefice giusto che profetizzò Maumetto; dicono ancora che, allora che Iona profeta fu inghiottito dal pesce, egli lo vomitò sopra il terreno di Messa. I travicelli del detto tempio sono tutti di coste di balene, e sovente aviene che 'l mare molte grosse balene getta nel lito morte, le quali, con la lor grandezza e con la brutta forma ch'elle hanno, porgono terrore a chi le vede. Diceva il volgo che ogni balena che passa a canto il tempio muore, per la virtú data da Iddio a quel tempio. Io poco l'avrei creduto, se non che, vedendo alla giornata apparir qualche balena morta fuori dell'onda, mi faceva di ciò restar sospeso. Dipoi, ragionandone con un giudeo, mi disse che non era da maravigliarsi, percioché fra il mare quasi due miglia discosto sono alcuni scogli grossi e acuti. Onde, quando il detto mare è turbato, si muovono le balene di luoco in luoco, e quella che s'abbatte a percuotere in un di quegli scogli di facile è macerata e muorsi: per il che poscia il mare la getta al lito quale la veggiamo. Questa mi parve assai miglior ragione di quella del volgo.
Fui io in queste città nel tempo del serif principe. Invitommi adunque un gentiluomo a desinar seco in un giardino ch'era fuori della città, e per istrada trovammo apunto una costa d'una di dette balene, posta in foggia di arco, sotto la quale come per una porta su camelli passando, il sommo di lei era tanto alto che non vi aggiugnemmo con la testa. E dicesi che sono presso a cento anni che quella costa in quel luogo si tiene, e serbasi per cosa maravigliosa. Ne' liti piú vicini al mare truovasi per quei paesi ambracane perfettissimo, il quale è venduto a' mercatanti portogallesi o a quei di Fez per vile prezzo, ch'è quasi meno d'un ducato per oncia. Molti dicono che la balena è lo animale donde esso ambracane si crea: altri affermano essere lo sterco del detto, altri ch'è lo sperma il quale stilla dai membri genitali del maschio, quando e' vuole usare con la femina, e l'acqua lo indura.


Teijeut, città di Sus.

Teijeut è una antica città edificata dagli Africani, in una bellissima pianura. È divisa in tre parti, l'una parte discosto dall'altra quasi un miglio, le quai insieme un triangolo formano; fa in tutto quattromila fuochi. Passa accanto di lei il fiume Sus. Questo terreno è abbondantissimo di formento, d'orgio e d'altri grani e legumi; nascevi ancora gran quantità di zucchero, ma non lo fanno ben cuocere né purgare, perciò il detto zucchero è di color nero; onde a questa città vengono molti mercatanti di Fez, di Marocco e dal paese dei negri a comprarne. V'è similmente buona quantità di datteri. Quivi altra moneta non si spende che l'oro come nasce, e usano anche quelle genti nel spendere alcuni pannicelli appreziati un ducato l'uno. Vi si truova poco argento, e quel poco sogliono portar le donne per loro ornamento; in luogo di quattrini hanno certi pezzi di ferro del peso circa d'una oncia. Trovansi pochi frutti, eccetto fichi, uva, persiche e datteri; oliva non vi nasce, ma portavisi l'olio da alcuni monti di Marocco, e vendesi in Sus quindici ducati il cantaro, che è centocinquanta libbre italiane. I loro ducati, perché non hanno moneta battuta, valutano sette e un terzo per una oncia d'oro. L'oncia è come la italiana, ma la libbra fa oncie diciotto; essi la chiamano rethel: cento rethel è un cantaro. Il prezzo consueto della vettura, quando è né caro né molto buon mercato, costa ducati tre la soma di camello, la qual pesa libbre settecento italiane; e ciò nel verno, perché nella state pagasi cinque o sei ducati la soma. Nella detta città si acconciano quei belli cordovani che nella Italia sono detti marrochini: vendonsi questi ivi sei ducati la dozzina, e in Fez otto.
Da una parte di verso Atlante sono molti casali e villaggi, ma verso mezzogiorno è terreno disabitato, percioché sono pianure e poderi dei lor vicini Arabi. Nel mezzo della detta città è un bello e gran tempio, il quale essi chiamano il tempio maggiore, per entro del quale fanno passar un ramo del fiume. Gli uomini di essa sono naturalmente terribili, e vivono sempre in guerra tra loro medesimi, di modo che rare volte aviene che si stiano in pace. Fa ciascuna delle tre parti un rettore, i quali insieme governano la città, e non durano nel magistrato piú che tre mesi solamente. La piú parte d'essi usa di vestire come fanno quegli di Hea, e tal v'è che va vestito di panno, di camicia e tulopante in capo di tela bianca. La canna del panno grosso, come è il fregetto, vale un ducato e mezzo; la pezza di tela portogallese o fiandrese non molto grossa quattro ducati, e ogni pezza è di ventiquattro braccia di Toscana. Hanno nella città giudici e sacerdoti, ma obbediti solamente nelle cose sacre; nelle cure temporali chi piú ha de' parenti ha piú favori. Quando aviene che uno uccida un altro, se i parenti di colui lo possono uccider, bene sta; se non possono, quel tale o è bandito sette anni o rimane nella città al loro mal grado: se egli viene bandito la pena è come di sopra dicemmo, ed egli, in capo del termine ritornando, fa un convito a tutti i gentiluomini e in tal guisa si pacifica con gli aversari. Nella detta città sono molti giudei artigiani, i quali di niuna gravezza sono astretti, fuori che di far qualche picciolo presente ai gentiluomini.


Tarodant, città di Sus.

Tarodant è una città assai grande edificata dagli Africani antichi. Fa circa tremila fuochi, ed è lontana da Atlante poco piú di quattro miglia verso mezzogiorno, e da Teijeut verso levante trentacinque. Questa città è nella abbondanza e ne' costumi come le dette, ma è piú picciola e piú civile, percioché nel tempo che la famiglia di Marin regnava a Fez regnò ancora a Sus, e fu stanza del locotenente del re: onde vedesi fino al dí d'oggi una rocca rovinata, la quale fu fabricata da questi re. Ma poi che la detta famiglia mancò, la città fece ritorno alla libertà.
Gli abitatori vestono di panno e di tela. Vi sono molti artigiani. Il dominio è fra gentiluomini, il quale successivamente è tenuto da quattro, e questi non stanno nella signoria piú che sei mesi. Sono persone pacifiche, né mai fanno oltraggio a' vicini. In questo terreno verso Atlante sono molti villaggi e casali; le pianure che riguardano a mezzogiorno sono paesi e pascoli d'Arabi. Il popolo della città paga gran quantità di tributo per li terreni, all'usanza del paese di Sus, e per mantenere la via sicura. A' nostri dí questa città si ribellò agli Arabi, e si diede al serif principe l'anno 920


Gartguessem.

Gartguessem è una fortezza su la punta del monte Atlante e di dentro del mare Oceano, appresso ove entra in mare il fiume Sus. Ha nel suo circuito buonissimi terreni, i quali da vent'anni in qua furono presi da Portogallesi. Onde il popolo di Hea e di Sus si accordò insieme per riaver questa fortezza, e vennero con esso loro per soccorso molti fanti di lontan paese, e fecero capitano generale un gentiluomo serif, cioè nobile della casa di Maumetto, il quale con l'esercito assediò detto castello molti giorni. E furono ammazzate molte persone di quelli di fuora, per il che lo lasciorono e tornorono a casa, e alcuni restorono con il detto serif mostrando di voler mantener la guerra contra i cristiani; e il popolo di Sus contentò di darli danari per cinquecento cavalli. Il qual, come ebbe toccato molte paghe e fattosi pratico del paese, ribellò e fecesi tiranno. E al tempo che io mi partí dalla corte del detto serif, lui aveva piú di 3000 cavalli e fanti infiniti e danari, sí come nelle abbreviazion nostre abbiamo detto


Tedsi, città di Sus.

Tedsi è una città grande la quale fa quattromila fuochi, edificata anticamente dagli Africani, lontana da Tarodant verso levante trenta miglia, dal mare Oceano sessanta e dal monte Atlante venti. È paese abbondevole e fruttifero: nasce in esso gran quantità di grano e di zucchero e guado, e trovansi quivi mercatanti del paese dei negri. Il popolo si sta in pace, e sono uomini civili e onesti. Il governo loro è per via di republica, di modo che la signoria è sempre in mano di sei, i quali sono creati a sorte e hanno il succedimento in capo di mesi sedici. A canto della detta città passa il fiume Sus, tre miglia discosto. E sonvi molti giudei artefici, come orefici, fabbri e altri. V'è un tempio fornito molto bene di sacerdoti e d'altri ministri; tengono giudici e lettori nella legge pagati dal commune di essa città. E fassi un mercato il lunedí, nel quale si ragunano gli Arabi e paesani e montanari. Questa città l'anno novecentoventi si diede al serif principe, nella qual ei faceva la sua cancellaria.


Tagauost, città in Sus.

Tagauost è una grande città, e la maggiore che si truovi in Sus: fa ottomila fuochi ed è murata di pietre crude, lontana dal mare Oceano circa sessanta miglia e dal monte Atlante circa a 50 verso mezzogiorno; fu edificata dagli Africani. Lontano da lei presso a dieci miglia passa il fiume Sus. Nel mezzo di questa città sono molte piazze, botteghe e artigiani. Il popolo è diviso in tre parti, e il piú stanno queste genti sul guerreggiare tra loro, e una parte contra l'altra chiama in soccorso gli Arabi, i quali secondo la maggior quantità del soldo ora favoreggiano questa ora quella. Nel contado di lei sono abbondantissimi terreni e molti bestiami, ma la lana si vende vilissimo prezzo. Fansi quivi molti piccioli panni, i quali da mercatanti che sono nella città vengono condotti a Tombutto e a Gualata, terre delli negri: il che è una volta l'anno. E il mercato usavisi di fare due volte la settimana. Il loro abito è onesto, e le femine bellissime e graziose; sono molti uomini bruni, i quali sono nati di bianchi e di neri. Quivi non è diterminato dominio, ma regna chi ha maggior potere. Io fui in detta città tredici giorni col cancelliere del serif principe per comperar certe ischiave per lo detto principe, l'anno 919.


Hanchisa monte.

Questo monte quasi incomincia da Atlante, cioè verso ponente, e si estende verso levante circa a quaranta miglia. Ne' piedi v'è Messa e altri paesi di Sus. Gli abitatori sono uomini valentissimi a piedi, di maniera che ad uno fante basta l'animo di difendersi da due a cavallo, con certe picciole partegiane le quali usano di portare. In questo monte non nasce formento, ma orgio in molta copia e melle. In tutto il tempo dell'anno vi nevica, ma eglino mostrano di stimar poco il freddo, percioché tutto il verno sogliono portare in dosso pochi panni. Il principe serif tentò piú volte di farsegli tributari, ma in vano.


Ilalem monte.

Questo monte incomincia da ponente dal confino del sopradetto, e termina nella region di Guzzula verso levante, e verso mezzogiorno ha fine ne' piani di Sus. I suoi abitatori sono uomini nobili e valenti. Hanno gran moltitudine di cavalli, e fanno tra loro sempre guerra per cagione di una vena di argento la quale è nel detto monte, e quelli che rimangono vincitori godono il frutto di questa.


Sito della regione di Marocco.

Questa regione ha principio di verso ponente dal monte di Nefifa, e va verso levante fino al monte di Hadimei, e discende verso tramontana vicino al fiume di Tensifit per insino che questo fiume si congiunge col fiume di Asifinual, dove dal lato di levante incomincia Hea. Ha questa regione quasi forma di triangolo. È abbondevolissima di formento e d'altre sorti di grano, di numero di bestiame, d'acque, di fiumi, di fonti, di frutti, come sono datteri, uve, fichi, poma e pere d'ogni maniera. È quasi tutta pianure, come è in Italia la Lombardia. I monti sono freddissimi e sterili, per modo che in quelli altro non nasce che orgio. Ora, incominciando noi dalla parte occidentale, descriveremo ogni suo monte e città, tenendo il nostro stile consueto.


Elgiumuha, città della sopradetta regione.

Elgiumuha è una città picciola nel piano, appresso un fiume detto Sesseua, discosto dal monte Atlante circa a sette miglia. Fu edificata dagli Africani, ma dipoi fu tenuta da certi Arabi, nel tempo che la famiglia di Muachidin perdé il dominio. Di questa città altro ora non rimane che certe rare vestigie. Gli Arabi sementano del terreno tanta parte che è bastevole al viver loro; il rimanente lasciano incolto. Ma quando la detta città era abitata, soleva render l'anno di utile centomila ducati, e faceva circa a seimila fuochi. Io passai da canto a lei e alloggiai con gli Arabi, i quali trovai uomini molto liberali, ma sono perfidi e traditori.


Imegiagen.

Imegiagen è una fortezza posta su la cima di una montagna di quelle di Atlante, la quale non ha mura che la cingano, ma è difesa dalla natura del luoco. È discosta dalla sopradetta città verso mezzogiorno circa a venticinque miglia. Tenevano questa fortezza ne' tempi adietro certi nobili di quel paese, ma fu presa da Homar Essuef eretico, di cui di sopra dicemmo. Il quale vi usò di grandissime crudeltà, percioché egli fece uccider per insino a' fanciulli, e le femine gravide, faceva aprire il corpo e cavarne fuori le creature, le quali erano sbranate sul petto delle loro madri, e prima che gustassero la dolcezza della vita sentivano l'acerbità della morte. Dell'anno 900, cosí, la detta fortezza rimase disabitata. Vero è che nell'anno novecentoventi in qualche parte s'incominciò a riabitare, ma solamente nelle coste del monte si puote ora lavorare e seminar le cose opportune al vivere, percioché nel piano non si può pur solamente passare, quando per tema degli Arabi e quando de' Portogallesi.


Tenezza.

Tenezza è una città forte nella costa d'una parte del monte Atlante, che è detta Ghedmina, edificata dagli Africani antichi, lontana da Asifinual quasi otto miglia verso levante. Sotto di essa sono molte pianure e tutte buonissime per grani, ma gli abitatori, per essere molestati dagli Arabi, non possono coltivare il terreno. Solamente seminano su le costiere del monte e tra il fiume e la città: pagano eziandio per tal cagione agli Arabi di gravezza uno terzo delle rendite dell'anno.


Delgumuha nova.

Questa città è una gran fortezza sopra una montagna altissima: d'intorno è circondata da diversi altri monti. Sotto la detta fortezza nasce Asifinual, che nella lingua africana è interpretato "fiume di romore", perché cade giú del monte con grande strepito, e fa uno profondo, nella guisa dell'inferno di Tivoli nel contado di Roma. Fu edificata da certi signori a' nostri dí, e fa presso a mille fuochi. Tennela gran tempo un tiranno della famiglia dei re di Marocco. Fa ancora questa fortezza buona quantità di cavalli e di fanterie, e cava di rendita da quei casali e villaggi di Atlante poco meno di diecimila ducati. Il popolo tiene stretta amicizia con gli Arabi, e fa loro molte volte di belli e onorati presenti, con li quali molte volte ha offeso li signori di Marocco. Sono uomini civili, vestono assai gentilmente, ed è la città benissimo abitata e fornita di artigiani: e ciò perché è vicina a Marocco cinquanta miglia. Fra le loro montagne sono di bellissimi giardini, e vi nasce gran quantità di frutti; sogliono seminare orzo, lino e canapo, e hanno assai gran numero di capre. Tengono sacerdote e giudice, ma per altro sono uomini di grosso intelletto, e gelosi delle lor donne grandemente. Io alloggiai nella detta città in casa d'un mio parente, il quale, essendo in Fez rimaso debitore d'una grossa quantità di danari per cagione di fare alchimia, venne ad abitar quivi e col tempo fu fatto secretario del signore di questa città.


Imizmizi.

Imizmizi è una città assai grande su la rupe d'un monte di quei di Atlante, lontana dalla sopradetta verso ponente circa a 14 miglia, edificata dagli antichi. Sotto lei è un passo che attraversa Atlante alla regione di Guzula, ed è detto Burris, cioè "piumoso", perché di continovo vi fiocca la neve, la quale ha somiglianza di bianca piuma che alle volte si vede volare. Sotto ancora la detta città sono larghissime pianure, le quali giungono a Marocco e tengono trenta miglia di lunghezza. Quivi nasce il grano bello e grosso e il migliore ch'io abbia veduto giamai, e la farina è perfettissima. Ma gli Arabi aggravano molto questa città, e similmente il signor di Marocco, di maniera che la maggior parte della campagna è disabitata; e ancora gli abitatori della città incominciano a lasciarla, e sono molto poveri di danari, ma di possessioni e di grani ve ne hanno assai. Io quivi alloggiai appresso un romito nominato Sedicanon, uomo di gran riputazione e stima.


Tumeglast.

Tumeglast sono tre piccioli castelli nel piano, lontani da Atlante verso tramontana quattordici miglia e da Marocco circa a trenta. Sono tutti circondati di palme di datteri, uve e altri frutti; hanno d'intorno una bella campagna e buonissima per grani, ma non si può lavorare per la molestia degli Arabi. E i detti piccioli castelli sono presso che disabitati, né vi ha dentro piú che dodici o quindici famiglie, le quali sono congiunte di parentado al sopradetto romito, e per favor di costui possono coltivare una particella della detta campagna senza pagar cosa alcuna agli Arabi, i quali poi ne' viaggi che fanno ai castelli alloggiano nelle case loro. Le quali case sono picciole e disagiate, e hanno piú tosto forma di stalle d'asini che d'albergo d'uomini, per sí fatto modo che sempre sono ripiene di pulici, di cimici e di tai noie. E le acque sono salate. Io fui in questa terra alloggiato con Sidi Iehie, che era venuto a scuoter li tributi di quel paese in nome del re di Portogallo, dal quale era stato fatto capitano della campagna di Azafi.


Tesraft città.

Questa è una picciola città posta su la ripa del fiume di Asifelmel, lontana da Marocco verso ponente 14 miglia e dal monte Atlante circa a venti. D'intorno a questa città sono molti giardini di datteri e buoni terreni per grano, e tutti gli abitatori sono ortolani. Ma egli è vero che 'l detto fiume alle volte cresce e rovina tutti i giardini, senza che gli Arabi nella state vengono a quelli e mangiano ciò che v'ha di buono. Io fui in questa terra, dove non vi stetti se non tanto quanto li cavalli mangiorono la biada, e scapolai per gran ventura quel giorno di non esser assassinato dagli Arabi.


La gran città di Marocco.

Marocco è città grandissima, delle maggiori del mondo e delle piú nobili di Africa. È posta in una grandissima pianura, lontana da Atlante quasi quattordici miglia. Fu edificata da Giuseppe, figliuolo di Tesfin, re del popolo di Lontuna, nel tempo che egli entrò con la sua gente in quella regione, e fecela per seggio e residenza del suo regno, acanto il passo di Agmet, il quale trapassa Atlante e va al diserto, dove sono le abitazioni del detto popolo. Fu fabricata col consiglio di eccellenti architetti e ingeniosi artefici. Ella circonda gran terreno, e quando viveva Hali, figliuolo di Giuseppe re, questa città faceva centomila fuochi e qualcuno di piú. Aveva ventiquattro porte ed era murata di bellissime e fortissime mura, fatte di calcina viva e ghiara. Passa sei miglia discosto da Marocco un gran fiume, il quale è appellato Tensift. È fornita di tempi, di collegi, di stufe e d'osterie, secondo il costume d'Africa.
E di questi tempi alcuni furono edificati dai re di Lontuna e altri dai loro successori, cioè dai re di Elmuachidin. Nel mezzo della città ce n'è uno veramente bellissimo, edificato da Hali, figliuolo di Giuseppe, primo re di Marocco, e chiamasi il tempio d'Hali ben Giuseppe. Ma un successor nel detto regno, il cui nome fu Abdul Mumen, fece disfare e rifare il detto tempio, non per altra cagione che per levarne i primi titoli di Hali e ponervi il suo: tuttavia la fatica di costui fu posta indarno, percioché le genti ancora hanno in bocca l'antico titolo. Havvi eziandio quasi vicino alla rocca un altro tempio, il quale fece fare detto Habdul Mumen, che fu il secondo che per ribellione succedette nel regno, e dipoi il suo nipote el Mansor l'accrebbe cinquanta braccia da ogni lato, ornandolo di molte colonne le quali fe' conducere di Spagna; e fece far sotto di esso una cisterna in volto tanto grande quanto il tempio, e tutte le coperte del tempio volle che fossero di piombo con certi canaletti negli orli, fatti in guisa che tutta la pioggia che cadeva sul tempio, correndo per quei canaletti, era ricevuta dalla cisterna.
Fece ancora edificare una torre di pietre lavorate e grossissime, come è il Coliseo di Roma: il circuito di questa torre contiene cento braccia di Toscana, ed è piú alta della torre degli Asenelli da Bologna. La scala per cui s'ascende è piana e larga nove palme; la grossezza del muro di fuori dieci, e il masso della torre è grosso cinque. Sonvi dentro sette stanze agiate e molto belle, una sopra l'altra, e per l'ascender di tutta la scala si vede grandissimo lume, percioché vi ha dal basso all'alto finestre bellissime e fatte con grande ingegno, le quali sono piú larghe di dentro che di fuori. Come si giunge alla sommità della torre, truovasi un'altra picciola torricella, la cui cima è come una guglia e cinge venticinque braccia, quasi tanto quanto il masso della torre, è alta come due gran lancie e fatta in tre solai in volta: vassi da un solaio in l'altro con certe scale di legno. Su la cima de la guglia è uno spiedo fitto molto bene, e vi sono tre pomi d'argento l'uno sopra l'altro infilzati, e quello di sotto è piú grande che quello di mezzo, e quello di mezzo piú grande che quello di sopra. Come l'uomo è nel piú alto solaio, gli conviene volgere il capo come chi è nella gabbia dell'albero d'una nave, e piegando gli occhi dal di sopra alla terra, gli uomini di qualunque grande istatura non gli paiono punto maggiori d'un fanciullo d'un anno, e vedesi benissimo la montagna di Azafi, la quale è discosto da Marocco centotrenta miglia; veggonsi ancora le pianure che sono d'intorno quasi per lo tratto di cinquanta miglia.
Il sopradetto tempio di dentro non è molto ornato, e tutti li soffittati sono fatti di legname, tuttavia con assai bella architettura, come molti che noi abbiam veduto nelle chiese d'Italia. È vero che esso è delli maggior tempii che si truovino al mondo, ma oggidí è abbandonato, percioché gli abitatori non usano di farvi dentro le loro orazioni altro giorno che il venere. E la detta città è molto mancata circa all'abitazioni, e massimamente le contrade vicine al detto tempio, e con gran fatica vi si può andare, per cagione della rovina di molte case che impediscono la strada. Sotto il portico del detto tempio solevano essere presso a cento botteghe di librari, e altretante al dirimpetto: ma al presente non se ne truova in tutta Marocco una sola, e la povera città è in due terzi disabitata. Il terren vacuo è piantato di palme, d'uve e d'altri alberi fruttiferi, percioché i cittadini non possono tener di fuori un palmo di terreno, per essere molestati dagli Arabi.
E in vero ei si può dire che questa città sia invecchiata innanzi tempo, perché non forniscono ancora cinquecentosei anni che fu edificata: ma la cagione di ciò nacque dalle guerre e dai mutamenti delle signorie. Dette principio alla sua edificazione Giuseppe, figliuolo di Tesfin, l'anno quattrocentoventiquattro di legira. E morto Giuseppe regnò il suo figliuolo Hali, al quale successe Abraham suo figliuolo, nel cui tempo ribellossi un certo predicatore, chiamato Elmahdi, uomo nato e accresciuto nelle montagne. Costui, fatta buona quantità di soldati, mosse guerra ad Abraham. Perciò fu necessario al re di uscir con la sua gente contra a questo Elmahdi, e fatto giornata il re, avendo la fortuna contraria, fu rotto e impeditogli le strade di tornare nella città, di maniera che egli, lasciandola adietro, fu costretto a fuggirsi verso levante, tenendo il cammino accanto la costa di Atlante, con quella poca quantità di gente che gli era rimasa. Elmahdi, non si contentando di ciò, commise a uno capo de' suoi discepoli, detto per nome Habdul Mumen, che seguitasse il re con la metà dell'esercito, ed egli rimase con l'altra metà all'assedio di Marocco. Il re non poté né trovare iscampo né difendersi per insino a tanto che egli pervenne in Oran, nella qual città con le sue reliquie pensò di ripararsi il meglio che poteva. Ma Habdul Mumen accampandovisi di subito, il popolo fece intendere al re che egli non volea per lui ricever danno. Per il che il misero re, avendo perduta ogni speranza, salito di notte a cavallo e presa la moglie che seco aveva in groppa, uscí da una porta della città, e sconosciuto drizzò il cavallo a una rupe altissima che riguardava in mare, e dato di sproni ne' fianchi al cavallo vi si gittò giú per modo che, andando di dirupo in dirupo, tutti tre morti e in piú parte guasti furono trovati sopra uno scoglio e sepelliti miseramente.
Habdul Mumen vittorioso si ritornò a Marocco, e volle la sua buona ventura che trovò ch'era morto Elmahdi, onde egli in suo luogo fu eletto re e pontefice da quaranta discepoli e da dieci secretari del detto: usanza nuova in la legge maumettana. Costui adunque mantenne l'assedio della città gagliardamente, e in capo d'un anno v'entrò per forza e, preso Isac, picciolo figliuolo che solo era rimaso di Abraham, lui crudelmente con le sue proprie mani isvenò, e avendo uccisa la maggior quantità dei soldati che v'erano, tolse di vita una gran parte de' cittadini. Regnò la famiglia di costui per successione dall'anno cinquecentosedici di legira fino all'anno seicentosessantotto, e fu priva del dominio per li re della famiglia di Marin. Vedete come sono varii i rivolgimenti della fortuna. Durò il regno in questa famiglia di Marin fino all'anno settecentoottantacinque; dipoi ella ancora venne al meno, e Marocco fu dominata da certi signori ch'erano nel monte vecchio vicino alla città. Ma in questi mutamenti di signorie da niuno ricevé tanto danno quanto dalla famiglia di Marin, la qual fece il suo seggio in Fessa e quivi teneva la corte real, e in Marocco teneva un suo luogotenente, di maniera che Fessa fu capo del regno di Mauritania e di tutta la parte occidentale. E di ciò piú diffusamente trattamo nell'abbreviamento da noi fatto nelle croniche maumettane.
Ora, perché siamo alquanto vagati, è tempo di tornare alla descrizione della città. In lei è una rocca grande quanto una città, le mura della quale sono grossissime e forti, e hanno bellissime porte fatte di pietra tiburtina, i cui usci sono tutti serrati. Nel mezzo della rocca è un bellissimo tempio, sopra il quale è una torre similmente bellissima, e nella cima uno spiedo di ferro nel qual sono infilzati tre pomi d'oro che pesano 130 mila ducati africani, e piú grande è quello di sotto e piú picciolo quello di sopra. Il perché molti signori l'hanno voluto levare di là per valersi dei danari ne' bisogni, ma sempre è loro avvenuto qualche strano accidente per il quale furono costretti a lasciarvegli, in tanto che tennelo a malo augurio il levarli di quella cima. Dice il volgo che queste poma furono ivi messe sotto a tale influsso de' pianeti che elle non possono esser mai da quel luogo rimosse; aggiunge ancora che colui che ve le pose fece certo incanto di arte magica, per il quale costrinse alcuni spiriti a starsi perpetuamente in guardia loro. Al tempo nostro il re di Marocco per difendersi dai cristiani portogallesi, voleva al tutto, schernendosi della credula superstizione del popolazzo, trarle di donde sono; ma il popolo non gliel consentí, dicendo quelle esser la maggior nobiltà di Marocco. Noi leggiamo nell'istorie che la moglie di Mansor, poi che il marito fece edificar quel tempio, per lasciare ancora ella tra gli ornamenti del tempio qualche memoria di se stessa vendé i propi ornamenti, cioè ori, argenti, gioie e tai cose donateli dal re quando l'andò a marito, e fattone far le tre palle d'oro, di queste rese, come dicemmo, bella e apparente la cima.
È eziandio nella detta rocca un nobilissimo collegio, o vogliamo dir luogo assegnato allo studio e ricetto di diversi scolari, il quale ha trenta camere e nel piano una sala dove si leggeva ne' tempi antichi, e ogni scolare ch'era di questo collegio aveva le spese e il vestire una volta l'anno. E i dottori per loro salario avevano chi cento ducati e chi dugento, secondo la qualità delle lezioni che essi erano obligati a leggere; né poteva essere ammesso nel detto collegio chi non era molto bene ammaestrato ne' principii delle scienzie. Il luogo è ornato di belli mosaichi, e dove non ha mosaichi sono i muri di dentro vestiti di certe pietre di terra cotta invetriate, tagliate in fogliami sottili, e altri lavori in cambio di mosaico, e massime la sala dove si legge e li portichi coperti. E tutto lo scoperto è saleggiato di pietre invetriate che si chiamano ezzuleia, come si usa ancora nella Spagna. In mezzo dell'edificio è una fontana bellissima, lavorata e fatta di bianchissimi marmi, ma bassa all'usanza di Africa. Soleva esserci già, sí come io odo dire, gran numero di scolari, ma oggidí non sono piú che cinque, ed evvi un lettore ignorantissimo legista, il quale poco intende d'umanità e meno di altra scienzia.
Io, quando fui in Marocco, ebbi domestichezza con un giudice, persona invero ricca e buon conoscitor dell'istorie africane, ma poco perito nelle leggi: e ottenne quello ufficio per la pratica ch'egli fece in quaranta anni che fu notaio e favorito del re. Gli altri che amministrano gli uffici publici mi parvero uomini di grosso ingegno, per l'esperienzia ch'io ebbi quando fui con questo signore in campagna, dove lo trovai la prima volta che arrivai nella region di Marocco.
Sono ancora nella detta rocca undici o dodici palazzi molto ben fatti e ornati, i quali furono fatti edificar dal Mansore. Nel primo che s'incontra stava la guardia di certi balestrieri cristiani, i quali solevano esser cinquecento, e questi erano soliti di camminare sempre dinanzi al signore quando si moveva da un luogo all'altro. Nel palazzo accanto a questo alloggiavano altretanti arcieri, e un poco avanti al palazzo è l'albergo dei cancellieri e secretari, il quale nella lingua loro è chiamato la casa dei negozii. Il terzo è detto il palazzo della vittoria, e in questo si tenevano l'armi e le monizioni della città. Ci è un altro un poco piú oltre al detto, nel quale alloggiava il maestro di stalla del signore, e vicino a lui sono tre stalle fatte a volte, in ciascuna delle quali possono capire agiatamente dugento cavalli. Sonvi due altre stalle, una per li muli, e vi capeno cento muli, e l'altra per le cavalle e mule che cavalcava il re. Appresso alle dette stalle erano due granai fatti pure a volte e in due solai. Nel solaio di giú tenevano lo strame, e in quello di sopra l'orzo per li cavalli. Nell'altro riponevano il formento, ed è tale che cape in uno solaio piú di trentamila ruggi e altretanti nell'alto: dove sono fatti certi buchi a posta sopra il tetto, ed evvi una scala piana di pietra, e le bestie vanno cariche fino sopra il tetto, e ivi si misura e poi buttasi dentro per li detti buchi; e quando lo voglion cavar fuori hanno certi altri buchi di sotto, che aprono, e cosí cavano e mettono senza fatica. Piú oltre ancora c'è un bel palazzo, il quale era la scuola dei figliuoli del re e degli altri della sua famiglia. In questo è una bellissima camera fatta in quadro, con certi corridori intorno e con bellissime finestre di vetro di diversi colori; e sono al d'intorno di lei alcuni armai di tavole con intagli dorati, e dipinti in molte parti con finissimo azurro e oro. C'è un altro palazzo nel quale dimorava similmente la guardia di certi armati, un altro molto grande dove il signore dava generale udienza, e un altro dove teneva gli ambasciatori quando gli parlavan gli secretarii. Ve n'è un altro fatto per albergo delle mogli del re, damigelle e ischiave; un altro appresso questo diviso in molte parti, per li figliuoli del detto, cioè per quelli che erano alquanto grandetti.
Piú discosto verso il muro della rocca che risponde alla campagna è un bellissimo e grandissimo giardino, nel quale ha ogni sorte d'alberi e di fiori. Ed evvi una loggia tutta di marmo, quadra e profonda sette palme, nel cui mezzo è una colonna che sostiene un leone pur di marmo fatto assai maestrevolmente, dalla bocca del quale esce chiara e abondevole acqua che si riverscia nella loggia. E per ogni quadro della detta loggia è un leopardo di marmo bianco, con certe macchie verdi e tonde fatte dalla natura; né si truova tale marmo in altro luogo fuori che in un monte di Atlante, discosto da Marocco centocinquanta miglia. Appresso del giardino v'è certo serraglio, nel quale si rinchiudevano molte salvatiche fiere, come giraffe, elefanti, leoni, cervi e caprioli. È vero che i leoni avevano separata stanza dagli altri animali, e fin ora quel luogo è detto la stanza dei leoni.
Quelle poche adunque di vestigia che sono rimase in questa città vi possono far fede della pompa e grandezza che era ne' tempi del Mansor. Oggidí non si abita altro che 'l palazzo della famiglia e quello dei balestrieri, dove albergano ora i portinai e i mulattieri del presente signore. Tutto quello che rimane è albergo di colombi, cornacchie, civette, guffi e simili uccelli. Il giardino, da prima sí bello, è oggi ricetto delle immondizie della città; il palazzo dove era la libraria, in una parte è albergo di galline e in altra di colombi: gli armai ne' quai si solevano tenere i libri sono i nidi loro.
Fu certo questo Mansor un gran principe, percioché signoreggiava da Messa per insino a Tripoli di Barberia, che è la parte piú nobile d'Africa; e non si potea fornir questo viaggio in meno di novanta giorni, e per la larghezza in quindici. Signoreggiava eziandio nella Europa tutta quella parte d'Ispagna detta Granata, e che è da Tariffa fino nella provincia di Aragon, e una buona parte di Castiglia e ancora di Portogallo. Né solamente ebbe sí gran dominio el Mansor, ma il suo avolo Abdul Mumen e 'l suo padre Giuseppe, e lui Iacob el Mansor e suo figliuolo Maumetto Enasir, che fu rotto e vinto nel regno di Valenza, e furon morti de' suoi, fra gente da cavallo e da piè, sessantamila uomini. Egli salvò la sua persona e tornossi a Marocco. Laonde i cristiani, per la vittoria preso animo, seguitarono l'impresa e nello spazio di trenta anni recuperorno Valenza, Denia, Alicante, Murzia, la nuova Cartagine, Cordova, Siviglia, Iaen e Ubeda. Per questa memorabil rotta e occisione incominciò a declinar la famiglia dei detti re, e morto Maumetto, lasciò dieci figliuoli uomini fatti, i quai tutti volevano usurparsi il dominio. Il che fu cagione che si uccidessero tra loro, e che appresso il popolo di Marin entrasse nel regno di Fez e in que' contorni; si sollevò eziandio il popolo di Habduluad e regnò in Telensin, e levò il rettore di Tunis e faceva re chi gli pareva.
Cotal fine ebbero i successori di Mansor. Venne dipoi il regno in mano di Giacob, figliuolo di Habdulach, primo re della famiglia di Marin. Ultimamente la città di Marocco è rimasa in poca riputazione, e quasi sempre travagliata dagli Arabi, qualunque volta il popolo si ritrae di consentire ad ogni loro picciolo desiderio e volontà.
Quanto è sopradetto di Marocco, parte ho veduto io e parte ho cavato dall'istoria di Ibnu Abdul Malich, cronichista di Marocco, divisa in sette parti, e anco dalle mie abbreviazioni delle croniche maumettane.


Agmet città.

Agmet è certa città vicina a Marocco circa a ventiquattro miglia, edificata dagli antichi Africani su la costa d'un monte, pur di quegli di Atlante. Fa presso a seimila fuochi. Questa al tempo di Muachidin fu molto civile e chiamavasi la seconda Marocco. È circondata da molti bellissimi giardini e vigne, quai posti nel monte e quai nel piano. Passa sotto lei un bel fiume, il qual viene da' monti di Atlante ed entra poscia nel fiume di Tenseft. Fra i detti fiumi è una campagna, mirabilissima circa alla bontà del terreno: dicono che 'l detto terreno rende alle volte nel seminare cinquanta per uno. L'acqua del detto fiume è sempre bianca, la terra e fiume somiglia alla città di Narni e alla Negra fiume in Umbria, e affermano ch'egli va per fino a Marocco, e mettendo capo appresso alla detta città ha il suo corso per certi canali sotto la terra: né si vede canale alcuno per insino a Marocco. A molti signori piacque di fare isperienza di conoscere da qual parte se ne venga la detta acqua, e fecero andare per quel canale alcuni uomini, i quali tenevano per veder lume una lanterna in mano. Questi, come furono alquanto corsi pel canale, sentirono un gran vento il quale loro ammorzò il lume, e soffiava con tal forza che mai piú simile non pareva a quelli aver sentito; e furono piú volte a pericolo di non poter tornare adietro, percioché oltre a ciò il fiume era rotto da certi sassi grandissimi, tra' quali l'acqua percotendo correva ora d'una ora d'altra parte. E trovarono alcune cave profondissime, di maniera che furono costretti a lasciar l'impresa, nella quale niuno poscia ebbe ardimento di mettersi. Dicono gli istorici che 'l signore che edificò Marocco, con la dottrina di certi astrologi, previdde ch'egli era per aver di molte guerre, onde fece che per arte magica tal novità si vedesse in quel canale, a fine che niuno suo inimico, non sapendosi il nascimento dell'acqua, gliela potesse levare.
Sotto Agmet, appresso il fiume, è un passo che attraversa Atlante verso la provincia di Guzzula. Ma la detta città è oggidí divenuta albergo di lupi, volpi e corvi, e di somiglianti uccelli e animali. Eccetto che nella rocca a' miei giorni abitava un certo romito con cento suoi discepoli, i quali tutti avevano nobilissimi cavalli, e incominciarono a volere farsi signori, ma non avevano a cui signoreggiare. Io alloggiai con questo romito forse dieci dí, un fratello del qual era mio strettissimo amico, percioché eravamo noi stati insieme condiscepoli nella città di Fez e udimmo insieme nella teologia la epistola di Nensefi.


Hanimmei città.

Hanimmei è una terricciuola sopra la costa del monte Atlante verso il piano, lontano da Marocco circa a quaranta miglia verso levante nel passo di Fez, cioè a quegli che vogliono fare il cammino per la costa del monte. E il fiume di Agmet passa discosto di Hanimmei circa a quindici miglia; dal fiume fino alla città è una campagna bonissima da seminare, sí come è quella di Agmet. Da Marocco fino al fiume possiede il signor di Marocco, e quello che è da Marocco fino ad Hanimmei è sotto il dominio del signore d'Hanimmei, il quale è valoroso giovane e fa spesso guerra al signor di Marocco e agli Arabi. Signoreggia eziandio molti popoli ne' monti di Atlante, è liberale e animoso, né aveva sedici anni forniti quando egli ammazzò un suo zio e fecesi signore; onde subito gli convenne mostrar segno del suo valore, percioché molti Arabi, insieme con trecento cavalli leggieri de' cristiani portogallesi, fecero una improvisa correria per insino alle porte della città. Ed egli, con cento cavalli e pochi Arabi, si difese con tanta prodezza che fu uccisa una gran quantità dei detti Arabi, e de' cristiani niuno ritornò piú in Portogallo, e ciò avenne perché eglino non erano pratichi in questo paese, l'anno novecentoventi. Venne dipoi il re di Fez e dimandò a costui certo tributo, il quale egli ricusando, il re vi mandò uno esercito di molti cavalli e balestrieri; il signore volle difendersi, e uscito nella battaglia ebbe d'una pallotta di schioppo nel petto e tosto cadde morto. Per il che la città rimase tributaria, e la medesima moglie del signore condusse molti nobili prigioni incatenati al capitano del re, il quale, lasciatovi un governatore, si dipartí nell'anno 921.


Nififa monte.

Poscia che detto abbiamo della regione di Marocco, secondo che pare a noi assai abbondevolmente, ora ordinatamente seguendo diremo dei monti piú famosi. E per incominciare da Nififa, questo è un monte del quale di verso ponente ha capo la regione di Marocco, e da questa separa Hea. È molto abitato, e nella sua sommità, benché spesso vi soglia nevicare, nondimeno vi si semina orzo, il quale vi nasce in molta copia. Sono gli abitatori uomini salvatichi e non hanno civilità alcuna; e come veggiono un cittadino, si maravigliano sí di lui come dell'abito, nella guisa che di me fecero, che in duoi giorni che quivi stetti non si potevano render sazii di guardare e toccare la veste ch'io aveva, che era una sopravesta bianca a uso di studente, e in duoi giorni la diventò come una straccia di cucina tanti furno quelli che la volsono toccare. E un vi fu che mi sforzò a far cambio d'un suo cavallo, che poteva valer dieci scudi, per una mia spada che non valeva in Fez uno e mezzo. E questo procede percioché non vanno mercatanti in quella parte, ed essi non osano venir su le strade, perché quei luoghi sono per lo piú tenuti da uomini malvagi e assassini. Hanno abbondanza capre, di mele e d'olio di argan, e d'indi s'incomincia a trovare il detto argan.


Semede monte.

Questo monte incomincia da' confini del sopradetto, e sono separati l'uno dall'altro dal fiume Sefsaua, ed estendesi verso levante circa a venti miglia. I suoi abitatori sono vili, rozzi e poveri. Ivi si truovano molti fonti e neve tutto l'anno. Né si tiene o vero si obbedisce a ragione alcuna, se non alle volte di qualche passaggiero che paia loro che sia persona intendente. Io alloggiai una notte sul detto monte, in casa d'un religioso tra loro molto onorato, e convennemi mangiar del cibo che essi mangiano, cioè farina d'orgio temperata con acqua bollente, insieme con certa carne di becco che mostrava alla durezza di avere piú di sette anni d'età, e oltre a ciò mi convenne dormire su la nuda terra. Onde levatomi la mattina per tempo e pensandomi di partire, sí come quello che non sapeva l'usanza loro, mi fu fatto d'intorno cerchio da piú di cinquanta persone, le quali m'incominciarono a dir le lor questioni, non altrimenti che a giudice e terminator dei litigi. Io loro risposi che non sapeva niente de' fatti loro. Allora vennero innanzi tre gentiluomini, cioè tre dei piú riputati tra loro, de' quali uno disse: "Gentiluomo, voi forse non sapete il costume nostro: nostro costume è che niun forestiero si parta da noi per infino ch'egli non abbia molto bene ascoltate e decise le nostre cause". Né appena ebbe fornite queste parole che mi viddi esser levato il cavallo. Onde egli mi fu forza a soffrir nove amari giorni e altretante amare notti, sí per il cibo e sí per il dormire, percioché, oltre i molti intrichi, non era chi di loro sapesse scrivere una sola parola, e convennemi essere parimente e giudice e notaio. In capo di otto giorni dissero che essi mi farebbono la seguente mattina un presente onorato e nobile: per il che a me parve mille anni la notte, pensando fra me stesso di ricevere qualche buona quantità di ducati. Come apparve la luce, mi fecero sedere sotto il portico d'un loro tempio e, fatta certa orazione, incominciò ciascuno di loro a venire a me col suo presente, e baciorommi il capo. E tale fu che mi portò un gallo, tale una guscia di noce, uno due o tre treccie di cipolle e altro di aglio, e il piú nobile mi fece dono d'un becco: le qual cose, non si trovando alcun che le comprasse per non esser danari in quel monte, le lasciai al padron della casa per non volermele portar drieto. Questo adunque premio ebbi io della fatica e disagio di que' giorni. Egli è vero che cinquanta di queste canaglie mi accompagnarono buona pezza di via, la qual non era sicura.


Seusaua monte.

Questo monte è doppo il sopradetto, dal quale nasce un fiume che da lui piglia il nome. Quivi tutto il tempo dell'anno si truova la neve. Il popolo è molto bestiale e guerreggia di continovo co' vicini, e le loro armi sono i sassi i quali traggono con le frombole. Vivono d'orgio, di mele e di carne di capra, e sono tra essi mescolati molti giudei, che in que' monti esercitano l'arte fabbrile e fanno le zappe, le falci e i ferri de' cavalli. Fanno eziandio l'ufficio de muratori, benché poche faccende hanno alle mani, percioché i muri si fanno di pietre e di creta e i colmi di paglia. Né calcina né altro si truova, né tegole né mattoni: e cotali sono le case dei monti che abbiamo detto. Hanno gli abitatori molti legisti, che gli consigliano in certe cose, e io molti di loro ho conosciuti che studiarono in Fez, e mi accarrezzarono e feciono di molte promesse di accompagnarmi.


Secsiua monte.

Secsiua è un monte ripieno d'ogni salvatichezza, altissimo e molto freddo; vi sono di moltissimi boschi, né mai di quindi si leva la neve. Gli abitatori sogliono portare in capo certi cappelli bianchi. E vi sono fontane in molta copia. Quivi nasce il fiume di Assifinual. E nel detto monte si truovano molte grotte larghe e profondissime, nelle quali sogliono essi tre mesi dell'anno tenere i loro bestiami, cioè il novembre, il decembre e il gennaio; il cibo de' quali è fieno e certe frasche di alberi molto grandi. Le vettovaglie vengono da' vicini monti, percioché in questo niuna cosa nasce; abbondano nella primavera e nella state di latte, di cacio fresco e di butiro. Sono uomini di assai lunga vita, percioché sogliono viver ottanta, novanta e cento anni, e la loro vecchiezza è forte e vota naturalmente degli incommodi che apportano seco quegli anni, e vanno dietro le bestie per insino alla morte. Non veggono mai forestiero. Non portano scarpe, eccetto certo riparo sotto il piè per li sassi e certi stracci rivolti e aggroppati intorno la gamba con alcune cordicelle, per difendernele dalla neve.


Tenmelle monte e città.

Tenmelle è un monte altissimo e molto freddo, e molto abitato in ogni sua parte. Ha egli sopra la cima una città, appellata dal nome del monte, la quale è eziandio molto abitata ed è addorna d'un bellissimo tempio. Per lei passa un fiume. E sonvi sepelliti dentro Elmahdi predicatore e il suo discepolo Habdul Mumen. Gli abitatori sono gente maligna e pessima, e reputonsi d'esser dottissimi percioché tutti hanno studiato nella teologia e dottrina del detto predicatore, il quale fu tenuto eretico; e tantosto che essi veggono alcun forestiero, vogliono disputar con esso lui. Vanno mal vestiti, perché in detto monte non vi pratica alcuno forestiero, e vivono bestialmente circa al governo. Tengono pure un sacerdote, il quale è capo del consiglio. Si nudriscono communemente d'orgio e d'olio d'oliva, e hanno grandissima copia di noci e di pigne.


Gedmeua monte.

Gedmeua è un monte che incomincia dal monte Semmeda, dalla parte di ponente, e si estende verso levante circa a venticinque miglia, in tanto che giunge a Imizmizi. I suoi abitatori sono uomini di villa, poveri e soggetti agli Arabi, percioché le loro abitazioni sono vicine al piano che risponde verso mezzodí, dove è il monte di Tenmelle. Nelle coste del monte sono molte olive e campi per seminare orgio; sonvi eziandio di grandissimi boschi, e molti fonti nella sommità del monte.


Hanteta monte.

Questo è un altissimo monte, di maniera che io mai con gli occhi miei non viddi il piú alto. Incomincia dal lato di ponente da' confini di Gedmeua e si estende verso levante circa a 45 miglia, per insino al monte Adimmei. Gli abitatori di esso sono uomini valenti e ricchi, e possessori di molti cavalli. Quivi è una rocca, la quale è tenuta da certo signore parente del signor di Marocco; ma egli fa sempre guerra al detto signore per cagione di certo casale e terreno che è fra' loro confini. Sono nel monte molti giudei artigiani, i quai pagano tributo a questo signore; tutti tengono nella fede la oppenion delli carain e sono, come s'è detto, valenti con l'armi in mano. La cima del detto monte è sempre coperta di neve, e io, la prima volta che 'l viddi, istimai che quella fosse una nebbia per la terribile altezza del detto monte. Le sue coste sono sempre ignude d'alberi e di erbe. Sonvi eziandio molti luoghi di donde si possono cavar marmi bianchissimi e netti: ma da queste genti vengono sprezzati, né esse gli sanno cavare né polire. Trovansi in piú parti molte colonne e capitelli forniti e vasi grandissimi e bellissimi per far fontane, i quai furono fatti fare ne' tempi di quei potentissimi signori che di sopra dicemmo: ma le guerre interroppero i loro disegni. Veddivi io similmente molte cose maravigliose, ma la memoria non me le può rappresentar tutte, massimamente essendo ella occupata in cose piú necessarie e di maggiore utilità.


Adimmei monte.

Adimmei è un monte grande e alto: ha principio dal confino del monte Anteta dalla parte di ponente, e va verso levante per insino al fiume di Teseut. Quivi è quella città di cui abbiamo di sopra detto esser stato il signore, che fu morto nella guerra del re di Fez. Il monte è abitato da molti popoli, e si truovano in lui molti boschi di noci, di olive e di poma cotogne. Sonvi uomini assai valenti, i quali hanno gran quantità d'animali d'ogni sorte, percioché quivi è l'aere temperato e il terreno è buono. Nascono da questo molti fonti e duo fiumi, de' quali diremo nel libro in cui particolarmente avemo serbato a parlarne.
Dapoi che abbiamo fornito del regno di Marocco, ch'è da Atlante terminato di verso mezzogiorno, diremo al presente della region di Guzzula, ch'è traverso il monte e scontro lo regno di Marocco, ma Atlante separa infra dette due regioni.


Regione di Guzzula.

La regione di Guzzula è paese molto abitato, e confina con Ilala, monte di Sus, dalla parte di ponente, e da quella di tramontana col monte Atlante, quasi ne' piedi del monte, e dal lato di levante confina con la regione di Hea. Gli abitatori sono uomini bestiali e poveri di danari, ma hanno molti bestiami e molta copia di orgio. In questa sono molte vene di rame e di ferro, e vi si fanno molti vasi del detto rame, e li portano in diversi paesi faccendone contracambio con panni, specie e cavalli, e con tutte le cose che sono loro necessarie. E non c'è in tutta lei né città né castello, ma vi sono buoni villaggi e grandi, i quali communemente fanno mille fuochi, e quai piú e quai meno. Non hanno signore, ma si reggono fra loro stessi, talmente che spesse volte sono in divisione e in guerra; e le lor triegue non durano piú che tre giorni nella settimana, e può praticare lo inimico con l'altro, e vanno da una terra all'altra: ma fuora di detti giorni si ammazzano come bestie. Fu ordinatore di questa triegua, nel tempo ch'io passai per questa regione, un certo romito il quale è tra loro riputato santo. Il poverino non aveva altro ch'un occhio solo col quale vedesse lume. Io veramente lo trovai tutto puro, tutto benigno e tutto pieno di carità.
Vestono queste genti di certi camicioni fatti di lana, corti e senza maniche, i quali tengono di sopra assai strettamente. Usano di portar certi pugnali torti e larghi, ma sottilissimi verso la punta, e tagliano d'amendue le parti, e le spade portano come quelli di Hea. Fanno ne' loro paesi una fiera che dura due mesi, ne' quali danno mangiare a tutti i forestieri che vi si truovano, quando ben fossero diecimila. Come s'avicina il giorno della detta fiera, fanno tra loro tregua, e ciascuna parte si elegge un capitano con cento fanti, per guardia e securtà della fiera. Questi vanno discorrendo, e puniscono chi fa male secondo la grandezza del peccato; ma i ladri subito gli ammazzano, passandogli da un canto all'altro con certe loro partigiane, e lasciano il corpo ai cani. Fassi questa fiera in una pianura fra certi monti, e i mercatanti tengono le robbe loro ne' padiglioni e in certe capannette fatte di frasche. E dividono l'una sorte di mercatanti dall'altra, di maniera che altrove stanno i venditori de panni e altrove quegli che vendono le mercerie, e cosí gli altri di mano in mano; e li mercatanti di bestie stanno fuori de' padiglioni. Ogni padiglione ha dapresso una casetta pure di frasche, dove alloggiano i gentiluomini e dove si dà mangiare a' forestieri. E hanno certi soprastanti i quali hanno cura di proveder d'intorno alle spese che si fanno a' forestieri; ma ancora che spendono assai, nondimeno nella vendita di dette robbe guadagnano due tanti, percioché vengono a cotal fiera uomini di tutta quella regione ed eziandio del paese dei negri, che fanno gran faccende. In fine questi di Guzzula sono uomini di grosso ingegno, ma mirabili in vero in governar con quiete e pace la detta fiera, la qual si comincia nel giorno della natività di Macometto, ch'è alli 12 di rabih, mese 3 dell'anno haraba secondo il lor conto. Io fui in questa fiera con il serif principe 15 giorni per piacere, l'anno 920


Regione di Duccala.

Duccala provincia dalla parte di ponente incomincia da Tensift, e verso tramontana termina nel mare Oceano, e dal lato di mezzogiorno nel fiume di Habid, e nel fiume di Ummirabih da quello di ponente. Questa regione è lunga quasi tre giornate e larga circa a due, ed è molto popolosa: ma il popolo è maligno e ignorante, e poche città murate vi si truovano. Noi diremo ciò che v'è degno di notizia di luoco in luoco.


Azafi città.

Azafi è una città su la riva del mare Oceano, edificata dagli antichi Africani. Fa circa a quattromila fuochi ed è molto abitata, ma ha poca civiltà. Vi fu già gran copia di artigiani, e furonvi da cento case di giudei. Il terreno è ottimo e fruttifero, ma gli abitatori sono di poco ingegno, percioché nol sanno coltivare né porvi vigne; usano bene di far qualche picciolo orticello.
E allora che le forze dei re di Marocco cominciarono a indebolirsi, resse la detta città certa famiglia detta la famiglia di Farhon, e nel tempo mio vi reggeva un valente signore il quale era detto per nome Hebdurrahman, e aveva per regnare ammazzato un suo zio: dipoi pacificò la città e rimase lungo tempo nella signoria. Aveva costui una bellissima figliuola, la quale, innamoratasi d'un certo uomo popolare, ma capo di molte genti, detto Hali figliuol de Goesimen, per opera d'una schiava e della madre di lei giacque piú volte seco. Del che egli, avutone aviso dalla schiava, riprese la moglie e minacciolla di morte, ma dipoi dimostrò di non farne conto. Ella nondimeno, conoscendo la malvagità del signore, fece intendere a colui che se ne guardasse. Hali adunque (che cosí era il suo nome), dubitando da vero della sua vita, si risolse di ammazzar lui e, scoverto questo suo segreto ad uno giovane animoso e capo ancora egli di molta fanteria, di cui molto fidar si poteva, ambi d'un medesimo animo niente altro che tempo a ciò atto aspettavano. Il re da l'altra parte, il giorno d'una festa solenne, avendo fatto dire ad Hali ch'ei voleva, doppo il compimento dell'orazione, cavalcare alquanto con esso lui per cagione di sollazzo, e perciò l'attendesse a certo luogo, dove egli aveva fatto pensiero di ucciderlo, se n'andò al tempio. Hali, che del tutto s'accorgeva, chiamò il compagno e disse che era venuto il tempo che la congiura avesse effetto. Il perché, con dieci altri lor famigliari, essendo armati molto bene, e prima fatto apprestare un bregantino mostrando di volerlo mandar in Azamur per poter, quando bisogno fosse, fuggire, andorono al detto tempio a punto a ora che di poco il signor v'era entrato e tuttavia orava, essendo il tempio ripieno di molto popolo. Gli animosi e ben disposti giovani con la loro compagnia entrarono dentro e, appressatisi al re ch'era vicino al sacerdote, non furono impediti dalla guardia che, sapendo quanto essi fossero grandi appresso lui, di niente sospettava: di maniera che l'uno passò avanti del signore, l'altro, che fu Hali, rimaso dietro col pugnale lo ferí nella schiena, e in un medesimo tempo quel dinanzi gli cacciò la spada nel corpo e finillo. Il rumor fu grande, e la guardia primieramente assaltò i duoi, ma sopravenendo i dieci con le spade ignude, pensando questo esser stato trattato del popolo, si diede a fuggire. Il simile fecer gli altri, per modo che altri non rimasero nel tempio che i congiurati. Eglino, ciò vedendo, uscirono alla piazza e con molta copia di parole persuasero al popolo che essi giustamente avevano amazzato il signore, percioché egli aveva ordinato di amazzar loro. Il popolo leggiermente si acchetò e fu contento che questi duoi avessero la signoria, ma poco tempo d'accordo regnarono, percioché l'uno inchinava l'animo ad uno e l'altro ad un altro lato.
In tanto avenne che certi mercatanti portogallesi, de' quali sempre era nella città gran copia, consigliarono il suo re a fare un'armata, percioché agevolmente potrebbe prendere questa città. Ma egli perciò non si volle muovere alla impresa, insino a tanto che, doppo la morte del signore, i detti mercatanti lo avisarono che nella città erano molte parti, e che essi per forza di doni avevano fatto una stretta domestichezza con uno de' capi delle dette parti e un trattato tale che senza niuna difficultà e con poca spesa verrebbe a impadronirsi della città. Il che fu che questi mercatanti indussero quel capo a consentir ch'ei facessero una casa forte verso il mare, per potervi tener la loro robba sicura: adducevano le ragioni che nella morte del signore furono quasi saccheggiati e privi d'una buona parte. Fecero adunque una casa fortissima, faccendo portar secretamente schioppi e archibugi dentro le botte di oglio e negli involgi delle loro mercanzie, e pur che pagassero la gabella non si cercava altrimenti da quei della città. Come furono a bastanza forti di armi e da nuocere e da difendere, cosí incominciarono a trovar con i Mori diverse cagioni di discordie e di litigi, di maniera che un paggio d'uno de' mercatanti, comperando carne, indusse a tanta colera chi gliela vendeva che egli, impaziente, gli diede una guanciata. Il garzone, preso in mano un suo pugnale, glielo cacciò nel petto, onde il pover'uomo subito cadde morto, ed egli se ne fuggí alla casa dei mercatanti. Per la morte di costui il popolo si levò in arme e corse verso alla detta casa, pensando di saccheggiarla e tagliare a pezzi quanti vi erano; ma avicinandosi a lei, essi, che stavano provisti, scaricarono i loro schioppi, archibugi e balestre. Se i Mori allora si smarrirono non è da dimandare: furono in quello isprovisto assalto di loro morti presso a centocinquanta uomini; ma non perciò restarono per molti dí di combatter la detta casa, quando sopragiunse un'armata di Lisbona che avea fatta preparare il re, con monizion di ogni sorte di arme e di molti pezzi di grossa artigliaria, e con grandissima vettovaglia, e cinquemila fanti e 200 cavalli. Per il che i Mori, sgomentati tutti, abbandonando la città si fuggirono alle montagne di Benimegher, né altro vi rimase che la famiglia e gli aderenti del capo che consentí alla fabbrica della casa. Ebbe adunque il capitano dell'armata la città e, fattosi venire innanzi il detto capo, nominato Iehia, lo mandò al re di Portogallo, qual gli dette buona provisione con venti servitori, dipoi lo rimandò in Africa per governo della campagna della detta città, perché il capitano del re non sapeva l'uso di quell'ignorante popolo e come ei si dovesse maneggiare: la qual città rimase quasi disabitata, e tutto quel paese si rovinò.
Son stato alquanto lungo in questa istoria per dimostrarvi che una femina e le parti furon cagione non solamente della rovina della città, ma di tutto il popolo e di tutta la regione di Hea. E quando fu presa detta città potevo aver anni dodici, ma dapoi circa anni quattordici io fui a parlar con il detto governator della campagna per nome del re di Fessa e del serif principe di Sus e Hea, qual governator venne con il campo di cinquecento cavalli portogallesi e piú di dodicimila cavalli d'Arabi contra il re di Marocco, e riscosse tutta l'intrata di quel paese per il re di Portogallo, l'anno novecentoventi, come abbiam detto nelle abbreviazion delle croniche.


Conte, città di Duccala.

Conte è certa città lungi da Azafi cerca a venti miglia, edificata dai Gotti nel tempo che regnarono quella riviera. Ora è rovinata e i suoi terreni sono sottoposti ad alcuni Arabi di Duccala.


Tit, città di Duccala.

Tit è città antica, lontana da Azemur cerca a ventiquattro miglia, edificata dagli Africani sopra la marina dell'Oceano. Ha d'intorno una gran campagna, nella quale nasce il grano buono e in molta copia. Il popolo è di grosso intelletto, né sa tener giardino né gentilezza alcuna. È vero che veste assai onestamente, per aver continova pratica e intertenimento con Portogallesi. E quando fu preso Azemur, questa città si diè d'accordo al capitano del re e pagava certo tributo. E nel mio tempo il re di Fez andò in persona a dar soccorso al popolo di Duccala; ma non potendo far nulla, fatto che ebbe impiccare un cristiano che era tesoriere e un giudeo commessario, fece passare il popolo in Fez e diedegli ad abitare una picciola terricciuola che per adietro era disabitata, vicina a Fez dodici miglia.


Elmedina, città in Duccala.

Elmedina è una città in Duccala e quasi capo di quella regione, la quale è tutta murata di certe mura che si usano in quel paese, piú tosto vili e triste che altrimenti. Il popolo, che nel vero si può dire ignorante, veste pure di certi panni di lana che si fanno là, e le loro donne portano molti ornamenti d'argento e di corniole. Gli uomini sono valorosi e hanno gran quantità di cavalli. E questi furono trasferiti dal re di Fez, per sospetto dei Portogallesi, nel suo stato, percioché egli si avidde d'un vecchio, capo di parte della terra, qual consigliava il popolo a dar tributo al re di Portogallo. E lo viddi menare in catena, scalzo, e n'ebbi grandissima compassione, perché il povero vecchio fu isforzato per necessità a far quello che fece, considerando ch'era meglio a pagar il tributo che perder la robba e le persone. Per la liberazione del quale se intromesseno molti appresso al detto re di Fez, talché lo feciono liberare per via di pagamento, e dipoi la città rimase disabitata, nell'anno 921.


Centopozzi, città di Duccala.

Questa è certa terricciuola sopra un colle di sasso tevertino, fuori della quale sono molte fosse, dove gli abitanti solevano riponere il grano. E dicono quei del paese che nelle dette fosse è stato serbato detto grano cento anni continovi, senza guastarsi né mutar odore; e per la moltitudine delle sopradette fosse, simili a pozzi, è detta la città dei cento pozzi. Il popolo di questa città è di niun conto, perciò non vi si trova artigiano alcuno, eccetto certi giudei fabbri. E nel tempo che il re di Fez condusse il populo di Elmadina ad abitar nella sua regione, volle similmente condur quest'altro; ma esso, non volendo far tal mutamento, fuggí in Azafi per non voler lassar la patria. Il re, ciò vedendo, saccheggiò la città dei cento pozzi, nella quale altro non trovò che grano, mele e cose gravi e di poco valore.


Subeit, città nella medesima.

Subeit è una picciola città sopra il fiume di Ommirabih verso mezzogiorno, ed è lontana da Elmadina circa a quaranta miglia. È questa città soggetta agli Arabi di Duccala. Di grano è molto fruttifera e di mele, ma per ignoranzia del popolo non si truova orto né vigna alcuna. E poscia che Bulahuan fu rovinato, il detto popolo fu ridotto dal re di Fez nel suo regno, e diegli una picciola città di Fez ch'era disabitata, e Subeit rimase diserta.


Temeracost.

Temeracost è certa picciola città in Duccala posta pure sopra il fiume di Ommirabih, e fu edificata dal signore ch'edificò Marocco. Perciò è detta da quel nome, ed è molto abitata: fa circa a quattrocento fuochi. E fu soggetta al popol di Azemur, ma nell'anno che Azemur fu preso da' Portogallesi la detta città andò in rovina. Il popolo si transferí a Elmadina.


Terga.

Terga è picciola città sopra il fiume di Ommirabih, lontana da Azemur circa a trenta miglia. È molto abitata e fa quasi trecento fuochi. Questa fu sottoposta agli Arabi di Duccala, ma dapoi che fu preso Azafi, Hali, capo di parte che fu contra a' Portogallesi, andò in detta città e abitovvi alcun tempo insieme con molti valenti uomini. Ma poscia il re di Fez lo fece andar nel suo regno con la sua famiglia, di maniera che la città rimase albergo delle civette.


Bulahuan.

Bulahuan è una città picciola, edificata sul fiume di Ommirabih. Fa cerca a cinquecento fuochi, e fu abitata da molti nobili e liberali uomini, lungo il fiume e nel mezzo della strada per cui si va da Fez a Marocco. Fece il popolo di questa una casa di molte stanze, con una grandissima stalla, e quanti passano per quel paese sono amorevolmente invitati a detta stanza a spese del popolo, percioché esso popolo è molto ricco di grano e di bestie. E ogni cittadino ha cento paia di buoi, o poco piú o poco meno, e sonvi di quegli che raccolgono intorno a mille some di grano, e alcuno tremila: gli Arabi ne sono compratori e si forniscono per tutto l'anno.
Nel novecentodicennove il re di Fez mandò un suo fratello a difesa e governo della region di Duccala, il quale, giunto che vi fu appresso, ebbe nuova come il capitan di Azemur dovea venir per saccheggiar la detta città e far prigioni gli abitatori. Laonde egli subito fece ispedire due capitani con duomila cavalli, e un altro con ottocento balestrieri, in favore della città. In quel punto che queste genti arrivarono, arrivò ancora la gente portogallese, la quale, avendo aiuto da duomila Arabi, di facile la superò. I balestrieri del re di Fez, ch'erano ristretti nel mezzo del piano, furono tutti menati per fil di spada, eccetto dieci o dodici che insieme col rimanente dello esercito fuggirono ai monti. È vero che i Mori si rifecero, e tornando adietro dieron la caccia a' Portogallesi e vi amazzorono centocinquanta cavalli. Il fratello del re venne in Duccala e riscosse il tributo, e promettendo di favorirnela sempre, fu tradito dagli Arabi e costretto a tornarsi in Fez. Per il che, vedendo il popolo che la venuta del detto fratello del re aveva riscosso il tributo, e di niuno aiuto gli era stata la sua venuta, tutto impaurito lasciò la città e si ridusse ai monti di Tedle, temendo che li Portogallesi non venissino e mettessino piú grossa taglia e, non la pagando, fussino menati prigioni. Io fui in questa rotta e viddi quando furono amazzati li balestrieri, ma discosto circa un miglio, sopra una cavalla velocissima, perché allora io andava a Marocco partendomi dal campo del re di Fez, per far intender al signor di Marocco e al serif principe, per nome del re di Fessa, come il fratello del re era per giunger in Duccala e che faria provisione contra i Portogallesi.


Azaamur città.

Azaamur è una città in Duccala, edificata dagli Africani sul mare Oceano e su l'entrata del fiume Ommirabih nel detto mare, lontana da Elmadina 30 miglia verso mezzogiorno, molto grande e abitata, e fa cerca a cinquemila fuochi. È frequentata di continovo da mercatanti portogallesi, di maniera che gli abitatori sono persone molto civili e vanno in belli abiti. Il popolo è diviso in due parti, nondimeno è stato sempre in pace. Questa città è molto fertile di grano, cioè la campagna; egli è vero che non vi sono giardini né orti, eccetto alcuni alberi di fichi.
Il fiume gli rende l'anno, di gabella di pesce lasca, quando seimila e quando settemila ducati, nel quale s'incomincia a pescar il mese di ottobre e dura per tutto aprile, il quale è in molta copia, ed è piú il suo grasso che la carne. Onde, quando lo vogliono friggere, vi mettono un poco d'olio, percioché, tosto che il pesce sente il calor del fuoco, manda fuori cotanto grasso che pesa piú d'una libbra e mezza; e questo è come olio, e lo abbrucciano nelle lucerne, perché in quel paese non nasce olio. I mercatanti portogallesi vengono una volta l'anno a comperar gran quantità di detto pesce, e questi sono quelli che pagano la gabella, in tanto che essi dipoi consigliarono il re di Portogallo a prender la detta città. Onde egli vi mandò una armata di molti navili, ma, per essere il capitano poco pratico, fu nello imbroccar del fiume l'armata rotta e la piú parte s'affogò. Ma il re doppo anni due vi mandò un'altra armata di dugento legni, la quale come il popolo vidde, cosí perdé ogni suo ardimento, di modo che, ponendosi in fuga nell'entrar delle porte, per la moltitudine furon morti ottanta e piú uomini. Un povero principe ch'era venuto a soccorso della detta città, non sapendo come altrimenti fuggirsi, il meglio che poté si calò per una fune giú da una parte delle mura. Il popolo fuggiva chi di qua chi di là per la città, altri iscalzi a piede e altri a cavallo, ed era una compassione a veder fanciulli, vecchi, donne e donzelle scalze e iscapigliate correr per tutto e non saper dove ripararsi. Ma prima che si desse la battaglia da' cristiani, i giudei, che avevano pochi dí adietro patteggiato col re di Portogallo di dargli la città, con patto che a loro non fosse fatto ingiuria, col consentimento di ciascuno apersero loro le porte. Cosí i cristiani ebbero la città, e il popolo andò ad abitar parte a Sala e parte a Fez. Ma prima fu molto ben castigato del suo orrendo vizio, percioché quasi tutti erano immersi nel peccato della sodomia, in tanto che raro era quel fanciullo che scappasse dalle loro mani.


Meramer.

Meramer è una città edificata dalli Gotti fra terra, lontana da Azafi circa quattordici miglia, e fa presso a quattrocento fuochi. Il paese è molto fertile di grano e di olio. Fu soggetta questa città al signor di Azafi, ma doppo che Azafi fu preso da' Portogallesi, gli abitatori di lei fuggirono e la città rimase quasi uno anno disabitata. Ma fecero dipoi con detti Portogallesi certo patto e tornarono ad abitarla, e fin ora pagano tributo al re.
Ora si dirà di alcuni monti.


Benimegher monte.

Questo è un monte discosto da Azafi circa a dodici miglia, abitato da molta copia d'artigiani, e tutti costoro avevano case in Azafi. È fertilissimo, massimamente di grano e di olio. Ne' tempi adietro fu questo monte sottoposto al signore di Azafi, e quando Azafi fu preso, il popolo non ebbe altro rifugio ch'esso monte. Dipoi fu tributario al re di Portogallo, ma nella venuta del re di Fez in quel paese, alcun del detto popolo entrò in Azafi e alcuni altri furon menati dal re di Fez a Fez, percioché essi non volevano viver sotto a cristiani.


Monte Verde.

Verde è un alto monte: incomincia dal fiume di Ommirabih dalla parte di levante e si estende verso ponente per insino a' colli di Hasara, e separa Duccala e una parte della region di Tedle, ed è molto boscoso e aspro. Evvi molta copia di ghiande, e nasconvi quegli alberi i quali fanno quel frutto rosso ch'è detto africano, e anche delle pigne. Quivi abitano molti romiti, i quali d'altro non si pascono che de' frutti del monte, percioché sono lontani da ogni abitazione circa a vinticinque miglia. Trovansi eziandio nel detto monte molti fonti, e molti altari fatti al modo di maumettani; truovansi similmente alcuni edificii degli antichi Africani. Sotto il monte è un bellissimo lago, grande come è quello di Bolsena in terra di Roma. Havvi grandissima quantità di pesce, sí come sono anguille, lasche, lucci e altri pesci ch'io non ho veduto in Italia, tutti in somma perfezione di bontà; ma non è alcuno che peschi in questo lago.
Quando Maumetto re di Fez andò a Duccala, fermossi con l'esercito otto giorni appresso il detto lago, e fece pescar ad alcuni i quali, sí come io viddi, cucirono il collo e le maniche a certe camicie e, legando certe bacchette dalla parte di sopra, giú le calarono nel lago, e in questa guisa pigliarono gran quantità di pesce. Pensate quel che fecero quelli che avevano le reti, e quanta quantità ne presero: perché il pesce era come stordito e imbriaco per la cagione ch'io dirò. Fece il detto re entrar nel lago forse un buon miglio dentro li cavalli dell'esercito, che furon da 14 mila degli Arabi venuti in suo favore d'alcuni suoi vasalli, e gli Arabi menorono seco molti camelli, quali furono tre volte tanti come li cavalli, e li camelli delli carriaggi della corte del re e di suo fratello, che furon 5000, e infiniti altri ch'eran su detto esercito, e per causa di tanti animali ch'introrono in detto lago, lo turborono di sorte che non si poteva aver acqua per bere, e il pesce era come stordito e si lassava pigliare.
Tornando al lago, dico che nelle sue sponde sono moltissimi alberi, i quali hanno le foglie che somigliano a quelle dei pignari, e tra i rami sempre è grandissima quantità di nidi di tortore, sí come a que' dí, ch'era il mese di maggio, di maniera che si davano sei tortorini per un vilissimo prezzo.
Il re, poi che riposò quivi otto giorni, volle andare al monte Verde e cosí v'andammo molti con esso lui, cioè sacerdoti e cortigiani del detto. Egli ad ogni altare che trovava faceva fermar tutti e, postosi con li ginocchi a terra, piangendo umilmente diceva: "Iddio mio, tu sai che la mia intenzione d'esser venuto a questo salvatico paese altra non è che d'aiutare e liberare il popolo di Duccala dalle mani degli empi e ribelli Arabi, e insieme dai nostri fieri nimici cristiani. Ma se tu vedi il contrario, rivolgi il flagello nella mia persona, perché queste genti che mi seguono non meritano esser puniti". Ora noi rimanemmo tutto quel dí nel monte, e la sera tornammo ai nostri alloggiamenti. La mattina seguente il re volle che si facesse una caccia nel bosco, nel circuito del detto lago, la qual fu fatta con cani e con falconi, de' quali il re sempre teneva molta copia: la preda fu certe oche salvatiche, anitre e altra sorte d'uccelli d'acqua e tortorelle. Il dí appresso fecesi un'altra caccia, con cani levrieri, falconi e aquile, e furon presi lepri, cervi, porchi spini, caprioli, lupi, coturnici e di starne una infinita quantità, percioché in questo monte non era stata fatta caccia alcuna per lo spazio di cento anni. Doppo queste caccie preso il re alquanto di riposo, si partí e andò con l'esercito verso Elmadina di Duccala, dando licenzia ai sacerdoti e dottori che seco erano di tornare a Fez; una brigata di alquanti mandò a Marocco per oratori, tra' quai vi fu' ancor io, l'anno 921 di legira.


Hascora regione.

Hascora è certa regione la quale incomincia dai colli che sono ne confini di Duccala di verso tramontana, e termina dal lato di ponente nel fiume di Tensifit sotto il monte di Adimmei. Confina dalla parte di ponente in Quadelhabid, fiume dei Servi, che divide tra loro Hascora e Tedela, e Duccala con i suoi colli parte Hascora dall'Oceano. Questa gente è molto piú civile che quella di Duccala, percioché in quel paese è grande abbondanza d'olio e di cuoi marocchini, de' quali gli abitatori sono quasi tutti conciatori, e hanno grandissima copia di capre; e tutte le pelli dei convicini monti quivi si conciano, percioché v'è grandissima quantità di capre, onde si fanno bellissimi panni di lana all'usanza loro e bellissime selle da cavalli. E i mercatanti di Fez fanno gran faccende in quel paese, dando a baratto tele per detti cuoi e selle. La moneta loro è quella che si spende in Duccala. Gli Arabi sogliono comperare in Hascora olio e altre cose.
Ora vi narrerò di città in città.


Elmadina, città di Ascora.

Elmadina è un'altra città nella costa di Atlante edificata dal popolo di Hascora, e fa circa a duemila fuochi. È lontana da Marocco verso levante presso a novanta miglia, e da Elmadina di Duccala circa 60 miglia. Questa città è molto abitata da artigiani conciatori di cuoi e sellai e altri artefici; sonvi molti giudei, parte mercatanti e parte pure artigiani. È la detta città fra un bosco di olive, di vigne e bellissimi pergolati e noci altissime. Sono gli abitatori uomini seguitatori di parte, tengono quasi continove nimicizie tra loro dentro la città e di fuori con una città loro vicina a quattro miglia, e nessuno può sicuramente andare alla campagna per veder le sue possessioni, eccetto gli schiavi e le femine. E se un mercatante forestiere vuole andar d'una città all'altra, gli fa di bisogno d'esser molto bene accompagnato; il perché a questo effetto suol tenere ciascuno un archibugiere o balestriere, con salario al mese di dieci o dodici ducati di lor moneta, che sono sedici italiani. Sono nella città alcuni uomini dotti nella legge, e di questi si creano i giudici e i notai. Le gabelle de' forestieri sono indrizzate a certi capi, i quali le riscuotono e spendono nella commune utilità, pagando agli Arabi per conto delle loro possessioni, che sono nel piano, non so che tributo: ma guadagnano dagli Arabi dieci volte tanto.
Io nella tornata mia da Marocco fui in questa città e alloggiai in casa d'un Granatino molto ricco, ch'era stato quivi per balestrieri circa a diciotto anni, il quale a me e a' miei compagni, che eravamo nove senza i ragazzi, fece molto amorevolmente le spese per insino alla partita, che fu il terzo giorno; e come che il popolo volesse ch'io alloggiassi nel commune albergo de' forestieri, egli nondimeno, per essere della mia patria, non sostenne che si riparassimo in altro albergo che in casa sua. E in quei dí che vi dimorammo il commune ne facea presentar quando vitelli, quando agnelli e quando galline. E io, vedendo gran copia de capretti nella città, dimandai al mio paesano perché essi non mi appresentassero alcuni di questi capretti. Egli mi rispose che quello era tenuto il piú vile animale che fosse in quel paese, e che piú tosto si costumava d'appresentar qualche capra o becco. Le femine di questa città sono bellissime e bianche, e volentieri, quando le possono, usano segretamente con forestieri.


Alemdin, città nella medesima.

Alemdin è una città vicina alla sopradetta quattro miglia verso ponente, edificata fra una valle circuita da quattro alti monti, ed è paese molto freddo. È abitata da artigiani, mercatanti e gentiluomini; fa circa a mille fuochi. Stanno queste genti di continovo in guerra con la città dinanzi detta, e nel tempo mio il re di Fez acquistò le dette due città per mezzo d'un mercatante di Fez. Il che fu in questo modo.
V'era un mercatante (come s'è detto) di Fez, il quale essendo innamorato d'una bella giovanetta, quella gli fu promessa per moglie dal padre: ma venuto il dí delle nozze, la giovene gli venne levata di mano da uno che era capo della città. Il perché egli turbato, ma fingendo altro, tolse licenzia dal detto capo e, partito della città, tornò in Fez e presentò al re alcune rare e belle cose di quel paese; e gli domandò per grazia ch'ei gli concedesse cento balestrieri, trecento cavalli e quattrocento fanti, i quali tutti intendeva di tenere a sue spese, promettendo fra pochi dí di prender la detta città e, tenendola a nome suo, di dargli ogni anno settemila ducati delle rendite di detto paese. Contentossi il re e, mostrando liberalità, non volle che egli avesse spesa d'altra gente che dei balestrieri, e gli dette una lettera nella quale commetteva al governator di Tedlet a far tanti cavalli e tanti fanti con duoi capitani in favore del mercatante. Il quale, essendo assai bene in punto, s'accampò alla città, né vi tenne l'assedio sei giorni ch'il popolo fece intendere al capo che esso non voleva acquistar nimicizia col re di Fez, né meno ricever danno. Onde egli in abito di mendico uscí fuori della città, ma fu conosciuto e condotto innanzi al mercatante, il quale lo fece mettere in catena; in tanto il popolo aperse la città e dettela al mercatante in nome del re. I parenti della fanciulla amata da lui si scusarono con dire ch'il capo avea loro fatto forza, e ch'era veramente sua moglie perché a lui fu data prima. Ell'era gravida, onde attese il mercatante ch'ella partorisse, dipoi la tornò a sposare la seconda volta; e il capo, sí come fornicatore, fu da' giudici condannato alla morte, e quello stesso giorno fu lapidato. Il mercatante rimase al governo di questa città, e fra le dette due città compose la pace, attendendo al re quello che promesso gli aveva. E io fui in detta terra, dove conobbi il mercatante che governava. Allora io era in Fez e in quell'anno medesimo mi parti' da casa per andar verso Costantinopoli.


Tagodast, città in Hascora.

Tagodast è una città edificata su la cima di un alto monte, ed è circondata da quattro alti monti. Fra i detti monti e le rive della città sono bellissimi giardini, piantati di molti alberi di ogni sorte di frutti, e io ho veduto le crisomele grosse come gli aranci. Hanno le lor vigne fatte tutte con bellissimi pergolati, appoggiandole su le piante degli alberi, e le uve sono rosse e chiamansi nella lingua loro "uova di gallina", e nel vero che questo nome si convien loro per la grossezza che tengono. Ivi è grande abbondanza d'olio e di mele perfettissimo e bianco come latte, e altro giallo e chiaro come oro; cosí l'olio è di molta bontà e perfezione. Dentro la città vi sono fontane grandi e molto correnti, con la cui acqua si macina in certe picciole mole fatte nella costa delle rive. Vi sono eziandio molti artigiani, cioè di cose necessarie, e il popolo è quasi civile. Le donne sono bellissime e portano molti belli ornamenti d'argento, percioché gli uomini vendono molto bene il loro olio portandolo alle città vicine al diserto, cioè fra Atlante verso mezzogiorno; i cuoi conducono a Fez e a Mecnasa. Il piano è lungo circa a sei miglia e vi sono bellissimi campi da seminar grano; pagano i paesani un certo censo agli Arabi per li loro poderi. Nella città sono e sacerdoti e giudici, e v'è gran quantità d'uomini nobili.
Nel tempo ch'io vi fui eravi signore un certo gentiluomo, il quale era vecchio e cieco, ed era obbedito molto. Egli (sí come intesi) nella sua giovanezza fu uomo valente e di gran cuore, e tra molti altri aveva ucciso di sua mano quattro capi di parte, i quali offendevano tutto il popolo. Doppo la morte dei quali usò tanta clemenza al popolo e seppe cosí ben fare che, sedate le parti, lo ridusse a unione e summa concordia, faccendo seguir tra l'uno e l'altro non pure amicizie, ma parentadi. E circa al reggere tutto il popolo era in libertà, ma niente poteva determinare senza consiglio e autorità del detto. Io alloggiai nelle case di questo vecchio con ottanta cavalli, il quale usò verso di noi gran magnificenza e liberalità, faccendo di continovo cacciare acciò sempre avessimo nuovi cibi e freschi. Raccontommi i pericoli ch'egli aveva sostenuti in pacificar la città, niun suo segreto ascondendomi, non altrimenti che se io suo fratello fossi stato. Nella partita io voleva rifarlo del danno ch'egli avea ricevuto in onorarci, ma esso nol consentí, dicendo ch'egli era amico e buon servitore del re di Fez, ma che tuttavia non ci aveva onorato per esser noi famigliari del re, ma perché i suoi antichi gli avevano lasciato per eredità e costume d'alloggiare e onorar tutti i suoi conoscenti o forestieri che passassero per quel paese, prima per l'amor di Dio, dipoi per la sua naturale nobiltà; soggiungendo che Iddio, che provede per tutti, gli avea fatto quell'anno raccoglier settemila moggia di formento e d'orzo, talmente ch'era minor copia assai d'uomini che di vettovaglia, e ch'egli avea piú di centomila fra pecore e capre, de quali solo traea utile delle lane, percioché il latte e 'l cacio se lo godevano i pastori, ma che ben essi gli davano certa quantità di butiro. Disse che tai cose non si vendevano in quel paese, perché tutti avevano copia di bestiami, ma che le pelli, le lane e l'olio le facevino vender sette over otto giornate lontano da loro. E s'egli avvenisse che il re nostro, tornando da Duccala, tenesse il cammino vicino a quel monte, esso gli uscirebbe incontra e offerrebbeglisi per amico e servitore. Ora noi infine da lui togliessimo combiato, lodando quel buon vecchio per tutto il nostro viaggio.


Elgiumuha.

Elgiumuha è una città vicina alla detta circa a cinque miglia, edificata a' nostri dí sopra un alto monte posto fra altri monti altissimi. Fa circa a cinquecento fuochi, e altretanti le ville che sono fra i detti monti. Quivi sono molti fonti e molti giardini abbondevoli d'ogni sorte di frutti: specialmente v'è un gran numero di noci grandissime e altissime, e per tutti li colli che ha intorno a' detti monti sono molti campi per orzo, ed evvi gran quantità d'olive. La città è molto abitata da artigiani, massimamente di conciatori di cuoi, sellai e fabbri, percioché v'è una vena assai profonda di ferro; e questi fabbri fanno gran copia di ferri da cavallo. E tutti i loro lavori e merci recano ne' paesi dove non si truovano, dandole a baratto per ischiavi e per guado e per cuoi di certi animali che abitano nel diserto, dei quali ne fanno targhe buone e fortissime. Le quai cose poi essi conducono a Fez e l'abbarattano per panni e tele e per altre cose che sono da loro usate. La detta città è molto discosto dalla via maestra, di maniera che se vi viene un forestiere fino e' fanciulli corrono per vederlo, massimamente se il forestiere avrà indosso alcun abito che in quel paese non si usi. Il popolo si governa pel consiglio della sopradetta città. Fu Elgiumuha fabricata dalla plebe di Tegodast, percioché, essendo fra gentiluomini nata discordia, il popolo, non volendo accostarsi a niuna parte, si partí dalla città ed edificaron Elgiumuha, e lasciarono Tegodast a' gentiluomini. Onde al dí d'oggi l'una è solamente ripiena di gentiluomini e l'altra di persone ignobili.


Bzo, città in Ascora.

Bzo è una certa città antica, edificata sopra un monte altissimo e discosta dalla detta circa a venti miglia verso ponente; sotto questa città passa il fiume dei Servi, il quale va a lungo circa tre miglia. Gli abitatori sono tutti mercatanti e uomini da bene, e vestono molto gentilmente. Fanno portare olio, cuoi e panni ai paesi del diserto. Il monte loro è molto fertile d'olio, di grano e d'ogni sorte di frutti gentili, e sogliono costoro seccare una sorte d'uva ch'è d'un colore e sapor mirabile. Hanno grandissima quantità di fichi, i cui piedi sono alti e grossi; gli alberi delle noci sono d'estrema grandezza, di modo che i nibbi sicuramente vi fanno sopra i loro nidi, percioché non è uomo a cui basti l'animo di salire a quella altezza. La discesa ch'è dal monte verso il fiume è tutta piantata e adornata di bellissimi giardini, i quali si estendono per insino alle rive del detto fiume. Quivi io fui una state a tempo che v'erano molti frutti, cioè crisomeli e fichi, e alloggiai in casa del sacerdote di detta terra, appresso un bel tempio a canto il quale passa un fiumicello, qual esce per la piazza della terra.


Tenueues monte.

Tenueues è un monte dirimpetto alla regione di Hascora, il quale è la faccia di Atlante che riguarda verso mezzogiorno. È molto abitato e popoloso, e gli abitatori sono uomini valentissimi con l'armi in mano, cosí a piè come a cavallo; hanno molti cavalli, i quali sono di piccola statura. Nel detto monte nasce gran quantità di guado e d'orzo, ma di frumento quasi non ve ne nasce grano, di maniera che l'orzo è il loro nutrimento. Vedesi per questo monte la neve in tutte le stagioni dell'anno. Fra il popolo sono molti nobili e cavalieri, e hanno un principe il quale regge come signore. Costui riscuote le rendite del monte, che sono assai buone e larghe, e spendele nelle guerre che sono tra loro e il popolo che abita nel monte di Tenzita. Tiene egli circa a mille cavalli, e i gentiluomini e cavalieri fanno presso altretanti cavalli; tiene eziandio cento persone fra balestrieri e archibugieri.
Nel tempo ch'io vi fui v'era un signore, liberalissimo uomo, il quale oltra modo piaceva esser presentato e lodato, ma in cortesia invero non aveva eguale, percioché donava tutto il suo. Dilettavasi della lingua pura araba e non l'intendeva, ma egli s'allegrava tutto quando gli veniva esposta qualche sentenza che fosse in sua laude. Ma allora che 'l mio zio fu mandato dal re di Fez imbasciatore al re di Tombutto, col quale io era, essendo noi giunti alla regione di Dara, ch'è lontana dal detto signore circa a cento miglia, subito che all'orecchie di costui pervenne la fama del mio zio, il quale fu veramente uno eloquente oratore ed elegante poeta, egli mandò una lettera al signor di Dara pregandolo che glielo mandasse, perché ei desiderava di vederlo e conoscerlo. Iscusossi il mio zio con rispondere che non era lecito a uno oratore del re d'andare a visitar i signori ch'erano fuori di strada e mettere a lungo i servigi del re, ma che nondimeno, per non parer persona altiera, mandarebbe un suo nipote a baciargli la mano. Cosí esso me gli mandò con molti onorevoli presenti, i quali furono un paio di staffe addorne e lavorate alla moresca, di prezzo di venticinque ducati, e un paio di sproni bellissimi e molto ben lavorati, di valore di quindici; un paio di cordoni di seda lavorati d'oro filato, l'un paonazzo e l'altro azurro; e un libro molto bello e legato di nuovo, nel quale si trattava la vita de santi africani, e una canzona fatta in lode del detto signore.
Io mi posi in cammino con due cavalli, e quattro dí spesi nel viaggio, ne' quali una canzona composi pure in lode del detto. Come arrivai alla città, trovai il signore ch'era allora uscito del suo palazzo per andar alla caccia con bellissimo apparechio, il quale, avendo inteso della mia giunta, subito mi fece chiamar a lui. E poi ch'io l'ebbi salutato e baciatogli la mano, mi dimandò come stava il mio zio, e io rispostogli ch'egli stava bene a' servigi di sua eccellenza, mi fece assegnare alloggiamento e disse ch'io mi riposassi fino ch'ei ritornasse dalla caccia. Ritornato dunque a molta pezza di notte, mandò a dirmi ch'io andassi al suo palazzo. Il che fatto gli baciai da capo la mano, e poi ch'io l'ebbi lodato assai, gli appresentai i doni, i quali come egli vidde molto s'allegrò. Infine gli detti la canzona del mio zio: egli la fece leggere a un suo secretario, e mentre colui gli dichiarava di parte in parte le cose in quella contenute, dimostrava nella sua faccia segni di grandissima allegrezza. Fornito che fu di leggere e di espor la canzona, il signor si pose a seder per mangiare, e io non molto discosto da lui. Le vivande furono carni di castrati e d'agnelli arroste e lesse, le quali erano ingroppate in certi invogli di sottilissimo pane fatto a modo di lasagne, ma piú fermo e piú grosso. Fuvvi dipoi recato innanzi il cuscusu e il fetet, con altri cibi di cui ora non mi soviene. Al fin della cena io levai in piedi e dissi: "Signore, il mio zio ha mandato a V. Ecc. un picciolo presente, sí come quello che povero dottore è, affine che per voi si conosca la prontezza del suo animo e perché egli abbia qualche poco di luogo nella vostra memoria. Ma io, suo nipote e discepolo, per non mi trovar altra facultà con che onorarvi, vi fo un presente di parole, percioché, quale io mi sono, desidero ancor io d'esser numerato tra i servitori di vostra altezza". E questo detto incominciai a legger la mia canzona, e nello spazio ch'io la leggeva, il signore parte dimandava le cose che non erano intese da lui e parte riguardava me, che allora era di età di sedici anni. Letta ch'io ebbi la canzona, essendo egli stanco del cacciare ed essendo ora di dormire, mi diè licenzia. La mattina m'invitò per tempo a desinar seco e, fornito il mangiare, mi diè cento ducati ch'io portassi al mio zio, e tre schiavi che lo servissero nel viaggio; a me fece presente di cinquanta ducati e un cavallo, e per ciascuno di quei ch'erano in mia compagnia dieci ducati, e m'impose ch'io dovessi dire a esso mio zio che quei pochi doni erano per premio della canzona, non in contracambio dei presenti fattigli da lui, percioché egli si serbava al ritorno suo di Tombutto di mostrargliene buona gratitudine. Cosí comandò a uno dei suoi segretari che m'insegnasse la via e, toccatomi la mano, mi dette licenza di partir la mattina, perch'egli aveva da far una correria contra certi suoi nimici. Io adunque me gli accomandai e tornai al zio.
Questo discorso ho voluto far per dimostrarvi ch'anco nell'Africa vi sono gentiluomini e cortesi signori, sí come il signor di questo monte.


Tensita monte.

Tensita è un monte, cioè una parte di Atlante, che incomincia da' confini del sopradetto monte di verso occidente, e si stende fino al monte di Dedes dal lato di levante, e verso mezzogiorno confina col diserto di Dara. Questo monte è molto popoloso, e vi sono cinquanta castelli, tutti murati di creta e di pietre crude. E per cagione che 'l monte depende verso mezzogiorno, poche volte vi piove. I detti castelli sono tutti fabricati sul fiume di Dara, ma discosti dal fiume chi quattro e chi tre miglia. Quivi signoreggia un gran signore, il quale fa circa a mille e cinquecento cavalli, e pedoni quasi quanti il signor di sopra detto; e hanno insieme stretto parentado, ma sono mortalissimi nimici e di continovo l'uno fa guerra all'altro. Nella maggior parte di questo monte nascono molti datteri, e gli abitatori sono lavoratori de' campi e mercatanti. Nascevi ancora in molta abbondanza orzo, ma v'è gran carestia di formento e di carne, percioché ci son pochi bestiami. Vero è che 'l detto signore cava d'utilità dal detto monte ventimila ducati d'oro, ma i ducati di quel paese pesano due terzi di piú dei ducati italiani, che sono dodici caratti. Ancora il detto signore è molto amico del re di Fez, e sempre gli manda di gran presenti; il re dall'altra parte di continovo lo ricambia con molte gentilezze, come sono cavalli con bellissimi fornimenti, panni di scarlatto, drappi di seta e qualche bel padiglione.
Di mio ricordo questo signore mandò al re un superbo presente, che fu cinquanta schiavi negri e altretante schiave femine, dieci eunuchi e dodici camelli da cavalcare, una giraffa, dieci struzzi, sedici gatti di quelli che fanno il giubetto, una libbra di muschio fino, una di giubetto e un'altra di ambracane, e appresso seicento cuoi d'un animale ch'è detto elamt, con li quali si fa di finissime targhe, e ogni pezzo di detto cuoio vale in Fez otto ducati. Gli schiavi s'apprezzano venti scudi l'uno e le femine quindici; ciascuno eunuco è di valor di ducati quaranta; i camelli nel paese del detto signore vagliono cinquanta ducati per ciascuno, i gatti dugento, il muschio, il giubetto e l'ambracane vagliono l'un sopra l'altro sessanta ducati la libbra. Si contenevano in questo presente altre cose, le quali io non pongo nel numero, come dattoli zuccarini e certo pepe di Etiopia. Io mi trovai presente quando fu portato questo notabil dono al re di Fez. L'appresentatore fu un uomo negro, grosso e picciolo e di lingua e costumi veramente barbaro, e portò una lettera al re, la qual fu assai rozzamente scritta; ma peggio fu l'ambasciata ch'egli fece a bocca, in tanto che il re e tutti i circonstanti non poterono tener le risa, ma si coprivano o con mano o col lembo della veste. Tuttavia il re, i giorni che il detto rimase appresso lui, lo fece onorare assai nobilmente, alloggiandolo in casa del predicatore del tempio maggiore e faccendoli le spese con quattordici bocche, tra suoi servitori e compagni, fin che fu espedito.


Gogideme monte.

Gogideme è un monte che confina col sopradetto, ma solamente abitato dalla parte che risponde verso tramontana, percioché quella che riguarda verso mezzogiorno è tutta disabitata. La cagione fu che nel tempo che Abraham re di Marocco ebbe quella memorabil rotta dal discepolo di Elmahdi, e fuggiva verso questo monte, gli abitatori gli ebbero compassione e volevano aiutarlo, ma la fortuna fu contraria. Onde il discepolo di Elmahdi rivolse lo sdegno, contra questo popolo, abbruciando le lor case e villaggi, e parte uccidendo e parte scacciando da detto monte.
Quella parte dunque che è abitata è tenuta da vilissimi uomini, i quali vanno tutti mal vestiti e fanno mercanzia d'olio, della qual vivono. Quivi non nasce altro che olive e orzo; hanno assai capre e muli, i quali sono molto piccioli, percioché i lor cavalli sono di picciolissima statura. La qualità del monte difende loro la libertà.


Teseuon.

Teseuon sono due monti l'uno accanto l'altro, e cominciano da' confini del detto dalla parte di ponente e finiscono nel monte di Togodast. Sono questi monti da un popolo molto povero abitati, percioché altro non vi nasce che orzo e miglio. Ha origine da essi monti un fiume, il quale corre per una bellissima pianura; ma gli abitatori non hanno a fare nel piano, perché esso è posseduto da certi Arabi.
Ora è tempo di dire della regione di Tedle.


Tedle regione.

Tedle è una regione non molto grande, la quale incomincia dal fiume dei Servi dalla parte di ponente e finisce nel fiume di Ommirabih, cioè dal capo del detto fiume. Dal lato di mezzogiorno termina ne' monti di Atlante, e di verso tramontana ha fine dove entra il detto fiume de' Servi nel fiume di Ommirabih. Questa regione ha quasi forma di triangolo, percioché i detti fiumi nascono di Atlante e si estendono verso tramontana, stringendosi l'uno verso l'altro insino che si congiungono insieme.


Tefza, città in Tedle.

Tefza è la principal città di Tedle, edificata dagli Africani nella costa di Atlante, vicina al piano circa a cinque miglia, ed è murata di certe pietre tevertine che nella lingua loro sono dette tefza, e da quelle è derivato il nome della città. Ella è molto popolosa e abitata da genti ricche; sonovi circa a dugento case di giudei, tutti mercatanti e ricchi artigiani. Vengonvi eziandio molti mercatanti forestieri, per comperar certi mantelli negri che si tessono interi con li lor cappuzzi, e questi si appellano ilbernus. Di questi se ne vende qualcuno in Italia, ma in Ispagna se ne truovano assai; e in questa città si vende la maggior parte delle mercanzie che si fanno in Fez, sí come sono tele, coltelli, spade, selle, morsi, berrette, aghi e tutte le mercerie. E se i mercatanti le vogliono dare a baratto, truovano piú facilmente ricapito, percioché i paesani hanno molte robbe del paese, come sono schiavi, cavalli, barnussi, guado, cuoi, cordovani e tai cose. Onde, se essi le vogliono dare a contanti, ciò convengono fare per assai minor prezzo, e il pagamento è oro non battuto in forma di ducati, né quivi corre moneta d'argento. Costoro vanno molto ven vestiti e cosí le lor donne, le quali sono tutte piacevoli. Nella detta città sono molti tempii e sacerdoti e giudici.
E nel tempo passato questa città si governava a modo di republica; dipoi, per discordie e divisioni, incominciarono amazzar l'un l'altro, in tanto che nel mio tempo vennero i capi d'una parte a Fez, e dimandarono dal re in grazia che gli volesse aiutar a rimetter nella lor terra, ch'essi gli dariano la signoria della città. Cosí il re fu contento, e mandò con essi mille cavalli leggieri, cinquecento balestrieri e dugento schioppettieri tutti a cavallo. Oltre di ciò il re scrisse a certi Arabi suoi vasalli, che si chiamano Zuair, i quali fanno circa quattromila cavalli, che dovessero andar in favor dei capi della detta parte, occorrendo ch'essi n'avessero bisogno. Il re fece capitano un valentissimo cavaliero che si chiamava Ezzeranghi, il quale, subito come fu ragunato il campo, incominciò dar la battaglia alla città, perché ritrovò l'altra parte che s'era fortificata di dentro, e avevano fatto venir li suoi vicini arabi, che si chiamano Benigebir, i quali fanno circa cinquemila cavalli. Il detto capitano, come vidde questa cosa, subito lasciò l'assedio della città e sollecitò la battaglia con detti Arabi, e in capo di tre giorni tutti gli mise in rotta ed egli rimase signor della campagna. Poi che quelli della città viddero ch'essi non avevano piú speranza di fuora, subito mandarono ambasciadori per far la pace, obligandosi di pagar le spese che 'l re avea fatto e di piú diecimila ducati ogni anno, con patto che la parte de' fuorusciti potesse entrar nella città, ma non impacciarsi di reggimento o governo alcuno. Il capitano fece intender questo alla parte ch'era con esso di fuora, ed essi gli risposero: "Signore, noi conoscemo la nostra occasione; metteteci pur entro, che noi ci oblighiamo di darvi in mano centomila ducati, talora e di piú, senza usare ingiustizia alcuna e meno saccheggiar casa veruna, ma solamente faremo pagare alla parte contraria i frutti delle nostre possessioni, che s'hanno goduti per tre anni continui. Quelli noi te gli vogliamo dar di buona voglia, per tutte le spese fatte in nostro favore, i quali frutti saranno almeno trentamila ducati; dapoi ti faremo aver l'entrata della terra, ch'è circa ventimila ducati. Oltre di ciò trarremo da' giudei, per tributo d'un anno o due, fino alla somma di diecimila ducati".
Come il capitano intese questo, subito mandò a dire a quei della città "che 'l re avea promesso la sua fede a questi gentiluomini di fuora d'aiutargli in tutto quello ch'arebbe potuto, e per questo volle che 'l reggimento fusse piú tosto in mano loro che nelle vostre, per molti rispetti, e però io vi faccio intendere che, se volete rendere la città al re, non vi sarà fatto torto alcuno, ma se volete mantenere la vostra perfidia io sono sofficiente, con l'aiuto d'Iddio e la felicità del re, di farvi pagar il tutto". Il popolo, come intese questa nuova, subito venne in discordia, percioché alcuni volevano il re e alcuni volevano la guerra: in tanto la terra si levò all'arme fra loro medesimi. Le spie vennero di questo al capitano, il quale subito fece scavalcare la metà della sua gente e accostarsi alla terra con i suoi balestrieri e archibugieri, e in termine di tre ore entrò dentro, senza spandere una gocciola di sangue degli uomini suoi. Perché la parte che voleva il re, ragunatasi insieme, s'accostarono ad una porta della terra ch'era murata e incominciarono a dismurarla di dentro; il capitano ancora faceva il medesimo di fuori, perché non era alcuno sulle mura che gli desse impaccio, e quei di dentro mantennero la battaglia fin che la porta fu dismurata. Il capitano, entrato dentro, alzò le bandiere del re su le mura e in mezzo della piazza, e mandò i cavalli a scorrer intorno la città, per non lasciar scampar coloro che volevano fuggire; e subito mandò un bando da parte del re di Fez, sotto pena della vita, a ciascuna persona o soldato o terrazzano che non s'impacciasse di saccheggiare o di far omicidio, e incontinente la terra s'acquetò e tutti i capi della parte contraria furono menati prigioni. Il capitano fece intender loro ch'essi sariano prigioni infin che 'l re fusse pagato interamente d'ogni spesa ch'egli avea fatto per un mese ai detti cavalli, la quale ascendea alla somma di dodicimila ducati. Cosí le mogli e i parenti dei detti prigioni pagarono la detta somma e gli liberarono.
Allora venne la parte del re, e disse ch'essi volevano esser pagati dei frutti delle loro possessioni di tre anni. Il capitano rispose ch'egli non avea a far di questa cosa niente, dicendogli che dovessero metter le loro differenze in giudicio di dottori e che gli sarebbe fatta ragione, e che costoro potevano star prigioni per quella notte. I detti prigioni incominciarono a dir al capitano: "Signori, ne volete voi mancare della fede vostra? Voi ne prometteste che saressimo liberati dapoi che 'l re fosse sodisfatto. Rispose il capitano: "Io non vi manco della fede mia, perché ora io non vi tengo prigioni per conto del re, ma per conto di costoro che vi dimandano la robba loro: secondo che sentenzieranno i giudici e i dottori, cosí faremo; forse che sarà meglio per voi".
L'altra mattina, fatta congregazione dei dottori e dei giudici dinanzi al capitano, parlarono prima i procuratori dei prigioni in questo modo: "Signori, egli è vero che questi nostri hanno tenuto le possessioni dei loro avversari per conto dei loro antecessori, i quali tennero per piú di venti anni le possessioni degli antecessori dei presenti prigioni". Il procuratore degli avversari rispose: "Signori, questa cosa che costoro dicono è stata già centocinquant'anni passati, né si truova testimonio né instrumento per provarla". Disse il procuratore dei prigioni: "Ella si può ben provar, perché v'è la fama publica". Rispose l'altro: "Questo non si può provar per fama publica, perché chi sa quanto tempo le hanno tenuto i detti antecessori? Forse che le possederono per ragione, perché ancora si dice publicamente che gli antecessori dei prigioni anticamente furono ribelli contra la corona del re di Fez, e quelle possessioni furono della camera reale". Allora il capitano, per malizia mostrando compassione sopra i detti prigioni, disse al procuratore: "Non incolpate cosí tanto questi poveretti prigioni". Il procurator rispose: "Paionvi forse costoro poveretti? Signor capitano, non c'è fra questi poveretti persona a cui non bastasse l'animo di trovar cinquantamila ducati. Quando saranno usciti da queste catene, voi vedrete bene se vi scaccieranno. Ma voi veniste in tempo che loro non erano provisti, e cosí gli ritrovaste". Come il capitano intese il dire del procuratore subito si spaventò e, licenziata la congregazione, mostrò di voler andar a desinare, e fattosi venir innanzi a lui i detti prigioni, gli disse: "Io voglio che voi sodisfacciate i vostri avversari, overo ch'io vi menerò a Fez dove pagherete il doppio". Allora i prigioni mandarono per le loro mogli e madri e le dissero: "Cercate di rimediarvi, perché noi siamo stati infamati di aver molte ricchezze, e non avemo un'ottava parte di quello ch'è stato detto al signor capitano". Cosí in termine d'otto dí furono portati gli avversari, alla presenza del capitano, ventottomila ducati fra anella, armille e altri ornamenti di donne, perché le donne per malizia volevano mostrar di non aver altri danari che quelli. E come furono pagati i detti danari, allora il capitano disse ai prigioni: "Gentiluomini miei, io ho scritto al re di questa cosa, e mi rincresce d'avergli scritto, perché ora io non vi posso lasciar fin ch'io non abbia la risposta sua; ma voi per ogni modo sarete liberati, perché avete satisfatto ognuno: però siate di buona voglia".
Il capitano in quella notte, chiamato un suo consigliere, gli dimandò: "Come potremo noi cavar degli altri danari dalle mani di questi traditori, senza aver colpa né infamia di mancator di fede fra questo popolo?" Qual disse: "Fingete domane d'aver avuto lettere dal re, che vi comandi che dobbiate loro tagliar il capo, ma mostrate dipoi d'aver pietade dei fatti loro, e che voi non vi volete impacciar della lor morte, ma per meglior rispetto dimostrate di volergli mandar a Fez". Cosí finseno una lettera per parte del re. Come venne la mattina il capitano fece venir tutti i prigioni, che furono quarantadue, e gli disse, mostrando aver gran compassione: "Gentiluomini miei, io ho avuto lettere dal re con male nuove, nelle quali dice che sua altezza è molto male informata dei fatti vostri, e che voi sete ribelli contra la sua corona; per tal cagione m'ha comandato ch'io vi faccia tagliar il capo. Mi rincresce molto di questa cosa, perché parrà a ognuno ch'io v'abbia mancato della mia fede: ma io son servitore, e non posso far di meno ch'io non ubbidisca a quello che mi è comandato". I poveri uomini cominciarono a piangere e raccomandar le loro persone al capitano, ed egli ancora fingeva piangere e diceva verso loro: "Io non vi truovo altro miglior rimedio, per levar ancor me di colpa circa ai fatti vostri, se non mandarvi a Fez. Forse che 'l re vi perdonerà, e farà quello che gli parrà. Or ora io vi spedirò con cento cavalli". Allora essi piú piangevano e si raccomandavano a Dio e al capitano. In questo venne una terza persona e disse al capitano: "Signore, la maestà del re vi mandò qua in cambio della sua presenza, sí che voi potete far quello che vi pare il meglio: intendete un poco la possibilità di questi gentiluomini, se possono pagar alcuna cosa per rimediar alle loro persone, e fate intender al re ch'avevate a loro promesso la vostra fede di non far lor dispiacere, e che per l'amor vostro pregate la sua altezza che gli voglia perdonare. Fate ancora intender la quantità che essi vogliono pagare: forse che 'l s'inchinerà per danari". I poveri prigioni incominciarono a pregar il capitano che volesse farlo, e ch'essi erano contenti di pagar quello che piaceva al re, e a lui farebbono anco gran presenti. Costui fingeva di farlo malvolentieri, e subito dimandò loro: "Che cosa potete voi pagare al re?" Alcuno fu che offerse mille ducati, e chi cinquecento, e chi ottocento. Il capitano rispose per tal quantità non voler scriver al re: "Meglio sarà che voi andiate, e forse ch'egli farà come voi dite". Essi tanto pregarono e si raccomandarono, fin che 'l capitano gli disse: "Voi sete quarantadue gentiluomini che sete ricchissimi; se mi promettete duemila ducati per uno io scriverò al re e ho speranza di salvarvi: altrimenti io vi manderò a Fez". Essi furono contenti di trovar la quantità, ma ch'ognuno paghi secondo la sua possibilità, e il capitano a loro disse: "Fate come vi pare". Essi pigliarono termine quindici giorni, ed egli ancora finse di scriver al re.

Poi che furono passati dodici dí, il capitano finse che 'l re per amor suo era contento di perdonar loro: cosí dimostrò una falsa lettera, e fra tre dí i parenti di prigioni portarono tutta la quantità d'oro in oro, che fu ottantaquattromila ducati. Allora il capitano fece pesar il detto oro, e si maravigliò molto come in sí picciola terra si potesse truovar tanta quantità d'oro da quarantadue uomini, e subito gli liberò e scrisse allora al re da dovero tutto quello che gli era intravenuto, dimandandogli ciò che egli avea a fare. Il re subito mandò due suoi segretari con cento cavalli per ricever i detti danari, i quali, tosto che gli ebbero ricevuti, ritornarono a Fez. I detti gentiluomini fecero un presente poi al detto capitano, che valeva circa duemila ducati fra cavalli, schiavi e muschio, e si scusarono che non gli erano rimasti danari, e lo ringraziarono molto che gli avesse scampata loro la vita. Cosí rimase la detta regione al re di Fez, nel governo di Ezzeranghi capitano, fin ch'egli fu ammazzato per mano degli Arabi a tradimento. Cava il re di Fez d'entrata di detta regione ducati ventimila l'anno.
Io mi sono molto allungato in questa istoria perché la cosa fu in mia presenza, e cognobbi come questa trama fu maliziosamente condotta e me n'affaticai in parte per iscampo dei detti poveri prigioni, e fu la prima volta ch'io vedessi tant'oro a un tratto. Sappiate ancora che 'l re di Fez non ne vidde mai tanto insieme, perch'egli è povero re e ha circa trecentomila ducati che gli riscuote ogn'anno, ma non ebbe mai in mano centomila ducati insieme, né anco suo padre. Ora voi vedete che tradimenti e che disegni usa l'uomo per cavar danari. E questo fu nell'anno novecento e quindici.
Ma egli è piú da maravigliarsi d'un altro giudeo, il quale solo pagò piú che tutti i detti gentiluomini insieme, perché s'ebbe spia della sua ricchezza. Sí che il re ebbe il giudeo e i suoi danari in mano, qual fu cagione ch'i giudei ebbero una taglia di cinquantamila ducati, per via di ragione, avendo favoreggiato la parte contraria del re. E allora io mi ritrovai in compagnia del commissario, quando riscoteva la detta taglia.


Efza, città in Tedle.

Efza è una picciola città vicina a Tefza circa due miglia, la qual fa presso a seicento fuochi, e fu edificata sopra un colle nel piè di Atlante. È molto abitata da Mori e Giudei, e quivi si fa gran quantità di bernussi. Gli abitatori sono tutti artigiani e lavoratori di terra; il loro governo è sotto i cittadini di Tefza. Le donne di questa città sono eccellenti ne' lavori di lana: fanno bellissimi bernussi e dielchese e quasi le donne guadagnano piú degli uomini. Fra Tefza ed Efza passa un fiume ch'è detto Derne, il quale nasce di Atlante, e passa fra certi colli e corre per lo piano fin che entra in Ommirabih; e fra li detti colli, cioè su le rive del fiume, sono bellissimi giardini di tutte le sorti d'alberi e di frutti che sapresti desiderare. Gli uomini di questa città sono liberalissimi e piacevoli sopra modo, e ogni mercatante forestiere può entrar ne' lor giardini e coglier quanti frutti a lor bastano. Sono genti molto lunghe a pagar lor debiti, percioché i mercatanti soglion dar danari avanti tratto per bernussi, con termine d'avergli in tre mesi, ma sono astretti aspettar un anno.
Fui nella detta città nel tempo che 'l campo del nostro re fu in Tedle, e la città subito gli diè obbedienza, e furono appresentati al capitano, la seconda volta che vi giunse, quindici cavalli e altretanti schiavi, ciascun de' quali menava un cavallo per lo capestro; eziandio gli fur dati dugento castroni e quindici vacche. Per il che sempre il capitano gli tenne per fedeli e amatori del re.


Eithiteb, città in Tedle.

Eithiteb è certa città edificata dagli Africani sopra un altissimo monte, lontano alla sopradetta circa a dieci miglia verso ponente. È molto abitata e piena d'uomini nobili e cavalieri, e perché ivi si fa gran quantità di bernussi, vi si truova sempre gran numero di mercatanti forestieri. Sopra il monte della detta città sempre si vede la neve, e tutte le valli che sono nel circuito della città sono piene di vigne e di vaghi giardini, ma non vi si vede di dentro frutto di niuna sorte, per la grandissima quantità. Le donne sono bianchissime, grasse e piacevoli, e vanno ornate di molto argento; hanno gli occhi negri e cosí e' capegli. Il popolo è molto sdegnoso, e dapoi che 'l re di Fez fece acquisto di Tedle, eglino mai non si volsero rendere né dargli obbedienza; ma elesson per capitano un gentiluomo, e fatto mille cavalli leggieri ebbe ardire di opporsi al capitano del re, e fecegli tal guerra che piú volte fu a pericolo di perder quello che acquistato aveva. Il re mandò un suo fratello con buon esercito in soccorso del detto, ma poco gli giovò, e durò la guerra tre anni, insino a tanto che a richiesta del re fu colui avvelenato da un giudeo. E allora la città si rese a patti, l'anno novecentoventuno.


Eithiad, città nella medesima.

Eithiad è una certa terricciuola posta su una picciola montagnetta di quelle di Atlante, edificata dagli antichi Africani, la qual fa circa a trecento fuochi. È murata da un lato, cioè dalla parte del monte, e dalla parte che risguarda verso il piano non ha mura di sorte niuna, percioché le rupi gli bastano in luogo di mura. È lontana dalla detta città circa a dodici miglia. Dentro di questa città è un tempio picciolo ma bellissimo, intorno il quale è un canaletto d'acqua a guisa di fiume. È abitata da nobili uomini e cavalieri; sonvi ancora molti mercatanti forestieri e del paese, e molti giudei vi sono, quale artigiano e quale mercatante. Dentro nascono molti fonti, i quali discendendo all'ingiú entrano in un fiumicello che passa di sotto alla città. E d'intorno le due sponde del fiumicello sono molti orti e giardini, dove si truova uva perfettissima, truovansi fichi e grossissimi e grandissimi alberi di noci. Per tutte le coste della montagnetta sono bellissimi terreni d'olive. Le donne della città sono in vero non men belle che piacevoli, vanno bene e leggiadramente addorne d'argento, d'annella, di cerchietti che portano al braccio e d'altri loro ornamenti. Il terreno del piano è ancora esso fertile d'ogni sorte di grano, e quel del monte è buonissimo per orzo e per li pascoli delle lor capre. A' tempi nostri la detta città fu ricetto di Raoman Benguihazzan rubello, per insino a tanto ch'egli fu morto. Io vi fui l'anno novecentoventuno, alloggiato in casa del sacerdote della terra.


Seggheme, monte nella medesima.

Il monte di Seggheme, come che riguardi verso mezzogiorno, nondimeno è tenuto per monte di Tedle. Questo incomincia dalla parte di ponente dal confino del monte di Tesauon, e si stende verso levante insino al monte di Magran, donde nasce il fiume di Ommirabih, e verso mezzogiorno confina col monte di Dedes. Gli abitatori di questi monti sono della stirpe del popolo di Zanaga, uomini disposti, gagliardi e valenti nella guerra. Le loro armi sono partigianelle e alcune spade torte e pugnali; usano ancora sassi, i quali traggono con gran destrezza e forza; guerreggiano di continovo col popolo di Tedle, di maniera che i mercatanti di là non possono passar per lo detto monte senza salvocondotto e gravissimo pagamento. Abitano nel detto monte molto laidamente, discosti molto l'un dall'altro, di modo che rade volte si truovano tre o quattro case insieme. Hanno molte capre e molti muli piccioli come asini, i quali vanno pascolando per li boschi del detto monte: ma i leoni ne guastano e mangiano una gran parte. Questa gente non obbedisce a signore alcuno, perché il monte loro è tanto scabroso e malagevole che li rende inespugnabili.
A' miei dí volle il capitano che acquistò Tedle fare una correria nel paese di costoro. Essi, avendo avuto notizia di ciò, fatta una bella compagnia di valenti uomini, chetamente s'imboscarono dove era una picciola vietta sopra una ripa, per la quale doveano passar i nimici. Come adunque viddero i cavalli ben ascesi la costa del monte, uscirono fuori dell'agguato da ogni parte, tirandogli le partigianelle e sassi grossi. La battaglia fu breve, percioché esso capitano non potendo sostener l'impeto, né andar avanti o tornarsene adietro, era necessitato in quella strettezza di urtarsi l'un con l'altro, di modo che molti traboccavano co' cavalli giú nella rupe e si fiaccavano il collo, altri erano ammazzati, in tanto che non vi scampò un solo che non fusse o preso o morto. E quelli che furon presi vivi ebbero peggior condizione, percioché i vincitori gli menarono legati alle lor case e le femine gli tagliarono in molte parti per piú disprezzo, imperoché gli uomini si sdegnano di ammazzar i prigioni e gli danno in mano alle femine. Vero è che doppo il fatto essi non osarono praticar in Tedle, ma ne hanno poco di bisogno, percioché nel loro monte nasce abbondevole copia d'orzo ed evvi gran numero di bestiami, e i fonti sono assai piú che le case. Solo hanno disconcio delle cose della mercanzia.


Magran monte.

Magran è un monte alquanto piú oltra del sopradetto: guarda verso mezzogiorno al paese di Farcla nel confin del diserto, e da ponente incomincia quasi pure dal detto. Verso levante finisce ne' piedi del monte di Dedes, e sempre si truova la neve su la cima di questo monte. Gli abitatori hanno moltissimi bestiami, in tanto che non si possono fermare in luogo alcuno: perciò fanno le loro case di scorza d'alberi, e le fermano sopra certe pertiche non molto grosse. I travi hanno forma di que' cerchi che si pongono nel coperchio delle ceste, le quali usano di portar le femine sopra li muli per viaggio in Italia. Cosí pongono costoro queste lor case su la schiena de' muli, e ne vanno con le bestie e con la famiglia ora a questo luogo ora a quell'altro, e dove truovano erba ivi piantano le case, e vi dimorano insino che le bestie la consumano. Egli è vero che il verno fanno ferma abitazione in un luogo, e fanno certe basse stalle coperte di frasche, e quivi tengono le dette bestie la notte. E usano di far grandissimi fuochi, massimamente appresso le stalle, per iscaldar gli animali; e alle volte avviene che si leva il vento e vi fa attaccar il fuoco, di maniera che se n'abbrucciano le stalle; ma le bestie sono preste a fuggire. Per tal cagione essi non fanno a dette stalle muri d'alcuna sorte, percioché non danno lor maggior privilegio di quello che diano alle case, che detto abbiamo. I leoni e i lupi ne fanno grandissimo guasto. I costumi e l'abito di costoro sono come quelli dei sopradetti, fuor che questi abitano in dette capanne e quei in case murate. Quivi fui l'anno novecentodiciasette, tornando di Dara a Fez.


Dedes monte.

Dedes è ancora egli un monte alto e freddo, dove sono molte fontane e boschi; e incomincia dal monte di Magran dal lato di ponente, e finisce ne' confini del monte di Adesan, e confina dalla parte di mezzogiorno col piano di Todga. È lungo circa ottanta miglia. Su la cima del detto monte è una città antica e rovinata, e veggonsi ancora le sue vestigia, che sono certi muri grossi fatti di pietra, e truovasi alcuna di queste pietre scritta con lettere che non vengono intese da alcuno. Tiene il popolo che quella città fusse fabricata da' Romani, ma io nelle croniche africane non truovo autore che 'l dica né che faccia menzione di questa città, eccetto serif Essacalli, che scrive nella sua opera di certa città detta Tedsi, ne' confini di Segelmese con Dara: ma egli non dice che sia edificata nel monte Dedes. Noi tuttavia giudichiamo esser quella, percioché non si vede in quella regione altra città.
Gli abitatori di questo monte sono, a dir con verità, gente di niun valore, e la maggior parte abita in certe grotte umide, e mangiano tutti pane d'orzo ed elhasid, cioè farina pur d'orzo bollita in acqua e sale, come abbiam detto nel libro di Hea, perché nel detto monte altro non nasce che orzo. Hanno ben molta copia di capre e d'asini, e nelle grotte dove stanno i detti animali è grandissima quantità di salnitro. Io penso che, se questo monte fusse vicino all'Italia, renderebbe di frutto all'anno venticinquemila e piú ducati: ma quella canaglia non sa quello che sia salnitro. Vanno malissimo vestiti, in tanto che mostrano scoperte la piú parte delle carni. Le loro abitazioni sono brutte, e puzzano del mal odore delle capre che si tengono in quelle. Per tutto il detto monte non si truova né castello né città che sia murata, ma sono divisi i loro alberghi in certi casali fatti di pietra, l'una posta sopra l'altra senza calcina, e coperte di certe piastre sottili e negre, come si usa in alcuni luoghi nel contado di Sisa e di Fabbriano; il rimanente (come s'è detto) abita nelle grotte, né mai viddi altrove tanti pulici quanti erano in questo monte.

Sono ancora i detti uomini traditori, ladri e assassini, e ammazzarebbeno un uomo per una cipolla: onde per menomissima cagione fan gran quistione tra loro. Non hanno né giudice né sacerdote, né persona ch'abbia virtú alcuna; né quivi sogliono praticar mercatanti, perché questi se ne stanno in ozio, né si danno ad alcuna industria. E quelli che vi passano o gli rubbano o, avendo qualche salvocondotto d'alcuni di lor capi, e portando robba che non faccia per loro, gli fanno pagar di gabella il quarto della robba. Le lor donne sono brutte come il diavolo e vestono peggio degli uomini, e sono eziandio quasi a peggior condizion degli asini, percioché portano l'acque dai fonti e le legna dai boschi sopra la schiena, né hanno mai un'ora di riposo. E per conchiudere, in niun altro luoco d'Africa mi pento d'esser stato fuor che in questo. Ma mi vi convenne passar mentre andai da Marocco a Segelmesse, per obbedir a cui era tenuto, nell'anno 918.


TERZA PARTE

Regno di Fessa.

Il regno di Fessa incomincia dal fiume di Ommirabih dalla parte di ponente, e finisce verso levante nel fiume di Muluia; verso tramontana è una parte che termina al mare Oceano; ci sono altre parti che compiono al Mediterraneo. Questo regno si divide in sette provincie, le quali sono Temesne, il territorio di Fez, Azghar, Elhabet, Errif, Garet, Elchauz. Anticamente ciascuna di queste provincie aveva particolar signoria; eziandio Fessa di prima non fu sedia reale: è vero che fu edificata da certo rubello e scismatico, e durò il dominio nella sua famiglia circa a centocinquanta anni. Ma doppo che vi regnò la famiglia di Marin, questa fu quella che le diede titolo di regno, e fece in lei la sua residenza e fortezza, per le cagioni narrate nelle croniche de' maumettani. Ora io ve ne farò particolar narrazione di provincia in provincia e di città in città, sí come assai pienamente mi par aver di sopra fatto.


Temesna, provincia nel regno di Fessa.

Temesna è una provincia compresa nella regione di Fez, la qual incomincia da Ommirabih dalla parte di ponente e finisce nel fiume di Buragrag verso levante; nel mezzogiorno ha fine nel monte Atlante, e verso tramontana termina nel mare Oceano. È tutta piana e si stende da ponente a levante ottanta miglia, e da Atlante all'Oceano circa sessanta; questa provincia fu veramente il fiore di tutte quelle regioni, percioché in lei si contenevano circa quaranta città e trecento castella, abitate da molti popoli del lignaggio degli Africani barbari.
Nell'anno trecentoventitre di legira fu la detta provincia sollevata da un certo predicator eretico, che fu detto Chemim figliuol di Mennal. Costui persuase al popolo che non dovesse dar tributo né obbedienza ai signori di Fessa, per esser uomini ingiusti, ed eziandio perché esso era profeta: di maniera che in poco tempo egli ebbe in mano il temporale e spirituale della provincia. E incominciò a far guerra a' detti signori, li quali, avendo guerra allora con il popolo di Zeneta, furono astretti a patteggiar con costui in questo modo, che esso si godesse Temesna e questi Fessa, senza che alcuno turbasse l'altro. Regnò egli trentacinque anni, e durarono i suoi seguaci nella provincia circa anni cento.
Ma poi che il re Giuseppe col popolo di Luntuna ebbe edificato Marocco, subito incominciò ancora egli a tentar d'insignorirsi di questa provincia, e mandò molti catolici e dotti uomini a ricercar di rimovergli da quella eresia e darsi a lui senza guerra. Ma questi col principe loro, che fu nipote del detto predicatore, si ragunarono in la città di Anfa e si risolsero d'ammazzar quegli ambasciatori, il che fecero. Dipoi congregorno uno esercito di cinquantamila combattenti, deliberati in tutto di scacciar di Marocco e di tutta quella regione il popolo di Luntuna. Il che inteso da Giuseppe col maggior isdegno che avesse a' suoi giorni, fatto un grossissimo esercito, non aspettò che i nimici venissero a Marocco, ma in capo di tre giorni fu egli nella lor provincia e passò il fiume di Ommirabih. Come viddero l'esercito del re che cosí impetuosamente veniva loro incontra, si spaventarono quei di Temesna e, schifando la battaglia, passarono il fiume di Buragrag verso Fez, e abbandonarono la provincia di Temesna. Allora il re mise il popolo e il terreno a ferro, a fuoco e a sacco con tanta crudeltà, che fece uccider per insino a' fanciulli che poppavano, e per otto mesi ch'egli vi stette con l'esercito rovinò tutta la provincia, in tanto che ora non vi rimane se non certe picciole vestigia della città che vi erano.
A questo s'aggiunse che il re di Fez, inteso che 'l popolo di Temesna era per passar Buragrag e camminava verso Fez, fatta certa triegua col popolo di Zeneta, con grandissimo numero di soldati s'indrizzò al detto fiume, sopra il quale trovò il misero principe con la sua gente, molto debole e stanco per la fame e necessità che sofferiva. Esso volle passar il fiume, ma il passo gli fu impedito dal re, onde i poveri perseguitati furono per disperazione sforzati a romper per certi boschi e rupi malagevoli a passare. E furono circondati e chiusi dall'esercito del re, di maniera che in un medesimo tempo perirono da tre diverse morti, percioché alcuni s'affogaron nel fiume, alcuni si fiaccarono il collo essendo spinti e gittandosi da quelle rupi, e quelli ch'erano usciti del fiume, cadendo nelle mani del re, furono menati a fil di spada. Cosí gli abitatori di Temesna venner meno, e furon spenti nello spazio di dieci mesi. Istimasi che 'l popol che fu distrutto pervenisse al numero d'un millione, fra gli uomini, fra le femine e i fanciulli.
Il re Giuseppe di Luntuna si tornò a Marocco, per rinovar l'esercito contro il signor di Fez, e lasciò Temesna per abitazion di leoni, di lupi e di civette. Rimase adunque la provincia disabitata centoottanta anni, che fu per insino al tempo che, tornando Mansor dal regno di Tunis, menò con esso lui certe generazioni de popoli arabi con li capi loro, e diè a questi ad abitar Temesna; i quali vi durarono cinquanta anni, insino a tanto che la famiglia di Mansor perdé il regno, per la qual perdita vennero gli Arabi in estrema calamità e miseria, in tanto che furon scacciati di là dai re della famiglia di Marin. E questi re diedero la provincia al popolo di Zeneta e Haoara in premio de' benefici che riceverono da questi due popoli, percioché l'uno e l'altro sempre diè favore alla famiglia di Marin contra i re e pontefici di Marocco. Cosí i due popoli si godono la provincia in libertà, e sono accresciuti a tanto che oggidí (e può esser da cento anni a questo) fanno tremare i re di Fez, percioché si crede ch'arrivino a sessantamila cavalli, e fanno dugentomila pedoni.
Io ho praticato molto in questa provincia, e ve ne darò particolar informazione.


Anfa, città in Temesna.

Anfa è una gran città edificata dai Romani sopra il lito del mar Oceano, discosta da Atlante circa a sessanta miglia verso tramontana, e da Azemur circa a sessanta verso levante, e da Rebat circa a quaranta miglia verso ponente. Questa città fu molto civile e abbondante, percioché tutti i suoi terreni sono bonissimi per ogni sorte di grano, e ha invero il piú bel sito di città che sia nell'Africa. Ha d'intorno di pianura circa a ottanta miglia, eccetto dalla parte di tramontana, che c'è il mare. Dentro di lei vi furono molti tempii, botteghe bellissime e alti palazzi, come ora si può veder e giudicar per le reliquie che vi si truovano. Vi furono eziandio molti giardini e vigne, e oggidí vi si coglie gran quantità di frutti, massimamente melloni e citrioli, i quai frutti incominciano a divenir maturi al mezzo d'aprile, e gli abitatori gli sogliono portar a Fez, percioché quei di Fez tardano piú. Vanno le genti molto ben in ordine del vestire, percioché hanno sempre avuto lunga pratica con mercatanti di Portogallo e inglesi, e vi sono tra loro degli uomini assai dotti.
Ma per due cagioni avvenne il danno e la rovina loro: l'una fu perché volevano viver in libertà senza aver modo; l'altra perché solevano tener dentro il lor picciol porto certe fuste, con le quali facevano grandissimi danni all'isola di Calix e a tutta la rivera di Portogallo, in tanto che 'l re di Portogallo deliberò di distrugger la detta città. Per il che egli vi mandò un'armata di circa cinquanta navili, con uomini da combatter e molta artiglieria; ma quei della città, come viddero avicinar l'armata, cosí tolte le lor piú care robbe e ragunati tutti insieme fuggirono alla città di Rabat e di Sela, e abbandonarono la lor terra. Il capitano dell'armata, che di ciò niuna cosa sapea, si mise in ordine per dar la battaglia; ma vedendo che non vi erano difensori, avedutosi del fatto, fece smontar le genti, le quali con tanto empito entrarono nella città che nel termine d'un dí la scorsero e saccheggiarono tutta, abbrucciarono le case e da molte parti disfecero le mura della città, la qual è rimasa ora disabitata. E io quando vi fui non potei tener le lagrime, percioché la piú parte delle case, delle botteghe e dei tempii sono ancora in piè, i quali con le lor rovine danno all'occhio un spettacol in vero compassionevole a riguardare. Vi si veggono i giardini diserti e divenuti selve: pur producono ancora qualche frutto. Cosí la impotenza e i vizii dei re di Fez l'hanno condotto a tale, che non è speranza ch'ella sia piú riabitata.


Mansora città.

Mansora è una terricciuola edificata da Mansore, re e pontefice di Marocco, in una bellissima pianura discosta dal mar Oceano due miglia, e dalla città di Rabat circa a venticinque, e da Anfa circa altretanti. Soleva far presso a quattrocento fuochi. Appresso la detta città passa un fiumicello, il qual si chiama Guir. Sopra il fiume sono molti giardini e molte viti, ma or diserti e abbandonati, percioché, quando fu distrutta Anfa, gli abitatori di questa subito ancora essi sgombrarono la città e fuggirono a Rabat, temendo non i Portogallesi venissero alla lor città: cosí la lasciarono vota. Ma le sue mura sono ancora intere, fuori che in certi luoghi che ruppero e disfecero gli Arabi di Temesna. Io passai per questa città e ne presi similmente compassione, percioché facilmente si potrebbe riabitare, non vi mancando altro ch'edificar le case: ma gli Arabi di Temesna, per lor malvagità, non vogliono che nissun vi abiti.


Nuchaila.

Nuchaila è una certa picciola città, edificata nel mezzo di Temesna, la qual anticamente fu molto popolosa e abitata, e nel tempo degli eretici vi si faceva una fiera una volta l'anno, alla quale concorreva tutto 'l popol di Temesna. Gli abitatori furono molto ricchi, percioché il lor terreno è grande e cinge da ogni lato quaranta miglia di pianura. Truovo nelle istorie che, nel tempo degli eretici, costoro avevano tanta abbondanza di grano che alle volte ve ne davano una gran soma d'un camello per un paio di scarpe. Nella venuta di Giuseppe a Temesna fu questa città distrutta come l'altre; nondimeno ora si veggono molti vestigi di lei, cioè alcune parti di mura e una certa torre, la qual era nel mezzo d'un tempio; vi si veggono ancora i giardini e i luoghi dove erano le viti, e cotai alberi vecchissimi che non fanno piú frutto. Gli Arabi di Temesna, quando essi hanno fornito d'arar i campi, pongono i lor strumenti appresso la detta torre, perché dicono ch'ivi fu sepellito un sant'uomo, e per tal cagione niun piglia lo strumento dell'altro, avendo timor dello sdegno di quel santo. Io passai per questa città infinite volte, per esser su la strada di Rabat e di Marocco.


Adendum.

Adendum è una picciola città edificata fra certi colli, vicina ad Atlante circa a quindici miglia e venticinque alla sopradetta. Quei colli sono tutti buoni per seminarvi grano. Accanto le mura di questa città ne nasce un gran capo d'acqua perfettissima; d'intorno sono molte palme, ma picciole, che non fanno frutto. E la detta acqua passa fra certi rupi e valli, le quali si dicono esser state minere di donde si cavava molto ferro; il che assai ben si conosce, percioché quei luoghi hanno color di ferro, e comprendesi ancora in parte nel sapor dell'acqua. Della detta città non ci rimase se non alcune picciole vestigia, cioè certe fondamenta di muri e certe colonne abbattute, percioché ella fu distrutta nella guerra degli eretici, sí come l'altre.


Tegeget.

Tegeget è una picciola città, edificata dagli Africani sul lito del fiume di Ommirabih, nel passo di Tedle a Fez. La detta città fu popolosa, civile e molto ricca, percioché vicina a lei è una strada in Atlante per cui si va al diserto, e tutti gli abitatori dei confini di quella parte del diserto vengono a questa città per comperar grano. Ma ancor la detta città fu distrutta nella guerra degli eretici, e dipoi gran tempo fu riabitata a guisa d'una villa, percioché una parte degli Arabi di Temesna tengono lor grani in detta città, e gli abitatori sono guardiani d'essi grani. Ma non vi si truova né bottega né artigiano, eccetto alcuni fabbri per conciar gli strumenti d'arare e per ferrar i cavalli. I medesimi abitatori hanno dai lor padroni arabi espresso comandamento di onorar tutti i forestieri che passano per la città, e i mercatanti pagano di passaggio quanto è il valor d'un giulio per soma delle tele o de' panni che essi conducono, ma li bestiami e cavalli non pagano cosa alcuna. Passai molte volte per questa città, la qual mi dispiacque; ma il terreno è nel vero perfettissimo e abbondevole di grani e di bestiami.


Hain Elchallu.

Questa è una piccioletta città non molto discosta da Mansora, la qual è edificata in un piano dove sono molti boschi di arbori cornili e alcuni altri arbori spinosi, i quali fanno certi frutti tondi simili alle giuggiole, ma di color giallo, e hanno l'osso grande e piú grosso di quello dell'olive, e poco buono di fuori. Per tutto dove circondano le vestigia della città sono certe paludi, nelle quai si truova gran quantità di testuggini over tartaruche, e di rospi molto grossi, ma per quel ch'io udi' dire non son velenose. Nessun degli istorici africani fanno memoria di questa città, forse per la sua troppa picciolezza, o forse perché anticamente fusse destrutta. A me ancor ella non par degli edificii degli Africani; dimostra esser stata fabricata da' Romani o da qualche generazione straniera d'Africa.


Rabato.

Rabato è una grandissima città, la qual fu edificata ne' tempi moderni da Mansor, re e pontefice di Marocco, sopra il lito del mar Oceano. E da canto, cioè dalla parte di levante, passa il fiume di Buragrag e ivi entra nel detto mare: la rocca della città è edificata su la gola del fiume, e ha da un lato il fiume e dall'altro il mare. La città nelle muraglie e ne' casamenti somiglia a Marocco, percioché da Mansor fu con tal studio edificata, ma è molto picciola a comparazione di Marocco. Fu la cagion di questa fabrica che Mansor signoreggiava tutta la Granata e parte d'Ispagna, la qual per esser molto lontana da Marocco, pensò il re che, quando ella fosse assediata da cristiani, malagevolmente l'avrebbe potuto dar soccorso. Perciò il detto fe' pensier di fabricar una città appresso la marina, dove potesse star tutta la state con i suoi eserciti, come che alcuni lo consigliassero che si dimorasse in Setta, ch'è una città su lo stretto di Zibilterra. Ma considerò il re che quella non era città che potesse sostener un campo tre o quattro mesi, per la magrezza del terreno del contado; s'avidde ancora che sarebbe stato necessario di dar non poco disagio a quei della città, circa agli alloggiamenti dei soldati e altri suoi cortigiani. Cosí fra pochi mesi fece edificar questa città, e fornilla de tempii e de collegii di studenti e di palazzi d'ogni sorte, di case, di botteghe, di stuffe e di speziarie. Ancora, fuor della porta che guarda verso mezzogiorno, fece far una torre simile a quella di Marocco, ma questa ha le scale molto piú larghe, percioché vi vanno tre cavalli l'uno appresso l'altro sopra. E chi è su la cima della torre, dicesi che può veder un navilio in mare da grandissimo spazio; io al mio giudicio la tengo, circa all'altezza, dei mirabili edificii che si veggano. Volle ancora il re che vi si conducessero molti artigiani e dotti uomini e mercatanti, e ordinò ch'a tutti gli abitatori, oltre al loro guadagno, secondo l'arti fusse data certa provisione. Onde, tratti dalla fama di questo partito, vi corsero ad abitar uomini d'ogni condizione e mestiero, in tanto ch'in poco tempo questa città divenne la piú nobile e ricca che sia nell'Africa, perché il popol guadagnava da due bande, e le provisioni, e li traffichi con li soldati e cortigiani, perché Mansor vi abitava dal principio d'aprile fino al settembre. E perché fu edificata in luogo dove non era molto buona acqua (percioché il mare entra nel fiume e va in su circa a dieci miglia, e li pozzi della terra hanno acqua salata), Mansor fece condur l'acqua da un fonte discosto dalla detta presso a dodici miglia, per certo acquedutto fatto con belle mura fabricate su archi, non altrimenti che si veggano in alcuni luoghi d'Italia, e massimamente in quei di Roma. Questo acquedutto si divide in molte parti, delle quali alcuna conduce l'acqua ai tempii, quale ai collegi, quale ai palazzi del signore e quale ai fonti communi che furon fatti per tutte le contrade della città.
Ma doppo la morte di Mansor la città incominciò a mancar, per sí fatto modo che di dieci parti una non v'è rimasa, e 'l bello acquedutto fu rotto e disfatto nelle guerre dei re della casa di Marin contra la casa di Mansor. E oggi la detta città ha peggiorato piú che prima, e mi cred'io che con fatica si truovano quattrocento case abitate; del resto ne son state fatte vigne e possessioni. Ma quanto è d'abitato sono due o tre contrade appresso la rocca con qualche picciola bottega. E ancor sta in molto pericolo d'esser presa da' Portogallesi, percioché tutti i passati re di Portogallo han fatto disegno di prenderla, considerando che, avuta questa città, agevolmente potranno prender tutto il regno di Fez. Ma fin a questo dí il re di Fez v'ha fatto un gran provedimento; e la sostiene il meglio che può. Io fui in questa città e n'ebbi pietà, rivolgendo nel mio animo il viver ch'era ne' tempi passati a quello che si truova oggidí.


Sella città.

Sella è una città picciola edificata da' Romani appresso il fiume di Buregrag, discosta dal mare Oceano circa a due miglia e da Rabato un miglio, di modo che, se alcun vuol andar alla marina, gli convien passar per Rabato. Ma la detta fu rovinata nella guerra degli eretici. Dipoi Mansor rinovò le mura, e fece in lei uno spedale bellissimo e un palazzo per alloggiamento dei suoi soldati. Similmente vi fece un bellissimo tempio, e una sala molto superba di marmi intagliati, di mosaichi, e con finestre di vetro di diversi colori: e quando fu vicino alla morte lasciò in testamento d'esser sepolto nella detta sala. Morto adunque Mansor, fu portato il corpo suo da Marocco e quivi ebbe sepoltura, e furongli messe due tavole di marmo, l'una da capo e l'altra da piè, nelle quali furono intagliati molti versi elegantissimi, i quali contenevano i lamenti e i pianti del detto Mansor, composti da diversi uomini. Tutti i signori della sua famiglia tennero un tal costume, di far sepellir i lor corpi in quella sala; il somigliante fecero i re di quella di Marin, allora che 'l lor regno fioriva. Io fui in questa sala e viddivi trenta sepolture di quei signori, e scrissi tutti gli epitaffii che v'erano. Fu l'anno novecentoquindici di legira.


Maden Auuam.

Questa è una città edificata a' nostri giorni da un tesoriere del pontefice Habdulmumen su la riva del fiume di Buragrag, non per altra cagione che per veder quei luoghi, per certe minere di ferro, esser molto frequentati. È lontana da Atlante circa dieci miglia, e fra la città e Atlante sono molti oscuri boschi, nei quali si truovano grandissimi e terribilissimi leoni e leopardi. Questa, per insino che durò il dominio nella famiglia dell'edificatore, fu assai civile e abitata, e addorna di belle case, di tempii e d'osterie. Ma ciò fu poco tempo, percioché le guerre dei re di Marin la posero a rovina, e gli abitatori parte furono uccisi, e parte fatti prigioni, e parte fuggirono alla città di Sella. E ciò avenne perché, non aspettando il popolo soccorso dal re di Marocco, diedero la città a uno dei re di Marin, ma in quel medesimo tempo essendo sopravenuto un capitano del re di Marocco in loro difesa, esso si ribellò contra il signor ch'era dentro, di maniera che gli convenne fuggirsi. D'indi a molti mesi venne il re della casa di Marin in persona con grande esercito, il quale, andandosene verso Marocco, tenne il cammino a quella città. Onde il capitano subito si fuggí, e la città fu costretta di rendersi a discrezion del re, che poscia sacheggiò e ammazzò tutto quel popolo. E da quel tempo fino a questo non fu mai piú riabitata, ma ancora ci sono le mura della città e le torri dei tempii. Io la viddi nel tempo che 'l re di Fez si pacificò col suo cugino, e vennero a Thagia per giurar sopra il sepolcro d'un lor santo, il cui nome è Seudi Buhaza. Fu l'anno novecentoventi.


Thagia, città di Temesna.

Thagia è una certa picciola città, edificata anticamente dagli Africani fra certi monti di quelli di Atlante. È molto fredda e i suoi terreni sono magri e aspri; d'intorno alla città sono mirabilissimi boschi, luoghi de rabbiosi leoni. Nasce in questo paese poca quantità di grano, ma è copiosissimo di mele e di capre. La città è priva d'ogni civiltà, e le case sono mal fatte e senza calcina. È in lei un sepolcro di certo santo, il qual fu al tempo di Habdul Mumen pontefice, e dicesi quel santo aver fatto molti miracoli contra ai leoni, e che egli fu mirabile indovino, in tanto che si trovò chi scrisse la sua vita molto diligentemente, e questo fu un dottore detto Ettedle, qual narra tutti i miracoli uno per uno. Io per me credo, avendo letto i miracoli che costui faceva, ch'erano o per arte magica o per qualche natural secreto contra i leoni. La fama di ciò, e la riverenza che si porta a quel corpo, è cagione che questa città è molto frequentata. E il popol di Fez ogni anno, doppo la pasqua loro, va a visitar detto sepolcro, dove andando uomini, donne e fanciulli, par che si muova un campo d'arme, percioché ciascuno porta il suo padiglione over tenda, di modo che tutte le bestie sono cariche e di tende e d'altre cose opportune per il vivere, e ogni compagnia ha da centocinquanta padiglioni insieme. E fra l'andata e il ritorno v'ha d'intervallo di tempo quindici giorni, perché la città è lontana da Fez circa centoventi miglia. E mio padre mi menava ogni anno seco a visitar detto sepolcro, e quando son stato uomo fatto vi son stato parecchie volte, per molti voti fatti ne' pericoli dei leoni.


Zarfa.

Zarfa fu città in Temesna, edificata dagli Africani in una larghissima e bella pianura, dove sono molti fiumicelli e fonti. E intorno alle vestigia della città sono molti piedi di ficaie, di cornili e di quelle ciriegie che in Roma son dette marene. Sonvi eziandio molti alberi spinosi, i quali producono certi frutti che in lingua araba si dicono nabich: sono piú piccioli delle ciriegie e hanno quasi sapore di giuggiole. Sono ancora per tutte quelle pianure certi piedi di palme salvatiche, e molto picciole, le quai fanno un certo frutto grosso come l'oliva di Spagna, ma ha l'osso grande e poco buono: hanno quasi sapor di sorbe, innanzi che si maturano. La città fu rovinata nelle guerre degli eretici. Ora i suoi termini vengono seminati dagli Arabi di Temesna, ed essi v'hanno sí buona raccolta ch'alle volte risponde di ciò che vi si semina cinquanta per uno.


Territorio di Fez.

Il territorio di Fez dalla parte di ponente incomincia dal fiume di Buragrag, e si stende verso levante insino al fiume d'Inauen: fra l'uno e l'altro fiume è di tratto circa a cento miglia; di verso tramontana termina nel fiume di Suba, e dal lato di mezzogiorno finisce ne' piedi di Atlante. Il detto territorio è mirabil veramente dell'abbondanza del grano, dei frutti e degli animali che vi sono. In tutti i colli di questo paese ha molti e grandissimi villaggi. È vero che le pianure per le passate guerre son poco abitate, nondimeno vi si abitano alcuni casali da certi poveri Arabi e di niun potere, i quali tengono i terreni a parte o co' cittadini di Fez o col re e suoi cortigiani. Ma la campagna di Sala e Mecnase sementano alcuni Arabi nobili e cavalieri: pur questi sono soggetti al re.
Ora vi si dirà particolarmente ciò che v'è di nobile.


Sella città.

Sella è una città antichissima, edificata da' Romani, ma fu acquistata da' Gotti. Vero è che gli eserciti de' maumettani entrarono in quella regione, e i Gotti la diedero a Taric, capitano loro; ma, poi che fu edificata Fez, ella divenne soggetta a' signori di Fez. È questa città fabricata sul mar Oceano in bellissimo luogo, discosta dalla città di Rabato non piú d'un miglio e mezzo: il fiume di Buragrag divide l'una città dall'altra. Le case della detta città sono edificate al modo che le edificavano gli antichi, ma molto ornate di mosaico e di colonne di marmo. Oltre a ciò tutti i tempii sono bellissimi e ornati; cosí le botteghe, le quali furon fabricate sotto i portichi larghi e belli, e passato che si ha molte botteghe si truovano certi archi, fatti (come essi dicono) per divider un'arte da un'altra. Concludo che questa città aveva tutti quegli ornamenti e quelle condizioni che s'appartengono a una perfetta civilità, e tanto piú che, avendo buon porto, era frequentata da diverse generazioni di mercatanti cristiani, genovesi, viniziani, inglesi e fiandresi, percioché quello è il porto di tutto il regno di Fez.
Ma la detta città, negli anni seicentosettanta di legira, fu assaltata e presa da un'armata del re di Castiglia. Il popol fuggí e rimaservi i cristiani, ma non piú che dieci giorni, percioché essi furono d'improviso assaliti da Giacob, primo re della casa di Marin, e inavertentemente, percioché ei non stimavano che 'l re lasciasse l'impresa di Telensin, nella quale già era occupato. Onde fu ripresa la città, e quanti di loro si trovarono furono uccisi; il rimanente si salvò nell'armata e fuggí via. Per questa cagione il re fu benvoluto da tutto il popolo di quelle regioni, e cosí la sua famiglia che regnò doppo lui.
Ma come che questa città fusse tosto riavuta, nondimeno è molto mancata nelle abitazioni, e molto piú nella civilità. E per tutta la città, massimamente vicino alle mura, si truovano molte case vote, nelle quali sono di bellissime colonne e finestre di marmi di diversi colori, ma gli abitatori d'oggi non le apprezzano. Il circoito della città è tutto arena, e sono certi terreni dove non nasce molto grano, ma v'ha gran numero di orti e di campi ne' quali si raccoglie gran quantità di bambagio: e gli abitatori della città sono per lo piú tessitori di tele bambagine, molto sottili nel vero e molto belle. Fassi eziandio in lei grandissima quantità di petteni, i quali sono mandati a vendere in tutte le città del regno di Fez, percioché è vicino alla detta città; vi sono molti boschi di bossi e di molti altri legni buoni per tal effetto.
Oggidí pure egli si vive in questa città assai civilmente. C'è governatore e giudice, e molti altri uffici vi sono, come dogana e gabella, percioché vi vengono molti mercatanti genovesi e fanno quivi di gran faccende. Il re gli accarezza assai, perché la pratica di costoro gli apporta grandissimo utile. I detti mercatanti hanno la loro stanza quale in Fez e quale in Sela, e nello spaccio delle robbe l'uno fa per l'altro. Io gli ho veduti in tutte lor pratiche molto nobili e cortesi, e spendevano assai per acquistarsi l'amicizia dei signori e di quei della corte, non per cupidigia d'avanzar cosa alcuna da' detti signori, ma per poter ne' paesi stranieri onoratamente vivere. E a' miei dí fu un onoratissimo gentiluomo genovese, detto messer Tommaso di Marino, persona invero savia, da bene e molto ricca, del quale il re faceva grandissima stima e molto l'accarezzava. Egli visse in Fez circa a trenta anni, e quivi venuto a morte, il re fece portarne il suo corpo a Genova, come egli avea ordinato. Lasciò costui in Fez molti figliuoli maschi, tutti ricchi e onorevoli appresso il re e a tutta la corte.


Fanzara.

Fanzara è una città non molto grande, ma edificata in una bellissima pianura da uno dei re di Muachidin, discosta da Sela circa a dieci miglia. Tutta la detta pianura è fertilissima di formento e d'altri grani. Fuori della città appresso le mura sono molte bellissime fontane, le quali fece fare Abulchesen re di Fez. Nel tempo del re Abusaid ultimo, che fu della casa di Marin, un suo zio chiamato Sahid, trovandosi prigione di Habdilla re di Granata, mandò a richieder suo nipote re di Fez che volesse compiacer a certa dimanda del re di Granata. La qual cosa ricusando di fare, Habdilla liberò detto Sahid di prigione, e lo mandò con grandissimo esercito e molta quantità di danari a rovina e disfacimento del detto re. Questo Sahid, con l'aiuto appresso d'alcuni montanari arabi, assediò Fez e vi tenne l'assedio sette anni, nel qual tempo distrusse i villaggi, le città e le castella di tutto il regno. Sopravenne poi nel suo campo la peste, la qual lo tolse di vita insieme con la maggior parte dell'esercito. Questo fu negli anni 918 di legira. Le città che furono allora distrutte mai piú non si abitarono, e massimamente la detta Fanzara, la qual fu data per albergo ad alcuni capi degli Arabi che furono in aiuto di Sahid.


Mahmora.

Mahmora è una picciola città, edificata da un dei re di Muachidin su la gola del gran fiume Subo, cioè dove il detto fiume entra in mare; ma la città è lontana dal mare circa a un miglio e mezzo, e da Sela circa a dodici miglia. Tutti i circuiti di questa città sono piani d'arena, e fu edificata per difesa della gola del detto fiume, acciò non vi possino entrar legni de' nimici. Appresso la città è un grandissimo bosco, dove sono alcuni alberi altissimi, le cui ghiande sono grosse e lunghe come le susine dammaschine: vero è che questa cotal ghianda è alquanto piú sottile, e ha un sapore vie piú dolce e piú delicato di quello della castagna. Alcuni Arabi vicini al detto bosco usano di portarne gran quantità in Fez sopra i loro camelli, e ne cavano molti danari; ve ne portavano ancora i mulattieri di questa città, e ve ne facevano assai buon guadagno, ma c'è grandissimo pericolo di leoni, i quali mangiano le piú volte le bestie e gli uomini che non sono pratichi, percioché in questi boschi sono i piú famosi leoni che abbia l'Africa.
Da cento e venti anni in qua la detta città è distrutta, per la guerra che fe' Sahid al re di Fez, né vi rimase altro che alcune rare vestigie, le quali dimostrano che la città non fu molto grande. Nell'anno 921 il re di Portogallo mandò una grandissima armata, per edificar un castello su la gola del detto fiume. I Portogallesi, come vi furono arrivati, cosí incominciarono a fabricarlo, e già avevano fatte tutte le fondamenta e incominciato a levar in piè le mura e bastioni, e la maggior parte dell'armata era entrata nel fiume, quando furono sopragiunti e impediti dal fratello del re di Fez; oltre a ciò tagliati a pezzi tremila uomini, non per poco valore de' Portogallesi, ma per discordie. Il che fu che una notte innanzi l'alba uscirono questi tremila dell'armata, con disegno di pigliar l'artiglieria del re, e fu grandissimo errore che tal numero di fanti andasse a far questa fazione, dove li nimici erano da cinquantamila fanti e cavalli quattromila; ma li Portogallesi pensarono che avanti che alcun del campo sentisse, di dover con loro astuzie aver condotta l'artiglieria nella fortezza, la qual era lontana dal luogo dove andavano a pigliare circa due miglia, alla guardia della qual stavano da sei in settemila persone, le quali nell'ora dell'alba tutte dormivano. Ed erali successo tanto felicemente che avevano quasi per lo spazio d'un miglio condotta via detta artiglieria, quando furono sentiti, e fu tanto il romore che tutto il campo si svegliò, e in poco d'ora, prese l'armi, corsero verso i cristiani, quali si ristrinsero immediate in una ordinanza tonda, e senza perdersi d'animo camminando valorosamente si difendevano. Né gli spaventava punto il vedersi circondati da ogni parte e che gli era tolta la strada, percioché tanta era la furia ed empito, in quella parte che urtavan con la testa dell'ordinanza, che per forza si facevan far la strada. E si sarebbono salvati al dispetto del campo, senonché alcuni schiavi rinegati, che sapevan la lingua portoghesa, gridando gli dissero che buttassero giú l'armi, che 'l fratel del re di Fez gli donava la vita. La qual cosa avendo fatta, i Mori, che sono uomini bestiali, non ne volendo far prigioni alcuno tutti gli uccisero, di maniera che altri non vi camparono che tre o quattro, col favor di certi capitani del fratello del re. Allora il capitano della fortezza fu quasi in ultima disperazione, percioché negli uccisi si conteneva il fior della sua gente. Dimandò adunque il soccorso del general capitano, il quale era con certe navi grosse, dove erano molti signori e cavalieri portogallesi, fuori della gola del fiume; ma egli non vi poté entrare, impedito dalla guardia del re di Fez, la quale, scaricando spesse artiglierie, affondò alcuni loro navili.
Fra tanto giunse la nuova a' Portogallesi che 'l re di Spagna era morto, per il che alcune navi mandate in favor loro del detto re di Spagna si volsero dipartire. Similmente il capitano della rocca, vedendo di non potere aver soccorso, abbandonò la fortezza. E meno si volsero fermare i navili ch'erano dentro il fiume, ma nell'uscir vi perirono quasi due terzi, percioché, volendo schivar quella parte donde tiravano l'artiglierie, si tennero all'altro lato e dierono nell'arena, conciosiaché da quel canto il fiume non è molto profondo. I Mori furono lor adosso e ve n'uccisero una gran parte; gli altri si gettorono nel fiume e, pensando di notare alle navi grosse, o vi s'affogarono dentro o caderono nella sorte dei primi. I navili furono abbruciati e l'artiglierie andorno a fondo. Il mare ivi vicino tre dí continovi mostrò l'onde tinte di sangue: dicesi che in quella armata furono uccisi diecimila cristiani. Il re di Fez fece dipoi cavar di sotto l'acqua, e si trovarono quattrocento pezzi d'artiglieria di bronzo. E questa cosí gran rotta intravenne per duoi disordini: il primo fu fatto per li Portoghesi, quali, senza stimar le forze de' nimici, volsero con cosí poco numero di gente andar a pigliar quella artiglieria; il secondo fu che, potendo il re di Portogallo mandar un'armata tutta a sue spese e sotto li suoi capitani, vi volse aggiungere quella di Castigliani. E sempre accade e non fallisce mai che due eserciti di duoi diversi signori, quando vanno contro ad uno esercito d'un signor solo, quelli duoi son rotti e malmenati, per la diversità de' ministri e de' consigli che mai s'accordano, e li nostri signori africani tengono per segno di vittoria quando vedono l'esercito di duoi signori andar contra quello d'un signore. E io fui in tutta la detta guerra e la viddi particolarmente, e dapoi mi partí per andar al viaggio di Costantinopoli.


Tefelfelt.

Tefelfelt è una picciola città edificata in un piano dell'arena, discosta dal Mahmora circa a quindici miglia verso levante, e dal mar Oceano circa dodici miglia. Appresso della detta città passa un fiume non molto grande, e su le rive del fiume sono alcuni boschi, ne' quali stanzano certi leoni crudelissimi e peggiori di quelli ch'io dissi di sopra, e fanno di grandissimi danni a' passaggieri, massimamente a quegli che v'alloggiano di notte. Ma per la via maestra di Fessa, fuori della detta città, è un picciolo casale disabitato, dove è una stanza fatta a volte. Quivi dicesi che si riducevano ad albergo i mulattieri e i viandanti, faccendo riparo alla porta con spini e frasche di quei contorni. Questa era osteria nel tempo che la città era abitata, la qual città fu similmente abbandonata nella guerra di Sahid.


Mechnase città.

Mechnase è una gran città, edificata da un popol cosí detto, dal quale ella prese il nome. È discosta da Fez circa a trentasei miglia, da Sela circa a cinquanta e da Atlante circa a quindici. Fa presso a seimila fuochi ed è molto abitata e popolosa, e lungo tempo il suo popolo visse in pace e unione, cioè mentre abitò nella campagna. Ma dipoi vi nacquero discordie e parti, di modo che, una parte essendo superiore all'altra, quella che rimase perditrice, essendo priva d'animali né potendo piú dimorar nella campagna, si ridusse insieme e fabricò questa città. La quale è posta in un bellissimo piano, e le passa da vicino un fiume non molto grande. D'intorno circa a tre miglia sono molti giardini, che fanno perfettissimi frutti, massimamente cotogni molto grossi e odoriferi, e mele granate che sono maravigliose e di grandezza e di bontà, perché non hanno osso alcuno, e si vendono per vilissimo prezzo. Anco susini damasceni e bianchi vi sono in gran quantità, e giuggiole, quali l'inverno mangiano secche, e buona parte ne portano a Fessa a vendere. Hanno anco copia assai de fichi e uva di pergola, ma le mangiano fresche, perché il fico, se lo vogliono seccare per conservarlo, getta fuori come una farina, e l'uva anco non è buona quando è secca. E hanno tanta quantità di crisomele e di persiche che quasi le gettano via: egli è ben vero che le persiche non sono molto buone, ma piene d'acqua e d'un color quasi verde. Olive nascono in infinito, e vendesene per un ducato e mezzo un cantaro, che sono cento libbre italiane. In fine il terreno della detta città è molto fertile. Di lino vi si cava una mirabil quantità, la piú parte del quale si vende in Fez e in Sela.
La città di dentro è bene ornata, ordinata e fornita di tempii bellissimi, e vi sono tre collegii di scolari e circa a dieci stufe molto grandi. E si fa il mercato fuori della città appresso le mura ogni lunedí, nel quale si truova grandissima quantità degli Arabi vicini allo stato della città, i quali vi menano buoi, castrati e altre bestie, vi portano butiro e lana, e il tutto si vende per vilissimo prezzo. A questa età il re ha dato la detta città al principe per parte del suo stato, e stimasi che tra lei e il suo contado si cavi tanto di frutto quanto d'un terzo di tutto il regno di Fez.
Ma la città ebbe di grandissimi disagi per le guerre passate, le quali furono fra i signori di quelle regioni, e in ciascuna guerra peggiorò trenta o quarantamila ducati, e molte volte fu assediata sei e sette anni per volta. Nel mio tempo, quando il presente re di Fez fu creato re, un suo fratel cugino gli si ribellò contra, e aveva il favor del popolo. Onde il re vi venne con l'esercito e tenne l'assedio alla città circa a duoi mesi, né volendosi render i cittadini, guastò tutte le loro possessioni. Fu allora il peggioramento di venticinquemila ducati: pensate che danno fu quando stette assediata cinque, sei e sette anni. In fine una parte amica del re aperse una porta e, sostenendo gagliardamente l'impeto degli aderenti al ribello, diede adito al re di poterci entrare: cosí fu la città riavuta, ed esso menato in prigione a Fez; ma dipoi si fuggí.
Insomma questa città è bella, fertile, ben murata e molto forte. Le sue strade sono larghe e allegre, e ha una perfettissima acqua, che vien per uno acquedutto il quale è fuori della città lontano circa a tre miglia, ed esso la comparte fra la rocca e i tempii e i collegii e le stufe. I mulini sono tutti fuori della città, lontani circa a due miglia. Gli abitatori sono uomini valorosi nella milizia, liberali e assai civili, ma d'ingegno piú tosto grossi che no. E tutti usano la mercatanzia, o siano gentiluomini o artigiani, né un cittadino si reca a vergogna di caricare una bestia di semenza per farla portar al lavorator suo. Tengono grande odio col popolo di Fez, né si sa alcuna manifesta cagione. Le donne dei gentiluomini della città non escono fuori delle lor case se non la notte, e si tengono coperti i volti, né vogliono esser vedute né coperte né discoperte, perché gli uomini sono molto gelosi e pericolosi nel fatto delle lor mogli. Questa città a me dispiacque, per esser il verno tutta molle e fangosa.


Gemiha Elchmen.

Questa è una antica città, edificata nel piano appresso un bagno, lontana da Mecnase circa a 15 miglia verso mezzogiorno, e da Fez quasi trenta verso ponente, e dal monte Atlante è discosta quasi dieci. Ella è il passo a chi va da Fez a Tedle. I suoi terreni furono occupati da certi Arabi, percioché essa ancora fu distrutta nella guerra di Sahid. Vero è che vi sono ancora quasi tutte le mura intorno, e a tutte le torri e tempii sono caduti li tetti, ma li muri sono ancora in piedi.


Camis Metgara.

Camis Metgara è una picciola città, edificata dagli Africani nella campagna di Zuaga, lontana da Fez circa a quindici miglia verso ponente. Il terreno è molto fertile, e d'intorno la città quasi a due miglia v'ha giardini bellissimi d'uve e di fichi; ma tutti sono stati rifatti, percioché nella sopradetta guerra di Sahid questa città fu rovinata, e tutti i terreni rimasero diserti circa anni 120. Ma doppo ch'una parte del popolo di Granata passò in Mauritania, ella fu incominciata a riabitarsi, e furonvi piantati moltissimi alberi di more bianche, percioché i Granatini sono grandi mercatanti di sete. Vi piantarono eziandio canne di zucchero, ma non vi se ne cavò tanto profitto quanto si suol far delle canne di l'Andaluzia. Fu questa città ne' tempi antichi molto civile, ma non cosí a' nostri, percioché gli abitatori sono quasi tutti lavoratori di terra.


Banibasil.

Banibasil è una picciola città edificata pure dagli Africani sopra un fiumicello, in mezzo il passo che porta da Fez a Mecnase, lontano da Fez circa a diciotto miglia verso ponente. Ha la detta città una larghissima campagna, dove sono molti fiumicelli e capi grossi d'acqua, ed è tutta coltivata da certi Arabi i quali vi seminano orzo e lino. Altro grano non vi può venir a perfezione, per esser la campagna aspra molto e sempre piena d'acqua. Questa campagna serve al maggior tempio di Fez, e i sacerdoti vi cavano di rendita ventimila ducati l'anno. Aveva questa città molti belli giardini d'intorno, come si conosce ai vestigi, ma fu rovinata come l'altre nel tempo di Sahid, e rimase disabitata circa cento e dieci anni. Ma, poi che 'l re di Fez ritornò da Duccala, vi mandò ad abitar una parte di quel popolo; tuttavia non v'è civilità, e il detto popolo contra il suo volere vi abita.


Fessa, magna città e capo di tutta Mauritania.

La città di Fez fu edificata da un certo eretico nel tempo di Aron pontefice, il che fu l'anno centoottantacinque di legira. Fu detta Fez percioché il primo dí che si cavarono le fondamenta fu trovata non so che quantità di oro, che nella lingua araba è detto fez. E questa al giudicio mio è la vera derivazion del nome, quantunque alcuni vogliano che il luogo dove ella fu edificata fusse prima appellato Fez per cagione d'un fiume che passa nel detto luogo, percioché gli Arabi chiamano il detto fiume Fez.
Come si sia, colui che la edificò fu detto Idris, e fu molto stretto parente del detto pontefice. Ma per la regola della legge, vie piú tosto a lui che ad Aron devea venir il pontificato, percioché egli fu nipote di Hali, fratel cugino di Maumetto, che ebbe per moglie Fatema figliuola di Maumetto, e cosí fu della famiglia da canto del padre e della madre. Ma Aron fu parente di Maumetto da una sola parte, percioché era egli nipote di Habbas zio di Maumetto. È da sapere che tutte due queste famiglie furono private del pontificato per le cagioni contenute nell'antiche croniche, e Aron con inganno se lo usurpò, percioché l'avolo di Aron, ch'era uomo astuto e d'alto ingegno, fingendo di dar favore alla casa di Hali per metterla in tal dignità, mandò suoi ambasciatori in tutto il mondo. E fu cagione che la casa di Umeue se la perdé, e ch'ella venisse poi nelle mani di Habdulla Seffec, primo pontefice, il quale, veggendo che questa dignità non si poteva nel vero lasciare ad altrui, subito si rivolse contra la sopradetta casa di Hali e incominciò apertamente a esserne perseguitatore, in tanto che i maggiori di Hali se ne fuggirono chi in Asia e chi in India. Rimase un di loro in Elmadina, del qual, per esser vecchio e religioso, egli non si curò. Ma due suoi figliuoli crebbero non meno in età che in grandezza e favor di quei di Elmadina, talmente che, volendogli esso nelle mani, i miseri furon costretti a fuggirsi: ma l'uno fu preso e strangolato, l'altro (il cui nome fu Idris) scappò in Mauritania.
Questo Idris venne in grandissimo credito, per modo che in brieve tempo ebbe fra quei popoli il dominio non solo temporale ma spirituale, e abitava nel monte di Zaron, vicino a Fez circa a trenta miglia, e tutta Mauritania gli dava tributo. Morí egli senza figliuoli, eccetto che pur lasciò una sua schiava gravida, la quale era gotta, ma venuta alla fede loro. Costei partorí un figlio maschio, il quale dal padre fu chiamato Idris. Questo i popoli volsero per signore, onde lo fecero nudrir con grandissime guardie e diligenze, e crescendo allevar sotto la disciplina d'un valente capitano del padre, detto Rasid. Questo fanciullo, come fu d'età di quindici anni, incominciò a far di belle e gloriose prodezze, e acquistò molti paesi, per sí fatto modo che accrescettero le sue famiglie e gli eserciti. Onde, parendo a lui che non gli bastasse la stanza del padre, deliberò di fabricar una città e, lasciando il monte, abitar in lei. Per il che fece ragunar molti architetti e ingegnieri, i quali, diligentemente avendo considerati tutti quei piani ch'erano vicini al monte, consigliaron che la città si facesse nel luogo dove fu edificata Fez, percioché conobbero il luogo molto commodo per una città, veggendovi molti fonti e un gran fiume, il quale, nascendo in una pianura non molto discosta, passa fra certi piccioli colli e valli molto dilettevoli, correndo prima dolce e chetamente otto miglia di piano. Dalla parte di mezzogiorno viddero eziandio che v'era un gran bosco, il qual poteva molto servire ai bisogni della città. Cosí edificaron una picciola città nel transito del fiume verso levante, di circa a tremila fuochi, e fu molto ben fornita secondo la sua qualità di cose pertinenti alla civilità.
Venuto Idris a morte, uno de' suoi figliuoli edificò un'altra non molto grande città verso ponente, pur nel transito del detto fiume. Crebbe poi in processo di tempo l'una e l'altra, per sí fatto modo che non altro che una piccola contrada dipartiva le due città: percioché molti signori che vi furono attesero a far venir grande la sua. Ma centoottanta anni doppo che fu edificata, nacquero grandissime parti e discordie fra i popoli delle due città, e ciascuna aveva il suo principe, e fecero tra lor molte guerre, le quali durarono cento anni. Sopravenne dipoi che Giuseppe, re di Luntuna, si mosse con molto esercito contra ai due signori, e presegli, e fecegli crudelmente morire. Allora il popolo delle due città fu quasi distrutto, percioché furono ambedue saccheggiate, e furonvi uccise di detto popolo circa trentamila persone. Deliberò il re di ridurre i due popoli in uno, e fece disfar le mura che dipartivano l'una città dall'altra e sopra il fiume fabricar molti ponti, accioché si potesse commodamente passare da una parte all'altra. Cosí le due città divennero una sola, e questa sola fu divisa in dodici rioni, o dire vogliamo regioni.
Ora, avendovi detta la cagione della edificazion della città, e come fusse fabricata, seguiremo della sua qualità e vi dipingeremo minutamente l'essere nel quale ella oggidí si truova.


Minuta e diligente descrizione della città di Fez.

Fez è certamente una grandissima città, murata d'intorno con belle e alte mura, ed è quasi tutta colli e monti, di modo che solamente il mezzo della città è piano, ma da tutte le quattro parti (come io dico) vi sono monti. Per due luoghi entra l'acqua nella città, percioché il fiume si divide in due parti: l'una passa da canto a Fez nuova, cioè dal lato di mezzogiorno, perché l'altra parte v'entra di verso ponente. Come l'acqua è entrata nella città, si divide in molti canali, i quali vanno per la maggior parte alle case dei cittadini e cortigiani del re, e ad altre case; eziandio ogni tempio, ogni oratorio ha la sua parte di detta acqua, cosí l'osterie, gli spedali e i collegi che vi sono. Vicino ai tempii sono certi cessi fatti a modo d'una casa quadra, e al d'intorno v'ha alcune camerette con loro porticelle, in ciascuna delle quali è una fontana la cui acqua, uscendo dal muro, cade in certo canale di marmo, e come le si fa un poco d'impeto, allora quell'acqua corre ai cessi e ne mena tutta la bruttura della città verso il fiume. Nel mezzo di questa casa è pur una fontana bassa e profonda quasi tre braccia, larga circa a quattro e lunga dodici; e d'intorno sono certi canali dove corre l'acqua, e passa sotto ai cessi. Sono i detti cessi di numero circa a centocinquanta.
Le case di questa città sono di mattoni e di pietre molto gentilmente fabricate, la piú parte delle quali pietre sono belle e ornate di belli mosaichi. Similmente sono mattonati i luoghi scoperti e i portichi con certi mattoni antichi e di diversi colori, a guisa dei vasi di maiolica. Usano di dipingere i cieli dei colmi con bei lavori e preziosi colori, come d'azzurro e d'oro, e sono detti colmi fatti di tavole e piani, per poter commodamente da tutto il coperto della casa stendere i panni, e per dormirvi la state. E quasi tutte le case sono di due solai e molte di tre, e di su e di giú vi fanno certi corridori, che adornano molto, per poter passar d'una camera in l'altra sotto il coperto, percioché il mezzo della casa è discoperto, e le camere quai sono da una parte e quai da un'altra. Fanno le porte delle camere molto larghe e alte, e gli uomini di qualche pregio fanno far gli usci di dette camere di certo bellissimo legno, e intagliate minutamente. E nelle camere sogliono usar alcuni armai bellissimi e dipinti, longhi quanto è la larghezza della camera, nei quali serbano le lor cose piú care: e alcuni gli vogliono alti, e tali che non passino sei palmi, per potervi ancor accommodar sopra il letto. Tutti i porticali di dette case sono fatti sopra certe colonne di mattoni e vestiti quasi piú della metà di maioliche, e vi si truovano alcuni su colonne di marmo, e usano di far da una colonna all'altra certi archi tutti coperti di mosaico, e i travi, che sono sopra le colonne le quali sostengono i solai, sono di legni intagliati con bellissimi lavori e con colori molto gentilmente dipinti. Vi si truovano moltissime case, le quali hanno certe conserve d'acqua fatte quasi in quadro, larghe qual sei e qual sette braccia, e lunghe qual dieci e qual dodici, e profonde circa a sei o sette palme; e tutte sono scoperte e mattonate di maioliche. Da ciascun lato della lunghezza usano di fare alcune fontane basse, molto belle e fatte con dette maioliche, e a tale pongono nel mezzo un vaso di marmo, come si vede nelle fontane d'Europa. Come le fontane son piene, l'acqua sen va nelle dette conserve per certi acquedutti coperti e molto bene ornati d'intorno, e quando le conserve sono ancora elle piene, ne va allora quest'acqua per altri acquedutti che sono intorno a dette conserve, e cade per certe picciole vie, di maniera che corre di sotto ai cessi ed entra nel fiume. Queste conserve si tengono sempre nette e molto polite, né l'adoperano ad altro tempo che nella state, nella quale poscia vi sogliono nuotar donne, uomini e fanciulli. Usano di far eziandio su le case una torre, dentro la quale sono molte agiate e bene ornate camerine. E in cotai torri sogliono pigliar diporto le donne quando vengono loro in fastidio i lavori, percioché dalle dette torri si può veder quasi tutta la città.
Sonvi quasi settecento fra tempii e moschee, cioè alcuni piccioli luoghi da orare, e vi son di questi tempii circa a cinquanta grandi e molto ben fabricati, e ornati di colonne di marmo e d'altri ornamenti. E ciascuno ha le sue fontane bellissime, fatte di marmo e d'altre pietre non vedute in Italia, e tutte le colonne hanno disopra le lor tribune lavorate di mosaico, o di tavole con intagli bellissimi. I colmi dei tempii sono fatti come si usa nell'Europa, cioè coperti di tavole, e il pavimento dei detti tempii è tutto coperto di stuore bellissime, l'una cucita all'altra con tanta destrezza che non si vede alcuna parte di terreno. E i muri di dentro sono semilmente coperti di stuore, ma solo a tanta altezza quanta è la statura di un uomo. In ciascuno ancora di questi tempii è una torre, dove vanno quelli che hanno di ciò cura a gridar e nunziar le ore diputate all'orazioni ordinarie. Né v'è piú che un sacerdote per tempio, a cui tocca a dire la detta orazione, e ha cura dell'entrata del suo tempio, cioè tenendovene diligente conto dispensarla ai ministri del detto tempio, come sono quegli che tengono la notte le lampade accese, e quegli che sono diputati alle porte, e quegli altri che hanno cura nella notte di gridar su la torre il tempo delle orazioni: percioché quello che grida il dí non ha salario alcuno, ma bene è libero da ogni decima e pagamento che si sia.
È nella città un tempio principale, il quale è chiamato il tempio del Caruven, il qual è un grandissimo tempio e tiene di circuito circa a un miglio e mezzo. Ha trentuna porta, grandissima e alta ciascuna; il coperto è lungo circa a centocinquanta braccia di Toscana, ed è largo poco meno d'ottanta; la sua torre, ove si grida, è similmente altissima; e il coperto è per lunghezza appoggiato sopra trentotto archi, e per larghezza sopra venti. E d'intorno, cioè da levante, da ponente e da tramontana, sono certi portichi, largo ciascuno trenta braccia e lungo quaranta; sotto a questi portichi sono magazzini, ne' quali si serba l'olio, le lampade, le stuore e l'altre cose necessarie al detto tempio. Nel quale ogni notte s'accendono novecento lampade, percioché ogni arco ha la sua lampada, massimamente l'ordine degli archi che corre per mezzo il cuore del tempio, perché quel solo ne ha da centocinquanta lampade; nel qual ordine sono certi luminari grandi fatti di bronzo, ciascuno de' quali ha luoghi per millecinquecento lampade, e queste furon campane di certe città di cristiani, acquistate da alcuni re di Fez. Dentro il tempio, appresso i muri, sono certi pergami di ogni qualità, ne' quali molti dotti maestri leggono al popolo le cose della lor fede e della legge spirituale. Incominciano un poco doppo l'alba e finiscono a un'ora di giorno, ma nella state non vi si legge se non doppo ventiquattr'ore, e durano le loro lezioni per insino a un'ora e mezza di notte. E usavasi a legger non meno facultà e scienze morali che spirituali pertinenti alla legge di Maumetto. E la lezione della state da altri non si legge che da certi uomini privati; le altre non leggono se non uomini molto ben periti nella legge, ciascuno de' quali per detta lettura ha buono e ampio salario e li vengono dati li libri e li lumi. Il sacerdote di questo tempio non ha altro carico che di far l'orazione, ma ben tien cura dei danari e robbe che sono offerte al tempio per li pupilli, ed è dispensator dell'entrate che sono lasciate per li poveri, come sono danari e grani, de' quali egli ogni festa fa parte a tutti li poveri della città, a chi piú a chi meno, secondo la qualità delle famiglie. E colui che tien la cura del riscuoter l'entrate del tempio ha un ufficio separato, e ha di provisione un ducato il dí. Tien costui otto notai, che hanno per ciascun di salario al mese sei ducati, e sei uomini che riscuotono i danari delle pigioni delle case, delle botteghe e d'altre entrate: e ciascuno di questi piglia per sua fatica cinque per cento. Ha eziandio circa a venti fattori, i quali hanno carico d'andare intorno per proveder ai lavoratori dei terreni, a quei che attendono alle vigne e a quegli che hanno cura dei giardini, di quanto fa lor bisogno: il salario di questi aggiunge a tre ducati il mese. Fuori della città circa a un miglio sono presso a venti fornaci dove si fa la calcina, e altrettante dove si fanno le pietre per le bisogne delle fabriche delle possessioni e del tempio. Il tempio ha d'entrata dugento ducati in qualunque giorno, ma vi si spende piú che la metà nelle cose sopra dette, senza ch'ogni tempio o moschitta, che non abbia entrata, questo tempio di molte cose fornisce; quello che avanza si spende a commune utilità della città, percioché il commune non ha entrata di niuna sorte. È vero che a' nostri dí i re sogliono farsi prestar di gran danari al sacerdote del tempio, né perciò ve gli rendono giamai.
Sono in detta città due collegi di scolari, molto ben edificati, con molti ornamenti di mosaico e di travi intagliati, e quale è lastricato di marmo e qual di pietre di maiolica. In ciascun di questi collegi sono molte camere, e tal ve n'è che n'ha cento, e qual piú e qual meno, e tutti furon edificati da diversi re della casa di Marin. Ve n'è uno, che nel vero è cosa mirabile e di grandezza e di bellezza, il qual fu fatto fabricar dal re Abu Henon. E in lui ha una bellissima fontana di marmo ch'è capace di due botte d'acqua, e per entro passa un fiumicello in un canaletto che ha il fondo molto ornato, e cosí le rive, di marmo e di pietre di maiolica. E sonvi tre loggie con le cube coperte d'incredibil bellezza, e d'intorno sono colonne fatte in otto anguli attaccate al muro di diversi colori, e dal capo di ciascuna colonna all'altra sono archi ornati di mosaico, d'oro fino e d'azzurro. Il tetto è fatto di legni intagliati e formati con bel lavoro e ordine, e ne' confini de' portichi con lo scoperto sono fatte di legne certe reti a modo di gelosie, che quelli che sono al di fuori non veggono quegli che stanno nelle stanze che sono sotto a' detti portichi. Tutti i muri vanno tanto in alto quanto un uomo può giunger con mano; sono vestiti pur di pietre di maiolica, e d'intorno a' detti muri per tutto il collegio sono scritti versi, ne' quali si contiene l'anno che fu fabricato detto collegio, e molti in lode del luogo e dell'edificatore, cioè il re Habu Henon. E sono queste lettere grosse e nere, pur in maiolica, e il campo è bianco, di maniera che si può veder e legger le dette lettere molto di lontano. Le porte del collegio sono tutte di bronzo, ben lavorate e ornate, e le porte delle camere sono di legni intagliati. Nella sala maggiore, dove si fanno le orazioni, è un pergamo che ha nove scale fatte tutte d'avorio e d'ebano, cosa invero mirabil a vedere.
Io ho udito dir da molti maestri, i quali affermano aver sentito raccontar dai lor maestri, che, quando fu fornito il collegio, il re volle veder il libro delle spese che vi andarono, e non rivolse una minima parte del libro che trovò di spese circa a quarantamila ducati. Cosí si maravigliò, e senza piú legger squarciò il libro e lo gettò nel picciol fiume che passa per lo detto collegio, allegando due versi d'un autore delli nostri arabi, che contengon questa sentenza:

Cosa cara ch'è bella non è cara,
né assai si può pagar cosa che piaccia.

Ma fu un suo tesoriere, detto Hibnulagi, il qual ve ne aveva tenuto conto, e trovò ch'in somma v'erano stati spesi quattrocento e ottantamila ducati.
Tutti gli altri collegi di Fez hanno qualche simiglianza con questo, e per ogni collegio vi sono lettori in diverse scienzie, e chi legge la mattina e chi la sera, e tutti hanno ottima provisione lasciata dagli edificatori. Anticamente ciascuno scolare di questi collegi soleva avervi le spese e il vestire per sette anni, ma ora altro non v'hanno che le stanze, percioché nelle guerre di Sahid furono guaste molte possessioni e giardini, la cui entrata era diputata a questo ufficio. E oggi ve n'è rimasa alcuna poca con la qual si mantengono i lettori, e di questi a chi tocca dugento e a chi cento ducati, e a tali meno. Questa è forse una delle cagioni per la qual è venuta meno la virtú di Fez, e non solamente di Fez, ma di tutte le città d'Africa. Né abita in detti collegi se non certi scolari forestieri, che hanno il loro viver delle limosine dei cittadini e di quei del contado di Fez, e se pur v'abita alcuno della città, non aggiunge al numero di due. Quando uno dei lettori vuol legger, uno scolare prima legge il testo; il lettore legge poi i comenti, adducendovi qualche isposizione del suo e dichiarando le difficultà che vi sono. E alcuna volta, in presenza del lettore, sogliono gli scolari disputar fra loro secondo il soggetto delle lezioni.


Spedali e stufe che sono nella detta città.

Sono in Fez molti spedali, i quali di bellezza non sono inferiori ai sopradetti collegi, e solevano ne' tempi adietro i forestieri aver per tre giorni alloggiamento in questi spedali. Ve ne sono molti altri di fuori delle porte, non men belli di quelli di dentro. Ed erano essi spedali molto ricchi, ma ne' tempi della guerra di Sahid, faccendo al re bisogno d'una gran quantità di danari, fu consigliato a vender l'entrate e possessioni loro. Al che non volendo consentir il popolo, un procurator del re gli fece intendere che li detti spedali furono edificati di limosine date per gli antecessori del presente re, qual sta in pericolo di perder il regno, e però era meglio vender le possessioni per scacciar il commune nimico, che finita la guerra facilmente poi si riscoterebbono. Cosí furono vendute, ma si morí il re prima che ne seguisse l'effetto: cosí gli spedali rimasero poveri e quasi senza sustanza. Pure si danno oggi per albergo a qualche forestiere dottore, o a qualche nobile ma povero della città, per mantener le stanze in piè. E a questi dí un solo ve n'è per li forestieri infermi, ma non se gli dà né medico né medicina, solamente la stanza e le spese, e ha chi lo serve per insino che 'l povero o si muore o guarisce.
In questo spedale sono alcune camere diputate ai pazzi, cioè a quelli che son palesi che traggono i sassi e fanno altri mali, e ve gli tengono serrati e incatenati. Le faccie di queste camere, che guardano verso il corridore e al coperto, sono come ferrate, ma di certi travicelli di legno molto ben forti. E colui che ha cura di dar loro mangiare, come vede uno che si muove, sconciamente lo lavora con un bastone che egli sempre reca con esso lui a questo ufficio. E aviene alle volte che, accostandosi qualche forestiere alle dette camere, i pazzi lo chiamano e con esso lui si lamentano che, essendo essi guariti della pazzia, debbono esser tenuti in prigione, ricevendo ogni giorno dai ministri mille spiacevoli ingiurie. Alcuno, credendolo, s'appoggia alla finestra, ed essi con una mano lo pigliano per lo drappo e con l'altra gli bruttano il viso di sterco, percioché, come che cotai pazzi abbiano i loro cessi, essi nondimeno le piú volte votano il soverchio del corpo nel mezzo delle stanze. E bisogna che di continovo i detti ministri vi nettino quelle brutture, i quali eziandio fanno cauti i forestieri che molto a quelle camere non s'avicinino. Ha in fine lo spedale tutti quei famigliari che fanno di mistiero, cioè notai, fattori, protettori, cuochi e altri che governano gl'infermi; e ha ciascuno assai onesto salario. Al tempo ch'io era giovane, io vi sono stato due anni per notaio, secondo l'usanza dei giovani studianti, il qual ufficio rende ogni mese tre ducati.
Sonvi ancora cento stufe ben fabricate e ornate, alcune delle quali sono picciole, alcune grandi; ma tutte son fatte a uno istesso modo, cioè ciascuna ha quattro stanze a guisa di sala. Di fuori sono certe loggie alquanto alte, e in quelle s'ascende, per cinque over sei scalini, in luoghi dove si spogliano gli uomini e ripongono le vestimenta loro. Nel mezzo usano di far certe fontane al modo d'una conserva, ma molto grandi. Ora, come l'uomo vuole andar a una di queste stufe, entrato ch'egli è per la prima porta, passa in una stanza la qual è fredda, e in lei tengono una fontana per rinfrescar l'acqua, quando ella è di soverchio calda. Di quindi per un'altra porta se ne va poi alla seconda stanza, ch'è alquanto piú calda, e qui i ministri lo lavano e gli nettano la persona. Di questa si passa alla terza, ch'è molto calda, dove suda alquanto spazio: e quivi ha luogo la caldaia dove si scalda l'acqua, ben murata, la quale cavano destramente in certe secchie di legno, e sono tenuti di dare a qualunque uomo due vasi pieni di quell'acqua, e chi piú ne vuole, o dimanda esser lavato, gli bisogna dar a colui che attende due o almeno un baiocco, e al padron della stufa altro non si paga che due quattrini. L'acqua si scalda con lo sterco delle bestie, percioché i maestri delle stufe sogliono tener molti garzoni e somari, i quali, discorrendo per la città, vanno accattando lo sterco delle stalle e, portandolo fuori della città, fanno di quello come una picciola montagnetta e ve lo lasciano seccar due o tre mesi: dipoi, per iscaldar le stufe e la detta acqua, l'abbruciano in vece di legna.
Le donne hanno ancora elle per loro separate stufe, e molte ancora si tengono e per donne e per uomini communemente: ma gli uomini hanno determinate ore, ch'è lo spazio da terza fin a quattordici ore, e piú e meno secondo la qualità dei giorni; il rimanente del giorno è assegnato alle donne, le quali sí come entrano alle stufe, cosí per segno di ciò s'attraversa una fune all'entrata della stufa, e allora niun uomo vi va. E se accade che alcuno volesse favellar alla sua donna, egli non può, ma per una delle famigliari le fa apportar l'imbasciata. E gli uomini e le donne della città usano parimente di mangiar nelle dette stufe, e le piú volte si sollazzano a varie guise e cantano con alta voce. Cosí tutti i giovani entrano nelle stufe ignudi, senza prender niuna vergogna l'uno dell'altro; ma gli uomini di qualche condizione e grado v'entrano con certi sciugatoi intorno, né siedono in luoghi communi, ma si adagiano in certe picciole camerine, che sempre stanno acconcie e ornate per gli uomini di riputazione.
M'era scordato di dire che, quando i detti ministri lavano una persona, la fanno coricare, dipoi la fregano alle volte con alcuni unti ristorativi e alle volte con cotai strumenti che cavano ogni bruttezza. Ma quando lavano alcun signore lo fanno coricare sopra un drappo di feltro, e appoggiar il capo sopra certi guanciali di tavole, coperti pur di feltre. Sono ancora per ciascuna stufa molti barbieri, i quai pagano un tanto il maestro per poter tenervi li loro strumenti e lavorarvi dell'arte loro. E la maggior parte di dette stufe sono dei tempii e dei collegi, e lor pagano di gran pigione, cioè qual cento e qual centocinquanta ducati, e chi piú e chi meno secondo la grandezza dei luoghi.
Né è da tacere che i garzoni famigliari di queste stufe usano di far certa festa una volta l'anno, la qual è in cotal modo. Invitano i detti garzoni tutti gli amici loro, e vanno accompagnati dal suono di trombe e di pifferi fuori della città; dipoi cavano una cipolla di Squilla e la pongono in un bel vaso di ottone e, coperto che l'hanno con qualche tovaglia di bucato, se ne vengono alla città sonando fino alla porta della stufa. Allora mettono la cipolla in una sporta e l'appiccano alla porta della stufa dicendo: "Questa sarà cagion dell'utile della stufa, percioché ella sarà frequentata da molti". Ma a me pare che ciò si debbia addimandar piú tosto sacrificio, nel modo che solevano usar gli Africani antichi allora ch'essi furono gentili, e rimase questa usanza insino al nostro tempo, sí come eziandio si truovano alcuni motti delle feste che i cristiani facevano, le quali quasi s'osservano oggidí: ma eglino perciò non sanno per qual cagione si faccia alcuna di quelle feste. E in ciascuna città usasi d'osservar certe feste e usanze, che lasciarono pure i cristiani quando essi l'Africa signoreggiarono. Di questi motti, s'ei avverrà che mi paia a proposito, ve ne sporrò alcuno.


Osterie.

Nella detta città sono circa a dugento osterie, benissimo veramente fabricate. E tali ve ne hanno che sono grandissime, sí come quelle che sono vicine al tempio maggiore, e fatte tutte in tre solai; ve n'è alcuna che ha centoventi camere, e tali piú, e in tutte sono e fontane e cessi, con lor canaletti che portano fuori le brutture. Io non ho veduto in Italia simili edificii, se non il collegio degli Spagnuoli ch'è in Bologna e il palazzo del cardinal di San Giorgio in Roma. E tutte le porte delle camere rispondono al corridore. Ma, come che queste osterie siano belle e grandi, v'è un pessimo alloggiare, percioché non c'è né letto né lettiera, ma l'osterie danno a quello che viene albergato una schiavina e una stuora per suo dormire, e se egli vuol mangiare convien che si comperi la robba e gliela dia a cuocere. In queste osterie si riparano ancora le povere vedove della città, le quali non hanno né tetto né parente che gliene presti. A queste s'assegna una stanza, cioè ciascuna ha la sua camera, e in tal ve ne albergano due; esse poi si pigliano cura del letto e della cucina.
E per darvi alcuna informazion di questi ostieri, essi son d'una certa generazione che s'appella elcheua, e vanno vestiti d'abiti feminili e ornano le lor persone a guisa di femine: si radono la barba e s'ingegnano d'imitarle per insino nella favella. Che dico favella? Filano anco. Ciascuno di questi infami uomini si tiene un concubino, e usa con esso lui non altrimenti che la moglie usi col marito. Eziandio tengono delle femine, le quai serbano i costumi che serbano le meretrici nei chiassi dell'Europa. Hanno costoro autorità di comperar e vender vino senza che i ministri della corte diano loro fastidio, e in dette osterie vi praticano di continovo tutti gli uomini di pessima vita, chi per imbriacarsi, chi per sfogar la sua libidine con le femine da prezzo, e chi per quell'altre vie illecite e vituperevoli, per esser sicuri dalla corte, de' quali è il tacer piú bello. Questi sí fatti ostieri hanno un consolo, e pagano certo tributo al castellano e governator della città. Oltre a questo sono obligati, quando egli accade, di dar all'esercito del re o dei principi una gran quantità della lor brigata per far la cucina ai soldati, percioché pochi altri sono in tal mestiero sufficienti.
Io certamente, se la legge alla quale è astretto l'istorico non m'avesse sospinto a dir la verità, volentieri arei trapassata questa parte con silenzio, per tacere il biasimo della città nella qual sono allevato e cresciuto. Che in vero, trattone fuori questo vizio, il regno di Fez contiene uomini di maggior bontà che siano in tutta l'Africa. Con questi adunque cosí fatti ostieri non sogliono tener pratica (come s'è detto) se non uomini ribaldi e di sangue vile, percioché né letterato, né mercatante, né alcun uomo da bene artigiano pur solamente parla loro, ed è similmente interdetto a quelli d'intrar nei tempii e nelle piazze dei mercatanti, e cosí alle stufe e alle case loro. Meno possono tener l'osterie che sono appresso il tempio, nelle quali alloggiano i mercatanti d'alcuna rara qualità. E tutto il popolo grida loro la morte. Ma, perché i signori se ne servono (come io dissi) nelle bisogne del campo, gli lasciano starsi in tal disonesta e pessima vita.


Mulini.

Dentro la medesima città sono presso a quattrocento mulini, cioè stanze di mole, percioché vi può esser un migliaio di mulini; conciosiacosaché i detti mulini sono fatti a modo di una gran sala e in colonne, e in alcuni alberghi di quella si truovano quattro, cinque e sei mole. È una parte del contado che macina dentro la città, e sonvi certi mercatanti, detti i farinai, i quali tengono mulini a pigione, e comperano il grano e fannolo macinare. Poscia vendono la farina nelle botteghe, che tengono pur a pigione, e di ciò ne cavano buona utilità, percioché tutti gli artigiani, che non hanno tanta facultà che si possino fornir di grano, comperano la farina a queste botteghe e fanno far il pan in casa. Ma gli uomini di qualche grado comperano il grano, e lo fanno macinar a certi mulini che sono diputati per li cittadini, pagando di macina due baiocchi per roglio. La maggior parte eziandio di questi mulini è dei tempii e di collegi, talmente che pochi ve ne sono dei cittadini. E la pigione è grande, cioè due ducati per mola.


Artigiani diversi, botteghe e piazze.

Le arti in questa città sono separate l'una dall'altra, e le piú nobili sono nel circuito e vicinanza del maggior tempio, come i notai, e di questi sono quasi ottanta botteghe, una parte delle quali è congiunta col muro del tempio, l'altra è al dirimpetto, e per ciascuna bottega sono due notai. Piú oltra verso ponente sono circa a trenta botteghe di librari, e verso mezzogiorno stanno i mercatanti delle scarpe, che sono circa a centocinquanta botteghe. Questi sogliono comperar le scarpe e i borzacchini dai calzolai in molta quantità, e gli vendono a minuto. Poco piú oltre di questo sono i calzolai che fanno le scarpe per li fanciulli, e di loro possono esser cinquanta botteghe. Dalla parte di levante, cioè dal tempio, hanno luogo quegli che vendono lavori di rame e di ottone. E dirimpetto la porta maggiore, verso il lato di ponente, sono li tricconi, cioè quelli che vendono le frutte, che fanno circa a cinquanta altre botteghe. Doppo questi sono i venditori delle cere, i quali fanno i piú bei lavori che io giamai vedessi a' miei giorni. Poi sono i merciai, ma di essi v'han poche botteghe. Dipoi i venditori di fiori, i quali eziandio vendono cedri e limoni, e a chi vede quei fiori, per la diversità loro, par vedere a mezzo aprile tutti i piú vaghi e fioriti prati che siano in molti paesi, overo un quadro dipinto di diversi colori: e sono circa a venti botteghe, percioché quelli che usano a ber vino vogliono aver sempre dei fiori nelle loro compagnie. Appresso a questi sono certi venditori di latte, i quali tengono le botteghe fornite di vasi di maiolica, e usano di comperare il latte da alcuni vaccari, che tengono le vacche per cotal mercatanzia. E ciascuna mattina questi vaccari mandano il latte in certi vasi di legno cinti di ferro, molto stretti dalla bocca e larghi dal fondo, e lo vendono sotto alle dette botteghe; e quello che avanza la sera o la mattina è comperato da quei botteghieri, e ne fanno butiro, e parte lasciano diventar agro, liquido o congelato, e lo vendono al popolo. E credo che nella città si venda ogni giorno venticinque botte di latte, infra agro e fresco. Oltra quei del latte sono quegli che vendono il bambagio, e giungono a trenta botteghe. Verso tramontana sono i mercatanti del canapo: questi vendono le funi, i capestri dei cavalli, lo spago e alcune cordicelle. Oltre a questi sono quelli che fanno i cinti di cuoio, le pantofole, e alcuni capestri da cavallo pur di cuoio, lavorati di seta. Piú oltre sono i guainari, i quali fanno guaine di spade e di coltelli, e fanno i pettorini dei cavalli. Doppo loro i venditori del sale e del gesso, qual comprano in grosso e lo vendono alla minuta. Poi quei che vendono i vasi, i quali sono belli e di perfetto colore, ma qual d'un color solo e qual di due, e v'ha circa a cento botteghe. Poi sono quelli che vendono i morsi, le briglie de' cavalli, le cinte, le selle e le staffe, e sono circa a ottanta botteghe.
Poi v'è il luogo dei facchini, che sono circa a trecento, e hanno questi un loro consule, o diciamo capo, il quale sortisce ogni settimana quelli i quali hanno a lavorar e servir alle occorrenzie di chi gli vuole in tutta la detta settimana. I danari che si danno per loro mercede si ripongono in una cassetta, la quale ha diverse chiavi serbate da diversi capi: e fornita la settimana si dividono quei danari fra coloro che vi si sono affaticati. E questi facchini tra loro s'amano come fratelli, percioché, quando alcun di essi muore e lascia qualche picciolo figliolino, eglino in commune fanno governar la donna, per insino che, volendo ella, la rimaritano. Dei fanciulli ve ne tengono amorevole e diligente cura, per insino a tanto che essi siano di età di mettergli a qualche arte. E quando alcuno si marita o gli nasce alcun figliuolo, egli fa un convito a tutta la compagnia, e ciascuno all'incontro gli fa certo presente; né alcuno può entrar nell'arte loro se prima non fa un convito a tutta la loro brigata, e se pur v'entrasse, lavorando egli non può aver se non la metà del guadagno che ha ciascuno. E sono privilegiati dai signori di non pagar pena di sorte niuna, né gabella, né pure cuocitura di pane ai fornai. E se alcuno commette qualche misfatto degno di morte, non è punito publicamente. Essi quando lavorano vestono di certo abito corto, e tutti d'un colore; ma quando non tocca loro di lavorare vanno vestiti comunque vogliono. Sono nel fine uomini onesti e di buona vita.
Oltre al luogo di questi facchini, è la piazza del capo dei consoli e giudici di tutti i venditori della robba che si mangia. Nel mezzo di detta piazza è un certo serraglio di canne, fatto in quadro, dove si vendono carote e navoni, le quai cose sono quivi in tanto pregio che altri non le possono comperar dagli ortolani fuor che alcuni uomini diputati, i quali pagano certo censo ai doganari. E ogni dí vi si veggono 500 some di carote e di navoni, e alle volte piú, e vendesene infinita quantità. Ma quantunque elle siano nel pregio ch'io dico, nondimeno si sogliono vender per vilissimo prezzo, cioè trenta o almeno venti libbre al baiocco; e la fava fresca alla stagione si vende a buonissimo mercato. D'intorno sono botteghe dove si vendono certi vermicelli, e altre dove si fanno alcune pallotte di carne pesta e fritta in olio con assai quantità di spezie, e ogni pallotta è grossa come un fico comun, e vendesi sei quattrini la libra; ma sono fatte di carne magra di bue.
Oltre a questa piazza è verso tramontana la piazza degli erbolai, i quali vendono cavoli, rape e altre erbe che si mangiano insieme con la carne, e sono circa a quaranta botteghe. V'è poi la piazza del fumo, cioè dove si vendono certi pani fritti in olio, simili a quel pan melato che si vende in Roma. E questi tengono nelle lor botteghe molti strumenti e molti garzoni, percioché lo fanno con molto ordine, e vi si vende ogni giorno gran quantità di detto pane, perché si usa a mangiarlo per digiunare, massimamente i dí delle feste e avanti a quelli del digiuno; e se lo mangiano in compagnia della carne arrosto o con melle, o con certa brutta minestra fatta di carne pesta, la qual doppo cotta pestano un'altra fiata e ne fanno la detta minestra liquida, e la tingono con terra rossa. L'arrosto quivi non si cuoce nello schidione, ma fanno due forni l'uno sopra l'altro e pongono fuoco in quel disotto, e come quel disopra è ben riscaldato vi pongono dentro i castrati interi, per certa buca fatta dal disopra, perché il fuoco non offenda loro la mano. La carne in cotal modo molto bene si cuoce, e diviene colorita, e ha un delicato sapore, percioché non le può giungere il fumo, né ella sente soverchie fiamme, ma si cuoce con temperato calore per lo spazio di tutta la notte. La mattina poi l'incominciano a vendere, e tra carne e quel pane che abbiam detto si vende ciascun giorno per piú di 200 ducati, percioché sono di questi tali quindici botteghe, che altro esercizio tutto dí non fanno. Vendono anco certa carne fritta e pesci fritti, e certa altra sorte di pane sottile e fatto come una lasagna, ma piú grosso, e l'impastano con butiro, e similmente con butiro e mele lo mangiano. Soglionvisi vendere eziandio piedi cotti di bestie. E di cotai cosaccie usano la mattina per tempo cibarsi i lavoratori dei terreni nelle propie botteghe, e poscia vanno a' loro lavori.
Doppo questi sono quelli che vendono olio, butiro salato, mele, cacio vecchio, olive, limoni, carote e cappari conci, e tengono le botteghe fornite di vasi di maiolica, e piú vagliono i fornimenti che la mercatanzia. E vendonsi i vasi di butiro e mele come si fa all'incanto, e quegli che gl'incantano sono certi facchini a ciò deputati, i quali misurano l'olio quando ei si vende in quantità. I detti vasi sono ciascuno di centocinquanta libbre, percioché l'obligo dei vasari è di fargli di sí fatta misura. Gli comperano i pastori della città e gli fanno empiere, e poi quivi gli rivendono. Appresso questi hanno luogo i beccai, che sono circa a quaranta botteghe alte e fatte come sono quelle dell'altre arti, i quali tagliano dentro le carni e le pesano con le bilancie. E nella beccaria non si ammazzano le bestie, ma in un macello che è a canto il fiume, e ivi le scorticano, e fannole portare alle loro botteghe da certi facchini diputati al detto macello; ma prima che ve le facciano recare bisogna loro appresentarle dinanzi al capo dei consuli, il qual le fa vedere e dà a quelli una poliza, nella quale è scritto il prezzo che si ha a vender la carne. E questa poliza è tenuta dal beccaio appresso la carne, acciò che ciascuno la possa vedere e leggere parimente.
Oltre ai beccai è la piazza nella quale si vendono i panni di lana grossi del paese, e sono circa a cento botteghe. E se alcuno porta a vendere qualche panno, bisogna che lo dia a uno incantatore, il quale se lo reca in spalla e va gridando il prezzo di bottega in bottega, e sono gl'incantatori sessanta. Cominciasi a far l'incanto doppo mezzogiorno fino alla sera tardi, e si paga all'incantatore due baiochi per ducato, e i mercatanti di questo esercizio fanno gran faccende. Sono dipoi quegli che puliscono l'armi, come sono spade, pugnali, partigiane e tai cose; e v'ha di coloro che le puliscono e insieme vendono. Poi sono i pescatori, i quali pescano nel fiume della città e in quello di fuori, e vendono per vil prezzo molti buoni e grossi pesci, il che è tre quattrini la libbra. Si suole pigliar gran quantità d'un pesce che in Roma si chiama laccia, e ve ne incominciano a pigliar dal principio d'ottobre per insino all'aprile, come particolarmente si dirà dove ragionaremo dei fiumi. Doppo questi sono quegli che fanno le gabbie per le galline, e fannole di canne. Sonvi quaranta botteghe, percioché ogni cittadino ve ne tiene gran numero per ingrassare, e per cagion di nettezza non le lasciano andar per le stanze, ma tengonle in queste gabbie. Piú oltre sono i saponari: questi vendono il sapone liquido, e sono poche botteghe insieme, perché le sono separate per le contrade. E il detto sapone non si fa nella città ma nei monti vicini, e i montanari e mulattieri ve gli portano e vendongli a' padroni di queste botteghe. Piú oltre sono quegli che vendono la farina, ma di loro eziandio sono poche botteghe insieme, perché ve ne sono per tutte le contrade. Piú oltre sono quelli che vendono il grano e i legumi per seminare: ve ne vendono bene per lo cibo, ma picciola quantità, e niun cittadino vende il suo. In questa piazza sono i portatori del detto grano in gran copia, e hanno muli e cavalli con li bastili. Portano di consueto un ruglio e mezzo su una bestia, ma in tre sacchi l'un sopra l'altro, e sono tenuti a misurar detto grano. Poi sono quelli che vendono la paglia, e sono a circa dieci botteghe.
Poi è la piazza dove si vende il filato e il lino, e dove si pettina detto lino. È questa piazza fatta a modo d'una gran casa, e d'intorno vi sono quattro loggie, in una delle quali siedono i mercatanti delle tele e certi ministri che pesano il detto filato; nell'altre due stanno le donne che vendono esso filato, e ivi se ne truova in gran quantità. Questo ancora si vende per gl'incantatori che a torno lo portano; e si comincia usar questo mercato da mezzogiorno e dura fino al vespro, dove se ne vende in grandissima quantità. Nel mezzo della detta piazza sono piantati molti piè di moro, per ombrarne il luogo. E alle volte uno, che per cagione di sollazzo va a veder detto mercato, a gran fatica può uscir fuori, per la moltitudine delle donne che vi sono, le quali sovente vengono a parole, e da queste alle pugna, dicendosi i maggior vituperi del mondo, di maniera che fanno ridere i circonstanti.
Ora, ritornando alla parte di ponente, cioè di verso il tempio fin alla porta per cui si va a Mecnase, oltre alla piazza del fumo, nella via diritta, sono quei che fanno le secchie di cuoio che s'adoperano nelle case dove sono pozzi, e sono circa a quattordici botteghe. Dipoi sono quelli che fanno cotai cose dove si pone la farina e il grano, e sono circa a trenta botteghe. Dipoi sono i ciabattini e alcuni calzolai, che fanno scarpe cotale alla grossa per li contadini e per lo popolo minuto, e sono circa a centocinquanta botteghe. Dipoi sono quelli che fanno le targhe e gli scudi di cuoio, secondo il costume africano e come se ne vede alcuno nell'Europa. Sono poi i lavandari, che sono alcuni uomini di bassa condizione, i quali tengono botteghe dove sono fitti certi vasi grandi come un tinaccio. E quegli che non hanno fantesche in casa danno le lor camicie, le lenzuola e cotai cose a lavare a' detti uomini, i quali gli lavano molto diligentemente e gli asciugano distesi sopra le funi come si fa in Italia, poi gli piegano con un bel modo, e fannogli venir cotanto puliti e bianchi che appena colui di cui sono gli riconosce; di questi sono circa a venti botteghe, ma fra le contrade e alcune picciole piazze ve ne sono piú di dugento. Dapoi sono quegli che fanno i legni delle selle dei cavalli, e sono molte botteghe dalla parte che guarda verso oriente, dove è il collegio del re Abuhinan. Poi sono quelli che addornano le staffe, gli sproni e i ferri delle briglie, e sono circa a quaranta botteghe; e fanno lavori eccellentissimi, e forse alcuno di voi ve ne ha veduto in Italia o in qualche altro paese di cristiani. Poi sono alcuni fabbri che fanno solamente staffe, briglie e ferri per fornimenti de' cavalli. Poi sono quelli che fanno selle di cuoio, e usano di far tre coperte per sella, l'una sopra l'altra, piú fina quella di mezzo e l'ultima di minor bellezza, e tutte di cordovano. Questi lavori ancora sono eccellenti e mirabili, come se ne può veder per l'Italia; e sono circa a cento botteghe. Poi sono quelli che fanno le lancie, e hanno le lor botteghe lunghe tanto che ve ne possono far di grandissime.
Piú oltre c'è la rocca, la quale ha un bellissimo corridore: e questo da una parte si estende fino alla porta di occidente, dall'altra parte rincontra un grandissimo palazzo, dove alloggia o sorella o parente del re. Ma è da sapere che 'l principio di questa piazza incomincia dal tempio maggiore, e io, per non romper l'ordine delle piazze, ho detto solamente di quelle che sono d'intorno, lasciando ultima la piazza dei mercatanti.


Piazza dei mercatanti.

Questa piazza è a guisa d'una picciola città, la quale ha d'intorno le sue mura, che contengono nel lor giro dodici porte, e ciascuna di queste porte è attraversata da una catena, di modo che non vi possono entrar né cavalli né altre bestie. La piazza è divisa come da quindici contrade. Due sono per li calzolai che fanno le scarpe ai gentiluomini, né ve ne possono portar di quella sorte e bellezza né artigiani, né soldati, né cortigiano alcuno. Altre due sono tenute dai setaiuoli: una parte è di quelli che vendono i cordoni per li cavalli, fiocchi e altri ornamenti, e sono circa a cinquanta botteghe; l'altra è di coloro che vendono la seta tinta, per lavori di camicie, di origlieri e di tai cose, e sono circa altretante botteghe. Appresso questi sono alcuni che fanno certe cintole da donne di lana, e sono grosse e brutte; alcuni altri le fanno di seta, ma sono della medesima bruttezza, percioché esse sono fatte in treccia e grosse quanto due dita di uomo, talmente che potrebbono di leggiero tener legata una barca. Doppo queste sono altre due contrade dove stanno i mercatanti de' panni di lana, cioè di quelli che vengono d'Europa, e sono questi mercatanti tutti granatini; quivi ancora si vendono panni di seta, berrette e sete crude. Piú oltre sono quelli che fanno i materazzi e i guanciali per la state e certi drappetti di cuoio. Appresso è il luogo dei gabellieri, percioché similmente i detti panni si vendono a modo d'incanto, e quei che hanno cura di ciò gli portano prima a sigillare a' detti gabellieri, e poi li vanno incantando fra li detti mercatanti; e sono circa sessanta incantatori, e si paga per ogni panno un baiocco. Piú oltre sono tre contrade dove stanno i sarti, doppo i quali v'è una contrada di alcuni che fanno certe treccie nel capo dei panni che si mettono in testa. Doppo sono due altre contrade, dove hanno luogo i mercatanti delle tele e quelli che vendono camicie e drappi da femine: e questi sono i piú ricchi mercatanti della città, perché fanno essi molte piú faccende che insieme tutti gli altri. Piú oltre v'è un'altra contrada, nella quale si fanno fornimenti e fiocchi di barnussi. Poi v'è una contrada dove si vendono alcune vesti, fatte del panno che vien pur d'Europa: e ogni sera si usa a far l'incanto de' detti panni, cioè quelli che portano i cittadini per vender quando diventano vecchi, over per qualche altro suo bisogno. Ultimamente ve n'è una dove si vendono camicie, tovaglie, sciugatoi e cotai cose vecchie di tela, e appresso questi sono certe loggiette, dove s'incantano i tappeti e le coperte dei letti.


Discorso sopra il nome delle contrade dette Caisaria, denominate dal nome di Cesar.

Sono tutte queste contrade appellate insieme Caisaria, vocabolo antico e dirivato da Caisar, che vuol dir Cesare, che fu il maggior signore che fusse a que' tempi nell'Europa. Percioché tutte le città che sono nella riviera di Mauritania furono signoreggiate da' Romani, e poi da' Gotti, e in tutte v'era una di queste piazze, le quali avevano un tal nome. Rendendo gli istorici africani la cagion di ciò, dicono che i ministri dei Romani e di Gotti tenevano di qua e di là mescolatamente per le città fondachi e magazzini, dove serbavano i tributi e i censi che ricevevano dalle città, i quali molte volte venivano saccheggiati dal popolo. Per il che uno imperadore si pose in animo di far un luogo simile a una picciola città, nel quale si ragunassero tutti i mercatanti di qualche riputazione e tenessinvi le loro merci, e insieme i ministri dell'entrate dei suoi tributi vi serbassero tutto quello che riscotevano, rendendosi certi che, se i cittadini volessero difender e conservar le loro robbe, il medesimo lor converrebbe far di quelle dell'imperio. Percioché non potrebbono essi consentire al sacco, che ciò non passasse al danno loro, come s'è veduto molte volte nell'Italia, che i soldati sono per favor di una parte entrati in una città e, saccheggiando la parte contraria, quando non bastarono loro la facultà dei nimici, spogliarono dipoi le case degli amici.


Speziali e altri artefici.

Vicino alla detta cittadella, dalla parte di tramontana, sono gli speziali, i quali hanno una contrada diritta dove sono circa a centocinquanta botteghe. E la detta contrada si serra da' due lati con due belle porte, e non men forti che larghe, e gli speziali tengono a loro salario guardiani, che la notte vanno discorrendo d'intorno con lanterne, con cani e con arme. E quivi si vendono cosí le cose di speziaria come di medicina, ma essi non sanno fare né sciloppi né cere né lattovari, percioché i medici fanno questi ufficii nelle case loro, poi ne gli mandano alle lor botteghe, tenendovi garzoni i quali le distribuiscono secondo le ricette e gli ordini dei medici. E la maggior parte di queste botteghe sono congiunte insieme con quelle degli speziali, e il piú del volgo non conosce né medico né medicina.
Hanno i detti speziali le botteghe alte e molto ornate, con bellissimi tetti e armai, né in tutto il mondo penso io che si vegga una piazza di speziali somigliante a questa. Egli è vero che in Tauris, città di Persia, ho veduto una grandissima piazza di questi, ma le botteghe sono certi portichi un poco scuri, nondimeno leggiadramente edificate, e i detti portichi sono fatti sopra colonne di marmo. Io lodo molto piú quella di Fez per la commodità del lume, percioché quella di Tauris è alquanto oscura.
Oltra gli speziali sono alcuni che fanno pettini di bosso e d'altro legno, de' quali abbiamo detto. E verso levante, a canto a detti speziali, sono quelli che lavorano gli aghi, e sono circa a cinquanta botteghe. E oltre sono le botteghe dei torniatori, ma poche, perché sono separate e sparse per diverse altre arti. Dipoi sono molti altri farinai, saponari e scopari, che confinano con la piazza del filato; ma sono circa venti, percioché gli altri stanno altrove, come vi si dirà. Fra quelli che vendono il bambagio e li treccoli sono quegli che fanno fornimenti di letti e padiglioni. Doppo sono quegli che vendono uccelli, sí da mangiare come da cantare, ma sono poche botteghe, e quel luogo si dice la piazza degli uccellatori. Ora, nella piú parte di queste botteghe, si vendono funi di canapo e cordicine. Doppo sono quegli che fanno certe pianelle, che portano i gentiluomini quando le strade sono fangose, ma fatte invero molto gentilmente, con lavori, e ben ferrate, e con certe belle coperte di cuoio cucite con seta; e il piú misero gentiluomo non può portarvene che costi lor manco d'un ducato; ve ne sono di quelle che vagliono dieci e venticinque ducati: queste sono fatte communemente di legno di moro e nero e bianco; ve ne sono di noci, di melangole e del legno di giuggiole, e queste due ultime sono piú gentili e piú pulite, ma quelle del moro durano piú. Piú oltre sono quelli che fanno le balestre, e sono alcuni Mori di Spagna; le loro botteghe non passano dieci.
Sono eziandio appresso questi cinquanta altre botteghe di scopari, i quali fanno le scope di certe palme salvatiche, come sono quelle che vengono a Roma di Sicilia. Gli scopari portano queste loro scope per la città in certe grandi sporte, e le vendono per semola, per cenere e per qualche scarpe rotte. La semola si vende ai vaccari, e la cenere a quelli che biancheggiano il filato; i ciabattini sogliono comperare le scarpe rotte. Piú oltre sono quei fabbri che fanno solamente i chiovi. Doppo sono alcuni che fanno vasi di legno grandi come un barile, ma sono fatti a guisa di secchie; fanno ancora le misure del grano, e il consule le giusta pigliando un quattrino di ciascuna. Doppo sono i venditori di lana, e comperano le pelli dai beccai, tenendo garzoni che le lavano e, cavandone la lana, acconciano i cuoi, ma non d'altra sorte che di montoni. I cordovani e le pelli dei buoi s'acconciano piú oltre, percioché questa è un'arte separata. Doppo sono quelli che fanno le sporte, e certi legamenti con che si legano i cavalli ne' piedi, sí come s'usa nell'Africa; e questi confinano con i lavoratori dei rami. Appresso quelli che fanno le misure sono coloro che fanno pettini per lo lino e lana. Piú oltre c'è una lunga piazza di diversi mistieri, tra' quali vi sono alcuni che limano i lavori di ferro, come sono le staffe e gli sproni, percioché i fabbri non sogliono limare. Doppo sono i maestri di lavorar legni, ma certe cose grosse, come i timoni e gli aratri d'arar la terra, le ruote dei molini e gli altri necessarii strumenti. Doppo sono i tintori, i quai tutti hanno le lor botteghe sopra il fiume, e una bellissima fontana dove lavano i lavori di seta. Drieto questi sono quelli che fanno i bastili, dove è una larga piazza nella quale sono piantati alcuni alberi di moro: e cotal piazza nella state è la piú fresca e la piú vaga di tutte l'altre. Doppo sono i maliscalchi, che ferrano i cavalli e l'altre bestie; e piú oltre quelli che firmano alle balestre gli archi d'acciaio. Oltre di questi vi sono quegli che fanno i ferri dai cavalli, doppo i quali sono quelli che lustrano le tele.
E quivi finiscono le piazze d'una parte della città, cioè di quella ch'è dalla parte d'occidente, la qual anticamente fu una città da per sé (come s'è detto di sopra) e fu fabricata doppo l'altra, ch'è dall'altro lato d'oriente.


Seconda parte della città.

Eziandio la città ch'è verso levante è civile, e ha bellissimi palazzi e tempii e collegii e case. Ma non è nel vero cosí copiosa e abbondevole di diverse arti come l'altra, percioché non vi sono né mercatanti né sarti né calzolai, se non di panni e lavori grossi. V'è una picciola piazza di speziali, nella quale non sono piú che trenta botteghe. E verso le mura della città sono quelli che fanno i mattoni, e le fornaci dei scodellai; e piú sotto di questi v'è una piazza grande, dove si vendono i vasi bianchi, cioè senza vetro, come sono catini, scodelle, pentole e tai cose. Piú oltre è un'altra piazza dove sono i granai, ne' quali si ripone il grano; un'altra dirimpetto alla porta del tempio maggiore, che ha tutto il suolo di mattoni, dove sono botteghe di diverse arti e mestieri. E queste sono le piazze ordinate per le dette arti. V'ha poscia quelle che sono disordinate e separate per la città, eccetto i panni e gli speziali, che non si truovano se non in certi luoghi deputati.
Vi sono ancora cinquecento e venti case di tessitori di tele, e dette case sono fatte a guisa di gran palazzi di piú solai, con sale molto capevoli, e per ciascuna sala v'è gran quantità di telari, e i padroni delle dette stanze non tengono instrumento alcuno, ma i maestri sono quegli che tengono gli strumenti, e pagano solamente le pigioni delle stanze. E questa è la maggior arte che sia nella città: dicesi che in essa vi si contengono ventimila uomini, e altretanti sono nell'esercizio di molini. Sono similmente centocinquanta case dei biancheggiatori di filato, ed è la piú parte di queste edificata appresso il fiume, e sono benissimo fornite di caldaie e di vasi murati, per far bollir il filato e per l'altre occorrenzie che vi vanno.
E per la città sono certi grandi alberghi dove si segano i legni di varie sorti, e questo ufficio si fa da alcuni cristiani ischiavi: e dei danari che essi avanzano i loro padroni danno a quelli il vivere, né gli lassano prendere riposo se non la metà del venere, che è dal mezzogiorno insino a sera, e circa a otto giorni sparsi in diversi tempi dell'anno, ne' quali sono le feste dei Mori. Sonvi ancora certi chiassi publici, dove le meretrici attendono per picciolo prezzo, e queste sono favoreggiate o dal barigello o dal governator della città. Sono certi uomini i quali, senza offender la corte, facendo l'ufficio di tabacchino, tengono femine e vino a prezzo nelle lor case, e ciascuno se ne può servir sicuramente.
Sonvi seicento capi di acqua, cioè fonti naturali, i quali sono cinti di muri e di porte che si tengono serrate, perché ciascuno si divide in molte parti e ciascuna ne va sotto terra, passando per canali alle case, ai tempii e ai collegii e all'osterie. E quest'acqua è molto piú in pregio che quella del fiume, percioché alle volte manca, massimamente nella state. A questo s'aggiugne che, volendosi nettare i canali, è di bisogno che 'l corso del fiume si faccia passar di fuori della città; onde tutti si sogliono accommodar dell'acqua dei detti fonti. E se bene i gentiluomini la state hanno nelle case loro acqua del fiume, nondimeno ve ne fanno recar di quella dei fonti, per esser ella e piú fresca e piú dolce; ma nel verno fanno il contrario. E questi fonti sono per la maggior parte dal lato di ponente e di mezzogiorno, percioché la parte che risponde verso tramontana è tutta montagna, che si dimanda tevertino, e ivi sono certe fosse grandi e profonde; nelle quali si serba il grano per molti anni: e tale ve né che piú di dugento moggia ne cape. E gli abitatori di quel luogo, che sono uomini di volgo, vivono dell'utile che essi cavano della pigione delle dette, ch'è un moggio per ogni cento in capo dell'anno.
Nella parte di mezzogiorno, la quale è quasi la metà disabitata, sono molti giardini ripieni di buonissimi e diversi frutti, sí come sono melangoli, limoni, cedri, e altri fiori gentili, fra' quali sono gelsomini, rose damaschine e ginestro, recato quivi di Europa e a' Mori molto caro. E nei detti giardini sono bellissimi alberghi, fontane e conserve, e queste sono cinte da gelsomini, da rose o da melangoli. E nel tempo della primavera l'uomo che s'avicina a questi giardini sente da per tutto uscir un delicatissimo e soavissimo odore, né meno ha poi di pascer gli occhi della bellezza e vaghezza loro, che invero ciascuno di tai giardini assomiglia al paradiso terrestre: onde i gentiluomini vi sogliono abitar dal principio d'aprile per insino al fine di settembre.
Nella parte di occidente, cioè dal lato che confina con la città reale, è la rocca che fu edificata nel tempo dei re di Luntuna, la quale di grandezza si può agguagliare a una città. E questa fu anticamente seggio dei governatori e signori di Fez, cioè avanti che ella fusse città reale, percioché, poscia che dai re della casa di Marin fu la nuova Fez edificata, questa fu lasciata per abitazion solamente del governatore. Nella rocca è un bel tempio, fabricato ne' tempi che ella molto era abitata: a questi dí, i palazzi che v'erano sono stati tutti spianati e del terreno s'è fatto giardini. Ve n'è rimaso uno, dove abita il detto governatore, e altri luoghi per la sua famiglia; e sonvi molti luoghi e seggi, dove esso governatore suole dar audienza ai litigi e far ragione. V'è eziandio una prigione, fatta a somiglianza d'una cantina a volti e sostenuta da molte colonne, la quale è tanto larga e lunga che vi posson capire tremila persone: né v'è separata o secreta stanza alcuna, perché in Fez non s'usa di tenere alcuno in prigione segreta. Per la detta rocca passa un fiume, alle bisogne e a' commodi di questo governatore.


Magistrati e modi di governare e d'amministrar giustizia, e costume di vestire.

Nella città non sono se non alcuni piccioli uffici e magistrati, i quali hanno carico d'amministrar la ragione. V'è il governatore, che è sopra le cause civili e le criminali; un giudice, il quale è preposto a ragion canonica, cioè alle leggi tratte dai libri maumettani; e un altro giudice che è quasi luogotenente del primiero, e attende alle cose del matrimonio e repudio, ed esaminar testimoni, e anco universalmente rende ragione. È poscia l'avvocato al quale si consulta della legge e a cui si fanno l'appellazioni dei giudici, o quando essi s'ingannano, o quando danno la sentenza per autorità di qualche meno eccellente dottore. Il governatore gode gran quantità di danari delle condennagioni che in diversi tempi si fanno; e quasi tutta la somma della giustizia che a un reo si suol dare, è l'esser frustato nella presenza del governatore, e gli si danno cento, dugento e piú scopature. Poi al frustato il boia mette una catena al collo e in tal modo lo conduce per tutta la città, ignudo tutto eccetto le parti vergognose, che gli ricuopre con una braca; e il barigello l'accompagna, gridando sempre il boia e publicando il male ch'egli ha fatto: infine egli è de' suoi panni rivestito e ritornato in prigione. E alle volte aviene che se ne menano molti incatenati insieme. Il governatore ha per qualunque reo un ducato e un quarto, cosí di ciascuno che entra nelle prigioni ha certo censo, il quale gli è dato partitamente da certi mercatanti e artigiani a questo deputati. Ma fra le altre utilità ha un monte, dal quale cava di rendita settemila ducati l'anno. Vero è che egli è obligato di dare trecento uomini a cavallo al re ne' tempi di guerra, i quali, per insino che dura la guerra, sono da lui pagati.
I giudici di ragion canonica né salario né premio hanno, percioché è vietato nella legge di Maumetto che a un giudice, per tale ufficio, si dia pagamento alcuno; ma essi vivono di altri salarii, com'è o di letture o di esser sacerdote di qualche tempio. Similmente sono gli avvocati e procuratori, persone idiote e volgari. Hanno i giudici certo luogo, dove fanno incarcerare i debitori e altri per cose leggieri e di poco momento. E sono nella città quattro barigelli e non piú, i quali fanno le lor cerche dalle ventiquattr'ore per insino alle due di notte, né hanno essi ancora altro salario che certo censo da coloro che prendono, che è della retenzione e di certa piccola pena che è loro applicata. Ma tutti possono far taverne e ufficio di tabacchini e ruffiani. Il governatore della città non tiene né giudice né notaio, ma dà la sentenzia a voce come gli pare.
Né v'è piú che uno che conduca la dogana e la gabella, il quale paga ogni dí alla camera del re trenta ducati, e tiene per ciascuna porta guardiani e notai. E tutte le cose di picciol pregio pagano il suo diritto alla porta; l'altre si conducono a dogana, accompagnate dalla porta a quella da uno de' guardiani, e i guardiani e i notai, secondo la quantità, hanno certo danaro diputato. E alle volte detti guardiani vanno fuori della città per iscontrare i mulattieri, acciò che essi non possino alcuna cosa ascondere, e se alcuna ve ne ascondono, pagano poscia doppia gabella. Il pagamento ordinario sono due ducati per cento, ma delle corniole, che vi se ne portano molte, pagasi il quarto di tutto il prezzo; delle legna, del grano, dei buoi e delle galline niuna cosa si paga. Né alla porta si suol pagar gabella dei castroni che vi conducono, ma al macello due baiocchi per castrone e uno al governatore, ch'è il capo dei consuli, il quale tiene una corte di dodici sbirri e cavalca spesse fiate d'intorno la città per vedere il pane, e prova li pesi dei beccai e le cose che per lei si vendono, e fa pesare il pane, e se non vi truova il debito peso lo fa spezzare in molti pezzi, e dà a colui che lo vende tante pugne sul collo che lo lascia tutto gonfio e pesto. Similmente, se truova il pane piú leggiero, lo fa frustare publicamente per la città. Questo ufficio concede il re a' gentiluomini che gliel dimandano, ma ne' tempi adietro si soleva dar solamente a uomini dotti e di buonissima fama. Al presente i signori lo danno a uomini privati e ignoranti.
Gli abitatori della città, cioè i nobili, sono uomini veramente civili, e vestono il verno di panni di lana forestieri. L'abito è un saione sopra la camicia, con mezze maniche e molto strette, sopra il quale portano alcune robbe larghe e cucite dinanzi, e sopra quelle i loro barnussi. In testa usano semplici berrette, come alcune che si portano in Italia di notte, ma senza orecchie, e sopra quelle pongono certe tele aggroppate con due involgiture sul capo e intorno la barba; né sogliono portar calze né mezze calze, ma o brache o braghese di tela, eccetto il verno che, volendo cavalcar, si calzano i borzacchini. I popolari portano saii e barnussi senza quella robba ho detto di sopra, né in capo portano altro che una di quelle certe berrette di niun prezzo. I dottori e i gentiluomini di qualche età usano di portar certe veste con le maniche larghe, come portano i gentiluomini di Vinegia che tengono piú onorato ufficio. In fine quei che sono di bassa condizione vestono di alcuni panni bianchi di lana grossa del paese, e i barnussi sono della medesima maniera. Le donne vanno assai ben vestite, ma nel tempo caldo portano solamente la camicia, e d'intorno cingono la fronte con alcune cintole piú tosto brutte che no. Il verno usano certe gonne con le maniche larghe, cucite dinanzi come quelle degli uomini; ma quando escono fuori portano braghese lunghe tanto che cuoprono tutte le loro gambe, e un drappo al costume di Soria, che cuopre loro il capo e tutta la persona. Il viso similmente cuoprono con un drappo di tela, in tanto che solamente lasciano scoperti gli occhi. Portano eziandio negli orecchi certe grandi anella d'oro con bellissime gioie, e quelle che non sono di condizione ve ne portano d'argento e senza gioie. Al finir delle braccia portano ancora manili pur d'oro, uno per braccio, i quali manili possono pesar communemente cento ducati; le ignobili se gli fanno d'argento, e di tali anco ve ne portano alle gambe.


Costume tenuto in mangiare.

Circa al mangiare usasi fra il volgo di pigliar carne fresca due dí della settimana; ma i gentiluomini ve ne mangiano ogni dí, secondo l'appetito loro, e usano tre pasti il giorno. Quel della mattina è molto leggiero, percioché mangiano pane e frutti, e certe minestre fatte di farina e di formento, piú tosto liquide che altrimenti. E il verno, in vece di questa minestra, si tolgono farro liquido cotto con carne salata. Nel mezzogiorno mangiano pure cose leggieri, come pane, carne salata e cacio, o olive, ma nella state questo secondo pasto è buonissimo. La notte poi mangiano similmente un pasto che è piú leggiero: questo è pane con melloni o con uva o con latte. Ma il verno mangiano carne lessa, insieme con quella vivanda che è detta cuscusu, la quale si fa di pasta come i coriandoli, e lo cuoceno in certe pignatte forate, per ricevere il fumo d'altre pignatte; dipoi vi mescolano dentro butiro e lo bagnano di brodo. Né usano di mangiare arrosto. E tale è il vivere del volgo, sí come d'artigiani e di alcuni poveri cittadini. Gli uomini di conto, come sono gentiluomini attempati, mercatanti e cortigiani, vivono assai meglio e piú delicatamente.
Ma a comparazione del vivere che si usa fra' nobili nella Europa, il viver degli Africani è veramente misero e vile, non per la poca quantità delle vivande, ma per lo costume rozzo e disordinato che essi tengono nel mangiare, il quale è in terra sopra certe tavole basse, senza mantile o drappo di niuna sorte, e non si adopera altro strumento che le mani. E quando mangiano il cuscusu, tutti i convitati si servono d'un piatto solo, e lo mangiano senza cucchiaio; la minestra e la carne mettono insieme in un catino, e ciascuno piglia quella parte di carne che gli piace e se la reca avanti senza tagliere, e non vi adoperando coltello se la pone a' denti e ve ne squarcia quanto e' può, il rimanente tenendo in mano. E mangiano con molta fretta, né alcun beve, se non quando è molto ben sazio di mangiare: allora ciascuno si bee una tazza d'acqua grande come è un boccale. Questo è l'uso commune; è vero che qualche dottore vive con maggior pulitezza. Ma, per conchiudere, il piú vil gentiluomo d'Italia vive piú suntuosamente che 'l maggior signor d'Africa.


Costume servato nei maritaggi.

Circa a' matrimonii s'osserva una tale usanza, la quale è che, quando alcuno vuol prender moglie, tosto che il padre gli ha promessa la figlia, se colui ha padre, esso raguna e invita gli amici alla chiesa, e seco mena due notai i quali fanno i patti e le condizioni delle doti, essendovi presente il marito e la moglie. E i mediocri cittadini usano di dar trenta ducati in danari contanti, una serva negra di prezzo di quindici ducati, una pezza di certo panno fatto di seta e di lino di diversi colori a forma d'uno iscacchiere, e certi altri pannicelli di seta che si portano in testa. Costumano eziandio di presentare un paio di scarpe benissimo lavorate, e ancora due paia di zoccoli lavorati gentilmente, molti lavori d'argento e molte altre minutezze, come sono pettini, profumi e certi belli ventagli. Poi che sono scritti li patti, e che l'una parte e l'altra è contenta, lo sposo conduce tutti quegli che si sono trovati presenti a desinar seco, e dà loro di quel fritto accompagnato con arrosto e mele che abbiam ditto di sopra.
Fa ancora il padre della sposa il suo convito e v'invita gli amici suoi; e se il detto padre vuole ornar la figliuola di qualche vestimento, lo può far per sua gentilezza, percioché, oltre ai danari che dà al marito, non è tenuto ad altra ispesa: ma gli è ben di vergogna se altro non v'aggiugne. E oggidí, oltre ai trenta ducati che si danno per valor della dote, suole il padre spendere (o chi ha cura di fare il maritaggio) dugento e trecento ducati in fornir la sposa sí di veste come di fornimenti di casa; ma non danno né casa né vigna né possessione. Il consueto è di far tre gonne di panno fino, tre di seta o di taffettà o di raso o di damasco, molte camicie e molte lenzuola lavorate, con certe liste di seta per ciascun lato, capezzali pur lavorati e origlieri. Sogliono dare eziandio otto materazzi: quattro ve ne tengono per ornamento sopra gli armai che sono dai canti delle camere; due ne usano per letto, e questi sono di lana grossa; e due fatti di cuoio tengono pur per ornamento delle dette camere. Danno similmente un tappeto peloso di circa a venti braccia e tre coperte, coperte da una parte di panno e di tela, dall'altra piene di lana: e d'una di quelle vestono il letto, ponendovi una parte disopra e l'altra disotto, percioché le dette coperte sono lunghe poco meno d'otto braccia; dandone, oltre a queste, altre tre di seta con bei lavori da un lato, e dall'altro di tela piene di bambagio. Ve ne danno un'altra bianca piena pur di bambagio, ma leggiera, per valersene la state; un panno picciolo di lana fina e diviso in picciole parti, lavorato a fiamme e ad altra sorte di lavori, e fornito con certi merli di coiame dorati, sopra i quali vi pendono fiocchi di seta di diversi colori, e sopra ogni fiocco v'ha un bottone di seta per attaccare il detto panno sopra a' muri. Questa è la somma di quello che si aggiugne alla dote, e alle volte maggiore, onde molti gentiluomini sovente per tal cagione si sono impoveriti. Alcuni Italiani stimano che in Africa gli uomini usino di dare la dote alle femine, ma essi in vero poco ne sanno.
Quando lo sposo è per menar la moglie a casa, la fa entrar primieramente in un tabernacolo di legno, fatto in otto faccie e coperto di belli panni di seta e anco di broccato, e la portano i facchini sul capo, accompagnata dagli amici e del padre e del marito, con pifferi e molte trombe e tamburi, e torchi in gran numero: e gli amici del marito con i suoi torchi le vanno avanti e quei del padre la seguono, e usano di tenere il cammino per la piazza maggiore, vicino al tempio. Poi che sono giunti alla piazza, lo sposo saluta il padre e i parenti della nuova sposa, e senza aspettare altrimenti lei se ne va alla casa sua e l'attende nella camera. Il padre, il fratello e il zio l'accompagnano insino alla porta della detta camera, e tutti insieme la presentano nelle mani della madre del marito. E tosto ch'ella è entrata in essa camera, il marito pone il suo piè sopra quello della moglie, il che fatto ambi subito vi si serrano dentro. Intanto quei di casa apprestano il convito, e una femina riman fuori dell'uscio, per insino a tanto che egli, avendo svirginata la sposa, porge a colei un drappo tinto e molle di sangue. Allora costei se ne va tra i convitati col drappo in mano, gridando e faccendo intender con alta voce che la giovane era vergine. A questa le parenti del marito danno da mangiare, dipoi ella, accompagnata da altre femine, se ne va a casa della madre della sposa, la quale similmente l'onora e le dà da mangiare. E se per aventura la sposa non fusse trovata vergine, il marito la rende alla madre e al padre, ed è loro grandissima vergogna, senza che gli invitati tutti senza mangiare si dipartono.
I conviti sogliono esser tre: il primo la notte in cui si mena la donna, il secondo la sera poi che s'è menata (e in questa non s'invitano altri che donne); il terzo convito si fa il settimo giorno dapoi che si è menata la sposa, e in questo vi viene il padre, la madre e tutti i parenti della sposa. Il padre costuma quel giorno mandar non piccioli presenti a casa dello sposo, quali sono confetti e castrati interi. E tosto che 'l marito esce di casa, che è in capo di sette giorni, suole egli comperar certa quantità di pesce e lo reca a casa; dipoi fa che la madre o altra femina lo getta sopra e' piedi della noviza: hanno ciò per buono augurio, ed è antica usanza. Soglionsi fare oltr'a questi eziandio due conviti in casa del padre, l'uno il dí avanti nel quale il detto è per mandar la figlia a marito, onde esso, invitando l'amiche, fa che tutta quella notte si festeggia e danza; il dí seguente vengono le donne che sogliono ornar le spose, e le acconciano i capegli, gli tingono le guancie di rosso e le mani e i piedi di nero, con certi belli lavori, ma queste tinture poco durano: e quel giorno si fa il secondo convito, e mettono la sposa sopra un palco, affine che ella venga da tutti veduta; allora si dà mangiare alle dette maestre che hanno ornato la sposa. E quando la moglie è giunta a casa, tutti i cari amici del marito le mandano certi vasi grandi, pieni di pane fritto in olio e di altretanto melato, e anco castroni arrosti pure interi: e lo sposo, invitando molte persone, divide fra quelle i detti presenti. Nelli loro balli, che durano tutta la notte, tengono sonatori e cantori, i quali, alternando insieme il suono e la voce, partoriscono assai piacevole concento. Né danza piú che uno per volta, e come uno ha fornito il suo ballo, si cava di bocca una moneta e gettala sul tappeto dei cantori; e se qualche amico vuol far onore a chi danza, lo fa fermare in ginocchioni e poi pianta tutta la sua faccia di monete, le quali poscia i cantori tolgono subitamente. Le femine danzano separatamente dagli uomini, e hanno ancora elle a' lor balli e cantatrici e sonatrici.
Cotal modo si tiene quando la sposa ne va a marito vergine. Ma se una è stata per adietro maritata, fanno le nozze con minor riputazione, e usasi di dar mangiare carne di bue, castrati e galline lesse; ma vi mescolano diverse minestre, e mettonsi dinanzi a' convitati dodici grandi scodelle in un tondo di legno, e fassi il convito per dieci o dodici persone. E tale è l'usanza de' gentiluomini e dei mercatanti; ma le genti minute usano certe suppe fatte di pan sottile che somigliano lasagne: lo bagnano con brodo di carne tagliata in grosse fruste sopra un vaso grande, nel quale è la suppa, e lo mangiano senza cucchiaio con la mano, e dieci persone sono intorno a un solo vaso.
È costume ancora di far convito quando si circuncide il figlio maschio, che è il settimo giorno doppo nasciuto, nel quale il padre, chiamato il barbiere e invitati gli amici, dà loro una cena. La qual fornita, ciascuno degli invitati fa un presente al detto barbiere, chi d'un ducato, chi di due, chi di mezzo, e chi di piú e chi di meno secondo la qualità di ciascuno. E questi cotai danari, l'uno doppo l'altro, ciascuno pone sopra il viso del fanciullo del barbiere, e il medesimo fanciullo pronunzia il nome di colui e lo ringrazia. Doppo questo il barbiere circuncide il bambino: allora si danza e festeggia nel modo di sopra detto. Ma d'una figlia minore allegrezza si dimostra.


Altri costumi serbati nelle feste, e modo di piagnere i morti.

Rimasero ancora in Fez certi vestigi d'alcune sorti di feste lasciatevi da' cristiani, e fanno certi motti che lor medesimi non gl'intendono. Sogliono la notte del natale di Cristo mangiar una minestra fatta di sette diverse erbe: queste sono cavoli, rape, carote e tai; e cuocono eziandio d'ogni sorte di legumi interi, come sono fave, ceci e grano, e le mangiano quella notte in luogo di delicata confezione. E il primo dí dell'anno sogliono i fanciulli con le maschere al volto andare alle case de' gentiluomini, accattando frutti e cantando certe loro semplicette canzoni. Il dí di san Giovanni fanno per tutte le contrade grandissimi fuochi di paglia. E come un fanciullo incomincia a mettere i denti, i suoi fanno un convito agli altri fanciulli, e chiamano queste cotai feste dentilla, che è propio vocabolo latino. Hanno molte altre usanze e modi di pigliare augurii, che ho veduto osservare in Roma e in altre città d'Italia; ma le feste, le quali sono ordinate e comandate nella legge di Maumetto, potrete vedere nella nostra brieve opera ove di detta legge si tratta.
Le femine, quando avien che muoia o lor marito o padre o madre o fratello, allora si ragunano insieme e, spogliatesi de' loro panni, si rivestono di certi sacchi grossi. Tolgono le brutture delle pignatte e con esse il viso si fregano, e fanno a loro venire quei malvagi uomini che vanno in abito feminile, i quali recano certi tamburi quadri: sonandogli cantano d'improviso mesti e lacrimosi versi in lode del morto, e al fine di ciascun verso le donne gridano ad alta voce, e percuotonsi il petto e le guancie, di maniera che n'esce fuori il sangue in gran copia, e si squarciano similmente i capegli, pur tuttavia forte gridando e piangendo. Questo costume dura sette dí; poi vi mettono in mezzo l'intervallo di quaranta giorni, i quai forniti rinuovano il detto pianto per tre altri continui giorni. E tale è l'uso commune del volgo. I gentiluomini piú onestamente piangono senza battimento niuno; gli amici vengono a confortargli, e tutti i loro stretti parenti mandano lor presenti di cose da mangiare, percioché in casa del morto, fin che v'è il corpo, non s'usa di far cucina, né le femine sogliono accompagnare i morti, quantunque fossero padri o fratelli. Ma come si lavino i corpi e come si sepellischino, quali ufici e cerimonie vi si soglin fare, abbiamo raccontato nell'operina ch'io ho detto disopra.


Colombi.

Sono molti uomini nella città i quali prendono gran diletto di colombi, e ve ne tengono molti, belli e di diversi colori. Il loro albergo è sopra i tetti delle case, in certe gabbie fatte a somiglianza degli armari che usano gli speziali; e gli aprono due volte, la mattina e verso la sera, prendendo piacere infinito di vedergli volare, e chi piú vola è di maggior prezzo. E perché le piú volte i colombi d'uno si mescolano fra quelli d'un altro, sovente costoro guerreggiano insieme e vengono alle mani. Tale ve n'è che, con certa picciola rete in mano accommodata su le cime d'alcune canne lunghe, stando sopra il tetto, quanti colombi passano del suo vicino prende con la detta rete. In mezzo dei carbonari sono sette o otto botteghe dove tali colombi si vendono.


Modo di giuocare.

Fra gli uomini accostumati e gentili altra sorte di giuoco non s'usa che quello degli scacchi, al costume degli antichi; ben hanno giuochi d'altra maniera, ma sono rozzi e usati solamente dal volgo. A certi tempi dell'anno i giovani si raccolgono insieme, e quegli d'una contrada con certi bastoni guerreggiano contra quelli d'un'altra; e alle volte ambedue le parti si riscaldano, per sí fatto modo che ne vengono insieme all'arme e molti se n'amazzano, spezialmente le feste, nelle quali questi giovani si ragunano fuori della città. E poscia che è fornita la mischia vengono al trar de' sassi, che è col fine del giorno, onde il barigello molte volte non gli può dipartir, ma alcuni ve ne piglia e mette in prigione, i quali dipoi sono frustati per la città. La notte molti bravi vanno insieme fuori della detta città portando seco l'arme e, discorrendo per li giardini e per la campagna, se essi s'abbattono con i bravi della contrada nimica, incominciano insieme crudelissima pugna, portandosi sempre tra loro mortalissimo odio; ma spesso ve n'hanno buonissimo gastigo e punizione.


Poeti di lingua volgare.

Sonvi ancora molti poeti, i quali dettano versi volgari in diverse materie, massimamente d'amore: e alcuni descrivono gli amori che essi portano alle donne e altri a' fanciulli, sovente ponendovi il nome del fanciullo che amano, senza alcuna vergogna o rispetto. Questi poeti ogni anno, nella festa della natività di Maumetto, compongono canzone in lode del detto e, raunatisi insieme la mattina per tempo nella piazza del capo dei consuli, ascendono nel suo seggio e ciascuno ordinatamente, l'un doppo l'altro, recita la sua canzona alla presenza di molto popolo: e quello che è giudicato aver meglio e piú vagamente dettata la sua è per quell'anno gridato e tenuto principe dei poeti.
Ma a' tempi degli egregii re della casa di Marin, il re ch'allor si trovava soleva invitar al suo palazzo tutti gli uomini dotti e letterati della città e, faccendo una solenne festa a tutti i poeti degni, voleva che ciascuno recitasse la sua canzona in lode di Maumetto alla presenza sua e di tutti: il che facevano sopra un alto palco, e secondo il giudicio degli uomini intendenti, al piú lodato il re donava cento ducati, un cavallo e una schiava, e il drappo che allora egli si trovava avere in dosso; agli altri tutti faceva dare cinquanta ducati, intanto che tutti da lui si partivano col guidardone. Ma sono circa centotrenta anni che, con la declinazione del regno, questo costume è mancato.


Scuole di lettere per i fanciulli.

Per li fanciulli che vogliono imparar lettere sono circa dugento scuole, le quali hanno forma d'una gran sala, e d'intorno v'ha certi gradi che sono le sedie de' fanciulli. E il maestro insegna loro leggere e scrivere, non in libro veruno ma in certe tavole grandi. La lezione che essi imparano è ciascun giorno una clausula dell'Alcorano, il quale fornito in due o in tre anni l'incominciano da capo, e tante fiate che 'l fanciullo l'impara molto bene e tutto l'ha nella memoria, il che è alla piú lunga in capo di sette anni. Dipoi il detto maestro gl'insegna qualche poco d'ortografia, ma pur questa e la grammatica si legge ordinatamente nei collegi, sí come le altre scienzie. E questi maestri hanno un picciolo salario, ma come uno dei fanciulli è giunto a certe parti dell'Alcorano, è tenuto il padre di fargli non so che presente. E poi ch'il detto ha imparato tutto l'Alcorano, allora fa il suo padre a tutti gli scolari un molto solenne convito, nel quale il figliuolo è vestito a guisa di figliuolo di signore. E prima cavalca sopra un bellissimo cavallo e di gran prezzo, il quale insieme col vestimento è obligato a prestargli il castellano della città reale; gli altri scolari l'accompagnano ancora essi sopra cavalli alla stanza, nella quale entrano cantando molte canzoni in lode di Dio e del profeta Maumetto. Dipoi si fa il convito a' detti fanciulli e insieme a tutti gli amici del padre, ciascuno de' quali dona alcuna cosa al maestro, e 'l fanciullo lo veste di nuovo. Cotale è l'usanza.
Sogliono eziandio questi fanciulli far una festa nella natività di Maumetto, e i lor padri sono astretti di mandare un torchio alla scuola, onde ciascun fanciullo vi reca il suo, e tale ve n'è che lo porta di trenta libbre, e chi di piú e chi di meno, secondo la loro qualità. I detti torchi sono belli, ben fatti e bene adornati, e piantati intorno di molti frutti fatti di cera. I detti torchi ardono dallo spuntar dell'alba per insino al nascer del sole. Il maestro suole menarvi alcuni cantori che cantano le lode di Maumetto e, subito ch'è uscito il sole, la festa è fornita. Questo è il maggiore utile che abbiano i detti maestri, percioché alle volte vendono per cento ducati di cere, e qualche fiata piú, secondo la quantità degli scolari. Né alcuno paga pigione di scuola, percioché esse scuole sono fatte di limosine lasciate per l'anime loro da diverse persone. I frutti e i fiori dei torchi sono i presenti che si fanno a' fanciulli e a' cantori. Ma gli scolari, sí delle scuole come dei collegi, hanno nella settimana due dí di vacanza, ne' quali non si legge né studia.


Di alcuni artigiani e indovini.

Io pretermetterò alcuni artigiani, come sono conciatori di pelle, quali hanno il suo luogo ordinato dove passa un capo d'acqua grosso, sopra il quale vi sono infinite stanze delli detti, e pagano per ogni pelle che acconciano due baiocchi alli doganieri, e si cava di quel dazio da duemila ducati; e dei barbieri e altri, per averne fatto menzione nella primiera parte della città, quantunque essi in tanta quantità non siano come si disse essere in quella.
Vengo a dire d'alcuni indovini, i quali vi sono in gran numero, e si dividono in tre sorti o vogliamo dire qualità. La prima è di certi uomini che indovinano per arte di geomanzia, faccendo loro figure, e pagano tanto per cadauna, come s'usa alle diversità di qualunque persona.
La seconda è d'alcuni altri i quali, mettendo dell'acqua in un catino vetriato, e dentro una goccia di olio in quell'acqua, che diviene lucida e trasparente come uno specchio, dicono di vedere i diavoli a schiere a schiere, i quali assomigliano a uno esercito di molti armati, quando essi vogliono piantare i padiglioni; e che di questi alcuni sono in cammino, chi per acqua e chi per terra: e come l'indovino gli vede acchetati, allora domanda loro di quelle cose delle quali egli ricerca avere informazione, e i demoni gli rispondono con cenni, o di mano o d'occhio. Vedete grossezza di coloro che a questi credono. Alcuna volta pongono il catino nelle mani di qualche fanciullo d'otto o nove anni, e lo dimandano s'egli ha veduto il tale e il tale demonio, e quello, che è semplicetto, risponde che sí: ma non per ciò gli lasciano dire da per loro. E molti pazzi danno a questi tanta fede, che spendono in essi grandissima quantità di danari.
La terza spezie è di femine, le quali fanno credere al volgo ch'elle tengono amicizia con certi demoni di diverse sorti, percioché alcuni si chiamano i demoni rossi, alcuni si dicono i demoni bianchi e altri sono addimandati demoni neri. E quando vogliono indovinare, a richiesta di chi che sia, si profumano con certi odori e allora, sí come dicono, il demonio che esse chiamano entra nella loro persona, onde subito cangiano la voce, fingendo che lo spirito sia quello che parli per la lingua loro. La donna o l'uomo che è venuto per qualche cosa che desidera di sapere dimanda allo spirito ciò che vuole, con gran reverenzia e umiltà, e avuta la risposta lascia un presente per quel demonio e si diparte. Ma gli uomini che hanno con la bontà congiunto il sapere e l'esperienza delle cose chiamano queste femine sahacat, che tanto dinota quanto nella voce latina fricatrices: e nel vero tengono esse questo maledetto costume, il quale è d'usare l'una con l'altra, che per piú onesto vocabolo non posso esprimere. E quando, fra le donne che vanno a loro con desio di sapere alcuna cosa, se ne trova alcuna di belle, elle s'invaghiscono di lei come un giovane s'invaghisce d'una fanciulla, e in forma del demonio le domandano in pagamento i congiungimenti amorosi: e quella, credendo avere a compiacere allo spirito, le piú volte loro consente. Molte ancora sono che, di questo giuoco dilettandosi, desiderano d'esser di lor compagnia, onde, fingendo d'essere inferme, mandano per una di queste; e sovente lo sciocco marito è l'imbasciatore. Elle subito iscuoprono all'indovine il loro disio, le quali dicono poi al marito che alla sua moglie è entrato uno di quei demoni nel corpo e, amando egli la sua sanità, conviene che esso le dia licenza che la detta possa entrar nel numero dell'indovine, e secretamente praticar con esso loro. Il marito bufolo sel crede e, consentendo a ciò, per maggior sua sciocchezza fa un suntuoso convito a tutto l'ordine, nel fine del mangiare danzando ogni una e festeggiando al suono degli strumenti di certi negri; e poscia ve la lascia andare alla buona ventura. Ma alcuno ve n'è che fa uscire gli spiriti di corpo alla moglie col suono di solenni bastonate; altri, fingendo ancora essi d'essere indemoniati, ingannano l'indovine nel modo che esse hanno le loro moglieri ingannate.


Incantatori.

V'è somigliantemente un'altra spezie d'indovini, i quali sono detti i muhazzimin, cioè gli incantatori. Questi sono tenuti potentissimi a liberare uno che sia ispiritato, non per altra cagione se non perché alle volte loro succede l'effetto e, se aviene che non succeda, dicono quel demonio essere infedele, o che è qualche spirito celeste. Il modo dello scongiuro si è che scrivono certi caratteri, e formano circoli sopra un focolare o altra cosa, poi dipingono alcuni segni su la mano o su la fronte dello spiritato, e lo profumano con molti profumi. Quindi fanno l'incantesimo e dimandano allo spirito come esso sia entrato in quel corpo, da qual parte, chi egli è, come ha nome; e infine gli comandano che si diparta.
Ve n'è un'altra spezie d'alcuni, i quali operano per una regola detta zairagia, cioè cabala; ma non cavano le loro operazioni dalla scrittura, percioché questa loro scienzia è tenuta naturale. E veramente costoro sanno dare infallibile risposta delle cose ch'a loro s'addimandano: ma cotal regola è difficilissima, percioché colui che se ne vuol valere è di bisogno ch'egli sia non men perfetto astrologo che abbachista. Ho veduto qualche volta far qualche figura, ch'è durata a farla da la mattina fino alla sera in tempo di state, le quali sono in questa forma. Fanno molti circoli l'uno dentro l'altro: nel primo formano una croce, a' confini della quale notano le quattro parti, cioè levante, ponente, tramontana e mezzogiorno; dentro della detta croce, cioè dove si scontrano i legni di lei, segnano i due poli, e fuori del primo circolo notano i quattro elementi. Dapoi dividono il detto circolo in quattro parti e il seguente circolo dividono pure in altretante, e doppo questo ogni parte in sette patti dividono, e in ciascuna notano alcuni caratteri grandi arabici, che sono ventiotto o ventisette caratteri per ogni elemento. Nell'altro circolo notano i sette pianeti, nell'altro i dodici segni, nell'altro i dodici mesi dell'anno secondo i Latini, nell'altro i ventotto tabernacoli (o diciamo alberghi) della luna, nell'altro i trecentosessantacinque dí dell'anno, e fuori di quello i quattro venti principali. Pigliano poscia solamente una lettera della cosa dimandata, e vanno moltiplicando con tutte le cose numerate, per insino che essi sanno qual numero porta il carattere. Dapoi la dividono in certo modo, dapoi la pongono in alcune parti secondo che 'l carattere è e in quale elemento si sta, in tanto che doppo la multiplicazione, divisione e dimensione, vedono che carattere conviene a quel numero ch'è avanzato. E fanno del trovato carattere come hanno fatto del primo, cosí di mano in mano, fin che fanno nascere ventiotto poste, cioè caratteri. Allora componeno di quella una dizione e dalla dizione componeno una orazione, cioè la risposta di quella dimanda, e vien la detta orazione sempre in un verso misurato in la prima spezie delli versi arabi, che si chiamano ethauil, che è otto stipiti e dodici corde secondo l'arte metrica araba: del che noi abbiamo trattato nell'ultima parte della nostra grammatica araba. Nel detto verso adunque, che nasce dai caratteri sopradetti, esce vera e indubitata risposta, e prima ne nasce la cosa dimandata, dapoi la sentenza di ciò che si dimanda. E questi tali mai non errano, e invero questa loro cabala è un'arte maravigliosa: né io per me viddi mai cosa tenuta naturale che paresse sopranaturale e divina come la detta.
Ho veduto far una figura in un luogo scoperto del collegio del re Abulunan, nella città di Fessa, qual scoperto era saleggiato di marmo fino liscio e bianco, e per ogni quadro era cinquanta braccia; e duoi terzi del detto discoperto furno occupati dalle cose che si dovevan notare della detta figura, e tre persone erano a farla, e cadaun di loro aveva il cargo d'una parte e pur durò a farla tutta una giornata intera. Ne viddi far un'altra in Tunis, per un eccellentissimo maestro, il padre del quale aveva comentata la detta regola in duoi volumi: e gli uomini che fanno queste regole sono singularissimi. In tutta la mia vita ne ho veduto tre, duoi in Fez e uno in Tunis, e ho veduto ancora duoi comenti della detta regola, e un comento fatto dal Margiani, ch'era il padre del maestro ch'io viddi in Tunis, e un altro comento di Ibnu Caldun istorico. E quando alcuno avesse piacer di veder la detta regola con li suoi comenti, non spenderia manco di ducati cinquanta, perché andando in Tunis, ch'è vicino a Italia, trovaria il detto libro. Io ebbi commodità sí di tempo come di maestro, che si offeriva d'insegnarmi senza premio se io voleva imparare questa dottrina; ma a me non piacque per esser ella vietata, per insino dalla legge di Maumetto, quasi come una eresia. La cui scrittura dice che ogni indovinazione è vana, e che solo Dio sa i secreti e le cose future: perciò gl'inquisitori maumettani gli fanno alle volte mettere nelle prigioni, né cessano di perseguitare i seguaci di tal disciplina.


Regole e diversità servate da alcuni nella legge di Maumetto.

Vi sono ancora molti uomini dotti, i quali si danno cognome di sapienti e di filosofi morali, e osservano alcune leggi di piú che non furono comandate da Maumetto. E tali gli hanno per catolici e tali no, ma i volgari gli tengono santi, quantunque eglino vogliono che siano lecite molte cose le quali proibisce la legge maumettana: come, per via d'esempio, è vietato nella legge che non si canti alcuna canzona d'amore per regola di musica, ed essi dicono che ciò si può fare. Sono in essa legge molti ordini e molte regole, delle quali ciascuna ha il suo capo che le difende, e hanno dottori che difendono le dette regole, e hanno molte opere sopra il viver spirituale. Questa setta cominciò ottant'anni dapoi Maumetto, e il primo e piú famoso auttore si chiamò Elhesenibnu Abilhasen, della città di Basra, qual cominciò a dar certe regole a' suoi discepoli, ma non scrisse niente.
Passati poi cent'anni, fu un altro valentissimo uomo in tal materia, nominato Elharit Ibnu Esed, della città di Bagaded, il quale scrisse una bell'opera universalmente a tutti i suoi discepoli. Dipoi questa setta fu dai legisti appresso i pontefici vituperata, e dannati tutti quegli che le regole di costui osservassero. Suscitò la medesima setta d'indi a ottanta anni, e vi fu capo un altro valentissimo uomo, il quale fu seguito da molti discepoli, e predicava la sua dottrina publicamente, di maniera che tutti i legisti, insieme col pontefice, lui e' suoi seguaci alla morte dannarono e determinarono che a ciascuno fosse tagliata la testa. Il che inteso da questo capo, egli di subito scrisse una lettera ai pontefici, pregandogli che gli concedessero grazia di poter disputar coi legisti e, se essi lo vincessero, che egli volentieri morrebbe; ma se egli dimostrasse a quelli la sua dottrina esser della loro migliore, non era onesto che tanti poveri innocenti per falsa calunnia dovessero perire. Al pontefice parve la dimanda giusta, e gli concedette la grazia. Venuto adunque l'uomo dotto alla disputa, con molta facilità superò tutti i legisti, a tanto che il pontefice lagrimando si convertí, chiamato alla setta del medesimo, e sempre, mentre ei visse, la favoreggiò, faccendo fabricar monasteri e collegi per li seguitatori di lei.
Durò questa setta altri cento anni, insino a tanto che venne d'Asia Maggiore Malicsach imperadore, della stirpe e origine de' Turchi, il quale perseguitò la detta setta. E alcuni si fuggirono al Cairo, alcuni alla Arabia, e rimasero venti anni iscacciati, che fu insino che regnò Caselsah, nipote di Malicsach. Il cui consigliere, il quale era uomo di grande spirito, chiamato Nidam Elmule, essendo di questa setta, la ritornò in piè e la sollevò e piantò per sí fatta maniera che, per opera d'un dottissimo uomo detto Elgazzuli, il quale ne compose un nobile volume diviso in sette libri, pacificò insieme i legisti con i seguaci di questa setta. A tale che i legisti ebbero titolo di dottori e di conservatori della legge del profeta, e questi s'addimandarono intenditori e riformatori di essa legge. Questa unizione durò insino che Bagded fu rovinata da' Tartari, il che fu negli anni secentocinquantasei, di legira. Ma pure la divisione non le nocque, percioché già tutta l'Africa e l'Asia era piena de suoi discepoli.
A que' tempi non soleva entrare in tal setta se non uomini dotti in ogni facultà, e sopra tutto intendentissimi della scrittura, per poter molto ben difenderla e confutare la parte contraria. Ora da cento anni in qua ogni ignorante vi vuole entrare, e dicono che non bisogna dottrina, percioché lo spirito sancto a quei che hanno il cuor mondo apre la cognizion della verità, e adducano in lor favore alcune altre deboli ragioni. Di qui, lasciando i comandamenti sí soverchi come necessarii della regola da parte, non serbano altri ufici di quello che faccino i legisti: ma bene si pigliano tutti i piaceri che tengono leciti nella regola, percioché fanno spessi conviti, cantano amorose canzoni e danzano lungamente, alle volte alcuno d'essi squarciandosi il vestimento, secondo il proposito dei versi che cantano e secondo la fantasia che gli dà el cervello di questi uomini discostumati. Dicono che allora sono riscaldati dalle fiamme dello amore divino: e io penso che 'l siano riscaldati dalla soverchia copia dei cibi, percioché ognuno di questi piglia quel cibo che sarebbe a tre uomini di soverchio. O, quello che piú vero mi pare, fanno questi gridi molte volte accompagnati da pianti per l'amore che essi portano a certi sbarbati giovani, percioché non rade volte aviene che qualche gentiluomo invita alle sue nozze uno di questi principali e maestri con tutti li suoi discepoli, i quali, nell'entrar del convito, dicono orazioni e canzoni divine; e come è fornita la cena, incominciano i maggiori d'età a isquarciarsi le gonne, e nel danzare, s'alcuno degli attempati cade, subito è raccolto e dirizzato in piè da uno dei giovanetti discepoli, il quale le piú volte lascivamente bacia. Per tal cagione è nato un proverbio, che in Fez è in bocca di ciascuno, cioè il convito de' romiti: e dinota che, fornito il convito, ogniuno di que' fanciulli diventa sposa del suo maestro, percioché costoro non possono prender moglie e sono chiamati i romiti.


Diverse altre regole e sette, e superstiziosa credulità di molti.

Fra queste sette sono alcune regole istimate eretiche appresso l'una e l'altra sorte di dottori, percioché non solo sono differenti dall'altre nella legge, né eziandio nella fede. Sono invero alcuni, i quali hanno ferma oppenione che l'uomo, per le sue buone opere, per li digiuni e per l'astinenze, possa acquistare una natura angelica: percioché dicono ch'egli purifica l'intelletto e il cuore, di maniera che non può peccare ancora ch'egli volesse. Ma fa di bisogno ch'ei primieramente passi per cinquanta gradi di disciplina: e benché esso pecchi avanti che abbia passati i cinquanta, Iddio piú non gli ascrive il peccato. E questi invero fanno strani e inestimabili digiuni ne' principii; dipoi pigliano tutti i piaceri del mondo. Hanno eziandio una stretta regola, fatta da uno eloquente e dotto uomo in quattro volumi, il cui nome fu Essehrauar de Sehrauard, città in Corasan.
V'è un altro auttore, detto Ibnul Farid, il quale recò tutta la sua dottrina in versi molto leggiadri; ma i detti versi sono tutti pieni d'allegorie, né pare che d'altra cosa trattino che d'amore. Perciò uno, detto Elfargani, comentò la detta opera, e trasse di lei la regola e i gradi che si debbono passare. Fu questo poeta di tanta eleganza, ch'altro i seguaci di queste sette non usano di cantare ne' lor conviti che i versi suoi, percioché da trecento anni in qua non fu mai una lingua piú culta di quella serbata di lui. Tengono costoro che le sfere e il fermamento, gli elementi, i pianeti e tutte le stelle siano un dio, e che niuna fede né legge possa essere in errore, percioché tutti gli uomini nel loro animo si pensano d'adorar quello che merita d'essere adorato. E credono che la scienza di Dio si contenga in un uomo, che è detto elcotb, eletto e partecipe di Dio, e in quanto al sapere come Dio. Ce ne sono quaranta altri uomini appresso loro, i quali sono appellati elauted, cioè li tronchi, percioché essi sono di minor grado e di minor scienza. Quando muore lo elcotb, da questi quaranta un altro se ne crea, e questo si sortisce dal numero di settanta. Ve ne sono altri settecentosessantacinque, de' quai non mi ricorda il titolo; ma morendo uno dei settanta, un altro vi se ne aggiunge di tale numero.
Vuole la lor legge che essi vadino scognosciuti per lo mondo, o a guisa di pazzi o di gran peccatori o del piú vile uomo che sia. Sotto adunque di cotale ombra, molti barri e scelerati uomini vanno discorrendo per l'Africa ignudi, dimostrando le loro vergogne, e sono cotanti sfrenati e senza rispetto niuno che, come fanno le bestie, alle volte nel mezzo delle publiche piazze usano con le femine: e nondimeno dal volgo sono tenuti santi. Di questa canaglia ve n'è gran quantità in Tunis, ma molto piú in Egitto e massimamente nel Cairo. E io nel detto Cairo, nella piazza detta Bain Elcasrain, viddi con gli occhi proprii un di loro pigliar una bellissima giovane, ch'usciva pur allora della stufa, e coricarla nel mezzo della piazza e carnalmente conoscerla. E tosto che egli lasciò la donna, tutti correvano a toccarle i panni, come a cosa divota e tocca da santo uomo, e dicevan fra loro che questo santo uomo fingeva di far il peccato, ma che non lo fece. Il che inteso dal marito, l'ebbe egli per una rara grazia, e benediceva Dio faccendo conviti e feste solenni, con dar elemosine per cosí fatta grazia. I giudici e i dotti della legge volevano a tutte le vie castigar quel ribaldo, ma furno a pericolo d'essere uccisi dal popolo, perché, come io ho detto, ciascun di questi tali è in gran venerazione appresso il volgo e ne ha tutto dí doni e presenti inestimabili, e ho visto piú cose particolari ch'io mi vergogno a narrarle.


Caballisti e altre sette.

V'è un'altra regola d'alcuni che si possono addimandar caballisti, i quai stranamente digiunano, né mangiano carne d'animale alcuno, ma hanno certi cibi e abiti ordinati e diputati per ciascuna ora di dí e di notte, e certe particolari orazioni secondo i giorni e i mesi, traendo le dette orazioni per via di numeri; e usano di portare nella loro persona alcuni quadretti dipinti, con caratteri e numeri intagliati per entro. Appresso dicono che gli spiriti buoni loro appariscono, e con essi parlano, e lor danno universal notizia delle cose del mondo. Fu di questi uno eccellentissimo dottore detto il Boni, il quale compose la lor regola e orazioni, come si fan detti quadretti; e io ho veduto l'opera, e parmi che piú tosto questa scienza tenga forma di magica che di cabala. L'opere piú famose sono circa otto: l'una è detta Ellumha Ennoramita, cioè dimostramento di lume, e in questa sono ordinate le orazioni e i digiuni; l'altra si dice Semsul Meharif, cioè il sole delle scienze, in cui si contiene il modo di fare i quadretti e dimostra l'utile che se ne trae; la terza è intitulata Sirru Lasmei Elchusne, cioè la virtú che tengono i novantanove nomi di Dio, e questa io vidi in Roma in mano d'uno ebreo veneziano. V'è un'altra regola in queste sette, che è detta la regola di suuach, cioè di certi romiti i quali vivono in boschi e luoghi solitari, né d'altro si pascono che d'erbe e di frutti salvatichi; e niuno è che possa particolarmente intender la vita loro, percioché fuggono ogni umana domestichezza.
Ma troppo mi discosterei dal proposito dell'opera, se minutamente vi volessi seguire di tutte le diverse sette maumettane. Chi piú ne desidera di vedere, legga un'opera di uno che si chiama Elacfani, che diffusamente tratta di diverse sette che procedano dalla fede macomettana, le quali sono settantadue principali; e ciascun tiene che la sua sia la buona e la vera, nella quale si possa l'uomo salvare. È vero che a questa età altre quasi che due non se ne truovano: l'una è quella di Leshari, che si estende per tutta Africa, Egitto, Soria e Arabia e tutta la Turchia; e l'altra dell'Imamia, che per tutta Persia si truova e in qualche città di Corasan. Questa tiene il Sofi re di Persi, e per tal setta quasi tutta l'Asia è distrutta, percioché avanti tenevano la detta setta del Leshari; il detto re piú volte ha voluto che per forza d'arme si tenga la sua. Egli è vero che communemente quasi una sola setta abbraccia tutto il dominio de' maumettani.


Investigatori di tesori.

In Fez sono pure alcuni uomini che si dicono elcanesin, i quali attendono a cercar tesori, che essi credono che siano sepolti nelle fondamenta delle antiche ruine. Va questa sciocca gente fuori della città ed entra in molte grotte e cave per trovar detti tesori, avendo per verissima opinione che, quando a' Romani fu levato l'imperio dell'Africa, e che essi fuggirono verso la Betica di Spagna, sotterrassero in quel d'intorno molte preciose e care cose, le quali non poterono portar seco, e quelle incantarono; e per questa causa cercano d'aver incantatori di detti tesori. Né mancano di quegli che dicono nella cotal cava aver veduto oro, e altri argento, ma che non gli hanno potuti cavare per non aver gl'incanti e li profumi appropriati; e con questa loro vana credenza cavando la terra, guastano sovente gli edifici e le sepolture, e si conducono talvolta dieci e dodici giornate lontani da Fez. E la cosa è ita tanto avanti che, avendo eglino libri i quali fanno menzione d'alcuni monti e luoghi dove sono ascosi molti tesori, gli serbono per oracoli. E prima che io mi partissi di Fez, essi sopra questa lor pazzia crearono un consule e, dimandando licenza ai padroni dei luoghi, come avevano cavato quanto volevano gli ristoravano d'ogni lor danno.


Alchimisti.

Né pensate che vi manchino gli alchimisti, anzi ve ne sono in molta copia di quegli che studiano in quella folle vanità, e sono pure i piú lordi uomini e quelli che piú puzzano del mondo, per il solfore e altri odori tristi. E la sera quasi per ordinario si riducono insieme molti di loro nel tempio maggiore, e disputano di queste loro false imaginazioni. E hanno molte opere in la detta arte, composte per uomini eloquenti: e la prima è intitulata di Geber, che fu anni cento dapoi Macometto, qual vien detto che fu greco rinegato, e l'opera sua e tutte le ricette sono scritte per allegoria. V'è ancora un altro autore che ha fatto un'altra opera grande, chiamato Attogrehi, che fu secretario del soldan di Bagadet, come abbiamo descritto nella vita de' filosofi arabi. E un'altra composta in cantiche, dico tutti gli articoli di quest'arte, e il maestro si chiamava Mugairibi, che fu di Granata: e fu comentata da un mamalucco di Damasco, uomo dottissimo di tal arte, ma il comento è piú difficile ad intender che non è il testo. Questi archimisti sono di due sorti: alcuni vanno cercando lo elisir, cioè la materia che tigne ogni metallo e vena; e altri si danno a investigar la moltiplicazion della quantità de' metalli, per via di mescolar l'un con l'altro. Ma io ho veduto che 'l fine di costoro le piú volte è il condursi a falsificar monete, onde la piú parte in Fez si dimostrano senzamano.


Ciurmatori e incantatori di biscie.

Sono finalmente in questa città molta copia di quella disutil canaglia che in Italia ha cognome di ciurmatori. E cantano questi cotai uomini di niun prezzo per le piazze romanze, canzone e tai sciocchezze, sonando certi loro tamburi, viole, arpe e altri strumenti, e vendono all'ignorante turba certi motti e brevi che, come essi dicono, sono contra a diversi mali. A questi s'aggiunge un'altra sorte di vilissimi uomini, i quali sono tutti d'una famiglia e vanno per la città faccendo danzar le simie, e portando d'intorno al collo e nelle mani molte biscie. Fanno ancora alcune figure di geomanzia, e predicono la ventura alle donne. Appresso menano con esso loro alcuni, come si dice in Italia, stalloni, e fanno a prezzo ingravidar le cavalle di chi vuole.
Ora io potrei seguir d'alcune altre particolarità circa agli uomini della città: ma basta dire ch'essi sono per la maggior parte ispiacevoli e poco amano i forestieri, benché non ve n'è molto numero di detti forestieri, perché la città è discosta dal mare cento miglia, e da esso mare a lei sono vie aspre e disagevoli molto per forestieri. Dirò ancora i signori esser superbissimi, in tanto che pochi praticano con loro; il simile fanno li dottori e giudici, che per reputazione non vogliono praticare se non con pochi. Nondimeno la conclusione è la città esser bella, commoda e bene ordinata. E come che al tempo del verno vi sia gran fango, di maniera che fa di mestiero di camminar per le strade con certi zoccoli ch'essi usano, tuttavia danno certi esiti a canali, in modo che i detti ne lavano tutte le contrade. E dove non sono canali fanno raccorre il fango e, caricandolo sopra le bestie, lo fanno gettar nel fiume.


Borghi che sono fuori della città.

Fuori della città, dal canto di ponente, è un borgo che fa circa a cinquecento fuochi; ma tutte le case sono brutte, nelle quali abitano genti vili, come sono quegli che guidano i cameli e che portano l'acque e tagliano le legne nell'oste del re. Nondimeno è questo borgo fornito di molte botteghe e d'ogni spezie d'artigiani. V'abitano anco tutti i ciurmatori e sonatori di poca stima; di meretrici v'è altresí gran numero, ma sono brutte e vili. Nella strada maestra del borgo sono molte fosse cavate per forza di scalpelli di ferro, per esser il luogo di pietra tevertina, nelle quali si soleva tener il grano de' signori, ché non abitavan allora in detto borgo se non li guardiani de' grani; ma, dapoi che cominciorono le guerre e che li grani eran tolti, furono fatti li granari in la città di Fessa nuova, e quelli ch'eran di fuori furono abbandonati. Ma dette fosse sono mirabili di grandezza, che la piú piccola tiene mille ruggi di grano, e sono cento e cinquanta fosse, al presente tutte scoperte; e molti alcune volte all'improviso vi cascano dentro, e per questo v'hanno fatto certi muretti intorno delle bocche di quelle. Il castellano di Fez, quando avviene che egli faccia qualche segreta giustizia, fa gettare i corpi de' rei nelle dette fosse, perché è una porticella secreta nella rocca che a quei luoghi risponde. Quivi è il giuoco de' barri, ma non vi si giuoca se non a dadi. Quivi ciascuno può vender vino, far la taverna e publicamente tener meretrici: onde si può dire che il detto borgo sia il ricetto di tutta la sentina della città. E poi che sono passate le venti ore, in tutte le botteghe un solo non si vede, perché ciascuno si dà ai balli, ai giuochi, alle lussurie e alle imbriacaggini.
V'è un altro borgo della detta città dove abitano gli infermi di lepra, il quale fa circa a dugento case. E questi infermi hanno il lor priore e capo, che raccoglie l'entrate di molte possessioni donate loro per l'amor di Dio da gentiluomini e altri, e sono serviti di maniera che di niuna cosa hanno bisogno. E questi priori hanno cura di tener la città netta di cotali infermi, e anco autorità, come cognoscono alcun che sia ammalato di tal male, di farlo menar fuori della città e farlo abitar in detto borgo; e se alcun muore senza erede, l'una metà del suo avere compartono alla comunità del borgo, l'altra è di colui che dà l'indizio di ciò; e se 'l leproso avesse figliuoli, la roba è de' figliuoli. È da sapere che nel numero di tai infermi leprosi s'includono ancora quei che hanno alcune macchie bianche sul corpo e altre incurabili infermità.
Oltre a questo borgo un altro, ve n'è, dove abitano molti mulattieri, pignattari, muratori e legnaiuoli; il borgo è picciolo e fa circa a centocinquanta fuochi. Ancora su la via verso ponente è un altro borgo grande, il quale fa circa a quattrocento fuochi; ma pur è di tristi casamenti e abitato da poveri uomini e villani, che o non possono o non vogliono star nel contado. Vicino al detto borgo è una gran campagna, la quale s'estende dal borgo fin al fiume, che è circa a due miglia, e si dirizza verso ponente circa a tre. In questa campagna si fa il mercato ogni giovedí, e vi si raguna gran quantità d'uomini con li loro bestiami, e i botteghieri portano le loro robe di fuori, e ciascuno tende il suo padiglione. V'è un costume che una piccola brigata di gentiluomini si riduce insieme, i quali fanno ammazzare un castrato al beccaio e spartono tra loro tutta quella carne, e danno per pagamento a colui la testa e i piedi, e la pelle vendono alli mercatanti di lana. Delle robe che in questo mercato si vendono poca gabella si paga, la quale sarebbe soverchio a dire. Questo non voglio tacere, me non aver veduto né in tutta l'Africa né in Asia né in Italia mercato dove si truovino tante persone e tante robe, che nel vero è una cosa inestimabile.
Sono ancora fuori della città certe rupi altissime, le quali cingono una fossa larga due miglia; e su le dette rupi tagliano le pietre con che si fa la calcina. Per tutta la fossa sono molte fornaci, dove si cuoce essa calcina; e queste fornaci sono grandi, di modo che tale ve né che vi capiranno seimila moggia di calcina. Questo uficio fanno fare i gentiluomini ricchi, ma di piccola nobiltà. Dalla parte di ponente, pur fuori della città, sono circa cento capanne fabricate su la riviera del fiume: queste sono tenute da quegli che fanno biancheggiare le tele. Il che è in tal guisa: ciascuno ogni anno ne' tempi buoni bagna le sue tele e le stende in un prato vicino alla sua capanna; e come costoro le veggono asciutte, con certe secchie di cuoio, che hanno cotai manichi di legno, pigliano l'acqua del fiume o di certi canaletti e la spargono su le dette tele; e venuta la sera, ciascuno raccoglie le sue tele e se le porta a casa, o a certi luoghi a ciò deputati. E i prati dove si stendono le dette tele serbano per tutto l'anno le sue erbe fresche e verdi; e di lontano è un bello spettacolo all'occhio il veder sopra il verde la candidezza di quelle tele. E l'acqua del detto fiume, che è molto chiara, pare da lontano che l'abbia colore di azurro: per il che molti poeti parimente in lode di ciò compongono elegantissimi versi.


Sepolture comuni fuori della città.

V'ha d'intorno molti campi dove si sepelliscono i corpi morti, i quali per amor di Dio sono da' gentiluomini donati a comune sepoltura. Pongono sopra il corpo, cioè sul terreno, un sasso fatto a modo di triangolo, ma è lungo e sottile. Agli uomini notabili e di qualche riputazione sogliono metter da capo una tavola di marmo, e una da piedi, ne' quali vi sono intagliati versi a consolazione di cosí duro e amaro passo; e piú a basso v'è il nome, la casata di ciascuno e parimente il giorno e l'anno che moritte. E io posi molta cura in raccoglier tutti gli epitaffi che io viddi, non solamente in Fez ma in tutta la Barberia: e questi ho ridotti in un piccolo volume, del quale feci dono al fratello del re che vive oggidí, quando morí il loro padre re vecchio. Infra quei versi sono alcuni atti a dare buon animo e consolazione della morte, e alcuni accrescono piú maninconia e tristezza: ma bisogna aver pazienzia o per l'uno o per l'altro.


Sepolture di re.

Fuori della città è similmente un palazzo verso tramontana, sopra un alto colle, nel quale molte sepolture si veggono d'alcuni re della casa di Marin, e sono fatte con bellissimi ornamenti e pietre di marmo, con epitaffi di lettere intagliate nel marmo, e adorne con finissimi colori, di maniera che empiono gli occhi di maraviglia di chi le mira.


Giardini e orti.

Dalla parte cosí di tramontana e di levante come eziandio di mezzogiorno, vi sono moltissimi giardini ripieni d'ogni maniera di frutti; e gli alberi sono grossi e alti, e per entro i giardini passano alcuni piccoli rami del fiume. Ma, per la stessa quantità dei detti alberi, paiono questi giardini boschi, né s'usa coltivare il terreno; è vero che il maggio l'adacquano tutto, e per tal cagione gran copia vi nasce di frutti, e tutti sono di perfetta bontà, eccetto le persiche, le quali non hanno molto buon sapore. E stimasi che alle stagioni si vendono di detti frutti ogni dí cinquecento some, trattone fuori l'uve, ch'io non pongo in questo numero. E tutte le dette some vanno a un luogo della città dove pagano certa gabella, e quivi si vendono all'incanto in presenza de' fruttaruoli. E in quella medesima piazza si vendono ischiavi neri, e ivi si paga la gabella di quelli.
Ancora verso ponente è un terreno largo circa a quindici miglia e lungo circa a trenta, il quale è tutto ripieno di fontane e di fiumicelli, ed è del tempio maggiore. Questo luogo è tenuto a pigione dagli ortolani, i quali vi seminano gran quantità di lino, melloni, zucche, cetriuoli, carote, navoni, radicchi, cavoli cappucci e tai erbe. In modo che si crede ch'al tempo della state se ne cavi quindicimila some di frutti e altretante l'inverno. È vero che l'aere d'intorno è cattivo, e la piú parte degli abitatori ha il viso di color giallo: patiscono spesse febbri, e gran quantità ve ne muore


Fez città nuova.

La nuova città di Fez è tutta cinta di due bellissime, altissime e fortissime mura; e fu edificata in una bellissima pianura appresso il fiume, discosto dalla vecchia circa a un miglio nella parte di ponente, e quasi verso mezzogiorno. Fra le due mura passa ed entra una parte del fiume, cioè dal lato di tramontana, dove sono i suoi mulini, e l'altra parte del detto fiume si divide in due: l'una ne va fra Fez nuova e la vecchia a canto la rocca, e l'altra passa oltre per certe valli e giardini vicini alla vecchia, per insin ch'ella entra in lei di verso mezzogiorno; quell'altra parte se n'entra alla rocca e passa per lo collegio del re Abuhenan.
Questa città fece edificar Giacob figliuolo di Abdulach, primo re della casa di Marin, il quale acquistò il regno di Marocco e discacciò i suoi re. E nel tempo ch'egli era in guerra con i re di Marocco, allora il re di Telemsin gli dava grande impaccio, compiacendo ai re di Marocco e per non lasciar crescere la casa di Marino. Ora, come questo Giacob ebbe spedita la guerra di Marocco, gli venne fantasia di far vendetta contra il re di Telemsin, con il quale volendo far guerra, s'avvidde che il luogo dove furon le fortezze di quel regno eran molto discosto da Telemsin. Per il che deliberò che si facesse la detta città, e quivi tramutar il reale seggio di Marocco; e cosí fece, chiamandola Città Bianca: ma il volgo dipoi la dimandò Fez nuova. Fecela quel re dividere in tre parti, l'una separata dall'altra. In una parte diè luogo al palazzo reale e ad altri palazzi per li suoi figliuoli e pei fratelli, e volle che tutti avessero i suoi giardini; e appresso il suo palazzo fece edificare un bellissimo tempio, molto adorno e con maraviglioso ordine. Nella seconda parte fece far grandissime stalle per li cavalli cavalcati dalla sua persona, e molti palazzi per li suoi capitani e uomini piú eletti della sua corte. Dalla porta dal lato di ponente fino alla porta che guarda verso levante fu ordinata e fatta la piazza della città, il cui tratto per lunghezza è poco meno d'un miglio e mezzo; e per entro sono le botteghe de' mercatanti e artigiani d'ogni sorte. Appresso la porta di ponente, cioè al muro secondo, fece fare una grandissima loggia con molte altre loggiette, dove avesse a stare di continuo il custode della città con i suoi soldati e ministri. Appresso a queste volle che fosser fatte due bellissime stalle, nelle quali potessero stare agiatamente trecento cavalli deputati alla guardia del suo palazzo. La terza parte della città fu assegnata per gli alberghi della guardia della persona del re, che allora erano certi uomini di levante, le cui arme erano gli archi, percioché allora in que' paesi non era passato l'uso delle balestre; ai quali uomini il re dava buona provisione.
Ora per la detta piazza sono molti tempii e stufe bellissime, e fatti con grandi spese. E appresso il palazzo del re è il luogo dove si batte la moneta, che è detto la zecca, la quale è fatta in forma d'una piazza quadra, e d'intorno vi sono alcune loggiette, nelle quali sono le case de' maestri. Nel mezzo è un'altra loggia dove siede il signor della zecca con li suoi notai e scrivani, percioché detta zecca, come in altri luoghi, è un officio che si fa pel re, e l'utile è suo. Vicino alla zecca v'è un'altra piazza, nella quale sono le botteghe degli orefici, il lor consule, e quello che tiene il sigillo e la forma delle monete. Né in Fez si può fare anello o altro lavoro d'argento o d'oro se prima il metallo non è suggellato, se non con molta perdita di colui che lo volesse vendere; ma essendo suggellato si paga il prezzo consueto, e si può spendere come si fanno le monete. E la maggior parte di questi orefici sono giudei, i quali fanno i lavori in Fez nuova e gli portano a vender nella vecchia a una piazza loro assegnata, la quale è appresso gli speziali. Percioché nella vecchia Fez non si può batter né oro né argento, né alcun maumettano può usar l'arte dell'orefice, perché essi dicono essere usura a vender le cose fatte o d'argento o d'oro per maggior prezzo di quello che le pesano. Ma i signori danno libertà a' giudei di farlo; pure ve ne sono alcuni pochi che fanno lavori solamente per li cittadini, né altro guadagnano che la fattura. E quella parte dove anticamente abitava la guardia degli arcieri oggi è tenuta da' giudei, perché i re moderni non tengono piú quella guardia, i quali prima abitavano nella città vecchia. Ma ciascuna volta che ne seguiva la morte d'un re i mori gli saccheggiavano, e fu di mestiere che 'l re Abusahid gli facesse tramutar dalla città vecchia alla nuova, raddopiando loro il tributo, dove oggidí dimorano, che è in una molto longa e molto larga piazza, nella quale hanno le lor botteghe e case e sinagoghe. E questo popolo è tanto accresciuto che non si può truovare il numero, massimamente doppo che i giudei furono scacciati dal re di Spagna. Essi sono in disprezzo appresso ciascuno, né alcun di loro può portare scarpe, ma usano certe pianelle fatte di giunchi marini, e in capo alcuni dolopani neri; e quelli che vogliono portar berretta, conviene che portino insieme un panno rosso attaccato alla berretta. Il loro tributo è di pagare al re di Fez quattrocento ducati il mese.
In fine la detta città fu, nello spazio di cento e quaranta anni, fornita di forte mura e di palazzi, tempii e collegii, e di tutti quelli ornamenti che può avere una città. E credo che maggior fusse la somma di quello che fu speso nei detti ornamenti, che non fu nelle mura che la cingono. Fuori di lei sopra il fiume furono fatte certe ruote molto grandi, le quali levano l'acqua dal fiume e la mandano sopra le mura della città, dove sono fatti certi canaletti che la conducono ai palazzi, ai giardini e ai tempii. E queste ruote son fatte a' nostri tempi, cioè da cento anni in qua, percioché per adrieto l'acqua veniva alla città per un canale, cioè acquedutto, che usciva d'una fontana discosta dalla città dieci miglia, lo qual canale è fatto sopra certi archi molto ben formati. E dicesi che 'l detto canale fu invenzione d'un maestro genovese, a que' tempi molto favorito mercatante del re. E le ruote fece un Spagnuolo, le quali sono veramente cosa mirabile, massimamente che in tanto furor d'acqua non si rivolgono piú che vintiquattro volte fra il dí e la notte. Restami a dire che in questa città non abitano molti nobili, trattone il parentado de' signori e qualche cortigiano; il rimanente è di persone ignobili e poste a vili ufici, percioché gli uomini di riputazione e di bontà non si degnano d'essere ammessi negli ufici della corte, né simigliantemente di dar niuna delle lor figlie a quelli che sono della casa del re.


Ordine del vivere che s'usa nella corte del re di Fez.

Fra tutti i signori dell'Africa non si truova che alcuno fusse creato re o principe per elezione del popolo, né chiamato da provincia né da città alcuna. E nella legge di Maumetto non è verun signor temporale che dir si possa legittimo, eccetto i pontefici. Ma poscia che venne a meno la podestà de' pontefici, tutti i capi de' popoli ch'erano ne' diserti s'incominciarono accostare ai paesi abitati, e per forza d'arme statuivano diversi signori, contra la legge di Maumetto e contra i pontefici loro. Come è avvenuto in levante, che i Turchi, i Curdi, i Tarteri e altri, venendo da quella parte, s'insignoreggiavano de' terreni di chi meno poteva, cosí nell'occidente regnò il popolo di Zeneta, cosí quel di Lontuna, dipoi i Predicatori, dipoi le famiglie di Marin vi regnarono. È vero che la gente di Lontuna venne in favore e soccorso de' popoli di ponente, per liberargli dalle mani degli eretici. E in questi vi furono i signori amici del popolo; poi incominciarono a sollevar la tirannide, come s'è veduto. Per cotal cagione adunque al presente non si fanno i signori per vera eredità, né per elezione del popolo, de' maggiori e del capitano, ma ciascun principe, prima che venga a morte, lega e astrigne i maggiori e piú possenti uomini della corte a crear principe, doppo la morte sua, o figliuolo o fratello del detto. Né perciò molte volte sono osservati i giuramenti, percioché quasi sempre avviene che eleggono per lor signore colui che piú piace loro.
In questa guisa si suol far la creazione del re di Fez, il quale, subito che è publicato re, fa uno de' suoi piú nobili suo maggior consigliere, e gli assegna un terzo dell'entrata del suo regno. Doppo elegge un secretario, il quale serve e per secretario e per tesoriere e per maggiordomo. Crea dapoi i capitani della cavallaria, che son diputati alla custodia del regno, e questi il piú del tempo stanno con lor cavalli nella campagna. Appresso per ciascuna città stabilisce un governatore, il quale si gode gli usufrutti delle città, con obligazioni di tener tanto numero di cavalli a sue spese a' comandi del re, cioè qualunque volta gli fa bisogno di fare esercito. Dipoi fa certi commissari e fattori sopra i popoli che abitano ne' monti, e ancora sopra gli Arabi che gli son soggetti. I commissari amministrano la giustizia secondo la diversità delle leggi de' detti popoli; i fattori hanno carico di riscuotere l'entrate, e tenervi diligente conto de' pagamenti ordinari e di quelli che non sono ordinari. Dipoi ordina certi baroni, che sono detti nella lingua loro i custodi, ciascuno de' quali ha un castello overo uno o due villaggi, e di quelli cava certa entrata per lo vivere, e per poter mantenere qualità e condizione d'accompagnare il re nell'esercito. Ancora tiene cavalli leggieri, a' quali egli fa le spese a modo suo quando stanno in campo, ma a tempo di pace dà a costoro grano, butiro e carne da insalare per tutto l'anno, ma pochissimi danari; è vero che gli veste una volta l'anno. Né questi hanno cura de' lor cavalli, né fuori né meno nella città, percioché il re d'ogni cosa gli fornisce. E tutti i famigli della stalla sono schiavi cristiani, e portano grosse catene a' piedi; ma quando l'esercito va fuori, i detti cristiani cavalcano su camelli da some. Tiene ancora un altro commissario sopra a' camelli, il quale dà ricapito a' pastori e dispensa fra loro le campagne, e provede del numero di camelli che fanno di mistiero alle bisogne del re; e ogni camelliero tiene due camelli in ordine, per cargare secondo che li vien comandato. Tiene appresso un dispensatore, che ha carico di fornire, custodire e dispensar le vettovaglie per lo detto re e per lo esercito; e questo tiene dieci o dodici padiglioni grandi, dove dipone le dette vettovaglie, e di continuo muta e rimuta camelli in farvene portar di nuove, accioché l'esercito non patisca. Sotto di questi sono i ministri della cucina. V'è poi un maestro di stalla, il quale ha cura di tutti i cavalli, muli e camelli del signore; ed egli delle cose necessarie, sí per questi come per la famiglia che gli governa, è fornito dal dispensatore. Tiene eziandio un commessario sopra le biade, che ha carico di far portar l'orzo e ciò che bisogna al mangiar delle dette bestie; e questo commissario ha cancellieri e notai, per notare e scrivere tutta la biada che si dispensa e renderne conto al maggiordomo. Tiene somigliantemente un capitano di cinquanta cavalli, quali sono a guisa di cursori, i quali fanno l'imposizioni da parte del segretario del re, in nome del detto re. Ancora tiene un altro molto onorato capitano, il quale è come capo di guardia segreta, e ha auttorità di comandar da parte del re agli ufficiali, che faccino le esecuzioni e le confiscazioni e servino giustizia; può prendere i grandi uomini, mettergli nelle prigioni, usare in quelli la severità della giustizia, se gliel comanda il re.
Tiene il detto re eziandio appo lui un fedel cancelliere, in poter del quale è il sigillo del re; e scrive egli le lettere che occorrono di sua mano, sigillandole con quello. Di staffieri ve n'ha grandissima quantità, i quali hanno un capitano loro, che gli accetta, iscaccia e divide tra loro il piú e il meno del salario, secondo la loro sufficienza; e quando il re dà l'udienza, il detto capitano gli è sempre presente, e fa quasi l'uficio d'un capocameriere. Tiene ancora un capitano sopra i carriaggi, il cui uficio è di far portare i padiglioni ne' quali alloggiano i cavalli leggieri del detto re; ed è da sapere che i padiglioni del re son portati dai muli, e quei de' soldati dai camelli. Tiene una brigata di banderari, i quali per cammino portano gli stendardi piegati, ma uno, che sempre va dinanzi all'esercito, porta un stendardo spiegato e alto; e tutti questi banderari sono guide, e sanno le vie, i passi de' fiumi e de' boschi. E tiene gran quantità di tamburini, i quali tengono certi tamburi fatti di rame a modo d'un gran catino, larghi di sopra e stretti di sotto, e dalla parte di sopra sono coperti di pelle; e gli portano su cavalli che hanno i bastili, ma tengono dirimpetto al tamburo alcuni contrapesi, percioché essi assai pesano. E sono questi cavalli de' migliori e de' piú presti corridori ch'aver si possano, percioché è tenuto a gran vergogna quando si perde il tamburo; e detti tamburi suonano tanto forte e con sí orribil suono che si fanno sentire a gran pezza di lontano, e fanno tremare i cavalli e gli uomini; e gli suonano con i membri de' tori. I trombetti non sono tenuti a spesa del re, ma quei della città, a tutto loro costo, sono obligati di dargli un certo numero; e i detti cosí sono adoperati alle mense del re, come nello attaccarsi delle battaglie. E ha un maestro di ceremonie, il quale, quando il re chiama il consiglio o dà udienza, sempre sta a' piedi del detto, ordinando i luoghi e faccendo parlar l'un doppo l'altro, secondo i gradi e le dignità. La famiglia del re è per la piú parte di certe negre ischiave, e di queste sono le cameriere e le donzelle; nondimeno sempre ei piglia la sua moglie bianca. Tiene ancora alcune schiave cristiane, e queste sono o spagnuole o portogallese. E tutte le donne sono sotto la guardia degli eunuchi, che sono pure schiavi negri.
Questo re invero ha gran dominio, ma piccola entrata, la quale appena aggiunge a numero di trecentomila ducati; e di questa eziandio non perviene alle mani sue la quinta parte, percioché il rimanente è assegnato come di sopra abbiamo detto. Anco la metà di cotali entrate è in grani, in bestiame, in olio e in butiro, e si cava per piú vie. Alcuni luoghi pagono, per tanto terreno quanto in un giorno possono arar un paio di buoi, un ducato e un quarto. Altrove si paga per ogni fuoco altretanto. Altri luoghi sono, ne' quali per ciascun uomo dai quindici anni in su si paga pure altretanto. In altri e dell'un e dell'altro. Né v'è altra gravezza che della gabella, la quale è nella città grande. Né vi voglio ascondere che a' signori temporali non è lecito, per legge di Maumetto, tenere alcuna entrata, eccetto il censo da lui ordinato. Il quale è che ciascuna persona, che ha in contanti cento ducati, sia tenuta di dare al signore, di quel numero, due ducati e mezzo l'anno, fin che dura quella quantità; e ogniuno che raccoglie del suo terreno dieci moggia di grano è obligato a dar la decima parte. E vuole che tali entrate siano date in mano del pontefice, il quale, oltre alle bisogne del signore, le dispensi alle comuni utilità; e di quelle siano aiutati i poveri, gl'infermi e le vedove, e sostenute le guerre contra a' nimici. Ma da che sono mancati i pontefici, i signori, come s'è detto, hanno incominciato a usar la tirannide: né basta loro d'aversi usurpate del tutto queste entrate, e dispensarle secondo l'appetito loro, ma v'hanno aggiunto nuovi tributi, talmente che in tutta l'Africa pochi contadini si truovano che possino avanzarsi tanto che basti loro pel vestire e pel vivere solamente. Di qui è che niun uomo dotto e da bene vuol aver domestichezza con i signori temporali, né mangiar con esso loro a una istessa mensa, né meno accettar dono o presente loro, percioché istimano che la facultà dei detti signori sia peggio che rubbata.
Tiene ancora il re di Fez di continovo in poter suo seimila cavalli pagati, e cinquecento balestrieri, e altretanti archibusieri sempre a cavallo e in ordine ad ogni suo comando. Ma ne' tempi di pace stanno dalla sua persona separati un miglio, cioè quando il re è fuori nella campagna, percioché essendo egli in Fez non si cura di guardia. Se aviene che gli bisogni far guerra con gli Arabi suoi nimici, allora non gli bastano questi seimila cavalli, ma si vale dell'aiuto degli Arabi suoi subditi, de' quali a loro spese gran quantità ne raguna: ed essi sono invero piú pratichi nella guerra che non sono i detti seimila del re.
Le pompe e le cerimonie d'esso re sono poche, e non molto volentieri sono fatte da lui; ma nelle feste o in qualche mostra è di necessità ch'egli le faccia. Queste sono tali. Quando il re vuol cavalcare, primieramente il maestro delle cerimonie fa ciò intendere ai cursori per nome del re; dipoi essi fanno intendere ai parenti del detto re, ai capitani, ai custodi e agli altri cavalieri, i quai tutti si ragunano insieme nella piazza che è fuori del suo palazzo, e per tutte le vicine contrade. E come il re esce dal palazzo, i detti cursori dividono l'ordine di tutte le cavalcature. Prima se ne vanno i banderari, dipoi i tamburini, dipoi il maestro di stalla con i suoi ministri e famigliari, poi il dispensatore con i suoi, poi i custodi, poi il maestro delle cerimonie, poi i segretari del re, il tesoriere, il giudice e il capitano dell'esercito. Poi cavalca il re, insieme col gran consigliere e con qualche principe. E cavalcano innanzi la persona del re alcuni uficiali del re, de' quali uno porta la spada, l'altro lo scudo e un altro la balestra del detto re. D'intorno gli vanno i suoi staffieri, e di questi uno porta la partigiana del re, un altro la coperta della sella insieme col capestro del cavallo; e quando il re scende a piede, con quella coperta coprono la sella, e mettono il capestro di sopra alla briglia del cavallo per tenerlo. V'è un altro staffiere il quale porta i zoccoli del re, che sono certi zoccoli fatti con bei lavori, per pompa e riputazione. Doppo il re cavalca il capo degli staffieri, dapoi gli eunuchi, dapoi la famiglia del re, dapoi i cavalli leggieri, dapoi i balestrieri e archibusieri. L'abito che allora usa il re è mediocre e onesto, e chi nol conosce non pensa che egli sia il re, percioché i suoi staffieri sono vestiti piú superbamente, e con fregiati e ricchi panni. Né alcun re o signor maumettano porta corona o cosa tale che l'assomigli in testa, percioché la legge de Maumetto glielo vieta.
Quando il re abita nella campagna, piantasi prima nel mezzo il gran tabernacolo d'esso re, il quale è fatto a guisa delle mura d'un castello con i suoi merli, è quadro da ciascun lato e tiene cinquanta braccia, e in capo di ciascun lato è una torricella fatta pur di tela con i suoi merli e coprimenti, e con alcune belle poma poste sopra il tetto di dette torricelle, che paiono d'oro. Questo tabernacolo ha quattro porte, per ciascuna delle quali vi sta la guardia degli eunuchi, e in mezzo del detto vi sono altri padiglioni. La camera nella quale dorme il re è fatta in modo che si può togliere e rimettere agevolissimamente. D'intorno al tabernacolo sono gli alloggiamenti degli uficiali e dei cortigiani piú favoriti del re, e d'intorno a questi sono ordinatamente i padiglioni dei custodi, i quali son fatti di pelli di capre, sí come quegli degli Arabi. Quasi nel mezzo c'è la dispensa, la cucina e il tinello del re, che sono tutti padiglioni invero grandissimi. Non molto lontani da questi sono i padiglioni dove alloggiano i soldati dei cavalli leggieri, i quali tutti mangiano nel tinello del re, ma in una foggia molto vile. Discosto un poco è la stalla, cioè alcuni luoghi coperti dove sono alloggiati i cavalli, a ordine l'uno a canto l'altro. Fuori del circuito dell'alloggiamento alloggiano i mulattieri del carriaggio del re, e ivi sono botteghe di beccai, di merciai ed eziandio di pizzicagnoli. I mercatanti e gli artigiani che vengono al campo s'adagiano a lato dei detti mulattieri, in modo che gli alloggiamenti del re vengono ad essere fatti come una città, percioché i padiglioni dei custodi servono in vece di mura, i quali sono fatti e piantati l'uno appresso l'altro, di maniera che non si può entrare a' detti alloggiamenti se non per li luochi ordinati. E d'intorno il tabernacolo del re tutta la notte si fa la guardia; ma è vero che i guardiani sono persone vili, né v'è alcuno che porti arme. Simile guardia si fa d'intorno la stalla dei cavalli, ma spesso, per la dapocaggine di queste guardie, non solamente sono stati rubbati dei cavalli, ma dentro il tabernacolo del re trovati uomini nimici, entrativi per ucciderlo. Il re quasi tutto il tempo dell'anno si ritruova nella campagna, sí per custodia del regno come per mantenere in pace e amicizia gli Arabi suoi soggetti; e sovente si diporta in caccie o in giuocare a scacchi.
Io non dubito di non essere stato alquanto tedioso nella lunga e molto copiosa descrizione di Fez; ma egli mi fu di necessità d'allargarmi in lei, sí perché la civiltà e l'ornamento di Barberia, overo di tutta Africa, si contiene e rinchiude nella sopra detta città, e sí ancora per darvi piena informazione d'ogni sua minima condizione e qualità.


Macarmeda città.

Macarmeda è una città vicina a Fez circa a venti miglia verso levante, la quale fu edificata da' signori di Zeneta sopra la riviera d'un fiumicello, in una pianura bellissima. Questa ne' tempi antichi aveva un gran contado, e fu molto civile. Sul detto fiume sono molti giardini e vigne. E i re di Fez solevano assegnare la detta città a' soprastanti dei camelleri; ma nella guerra di Sahid principe ella fu saccheggiata e abbandonata, e oggi altro di lei non si vede che le mura. Il contado s'affitta a gentiluomini di Fez e a qualche uomo di villa.


Hubbed castello.

Hubbed è un castello edificato su la costa d'un alto monte, il quale è discosto da Fez circa a sei miglia. E tutta la città di Fez e la campagna d'intorno si può vedere dal detto castello, il quale ebbe principio da un romito, dal popolo di Fez tenuto santo. Ma il detto castello contiene intorno poco terreno, perciò è disabitato e le case sono rovinate, eccetto le mura e la moschitta. Pure quel poco terreno che v'è è del tempio maggiore della città. Io alloggiai in questo castello quattro estate, per esservi l'aere molto buono e temperato, e il luogo solingo e ottimo per chi vuole studiare. V'alloggiai ancora percioché il padre mio ebbe molti anni il terreno appigionato dal custode del tempio.


Zauia.

Zauia è una picciola città edificata da Giuseppe, secondo re della casa di Marin, ed è discosta da Fez circa a quattordici miglia. E quivi il detto re fece fare un grande spedale, ordinando d'esser sepellito in questa città; ma ciò non consentí la fortuna, percioché egli fu ucciso fuori di Telemsin, nell'assedio ch'egli vi fece. Zauia dipoi mancò e fu rovinata, e rimase di lei solamente lo spedale con i suoi muri. L'entrata fu data al tempio maggiore di Fez, e il terreno fu coltivato da certi Arabi, che sono quasi nel contado di Fez.


Chaulan castello.

Chaulan è un antico castello fabbricato sopra il fiume di Sebu, lontano da Fez circa a otto miglia verso mezzogiorno. Fuori del detto castello v'è un bagno d'acqua caldissima, e Abulhesen, quarto re della casa di Marin, fece fare un belissimo edificio sul detto bagno; onde i gentiluomini di Fez sogliono una volta l'anno nel mese d'aprile venire a questo bagno, e vi dimorano quattro o cinque giorni per cagione di diporto. Ma in nel detto castello non è civiltà alcuna, e gli abitatori sono uomini vili e avarissimi sopra modo.


Zelag monte.

Zelag è un monte che incomincia dal fiume di Sebu quasi dalla parte di levante e si stende verso ponente circa a quattordici miglia; e la sua sommità, cioè il piú alto luogo verso tramontana, è vicina a Fez sette. La faccia che risponde verso mezzogiorno tutta è disabitata, ma quella parte che riguarda verso tramontana è tutta buone colline, dove sono infiniti villaggi e castelli. E quasi tutto il terreno è piantato di viti, che fanno le migliori e le piú dolci uve che io già mai abbia gustato a' miei dí; cotali sono l'olive e infine tutti i frutti che nascono per quel contado, per esser luogo asciutto. E gli abitatori di questo sono molto ricchi, né alcuno ve n'è il quale non abbia una casa nella città. Ancora quasi tutti i gentiluomini di Fez hanno qualche vigna nel detto monte. A' piedi del detto, verso pure tramontana, sono buonissime pianure e campi da grano ed eziandio per orti, percioché il fiume di Sebu irriga le dette pianure verso mezzogiorno; e gli ortolani con i loro ingegni fanno fare certe ruote che levano l'acqua dal fiume, e con essa ne bagnano il terreno. La campagna è grande e larga tanto quanto possono arare dugento paia di buoi. Questa è data per provisione al maestro delle ceremonie del re, ma egli non ve ne ha di rendita l'anno piú che cinquecento ducati, percioché la decima ne va alla camera del re; la quale frutta quasi tremila moggia di grano.


Zarhon monte.

Zarhon incomincia dal piano di Esais discosto da Fez dieci miglia, e s'estende verso ponente circa a trenta, e per larghezza è dieci miglia. Questo monte da lontano par tutto selva e diserto, ma tutti gli alberi sono piante d'olive. In esso sono circa a cinquanta fra casali e castelli, e gli abitatori sono ricchissimi, percioché il monte è posto fra due città grosse: dalla parte d'oriente è Fez e da quella di ponente Mecnase. Le loro donne sono tessitrici di panni di lana fatti all'usanza del paese, e vanno molto ornate d'anella e manili d'argento. Gli uomini sono gagliardi e fortissimi, e sono quegli che si prendono cura di pigliare i leoni ne' boschi, e gli donano al re di Fez. Il quale suol far fare una caccia nella sua cittadella in una corte larghissima, dove sono certe casette tanto grandi quanto vi può capire un uomo in piedi e come ei vuole, e ciascuna di queste ha la sua porticella, e dentro vi sta un uomo armato. Allora si lascia un leone sciolto in quella corte, e gli armati aprono le loro porticelle, chi da una parte chi da un'altra. Il leone subito corre verso l'uomo che egli vede, e colui come gli è vicino chiude la porticella; e ciò fanno tante volte che 'l leone è adirato. Dipoi è menato nella detta corte un toro, onde tra lor due s'incomincia una stretta e sanguinosa battaglia. E se il toro ammazza il leone, la festa di quel giorno è fornita; ma se il toro è ucciso dal leone, è di bisogno che quegli armati eschino fuori e combattino col leone: i quali sono dodici, e hanno in mano certe partigiane che tengono un braccio e mezzo di ferro. E se gli uomini sono superiori del leone, il re fa diminuire il numero; e quando il leone avanza gli uomini, allora il re e i suoi cortigiani l'uccidono con le balestre, stando dal di sopra delle loggie dove sogliono veder la festa. Ma le piú volte aviene che, prima che muoia il leone, ei ve ne uccide alcuno e altri lascia feriti. Il premio che usa il re di dare a quei che combattono sono dieci ducati per ciascuno e un nuovo drappo. Ma cotai uomini non sono se non persone valentissime e del monte di Zelag, e quelli che li cacciano in la campagna sono del monte di Zarhon.


Gualili, città nel monte Zarhon.

Gualili è una città edificata da' Romani nella cima del sopradetto monte, nel tempo che eglino reggevano la Betica di Granata. È tutta cinta di mura fatte di pietre lavorate e grosse, e ha le porte molto larghe e alte, e circonda quasi sei miglia di terreno. Ma fu pure anticamente rovinata dagli Africani. Egli è vero che, essendo Idris scismatico venuto a quella regione, subito incominciò a rinovar la detta città e abitarvici, di modo che in breve ella divenne civile e molto frequentata. Ma doppo la sua morte il figliuolo la lasciò da parte e si diè a fabbricar la città di Fez, come abbiamo detto; nondimeno Idris fu quivi sepolto, e la sua sepoltura è onorata e visitata quasi da tutti i popoli di Mauritania, percioché egli fu poco meno di pontefice, e del lignaggio di Maumetto. E oggi non sono in detta città se non due o tre case, destinate alla cura e venerazione della sepoltura. Ma d'intorno alla città il terreno è molto ben coltivato e sonvi bellissimi giardini e possessioni, percioché nascono dalla detta città due capi d'acqua, i quali se ne vanno discorrendo fra certi piccoli colli e valli, dove queste possessioni hanno luogo.


Palazzo di Faraone.

Il Palazzo di Faraone è una piccola e antica città fabbricata dai Romani sopra la cima d'una montagnetta, ed è vicina a Gualib poco meno d'otto miglia. Il popolo di questo monte, e anco molti istorici, tengono per ferma oppenione che Faraon re d'Egitto, nel tempo di Moisè, edificasse la detta città nomandola dal suo nome. A me non par egli verisimile, percioché non si truova che mai né Faraone né gli Egizii dominassero quelle parti. Ma è nata questa sciocca oppenione da un'opera, intitolata nella loro lingua il Libro delle parole di Maumetto, e fu dettata da un auttore detto Elcalbi. Dice adunque quest'opera, col testimonio di Maumetto, che furono quattro re che signoreggiarono tutto il mondo, duoi fedeli e duoi infedeli: i fedeli furono Alessandro Magno e Salamon figliuolo di Davit, e gl'infedeli Nembrot e Faraone di Moisè. A me alcune latine lettere, che si leggono sopra a' muri, danno indubitata certezza che la detta città fusse edificata da' Romani. Nel circuito di lei passano due fiumicelli, qual da una parte e qual da un'altra; e tutte le valli e le colline vicine a questa sono terreni piantati d'olive. Non molto lontano v'è bene un gran bosco, dove si truovano leoni e leopardi in molta quantità.


Pietra Rossa.

Pietra Rossa è una certa città nella costa del detto monte, edificata pur da' Romani. Ma è piccola e molto vicina al bosco, in tanto che i leoni vengono insino alla città e, mangiano l'ossa che truovano: e gli abitatori sono tanto avvezzi nella pratica e domestichezza dei detti leoni, che insino alle femine e a' fanciulli non gli temono. Le sue mura sono alte e fatte di certe pietre grandi e grosse, ma le piú parti sono rovinate; e la città è rimasa oggidí come un casale o villaggio. Il terreno è abbondevole d'olive e di grano, percioché è vicino alla pianura d'Azgar.


Maghilla.

Maghilla è una picciola città antica, edificata pur da' Romani, ed è posta su la punta del detto monte, cioè dalla parte che risponde verso Fez. Questa città ha un bel contado nel monte, il quale è tutto pieno d'olive, e un altro bellissimo nel piano, dove sono molti e gran fonti, dal qual piano si tragge gran quantità di canapo e di lino.


La Vergogna castello.

La Vergogna è un castello molto antico, e fu edificato sotto il detto monte, su la via maestra per cui si va da Fez a Mecnese; ed è detto il castello della vergogna, percioché i suoi abitatori furono molto avari, sí come è l'usanza delle città che sono ne' passi. E dicesi che un re una volta passò di là, e quei del castello l'invitarono a desinare. Il re accettò l'invito, cosí il popolo pregò lui che fussi contento di levargli quel brutto nome: il che gli piacque. Fecero adunque costoro ammazzare alquanti castroni ed empir molte vasella e utri di latte, come è il costume loro, per dar la mattina la collazione al re. Ma per essergli utri grandi, ognuno per la sua parte fece pensiero che, se vi mettessero la metà d'acqua, nessuno se n'accorgerebbe; e cosí fecero. Il re la mattina, volendosi dipartire, non si curava d'altra collazione, ma facendogli i ministri instanza, e versando gli utri, s'avidero dell'acqua. La qual cosa intesa dal re, rise e dicendo: "Amici, voi dovete sapere che costume dato da natura non si può togliere", si dipartí. Oggi il detto castello è rovinato e voto, e i suoi terreni sono lavorati da certi poveri Arabi.


Beni Guariten contado.

Beni Guariten è un contado vicino a Fez circa a diciotto miglia, cioè dalla parte di levante, ed è tutto colline di bonissimi terreni, dove nasce gran quantità di grano; e contengono bellissime campagne e perfetti pascoli pel bestiame. Nel detto contado sono circa a dugento villaggi, ma di vilissime case, e sono gli abitatori uomini di piccolo valore: non coltivano viti né tengono giardini, né hanno albero alcuno fruttifero. Questo suol il re dispensare fra li suoi fratelli e fra le sirocchie che sono di pargoletta età. Tornando agli abitatori, essi sono ricchi di grani e di lana, ma vanno male in arnese e solamente cavalcano gli asini, di maniera che insino da' vicini ne vengono dileggiati e scherniti.


Aseis contado.

Aseis è ancora egli un contado vicino a Fez venti miglia verso ponente, e tutto è pianure, dove è fama che furono molti castelli e villaggi; e ora non ne resta né vestigio né pur segno alcuno d'edificio, ma sono vivi i nomi dei luoghi che non si veggono. Il detto piano s'estende verso ponente circa a diciotto miglia e verso mezzogiorno circa venti, e i suoi terreni sono bonissimi, ma producono i grani neri e piccoli; e pochi pozzi o fonti si truovano per questo contado. Fu ello sempre tenuto da certi Arabi, che sono come uomini di villa. Dallo il re di Fez al castellano e governatore della città.


Togat monte.

Togat monte è vicino a Fez verso ponente circa a sette miglia, il qual è per certo molto alto, ma poco largo; e s'estende verso levante fino al piccol fiume di Bunasr, che sono circa a cinque miglia di tratto. Tutta la parte del detto monte che riguarda verso Fez è piantata di viti; cosí la cima, e la parte che risponde verso Essich, è tutta terreno da seminar grano. E per la sommità del monte sono molte grotte e cave ch'entrano sotto la terra, le quali da quelli che vanno ricercando i tesori sono tenute per certi luoghi segreti, dove i Romani nel partirsi da quella regione nascosero, come s'è detto, le lor cose di gran prezzo. Il verno, allora che nessun attende alle viti, questi curiosi e semplici uomini con i loro strumenti s'affaticano di cavare o di far cavare il duro e sassoso terreno; né perciò si ragiona che alcuno niente trovasse. Ora, come i frutti del monte sono tristi e di malo sapore, cosí medesimamente è brutto e spiacevole agli occhi il color dell'uva; e questi frutti e questa uva si maturano avanti i frutti e l'uve degli altri luoghi.


Guraigura monte.

Guraigura è una montagna vicina ad Atlante e discosta da Fez circa a quaranta miglia; e da quella nasce un fiume, il quale corre verso ponente ed entra nel fiume di Bath. Il detto monte è posto fra due grandissime pianure: l'una risponde verso Fez, cioè quel contado che abbiamo di sopra detto, il quale si chiama Esais; e l'altra riguarda verso mezzogiorno, e questa è appellata Adecsen, dove sono bellissimi e bonissimi piani per seminar grano e per pascoli d'animali. Tutte queste pianure sono tenute da certi Arabi, i quali sono detti Zuhair e sono vassalli del re; ma egli assegna il tratto di tal piano le piú volte a qualcuno de' suoi fratelli: e frutta quasi di continovo diecimila ducati. Egli è vero che i detti Arabi sono spesso molestati da certi altri Arabi, chiamati Elhusein, che sono abitatori del diserto, ma la state vengono alla detta pianura: a ciò il re di Fez provede molto bene, mandando in difesa della campagna alcuni cavalli e balestrieri. Per tutti quei piani sono vaghe fontane e chiarissimi fiumicelli, e boschi ne' quali sono leoni cheti e pacifichi, di maniera che ciascun uomo e femina con un bastone gli può scacciare, né essi fanno dispiacere ad alcuno.
Ora seguiremo della regione di Azgar.


Azgar, regione di Fez.

La regione di Azgar dalla parte di tramontana termina al mare Oceano, da ponente ha fine al fiume di Buragrag e da levante compie in alcuni monti di Gumera, e in una parte Zarhon, e a piè del monte di Zalag; di verso mezzogiorno finisce ne' confini del fiume di Bunasar. Questa provincia è tutta pianura di buonissimi terreni, percioché fu abitata da grandissimo popolo e vi furono e città e castelli. Ma per una antica guerra le dette rimasero tutte distrutte, e oggidí niuno segno se ne vede, fuori che alcune poche e piccole città che sono pure in piè e abitate. Estendesi ella per lunghezza circa a ottanta miglia, e per larghezza circa a sessanta. Per mezzo di lei passa il fiume di Subu; e tutti gli abitatori sono Arabi e detti Elchuluth dalla origine di Muntafic: e questi tutti sono sottoposti al re di Fez e gli danno gran tributo, ma sono ricchi e vanno benissimo in ordine, e certamente quivi è il fiore dell'esercito del re, il quale si serve dell'aiuto loro solamente nelle guerre di momento e molto importanti. E in fine questa provincia è quella che mantiene di vettovaglia, di bestiami e di cavalli tutti i monti di Gumera e la città di Fez. Il re usa di farvi la sua stanza tutto il verno e la primavera, percioché i paesi sono dilettevoli e sani, e vi è sempre molta copia di caprioli e di lepri. Egli è vero che pochi boschi vi si truovano.


El Giumha, città in Azgar.

El Giumha è una piccola città edificata a' nostri tempi dagli Africani sopra un fiumicello, in una pianura dal capo dalla detta regione o provincia, cioè donde si va da Fez a Lharais città. È lontana da Fez circa a trenta miglia. Questa città fu molto abitata e piena di civilità, ma la guerra tante volte ricordata di Sahid la distrusse. Oggi solamente si truovano certe fosse, nelle quali i vicini Arabi tengono i loro grani, e vi lasciano appresso alcuni padiglioni alla guardia dei detti grani; son di fuori mulini, dove questi si macinano.


Lharais città.

Lharais è una città fabricata dagli antichi Africani sul mare Oceano, dove entra il fiume Luccus, da una parte posta su la riva del detto fiume e dall'altra sopra l'Oceano. Ne' tempi che Arzilla e Tangia furono de' Mori era molto abitata, ma poi che le due città vennero in potere de' cristiani rimase abbandonata, che fu circa a venti anni. Dopo i quali un figliuolo del presente re di Fez deliberò di far riabitarla, e la fortificò molto bene, tenendola sempre fornita di soldati e di vettovaglia, percioch'egli si sta in continovo sospetto de' Portogallesi. La città ha un porto molto difficile a chi vuole entrar nella bocca del fiume. Vi fece ancora il figliuolo del detto re edificare una rocca, nella quale sempre tiene un capitano con dugento balestrieri, cento archibusieri e trecento cavalli leggieri.
Nel circuito della città sono molte, paludi e prati, dove si piglia gran quantità d'anguille e di uccelli d'acqua; e su le rive del fiume v'ha oscuri boschi, ne' quali sono molti leoni e altri feroci animali. Hanno gli abitatori della detta città antica usanza di far carboni, e gli mandano per mare ad Arzilla e Tangia, intanto che quei di Mauritania usano un proverbio quasi di questa maniera, quando una cosa dimostra piú di quello che ella è: come il navilio di Harais, il quale ha la vela di bambagio e la mercanzia di carbone; percioché nelle campagne di questa città si fa gran quantità di bambagio.


Casar Elcabir, cioè "il gran palazzo".

Casar Elcabir è una città edificata nel tempo di Mansor, re e pontefice di Marocco, per suo ordine. E narrasi per cosa certa che un giorno, cacciando il detto re per quelle campagne d'intorno, fu sopragiunto da una gran pioggia con un terribil vento e oscurità d'aere, di maniera ch'ei si smarrí dalla compagnia, e si ridusse la notte in un luogo senza saper dov'egli fusse, convenendogli in tutto alloggiare alla campagna. E mentre egli si stava sul piè fermo, temendo d'affogar nelle paludi, vidde un lume, e la buona ventura gli mandò innanzi un pescatore, il costume del quale era di pigliare anguille per le dette paludi. A costui disse il re: "Saprestimi voi insegnare dove sia l'alloggiamento del re?" Rispose il pescatore che quello era lontano a dieci miglia e, pregandolo il re che ve lo accompagnasse, "Se vi fusse al Mansor in persona, - disse il pescatore, - non vel condurrei a quest'ora, percioché temerei ch'egli s'affogasse in queste paludi". "E che appartiene a te la vita d'al Mansor?" soggiunse il re. "O, - disse egli, - il re merita esser da me amato a par di me medesimo". Seguitò il re: "Adunque qualche gran beneficio hai tu ricevuto da lui". "Quale maggior beneficio, - rispose costui, - si può ricever da un re, della giustizia e della gran bontà e amorevolezza ch'egli mostra nel governo del suo popolo? Onde io povero pescatore, insieme con la mia moglie e la mia piccola brigatella, mi posso godere la mia povertà in pace. Ed esco della mia capannetta a mezza notte, e vi ritorno quando mi viene disio, né fra queste valli e questi luoghi selvaggi si truova uno che mi dia noia. Ma voi, gentiluomo, venite, s'egli vi piace, ad alloggiar meco questa notte, e di mattina m'arete per guida a qual luogo vi sarà in grado". Il re accettò l'invito e n'andò col buon uomo alla sua piccola capanna, dove, come fur giunti, adagiato e ben proveduto di biada al suo cavallo, fece il pescatore arrostire di quelle anguille e le pose inanzi al re, il quale fra quello spazio s'avea, come meglio poté, asciugato i panni intorno a un buon fuoco che tutta volta ardeva. Ma, non gli piacendo quel pesce, dimandò s'egli qualche poco di buona carne avesse. Disse il povero uomo: "Gentiluomo, la ricchezza mia è d'una capra e d'un capretto che ancor latta; ma io stimo aventurato quell'animale le cui carni possono onorare un par vostro, percioché, se la vostra apparenza non m'inganna, voi dimostrate d'esser qualche gran signore". E senza piú parlare, svenato il capretto, lo fece acconciare e arrostire alla donna sua. Il re cenò e prese riposo per insino alla mattina. Partissi adunque dalla capanna la mattina per tempo con la guida del cortese oste, ma non furono ancora fuori delle paludi ch'essi trovarono la gran moltitudine de' cavalieri e de' cacciatori, che turbati con alti gridi andavano cercando il re; e come lo viddero, ciascuno si rallegrò. Allora Mansor, rivolto al pescatore, disse chi egli era, e che arebbe sempre a memoria la sua cortesia. E perciò, mentre ch'egli stette nella campagna, aveva fatto fabricare spessi e bei palazzi e molte case; nella sua partita gli dette per premio al pescatore, il quale lo pregò che gli piacesse, a dimostramento di maggior sua bontà e cortesia, di far cinger quei palazzi e case di muro: il che fu fatto.
E il pescatore si rimase signore della nuova piccola città, la quale di giorno in giorno accrebbe, di modo che in brieve tempo ella divenne città di quattrocento fuochi, per la molta abbondanza del paese. E il re usava di stare in quel terreno d'intorno tutta la state, il che fu eziandio cagione della bonificazion della detta città.
Passa appresso le sue mura il fiume detto Luccus, il quale cresce alle volte tanto che entra per la porta della città. Ella è tutta fornita d'artigiani e di mercatanti, e ha molti tempii, un collegio di scolari e uno spedale. Non v'è né fonte né pozzo, ma gli abitatori si sogliono valere di certe cisterne; i quali abitatori sono uomini buoni e liberali, ma piú tosto semplici che altrimenti: veston bene, e usano di portare alcuni panni rivolti intorno, fatti a guisa di lenzuoli, di tela bambagina. Fuori della città sono molti giardini e possessioni, dove si truovano buonissimi frutti; ma l'uva è di cattivo sapore, percioché i terreni sono prati. Il lunedí si fa nella campagna un mercato, al quale vi concorrono tutti i vicini Arabi. Il mese di maggio costumano i cittadini d'andar fuori a uccellare, e pigliano gran quantità di tortore. Il terreno è nel vero fertile e rende le piú volte di semenza trenta per uno: ma gli abitatori non possono coltivar quasi intorno a sei miglia, percioché sono molestati dai Portogallesi che abitano in Arzilla, essendo la città discosta da Arzilla non piú che diciotto miglia. Ancora il capitano di questa fa non poco danno a' Portogallesi, percioché tiene trecento cavalli, e le piú volte con questi corre per insino alle porte d'Arzilla.


Habat regione.

Habat regione comincia dal fiume Guarga dal lato di mezzogiorno, e da tramontana termina al mare Oceano; di verso ponente confina con le paludi d'Azgar, e da levante in li monti che sono sopra lo stretto delle colonne di Ercole. Ha di larghezza circa a ottanta miglia e di lunghezza circa a cento. Questa regione quanto alla fertilità e abbondanza è in vero mirabile, e la piú parte è pianura, dove ha molti fiumi. Ma appresso gli antichi fu piú nobile e di maggior fama che non è a' nostri dí, percioché sono in lei molte antichissime città, parte edificate da' Romani e parte da' Gotti; e penso che questa sia quella regione che fu da Tolomeo Mauritania appellata. Ma da che fu fabricata Fez, la detta incominciò a declinare. A questo s'aggiunse che, doppo la morte di Idris edificatore di Fessa, pervenne il regno a dieci suoi figliuoli, li quali dividendolo in altretante parti, toccò questa regione al fratel maggiore. Doppo ne seguí la rebellione di molti eretici e signori, i quali, mentre che chi gli chiama li signori di Granata di Spagna e chi chiama li signori del Cairoan, furon vinti e scacciati da un pontefice del Cairoan, che fu puro eretico, e acquistò questa regione e, lasciatovi alcuni suoi capitani e governatori, ritornò al suo paese. Allora il gran cancellieri di Cordova, mandò in lei un grosso esercito e in brieve s'impadroní di tutto quel tratto per insino alla region di Zab. D'indi a cinquanta anni, vi venne Giuseppe primo re di Lontuna e scacciò questi di Granata. Finalmente la regione rimase sotto il dominio del re di Fez.


Ezaggen, città di Habat.

Ezaggen è città edificata dagli antichi Africani su una costa d'una montagna, vicina al fiume Guarga circa a dieci miglia: e tutte queste dieci miglia sono pianure che danno luogo ai campi e agli orti loro, ma molto piú sono i terreni del monte. Questa città è discosta da Fez settanta miglia e fa circa a cinquecento fuochi; il suo contado fra il monte e il piano può dar di rendita circa a diecimila ducati. E colui che gli possiede è obligato di tenere al re di Fez quattrocento cavalli in custodia del detto paese, percioché i Portogallesi sogliono farvi di spesse corriere da quaranta o cinquanta miglia da lontano. La città non è molto civile, ben vi sono artigiani di cose necessarie, ma è molto bella e piena di molte fontane. Gli abitatori sono ricchi, ma pochi usano abito da cittadino. Hanno privilegio, concesso loro dagli antichi re di Fez, di poter ciascuno ber vino, percioché il vino è vietato dalla legge maumettana: e tuttavia non è alcun che non ve ne bea.


Bani Teude.

Bani Teude è una città antichissima edificata dagli Africani in una bellissima pianura sopra 'l fiume Guarga, discosta da Fez circa quarantacinque miglia. Soleva ne' buoni tempi già fare ottomila fuochi, ma nella guerra de' pontefici del Cairoan fu tutta distrutta, eccetto le mura. Io vi sono stato, e vidivi molte sepolture d'uomini nobili, e alcune fontane murate di pietre vive, in vero maravigliose. È vicina a' monti di Gumera circa a quattordici miglia, e i terreni sono molto fertili e abbondantissimi.


Mergo città.

Mergo è una città su la cima d'un monte, vicina alla sopradetta circa a dieci miglia, la quale si dice che fu edificata da' Romani, percioché vi sono certe antiche mura dove si leggono alcune lettere latine. Questa città è oggidí disabitata, ma è nella costa del monte un'altra piccola città, la quale è onestamente abitata, e sono in lei molti tessitori di tela grossa. D'intorno alla città è una campagna di buoni terreni, e dalla detta città si veggono due grossi fiumi: l'uno è Subu, dalla parte di mezzogiorno, e l'altro da tramontana, che è Guarga; è discosto da ciascun fiume cinque miglia. Gli abitatori vogliono esser detti gentiluomini, ma sono avari, ignoranti e senza alcuna virtú.


Tansor.

Tansor è una città discosta da Mergo circa a dieci miglia, sopra una piccola montagnetta, nella quale sono trecento case, ma pochissimi artigiani. Gli abitatori, uomini di grosso intelletto, non tengono né viti né giardini, ma solamente arano per lo grano; hanno buona quantità d'animali. La città è posta alla metà della strada che è da Fez ai monti di Gumera: per tal cagione sono avarissimi e ispiacevoli senza comparazione.


Agla.

Agla è una città antica, edificata dagli Africani sul fiume Guarga. Vi sono d'intorno buoni terreni coltivati dagli Arabi, percioché la città fu rovinata nelle guerre passate; ma sonvi ancora le mura intere e alcuni pozzi di dentro. Nella sua campagna si fa ogni settimana un bellissimo mercato, al quale vanno molti Arabi e contadini di quel paese; vannovi ancora molti mercatanti di Fez per comperar cuoi di buoi e lana e cera, perché in questo terreno ve n'è in grande abbondanza. Sono nella campagna molti leoni, ma di tanta vile natura che sino a' fanciulli, sgridandogli, gli fanno paura e pongongli in fuga. Di qui è nato un proverbio in Fez, che, veggendosi un uomo che essendo vile faccia in parole il gagliardo, se gli dice: "Tu sei valente come i leoni di Agla, a' quali i vitelli sogliono mangiar la coda".


Narangia.

Narangia è un castello edificato dagli Africani su una piccola montagna, appresso il quale passa il fiume Luccus; e il detto castello è vicino a Ezaggen circa a dieci miglia, ha bonissimi terreni intorno, ma non son piani. Su la riva del fiume sono foltissimi boschi, dove si truova gran quantità di frutti salvatichi, massimamente ciriegie marine. Fu questo castello preso e saccheggiato da' Portogallesi; ora è rimaso disabitato e diserto, nell'anno di legira 895.


Gezira.

Gezira è un'isola nella gola del fiume Luccus, dove il detto fiume entra nell'Oceano, lontana dal mare circa a dieci miglia e discosta da Fez cento miglia. E in questa isola fu una piccola città antica, la quale fu abbandonata nel principio delle guerre de' Portogallesi. Intorno al detto fiume sono molti boschi, e pochi terreni da lavoro. Negli anni ottocentonovantaquattro di legira, il re di Portogallo mandò una grandissima armata, la quale come fu entrata nel fiume, il capitano incominciò a fabricare una nuova fortezza nell'isola, considerando che la potria soccorrer e occupar tutte le campagne vicine. Il re di Fez padre del presente re, prevedendo il danno che di leggiero gli poteva occorrere se egli lasciava fornir la detta fortezza, vi mandò ancora egli un grandissimo esercito per vietare a' Portogallesi quell'opera; ma non poté l'esercito accostarvisi a due miglia di lunghezza, per la molta e terribile artiglieria de' Portogallesi, che di continovo scoccava: per il che il re era quasi a ultima disperazione. Ma dipoi, per consiglio d'alcuni, fece fare certi bastioni di legno, i quali furon piantati in mezzo il fiume di sotto l'isola quasi due miglia: ed essendo coperti essi da questi ripari, fatto tagliare tutto il bosco vicino, in piccolissimo tempo viddero i Portogallesi l'entrata del fiume serrata da grossissimi alberi, di modo che non era possibile di piú uscirne con l'armata. Il re, conoscendo d'aver la vettoria in mano, pensò di combattere; poscia, considerando che gran moltitudine del suo popolo poteva perire, per il che il vincer s'arebbe potuto dimandar perdita, patteggiò col capitano dell'armata che, oltre a una grossa taglia che gli diede, facesse che 'l re di Portogallo gli restituisse certe figliuole del capitano del re di Fez, che aveva nella città prigione; e lo lasciarebbe andare con la sua gente senza nocumento niuno. Il che fu fatto, e l'armata ritornò a Portogallo.


Basra.

Basra è una città non molto grande, e fa circa a duemila fuochi. Fu edificata in una pianura fra due monti da Mahumet, figliuolo d'Idris edificatore di Fez. È discosta da Fez circa a ottanta miglia e da Casar venti, cioè di verso mezzogiorno. E fu detta Basra in memoria di Basra, città di Arabia Felice, dove fu ucciso Hali, quarto pontefice doppo Maumetto, che fu il bisavolo di Idris. Questa città fu murata con alte e bellissime mura, e per tutto il tempo che regnò la casa di Idris fu in lei molta civiltà. E i successori d'Idris usavano di far dimora la state nella detta città, percioché ha bellissimo contado, sí de' monti come delle pianure: nei cui siti furono già molti giardini, e sonvi perfettissimi campi per grano, percioché è vicino alla città e per li piani passa il fiume Luccus. Fu ella molto bene abitata e fornita di tempii, e gli abitatori furono uomini di gentilissimo spirito. Ma col fine della famiglia d'Idris i nimici guastarono e rovinarono la città: ora vi rimangono in piè i muri e qualche giardino, ma selvaggio e senza alcun frutto, perché i loro terreni piú non si lavorano.


Homar.

Homar è una città edificata pure da uno il cui nome fu Hali, figliuolo del sopraditto Mahumet; la quale è sopra una collina su un fiumicello, discosta da Casar circa quattordici miglia verso tramontana, e da Arzilla verso mezzogiorno circa sedici. Non fu gran città, ma molto bella e forte, e d'intorno sono bellissime campagne, tutte pianure di buoni terreni. Era cinta da molti giardini e da viti, ripieni tutti d'ottimi frutti. Gli abitatori per la maggior parte furono tessitori di tele, percioché raccoglievano di molto lino. Rimase priva d'abitazione allora che Arzilla fu presa da' Portogallesi.


Arzilla.

Arzilla, chiamata dagli Africani Azella, fu gran città ed edificata da' Romani sul mare Oceano, vicina allo stretto delle colonne di Ercole circa a settanta miglia e discosta da Fez circa a centoquaranta. Questa fu suddita al signor di Sebta, che era tributario de' Romani; dipoi fu presa da' Gotti, i quali pure vi confermarono il detto signore. Indi fu presa da' maumettani, gli anni novantaquattro di legira: essi ne furono per dugentoventi anni possessori, per insino a tanto che gli Inglesi, con una grossa armata, a persuasione de' Gotti l'assediarono; i quali furono insieme nimici, percioché i Gotti erano cristiani e che gli Inglesi adoravano gl'idoli. E ciò essi facevano a fine che i maumettani levassero il piè dell'Europa. Successe l'impresa agl'Inglesi, e presa la città la posero a ferro e a fiamme, onde non ve ne iscampò un solo; e cosí si rimase presso a trenta anni rovinata e disabitata. Ma poscia, regnando i signori e pontefici di Cordova in Mauritania, la restaurarono e ritornarono a migliore e piú nobile qualità e fortezza. E gli abitatori furno uomini molto ricchi e litterati e di guerra. Il contado è fertilissimo di grani e di frutti, ma per esser la città discosta dieci miglia dai monti, ha quasi penuria di legna: ma usano d'abbruciar carbone, qual fanno condurre in gran quantità da Harais, come abbiamo detto di sopra.
Negli anni ottocentoottantadue del medesimo legira, fu questa città d'improviso assaltata e presa da' Portogallesi, e tutti gli abitatori che si trovarono furon menati prigioni a Portogallo. Tra' quali fu Mahumet, che è oggidí re di Fez, il quale, allora fanciullo di sette anni, fu preso insieme con una sua sorella della medesima età, percioché in que' dí, il padre suo avendo ribellata la provincia di Habat, abitava in Arzilla. E poscia che fu ucciso Habdulac, ultimo re della casa di Marin, per mano di Esserif, che fu un gran cittadino di Fez, con l'aiuto del popolo, il detto popolo creò Esserif re. Venne dipoi un Saic Abra, per entrare in Fez e farsi egli re. Ma Esserif, per consiglio e discorso d'un suo maggior consiglieri, ch'era fratel cugino del detto Saic, lo scacciò adietro con gran vituperio. Dipoi, avendo mandato il detto consigliere in Temesna a pacificar quel popolo, fra quel tempo ritornò Saic col soccorso di forse ottomila cavalli arabi e, assediata Fez nuova, in capo d'un anno, per tradimento de' cittadini, che non si fidavano di piú sostener le loro necessità, di facile la prese. Ed Esserif con tutta la sua famiglia fuggí al regno di Tunis.
Nel tempo adunque che Saic teneva assediata Fez, il re di Portogallo vi mandò una sua armata e, come detto abbiamo, prese questa Arzilla: e cosí il re d'oggi con la sorella furon menati prigioni a Portogallo, e ivi il detto re stette in cattività sette anni, ne' quali molto bene apprese la lingua portogallesca. In fine il padre con molta somma di danari ottenne il riscatto del figliuolo, il quale, asceso al regno, fu appellato per questa cagione il re Mahumet portogallese. Egli molte volte dipoi sollecitò alla vendetta contro a' Portogallesi, cercando di riaver Arzilla.
La prima fiata assaltò con tutto il suo esercito d'improviso la città, e ispianò una gran parte di mura, e v'entrò dentro liberando tutti i Mori ch'erano fatti schiavi. Ma i cristiani si ridussero nel castello e, dando parole al re di rendere il detto castello, vi posero in mezzo due giornate, in capo delle quali sopravenne Pietro Navarro con molti legni armati, e per forza dell'artiglierie constrinse il re, a suo mal grado, non solo a lasciar la città ma a partirsi col suo esercito. Allora i Portogallesi la fortificarono, in tanto che dipoi piú volte il re tentò di racquistarla, ma fu giudicato cosa impossibile a poterla aver per forza. Io mi trovai di continovo a questi assedii nell'esercito del re, e vi lasciammo de morti cinquecento e piú. Queste guerre del re furno fra gli anni novecentoquattordici fino a novecentoventuno di legira.


Tangia città.

Tangia è detta da' Portogallesi Tangiara, ed è una gran città, edificata anticamente, secondo la falsa oppenione d'alcuni istorici, da un signore chiamato Sedded, figliuolo di Had, il quale, com'essi vogliono, ebbe universal dominio in tutto il mondo e volse far edificare una città che fusse simil al paradiso terrestre, onde fece far le mura di bronzo e i coperti delle case d'oro e d'argento. E mandava suoi commessi per tutto il mondo a riscuotere i tributi: questa fu una di quelle città che a que' dí ve gli pagarono. Ma i buoni istorici dicono ch'ella fu fabricata da' Romani sul mare Oceano, al tempo che essi occuparono la Granata, discosta dallo stretto delle Colonne circa a trenta miglia e da Fez centocinquanta. E poi che i Gotti dominarono la detta Granata, allora questa città fu fatta soggetta al dominio di Sebta, per insino ch'ella venne in mano de' maumettani, il che fu quando essi ebbero Arzilla.
Fu sempre civile, nobile e bene abitata, ed ebbe in lei bellissimi palazzi, quale antico e quale moderno. Il terreno che la circonda non è molto buono da semenza, ma ha certe valli vicine, le quali sono bagnate dall'acqua d'una fonte: e in queste valli sono molti giardini, dove nascono melangole, limoni e altri frutti. Sono eziandio fuori della città alcune viti, ma il terreno è arena. Il popolo della quale visse con molta grandezza fin che fu occupata Arzilla: il che inteso dal detto popolo, preso ogniuno le sue cose piú care, sgombrò subitamente la città e fuggí verso Fez. Allora il capitano del re di Portogallo vi mandò un suo capo con molta gente, il quale tanto la tenne in nome del re che il re un suo parente vi mandò, perché è terra d'importanza, vicina alli monti di Gumera inimici de' cristiani.
Ma, prima che la città venisse in poter de' Portogallesi circa a venticinque anni, il re mandò una grossa armata, sperando che la città non potesse aver soccorso, essendo il re di Fez intervenuto nella guerra contra un suo ribello, che gli avea levata Mecnase città. Ma contra ogni sua oppenione il re, fatta triegua col detto, vi mandò a difesa un suo consigliere con molto esercito, il quale ruppe i Portogallesi e uccisene una gran parte, fra' quali fu il capitano, il cui corpo serrato in una cassa fu portato alla nuova Fez e posto in un alto luogo, acciò fusse da tutti veduto. Non contento il re di Portogallo di questa rotta, rifece fra poco tempo un'altra armata, la quale fu vinta come l'altra con grande uccisione e danno, non ostante che i Portogallesi assaltassero la città all'improviso e di notte. Ma quello che il re di Portogallo non poté acquistar con due armate, ebbe finalmente, quando piacque alla fortuna, con pochi soldati e senza spargimento di sangue, nel modo che abbiamo detto di sopra. Egli è vero che a' nostri dí Mahumet re di Fez fece disegno di prender questa città, ma nel vero non gli successe, percioché i Portogallesi gli si hanno dimostrato sempre pronti e gagliardi difensori: e ciò fu gli anni di legira novecentodicesette.


Casar Ezzaghir, cioè "il palazzo minore".

Casar Ezzaghir, piccola città, fu edificata da Mansor, re e pontefice di Marocco, sul mare Oceano, discosta da Tangera circa a dodici miglia e da Sebta diciotto. Edificolla egli percioché, faccendogli di mestiero di andar ciascun anno in Granata con l'esercito, era malagevole a passar certi monti verso Sebta, dove è il passo per arrivar al mare. E fatta questa città in un bel sito e piano, e da lei si vede la riviera della Granata che risponde a quella parte. Fu molto civile, e gli abitatori furno quasi tutti marinai, i quali sogliono fare il passaggio di Barberia in Europa. Ve ne furno ancora di tessitori di tele, e v'erano assai ricchi mercatanti e valenti uomini. Il re di Portogallo le fece d'improviso dare assalto e l'ebbe: onde dipoi piú volte il re di Fez, con ogni suo sforzo di gente, ha tentato di ricuperarla, né mai gli è venuto fatto. Fu nell'anno ottocentosessantatre di legira.


Sebta, gran città.

Sebta è città grandissima, chiamata da' Latini Civitas e da' Portogallesi Seupta. Fu edificata, secondo la vera oppenione, da' Romani, su la gola dello stretto delle colonne di Ercole, e fu capo di tutta Mauritania, percioché i Romani la nobilitarono, e vi fu molta civilità e gran numero di abitatori. Dapoi fu presa da' Gotti, i quali vi posero dentro un signore: e rimase il dominio nelle lor mani per insino che i maumettani entrarono in Mauritania ed ebbero questa città. Il che fu che Giuliano, conte di Sebta, ricevé allora una grande ingiuria da Roderico, re de' Gotti e di tutta Spagna; onde egli, accordatosi con gl'infideli, gl'introdusse a Granata: e fu cagione che Roderico perdesse il regno e la vita. I maumettani adunque ebbero Sebta e la tennero in nome d'un lor pontefice, detto Elgualid figliuolo di Habdul Malic, che allora aveva il suo seggio in Damasco: e fu negli anni novantadue di legira.
Questa città da quel tempo per insino a' prossimi anni è sempre ita crescendo, sí in civilità come in numero d'abitatori, a tanto ch'ella n'è divenuta la piú bella e la meglio abitata città che sia in Mauritania. Furno in lei molti tempii e collegi di studenti, molti artigiani, e uomini litterati e di gentile spirito. E de lavori di rame v'erano singularissimi artefici, come sono di candellieri, di bacini, di calamai e di cose tali di rame, e gli vendevan come se fusser stati d'argento. Io ve n'ho veduti in Italia, e molti Italiani gli avevano per lavori dammaschini: ma questi nel vero erano piú gentili e meglio fatti. Fuori della città sono bellissime possessioni con bellissime case, spezialmente in un luogo che, per la moltitudine delle viti che vi sono piantate, è detto Vignones. Ma la campagna della città è magra e aspra: per tal cagione v'è sempre nella città carestia di grano. Di fuori e dentro della detta città si vede la riviera di Granata su lo stretto, e si conoscono gli animali, percioché non c'è di spazio, da una parte all'altra del mare, piú che dodici miglia per larghezza.
Ma la povera città ebbe, pochi anni sono, molti danni da Habdul Mumen, pontefice e re, contra cui teneva: egli la prese, rovinò le sue case e condannò gran quantità de nobili a perpetuo esilio in diverse parti. Il simil danno sostenne dipoi dal re di Granata, il quale presala, oltre le rovine, tutti i nobili e ricchi fece venire in Granata. Poi, negli anni ottocentodiciotto, fu presa da un'armata del re di Portogallo, e quelli che v'erano dentro fuggirono. Ma Abu Said, allora re di Fez, per sua dappocaggine non si curò di riacquistarla, anzi, quando alle sue orecchie pervenne la nuova, trovandosi fra conviti e danze, non volle per quello avviso che s'interrompesse la festa. Permise poi la man di Dio che egli miseramente una notte fu ucciso da un suo antico secretario, di cui molto si fidava, insieme con sei suoi figliuoli, percioché il detto re volse impacciarse con la moglie del detto: che fu gli anni ottocentoventiquattro di legira; rimase allora il regno di Fez vedovo circa a otto anni. Fu poi trovato un suo piccolo figliuolo nasciuto d'una cristiana, che la notte degli omicidi era fuggita in Tunis: questi fu Habdulac, l'ultimo re della casa di Marin, e fu ancora egli ucciso dal popolo, come si disse disopra.


Tetteguin.

Tetteguin è una piccola città edificata dagli antichi Africani, discosta dallo stretto circa a diciotto miglia e dal mare Oceano circa a sei. I maumettani la presero nel tempo che tolsero Sebta a' Gotti. Dicesi che i Gotti, allora che l'ebbero acquistata, diedero il dominio a una contessa, la quale aveva un solo occhio, e veniva ogni settimana alla città per riscuotere l'utile che ne traeva: e perché ella aveva solamente un occhio, gli abitatori chiamarono la città Tetteguin, il che nella lingua africana significa "occhio". D'indi a certo tempo i Portogallesi diedeno battaglia a questa città, e l'ebbero, e il popolo si fuggí.
Ella rimase circa a novantacinque anni disabitata, in capo de' quali fu ristorata e fatta riabitar da un capitan granatino, il quale venne col re di Granata a Fez, doppo che Granata fu presa da don Ferrando re di Spagna. Costui fu uomo eccellente nella milizia, e dimostrò molta prodezza nelle guerre di Granata: e appresso i Portogallesi lo chiamano Almandali. Costui ottenne di poter rifare e godersi il dominio di questa città, e cosí egli ritornò in piè tutte le mura e fece fabricare una rocca fortissima, cingendo la fortezza e le mura di fosse. Egli poscia di continovo ebbe a guerreggiar contra a' Portogallesi, e faceva spessi e gran danni a Sebta, Casar e Tangera, percioché il detto teneva sempre trecento cavalli, uomini tutti granatini e il fiore di Granata. Con questi correva per quei paesi e pigliava molti cristiani, i quali tenendo prigioni gli affaticava di continovo nei lavori delle sue fortezze; e io, una volta che fui in detta città, viddi tremila schiavi cristiani, che eran tutti vestiti di sacchi di lana e dormivan la notte in certe fosse sotto terra, bene incatenati. Fu costui uomo liberalissimo, intanto che onorava ogni forestiero che passasse per la sua città. E poco tempo è ch'egli si morí, dapoi che rimase privo della vista, percioché l'uno degli occhi gli tolse una punta di pugnale, della luce dell'altro fu privo nella sua vecchiezza. Rimase la città a un suo nipote, ch'è oggi valentissimo uomo.


Monti di Habat.

In Habat sono otto monti piú famosi degli altri, i quali sono abitati dal popolo di Gumera: e quasi tutti gli abitatori sono d'una medesima vita e costume, percioché tutti tengono la fede di Maumetto; nondimeno bevono vino contra il suo precetto. Sono gagliardi della loro persona, molte fatiche e affanni sofferiscono, ma vanno male in arnese. Sono soggetti al re di Fez e hanno molta gravezza dei tributi che gli pagano, di maniera che pochi possono vestir bene, eccetto alcuni, come particolarmente vi si dirà.


Rahona monte.

Rahona è un monte vicino di Ezaggen, il quale è lungo trenta miglia e largo circa dodici, nel qual si truova grandissima abbondanza d'olio, dí mele e di viti. Gli abitatori ad altro non attendono che a far sapone e a purgar la cera, e ricogliono eziandio gran quantità di vini neri e bianchi, quali tutti se gli beono. Frutta il monte di rendita al re tremila ducati, i quali sono assegnati al capitano e governator di Ezaggen, per mantener quattrocento cavalli ai servigi del re.


Beni Fensecare monte.

Beni Fensecare è un monte che confina col sopradetto, il quale è circa a vinticinque miglia per lunghezza, e per larghezza circa a otto. E piú del detto abitato, e sono in lui molti conciatori di cuoi di vacca e molti tessitori di tele grosse. Essi ancora raccolgono molta cera, e fanno il sabbato un gran mercato, dove si truova ogni sorte di mercatanti e di mercanzie: per insino a Genovesi vanno al detto mercato per comperar cera e cuoi crudi di bue, i quali fanno portare a Genova e a Portogallo. Rende questo monte seimila ducati: la metà risponde al capitano di Ezaggen, e l'altra metà si dà alla camera del re di Fez.


Beni Haros monte.

Beni Haros è monte vicino di Casar, e verso tramontana s'estende circa a otto miglia, e verso ponente venti; ve n'ha di larghezza sei. Fu abitato da certi nobili e cavalieri, ed era popoloso e abbondante: ma furon questi nobili molto tiranni verso il popolo, di maniera che, doppo che Arzilla fu presa da' Portogallesi, essi abbandonorno il monte. E oggi nella cima del monte solamente sono alcuni pochi casali; il resto è disabitato. Soleva esser la rendita di questo monte tremila ducati, i quali erano dati al capitano di Casar.


Chebib monte.

In questo monte sono circa a sei o sette castella, ed è abitato da gente civile e molto onesta, percioché, quando Tangera fu presa da' Portogallesi, molti suoi cittadini vennero ad abitar questo monte, per esser discosto da Tangera venticinque miglia. Ma gli abitatori sono molto da' Portogallesi molestati, e nella perdita di Tangera il detto monte fu peggiorato per la metà, e di continovo va peggiorando: il che avviene percioch'egli è lontano dal capitano della custodia trenta miglia, per modo che non se gli può dar soccorso a tempo, ogni volta che i Portogallesi vi fanno le correrie, guastando e depredando ciò che possono.


Beni Chessen.

Beni Chessen è un monte altissimo e difficile ad esser preso da nimici, percioché, oltre alla qualità del luogo, è abitato da uomini valorosi e di gran prodezza. Costoro, non potendo sostener la tirannide d'alcuni lor cittadini, per forza d'arme gli levaron la superbia di capo, e molti a strana condizione ridussero. Allora un giovane de' detti nobili, sdegnandosi d'esser soggetto de' suoi soggetti, ripieno di mal talento andò in Granata, dove, per alcun tempo militando al soldo de' cristiani, si fece uno esperto guerriero. Tornò dipoi ad abitare ad uno di que' monti dove erano ricorsi i suoi uguali, e raunato un numero assai onesto di cavalli, difendeva quel monte dall'empito de' Portogallesi. Per il che il re, vedendo il pronto animo di costui, gli aggiunse centocinquanta balestrieri, co' quali egli combatté il sopradetto monte e scacciò da quello i suoi nimici. Ma usurpandosi egli poi l'entrata di questo monte, che apparteneva al re di Fez, il re si sdegnò e se gli mosse contra con grande esercito. Ma il detto presto discese a penitenzia del suo errore; perdonogli il re, e lo confermò signore di Seusauon e di tutto quel contado. Doppo lui ne fu signore legittimo, che fu della origine di Maumetto e del legnaggio d'Idris, che edificò Fez. Costui è molto conosciuto da' Portogallesi, e molto l'istimano per il suo nome e per la casata de Helibenres.


Angera monte.

Angera monte è vicino a Casar minore circa otto miglia verso mezzogiorno; s'estende per lunghezza circa dieci e per larghezza tre. Ha buoni terreni, percioché gli abitatori lo purgarono d'alberi per far navigi in Casar, nel qual era l'arsenal; usarono ancora a seminarvi del lino, e furono tutti o tessitori di tele o marinai. Ma quando Casar fu preso da' Portogallesi, allora gli abitatori lasciarono il monte; ma tuttavia oggidí vi sono tutte le sue case e le possessioni, tali quali se fussero abitate e coltivate.


Quadres.

Quadres è un altissimo monte fra Sebta e Tetteguin; è abitato da uomini di somma gagliardezza, i quali fecero di gran pruove nella guerra che ebbero li re di Granata con gli Spagnuoli, perché questi montanari usavan d'andar in Granata per soldati di ventura, e valevano piú di tutto il resto de' soldati de' detti re. Di questo monte fu uno, che si chiamava Hellul, il quale ha fatto similmente di grandi combattimenti con detti Spagnuoli: e il volgo d'Africa e di Granata tiene appo lui le istorie scritte de' fatti suoi, alcuni in prosa e altri in verso, sí come fra gl'Italiani si tengono i fatti d'Orlando. Ma egli al fine fu ucciso nella guerra degli Spagnuoli, quando fu rotto Giuseppe Enesir, re e pontefice di Marocco, sopra un castello in Catalogna, il quale i Mori appellano il castello dell'Aquila. De' Mori furono uccisi sessantamila combattenti, né vi scampò di quello esercito altri che 'l re e alcuni pochi de' sua: questo fu negli anni seicentonove di legira, che può esser negli anni di Cristo millecentosessanta. Doppo quella rotta i cristiani incominciarono ad esser nella Spagna vittoriosi, intanto che riebbero tutte le città che erano state occupate da' Mori. E da quella cosí gran rotta fino al tempo che 'l re don Fernando acquistò Granata, fu lo spazio d'anni 285 secondo gli Arabi.


Beni Guedarfeth monte.

Beni Guedarfeth è un monte vicino a Tetteguin, ed è molto abitato, ma non molto s'estende; i suoi abitatori sono valenti uomini e hanno qualche qualità. Sono sotto il capitano della sopra detta Tetteguin, il qual molto osservano, percioché con esso lui vanno a depredar parimente nel contado della città tenuta da' cristiani: onde aviene che essi non pagano al re di Fez gravezza alcuna, fuor che certo piccolo censo per conto de' loro terreni. E all'incontro cavano del monte gran quantità di danari, percioché v'è gran moltitudine di bossi, e i maestri dei pettini che sono in Fez di questi si servono ne' lor lavori, levandone ogni anno non poco numero.


Errif, regione di Fez.

Errif è una regione del detto regno, la quale incomincia dal confino dello stretto delle colonne d'Ercole dalla parte di ponente, e s'estende verso levante insino al fiume Nocor, che sono circa a centoquaranta miglia di tratto. Da tramontana termina nel mare Mediterraneo, cioè nella sua prima parte, e allungasi verso mezzogiorno circa a quaranta miglia, insino a' monti che rispondono verso il fiume Guarga, il quale è nel tenitoro di Fez. Questa regione è paese tutto aspro, pieno di freddissimi monti, dove sono molti boschi di alberi belli e dritti: ma non vi nasce grano; ben vi sono assai viti, ficaie, olive e mandorli. Gli abitatori eziandio sono uomini valenti, ma molto volentieri s'imbriacano e vanno mal vestiti. Vi si truovano pochi animali, eccetto capre, asini e simie, che sono in gran quantità nei detti monti. Cittadi ve ne son poche, ma sono tutti castelli e villaggi di tristi casamenti, fatti in uno solaio, a guisa delle stalle che si veggono nei contadi d'Europa, li loro tetti formati e coperti di paglia e di cotai scorza d'alberi. Infine tutti gli uomini di questo monte hanno nella gola quei gossi che si veggono alle volte ad alcuni, e sono equalmente bruttissimi e ignorantissimi.


Terga.

Terga è una piccola città, la quale secondo alcuni fu edificata da' Gotti sul mare Mediterraneo, discosta dallo stretto circa a ottanta miglia; fa circa cinquecento fuochi, e sono le mura piú tosto deboli che altrimenti. Gli abitatori sono quasi tutti pescatori, e il pesce che prendono usano d'insalare, il quale è comperato da mercatanti montanari e portato d'indi circa a cento miglia verso mezzogiorno e dentro la terra ferma. Questa città fu bene civile e popolosa, ma dipoi che i Portogallesi miser piè nella sopradetta città, incominciò forte a declinare, sí di civilità come d'abitazione. Intorno la città sono molti boschi sopra aspri e freddi monti, dove nasce orzo, ma in sí poca quantità che non basta per la metà dell'anno. Egli è vero che gli abitatori sono uomini valenti, ma bestiali, ignoranti e imbriachi, e sogliono malissimo vestire.


Bedis, ora detta Velles de Gumera.

Bedis è una città edificata sul mare Mediterraneo, la quale da' Spagnuoli è detta Velles de Gumera, e fa circa a seicento fuochi. Alcuni degli istorici dicono ch'ella fu edificata dagli Africani, e altri da' Gotti. Come si sia, questa è fra dui altissimi monti, e d'appresso v'è una gran valle, la quale quando piove diviene una fiumara. Dentro la città è una piazza, dove sono molte botteghe e un tempio non molto grande. Ma non c'è acqua da bere: v'è di fuori un pozzo dove è la sepoltura d'un lor santo, ma è non poco pericolo a pigliar della sua acqua di notte, per esser pieno di sansughe. Gli abitatori sono divisi in due parti, percioché alcuni sono pescatori e alcuni corsali, i quali con le lor fuste vanno rubando i litti de' cristiani. D'intorno vi sono monti alti e aspri, dove si truovano buoni legni per far fuste e galee: e i montanari d'altro non vivono che di portar cotai legni in diversi luoghi. Non vi nasce molta quantità di frumento, perciò nella detta città si pascono di pane d'orzo. Usano eziandio di mangiar molte sardelle e altri pesci, percioché i pescatori ve ne pigliano in tanta copia, che sempre fa di bisogno d'alcuni che gli aiutino a tirar le reti: onde sogliono quasi ogni mattina andare al litto molti poveri uomini, i quali, porgendo loro aiuto, hanno in premio assai buona parte dei pesci che prendono. Ne donano ancora a tutti quelli che si ritruovano presenti; ma le sardelle essi l'insalano, e le mandano ai monti. Dentro la città c'è una bella e lunga contrada abitata da giudei, e dove si vende il vino: a tutti gli abitatori il vino pare divino liquore, e quasi ogni sera a' tempi buoni vanno nelle loro barchette dilungandosi molto spazio da terra, e il solazzo che prendono si è il bere e il cantare.
V'è pure nella città una bella rocca, ma non molto forte, nella quale abita il signore, e fuori di lei il detto signore ha similmente un palazzo con un bellissimo giardino. Fuori ancora di lei, a canto la marina, v'è un piccolo arsenal dove si suol fare qualche fusta o galea e qualche barca, percioché il signore e i cittadini usavano d'armar certe fuste, e le mandavano ai paesi de' cristiani faccendo loro di gran danni. Per il che don Ferrando sopradetto re di Spagna mandò fuori una sua armata, la quale prese un'isola posta al dirimpetto di questa città e da lei discosta circa a un miglio, e quivi fece fare una fortezza sopra un scoglio, fornendola di soldati, di vettovaglie e di buonissime artiglierie, le quali tanto molestavano quei della città che nelle strade e nel tempio uccidevano degli uomini. Il signore addimandò soccorso al re di Fez, il quale mandò all'isola molti fanti: ma furono malmenati e parte crudelmente uccisi, parte presi, e parte ritornarono feriti a Fez. I cristiani tennero quest'isola due anni, dipoi, per trattato d'un soldato spagnuolo, il quale uccise il capitano che gli aveva vergognato la moglie, venne in mano de' Mori, e tutti i cristiani furono tagliati a pezzi, eccetto colui che tradí l'isola, il quale ne fu assai ben premiato dal signore di Bedis e dal re di Fez. Di questa istoria me ne fu data informazione nella città di Napoli da chi vi si truovò presente dell'anno 1520 al modo de' cristiani.
Il signore oggidí molto diligentemente custodisce questa isola, ed è favorito dal re di Fez, percioché quivi è il piú vicin porto a Fez che sia nel mare Mediterraneo, benché v'è d'intervallo circa a centoventi miglia. E sogliono venire a questo porto, una volta l'anno o in capo di due anni, le galee de' Veneziani con loro mercatanti, dando a baratto robba per robba, anco vendendone a contanti. E conducono eziandio le mercanzie e li Mori proprii dal detto porto insino a Tunis, e alle volte a Vinegia, o fino ad Alessandria e Barutto.


Ielles.

Ielles è una piccola città sul mare Mediterraneo, discosta da Bedis circa a sei miglia, dove c'è un buon porto, ma piccolo, nel quale si riparano le navi grosse che vanno a Bedis quando il mare è turbato. Sono vicini alla detta città molti monti, ne' quali sono gran boschi di pigne. A' nostri dí questa città è rimasa disabitata per cagione di corsali spagnuoli, eccetto certe cappannuccie di pescatori, i quali stanno di continovo su l'aviso e, come vedono una fusta, fuggono ai monti e subito ritornano con molta quantità di montanari in loro difesa.


Tegassa.

Tegassa è una piccola città molto abitata, posta sopra un fiume e discosta dal mare Mediterraneo circa a due miglia. Fa poco meno di cinquecento fuochi, ma è molto male agiata di case. Gli abitatori sono tutti pescatori e barcaruoli, i quali portano le vettovaglie alla città, percioché il terreno è tutto ripieno di monti e boschi e non vi nasce grano; ben vi sono molte viti e molti alberi fruttiferi. Nel resto è tutta misera e gli uomini non si pascono d'altro che di pane di orzo, di sardelle e di cipolle. Quando io fui in questa città, non vi potei far dimora piú d'un giorno, per la molta puzza delle sardelle, che annoia tutto quel luogo.


Gebha.

Gebha è una piccola città ben murata, la quale fu edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo, discosta da Bedis circa a ventiquattro miglia. Questa alle volte è abitata e alle volte no, secondo la provisione che corre a quegli che n'hanno il governo e custodia. È cinta tutta d'aspro terreno, dove sono molte fontane e boschi, e vi sono d'intorno certe vigne e terreni di frutti. Quivi non è né edificio né tetto che dire si possa bello.


Mezemme.

Mezemme è una gran città posta sopra una piccola montagna sul mare Mediterraneo, nel confino della provincia di Garet, e di sotto di lei è una gran pianura, la quale ha di larghezza circa a dieci miglia e di lunghezza ventotto verso mezzogiorno. Per mezzo la detta pianura passa il fiume Nocore, che divide Errif da Garet, e in lei abitano certi Arabi, quali coltivano i terreni e ne raccolgono gran quantità di grano, del quale in sua parte ha il signore di Bedis circa a cinquemila moggia.
Anticamente questa città fu molto civile e molto abitata, ed era sedia del signor della detta provincia; ma fu due volte rovinata. La prima per lo pontefice del Caraoan, il quale si sdegnò ch'el signor di lei ricusava di dargli il consueto tributo, e presala la fece saccheggiare e abbruciare. Al signore fu tagliata la testa e mandata al Caraoan su la punta d'una lancia, e fu negli anni trecentodiciotto di legira. Dipoi rimase quindici anni disabitata, in capo de' quali, sotto la difesa del detto pontefice, fu riabitata da certi signori. Ma il signor di Cordova ve n'ebbe gelosia, per esser vicina a' suoi confini circa a ottanta miglia, il che è la larghezza che contiene il mare fra Malaga, che è in Granata, e la detta terra, che è in Mauritania. Costui adunque tentò prima d'avere il tributo, il quale essendogli ricusato, mandò a lei l'armata e in un momento ebbe la città, percioché non poté giungere il soccorso di quel pontefice, per essere il Cairaoan lontano da questa duemilatrecento miglia, di modo che ella fu presa prima che al Cairaoan fosse pervenuta la dimanda dell'aiuto. Cosí fu saccheggiata e distrutta, e il principal signore mandato prigione a Cordova, dove si stette fino alla morte sua; oggidí solo vi rimangono le mura. Ciò fu negli anni ottocentonovantadue di legira.
Ora diciamo di alcuni monti di Errif.


Benigarir monte.

Benigarir è un monte abitato da una stirpe di Gumera, ed è vicino a Terga; estendesi per lunghezza dieci miglia ed è largo circa a quattro. In lui sono molti boschi e vigne e terreni d'olive. Gli abitatori sono poverissimi e poveramente vestono; hanno pochi animali, ma sogliono far molto vino e mosto cotto. L'orzo in questo paese nasce in picciola quantità.


Beni Mansor monte.

Beni Mansor monte s'estende circa a quindici miglia, ed è largo circa a cinque; vi sono boschi e fonti in molto numero. Gli abitatori sono uomini di molta forza, ma poveri, percioché nel monte loro altro non nasce che uva. Ben tengono qualche capra e usano di far mercato una volta la settimana, ma in quello altro io non viddi che cipolle, aglio, uva secca e sardelle salate, e qualche poco di biada e di panico, del quale fanno il pane. Sono sottoposti al signore di Bedis, sopra la ripa del mare.


Bucchuia monte.

Bucchuia monte s'estende circa a quattordici miglia, e la sua larghezza è circa otto. Gli abitatori sono quasi piú ricchi di tutti gli altri montanari, e vanno bene in ordine e hanno parecchi cavalli, percioché il monte ha buoni terreni d'intorno. Né pagano molta gravezza, per cagione che un santo uomo, il quale è sepellito in Bedis, fu di questo monte.


Beni Chelid monte.

Per questo monte tiene il cammino chi parte da Bedis per andare a Fez, il quale è molto freddo e pieno di boschi e di freddissime fontane. Quivi non nasce grano, ma vi sono vigne, e gli abitatori sono soggetti al signore di Bedis: ma per la lor povertà, e gravezza di tributi che pagano al signore, sono ladri e assassini.


Beni Mansor.

Beni Mansor monte s'estende circa a otto miglia, ed è discosto dalla marina come i due sopradetti. Gli abitatori sono valenti e gagliardi, ma di continuo imbriachi. Raccolgono assai uve e poco grano. Le donne loro vanno dietro alle capre pascolando, e fra questo mezzo filano, né alcuna v'è che servi fede al marito.


Beni Giusep.

Beni Giusep monte è lungo circa a dodici miglia e largo circa a otto. I suoi abitatori sono poveri e peggio vestono di tutti gli altri, percioché niuna cosa buona nasce nel loro monte, eccetto poca quantità di panico, il qual essi compongono insieme con gli acini dell'uva, e di quello ne formano un pane negro e aspero, che è invero tristissimo. Sogliono mangiare assai cipolle, e hanno certi fonti torbidi, ma molta copia di capre; tengono la lor latte per un precioso cibo.


Beni Zaruol monte.

Beni Zaruol monte è piantato di molte viti, e ha molto buon terreno d'olive e d'altri frutti. Gli abitatori sono poveri e soggetti al signore di Seusaoen, il quale fa lor pagare di molte gravezze, di modo che i meschini niuna cosa si possono avanzare de' lor vini. Fanno una volta la settimana il mercato, nel quale altro non si trova che fichi secchi, uva secca e olio; e usano ammazzare molti becchi e capre vecchie che non sono piú buone da fruttare.


Beni Razin monte.

Beni Razin monte è quasi vicino al mare Mediterraneo ne' confini di Terga. Gli abitatori stanno agiati e sicuri, perché il monte è forte e fertile, e non pagano gravezza niuna. Nascevi grano e olive e sonvi molte viti, e il terreno è buono, massimamente nelle coste del monte. E le lor donne sono li pastori delle capre e lavoratrici della terra.


Seusaoen monte.

Seusaoen monte è il piú piacevole di quanti ve ne sono in Africa, dove è una piccola città ripiena d'artigiani e di mercatanti, percioché quivi è la stanza del signore di molti monti, qual cominciò a far civil detto monte, e fu rebelle alli re di Fessa, ed era chiamato Sidiheli Berrased, e fece guerra anco di continuo con li Portogallesi. Gli abitatori di questa, e dei villaggi che sono per detto monte, non pagano al detto signore alcuna gravezza, perché essi sono per la maggior parte suoi soldati a cavallo e a piedi. Nel monte nasce poco grano, ma molto lino, e vi sono grandi boschi e infiniti fonti. E li suoi abitatori vanno assai bene in ordine.


Beni Gebara.

Beni Gebara è monte molto aspro e alto, a piè del quale passano alcuni piccoli fiumi, ed è abbondevole di viti né meno di fichi; grano non vi nasce. E gli abitatori vanno mal vestiti, ma hanno molte capre e certi piccoli buoi, di maniera che paion vitelli d'otto mesi. Fassi ogni settimana il mercato, ma un mercato quasi senza robbe: pure vi vengono mercatanti di Fez, e i mulattieri che recano i frutti a Fez. E fu questo d'un parente del re; frutta l'anno circa a duemila ducati.


Beni Ierso monte.

Beni Ierso monte fu molto abitato, e vi soleva essere un collegio di studenti di legge. E gli abitatori, per cagione di ciò, erano liberi d'ogni gravezza; ma un tiranno, con l'aiuto del re di Fez, se 'l fece tributario, saccheggiandolo insieme col collegio, nel quale furon trovati libri per valore di quattromila ducati. E fece uccider questo tiranno uomini di grande stima. Fu gli anni novecentodiciotto di legira.


Tezarin monte.

Tezarin è un monte vicino al sopradetto, dove sono molti fonti, boschi e viti. Sopra vi si veggono non pochi antichi edifici, che furono al mio parere fabbriche de' Romani, dove i ricercatori del tesoro, che di sopra dicemmo, sogliono far cavare. Gli abitatori sono ignoranti e poveri per gravezze.


Beni Buseibet.

Beni Buseibet monte è molto freddo e aspro, né vi nasce grano, né meno vi si può tener bestiame, percioché per la gran freddura è secco, e gli alberi sono di qualità che delle lor foglie non si possono pascer le capre. V'è gran copia di noci, e di quelle si fornisce Fez e le vicine cittadi; tutta la uva che raccolgono è negra, e fassene bello e grosso zibibbo e assai dolce; fansi ancora mosti cotti e grandissimi vini. Gli abitatori vanno tutti vestiti di sacchi di lana, e sono cotai sacchi della sorte che si veggono in Italia schiavine, e son fatti con nere e bianche liste. Hanno eziandio questi sacchi certi cappucci che si pongono in testa, talmente che chi gli vede piú tosto bestie che creature umane gli giudica. Il verno i mercatanti delle noci e zibibbo che vanno da Fez al detto monte, ma ivi truovano per lor cibo né pane di frumento né carne, solamente cipolle e sardelle salate, che quivi sono carissime, usano di mangiare mosto cotto e minestre di fava, le quali quei del monte hanno per miglior cibo che sia tra loro; e il mosto cotto mangiano col pane.


Beni Gualid monte.

Beni Gualid è un monte molto alto e difficile, gli abitatori del quale sono ricchi, perché hanno moltissime vigne d'uva negra per far zibibbi. Hanno terreni eziandio assaissimi di mandorle, di fichi e di olivi; oltre a ciò non pagano tributo al re di Fez, fuori che per ciascun casale quasi un quarto di ducato, sí che possono andar sicuramente in Fez a comperare e vendere. E se alcun torto vien lor fatto, quando qualche parente dell'offenditore si conduce al monte loro, nol lasciano ritornare alla città per insino che essi non sono minutamente sodisfatti d'ogni lor danno. Gli uomini vanno ben vestiti e ornati, e ogni malfattore bandito di Fez è sicuro nel monte loro: anco gli fanno le spese per fin ch'egli vi sta. Se questo monte fosse sotto il dominio del re di Fez, gli renderebbe seimila ducati d'entrata, percioché vi sono sessanta casali e tutti ricchi.


Merniza monte.

Merniza monte confina col sopradetto, e sono d'una medesima stirpe e parità con li sopradetti in riccheza, libertà e nobiltà; ma sono in ciò differenti di costumi, che una moglie, per minima ingiuria che ella riceva dal marito, fugge ad altri monti e, lasciando i figliuoli da parte, un altro marito si prende. Per questa cagione di continovo gli uomini sono alle arme e fanno di continovo gran quistione, e se debbeno far pace è necessario che colui a chi resta la donna restituisca al marito prima le spese fatte per il matrimonio della donna: e per questo stanno e hanno fra loro alcuni giudici, di sorte che non solo scorticano la pelle a' poveri litiganti, ma lor cavano il cuore.


Haugustum monte.

Haugustum è un monte molto alto e freddo, e sono in lui molti fonti e vigne di uva negra, fichi in ogni perfezione, mele cotogne grosse e belle e molto odorifere, e somigliante ai cedri: ma questi sono nel piano che è sotto il monte. Havvi ancora molti terreni d'olive, delle quali si cava gran quantità d'olio. Gli abitatori sono liberi d'ogni tributo, ma per lor gentilezza sogliono ogni anno far belli e onorati presenti al re di Fez; e perciò se ne vanno con ogni sicurtà e baldanza a Fez, comperando grani, lane e tele, percioché vestono da gentiluomini, massimamente quegli del casal maggiore, dove sono per maggior parte gli artigiani, i mercatanti e i nobili.


Beni Iedir monte.

Beni Iedir monte è grande e molto abitato, ma in esso non vi nasce se non uva negra, della qual fassi zibibbo e vino. Gli abitatori erano prima liberi dai tributi, ma per la loro povertà assassinavano e spogliavano tutti i forestieri, onde il signor di Bedis, col braccio del re di Fez, gli soggiogò e levò loro la libertà. Sono nel detto monte circa a cinquanta casali assai capevoli, ma non raccolgono da tutti quattrocento ducati l'anno.


Lucai monte.

Lucai è monte malagevole e molto alto. Gli abitatori sono ricchissimi, percioché il monte è fertile d'uve, delle quai fanno il zibibbo, di fichi, di mandorle, d'olio, di cotogne e di cedri; e per esser vicino a Fez circa trentacinque miglia, vendono ogni lor frutto nella detta città. Sono ancora uomini nobili e cavalieri, e sopra tutto superbi, in tanto che nessun tributo hanno mai voluto pagar, essendo molto ben difesi dalla natura del monte. Similmente tutti gli sbanditi di Fez sono da questi accettati, i quali lor fanno buona compagnia, eccetto agli adulteri, percioché essi sono gelosi e non gli vogliono appresso loro. Il re concede il tutto, per il grande utile che 'l detto monte partorisce a Fez.


Beni Guazeual.

Beni Guazeual monte s'estende circa trenta miglia per lunghezza e per larghezza circa a quindici, ed è diviso in tre altri monti; corrono fra questi e i due di sopra detti certi fiumicelli. Gli abitatori sono uomini prodi e molto arditi, ma di soverchio aggravati dal capitano del re di Fez, percioché gli pagano l'anno diciottomila ducati. Il monte è in vero fertilissimo d'uve, d'olive, di fichi e di lino, e fanno gran quantità di vini e di mosto cotto, d'olio e di tele grosse. E del tutto ne fanno danari per pagar la detta somma al detto capitano, che vi tien di continuo commissarii e fattori per cavar gli occhi ai detti montanari. Vi sono infiniti villaggi e casali, quai di cento fuochi e quai di dugento, e sono circa centoventi fra villaggi e casali: e da questi si può far venticinquemila combattenti. Di continovo sono coi lor vicini in guerra, e si ne uccidono molti, e il re vuol danari d'una parte e l'altra per gli uomini amazzati, di maniera che la guerra è a utile del signore.
In questo monte è una piccola città assai civile, nella quale sono molti artigiani; ed è cinta da molti terreni di viti, di cotogne e di cedri che si portano a Fessa, e nella detta città fassi ancora non poca quantità di tela; vi sono giudici e avvocati della legge: perciò, quando si fa il mercato, vi si raguna gran numero da' vicini monti. È ancora nel sopradetto monte una valle, nella quale è una buca a guisa di grotta, donde esce di continovo gran fiamma di fuoco: e ho veduto molti forestieri, i quali vengono a questa valle per veder il detto fuoco, nel quale gettano fascine e legne, e immediate sono bruciate; e questo fuoco è il piú admirabile che abbi veduto delle cose naturali. Alcuni credono questa esser la buca dell'inferno.


Beni Gueriaghel monte.

Beni Gueriaghel confina col sopradetto, ma gli abitatori dell'uno e dell'altro hanno insieme perpetua nimicizia. Sotto il detto monte sono assai belle pianure, le quali confinano col contado di Fez, e per le dette pianure passa il fiume Guarga. Ricogliesi di questo monte quantità grande d'olio, di grano e di lino, e se ne fanno molte tele. Ma il buon re tiene sempre le mani ne' lor beni, di maniera che questi, che sarebbono i piú ricchi degli altri, per la iniustizia dei signori sono certamente i piú poveri. Sono naturalmente gagliardi e animosi, e fanno circa dodicimila uomini da guerra. Hanno poco meno di sessanta villaggi molto grandi.


Beni Achmed.

Beni Achmed monte per lunghezza contiene diciotto miglia e per larghezza sette. È molto aspro: sono in lui molti boschi, e assai viti, olive e fichi, ma v'è pochissimo terreno per grano, e sono gli abitatori molto aggravati dal re di Fez. D'intorno e fra il monte si truovano molti fiumicelli e fonti, ma amari e torbidi, e quasi la loro arena è di calcina. Quivi sono non pochi che hanno, come s'è detto di alcuni, i gossi molto isconci. Tutti comunemente beono vin puro, e durano i lor vini quindici anni, ma gli fanno poco bollire; anco ve ne hanno di crudo, e fanno gran quantità di mosto cotto, e lo tengono in certi vasi stretti di sotto e larghi nella bocca. Fanno il mercato una volta la settimana, nel quale si vendono vini, olio e zibibbo rosso in grandissima quantità. Sono questi montanari poverissimi, e dimostrano la lor povertà nell'abito; sempre tra loro hanno nimicizie antiche, e sempre sono all'arme.


Beni Ieginefen monte.

Beni Ieginefen monte confina col sopradetto e s'estende circa a dieci miglia; fra questo e 'l superiore passa un piccol fiume. Gli abitatori sono tutti imbriachi e il vino è il loro dio. Non ricolgono dal detto monte grano di niuna sorte, ma infinita quantità di uva; capre v'è similmente: ne hanno molte e le tengono sempre ne' boschi, e non si mangia altra carne che di becco e capra. Io ebbi molta pratica con questi uomini, percioché mio padre soleva tenere alcuni poderi nel detto monte: ma molto stentava di cavar frutto di quelli terreni e vigne, perché li montanari sono cattivi pagatori.


Beni Mesgalda monte.

Beni Mesgalda monte confina col sopradetto e con il fiume Guarga, e gli abitatori di lui tutti fanno saponi, percioché ne traggono gran quantità d'olio; ma non sanno far sapon duro. Sotto il monte vi sono grandissime pianure, e le tengono certi Arabi, onde le piú volte questi combattono con li detti. Il re di Fez gli fa pagar grosse taglie e sempre truova nuove cose per accrescergliele. Fra questi montanari vi sono molti dottori della legge, e hanno molti scolari, li quali fanno grandissimi danni per detti monti, e massimamente nei luoghi dove non sono accarezzati; e bevono del vino secretamente, e nondimeno fanno intendere al volgo che 'l vino è proibito, ma non c'è chi loro presti fede. Gli abitatori di questi monti non sono troppo gravati, perché sono quelli che mantengono detti dottori e scolari.


Beni Guamud.

Beni Guamud monte confina col territorio di Fez, ma il fiume divide il monte dal contado. Gli abitatori fanno ancora essi tutti saponi, da' quali il re cava seimila ducati di rendita; né sono piú che venticinque ville. Per tutte le coste del monte sono buoni terreni e gran copia d'animali, ma v'è poca acqua. In fine tutti questi sono uomini ricchi, e ogni giorno di mercato vanno a Fez e fanno perfettissima vendita delle loro robbe. Né in detto monte nasce cosa che non sia necessaria alla vita umana. È discosto dieci miglia da Fessa.


Garet, sesta regione del regno di Fez.

Abbiamo descritto la regione d'Errif, le città e i monti piú famosi; ora seguiremo di Garet, sesta regione, o vogliamo dire provincia, del regno di Fez. Questa comincia dal fiume Melulo, cioè da ponente, e in la parte di levante termina nel fiume Muluia, e da mezzogiorno termina nelli monti che sono nelli confini di certi deserti vicini alla Numidia. Estendesi verso tramontana fino al mar Mediterraneo, e per la larghezza, cioè sul mare, dal fiume de Nocor fino al fiume Muluia; e per la larghezza di verso mezzogiorno termina nel detto fiume Melulo, ed estendesi anco in parte di ponente a canto li monti del Chauz, calando verso il mare sopra il fiume di Nocor. È lunga circa a cinquanta miglia e larga circa a quaranta, ed è molto aspera e secca ed è simile a' diserti di Numidia; ancora è molto disabitata, massimamente doppo che gli Spagnuoli si sono impadroniti delle sue due principali città, come vi narrerò.


Melela città.

Melela è città grande e antica, edificata dagli Africani sopra il capo d'un golfo del mare Mediterraneo. Fa circa a duomila fuochi, e fu in lei molta civilità, percioché questa città era il capo della regione e avea gran contado, donde si cavava gran quantità di ferro e di mele: e per tal cagione la città fu detta Melela, che cosí nella lingua africana si chiama il mele. Nel porto della detta città anticamente si pigliavan le ostriche che fanno le perle. Fu ella un tempo sottoposta a' Gotti, ma dipoi i maumettani la riacquistarono e i Gotti si fuggirono a Granata, che è discosta dalla detta città cento miglia, cioè quanto contiene la larghezza del mare. Ne' tempi moderni il re di Spagna mandò un'armata ad espugnarla, ma prima che ella arrivasse, gli abitatori n'ebbero avviso e dimandarono aiuto al re di Fez, il quale, essendo allora occupato nella guerra co' popoli di Temesna, vi mandò un leggiero esercito. Onde i sopradetti, essendo molto bene informati della grandezza dell'armata degli Spagnuoli, diffidandosi di poter sostener l'assalto, sgombrarono la città e con le loro robbe fuggirono ai monti di Buthoia. Il capitano del re di Fez, ciò vedendo, o per fare oltraggio a quei della città o dispetto a' cristiani, cacciò fuoco in tutte le case e abbruciò la città: e fu negli anni ottocentononantasei di legira. Doppo il fatto aggiunse l'armata dei cristiani, i quali, vedendo la città vota e abbruciata, molto si dolsero; né la volsero perciò abbandonare, ma fabbricarono in lei una forteza, e di mano in mano ritornarono in piè tutte le mura: e oggidí ne sono possessori.


Chasasa città.

Chasasa è una città vicina alla sopradetta circa a venti miglia. Fu molto forte e murata con forti mura, e ha un buon porto al quale usavano di venire le galee de' Veneziani, e facevano di gran faccende col popolo di Fez, talmente che grande utile gliene veniva. Ma volle la disgrazia del detto re che, nel principio del suo regno, egli fu molto molestato da un suo cugino, il quale tenendolo nella guerra occupatissimo con tutte le sue forze, Fernando re di Spagna fece disegno d'avere la detta città, e l'ebbe con molta facilità perché il re di Fez non le poté dar soccorso. Gli abitatori sgombrarono e si salvarono avanti che la città fusse presa


Tezzota città.

Tezzota è una terra in Garet, discosta da Chasasa in terra ferma circa a quindici miglia; è fabbricata sopra un tofo altissimo, e ha una piccola via per cui si va d'intorno al detto tofo. Dentro non si truova acqua se non in una cisterna. Gli edificatori di questa città furono della casa di Beni Marin, avanti che fussero signori, i quali vi tenevano dentro i loro grani e le loro facultà, e potevano andar sicuri per li deserti, perché a que' tempi non erano Arabi in Garet; ma dipoi che costoro ebbero dominio, lasciarono questa città e la regione di Garet a certi loro vicini, e si diedero a provincie piú nobili. In questi mutamenti Giuseppe, figliuolo di Giacob, secondo re della casa di Marin, per iusto sdegno fece rovinar la detta città; ma essendo venuta Chasasa in mano dei cristiani, un capitano del re di Fez, di nazion granatino, valentissimo uomo, dimandò licenza al re di rinovar Tezzota: il quale gliela concesse. Cosí la città fu rifatta, e oggidí i cristiani di Chasasa con i mori di questa città fanno di continove correrie, e or questi or quelli sono perditori.


Meggeo città.

Meggeo è una piccola città posta sopra un altissimo monte, discosta da Tezzota circa a dieci miglia verso ponente; e fu edificata dagli Africani lontana dal mare Mediterraneo circa a sei miglia verso mezzogiorno. Gli abitatori sono uomini nobili e liberali. E sotto il monte della città è una pianura per grano, e tutti i monti che sono d'intorno hanno vene di ferro, dove si contengono molti casali e villaggi di quegli che lo cavano.
La signoria di questa città venne in mano d'un nobile e valoroso cavaliere della origine della real casa, cioè di Muachidin, ma nato di poverissimo padre, il quale fu tessitore di tela, la quale arte egli al figliuolo insegnò. Ma il giovane, che di alto animo si sentiva, conoscendo la nobiltà de' suoi maggiori, lasciando da parte i telai se n'andò a Bedis, e quivi imparando l'arte militare s'acconciò per cavalleggiero del signore; ma perché egli sapeva sonare gentilmente di liuto, il detto signore ancora per musico lo teneva nella sua corte. Avvenne in quel mezzo ch'el capitano di Tezzota, volendo far correria sopra li cristiani, richiese a quel signore l'aiuto di qualche cavalli, il quale gliene mandò trecento insieme con questo nobil giovane. Ma il giovane non solamente quella volta, ma molte altre ancora mostrò grandissima prodezza e animo: non perciò il signor dimostrò riconoscimento del suo valore, ma solo di lui nel sonare si dilettava. Egli di ciò sdegnato si partí e ricorse a certi suoi amici cavalieri di Garet, i quali gli diedero tanto di favore che lo misero in la fortezza di Meggeo, e rimasero seco cinquanta cavalli, per sostentamento de' quali molti montanari suoi amici porgevano delle loro entrate. Laonde il signor di Bedis mandò, per levarlo di quella città, trecento cavalli e mille fanti, de' quali il nobile giovane col suo poco numero fu vincitore. Crebbe in fine cotanto la fama di costui che 'l re di Fez lo confermò nel dominio, e gli assegnò certe rendite che la camera di Fez soleva dare alli signori di Bedis, acciò che lo difendessero da' Spagnuoli. E da costui impararono i Mori a sapersi difendere, di sorte che 'l re di Fez gli ha raddopiata la provisione. Costui tien dugento cavalli, che vagliono piú che duemila delli capitani dei signori vicini.


Echebdenon monte.

Echebdenon monte s'estende da Chasasa verso levante fino al fiume Muluia, e dal mare Mediterraneo verso mezzogiorno fino al diserto di Garet. Fu abitato da ricchi e valenti uomini, ed è in lui grandissima abbondanza di mele e d'orzo e gran quantità di bestiami, percioché tutti i suoi terreni sono buoni, e d'intorno verso la terra ferma v'ha infinite campagne da pascoli. Ma presa che fu Chasasa dagli Spagnuoli, costoro, non potendosi mantenere nel monte per esser l'un casale molto dall'altro separato e diviso, lo lasciarono e, abbruciate le lor proprie case, andarono con le lor facultà ad abitare altri monti.


Beni Sahid monte.

Beni Sahid monte s'estende vicino di Chasasa verso ponente fino al fiume Nocor, che sono circa a ventiquattro miglia, ed è diviso in molti popoli tutti ricchi, valenti uomini e liberalissimi, in tanto che i passeggieri e i mercatanti che vengono al detto monte niuna cosa spendono. Nel detto si cava gran quantità di ferro e nascevi molto orzo; hanno molto numero di bestiame per la gran pianura che hanno. Tutte le vene del ferro sono in detta pianura, nella quale non è mai disagio d'acqua, e non pagano tributo alcuno; e ciascuno dei maestri che cavano il ferro ha la sua casa da vicino, cosí i bestiami e la bottega dove si purifica detto ferro, e i mercatanti portano il ferro a Fez in pallotte, percioché essi non usano o non sanno ridurlo in verghe: il resto lo fanno in zappe, mannare, gomieri, che son l'arme de' villani, e di esso ferro non si può cavar azale.


Azgangan monte.

Azgangan monte dalla parte di mezzogiorno confina con Chasasa, ed è molto abitato non solo da uomini valenti, ma ricchi, percioché il detto monte è cosí abbondante come i detti di sopra, e ha un vantaggio di piú, che il diserto di Garet è ne' piedi d'esso monte, gli abitatori del qual fanno gran faccende con i detti montanari. Rimase ancora egli abbandonato da' suoi nella presa di Chasasa.

Beni Teuzin monte.

Beni Teuzin monte confina verso mezzogiorno col sopradetto, e s'estende per la lunghezza circa a dieci miglia, cioè dal diserto di Garet fino al fiume Nocor. Sono d'intorno da una parte molte pianure, e gli abitatori sono liberi e fanno le raccolte di lor terreni senza pagar alcuna gravezza, né al capitano di Tezzota né al signor di Meggeo né a quello di Bedis, percioché essi hanno di cavalli due tanti piú che non hanno tutti i tre insieme. Oltre a ciò il signor di Meggeo è molto loro tenuto, perché essi l'aiutarono a mettere nella signoria; accarezzagli ancora il re di Fez, percioché i medesimi furono amici vecchi alla sua casa, prima che ella fusse casa reale. Del che fu cagione uno de' detti montanari, il quale, essendo uomo dotto e di gran valore, faceva l'officio d'avvocato in Fez: costui, con lo spesso tornar a mente al re il merito de' loro antichi, mantenne la libertà alli suoi. Ebbero ancora molto per adietro amicizia con la casa di Marin, percioché la matre di Abusahid, terzo re di detta casa, fu figliuola d'un gran nobile del detto monte.


Guardan monte.

Guardan monte confina col sopradetto verso tramontana, e s'estende per lunghezza circa a dodici miglia verso il mare Mediterraneo, e per larghezza otto, cioè fino al fiume Nocor. Sono gli abitatori prodi uomini e ricchi, come quegli di sopra. Il sabbato sogliono fare un nobile mercato sopra un fiumicello, a cui concorrono per la maggior parte gli abitatori dei monti di Garet, e gran moltitudine vi va eziandio de mercatanti di Fez. Gli abbaratti sono di fornimenti di cavalli e d'olio per ferro, perché in questo paese di Garet non nascono molte olive; né essi si curano di far vini né ve ne beono, ancor che sieno vicini del monte di Arif, dove si imbriacano. Furono un tempo vassalli del signor di Bedis, ma per opera d'un uomo, dotto predicatore, ottennero dal re di Fez che la quantità del tributo fusse rimessa nella discrezione loro: cosí ogni anno appresentano al re certa somma di danari, e cavalli e schiavi; né piú volsero esser soggetti al signor di Bedis.


Fine del diserto di Garet.

La sopradetta regione di Garet è divisa in tre parti: in una parte sono le cittadi e il contado loro; nell'altra i sopradetti monti, il cui popolo comunemente è detto Bottoia; la terza parte è il diserto, il quale da tramontana incomincia dal mare Mediterraneo, e s'estende verso mezzogiorno fino al diserto della regione di Chaus. Nella parte di ponente confina con i monti detti di sopra, e dal lato di levante termina al fiume Muluia. Ha di lunghezza circa a sessanta miglia e di larghezza trenta, ed è tutto secco e aspro, di maniera che non vi si truova acqua fuori che 'l fiume Muluia. Sonvi nel diserto molti animali, de' quali eziandio ve n'è nel diserto di Libia, che confina con Numidia. La state sogliono stanziarvi per il detto diserto molti Arabi appresso il fiume di Muluia, e similmente un certo popolo chiamato Batalisa, il quale è feroce e ha molta copia di cavalli, di pecore e di camelli: e di continovo questi pecorai sono in guerra con gli Arabi a lui vicini.


Chaus, settima regione di Fez.

Chaus è tenuta la terza parte del regno di Fez, percioché s'estende dal fiume Zha verso levante, andando verso ponente per insino al termine del fiume Guruigara, che è d'ispazio circa a centonovanta miglia; e per larghezza s'estende circa a centosettanta o piú, perché tutta la larghezza della parte d'Atlante che risponde verso Mauritania è la larghezza della detta regione. Ancora tiene una buona parte dei piani e di monti che confinano con la Libia.
Nel tempo che Habdulach, primo principe della casa di Marin, acquistò la Mauritania insieme con le altre regioni che con lei confinavano, allora quivi si sparse il suo lignaggio. Costui lasciò quattro suoi figliuoli: il primo fu detto Abubder, il secondo Abuiechia, il terzo Abusahid e 'l quarto Giacob, il quale dipoi fu creato re, per avere egli disfatta la famiglia de Muachidin, re di Marocco. Li tre suoi antecessori si morirno prima che egli acquistasse Marocco, perciò non ebbero titolo di re. Onde il padre a ciascun di loro consegnò una regione. L'altre tre furono divise in sette parti, cioè fra le quattro stirpi di Marin e fra due popoli che furono amici e parenti di questa famiglia, in modo che questa regione fu stimata per tre regioni, percioché quelli che furono a parte del regno erano dieci e le regioni sette. E il detto Habdulach fu l'auttore di queste divisioni, e messe il Chaus per la maggior parte come di sotto si narrerà a luogo per luogo e terra per terra.


Teurerto città.

Teurerto è una città antica, edificata dagli Africani sopra un alto colle a canto il fiume Zha; e d'intorno della città sono buoni terreni, ma non s'estendono molto, percioché i detti terreni confinano con certi diserti secchi e asperi. Dalla parte di tramontana confina col diserto di Garet, e da mezzogiorno col diserto di Adduhra, e da levante con Anghad, che è uno diserto nel principio del regno di Telensin; e dalla parte di ponente col diserto di Tafrata, il quale similmente confina con la città di Tezza. Questa città fu civile e bene abitata: fa circa a tremila fuochi; ha molti bei palazzi e tempii, i cui muri sono di pietre di tevertino. Ma poscia che la famiglia di Marin regnò in ponente, la medesima fu messa in questione e fu cagione di molte guerre, percioché i signori di Marin vogliono che ella sia del regno di Fez, e i signori di Beni Zeiien, cioè i re di Telensin, vogliono che ella abbia ad essere del loro stato.


Haddagia città.

Haddagia è una piccola città edificata dagli Africani a modo d'isola, percioché vicino a lei entra il fiume Mullulo nel fiume Muluia. Questa anticamente fu molto abitata e civile, ma da che gli Arabi occuparono il ponente incominciò a declinare, percioché confina questa città con i diserti di Dahra, dove sono molte male generazioni d'Arabi. Ma con la rovina di Teurerto fu del tutto disfatta, né altro rimase che le mura, le quali fin ora si veggono.


Garsif castello.

Garsif è un castello antico, edificato sopra uno scoglio appresso il fiume Muluia, discosto da Teurerto circa a quindici miglia; il quale castello fu la fortezza della casa di Beni Marin, nel quale si serbava il grano nel tempo che la detta abitava nel diserto. Doppo fu signoreggiato da Abuhenan, quinto re della casa di Marin. D'intorno il detto castello, cioè nel piano, sono pochissimi terreni; v'è qualche giardinetto d'uva, di persichi e di fichi. E per esser il detto castello cinto dal deserto, paiono i detti giardini in sí fatto luogo il paradiso d'Adamo. Gli abitatori sono uomini vili, senza alcuna civilità; la lor cura è solamente di far la guardia al grano, che si custodisce nel castello, per conto dei lor padroni arabi. Il castello di fuori somiglia a una capanna, perché ha i muri rotti e neri, e tutte le case sono coperte con certe pietre nere.


Dubdu città.

Dubdu è una città antica, edificata dagli Africani su una costa d'un monte altissimo e molto forte. È abitata da una parte del popolo di Zeneta. Dalla cima del detto monte discendono molti fonti, che corrono per la città, la quale è discosta dal piano circa a cinque miglia: ma chi la mira dal piè del monte non pensa ch'ella sia piú lontana d'un miglio e mezzo; la via s'allunga per li molti giri che si convien fare nella costa del detto monte. E tutti i poderi della detta città sono alla cima del monte, percioché il suo piano è tutto aspro; vero è che su la riviera d'un fiumicello sono certi giardinetti, il quale fiume passa sotto il detto monte. Ma tuttavia le possessioni che ha sopra il monte non sono per la metà sufficienti al viver degli abitatori della città, ma vi son portati grani dal contado di Tezza, percioché questa città fu fabbricata per una fortezza da una stirpe del popolo di Marin, allora che furon divise dal detto le regioni di ponente; e questa dove è Dubdu toccò a una famiglia appellata Beni Guertaggen, che fin ora la possiede. Ma quando la casa di Marin perdé il regno di Fez, gli Arabi vicini cercarono di levar da quella la signoria. Ma essa, con l'aiuto di Mosè Ibnu Chamu, che fu di detta famiglia, valorosamente si difese, di modo che gli Arabi fecero triegua. Costui visse signore della città, doppo il quale rimase un suo figliuolo detto Acmed, che in tutti i costumi fu simile al padre, e conservò il suo stato in pace insino alla morte.
A questo successe Mahumet, il quale fu invero uomo singularissimo nella milizia. Egli per adietro avea acquistato molte città e castelli nei piè del monte Atlante, cioè di verso mezzogiorno ne' confini di Numidia, e venuto a dominio di questa città, la ornò di molti edifici e ridussela a civilità. E dimostrò tanta liberalità e cortesia a' forestieri e a quegli che passavano per la sua città, onorando ciascuno e corteggiando infinitamente, faccendogli le spese e dandogli le stanze, che la fama di lui empié l'orecchie di molti popoli. Né mancò chi 'l consigliasse a levar Tezza di mano al re di Fez, offerendosi non pochi di quanto a ciò bisognasse. Onde ne nacque questo trattato, che egli in abito di montanaro se n'andasse alla detta città il giorno del mercato, fingendo di voler comperare come gli altri, ed essi subito assalterebbono il capitano: il che, avendo una parte della città a loro favore, agevolmente succederebbe. Ma il trattato fu scoperto, onde il re di Fez, che fu Saic primo re della casa di Quattas e padre del presente, si mosse col maggiore esercito che potesse fare per prender questa città. E come fu sotto il monte, si pose in ordine per dar la battaglia: ma i montanari, che erano seimila persone, astutamente si ritirarono adietro e lasciarono passare una buona parte dell'esercito del re, il che fu per certe intricate e strette vie, nelle quali il detto molta fatica durò a salirvi. Ma come esso fu arrivato dove questi volevano, subito i montanari, che erano freschi e gagliardi, assaltarono con grandissimo impeto gli stanchi e deboli. Il calle era angusto e scabroso, onde, non potendo quei del re sostener la furia dei nimici, furono costretti a dar luogo. Ma mentre uno l'altro impediva nel ritirarsi, traboccavano giú del monte, talmente che piú di mille uomini si fiaccarono il collo, e ve ne furono uccisi piú di tremila.
Non perciò il re volle lasciar l'impresa, ma, provedutosi di cinquecento balestrieri e di trecento archibusieri, deliberò in tutto di dare alla detta città general battaglia. Allora, conoscendo Maumet di non poter piú difendersi, fece pensiero di dar la propria persona in mano del re e, preso abito di messaggiero, s'appresentò al suo padiglione e dettegli una lettera scritta di sua mano per nome del signore di Dubdu, che era egli stesso. Il re, sí come colui che non lo conosceva, fece legger la lettera; dipoi dimandollo quello che gli paresse del suo signore. Rispose egli: "Invero a me pare ch'el mio signore sia pazzo; ma il diavolo ha poter d'ingannare cosí i grandi come i piccoli". "Per Dio - disse il re, - che se io lo avesse in mano, come io spero, gli farei, cosí vivo com'egli è, cavare a pezzo a pezzo le carni di dosso". "O, - soggiunse Mahumet, - se egli venisse umilmente a' piedi di vostra altezza, dimandando perdono del suo fallo e chiedendo mercé, come lo trattereste voi?" Allora disse il re: "Giuro per questa testa che, s'egli in cotal modo dimostrasse riconoscimento d'avermi offeso, non solamente gli perdonerei, ma ancora con lui contratterei parentado: il che sarebbe col dar due mie figliuole ai duoi suoi figliuoli; e confermandolo nel suo stato gli aggiugnerei appresso quella dote che piú mi paresse convenevole. Ma non credo che esso debba ciò fare, si è egli impazzito". Rispose egli: "Ben lo farà, se vostra altezza promette di confermar le sue parole nella presenza dei principali della sua corte". "Io penso, - seguitò il re, - che possano bastare i quattro che sono presenti, l'un di quali è il mio maggior secretario, l'altro il mio general capitano della cavalleria, il terzo è mio suocero, il quarto è il gran giudice e sacerdote di Fez". A questo il sopradetto se gli gettò a' piedi e disse: "Re, ecco qui il peccatore, il quale, non avendo altro rifugio, ricorre alla vostra pietà". Allora il re lo fece levare in piè e l'abbracciò e baciò accettandolo per parente, e subito, fatte venire due sue figliuole, le fece sposare dalli figliuoli del prefato; e quella sera cenorono insieme, e la mattina il re di Fez si levò con il campo e ritornò a casa.
Tutte le sopradette cose furono dell'anno 904 di legira. E io fui nell'anno 921, quando vivea el detto signore, e alloggiai nel suo palazzo, dove il detto molto m'accarezzò, per lettere che io teneva di favore del re de Fez e d'un suo fratello; e spesso mi dimandava della qualità del viver e dei costumi che si tenevano nella corte di Fez.


Teza città.

Teza è una gran città, non men nobile che forte e molto fertile e abbondante, edificata dagli antichi Africani vicina ad Atlante circa a cinque miglia, e discosta da Fez circa a cinquanta, dall'Oceano centotrenta e dal Mediterraneo non piú che sette, passando pel diserto di Garet verso Chasasa. Questa città fa circa a cinquemilia fuochi, ma non è molto addorna di case, eccetto che i palazzi dei nobili, i collegi e i tempii sono fatti di bellissimi muri. D'Atlante si parte un piccol fiume, il quale passa per la detta città e per entro il tempio maggiore; ma il detto fiume è alle volte levato dalla città dai montanari, quando essi discordano coi cittadini, e lo fanno passare per altre vie, in modo che alla città partoriscono gran danno, perché non si può né macinare né aver buona acqua da bere, se non certa torbida di cisterna. Alle volte, pacificandosi, ve lo ritornano.
È la detta città la terza in grado, in dignità e similmente in civilità, e havvi un tempio ch'è maggiore di quello di Fez, con tre collegi di scolari, e molte stufe e osterie. Le sue piazze sono ordinate come quelle di Fez, e i suoi abitatori sono valenti uomini e liberali a comparazione di quelli di Fez: e sono in lei molti uomini litterati e da bene, e sopra tutto ricchi, percioché i terreni alle volte rendono trenta per uno. D'intorno la città sono certe valli rigate da vaghi e piacevoli fiumicelli, dove sono molti giardini, i quali fanno frutti delicatissimi e in gran copia. V'è eziandio gran moltitudine di viti, che producono uve bianche, rosse e negre, delle quali i giudei, che cinquecento case ne sono nella detta città, fanno perfettissimi vini: e dicesi che questi sono dei migliori che si truovino in tutte quelle regioni.
È ancora nella detta città una bella e gran rocca, dove abitava il governatore della città; e i re moderni di Fez sogliono dar questa cotale città al secondogenito: ma invero che ella doverebbe essere la real sedia, per la salubrità dell'aere che v'è cosí il verno come la state. I signori della casa di Marin usavano di starvi tutta la state, sí per la detta cagione e sí ancora per custodire e difendere i loro paesi dagli Arabi del diserto, quali vi vengono ogni anno per fornirsi di vettovaglie, e portano datteri da Segelmese dandogli a baratto per grani. I cittadini fanno tutti dinari di loro grani, che essi vendono per buon prezzo ai detti Arabi, in modo che questa città è di grandissima bontà per sé e per gli abitatori, e non v'è altra incommodità se non ch'al tempo del verno è tutta ripiena di fango.
Io fui in questa città ed ebbi domestichezza con un certo vecchio, che appresso il volgo aveva fama di santo, il qual vecchio era assai ricco di frutti, di terreni e delle offerte che si fanno dal popolo della detta città e anco dal popol di Fez, ch'ancora i cittadini di Fez vengono di lontano cinquanta miglia per visitar il detto vecchio. Io fui uno di quelli che dubitavano in fatti di questo vecchio, innanzi ch'io lo vedessi; ma dapoi ch'io lo vidi egli mi parve sí com'uno degli altri: ma gli atti sono quelli ch'ingannano il volgo. Finalmente la detta Teza ha grandissimi contadi, cioè molti monti ne' quali abitano diversi popoli, come qui di sotto descriveremo.


Matgara monte.

Matgara monte è altissimo e difficile da salire, percioché ha spessi boschi e strettissimi calli. È vicino a Teza circa a cinque miglia, e nelle sue cime sono buoni terreni e molti fonti. Gli abitatori non pagano gravezza, e raccolgono grano, lino e olio; hanno grande quantità d'animali, massimamente di capre. Ed essi poco stimano i signori, di maniera che in una rotta che diedero al campo del re di Fez, preso un suo capitano e menatolo sopra il monte, innanzi agli occhi del re, vivo lo tagliarono in mille pezzi: per questa cagione il re non mai piú fu loro amico, ma costoro niente l'apprezzano. E fanno circa a settemila combattenti, percioché vi sono circa a cinquanta grossi casali.


Gauata monte.

Gauata monte nella difficultà dell'ascendere è simile al sopradetto, discosto da Fez circa a quindici miglia, verso ponente. Ha buoni terreni, cosí nella sommità come nella costa, ne' quali nasce gran quantità d'orzo e di lino. Estendesi da levante a ponente circa a otto miglia, e per larghezza è circa a cinque. Sonvi in lui molte valli e boschi, dove si truova gran numero di simie e di leopardi. Gli abitatori sono tessitori di tele e uomini valenti e liberali, ma non possono praticar nel piano, per essere disobedienti al re di Fez, perché non vogliono pagar tributo alcuno per la lor superbia e per fortezza del monte, qual si mantiene con l'assedio di dieci anni, per esservi sopra ogni cosa necessaria al viver umano, con due capi d'acqua che sono principii di duoi fiumi.


Megesa monte.

Megesa è un monte difficile e aspro, nel quale sono di molti boschi, e nascevi poca quantità di grano, ma olio in molta copia. Gli abitatori di questo sono tutti tessitori di tela, perché raccolgono qualche quantità di lino; e sono non men gagliardi a piedi che a cavallo. Sono eziandio molto bianchi, percioché il monte è alto e freddo. Non pagano gravezza niuna, e possono favoreggiar gli sbanditi da Fez e da Teza. Hanno assai giardini e viti, ma nessun bee vino. Fa questo monte circa a seimila combattenti; i casali sono quaranta, assai grandi e bene agiati.


Baronis monte.

Baronis monte è vicino a Teza circa a quindici miglia verso tramontana. È abitato da un ricco e possente popolo, il quale possiede molti cavalli ed è libero di gravezza. Nasce nel monte assai grano, e v'è gran quantità di giardini e di viti d'uva negra: ma non fanno vino. E le lor donne sono bianche e grasse, e sogliono portar molti ornamenti d'argento, perché gli abitanti hanno il modo. Gli uomini veramente sono sdegnosi e di grande ardimento; danno favore a sbanditi, e tristo colui che usasse con le mogli loro, percioché ogni altra offesa, a parangone di questa, hanno per cosa di poco momento.


Beni Guertenage monte.

Beni Guertenage monte è alto e malagevole, per le sue rupi e boschi che vi sono, ed è discosto dalla città di Teza circa a trenta miglia. Quivi nasce grano, lino, olive, cedri e belle e odorifere cotogne. Sonovi molti animali, eccetto cavalli e buoi, che ve n'ha poco numero. Gli abitatori sono prodi e liberali, e vestono cosí politamente come i cittadini; si truovano circa a trentacinque casali, i quali fanno tremila combattenti, tutti valorosi e in ordine.


Gueblen monte.

Gueblen è monte alto e freddo molto, e assai grande: estendesi per longhezza circa a sessanta miglia e per larghezza circa a quindici; confina di verso levante con i monti di Dubdu, e di verso ponente col monte Beni Iasga. È discosto da Teza circa cinquanta miglia verso mezzogiorno, e vedesi la neve su la cima del detto monte per tutte le stagioni dell'anno. Fu egli abitato da grande, valente e ricco popolo, il quale sempre visse in libertà; ma poi dandosi alla tirannide, i popoli dei vicini monti, raunatisi insieme, s'accordarono contra di lui, e presero il monte uccidendo tutti gli uomini, e abbruciarono ogni casale, onde fin ora è disabitato.

Egli è vero che una famiglia del detto monte, veggendo l'animo ingiusto di molti suoi parenti, che tutti insieme con gli altri tiranneggiavano, con la sua brigatella e piccola facultà si ritirò ad abitare alla cina del monte, quivi santa e romita vita vivendo: a cui fu perdonato. E i discendenti di cotesta famiglia ancora vi abitano, i quali, per essere uomini letterati e di onesto vivere, sono in molto credito appresso il re di Fez. A' miei dí vi fu un vecchio molto dotto, e di tanta riputazione ch'el re l'usava per mediatore in tutte le paci e accordi che gli occorrevano di fare con qualche popolo degli Arabi, a quale essi rimettevano le lor differenze come alle mani d'un santo: per questo il detto vecchio era molto odiato dalla corte.


Beni Iesseten.

Beni Iesseten monte è sottoposto al signor di Dubdu, ed è abitato da vilissimo popolo, il quale va pessimamente vestito e discalzo; e le sue case sono fatte di giunchi marini. E quando è di bisogno ad alcuno di camminar per la regione, colui si fa alcune scarpe di detti giunchi insieme intrezzandogli, ma, prima che ve n'abbia fatto le seconde, le prime sono sdrucite e consumate. Di qui si può argomentar quale abbia da essere la vita di questi tali, che invero è miserissima. Nel monte altro non nasce che panico, di cui ne fanno il pane e l'altre loro vivande. Egli è vero che ne' piedi del detto monte sono molti giardini d'uva, di datteri e di persiche in gran quantità: alle quai persiche levano l'osso e dividonle in quattro parti, poi le seccano al sole e cosí le serbano per tutto l'anno, tenendo ciò per cibo delicatissimo. Ancora nelle coste sono molte vene di ferro, il quale essi lavorano, e fanno cotai pezzi co' quali ferrano i cavalli; e i medesimi pezzi servono eziandio per moneta, percioché poco o nulla d'argento si truova per quella regione. Ben de lor ferri cavano molti danari, perché ve ne vendono in molta quantità; e ne fanno anco certi pugnali, ma non tagliano punto. Le femine usano portare anella del detto ferro nelle dita e negli orecchi, e peggio vestono che gli uomini; queste vanno di continuo ne' boschi, sí per far legna come per pascolar le bestie. Quivi non è civilità né alcuno che sappia lettere, e sono come le pecore, nelle quali non è né giudicio né intelletto.
Mi raccontò il cancellieri del signore di Dubdu una piacevole novella, nella quale si contiene la natura di costoro. Dissemi che 'l signore mandò nel detto monte un certo suo vicario, uomo di molto ingegno, il quale, invaghitosi d'una di quelle montanare, non sapeva come recare a fine il suo amoroso desiderio, percioché ella era maritata, né mai il marito la lasciava sola. Avvenne che un giorno egli vidde che amendue se ne andavan al bosco con una lor bestia, per caricar legna. E come vi furono giunti, legò il marito la bestia a un ramo d'albero, e quindi alquanto discosto l'uno e l'altro si diede a tagliar legna. Il buon vicario lor tenne dietro e, come vidde questo, subito n'andò a l'albero e slegò la detta bestia, la quale di passo in passo, cercando l'erba, si dilungò alquanto. Come il marito vidde che s'era tagliata quella quantità di legna che gli parve bastevole, andò per la bestia, lasciando ivi la moglie che l'attendesse; e non la trovando dove legata l'aveva, l'andò buona pezza cercando prima che la trovasse. Intanto messere il vicario, che stava ascoso fra certe frasche aspettando questo effetto, si scoverse alla donna e, senza avere molte contenzioni, la condusse al suo volere. E appena aveva fornito la caccia amorosa che sopragiunse il marito con la ritrovata bestia, tutto riscaldato per la stracchezza e soffiando; ma egli se gli tolse sí presto che non lo vidde. Caricò adunque il marito le legna e, venendogli voglia di dormire, si coricò all'ombra d'un albero allato alla moglie, e ischerzando con esso lei come si suol fare, gli venne l'una delle mani posta sopra la possessione della moglie, la quale trovando ancora molle e bagnata disse: "Moglie, cotesto che vuole dire egli? perché se' tu qui bagnata?" Rispose la moglie cattivella: "Io piangeva non ti veggendo ritornare, pensando che la bestia fosse smarrita; il che sentendo la mia sirocchia, ancora ella incominciò a lagrimare per pietade che me ne aveva". Lo sciocco lo si credé, e disse che la confortasse che non piangesse piú.


Selelgo monte.

Selelgo è un monte tutto ripieno di boschi, i quali sono d'alberi altissimi di pini; e sonvi molti gran fonti. Né gli abitatori hanno alcune case fatte di muro, ma tutte le lor case sono di stuore di giunchi marini, le quali agevolmente si possono mutare di luogo a luogo, percioché fa loro di bisogno di lasciare il detto monte al tempo del verno e abitare nel piano. E come è finito il mese di maggio, gli Arabi si partono dal diserto; allora essi fanno insieme due buoni uficii: l'uno è di fuggir gli Arabi, l'altro di trovare i luoghi freschi, il che è utile a loro e alle bestie, percioché hanno molte pecore e capre. E gli Arabi, venendo il verno, ritornano al diserto, perché ivi è piú caldo e i camelli non molto vivono ne' luoghi freddi. Nel detto monte sono molti leoni, leopardi e simie, le quali a chi vede par di vedere uno esercito di gente armata, in tanta copia ve ne sono. Quivi è un capo d'acqua grossissimo, che esce con tanta furia che io ho veduto gettar nella buca donde nasce l'acqua una pietra di peso di cento libbre, e la pietra veniva mandata adietro dalla velocità dell'acqua; e da questo capo ha principio Subu, che è il maggior fiume di Mauritania.


Beni Iasga monte.

Beni Iasga monte è abitato da un popolo ricco e molto onesto circa alla pulitezza del vivere civile; ed è vicino al sopradetto monte dove nasce il fiume, il quale fra certe alte rupi passa vicino. Gli abitatori, per passar da una parte all'altra, v'hanno fabricato un ponte mirabile in questo modo: hanno piantati duoi pali grossi e saldi da cadauna parte del fiume, e sur ogni palo v'hanno attaccate certe girelle, e fanno passare da una banda all'altra certe grosse funi fatte di giunchi marini, le quali passano per le dette girelle; e su le funi v'è attaccato un sportone grande, grosso e forte, dove agiatamente possono star dieci persone, e come uno vuol passare, entra nel detto sportone e comincia a tirare da due bande le funi attaccate allo sportone, e le funi vanno facilmente per le girelle e a questo modo il sportone passa all'altra banda. Una fiata, trovandomi a passar nel detto sportone, mi fu detto che già gran tempo vi volsero montare dentro piú persone che 'l non capeva, e per il soverchio carico si sfondrò il sportone, e parte delle genti caddero nel fiume e parte s'attaccorno con le mani alle funi, le quali con gran fatica si salvarono: ma quelle che caddero nel fiume non furono mai piú vedute. A me s'arriciarono i capegli quando ciò raccontato mi fu, perché il ponte è posto fra la cima di due monti, di maniera che tra l'altezza del ponte e l'acqua vi sono centocinquanta braccia di distanza, e l'uomo che è appresso il fiume a chi è sopra il ponte pare lungo una spanna. Hanno gli abitatori gran numero di bestiami, perché nel monte non sono molti boschi; e la lor lana è finissima, e le lor donne ne fanno panni che paion di seta, e di questi coltre e i loro abiti: le quai coltre si vendono in Fez tre, quattro e dieci ducati l'una. Cavano ancora dal monte assai olio. Ma sono sottoposti al re di Fez, e l'entrata è indirizzata al castellano della vecchia Fez: che può essere circa a ottomila ducati.


Azgan monte.

Azgan monte confina con Selelgo dalla parte di levante, e da quella di ponente col monte Sofroi, e da mezzogiorno con i monti che sono sopra al fiume Melulo, e da tramontana con le pianure del territorio di Fez. Ha per lunghezza circa a quaranta miglia e per larghezza quasi quindici. È molto alto, e tanto freddo che non vi si può abitare altra parte che la faccia che risponde verso Fez, la quale è tutta piantata d'olive e d'altri frutti; e nasconvi molti fonti che caggiono nel piano, dove sono buoni terreni per seminare orzo, lino e canapo, che nasce in gran quantità in cotai luoghi. Ne' moderni tempi sono stati piantati nel detto piano molti alberi di more bianche, per nudrire i vermi che fanno la seta; nel quale piano si abita il verno dentro a certe capanne. L'acqua è tanto fredda che a niuno basta l'animo di toccarla, non che di berne: e io ne conobbi alcuno che, beutone una sola tazza, rimaser circa a tre mesi gravati da una doglia di corpo insopportabile.


Sofroi città.

Sofroi è una piccola città ne' piedi di Atlante, vicina a Fez verso mezzogiorno circa a quindici miglia, a canto un passo per cui si va a Numidia. La qual città fu edificata dagli Africani fra due fiumi, d'intorno ai quali sono molti terreni d'uva e d'altri frutti, e d'intorno la città circa a cinque miglia sono tutte possessioni d'olive, e per esser communemente il terreno magro non vi si semina altro che lino, canapo e orzo. Gli abitatori sono uomini ricchi, ma vestono male, e sempre i lor panni per tutto hanno macchie d'olio, percioché tutto l'anno lo colano e lo portano a vendere a Fez. Nella città non v'è altro di bello che un tempio, pel quale passa un gran capo d'acqua; v'è ancora una bella fontana appresso la porta del detto tempio. Ma questa città è presso che rovinata per li mali portamenti d'un fratello del presente re, che ne è signore.


Mezdaga città.

Mezdaga è una piccola città ne' piedi di Atlante, discosta dalla sopradetta circa a otto miglia verso ponente, la quale è d'intorno cinta di belle mura, ma di dentro ha brutte case, ciascuna delle quali ha la sua fontana. Gli abitatori sono quasi tutti pignattari, percioché hanno buona terra porcellana: e fanno infinita quantità di pignatte e le vendono a Fez, perché da lei non sono lontani piú che dodici miglia verso mezzogiorno. E la campagna della detta città è buona per orzo, lino e canapo; ancora vi nasce molta quantità d'olive e di diversi frutti. E ne' boschi vicini alla detta città, come eziandio in quelli delle sopradette, sono molti leoni, ma non sono nocivi, percioché, venendo per pigliare una pecora, quando l'uomo va loro incontra con qualsivoglia arma, fuggono da lui.


Beni Bahlul.

Beni Bahlul è una piccola città edificata nella costa di Atlante che riguarda a Fez, e discosta da Fez circa a dodici miglia. Appresso la città c'è un altro passo che conduce a Numidia; e sopra il monte sono molti capi d'acqua, alcun de' quali passa per lei. D'intorno il sito è simile a quello delle dette disopra, eccetto che dalla parte di mezzogiorno non v'è altro che boschi. Gli abitatori sono legnaiuoli, e quai tagliano legne e quai le conducono a Fez. Sono sempre molestati e aggravati dai signori, perciò fra loro non v'è civilità alcuna.


Hain Lisnan città.

Fu questa città edificata dagli Africani antichi in un piano fra molti monti, nel passo per cui si va da Sofroi a Numidia. Il suo nome suona quanto "fontana degl'idoli", percioché dicesi che, quando gli Africani erano idolatri, tenevano appresso questa città un tempio, al quale si riducevano uomini e donne a certo tempo dell'anno il principio della notte. E come avevano fatti i lor sacrifici, spentone i lumi, ciascuno godeva dei diletti di quella donna che il caso gli mandava innanzi; e come era venuta la mattina, ad ogni donna che era stata presente quella notte nel tempio era proibito d'appressarsi al marito per spazio d'un anno: i figliuoli che nascevan in detto spazio erano allevati dalli sacerdoti di quel tempio. Nel detto tempio era una fontana, la qual si vede fin ora, ma il tempio e la città furon distrutti dai maumettani, né alcun vestigio ne rimane. La fonte prima fa un laghetto, e poi va discorrendo per tanti rivoli che tutti quei circoiti sono paludi.


Mahdia città.

Mahdia è una città edificata fra Atlante in mezzo de boschi e capi d'acqua, quasi nel piano; ed è discosta dalla sopradetta circa a dieci miglia. La quale fu edificata da un certo predicatore nasciuto in quelli monti, nel tempo che 'l popolo di Zaneta dominava la città di Fez; ma, dapoi che entrò il popolo di Luntuna con il re Giuseppe, la detta città fu saccheggiata e rovinata, né altro vi rimase che un tempio assai bello e quanto era delle sue mura: per il che gli abitatori del monte divennero vili e soggetti del re di Fez. E questo fu negli anni 515 di legira.


Sahblel Marga, che significa "il piano del prodo".

Sahblel Marga è un piano largo circa a trenta miglia e lungo circa a quaranta, fra i monti che sono parte di Atlante; e ne' detti monti sono molti boschi d'alberi altissimi, nei quali, dentro le lor capanne l'una discosta dall'altra, abitano molti carbonari: hanno questi molte fornaci di carboni, dei quai se ne possono caricar cento some. Molti di quelli che stanno ne' boschi comperano di questi carboni, e gli rivendono in Fez. Sono in detti boschi molti leoni, li quali non rade volte mangiano qualche uno di questi carbonari. Dal monte si portano a Fez molti belli travi e tavole di diverse sorti; ma il piano è tutto aspro, e pieno di certe pietre negre e sottili a modo di piana tavola, né alcuna cosa vi nasce.


Azgari Cammaren piano.

Azgari Cammaren è un altro piano cinto da boscosi monti, ed è come un prato, nel quale per tutto l'anno si truova l'erba. Perciò molti pastori vi si conducono la state con le loro pecore, ma tutto lo cingono d'alti siepi, e fanno gran guardia la notte, per tema dei leoni.


Centopozzi monte.

È questo monte fra gli altri altissimo, e nella sua cima sono certi edifici antichi, appresso i quali è un pozzo profondo tanto che niuno vi può vedere il fondo. Onde i pazzi dai tesori vi fanno spesse volte con le funi calar giú degli uomini, i quali portano un lume in mano; e dicono che quel pozzo è fatto in molti solai, e nell'ultimo truovano una gran piazza cavata per forza di ferro, la quale è d'intorno murata, e ne' muri sono quattro buchi bassi e diritti, i quali conducono in certe altre piccole piazze, dove sono alcuni pozzi d'acqua viva. E molti uomini in detto pozzo rimangono morti, percioché alle volte si muove un terribilissimo vento, il quale spegne loro il lume, di maniera che, non sapendo essi trovar la strada di ritornar al disopra, là giú si muoiono di fame.
Raccontommi un nobile di Fez, il quale era povero e dilettavasi di questa sciocchezza, che un giorno s'accordarono dieci compagni insieme di cercare la lor ventura nel fondo di questo pozzo; e come furono pervenuti all'entrata, scielsero per sorte tre di loro che vi dovessero andare, tra' quali toccò a questo mio amico. Furon adunque calati con le funi e con lanterne accese in mano, al modo sopradetto. E poi che i tre pervennero ai quattro buchi, si risolsero d'andare l'uno diviso dall'altro: ma come l'uno si spartí, gli altri due, un de' quali era il mio amico, s'inviarono insieme. Né avevano appena camminato un quarto di miglio, che incontrarono molti pipistrelli, o vogliamo dir nottole, i quali volavano d'intorno alle lanterne, e tanto percoterono con l'ali che ve ne spensero una. I due, seguitando pure il loro cammino, trovarono i pozzi dell'acqua viva, e d'intorno viddero biancheggiar molte ossa bianche d'uomini morti, e cinque o sei lanterne, qual molto vecchia e qual nuova. Ma quivi, non vedendo in quei pozzi altro che acqua, tornarono adietro; né erano ancora a mezzo cammino che la forza d'un vento, che d'improviso nacque, estinse l'altra lanterna, di maniera che, poscia che furono andati alquanto spazio senza vedervi errando e brancolando per quelle tenebre, non sapendo trovar la via d'uscir fuori, al fine stanchi e disperati si gettarono a terra piangendo e porgendo voti a Dio e promettendo, se di quindi uscivano vivi, di mai piú tornarci. Quegli che aspettavano di sopra, veggendo che doppo molte ore nessun di questi tornava, dubitarono di qualche inganno. Laonde cinque di loro con buone lanterne in mano e con focili si calarono giú, e mentre camminavano per quei luoghi, sempre gridando e chiamando i loro compagni, finalmente trovarono i due, i quali stavano nella forma che s'è detta; ma il terzo non poterono essi vedere dove si fosse, per il che senza lui ritornarono di sopra. Colui s'era smarrito come fecero prima i due, né sapendo dove s'andare, sentí l'abbaiare come di due piccoli cagnuoli: e là faccendosi donde a lui pareva che venisse il grido, vidde quattro animaletti che mostravano essere di poco spazio nasciuti; e cosí stando sopravenne la madre, che aveva somiglianza di lupa, ma maggiore, ed è un animale che fa i suoi figliuoli nelle grotte o in qualche buca, la quale è detta dabah. Il povero uomo stette sospeso, temendo non quella bestia alcun dispiacer gli facesse. Ma ella, accarezzato alquanto con la lingua i suoi figliuolini, s'aviò per dipartirsi, e quelli animaletti passo passo la seguitavano: il che somigliantemente fece costui, tanto che per quelle orme si trovò all'uscita del pozzo, a' piedi del monte. E se alcun mi dimandasse come esso vedesse lume, rispondo che il molto spazio ch'egli stette nella buca gliene rese pure un poco, come a quelli avviene che stanno alquanto ne' luoghi oscuri. Ora in processo di tempo quel pozzo fu ripieno d'acqua, percioché tanto vi cavarono che resero uguale il terreno.


Monte e passo dei Corvi, detto Cunaigel Gherben.

Questo monte è vicino al sopradetto, dove sono molti boschi e v'è grandissima quantità di leoni; né v'è città né casale, ma tutto è per la sua freddezza disabitato. Di quivi corre un fiumicello. E le rupi di questo monte sono altissime, nelle quali abita moltitudine infinita di cornacchie e di corvi: e di qui è derivato il nome. Alle volte soffia nel detto monte il vento di tramontana, il quale tanta neve ne manda che molti, che vanno da Numidia a Fez, affogano dentro, sí come di sopra vi ho narrato una istoria in tal proposito. La state suol venire a lui certi Arabi, detti Beni Essen, per le sue fresche acque e per le ombre grate che ci sono, ancor che vi siano leoni e leopardi terribili.


Tezerghe città.

Tezerghe è una piccola città a modo d'una fortezza, edificata dagli Africani sopra un fiumicello, il quale passa vicino a' piedi del detto monte fra certe valli. Gli abitatori e le case sono parimente brutte, né v'è civilità né costume né ornamento alcuno. Il terreno che è fra le dette valli tiene poco spazio, dove nasce qualche poco d'orzo e qualche persico. Gli abitatori sono soggetti a certi Arabi, appellati Deuil Chusein.


Umm Giunaibe.

Umm Giunaibe è una città antica la quale fu rovinata dagli Arabi, discosta dalla sopradetta circa a dodici miglia, appresso un passo di Atlante, cioè nella faccia di mezzogiorno. Il passo è sempre molestato dagli Arabi, percioché è un gran piano vicino alla città, tenuto da alcuni Arabi che non temono il re. Da canto alla detta città è una salita, per la quale chi passa, fa di mestiero che egli se ne passi danzando, altrimenti dicono che gli verrebbe la febbre: il che ho veduto osservare da molti.


Beni Merasen monte.

Beni Merasen monte è molto alto e freddo, ma pure è abitato da una sorte di gente che non cura il freddo. Hanno gli abitatori gran quantità di cavalli e d'asini, de' quali lor nasce infinita moltitudine di muli: e quivi s'adoperano i muli a guisa di somari, senza briglie e senza bastili; servesi l'uomo solamente di certe leggieri bardelle. Non hanno costoro casa niuna di muro, ma stannosi nelle capanne di stuore, perché di continovo vanno pascolando li lor cavalli e muli. Non pagano alcuna gravezza al re di Fez, perché il monte è forte, ed eglino sono molto ricchi e benissimo si difendono.


Mesettaza monte.

Mesettaza monte da levante a ponente s'estende circa a trenta miglia, ed è largo forse dodici; confina da occidente con i piani d'Edecsen, i quali confinano con Temesna. È freddo ancora egli, ma nondimeno è abitato come il superiore, e gli abitatori sono medesimamente ricchi e nobili, e abbondano di cavalli e muli. Di questi si truovano molti dotti uomini in Fez; e sono nel monte non pochi che scrivono perfettamente, onde usano di far la trascrizione di piú libri, i quali vendono a Fez. Non pagano al re gravezza di sorte niuna, fuori che alcuno cotale presente di poca importanza.


Ziz monti.

Questi monti sono detti Ziz dal nome d'un fiume che da quelli ha nascimento. E dalla parte d'oriente incominciano dal confino di Mesettaza, e dalla parte d'occidente confinano con Tedla e ancora col monte Dedes; di verso mezzogiorno riguardano a una parte di Numidia che è appellata Segelmese, e dalla parte di tramontana verso il piano d'Edecsen e di Guregra, estendendosi per lunghezza circa a cento miglia e per larghezza circa a quaranta. È sono quindici monti tutti freddi e asperi, da' quali nascono molti fiumi: e sono abitati da una generazione di genti chiamata Zanaga, che sono cotali uomini terribili e robusti, i quali non istimano né freddo né neve. Il suo vestire è una tonica di lana sopra la carne, e su quella portano un mantello; d'intorno alle gambe certe stracce involte e aggroppate a loro servono in vece di calze; nel capo niente portano in tutte le stagioni. Hanno molte pecore e muli e asini, perché nei lor monti si truovano pochi boschi; ma sono i piú ladri e traditori assassini del mondo. Tengono grandissime nimicizie con gli Arabi, e la notte gli rubano, e per far loro dispetto, quando altro non possono, gettano in loro presenza i camelli che prendono giuso delle alte cime dei monti.
Nei detti monti è una cosa quasi invero miracolosa, cioè grandissima quantità di serpi, tanto piacevoli e domestiche che elle se ne vanno per le case, non altrimenti che vadino i piccoli cani e le gatte. E quando alcuno vuol mangiare, allora tutte le serpi che sono nella sua casa gli stanno d'intorno, e mangiano domesticamente tutte le fruste di pane o d'altro cibo che vengono lor date. Né esse mai fanno dispiacere ad alcuno, se prima non l'hanno da colui ricevuto.
Abitano queste canaglie in certe case murate di pali coperti di creta, e i colmi hanno il coprimento di paglia. E un'altra parte di detti montanari, i quali posseggono maggior copia di bestie e abitano in certe capannette coperte di stuore. Vanno alle volte a Segelmese, ch'è una parte, come abbiamo detto, di Numidia, portando con esso loro lana e butiro. Ma non vi vanno se non ne' tempi che gli Arabi sono ne' diserti, quantunque le piú volte essi gli assaltano con grosse cavalcate, e gli uccidono e tolgono le loro robe. Ma nondimeno questi montanari sono valenti e animosi, e quando combattono non si vogliono mai render vivi. Le arme di ciascun di loro sono tre o quattro partigianelle, le quali mai non lanciano in fallo, e quando n'ammazzano l'uomo e quando il cavallo; percioché combattono a piede, né mai sono superati se non quando avviene che abbino a fronte una gran moltitudine di cavalli; portano eziandio spada e pugnale. A' tempi nostri sogliono questi montanari prender dagli Arabi salvicondotti, e cosí quelli da questi, onde poi trattano le loro faccende securamente. Simili salvicondotti essi danno alle carovane dei mercatanti, i quali pagano a ciascun popolo dei detti monti una separata gabella, altramente sariano saccheggiati.


Gerseluin città.

Gerseluin è una città antica, edificata dagli Africani sotto a' piedi d'alcuni dei sopradetti monti, appresso il fiume di Ziz. Ha belle e forti mura, le quali fecero fabbricare i re della casa di Marin. La detta città di fuori all'occhio pare una cosa bellissima, ma di dentro è difforme oltra modo: ha triste e poche case e pochissimi abitatori, mercé degli Arabi, i quali, essendo mancata la casa di Marin, occuparono questa città e male trattarono il suo popolo. Né di lei si può traere entrata niuna, percioché ciascuno è poverissimo e poco terreno ha da seminare, perché, trattone la parte di tramontana, tutte le sue parti sono aspre e petrose. Ma sopra le rive del fiume sono molti mulini e infiniti giardini d'uva e di persiche, le quali essi sogliono seccare, e serbanle per tutto l'anno: massimamente le persiche, delle quali, accompagnandoli con altri cibi, ne fanno certi mangiari e di loro si pascono. Hanno pochissima quantità d'animali, onde vivono in gran miseria, percioché questa città fu fabbricata dal popolo di Zeneta a guisa d'una fortezza, non per altro che per tenere il passo per cui si va a Numidia, dubitando che per quello il popolo di Luntuna non intrasse: qual nondimeno per altra via vi venne, e la rovinò e disfece. Quivi eziandio è gran quantità di serpi domestiche e piacevoli, come le dette di sopra.


QUARTA PARTE

Telensin.

Il regno di Telensin dalla parte d'occidente termina nel fiume Zha e in quello da Muluia, d'oriente nel fiume Maggiore, da mezzogiorno nel diserto di Numidia e da settentrione nel mare Mediterraneo. Questo regno latinamente è detto Cesaria, e fu già da' Romani signoreggiato. Ma doppo che i Romani levarono il piè d'Africa, esso alle mani dei suoi antichi signori ritornò, i quali furono Beni Habdulguad, una stirpe del popolo di Magraua. Costoro tennero la signoria trecento anni, insino che vi regnò un gran principe, il cui nome fu Ghamrazen, figliuolo di Zeiien; e il regno rimase nel lignaggio di costui, in tanto che questi signori mutarono il cognome della casata e furono dipoi chiamati Beni Zeiien, cioè figliuoli di Zeiien, che fu figliuolo di Ghamrazen: durò il dominio in questo ultimo lignaggio 380 anni. Ma fu egli molto molestato dai re di Fez, cioè da quelli della casa di Marin, percioché, come dicono le istorie, circa a dieci re di detta casa col valor dell'armi acquistarono questo regno, e dei re della casa di Zeiien a que' tempi quale fu ucciso, quale menato in cattività, quale si fuggí al diserto da' loro vicini Arabi. Eziandio altre volte furono scacciati dai re di Tunis; nondimeno sempre questa famiglia ritornò al dominio, e se lo godé in pace circa a centoventi anni senza essere danneggiato da niuno straniero, eccetto che da Abu Feris, re di Tunis, e da Hutmen suo figliuolo, il quale fece Telensin per un tempo tributario di Tunis, cioè fino a tanto che si morí Hutmen.
Estendesi questo regno per lunghezza trecentoottanta miglia, cioè da levante verso ponente; ma da tramontana a mezzogiorno è molto stretto, e dal mare Mediterraneo a' confini di diserti di Numidia non c'è di spazio venticinque miglia. Per tale cagione non mai gli sono mancati danni e grandissime offese dagli Arabi che abitano nella vicina parte del detto diserto. E di continovo i re si sono sforzati di tenergli cheti con grandissimi tributi e presenti, ma non poterono sodisfare a tutti: e rade volte nel detto regno si può truovare i passi sicuri. Nondimeno in lui è gran traffico di mercatanti, sí per esser molto vicino a Numidia, sí ancora perché esso è scala al paese dei negri.
Sono ancora nel detto due famosi porti, il porto della città di Horam e quello di Marsa Elcabir, i quali solevano esser frequentati da moltissimi mercatanti genovesi e veniziani, dove facevano grandi traffichi di robe a baratto. Ma questi porti furono dipoi presi dal catolico re Fernando, onde il regno fece gran perdita, di maniera che il re Abuchemmeu fu dal suo popolo scacciato, e posto nella sedia reale Abuzeuen, il quale era stato tenuto prigione dal detto re, che era suo nipote. Ma poco si godé egli l'allegrezza del novo regno, percioché ne fu privo da Barbarossa turco, il quale con certo tradimento lo levò di vita e fecesi re. Abuchemmeu, che era stato scacciato dal popolo, ricorse umilmente alla maestà di Carlo imperadore, ricercando da quello il suo aiuto contra Barbarossa in riscatto del regno. L'imperadore, per sua clemenzia e pietà, gli si mostrò molto benigno e diedegli un grande esercito, col quale egli racquistò il regno e scacciò Barbarossa, e prese vendetta nel sangue di coloro che erano stati auttori del suo esilio. Il che fatto, sodisfece ai soldati spagnuoli e attese pacificamente ai capitoli a' quali s'era obligato con l'imperadore, mandandogli ogni anno certo tributo: il che osservò mentre ei visse. Doppo la sua morte pervenne il regno a un suo fratello detto Habdulla, il quale rifiutò l'obbedienza e l'osservazion dei patti che il fratello aveva fatti col detto imperadore, fidandosi nel braccio di Suliman, imperadore di Turchi, il quale poco favore gli dà. Cosí egli fin ora vive e siede nella signoria.
Le maggiori parti del regno sono paesi secchi e asperi, massimamente quel tratto che risponde verso mezzogiorno; ma i piani vicini alla marina sono abbondanti e ripieni di fertilità, e tutta la parte vicina alla città di Telensin è tutta piana con molti diserti. Vero è che verso la marina, cioè dalla banda di ponente, sono assai monti; cosí ancora nello stato di Tenez e sopra il paese di Alger sono infiniti monti, ma tutti fruttiferi. In questo dominio sono poche città e castelli, ma quelli pochi sono buoni e fertili, come particolarmente vi si dirà.


Angad diserto.

Il principio di questo regno dalla parte d'occidente è un diserto piano, ma aspero e secco, nel quale non si truova né acqua né albero: estendesi per lunghezza circa a ottanta miglia, ed è per larghezza circa a cinquanta. Si truova per entro gran quantità di capriuoli, di cervi e di struzzi; ma vi sta di continovo una masnada di Arabi assassini, per esser quivi la strada da Fez a Telensin: e i mercatanti rade volte scampano dalle lor mani, massimamente il verno, nel qual tempo gli Arabi che sono pagati per far sicure le strade si partono e vanno a Numidia. Sono in questo diserto molti pastori, ma i leoni mangiano e guastano gran quantità delle lor pecore, e anche degli uomini, quando possono.


Temzegzet castello.

Temzegzet è un castello posto dove il detto diserto confina col territorio di Telensin, il quale fu dagli Africani anticamente fabbricato sopra uno scoglio. E i re di Telensin lo solevano tener molto forte per avere i passi contra i re di Fez, perché il detto castello è quasi su la strada maestra di Fez. Di sotto a lui passa il fiume Tefme, e d'intorno al castello v'è qualche buon campo di terreno, dove si semina a bastanza degli abitatori. Il detto, mentre fu sotto il dominio di Telensin, fu assai civile; ma ora che è in poter degli Arabi è divenuto quasi una stalla, percioché essi altro non vi tengono che i loro grani e bastili dei camelli. Il suo popolo si fuggí per li mali trattamenti delli detti Arabi.


Izli castello.

Izli è un castello antico, edificato dagli Africani in una pianura la quale confina col detto diserto. V'è d'intorno qualche poca quantità di terreno da seminare orzo e panico. Il detto anticamente fu bene abitato e cinto di buone mura, le quali nelle guerre furono gettate a terra, e rimase per qualche tempo privo di abitazione. Fu poi riabitato da certi uomini che vivono a guisa di religiosi, e sono molto onorati dal re di Telensin e dagli Arabi. Questi danno mangiare e bere graziosamente a tutti i passaggieri tre dí per l'ordinario de bando. Le case del detto castello sono basse e triste: i muri hanno di creta e i coprimenti di paglia. Appresso il castello passa un capo d'acqua, della quale ne adacquano i loro terreni, percioché questo paese è tanto caldo che, se non si adacquasse, non vi potrebbe nascere frutto alcuno.


Guagida città.

Guagida è una città antica, edificata dagli Africani in una pianura molto larga, discosta dal mare Mediterraneo circa a quaranta miglia verso mezzogiorno, e da Telensin quasi altretanto. Da mezzogiorno e da ponente confina col diserto di Angad; e tutti i suoi terreni sono abbondantissimi, e d'intorno la città v'ha molti giardini, massimamente d'uva e di fichi. Per la città passa di dentro un capo d'acqua, della quale gli abitatori si servono e per bere e per altre cose necessarie. Le sue mura furono molto forti e alte, e cosí furono le case e le botteghe fatte con bella sorte d'edificio; gli abitatori ricchi, civili e valenti: ma nelle guerre che seguirono tra i re di Fez e i re di Telensin, per aversi ella accostata ai re di Telensin, fu questa città saccheggiata e distrutta. Ma acchetate le guerre s'incominciò ad abitare, e molte case vi furon rifatte; ma invero non ritornò al primiero essere, né vi sono ora piú che millecinquecento case abitate, e gli abitatori sono poveri, sí come quelli che pagano tributo al re di Telensin e agli Arabi lor vicini nel diserto di Angad, i quali vanno vestiti a modo di contadini, con panni grossi e corti. Usano d'allevar molti belli e grandi asini, di cui ne nascono belli e gran muli, i quali vendono per caro prezzo in Telensin. La lingua loro è africana antica, e pochi sono che sappino parlare l'arabico corrotto all'usanza dei cittadini.


Ned Roma città.

Ned Roma città fu anticamente edificata da' Romani, quando essi signoreggiarono quella parte: e la edificarono con largo circuito in una pianura vicina al monte circa a due miglia, e discosta dal mare Mediterraneo circa a dodici; e d'appresso alla detta città passa un fiume non molto grande. Dicono li nostri istorici che i Romani la fabricarono in quel sito e alla medesima forma come sta e si vede Roma: e per tal cagione fu cosí detta, percioché ned, nella lingua africana, risuona quanto similis nella latina. Le mura sono intere, ma le case furon disfatte e ora ritornate in piè con brutta fabbrica. Sono d'intorno a lei alcune poche reliquie di romani edifici. La campagna della detta città è abbondantissima, e d'intorno sono molti giardini e terreni, ne' quali si truova gran quantità di quegli alberi che fanno le carobbe. Del quale frutto cosí nella città come nel contado s'usa mangiar molta copia, e di queste cavano assai mele, che poi in alcuni lor cibi adoperano. È la città oggi poco meno che civile, percioché vi sono molti artigiani, spezialmente tessitori di tele bambagine, percioché molta copia di bambagio suol nascere in quel paese. Costoro si possono chiamar quasi liberi, conciosiaché, avendo in lor favore i vicini montanari, il re non può trarre dalla città utile alcuno; e mandandovi governatori, costoro, se a loro piacciono, gli accettano, se non piacciono gli rimandano adietro. Pure, per sicurtà di potere introdurre le loro mercatanzie in Telensin, sogliono alle volte mandare al re qualche piccolo presente.


Tebecrit città.

Tebecrit è una piccola città, edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo sopra uno scoglio, discosta da Ned Roma circa a dodici miglia; e vicino a lei sono monti alti e asperi, ma molto abitati. Gli abitatori della detta città sono tutti tessitori di tele, e hanno molti poderi di carobbe, e mele in quantità. È vero che stanno in continova paura di essere di notte assaltati da' cristiani: perciò usano di tenervi notturne e diligenti guardie, perché per la povertà loro non hanno facultà di far soldati. I terreni che se gli accostano sono non meno asperi che magri, onde non vi nasce altro grano che qualche poco d'orzo e di panico. Gli abitatori vanno con abiti tristi, e non sono civili, ma gente grossa.


Hunain città.

Hunain è una città piccola e antica, edificata dagli Africani. È assai gentile e addorna di civilità, e ha un piccolo porto, fatto forte da due torri che stanno da ciascun lato. Questa città è similmente cinta di forti e alte mura, massimamente dalla parte che risponde verso il mare. Le galee de' Veneziani sogliono ogni anno venire al porto della detta città, e fanno molto guadagno con li mercatanti di Telensin, percioché è discosta da Telensin non piú che quattordici miglia; in modo che, quando Oran fu preso da' cristiani, i Veniziani piú non usarono d'andare a Oran, per truovare quella città ripiena di soldati spagnuoli, e i mercatanti di Telensin fecero loro intendere che se ne venissero a questa.
Gli abitatori furono nobili e civili, e quasi tutti lavoravan bambagio o tele; e le case sono bellissime e addornate, e cadauna ha un pozzo d'acqua viva e dolce, e nella corte hanno viti fatte in pergole. Le lor case sono saleggiate di mattoni coloriti, e cosí li tetti delle camere e li muri tutti rivestiti e adornati di musaichi. Ma come s'intese la presa d'Oran, tutti abbandonoron la città, la qual rimase disabitata, eccetto che 'l re di Telensin usa di mandare un castellano nella rocca della terra con qualche fante, non per altro se non per dar aviso quando giunge qualche nave di mercatanzia. E fin al presente le possessioni di detta terra fanno frutti in quantità, come ciriegie, crisomeli, pomi, peri, persiche, fichi infiniti e olive, ma non c'è chi gli raccoglia; e sono sopra un fiume che passa vicino alla terra, dove erano fabbricati li mulini per macinare i grani. Io, passandovi appresso, ne presi gran dolore e compassione, considerando la calamità nella qual detta città era venuta. E mi trovavo con un secretario del re di Telensin, il qual andò per aver la decima d'una nave de Genovesi, la qual portò tanta robba di Europa che forní Telensin per cinque anni: e la decima che toccò al re fu di quindecimila ducati d'oro in oro, secondo che detto secretario mi mostrò.


Haresgol città.

Haresgol fu una città grande e antica, edificata dagli Africani sopra uno scoglio cinto dal mare Mediterraneo d'ogni lato, eccetto dalla parte di mezzogiorno, dove è una via che per la costa del detto conduce alla terra ferma. Era discosta da Telensin circa a quattordici miglia verso tramontana, e fu in lei molta civilità e molto popolo. Vi regnò Idris, fratello del padre di quello Idris che edificò Fez, per elezione del suo popolo; e rimase la signoria nella famiglia di costui cento anni. Venne dipoi un re e pontefice del Chairaoan, il quale distrusse questa città: e rimase disabitata presso a centoventi anni. Doppo il qual tempo fu riabitata da alcune genti che vennero della Granata con l'esercito di Mansor, consigliere di Cordova, il quale la fece rinovar, per qualunque bisogno gli occorresse di mandare i suoi eserciti in Africa. Ma, poiché Mansor si morí e il suo figliuolo Mudaffir, allora tutti i soldati furono scacciati e distrutti dal popolo di Zanhagia e di Magraoa. Fu ancora questa città altre volte disfatta, come negli anni quattrocentodieci di legira appare.

La gran città di Telensin, ora detta di Tremisen.

Telensin è gran città e sedia reale, ma non si truova nelle istorie chi la edificasse. Truovasi bene che ella era una piccola città, e che con la rovina della sopradetta Haresgol incominciò a crescere e allargarsi, massime dipoi che gli eserciti di Mansor furon scacciati: allora, regnando la famiglia di Abdulguad, la detta in modo ampliò i suoi termini che, nel tempo del re Abu Tesfin, pervenne a numero di sedicimila fuochi.
Ed era in lei invero grandissima civilità, ma molto molestata da Giuseppe re di Fez, il quale sette anni le tenne lo assedio d'intorno con quasi infinito esercito, fabbricandoli una piccola terra dalla parte di levante, e la ridusse a tale che il popolo, non potendo soffrire la carestia, si lamentò al re. Il quale rispose che egli volentieri gli darebbe a mangiare la carne sua, quando ella fosse bastante a pascer tutti, stimando ciò poco prezzo al merito della loro fedeltà; e col fine delle parole fece vedere a molti quale era il cibo della sua cena di quel giorno, il quale era carne di cavallo cotta in orzo e foglie di melangole: a tanto che 'l popolo conobbe che la penuria del re avanzava quella di ciascun privato. Il re allora, fatti chiamare li figliuoli, fratelli e nepoti, fece una bellissima orazione, conchiudendo che esso era disposto di valorosamente morire fra i nimici col ferro in mano, piú tosto che vivere in cosí vituperosa e misera vita; perciò chi fosse seco d'un medesimo animo il dí sequente lo seguitasse: il che tutto il popolo parimente mostrò di consentire. Ma volle la sorte buona che, l'istessa mattina per la quale s'era ordinato il fatto d'arme, il re Giuseppe fu ucciso nel suo campo da uno de' suoi per isdegno. La qual novella, pervenuta nella città, sí come agghiacciò l'animo di quelli di fuora, cosí accrebbe ardimento e forza al ben disposto popolo, onde, col suo re uscito alla campagna, n'ebbe con picciola fatica la non prima sperata vettoria. E oltre che uccise una grandissima quantità dei nimici che disordinatamente fuggivano, e' si fece anco padrone delle vettovaglie e di molti bestiami, ch'essi furono a lasciare costretti. Cosí la carestia di pur dianzi si cambiò in somma abbondanza; nondimeno ciascuno molto si risentiva del danno avuto nella lunghezza dell'assedio.
Ora, passati che furono quaranta anni, Abulhesen, quarto re di Fez e della casa di Marin, fece edificare una città vicina a Telensin circa a due miglia dalla parte di ponente, e con molto esercito cinse la città d'assedio per trenta mesi, ciascun giorno dandole crudelissima e aspra battaglia e ogni notte un bastione fabbricando, di maniera che condusse securamente lo esercito fino sotto le mura, ed entrò per forza d'arme nella detta città, la quale fu saccheggiata, e il re fu menato prigione al re di Fez: ed egli gli fece tagliare la testa e gittare il corpo nelle brutture della città.
Questo fu il secondo danno che ricevé Telensin; pure, dapoi che mancò la casa di Marin, la città fu ristorata alquanto e incominciò a rinovarsi la civilità, tanto che 'l numero delle case arrivò a dodicimila fuochi.
E tutte l'arti e le mercanzie sono separate in diverse piazze e contrade, come abbiamo detto di Fez; ma le case nel vero sono assai di minore spesa di quelle che sono in Fez. Sono in lei molti bellissimi tempii, ben ordinati e forniti di sacerdoti e di predicatori; sonvi somigliantemente cinque belli collegi di scolari, molto ben fabricati e ornati di musaico e d'altri lavori, de' quali alcuni furono edificati dai re di Telensin e alcuni dai re di Fez. Ancora sono per lei molte stufe grandi e d'ogni qualità, ma non hanno tanta abbondanza d'acqua come quelle di Fez. Osterie ve ne sono molte all'usanza africana, tra le quali ve ne sono due nelle quali alloggiano i mercatanti genovesi e veneziani. V'è una gran regione, o contrada che dire la vogliamo, nella quale si stanno molti giudei quasi tutti egualmente ricchi, e portano in capo dolopani gialli per esser conosciuti dagli altri; ma un tempo questi giudei furon ricchissimi, percioché nella morte del re Abuhabdilla furono saccheggiati, nell'anno novecentovintitre di legira, onde oggi sono divenuti quasi mendichi. Sono nella detta città molti fonti, ma i capi sono di fuori, di maniera che con poca fatica dai nimici possono esser loro levate l'acque. Le mura di lei sono molto alte e forti, le quali danno l'entrata per cinque molto commode e ben ferrate porte: e in queste sono le loro loggette, dove si stanno gli uficiali, i guardiani e i gabellieri. Nella parte di mezzogiorno è il palazzo reale, cinto intorno d'altissimi muri a guisa d'una fortezza, dentro il quale vi sono molti altri palazzetti con li loro giardini e fonti: e tutti sono fabricati superbamente e con bellissima architettura. Ha due porte, una verso la campagna, cioè scontro al monte, e l'altra dentro della città, dove sta il capitano della guardia. Di fuori della città sono bellissime possessioni con bellissime case, nelle quali sogliono abitare i cittadini al tempo della state con molto loro diporto, percioché, oltre alla piacevolezza del sito, vi sono acque fresche di pozzi e di fontane vive. Quivi sono bellissimi pergolati d'uve d'ogni colore e di sapor delicatissimo; quivi ciriegie d'ogni qualità, e in tanta copia che io non ne viddi altrove altretante giamai; quivi fichi dolcissimi, i quali sono negri, grossi e molto lunghi: questi si sogliono seccare e mangiarsi il verno; quivi persiche, noci, mandorle, melloni, cetrioli e diversi altri frutti. E discosto quasi tre miglia dalla città verso levante sono molti mulini da macinar grano, sopra un fiume detto Sefsif; vi sono eziandio altri mulini piú vicini alla città, in una costa del monte Elcalha.
Verso mezzogiorno, tornando dentro la città, sono similmente molti giudei e avvocati e notari, i quali difendono le cause che cascono in questione; e sonvi molti scolari e lettori in diverse facultà, sí in legge come di scienzie naturali, i quali hanno le loro provisioni ordinarie dai cinque collegi. E sono tutti gli abitatori divisi in quattro parti, cioè quale è artigiano, quale mercatante, quale scolare e quale soldato. i mercatanti sono uomini giusti e molto leali e onesti nei loro traffichi, e si dilettano sommamente che la città sia fornita; i loro viaggi fanno per lo piú ai paesi dei negri, e sono molto ricchi di facultà e di danari. Gli artigiani sono uomini gagliardi di loro persona, e vivono vita molto tranquilla e piacevole, e attendono a darsi buon tempo. I soldati del re sono tutti uomini eletti e molto bene secondo la loro sufficienza salariati, talmente che 'l minimo di loro gode tre ducati al mese di quella moneta, che fanno tre ducati e mezzo della italiana: e questo salario è diputato per l'uomo e per lo cavallo, perché in Africa ogni soldato è inteso per cavallo leggiero. Gli scolari sono molto poveri, perché stanno in li collegi con una misera qualità, ma quando ascendano al dottorato, ciascun di loro è fatto o lettore o notaio o sacerdote. I mercatanti e i cittadini vanno con bello e onesto abito, e alle volte meglio in ordine che quegli di Fez, percioché nel vero sono piú magnifichi e liberali. Gli artigiani ancora essi vanno molto pulitamente vestiti, ma l'abito loro è corto, e pochi sono quelli che portino in capo dolopani, ma solamente alcune berrette senza pieghe, e usano cotali scarpe alte insino al mezzo della gamba. I soldati vestono peggio di tutto il resto del popolo, percioché portano in dosso un largo camicione con larghe maniche, e di sopra un lenzuolo di tela assai largo di bambagio, e in quello s'involgano e aggroppano cosí il verno come la state: egli è vero che il verno usano certe pellicce fatte nella foggia dei detti camicioni di panno e senza fodera, e quelli che sono di maggior qualità portano sul camicione altre vesti di panno, sopra il lenzuolo alcuni cappucci fatti a modo di mantelli, che già si solevano portar nell'Italia per li viaggi, e con quelli si possono quando piove coprire il capo. Gli scolari vestono secondo la loro condizione, percioché chi è montanaro porta abito di montanaro e chi è Arabo porta abito di Arabo; ma i lettori, i giudici, i sacerdoti e gli altri ministri vestono piú superbamente.


Costumi e ufici della corte del re.

Vive questo re con gran riputazione, né si lascia vedere né dà udienza se non a uomini grandi e principali della sua corte, i quali poscia espediscono le cose secondo l'ordine servato. Nella detta corte sono molte dignità e ufici. Il primo è il luogotenente del re, il quale rassegna le provisioni secondo il valore e 'l merito di ciascuno, ordina gli eserciti, e talvolta ne va egli stesso contra a' nimici con la medesima autorità del re. Il secondo è il secretario maggiore, che scrive e risponde in nome del re. Il terzo è il tesoriere, il quale riscuote e serba il danaro delle entrate. Il quarto è il dispensatore, il quale comparte il danaro secondo il mandato del re. Il quinto è il capitano della porta, il quale ha il carico della guardia del palazzo e della persona del re quando egli dà udienza. Sono diversi altri ufici minuti, come maestro di stalla, capitano di staffieri, un gran cameriero, il qual non serve ad altro se non quando dà udienza, perché dentro di casa lo servono schiavi e le donne sue mogli, e schiave cristiane, e molti eunuchi che stanno alla guardia delle donne. Il re va con bello e onesto abito, e molto superbo e pomposo è il cavallo che porta la sua persona. Nell'ordine quando ei cavalca non sono molte cerimonie né pompe, perché non tien se non mille cavalli; ma al tempo delle guerre, che egli va nell'esercito, allora congrega Arabi e altri paesani di diverse generazioni, e li paga al tempo della guerra. E quando va in campagna, non mena similmente gran carriaggi né pompe di padiglioni, ma veste e abita come un privato capitano, e quantunque egli tenga nella sua guardia molti soldati, nondimeno tutte sono cose di poca spesa. Fa battere ducati d'oro basso, come sono quelli d'Italia detti bislacchi, ma pesa ciascuno, per essere molto larghi, un ducato e un quarto di quegli d'Italia; fa ancora batter monete d'argento basso e di rame di diverse qualità e sorte.
Il paese è poco, e poco eziandio abitato; ma per esser la scala fra la Europa e l'Etiopia, il re vi cava assai grande utilità dell'intrare e uscire delle mercanzie, e massimamente dapoi che Oran è stato occupato da' cristiani. Ché gli ha parso d'aggiunger molti dazii e gabelle alla città, la qual nel tempo degli altri re era libera, per la qual cosa si concitò l'odio del popolo, qual durò fino alla sua morte; ed essendoli successo il figliuolo, con opinion di tener ancor lui dette gabelle, fu scacciato e privato del regno, e per riacquistarlo convenne andar a buttarsi a' piedi di Carlo imperadore, qual come abbian detto lo fece ritornar in casa. Pur di continuo questo reame ha dato d'intrata per molti anni trecento e anco quattrocentomila ducati, nel tempo che Oran era sotto il suo dominio, ma quasi la metà si dispensa nelle provisioni degli Arabi e per la custodia del regno; vi sono poi salarii di soldati e di capitani e cortigiani principali, e anco il re spende largamente in casa sua e nelle pompe di casa, per esser molto liberale e cortese signore. Io non pochi mesi ho consumato nella sua corte in diverse volte che vi sono stato, e molte cose ho pretermesso d'intorno al costume e gli ordini particolari, per esser elle conformi a quelle che io vi ho ricontato di Fessa, e per non v'infastidire con piú lunga descrizione.


Hubbed città.

Hubbed è una città piccola come un borgo, discosta da Telensin circa a un miglio e mezzo verso mezzogiorno, nel monte, molto civile e abitata: sonvi in lei assai artigiani, massimamente tintori di panni. Quivi è un grande e famoso santo sepolto in un tempio, e discendesi alla sua sepoltura per molti gradi; gli abitatori convicini molto l'onorano, votandosi a quello e molte limosine per suo amore faccendo: è detto Sidi Bu Median. V'è ancora un collegio bellissimo per scolari, e uno spedale per alloggiar forestieri, i quali furon fabricati da alcuni re di Fez della casa di Marin, come in certe tavolette di marmo dove sono descritti lor nomi si legge.


Tefesra.

Tefesra è una piccola città in una pianura, discosta da Telensin circa quindici miglia, nella quale sono molti fabbri, percioché in questa città si truovano molte vene di ferro; e i terreni d'intorno sono buonissimi per grano. Negli abitatori è poca civilità, perché il loro esercizio altro non è che di lavorar ferro e di portarnelo a Telensin.


Tessela.

Tessela fu una città antichissima, la quale fu edificata dagli Africani in un gran piano che si estende forse a venti miglia, e in questo nasce buonissimo grano e bello, sí di colore come di grandezza: e quasi il detto piano solo può fornir Telensin di grano. Gli abitatori abitano in padiglioni, percioché la città fu destrutta, e il nome rimase al piano. Pagano eziandio molto tributo al re.


Beni Rasid provincia.

Beni Rasid provincia s'estende per lunghezza circa a cinquanta miglia, cioè da occidente verso oriente, e per larghezza venticinque. E l'una parte, che riguarda verso mezzogiorno, è tutta pianura, e l'altra, che s'indrizza verso tramontana, è quasi tutta colline: ma sono tutti comunemente buoni terreni. Gli abitatori di questa provincia si dividono in due parti. Una parte abita nelle dette colline in case assai commode e murate, e queste genti coltivano i terreni e le viti e attendono all'altre cose necessarie. L'altra parte è di piú nobili, quali hanno le loro stanze nella campagna e alloggiano ne' padiglioni, e hanno cura delle bestie, tenendo molti camelli e cavalli: questi sono molto agiati, pure pagano certo tributo al re di Telensin. Quelli delle colline hanno molti casali, ma due sono i primieri. Uno è detto Chalhat Haoara, nel quale sono circa a quaranta case d'artigiani e di mercatanti, ed è fatto a modo d'una fortezza nella costa d'un monte fra certe valli. L'altro è appellato Elmo Hascar, dove suole abitare il luogotenente del re con li suoi cavalli: e in questo si suol fare la giobbia un mercato, nel quale si vende gran copia di bestiami, di grani, di zibibbo, di fichi e mele, ed eziandio vendonsi molti panni del paese e altre cose di minor valore, come sono funi, selle, briglie e fornimenti di cavalli. Io fui molte volte in questo paese, ma il piú delle volte mi fu involato qualche cosa, perché quivi sono ladri solennissimi. E questa provincia dà d'intrata l'anno al re di Telensin venticinquemila ducati, e fa circa altretanti uomini combattenti fra a piedi e a cavallo.


Batha città.

Batha città fu grande e civile e assai abitata, e fu edificata dagli Africani alla nostra età in una bellissima e larga pianura, nella quale nasce gran copia di grano. Soleva render di frutto al re di Telensin circa a ventimila ducati, ma fu rovinata nelle guerre che furono fra i re di Telensin e certi loro parenti, i quali abitano nel monte di Guanseris. E per avere essi avuto il favore del re di Fez, occuparono molto paese del regno di Telensin, quelle città e luoghi che non poterono tenere distruggendo e abbruciando, di maniera che oggi non si vede altro della detta città che certe piccole fondamente. Appresso il luogo dove ella fu passa un fiume non molto grande, su le rive del quale erano molti giardini e fertilissimi terreni.
La pianura eziandio tutta rimase disabitata, per insino che vi venne ad abitare con molti suoi seguaci un romito al modo loro, qual si teneva esser santo, il quale fece coltivare il terreno, e crebbe in tanta copia di buoi, di cavalli e di pecore, ch'egli medesimo non sa il numero. Perché né lui né li suoi pagano cosa alcuna alli re né agli Arabi, per esser tenuto, come abbian detto, santo; e mi è stato detto da molti suoi discepoli che la decima di detti terreni dà di rendita l'anno da ottomila moggia di grano. Ha da cinquecento cavalli fra maschi e femine, diecimila pecore, duemila buoi, e ogni anno da diverse bande del mondo e da diverse persone ha d'offerta e di limosina da quattro in cinquemila ducati, perché la fama sua è andata per tutta l'Asia e per tutta l'Africa, e sono cresciuti in grandissimo numero i suoi discepoli, e quelli che abitano con esso possono esser da cinquecento, quali vivono tutti a sue spese e l'aiutano in molte cose. A costoro non li dà né penitenza né di far cose se non l'ordinarie orazioni, cioè gli dà alcuni nomi di Dio e comandali che invochino il nome di Dio con quelli tante volte al giorno; e per questa causa vi concorre infinito numero di persone che vogliono esser suoi discepoli, li quali, come gli ha instrutti, ritornano a casa. Tien cento padiglioni, alcuni per alloggiar forestieri, altri per pastori, altri per la famiglia. Ha questo buon e valente romito quattro mogli e assai schiave, e di quelle molti figliuoli maschi e femine, quali tutti vanno vestiti molto pomposamente, e detti suoi figliuoli hanno ancor moglie e figliuoli, in modo che fra la sua famiglia e delli figliuoli sono piú di centocinquanta bocche. Costui è tanto onorato dagli Arabi e in tanta estimazione, che 'l re di Telensin triema di lui.
Io, desideroso di cognoscere quel che costui era, vi sono stato ad alloggiar con lui tre giorni continui, e ogni sera ha cenato seco in certe sue stanze secrete, dove fra l'altre cose m'ha mostrato alcuni suoi libri in magica e alchimia, e voleva provarmi che la magica è vera scienza, in modo che mi ho dubitato che costui sia mago, non per altra causa se non perché l'ho veduto tanto venerato e onorato, senza che lui facci né dichi né operi altro che quella invocazion di Dio con quelli suoi nomi.


Oran città.

Oran è una città grande la quale fa circa a seimila fuochi, e fu edificata dagli antichi Africani sul mare Mediterraneo, discosta da Telensin circa a cento e quaranta miglia. Questa città è fornita di tutti gli edifici e di quelle cose che appartengono alla civilità, come di tempii, di collegi, di spedali, di stufe e di osterie. Ha d'intorno alte e belle mura, e una parte è nel piano e un'altra in luogo montuoso ed elevato. La piú parte degli abitatori furno artigiani e tessitori di tele, e v'erano molti cittadini che vivevano d'entrata; ma non fu molto abbondante, percioché non vi si mangiava altro pane che d'orzo. Come si sia, la gente era tutta piacevole, benigna e amica de' forestieri. E fu questa città molto frequentata da mercatanti catalani e genovesi, ed evvi fin ora una loggia la quale si domanda la loggia de' Genovesi, perché vi alloggiavano i Genovesi.
Furon questi di Oran di continovo nimici del re di Telensin, né volsero mai accettare alcun suo governatore, ma solum hanno accettato un suo tesoriere e fattore per riscuotere l'entrate del porto della detta città; e il popolo elegge un lor primario del consiglio, che ha la cura delle cose civili e criminali. E i mercatanti solevano tener sempre fuste e brigantini armati, coi quali corseggiando facevano molti danni in Catalogna e nell'isole di Ieviza, Maiorica e Minorica, di modo che avevano ripiena la città di schiavi cristiani. Ma Fernando re di Spagna mandò una grande armata a combatter contra quelli d'Oran, per levare i cristiani da sí gravi e spessi danni, la quale armata fu rotta per causa di molti disordini. D'indi a molti mesi, con l'aiuto d'alcuni vescovi e del cardinale di Spagna, ne rifece una maggiore, e con questa in una giornata fu presa la città, perché il popolo disordinatamente uscí fuori alla battaglia e lasciò la città vota: il che conosciuto da' Spagnuoli, mandarono essi una parte delle lor genti da un altro lato alla città, i quali, non trovando altro contrasto che di femine che erano salite sopra le mura, agevolmente v'entrarono, e mentre di fuori si combatteva, questi uscendo d'improviso gli assaltarono dopo le spalle. E come che i Mori, avendo veduti gli stendardi di cristiani sopra le mura, s'avessero incominciato a ritirar verso la città per discacciar quegli che v'erano entrati, nondimeno fra l'una parte e l'altra i miseri furono serrati, in modo che pochi vi scamparono vivi. In cotal guisa ebbero gli Spagnuoli Oran, che fu negli anni novecentosedici di legira.


Mersalcabir.

Mersalcabir è una piccola città edificata a' nostri tempi dai re di Telensin sul mare Mediterraneo, discosta da Oran poche miglia. La significazion di questo nome nella lingua italiana è "il porto grande", percioché ella ha un porto al quale non penso che sia simile in tutto il mondo: in lui largamente possono capire centinaia di nave e di galee, ed è da tutte le parti sicuro d'ogni fortuna e offesa di venti. A questo solevano ridursi le galee de' Veneziani ne' tempi pericolosi, mandando le loro mercanzie con le barche ad Oran, percioché ne' buoni tempi dirittamente se n'andavano alla piaggia d'Oran. Fu questa città presa da' Spagnuoli nella medesima forma che fu Oran.


Mezzagran.

Mezzagran è una città piccola, edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo, e d'appresso lei il fiume Selef entra nel detto mare. È assai abitata e civile, ma molto molestata dagli Arabi, e il suo governatore poco può di dentro e meno di fuori.


Mustuganin.

Mustuganin è una città edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo, discosta dalla sopradetta circa a tre miglia verso levante nell'altra parte del fiume. Fu civile e molto abitata ne' tempi antichi, ma dipoi che incominciò a mancar la potenza de' re di Telensin, ella fu molto aggravata dagli Arabi, per sí fatto modo che oggidí è declinata due terzi. Pure fa da millecinquecento fuochi, ed è in lei un bellissimo tempio, e vi sono molti artigiani tessitori di tele. Le case sono belle, né vi mancano molti fonti; e passa per la città un fiumicello sopra il quale sono molti mulini; e fuori della città sono molti belli giardini, ma per la maggior parte abbandonati. Tutto il suo terreno infine è buono e fertile. E ha la detta città un piccolo porto, al quale sovente vengono molti legni d'Europa, ma fanno poche faccende, percioché gli abitatori sono molto poveri.


Bresch.

Bresch è una antica città edificata da' Romani sul mare Mediterraneo, discosta dalla sopradetta molte miglia. È molto abitata, ma da un rozzo popolo, il quale per la maggior parte è tessitore di tele; ma tutti sono comunemente uomini agili e gagliardi come leoni. Usa ciascun di loro di dipingersi una croce nera sopra le guancie e un'altra sopra la mano, cioè nella palma sotto le dita: cotal usanza servano tutti i montanari d'Alger e di Buggia, percioché dicono gli istorici africani che infiniti paesi, riviere e monti furon dominati dai Gotti, e molti Mori diventarono cristiani. Onde i re de' Gotti commisero che a questi non si togliesse tributo alcuno, ma percioché nel tempo del pagamento de' tributi tutti dicevano ugualmente esser cristiani, né si conosceva quali fossero in effetto, fu ordinato che i cristiani si facessero questa tal croce. Ma poi che a' Gotti fu levato il dominio, tutti ritornarono alla fede di Maumetto; nondimeno di tempo in tempo rimase l'uso di portar le croci, delle quali infiniti non sanno la cagione: usano eziandio cosí i signori di Mauritania come le persone ignobili di farsi una croce nella guancia con la punta d'un ferro, e di cosí fatti alcuni se ne veggono nell'Europa.

Questa città è molto abbondante, massimamente di fichi, e d'intorno ha belle campagne, dove nasce assai copia di lino e d'orzo. Gli abitatori tengono lega e amicizia coi vicini montanari, col favor di quali cento anni si difesero liberi dalle gravezze, per insino al tempo del sopradetto Barbarossa turco, il quale molto gli gravò. Non pochi di costoro sogliono portar fichi e lino per mare ad Alger e a Buggia e a Tunis, de' quali ne fanno buon guadagno. Nella città rimangono molte vestigia degli edifici e fabriche de' Romani, e di quelli sono fatte le mura.


Sersel città.

Sersel è una città grande e antichissima, edificata pur da' Romani sopra il mare Mediterraneo; ma dipoi fu presa da' Gotti, e finalmente da' maumettani. Il circuito di questa città fa circa a otto miglia di mura altissime e fatte di pietre grossissime e lavorate. E nella parte ch'è sul mare si vede il corpo d'un tempio grande e alto di marmo, fatto pure da' Romani, e fino al giorno di oggi vi resta quella parte di dentro tutta di marmo. E un tempo soleva essere una gran rocca sopra uno scoglio che riguarda molte miglia in mare. D'intorno sono belli e buoni terreni. E come che ella fosse molto distrutta da' Gotti, nondimeno, dominandola i maumettani, fu una parte di lei assai abitata, e durò forse 500 anni. Nelle guerre poi, le quali furono fra i re di Telensin e quei di Tunis, ella fu abbandonata e rimase disabitata circa a trecento anni, per insino che Granata fu presa da' cristiani. Allora vennero in lei molti Granatini, i quali rifecero in buona parte le case e la rocca e coltivarono i terreni. Dipoi fecero molti legni per navigare, essendosi dati al mestiero della seta, percioché trovarono in quel paese infinita quantità d'alberi mori, sí di negri come di bianchi. Cosí crebbero di giorno in giorno, tanto che essi pervennero al numero di milledugento case, né ad altri furon soggetti che a Barbarossa, al quale tuttavia non danno piú che trecento ducati l'anno di tributo.


Meliana.

Meliana è una città grande e antica fabricata da' Romani, e fu da loro chiamata Magnana, ma gli Arabi corruppero il vocabolo. Questa città è posta su la cima d'un monte, discosta dal mare Mediterraneo circa a quaranta miglia, cioè dalla sopradetta. Il monte dove è edificata è tutto ripieno di fonti e di boschi di noci, di maniera che né si comperano né appena si raccolgono. D'intorno la città sono alte e antiche mura. Da un lato della città sono rupe sopra una valle profondissima; dall'altro la città pende dalla cima del monte a guisa di Narni, che è vicina a Roma. Le sue case sono belle, e tutte hanno di dentro bellissime fontane. Gli abitatori quasi tutti sono artigiani, tessitori di tela e torniatori, i quali fanno bellissimi vasi di legno; vi sono ancora molti che attendono al lavor de' terreni. Visse ciascuno in libertà insino al tempo di Barbarossa, il quale se gli fece tributari.


Tenez città.

Tenez è città grandissima, edificata dagli antichi Africani su la costa d'un monte, discosta dal mare Mediterraneo pochi passi. È tutta cinta di mura e abitata da un gran popolo, ma molto rozzo; e fu sempre soggetta al re di Telensin. Ma quando venne a morte il re Mahumet, che fu avolo di questo che oggidí regna, lasciò tre figliuoli: l'uno maggiore di età detto Abuabdilla, il secondo chiamato Abuzeuen, e il terzo appellato Iahia. Il maggiore successe nel regno. I due fecero un trattato con certi cittadini d'ucciderlo, ma il tradimento fu scoperto, per il che Abuzeuen fu preso e posto in prigione. Ma dapoi che 'l popolo scacciò il re Abuchemmeu, egli non solo ebbe la libertà ma la corona del regno, per insino a quel tempo che Barbarossa l'uccise, come s'è detto di sopra. Il terzo fuggí a Fez ponendosi nelle braccia del re, con licenza del quale, chiamato dal popolo di Tenez, fu incoronato re e regnò molti anni, doppo la sua morte rimanendo il regno a un piccolo suo figliuolo, il quale fu similmente scacciato da Barbarossa. Perciò ricorse ancora egli a Carlo, allora solamente re di Spagna: ma, tardando l'aiuto di Carlo alla promessa, e costui restando appresso il detto Carlo, venne la fama che egli insieme con un suo fratello s'era battezzato, onde Tenez si rimesse in mano d'un fratello di Barbarossa. In questa città non è civilità alcuna, e nel suo terreno si raccoglie assai grano e mele; nel resto rende poca utilità.


Mazuna città.

Mazuna è una città antica, edificata secondo alcuni dai Romani, discosta dal mare Mediterraneo circa a quaranta miglia. Circonda assai terreno, e le sue mura sono forti, ma le case brutte e vili; v'è un tempio con alcune moschitte. Egli è vero che ne' tempi antichi fu molto civile, ma molte volte saccheggiata, quando dai re di Telensin e quando da suoi rubelli. E nel dominio degli Arabi seguí l'ultima sua rovina, di modo che oggi pochi abitatori vi sono rimasi, e questi sono o tessitori di tele o lavoratori di campi, e sono tutti poveri, perché gli Arabi gli aggravano troppo. Li suoi terreni sono buoni e abbondanti. Si vedono vicine alla detta città molte terre rovinate, edificate da' Romani, le quali non hanno alcun nome cognito appresso di noi, ma si conosce che sono de' Romani per infinite lettere che si truovano intagliate sopra tavole di marmo: e li nostri istoriografi non ne hanno fatto menzione.


Gezeir, cioè Alger.

Gezeir vuol dire "l'isole", e questa città è cosí detta per esser vicina all'isole di Maiorica, Minorica e Ievizza: ma gli Spagnuoli la chiamano Alger. È città antica ed edificata da un popolo africano chiamato Mezgana, perché appresso gli antichi questa si chiama Mezgana. È molto grande e fa circa a quattromila fuochi; le sue mura sono bellissime e fortissime e fabricate di grosse pietre, e sono in lei di belle case e belle e ordinate piazze, in ciascuna delle quali è la sua arte separata. E similmente vi sono molte osterie e stufe, ma fra l'altre fabriche v'è un bellissimo tempio e molto grande, posto sopra il lito del mare, e dinanzi al tempio verso il detto mare è un corridore maraviglioso su le proprie mura della città, dove percuotono le onde. D'intorno alla città si veggono molti giardini e terreni fruttiferi, e d'appresso, cioè dalla parte di levante, passa un fiume sopra il quale sono i mulini: e questo fiume serve ai commodi della città, sí di bere come d'altro. Le pianure sono bellissime, massimamente una che è chiamata Metteggia, la quale è lunga presso a quarantacinque miglia e larga trenta, dove nasce moltissimo e perfettissimo grano.
Questa città fu lungo tempo sotto il dominio di Telensin, ma poi che fu creato nuovo re in Buggia, ella si diede a quel re, per essere al suo regno piú vicina. Vedendo questo popolo che 'l re di Telensin non li poteva dar aiuto, e lo re di Buggia li pol far gran danno, mandarono a darli obedienza e tributo, ma furon quasi liberi. Gli abitatori dapoi, armati certi legni, divennero corsali, e molto infestavano le sopradette isole e anco le rive di Spagna. Per il che il re catolico Ferdinando mandò all'assedio della detta città una grossa armata, la qual sopra un scoglio che è dirimpetto alla città fabricò una bella e gran fortezza, ed era tanto vicina che gli schioppi aggiongevan in la terra, non che l'artiglieria, che passavan le mura da un canto all'altro, di sorte che furon astretti di mandar un ambasciatore in Spagna, e fecero triegua per anni dieci pagando certo tributo: il che li concesse il detto re catolico. E cosí rimasero in pace molti mesi.
In questo tempo Barbarossa andò all'assedio di Buggia, dove, presa che ebbe una delle fortezze fabricata per Spagnuoli, si mise all'assedio dell'altra, pensando che, auta quella, ricupereria tutto il regno di Buggia. Ma ciò non li venne fatto, perché tutti li popoli abitatori di monti ch'eran venuti in suo aiuto, come venne il tempo del seminare, si partirono senza domandarli licenza, e il simil fecero molti soldati turchi, di sorte che Barbarossa fu sforzato di fuggirsene da quell'assedio. Ma avanti che si partisse abbruciò con sua man propria dodici fuste grosse, che erano nel fiume vicino a Buggia tre miglia, e si ridusse con quaranta Turchi suoi familiari nel castello di Gegel, qual è discosto da Buggia settanta miglia, dove vi stette molti giorni. Fra questo tempo morí il re catolico, e il popolo d'Alger, volendo romper la triegua e liberarsi dal tributo di Spagna, considerando che Barbarossa era uomo valente nell'arte militare e atto a far guerra a' cristiani, lo mandò a chiamare e fecelo suo capitano, il qual subito cominciò a dar la battaglia alla rocca, ma non li faceva nocumento alcuno. E non essendo molta intelligenza fra il detto Barbarossa e un che si faceva signor d'Algier, Barbarossa l'uccise a tradimento in una stufa: questo signore era principe degli Arabi abitanti in la pianura di Metteggia, e si chiamava Selim Etteumi, della stirpe di Tehaliba, che procede da Machel popolo arabo. E come Buggia fu occupata da' Spagnuoli, questo principe d'Arabi fu fatto signor d'Algier, e durò molti anni signore, fino alla venuta di Barbarossa: qual, ucciso che l'ebbe, si fece chiamare re e fece batter moneta; tutti i vicini popoli gli diedero obedienza e mandorono tributo. Questo fu il principio del reggimento e grandezza di Barbarossa
E io mi trovai in persona in la maggior parte di queste cose, perché allora, andando da Fez a Tunis, alloggiai in casa di quel gentiluomo che andò per ambasciador del popolo d'Algier in Spagna, qual nella sua tornata portò tremila pezzi di libri scritti in lingua araba, comprati in la città di Sativa del regno di Valenza. E dapoi andai a Buggia, dove trovai Barbarossa che, come di sopra dicemmo, assediava quella seconda rocca: e volsi veder il fine, che fu il suo fuggir a Gegel; e io mi ridussi a Constantina e di lí a Tunis. Fra questo mezzo fu detto che Barbarossa fu ammazzato in Telensin, e fu fatto signor d'Algier un suo fratello, detto Cairadin, qual signoreggia fin al presente; mi fu anco detto che Carlo imperatore due volte disegnò di pigliar Algier, e mandò armate in diversi anni: e la prima fu rotta e annegata la piú parte in la spiaggia d'Algier, e la seconda, dismontata che fu in terra e data la battaglia tre giorni continui, li cristiani furono rotti e parte uccisi e parte fatti schiavi dal detto Barbarossa, sí che pochi scamparono. E questo fu negli anni di legira 922.


Tegdemt città.

Tegdemt città è molto antica, edificata secondo alcuni dai Romani: e gli Africani cosí la chiamano perché il vocabolo significa "antica". Circonda questa città dieci miglia, perché si vede li vestigii delli fundamenti delle mure a torno a torno; si vedono anco duoi tempii grandi rovinati, in li quali adoravan gl'idoli. E nel tempo che i maumettani la dominarono, diventò assai civile e furono in lei molti dotti uomini e poeti, percioché ne fu signore un fratello del padre d'Idris, che edificò Fez: e rimase la signoria nella famiglia di costui circa a centocinquanta anni. Dipoi fu rovinata per le guerre che furono fra gli eretici pontefici del Cairoan, negli anni di legira trecentosessantacinque. Ora non si vede altro se non qualche vestigii di fondamenti, come ne ho veduto io.


Medua città.

Medua è una città edificata dagli Africani antichi ne' confini di Numidia, discosta dal mare Mediterraneo circa a centoottanta miglia, posta in una bellissima pianura fruttifera, e cinta da molti capi d'acqua e giardini. Gli abitatori sono ricchi perché trafficano in Numidia; vestono bene e hanno belle case, ma pur sono molto aggravati dagli Arabi, e per esser lontani di Telensin circa a dugento miglia, il re non gli può difendere, né meno mantener la città. Fu ella dominata dal signore di Tenez, dipoi da Barbarossa e da suo fratello. Io fui ricevuto in questa città con tanto onore del popolo che piú non ve n'era fatto al signore, perché gli abitatori sono privi d'uomini che sappino lettere, in modo che, come passa alcun forestiere che sappi lettere, l'accarezzano e ritengono quasi per forza, e li fanno espedir molte loro liti, e fannosi dar consigli in tutte le lor dífferenzie. Io vi stetti duoi mesi e guadagnai piú di dugento ducati fra robe e danari, e quasi m'inclinava di star in detta città: ma il carico del mio uficio che io avea mi ritenne di farlo.


Temendfust.

Temendfust è una città antica, edificata dai Romani sul mare Mediterraneo, discosto dalla sopradetta città d'Algier circa a dodici miglia, dove è un buon porto del quale si servono quelli di Gezeir, percioché essi non ve n'hanno, fuori che una spiaggia. Questa città fu rovinata da' Gotti, e quasi tutte le mura di Gezeir furon rifatte con le pietre levate dalle mura di questa.


Teddeles città.

Teddeles è una città antica, edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo, vicina alla sopradetta Gezeir circa a trenta miglia, la qual città ha antiche e forti mura d'intorno. Gli abitatori sono per la maggior parte tintori, perché molti fonti e capi d'acqua passano per la detta città. Sono eziandio questi abitatori uomini piacevoli e di allegra vita, e quasi tutti sanno ottimamente sonare di liuto e d'arpe. Hanno molti terreni belli e fertili di grano, e ciascuno veste onoratamente come vestono i cittadini di Gezeir, e si dilettano di pescare, e il pesce si piglia in tanta copia che non si vende né si compra, ma lo donano a chi ne vuole. E questa città sempre ha fatto quel medesimo che ha fatto Algier circa il governo e signoria.


Beni Iezneten monte.

Beni Iezneten è discosto da Telensin verso ponente circa a cinquanta miglia, e da un lato confina col diserto di Garet, dall'altro col diserto di Angad. Estendesi per lunghezza circa a venticinque miglia, e per larghezza circa a quindici. È molto aspro, alto e malagevole, e sono in lui molti boschi ne' quali nasce gran copia di carobe, che quasi è il cibo degli abitatori, perché essi hanno poca quantità d'orzo. Sono nel detto monte molti casali, abitati da uomini valenti e animosi. V'è su la cima una fortissima rocca, nella quale dimorano i signori del monte, benché molte fiate combattono tra loro, perché ogniuno vuole averne la signoria. Io ebbi non poca pratica e domestichezza con detti signori, avendoli conosciuti in la corte del re di Fez, i quali mi facevano molto onore. Fa questo monte circa a diecimila combattenti.


Matgara monte.

Matgara monte è molto alto e freddo, ma bene abitato, vicino alla città di Ned Roma circa a sei miglia. Gli abitatori sono valenti ma poveri, perché non nasce nel monte loro altro grano che orzo, ma molta quantità di carobbe. E questo popolo con questo di Ned Roma è d'una medesima lingua, e l'uno favoreggia l'altro contra il re di Telensin.


Gualhasa monte.

Gualhasa monte è alto e vicino alla città detta Hunain. È abitato da un popolo feroce ma rustico, il quale piú volte guerreggiò col popolo d'Hunain e mise la città a sacco. Nasce in lui poco grano e molte carobbe.


Agbal monte.

Agbal monte è abitato da un vil popolo, soggetto allo stato della città d'Oran. Gli abitatori sono tutti lavoratori di campi e legnaiuoli, i quali conducono le legna a Oran. Essi, nel tempo che Oran era de' Mori, vi vissero assai agiatamente, ma dapoi che questa città fu presa da' cristiani, caddero in estrema povertà e ne hanno sempre qualche nuovo danno.


Beni Guerened monte.

Beni Guerened monte è vicino alla città di Telensin tre miglia, molto abitato e fruttifero, massime di fichi e ciriegie; e li suoi abitatori sono carbonai e legnaiuoli, e anco di quelli che lavorano la terra, in modo che dà d'intrata l'anno dodicimila ducati, secondo che mi fu detto dal secretario del re di Telensin.


Magraua monte.

Magraua monte s'estende circa a quaranta miglia sul mare Mediterraneo, vicino a Mustuganin, città detta disopra. I suoi abitatori sono nobili e valenti, e posseggono buoni terreni, e sono ancora molto cortesi e liberali.

Beni Abusaid monte.

Beni Abusaid è monte vicino a Tenez, ed è molto abitato, ma i suoi abitatori sono uomini bestialissimi, ma valenti. Hanno gran quantità di mele, di orzo e di capre, e sogliono portar cere e cuoi alla spiaggia di Tenez, vendendogli a mercatanti d'Europa. E pagavano qualche poco di tributo al re di Telensin, mentre che i suoi parenti regnarono in quelle parti.

Guanseris monte.

Guanseris monte è molto alto, e abitato da un nobile popolo, il quale piú volte fece guerra ai re di Telensin: e col favore dei re di Fez durarono queste guerre sessanta e piú anni. Ha molto buono terreno e abbondevole di fontane, e nella sua cima, che è molto arida e secca, si truova gran quantità di tucia. Fa circa a ventimila combattenti, de' quali sono circa a duemilacinquecento a cavallo. Gli abitatori di questo monte furono quelli che diedero favore al signor Iahia, che fu fatto re di Tenez; ma dapoi che lo stato di Tenez mutò signoria, i cavalieri del detto monte rimasero faccendo correrie per quel paese.


Monti dello stato di Gezeir.

Dalla parte di levante e di mezzogiorno, cioè ne' confini del piano di Gezeir, sono infiniti monti abitati da molti popoli, valenti e liberi d'ogni tributo, e sopra tutto molto ricchi e liberali, percioché hanno buonissimi terreni e molti bestiami e gran numero di cavalli. Assai volte fra loro si ritruovano in guerra, di modo che alcun di loro o forestieri che si sia non può passar sicuro, se non è in compagnia d'alcun religioso. Sogliono far tra loro fiere e mercati, ne' quali si truovano solamente animali, grani e lana, e qualche poco di merceria condotta dalle città vicine.

PARTE QUINTA

Regno di Buggia e di Tunis.

Di sopra, quando io divisi i regni della Barberia, promessi di porre lo stato di Buggia per un regno. Dipoi, meglio considerando, trovai Buggia non essere stata città reale se non da poco tempo in qua, e ragionevolmente appartiene il dominio di questa città al re di Tunis. Ma ella fu occupata e lungamente tenuta dai re di Telensin, fino a tanto che Abu Feris re di Tunis, sentendosi molto possente, venne fuori coi suoi eserciti e prese non solo Buggia, ma si rese tributario al re di Telensin. Lasciò adunque governatore signor di Buggia un suo figliuolo, sí per miglior sicurtà della città, come per vietar le discordie ch'arebbono potuto seguire fra gli altri suoi figliuoli doppo la sua morte, i quali erano tre. Ad uno, come s'è detto, diede Buggia, e fu detto Habdulhaziz; a un altro, detto Hutmen, lasciò il regno di Tunis, il quale regnò quaranta anni; il terzo, il cui nome era Hammare, ebbe il dominio dei paesi dei datteri. Costui si ribellò al fratello Hutmen re di Tunis, onde egli tanto lo perseguitò che lo prese nella città di Asfacos: per elezione di se medesimo gli furon cavati gli occhi, e menato in Tunis, dove visse cieco molti anni. Il principe di Buggia fu sempre obediente al fratello. Cosí rimase il regno nella sua famiglia lungo tempo, fin che ne fu privo da re Fernando, per opera e valore di Pietro Navarra.


Buggia città.

Buggia è città antica, edificata, come alcuni vogliono, da' Romani nella costa d'una altissima montagna sopra il mare Mediterraneo, città di belle, alte e antiche mura. Fa circa ottomila fuochi, cioè quella parte ch'è abitata: ma s'ella fusse tutta ripiena d'abitazioni, ne farebbe piú di ventiquattromila, percioché questa città s'estende tanto per larghezza verso il monte ch'è una cosa incredibile. Le case di lei sono tutte belle; è fornita di tempii, di collegi, dove sono assai scolari e dottori che leggono delle leggi e anche delle cose naturali; vi sono monasteri per li loro religiosi, stufe, osterie e spedali, tutti belli edifici e ben fatti; le sue piazze sono similmente belle e bene ordinate. È vero che per tutta la città sono molte ascese e molte discese, di maniera che, ogni poco tratto che vi si cammina, è di bisogno o di scendere o di poggiare. Di verso il monte è una gran fortezza e ben murata, ma addorna di tanti musaichi e di gessi cavati e di legni intagliati, con lavori stupendi di azurri oltramarini, che vagliono molto piú gli ornamenti che le mura.
I cittadini della detta città furono molto ricchi, e solevano armar molte fuste e galee, le quali mandavano a rubare a' lidi di Spagna, intanto che da questo nacque il disfacimento della città, perché vi fu mandato il conte Pietro Navarra a prenderla. Gli abitatori di questa città vivono assai miseramente, perché li terreni loro sono molto magri per far grani, ma per frutti sono perfetti. Intorno della città vi sono infiniti giardini copiosi di frutti, e massime fuori della porta che va verso levante; vi sono molti monti aspri e pieni di boschi, dove si truovano infinite simie e leopardi. Sono uomini piacevoli e che si dilettano di passar il tempo allegramente, e cadauno sa sonare e ballare, e massime li signori, quali mai non fecero guerra con alcuno e furono tanto di vil animo che, quando venne il conte Pietro Navarra con quattordici barze, il re con tutto il popolo cominciò a fuggirsene alli monti vicini, e lassarono la terra tutta piena di roba: e cosí, senza essersi sfodrata una spada, detto conte Pietro la prese e saccheggiò. E fece subito fabbricare una fortezza a canto il mare, dove è una buona spiaggia; fortificò anco un'altra rocca vecchia appresso il mare, pur vicina all'arsenale. Fu presa Buggia da' Spagnuoli l'anno di legira 917. Dapoi passati sei anni, Barbarossa turco volse recuperare detta città di mano dei cristiani, e vi venne a campo con mille Turchi combattenti e si mise a batter la rocca vecchia, la qual prese e fortificò. E v'erano in aiuto di Barbarossa tutti li popoli dei monti vicini, e si misero a voler prender l'altra rocca, che è appresso la spiaggia: ma nella prima battaglia vi morittero da cento Turchi dei piú valenti e da quattrocento delli montanari, di modo che non volsero piú tornarvi. E Barbarossa fu forzato a fuggire, come abbiamo detto di sopra, al castello di Gegel.


Gegel castello.

Gegel è un antico castello, edificato dagli Africani sul mare Mediterraneo sopra un'alta rupe, discosto da Buggia circa 70 miglia. Fa presso a 500 fuochi. Le case non sono molto belle, ma gli uomini valenti e liberali e fedeli, e tutti attendono ai lavori della terra. Ma il loro terreno è aspro, è solamente buono per orzo e per lino, ed eziandio per canapo, che quivi in gran quantità nasce. Hanno similmente molte noci e fichi, le quali per mare sogliono portare a Tunis con alcuni piccoli navili. E questo castello sempre ha serbato la sua libertà, a mal grado del re di Buggia e del re di Tunis, percioché non si può assediare. Pure di propria volontà le genti si diedero a Barbarossa, il quale d'altro tributo non le gravò che d'alcune decime di grano e di frutti, cose che sempre furon lecite e usate di prendersi.


Mesila città.

Mesila è città antica ed edificata dai Romani ne' confini dei diserti di Numidia fra terra, discosta da Buggia circa a 140 miglia. Le mura che la cingono sono belle, ma brutte le case. Gli abitatori sono tutti artigiani e lavoratori di campi; vanno vestiti di vili e tristi panni perché sono molto poveri, sí perché la metà della loro entrata è usurpata dagli Arabi loro vicini, e sí perché il re di Buggia gli ha molto astretti. E io, passando per la detta città, non potei aver tanta biada che solamente bastasse per dodici cavalli.


Stefe.

Stefe è una terra edificata da' Romani, discosta da Buggia 60 miglia verso mezzogiorno, passati li monti tutti di Buggia, in una bellissima pianura, murata di pietre belle e grosse fatte in forma quadre. Fu già civile assai e ben abitata, ma dapoi che v'introrno i maumettani è molto mancata, massime per causa degli Arabi, quali rovinorno gran parte delle mura, e non rimase in detta terra se non cento case abitate; ma vi resta il circuito grande della città, la qual cosa ho veduta andando da Fez a Tunis.


Necaus città.

Necaus, città che confina con Numidia, edificata da' Romani, è discosta dal mare circa a centoottanta miglia e dalla sopradetta circa a ottanta. È murata di forti e antiche mura, e appresso di lei passa un fiume, sopra il quale sono terreni di fichi e noci; e i fichi di questa città sono riputati per li migliori che si truovano nel regno di Tunis: questi sono portati a Costantina, dalla quale la città è lontana centoottanta miglia. Similmente d'intorno sono molte pianure, e tutte buone per grano. Gli uomini sono ricchi, onesti e liberali, e vestono gentilmente come i cittadini di Buggia. Il comune tiene una casa fornita a modo di spedale, nella quale s'alloggiano i forestieri. Hanno eziandio un collegio per scolari, i quali usano di vestire e di far loro le spese. Hanno similmente un tempio bello e grande, e accommodato di quanto fa di bisogno. Le donne sono belle e bianche, Co' capelli neri e risplendenti, perché sogliono molto frequentare le stufe e le politezze. Tutte le case sono quasi d'un solaio solo, ma nondimeno bellissime e molto graziose, percioché ciascuna ha il suo giardino pieno di diversi fiori, e spezialmente di rose damaschine e di mirtelle, di viole, di camamilla, di garofoli e di tai gentilezze; e quasi tutti hanno le sue fontane. Dall'altro canto del giardino sono bellissimi pergolati di viti, le quali fanno l'estate d'intorno al coperto della casa fresca e gratissima ombra. Di sorte che chi vede la detta città mal volontieri se ne parte, per la gentilezza e domestichezza degli uomini.


Chollo città.

Chollo è una gran città, edificata pur da' Romani sopra il mare Mediterraneo, sotto un'altissima montagna. Questa città non ha mura che la cinghino, percioché furono disfatte dai Gotti, e signoreggiandola dipoi i maumettani, la lasciarono quale fu da loro trovata. Nondimeno è civile e ripiena d'artigiani, e sono gli abitatori uomini piacevoli e liberali, e fanno buoni traffichi, perché de lor monti cavano assai cera, e hanno gran quantità di cuoi, le quai cose abbarattano con Genovesi che vengono al loro porto. I suoi terreni sono similmente fruttiferi, ma nel monte. E il popolo vive in libertà, e sempre s'è difeso dal re di Tunis e dal signore di Costantina, percioché fra Costantina e Chollo sono altissimi monti, e v'ha centoventi miglia di spazio; e la metà del suo contado è tutta di monti, abitati da valentissimi uomini. Talmente che per tutta la riviera di Tunis non è la piú ricca città né la piú sicura di questa, perché nelle mercatanzie ciascuno il doppio guadagna.


Sucaicada città.

Sucaicada è una città molto antica, edificata dai Romani sul mare Mediterraneo, vicina a Costantina circa a trentacinque miglia; la qual città fu anticamente rovinata da' Gotti, ma, perché quivi è un buon porto, il signore di Costantina ha fatto edificare certi alberghi e magazini, per li Genovesi che praticano in quel paese. Somigliantemente ha fatto fare un casale su la cima d'un monte vicino, dove sempre sta una guardia, che gli dà aviso delle navi che giungono al porto. E quei montanari contrattano molto con Genovesi, dando loro grano e pigliando panni e altre robe d'Europa. Fra questo porto e Costantina c'è una strada fatta di pietre negre, come in Italia se ne veggono alcune, le quali sono appellate le strade romane: il che è grande argomento che questa città fosse edificata da' Romani.


Costantina città.

Costantina è città antica ed edificata da' Romani, come nel vero negar non si può da chi riguarda le sue mura, le quali sono antiche, alte e grosse, e fatte di certe pietre negre e lavorate. È posta sopra un'altissima montagna. Dalla parte che guarda verso mezzogiorno è cinta da rupe altissime, sotto le quali passa un fiume detto Sufegmare, il quale dall'altra sua sponda è ancora cinto di rupi, di modo che fra le dette due rupe la gran profondità che v'è serve in luogo di fossa, ma vie piú utile molto. Dalla parte di tramontana ha le mura, che sono certamente fortissime, e oltra le mura v'è la cima del monte, in guisa che per andare alla detta città sono due sole anguste e piccole vie, l'una da levante e l'altra da ponente. E le porte della detta sono belle, grandi e ben ferrate. Ella è cosí grande che può fare ottomila fuochi. È abbondante, civile e ripiena di belle case e di molti nobili edifici, come è il tempio maggiore, due collegi e tre o quattro monasteri. Le piazze sono molte e bene ordinate, e ogni arte è separata dall'altra. Gli uomini sono valenti e armigieri, massimamente gli artigiani. V'è gran numero di mercatanti, i quali fanno traffico di panni di lana fatti nel paese; ancora di quelli che mandano olio e seta a Numidia, e similmente tele, dando ogni cosa a baratto per datteri e schiavi. Né è città in Barberia dove sia il miglior mercato di detti datteri, perché ne potei aver otto e dieci libbre per tre baiocchi. Sono per altro gli abitatori communemente parchi nel vestire, superbi e di rozzo ingegno.
Solevano i re di Tunis dar Costantina al primogenito loro figliuolo, ma il presente re alcuna volta l'ha data, alcuna volta no. Prima egli la diede pure al suo primogenito, il quale, volendo far guerra agli Arabi, nella prima sua mossa fu ucciso. Diedela poi al secondo figliuolo, il quale per il disordinato vivere fu trafitto da un canchero e si morí. Finalmente l'assegnò al terzo, il quale, essendo molto giovane, non prendeva vergogna di patire ciò che patono le femine, per il che il popolo, vergognandosi di servire a tal signore, il volse uccidere. Il padre lo fece a Tunis menar prigione, poi mandò per governatore in Constantina un cristiano rinegato, il quale era stato esperimentato dal re in cose di molta importanza, e di lui sommamente si fidava: onde di questo il popolo molto rimase contento.
Nella detta città dal lato di tramontana è una grande e forte rocca, fatta pure nel tempo che fu edificata la città: ma molto piú forte la rese anticamente un rinegato chiamato Elcaied Nabil, luogotenente del re, il quale fu colui che con questa rocca mirabilmente mise il freno a' cittadini di questa città e a' vicini Arabi, che sono i piú nobili e i piú gagliardi di tutta l'Africa, e avendo il principale lor capo nelle mani, che poteva fare cinquemila cavalli, non lo lasciò se prima egli non ebbe tre suoi piccoli figliuoli per ostaggio. Costui in fine venne in tanta superbia che fece batter nuova moneta a suo nome, con grande sdegno del re, lo quale acchetò con la forza dei presenti. Discordandosi molto questi succedimenti dal principio, il popolo, che prima l'amava, incominciò odiarlo. Onde, essendo egli in Numidia all'assedio d'una città detta Pescara, ebbe avviso che il popolo era sollevato contra di lui, e tornando verso Costantina, non gli furono aperte le porte. Per il che se n'andò a Tunis chiedendo il soccorso del re, il quale lo fece mettere in una stretta prigione, né altrimente lo liberò che con la taglia di centomila ducati; e diegli favore a riacquistar Costantina, la quale egli riebbe col valor dell'arme. Ma dipoi faccendo uccidere molti capi e primieri della città, un'altra volta il popolo si sollevò, e assediollo nella rocca per sí fatto modo che egli da disperazione si morí. E avendo il popolo la pace del re, non volle accettar piú governatore di sorte niuna, onde il re tornò a mandare di mano in mano i suoi figliuoli, come è detto di sopra.
I terreni che sono d'intorno alla detta città sono tutti buoni e fertili, e rispondono trenta per uno; e sopra al fiume nel piano sono eziandio molti belli giardini, ma non v'è molta copia di frutti, percioché essi non gli sanno coltivare. Fuori della città si veggono molti nobili edifici antichi, e lontano circa a un miglio e mezzo v'è un arco trionfale, simile a quelli che sono in Roma. Ma il pazzo volgo tiene che quello era un palazzo dove abitavano i demoni, i quali poscia furono cacciati dai maumettani nel tempo che vennero ad abitar Costantina. Appresso il fiume, sotto le rupi dove si discende, sono alcuni gradi cavati per forza di ferro, e vicino al detto fiume è una loggia, fatta in volte e tutta tagliata con stromenti di ferro, di maniera che 'l tetto, le colonne e il pavimento sono tutti d'un pezzo: e le donne della città usano lavar lor panni nella detta loggia. Discosto dalla città quasi tre tratte di mano è un bagno, il quale è una fontana d'acqua calda che si sparge fra certe pietre grosse; e ivi si truova infinita quantità di tartaruche over bisce scodellaie, le quali sono avute dalle femine per maligni spiriti, e come ad alcuna per qualche accidente vien la febbre o altro male, dicono essere per cagione di queste tartaruche. E subito, in rimedio di ciò, ammazzano alquante galline bianche e pongonle dentro una pignatta con tutte le lor piume, e attaccando d'intorno la pignatta molte candele di cera piccole, portano queste cosí fatte cose alla fontana e lí presso le lasciano: e molti buoni compagni, come vedono alcuna donna che va verso questa fontana con la pignatta e la gallina, la seguitano, e come la è partita pigliano la pignatta con la gallina e se la cuocano e mangianla. Piú lontano della detta verso levante è un fonte di viva e fresca acqua, vicino al quale è uno edificio di marmo, dove sono intagliate alcune figure, come io ne ho veduto in Roma e per tutta l'Europa. E il volgo si crede che quella anticamente fusse una scuola di lettere, nella quale essendo il maestro e i discepoli persone viziose, per loro peccati messer Domenedio quelli e la scuola in marmo trasformasse. I cittadini sogliono ragunare una carovana per Numidia due volte l'anno, e portano panni di lana fatti nel paese, e non so che altri imbrattamenti detti elhasis.
E perché le piú volte sono assaltati dagli Arabi, menano per loro sicurtà alcuni archibusieri turchi, i quali sono molto bene da loro pagati. Questi mercatanti a Tunis non pagano gabella, solamente nell'uscir di Costantina pagano due e mezzo per cento; ma l'andare a Tunis è loro piú tosto danno che utile, percioché, corrotti dai piaceri e dalle lascivie, consumano la piú parte di ciò che portano con le femine da partito.


Mela città.

Mela è una città antica, edificata da' Romani, discosta da Costantina circa a dodici miglia. È cinta d'antiche mura e fa tremila fuochi, ma oggi non sono in lei molte abitazioni, per l'ingiustizia dei signori. V'è gran copia d'artigiani, massimamente di tessitori di panni di lana, de' quali si fanno coltre per coprimenti di letto. Nella piazza è una bella fonte, delle cui acque s'accommodano gli abitatori della città, i quali sono invero uomini valenti, ma di grosso intelletto. Il paese è abbondantissimo, non solo di poma e di pere e d'altri frutti, onde penso che sia derivato il nome, ma di carne e di pane. Il signore di Costantina suol mandare in questa città un governatore, sí per far giustizia come per riscuotere l'entrate a lui deputate, le quali possono essere quattromila doble: ma le piú volte questi governatori sono uccisi dalla bestialità degli uomini.


Bona città.

Bona è città antica, edificata da' Romani sul mare Mediterraneo circa a centoventi miglia verso ponente, detta anticamente Hippo, dove fu episcopo santo Agostino: la quale fu signoreggiata da' Gotti, ma fu dipoi presa da Hutmen, terzo pontefice doppo Maumetto, il quale fra i sacchi e le fiamme la rovinò, e abbandonata rimase. D'indi a molti anni fu rinovata un'altra città, vicina a questa circa a due miglia e fabbricata delle sue pietre, la quale è detta dalla maggior parte Beld Elhuneb, cioè la città delle giggiole, per la molta abbondanza di detti frutti che vi sono d'intorno, i quali gli abitatori seccano e mangiano il verno. Fa questa città circa a trecento fuochi ed è molto abitata, ma ha poche belle case; v'è bene un bellissimo tempio, fabbricato su la marina. Gli uomini sono piacevoli, e quali mercatante e quale artigiano e tessitore di tele, delle quali gran numero ne vendono nelle città di Numidia; ma sono tanto superbi e bestiali che, oltra che occidono i governatori, hanno ardimento di minacciare il re di Tunis di dar la città a' cristiani, se egli buoni e giusti rettori non manda. Accompagnano questa loro superbia con una simplicità grande, percioché li tengono gran fede in alcuni uomini che vanno a modo di pazzi, e credono che quelli siano santi e gli fanno grande onore. In detta città non sono fontane, ma conserve d'acqua di pioggia; e verso la parte di levante v'è una grande e forte rocca cinta di grosse muri, fabbricata dai re di Tunis, dove suole alloggiare il governatore del re. Fuori della città è similmente una grande e larga campagna, la quale s'estende circa a quaranta miglia in lunghezza e venticinque in larghezza, la quale è tutta buona per grano, ed è abitata da certo popolo arabo detto Merdez, che la coltiva tenendo molte vacche e buoi e pecore, delle quali se ne cava tanto butiro che, portandosi a vendere a Bona, quasi non se ne truovano danari, e medesimamente del grano. Ciascun anno vengono a questa città molti legni da Tunis, dal Gerbo e da tutta la riviera di Tunis e anco da Genova, per comperar grano e butiro, e sono molto gentilmente trattati. Sogliono questi di Bona ogni venere fare un mercato di fuori della città appresso le mura, il quale dura insino a sera. Né molto discosto da lei è una spiaggia del mare dove si truovano molti coralli, ma niuno gli sa pescare o cogliere, per il che il re affittava la detta spiaggia ad alcuni Genovesi, i quali, essendo molestati da corsali, chiesero licenza al re di fabbricarvi una fortezza. Ma il popolo non gliel consentí, dicendo che altre volte i Genovesi, sotto a tali astuzie, s'impadronirono della città e la saccheggiarono. Dapoi fu ricuperata da un re di Tunis.


Tefas città.

Tefas fu città antica ed edificata dagli Africani su la costa d'una montagna, discosta da Bona circa a centocinquanta miglia verso mezzogiorno, la quale già fu civile, popolosa e ornata di belle case, ma fu rovinata e saccheggiata nel tempo che gli Arabi vennero nell'Africa. Poscia si riabitò, e qualche mese senza danni rimase; l'ebbero dapoi certi Arabi che tornarono a disfarla. Finalmente la tenne un popolo africano, non per altro che per ricetto dei suoi grani. Fu questo popolo, il cui nome è Haoara, favoreggiato da un principe al tempo nostro, che venne in suo aiuto con molti cavalli, e a dispetto degli Arabi abitò nella campagna. Costui si fu quello che uccise il principe di Costantina detto Enasir, figliuolo del re di Tunis. Ultimamente esso re la saccheggiò, e distrusse quello che rimaneva.


Tebessa città.

Tebessa è un'antica e forte città edificata da' Romani ne' confini di Numidia, discosta dal mare Mediterraneo dugento, miglia verso mezzogiorno. È cinta d'intorno d'alte, forti e grosse mura, fatte di alcune grosse pietre lavorate, le quali somigliano alle pietre che sono nel Coliseo di Roma: né io per tutta l'Africa né in tutta Europa ho veduto mura di quella sorte. Ma le case di dentro sono altretanto brutte. Vicino alla detta città passa un fiume molto grande, ed entra da una parte della città. Nella piazza e in diversi altri luoghi sono colonne di marmo, e si vedono epitaffi di lettere latine maiuscule, e alcune colonne quadre di marmo con un volto di sopra. La campagna è abbondante, ma non ha molto grasso terreno, e a chi è discosto dalla città quattro o cinque miglia pare che ella sia in mezzo d'un bosco; ma gli alberi sono tutti di noci, che sono grandi. Vicino alla detta città è un gran monte, nel quale si truovano molte cave fatte per forza di ferro, e il popolazzo istima che quelle fussero alberghi di giganti. Ma conoscesi manifestamente che i Romani cavassero di quindi le pietre con che edificarono le mura della città.
Gli uomini sono avari, rozzi e bestiali, né vogliono veder forestiero alcuno, in tanto che Eldabag, famoso poeta della città Malaga di Granata, passando per questa città, avendo in lei ricevuto vergogna, compose in suo biasimo questi versi, quali ho voluto notare per dispregio della detta città:

Fuor che le noci, altro non è in Tebessa
che si possa stimar pregiato e degno.
Errai, vi son le mura, e l'acque chiare
del vicin fiume, e di virtute è sgombra.
Dirollo, ella è l'inferno, e tanti porci
sono gli abitator delle sue case.

Fu costui molto elegante poeta in lingua araba, e mirabile in dir male.
Tornando agli abitatori della città, eglino sempre furono rubelli ai re di Tunis, uccidendo i governatori che essi vi mandavano. Onde, nel viaggio che fece il presente re in Numidia, essendo egli appresso questa città, mandò i suoi cursori che dimandassero al popolo chi viveva. Fu risposto: "Viva il muro rosso", cioè le mura della città. Per il che, fermandovisi il re, le diede la battaglia e la prese, molti di coloro faccendo impiccare e ad altri mozzar la testa. Sí che ella ne rimase diserta, gli anni a punto novecentoquindici di legira.


Urbs città.

Urbs è antica città fabbricata da' Romani, come si conosce dal nome, in una bellissima pianura e nel fiore delle provincie di tutta l'Africa, dove sono molto grassi e piú piani i terreni con commodità di molta acqua. E da questa campagna si fornisce tutta Tunis di formento e d'orzo, percioché la città è discosta da Tunis centonovanta miglia verso mezzogiorno. E sono in lei molte antiche reliquie de' Romani, come sono statue di marmo, tavole di marmo su le porte con latine lettere intagliate per entro, e molti muri di pietre grosse e lavorate. Ma fu questa città presa da' Gotti con l'aiuto degli Africani, perché ivi era rimasta la nobiltà e le ricchezze dei Romani che erano in Africa, e stette per alcun tempo disabitata; poi si riabitò, ma a modo d'un villaggio. Passa fra una rocca che v'è e due casali un gran capo d'acqua purgata e buona, e corre sopra un canale fatto di pietre cosí candide che paion d'argento, e sopra questo si macina il grano. L'acqua nasce da una collina discosta dalla detta città circa a mezzo miglio. In lei è poca civilità, perché tutti i suoi abitatori sono divisi in due parti, in lavoratori di campi e tessitori di tele. E molto l'aggravano i re di Tunis: ma se questi re avessero conosciuta la fertilità e abbondanza di questa città, sí di grani come di bestiami e d'acqua, e la salubrità dell'aere, senza dubbio arebbono lasciato da parte Tunis per abitare in quella. Ben la conoscono gli Arabi, che ogni state vengono nella sua campagna e, empiuti i lor sacchi di grano, si tornano senza spesa nel diserto.


Beggia.

Beggia è una antica città edificata dai Romani nella costa d'una collina, discosta dal mare Mediterraneo circa a venticinque miglia e da Tunis circa a ottanta o poco piú verso ponente, su la strada maestra che è a chi si parte da Costantina per andare a Tunis. Questa città fu da' Romani fabbricata nel luogo dove era un'altra città: perciò si disse vecchia; dipoi la v fu cangiata in b, e i due cc in g, e chiamasi Beggia. Ma io credo che 'l nome primo che li posero i Romani sia corrotto per la gran mutazion di signori e di fede, vedendosi che questa parola non è araba. Questa città ha fin ora le sue prime antiche mura. Gli abitatori sono assai civili, e la città è bene ordinata e fornita d'ogni sorte d'arti, massimamente di tessitori di tele. Vi sono anco infiniti lavoratori di campi, percioché la sua campagna è grande e buona; e gli abitatori non bastano a coltivare il detto terreno, perciò ve ne fanno buona parte coltivare agli Arabi, e con tutto ciò molto terreno ve ne resta inculto. Nondimeno si vendono ogni anno ventimila moggia di grano, e s'usa dire in Tunis: "Se ci fussero due Beggie, il grano avanzarebbe il numero dell'arena". Il re di Tunis pone loro tante gravezze, che a poco a poco vanno declinando e molto perdendo i miseri uomini della loro civilità.


Hain Sammit.

Hain Sammit città fu a' nostri dí edificata dai re di Tunis, discosta dalla sopradetta circa a trenta miglia; e la edificarono perché non si perdesse quella parte del fertile terreno che non era coltivata. Ma fra pochi giorni per mano degli Arabi seguí la sua rovina, con consentimento del re di Tunis. Nondimeno ora vi sono ancora le torri e le case, alle quali mancano solo i coprimenti, come io medesimo ho veduto.


Casba città.

Casba è un'antica città edificata da' Romani in mezzo d'una larghissima pianura, la qual s'estende forse dodici miglia intorno, ed è vicina a Tunis circa a ventiquattro. Le mura di questa città sono ancora in piè, fatte di pietre grosse e lavorate, ma la città è rovinata dagli Arabi, e il suo terreno si giace inculto, mercé della impotenza del re di Tunis e della dappocaggine del suo popolo, che ha da vicino cosí grassi terreni e si lascia morir di fame.


Choros castello.

Choros è un castello edificato modernamente dagli Africani sul fiume Magrida, discosto da Tunis circa a otto miglia, il quale castello ha bonissima campagna d'intorno, e gli è vicino un gran bosco d'olive. Pure fu ancora esso rovinato da certi Arabi, chiamati Beni Heli, i quali di continovo sono rubelli al re di Tunis, né d'altro vivono che di ruberie e d'assassinamenti, e d'aggravar i poveri contadini di certi straordinari pagamenti, i quali importano assai piú che gli ordinari.


Biserta città.

Bensart, o diciamo Biserta, è città antica edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo, discosta da Tunis circa a trentacinque miglia. È piccola e abitata da povera e misera gente. Appresso alla detta città passa una goletta di mare, e poco e strettamente s'estende verso mezzogiorno; dipoi si va allargando per insino che ella diventa quasi un grosso lago, d'intorno al quale sono molti casali, dove abitano pescatori e lavoratori di terreni, percioché dalla parte di ponente del detto lago è una gran pianura detta Mater, la quale è abbondantissima, ma aggravata assai dal re di Tunis e dagli Arabi. Nel lago si piglia gran copia di pesce, e spezialmente alcune grosse orate, le quai pesano cinque e sei libbre. E passato ch'è l'ottobre, pigliasi infinita quantità d'un certo pesce che gli Africani chiamano giarrafa, ma penso che gli sia quello che in Roma si dice laccia, percioché per le pioggie l'acqua s'indolcisce, e cosí il detto pesce suole entrare nel detto lago; né la sua acqua è molto alta. E dura il suo pescare fino al principio del mese di maggio: allora si smagra, come fa quel proprio pesce che si piglia in lo fiume vicino a Fessa.


Cartagine, magna città.

Cartagine, come è noto, è antica città edificata secondo alcuni da certa gente venuta di Soria; alcuni altri dicono che ella fu edificata da una regina. Ma Ibnu Rachich, istorico africano, afferma che la fabricò un popolo che venne di Barca, il quale fu privo del suo terreno dai re d'Egitto. Di modo che niuna certezza se ne può addurre. E gli istessi istorici africani, insieme con Esserif, oltre che fra loro si discordano, non è alcuno che ne faccia memoria, se non dapoi che mancò l'imperio di Roma. Allora tutti quei governatori e vicegerenti che si trovarono in Africa rimasero particolari signori di molti luoghi, ma subito i Gotti tolsero loro il dominio. E quando i maumettani vennero in Africa, e presero Tripoli di Barberia e Capis, tutti gli abitatori di queste due città si dipartirono e vennero ad abitare in Cartagine, dove s'erano ridotti i nobili romani e i Gotti, e fecero insieme lega per difendersi dagli eserciti maumettani. Pure, doppo molte battaglie, i Romani fuggirono a Bona e i Gotti lasciarono Cartagine, la qual fu distrutta e saccheggiata, e molti anni rimase disabitata, per insino al tempo di Elmahdi eretico pontefice, che la fece riabitare. Ma non vi fu abitata di venti una parte sola.
Si veggono ancora molte parti delle mura intere, e c'è per insino a una cisterna over conserva, molto profonda e larga. Sono eziandio interi gli acquedutti, per li quali si conduceva l'acqua a Cartagine da un monte discosto da Cartagine circa a trenta miglia, i quali sono alti a par di quelli per li quali veniva l'acqua al palazzo maggiore di Roma. Io sono stato al capo dell'acqua che soleva venire per li detti acquedutti; i quali vanno bassi a canto la terra circa a dodici miglia, percioché la terra vicina al monte è alta; e quanto l'acqua piú si discosta dal monte, tanto la terra s'abbassa e gli acquedutti s'inalzano, fin che giungono a Cartagine. Viddi ancora fuori della città molti antichi edifici, de' quali ora particolarmente non mi sovviene. D'intorno alla detta città, massimamente verso ponente e mezzogiorno, sono assaissimi giardini ripieni di molti frutti, non meno mirabili di bontà che di grossezza, e spezialmente persiche e melagrane, olive e fichi: e da questi giardini Tunis si fornisce di frutti. La campagna vicina è di buon terreno, ma è molto stretta, percioché da verso tramontana v'è il monte, il mare e il lago della Goletta, e dalla parte di levante e da mezzogiorno confina pure con le pianure di Bensart, che sono tutte del contado della detta città.
Ora la povera città è ridotta in estrema miseria e calamità, né si truovano in lei piú che venti o venticinque botteghe, e circa a cinquecento case brutte e vili. Ma c'è un bel tempio fatto a' nostri giorni e un collegio di scolari, ma non v'è scolaro niuno, di modo che l'entrata è della camera del re. Gli abitatori sono superbissimi, ma poveri e meschini, e dimostrano d'essere molto religiosi. Sono la maggior parte ortolani o lavoratori di campi, ma aggravati dal re per sí fatta maniera che niuno può esser padrone di dieci ducati: la cui ingiustizia a tutti è nota.


La gran città di Tunis.

Tunis è chiamata da' Latini Tunetum, e dagli Arabi Tunus: ma essi tengono questo nome per corrotto vocabolo, percioché nella loro lingua cosa alcuna non significa. Anticamente questa città fu detta Tarsis, come quell'altra ch'è in Asia. Come si sia, ella fu un tempo piccola città, edificata dagli Africani sul lago che è formato della Goletta, discosta dal mare Mediterraneo circa a dodici miglia. Ma poscia che fu rovinata Cartagine, allora la città incominciò a crescere e di numero d'abitazioni e d'abitatori, percioché gli eserciti che presero Cartagine, non volendo in lei dimorare per tema di qualche nuovo soccorso della Europa, vennero ad alloggiare in Tunis ed edificarono molte case. Venne dipoi un capitano detto Hucba di Otmen quarto pontefice, il quale fece loro sapere che gli eserciti non dovevano fermarsi in città che fusse vicina al mare o che toccasse il mare. E perciò fabbricò una città che è chiamata Cairaoan, lontana dal mare circa a trentasei miglia e da Tunis circa a cento. L'esercito adunque lasciò Tunis e abitò questa città, e altra gente s'impadroní delle case di Tunis che furono lasciate dal detto esercito.
D'indi a trecentocinquanta anni il Cairaoan fu rovinato dagli Arabi, di maniera che 'l suo rettore si fuggí verso ponente, e regnò in Buggia e in tutta quella parte vicina. E rimase in Tunis una famiglia, pure de parenti del rettore che era fuggito del Cairaoan, nella quale furono alcuni che come signori la possedevano. Doppo dieci anni quei di Buggia furono scacciati da Giuseppe, figliuolo di Tesfin: e veggendo la umiltà e la obbedienza di questi signori, gli lasciò in istato, nel quale tanto durarono che regnò la famiglia di Giuseppe, percioché Abdul Mumen re di Marocco, avendo riacquistato Mahdia, che era stata presa da' cristiani, nel suo ritorno passò per Tunis e levò loro la signoria. Per tutto adunque il tempo che visse Abdul Mumen, e Giuseppe suo figliuolo, e i discendenti Giacob e Mansor, Tunis si rimase in pace sotto il governo dei re di Marocco. Doppo la morte di Mansor il suo figliuolo Mahumet Ennasir mosse guerra al re di Spagna, ma fu vinto e scacciato, onde fuggí a Marocco, e doppo questa rotta visse pochi anni. Doppo la sua morte fu eletto suo fratello Giuseppe, il quale fu ucciso da alcuni soldati del re di Telensin.
Fra la rotta di Maumet e la sua morte e la morte di Giuseppe suo fratello, gli Arabi tornarono ad abitar lo stato di Tunis, e sovente assediarono il governatore di Tunis. Per il che egli fece intendere al re di Marocco che, se il detto non mandava presto soccorso, era astretto a dar la città agli Arabi. Il re pensò che a questa impresa di grande e bene esperimentato uomo faceva di bisogno, onde di tutta la sua corte ve ne elesse uno di Sibilia, città di Granata, detto Habduluahidi, il quale vi mandò con la medesima autorità che aveva egli. Costui, accompagnato da venti grosse navi, arrivò a Tunis, la quale trovò mezza disfatta dagli Arabi, e con la sua molta prudenza e ornata eloquenza rassettò le cose e pacificò tutto quello stato, riscotendo le intrate del paese.
A costui successe il figliuolo, il cui nome fu Abu Zaccheria, il quale e di dottrina e d'ingegno avanzò il padre. Fece egli in Tunis, dalla parte di ponente, nel piú alto luogo della città, edificare una gran rocca, e dentro di bei palazzi e un bel tempio, nel quale è un'alta torre, fatta similmente con bella forma di mura. Se n'andò ancora il detto Zaccheria insino a Tripoli, e tornò dalla parte di mezzogiorno riscotendo i frutti del paese, di modo che quando egli si morí lasciò un gran tesoro. Successe doppo la morte di questo un suo figliuolo, il quale fu un superbo giovane, né piú si degnava d'esser soggetto ai signori di Marocco, percioché allora i detti signori avevano incominciato a cadere, ed era già levata in piè la famiglia di Marin, e regnava nella regione di Fez, e Beni Zeiien in Telensin e in Granata. Questi dipoi incominciarono a combattere e giuocar fra loro medesimi lo stato, onde per la discordia di questi accrescevano le forze al signor di Tunis, intanto che egli se n'andò col suo esercito a Telensin e n'ebbe tributo. Per questo il re della casa di Marin, che era allora all'impresa di Marocco, mandò molti presenti al detto signore, raccomandandosi lui e il suo stato. Il signore lo ricevé per buono amico, ma tuttavolta per molto minore di lui. Cosí egli vincitore con grandissimo trionfo a Tunis si tornò, faccendosi chiamare re di Africa: e meritamente questo titolo gli conveniva, perché allora non era il maggior signore di lui in tutta l'Africa. Cominciò adunque egli a ordinar real corte, secretari, consiglieri e general capitano; usò ancora tutte le cerimonie che usavano i re di Marocco.
Ora, dal tempo di questo signore fino alla nostra età, Tunis andò sempre accrescendo sí di abitazioni come di civilità, talmente che ella divenne dell'Africa singularissima città. Doppo la morte di costui, il figliuolo, a cui la real corona pervenne, fece fabbricar alcuni borghi intorno alla città: uno fuori d'una porta detta Bed Suvaica, il quale fa circa a trecento fuochi; un altro fuori d'una porta chiamata Bed el Manera, che ve ne fa circa a mille. E sono questi due borghi ripieni d'infiniti artigiani, pescatori, speziali e d'altri. In questo ultimo è una separata contrada, quasi un altro borghetto, nel quale abitano i cristiani di Tunis, che s'adoperano nella guardia del signore e in altri ufici che non sogliono fare i Mori. È cresciuto dipoi un altro borgo, che è fuori della porta appellata Beb el Bahar, cioè la porta della marina, la quale è vicina al lago della Coletta circa a mezzo miglio: in questo borgo alloggiano i mercanti cristiani forestieri, come sono genovesi, veneziani e catalani, e tutti tengono i loro fondachi e le loro osterie separate dai Mori. Questo borgo è assai grandetto, e fa circa a trecento fuochi fra cristiani e mori, ma le case sono picciole. In modo che fra la città murata e i suoi borghi sono circa a nove o diecimila fuochi. Questa città è veramente bellissima e ordinata, cioè ogni arte è separata dall'altra, e oltre a ciò è molto popolosa e abitata. Ma gli abitatori sono per la maggior parte artigiani, massimamente tessitori di tele, percioché in Tunis si fa grandissima quantità di perfettissime tele, le quali si vendono per tutta l'Africa, e molto care per esser elleno sottili e salde, ché invero le donne della città ottimamente sanno filare. E quando filano usano di sedere in luogo alto, e mandano il fuso molto in giú, o da una finestra che risponda nella corte della casa, o per qualche buco fatto a questo effetto da un solaio all'altro, onde per la gravezza del fuso che va in giú il filo viene ben tirato, intorto ed eguale. Nella detta città è una piazza, dove è grandissima quantità di botteghe di mercatanti di sí fatte tele, i quali sono tenuti per li piú ricchi di Tunis. Sonvi ancora altri mercatanti e artigiani, come speziali e quei che vendono gli sciloppi e i lattovari, profumieri, setaiuoli, sarti, sellari, pellicciai, fruttaruoli, quelli che vendono il latte, quei che fanno il pan fritto in olio, e beccai, i quali sogliono uccider maggior copia d'agnelli che d'altri animali, massimamente la primavera e la state; sono diversi altri mestieri e arti, che superfluo sarebbe a raccontare.
Il popolo è molto benigno e amorevole, e gli artigiani e i mercanti, i sacerdoti, i dottori e tutti quelli che sono al maneggio di qualche uficio, vanno con bello abito, portando in capo certi grossi dolopani, con una lunga tovaglia che gli ricuopre. Cosí portano gli uomini della corte del re e i soldati, ma non lo cuoprono. Di ricchi vi sono pochi per la carestia del grano, quasi che 'l prezzo ordinario si è tre doble per soma, che sono quattro ducati d'Italia. E ciò avviene perché il popolo della città non può coltivare i vicini terreni, per la gran molestia degli Arabi, e il grano è condotto da lontano, come da Urbs, da Beggia e da Bona. Alcuni dei cittadini hanno certi piccoli poderetti pur vicini alla città, murati d'intorno, ne' quali fanno seminar qualche poco d'orzo o di frumento: e questi terreni vogliono essere adacquati, di maniera che in ogni poderetto è un pozzo, dal quale fanno cavar l'acqua con la destrezza di certe ruote, d'intorno alle quai sono alcuni canali fatti maestrevolmente. La ruota è rivolta da un mulo o camello, in modo che l'acqua se ne vien fuori e bagna il seminato. Pensate la quantità del grano che può uscire da un poco di terreno murato e tenuto con tanti artificii e lavori: conchiudo che ciò ad alcuno non basta per la metà dell'anno. E nondimeno vi si fa il pane molto bello, bianco e ben cotto, e tuttavia lo fanno non di farina, ma come di semola con tutta la farina, usando in farlo una gran fatica, massime a far la pasta, la qual battano con certi pestoni che son fatti sí come quelli che si pesta il riso over il lino nel paese d'Egitto. I mercatanti e gli artigiani e i cittadini hanno per ugual costume di mangiare il giorno un vile e rozzo cibo, il quale è farina d'orzo bagnata in acqua e ridotta a guisa di colla, dove mettono un poco d'olio o succo di limoni o di melarance: e questo cotal cibo crudo inghiottono senza masticare, pigliandolo a poco a poco, e lo chiamano besis, che è cosa molto bestiale. V'è una piazza nella quale altro non si vende che farina d'orzo, che è comperata per lo detto cibo. Usano un altro cibo, ma assai piú onesto: pigliano la pasta leggiera e fannola bollire in acqua, e poi che è ben cotta, dentro un vaso molto ben la pestano, e raccoltola tutta nel mezzo, e postole sopra olio o brodo di carne, l'inghiottono come il sopradetto senza masticarla: e a questa sorte di cibo dicono el bezin. Ve ne usano degli altri, i quali sono delicati e gentili.
Né in la detta città né fuori di lei è alcun mulino che macini sopra l'acqua, ma tutti sono mossi dalle bestie, talmente che un mulino appena fra il dí può macinare una soma di grano. Non v'è né fonte né fiume né pozzo alcuno d'acqua viva, ma vi sono cisterne, dove si raccoglie l'acqua delle pioggie. Ben fuori della città è un pozzo d'acqua viva, ma è alquanto salata: al quale vanno gli acquaruoli con le loro bestie e con li loro utri, e gli empiono e vendono l'acqua nella città, della quale il popolo usa bere, per essere ella piú sana dell'acqua delle cisterne. Vi sono altri pozzi di buonissima acqua, ma per il signore e per i suoi cortigiani. V'è un bellissimo tempio e molto grande, fornito sí di numero di sacerdoti come di grandezza d'entrata; vi sono altri tempi per la città e per li borghi, ma di minor qualità. Collegi di scolari vi sono molti, e monasteri d'alcuni loro religiosi, a' quali le limosine del popolo porgono onestamente il vivere. È in tutti gli abitatori natii di Tunis una sí fatta sciochezza, che come veggono un pazzo che tragga i sassi l'hanno per santo; ed essendo io in Tunis, il re fece edificare a uno di quegli pazzi, chiamato Sidi el Dahi, che andava vestito di sacco, scoperto il capo e discalzo, e tirava sassi e cridava come arrabbiato, un bellissimo monastero, e dettegli una grossa entrata per il suo vivere e di tutti li suoi parenti.
La piú parte delle case hanno assai bella forma, e sono fatte di pietre concie e ben lavorate, nei cieli delle quali usano molti ornamenti di mosaico e di gesso, intagliato con intagli mirabili e dipinto con azurro e altri colori finissimi. E questo fanno perché in Tunis è grandissima carestia di tavole e di legnami, onde non possono formar se non brutti travi. I pavimenti delle stanze sogliono saleggiar con belle pietre invetriate e lucide, e le corti con tavolette quadre di pietre eguali e polite. E quasi generalmente ogni casa è d'un solaio, l'entrata della quale è bella e fra due porte, l'una sopra la strada, e l'altra è fra l'entrata e la casa. E vi s'entra per alcuni gradi, ornati gentilmente di pietre, e studia ciascuno di far l'entrata piú bella e piú apparente del resto della casa, percioché i cittadini usano le piú volte di starsi in queste entrate, e quivi o trattenersi con gli amici o ragionar con i servitori. Vi sono molte stufe molto piú ordinate e piú commode di quelle di Fez, ma non cosí belle né di tanta grandezza. Fuori della città sono bellissime possessioni di bellissimi frutti, i quali nascono in poca quantità, ma sono tutti buoni. Di giardini v'è un numero quasi infinito, piantati di melaranci, di limoni, di rose e d'altri fiori gentili, massimamente in un luogo detto Bardo, dove sono i giardini e i palazzi nobili del re, fabbricati superbamente con intagli e colori finissimi. E d'intorno la città, circa a 4 o 6 miglia per ciascun lato, sono moltissimi terreni d'olive, delle quali si cava tanta quantità d'olio che fornisce la città, e molto eziandio se ne manda in Egitto. E dei legni dell'oliva ne fanno il carbone che s'adopera nella città, e parte di detti legni s'abbrucia, di modo che non è in tutto il mondo sí gran carestia di legne come in Tunis.
Finalmente, per la gran povertà del popolo, non solo si truovano molte femine che per poco prezzo vendono la lor castità ad altrui, ma i fanciulli ancora si sottopongono agli uomini, e sono piú disonesti e nel vero piú sfacciati delle publiche e infami. Ma come si sia, le donne vanno ben vestite e ornate. Egli è vero che fuori di casa si cuoprono i visi, come le donne di Fez, e se gli cuoprono ponendo sopra un panno della fronte molto largo un altro panno detto setfari, di maniera che il capo loro pare una testa di gigante. Nelle politezze e nei profumi consumano tutta la loro cura, onde i profumieri sempre sono gli ultimi a serrar le loro botteghe. Sogliono gli abitatori di questa città mangiare una certa composizione chiamata lhasis, qual è molto cara, e mangiatane una oncia si diventa allegri e si ride, e l'uom vorria mangiar per tre uomini, e diventa peggio che imbriaco, ed excita la libidine mirabilmente.


Corte del re, ordine, cerimonie e uficiali deputati.

Il re di Tunis si crea pure per eredità e per elezione del padre, col giuramento dei principali, come sono capitani, dottori, sacerdoti, giudici e lettori; e come muore un re, subito quello che è eletto successore è posto nella sedia reale, e tutti gli danno obbedienza. Dipoi a lui s'appresenta colui che tiene il maggior grado, il quale è detto munafid, ed è come vice re al governo del regno. Questo munafid gli rende conto di tutte le cose da lui fino a quel giorno amministrate, e col consentimento del re ordina gli ufici, dandogli piena informazione dei mandati e delle provisioni de' soldati. L'uomo di seconda dignità è detto mesuare, che è come un general capitano, il quale ha piena autorità sopra i soldati e la guardia del re: può dispensare e minuire e accrescer i salari de' soldati come gli pare, e farne le elezioni, muover gli eserciti e cotai cose; quantunque oggidí vi vuole esser la persona del re. Il terzo in ordine e dignità è il castellano, il quale ha cura dei soldati del castello, delle fabbriche del detto e dei palazzi del re, e dei prigioneri che sono posti in esso castello per cose di molto momento; similmente ha autorità di far ragione a chi gli viene innanzi, non altrimenti che se egli fusse la propria persona del re. Il quarto è il governatore della città, il quale è sopra le cose capitali e castiga ciascuno secondo la gravezza del delitto. Il quinto è il maggior secretario, che scrive e risponde in nome del re e ha autorità di potere aprir le lettere di ciascuno, eccetto dei due sopradetti. Il sexto è il maestro della sala: costui ne' dí del consiglio tien cura d'ornare la stanza di tapeti e le mura di panni, e d'assegnare a ciascuno il proprio luogo, comandando ai cursori per nome del re che diano gli avisi che accadono nel detto consiglio, o di prender qualche grande uomo; e questo tale ha molta domestichezza col re, percioché gli può favellare quando vuole. Il settimo è il tesoriere, il quale è tenuto di ricevere i danari dai ministri e assegnargli alle mani d'alcuni che sono diputati alla cassa, e di dispensarli secondo i mandati del re o dell'uficial maggior, con sottoscrizione di mano del re. L'ottavo è il gabelliere, il quale riscuote le gabelle delle robbe che vengono nella città da terra e il censo dei mercadanti forestieri, che sono due e mezzo per cento; e tiene gran moltitudine di sbirri, i quali, come veggono entrare alcun forestiere che dimostri nell'apparenza d'essere uomo di qualche riputazione, l'appresentano al gabelliere o, non vi essendo egli, lo tengono in prigione fin che viene, il quale poi gli fa pagare un tanto dei danari che ha seco, faccendogli far molti giuramenti. Il nono è il doganiere, il cui uficio è di riscuoter la dogana delle robbe che si conducono fuori della città e hanno a esser portate per mare, e cosí di quelle che vengono di mare: e il luogo della dogana è sul lago della Goletta vicino alla città. Il decimo è lo spenditore, il quale a guisa di mastro di casa ha carico di fornire il palazzo del re di pane, di carne e d'altre cose necessarie, come del vestire delle donne e delle donzelle del re, degli eunuchi e delle schiave negre che sono le cameriere del detto re; somigliantemente tien carico delle spese che appartengono ai piccoli figliuoli del re e alle nutrici loro, e dispensar gli ufici che occorrono nel castello o fuori del castello fra gli schiavi cristiani, e gli provede di cibo e di vestimenti secondo il bisogno loro. Questi sono i principali ufici e magistrati della corte del re. Ve ne sono alcuni altri ufici di minor riputazione, com'è il maestro della stalla, il guardaroba, il cappellano, il giudice del campo, il maestro de' fanciulli del re, il capo degli staffieri e cotai altri.
Tiene il re di Tunis 1500 cavalli leggieri, i quali sono per la maggior parte cristiani rinegati: a ciascheduno di loro dà provisione per la persona e per il cavallo, e questi hanno uno loro capitano particolare, che gli mette e dismette secondo il suo parere. Vi sono ancora 150 altri cavalli dei suoi natii mori, i quali consigliano il re nell'ordine e nelle cose pertinenti alla guerra, e sono come maestri del campo. Ancora tiene cento balestrieri, dei quali molti sono cristiani rinegati, e questi sempre vanno appresso il re quando egli cavalca o nella città o fuori. Ma va piú da vicino al re la guardia secreta, che è dei cristiani che abitano nel borgo sopradetto. Dinanzi al re va un'altra guardia a piè, e questa è tutta di Turchi armati di archi e di schioppi. Pure inanzi al detto re va il capo degli staffieri a cavallo, e da un lato va quello che porta la partigiana del re, dall'altro quello che porta lo scudo; dietro a cavallo uno che porta la sua balestra. D'intorno vanno diversi, come sono i contestabili e i mazzieri, i quali sono ministri delle cerimonie. Questo è l'ordine e la regola e il costume della corte del re di Tunis, generalmente parlando. Ma è differenza grande fra il vivere ordinario de' passati re e fra il viver particolare del re presente, percioché questo re è uomo d'altra natura, d'altro costume e d'altro governo. E io nel vero prendo vergogna a dire i vizii particolari d'alcun signore, massimamente di questo re, dal quale ho non pochi benefici ricevuti. Però tacendogli dico che egli è sufficiente e mirabile in cavar danari da' suoi soggetti, dei quali parte dispensa fra gli Arabi e parte nelle fabbriche de' suoi palazzi, dove egli si sta con gran delicatezza e lascivia fra sonatori, cantori e cantatrici femine, quando nella rocca e quando nei suoi belli e dilettevoli giardini. Ma quando un uomo dee cantare o sonare nella sua presenza, prima si benda gli occhi come si fa ai falconi, e poi entra dove egli è e le sue amorose donne. Il ducato d'oro che fa battere il re pesa 24 caratti, ed è per un ducato e un terzo dei ducati che corrono per la Europa. Fa battere ancora certe monete d'argento quadre, del peso di sei caratti, 30 o 32 delle quali fanno un ducato: e la moneta è chiamata nasari; questi ducati nella Italia sono detti doble. E questo basti alla universale e particolare informazione di Tunis, e di ciò che mi è paruto degno di memoria.


Napoli.

Napoli è piccola città ed è antica, fabbricata da' Romani sul mare Mediterraneo, vicina alla Goletta e discosta da Tunis circa a 12 miglia verso levante, la quale è da' Mori detta Nabel. Fu un tempo molto abitata e assai civile, ma ora non è in lei se non alcuni lavoratori de campi, che vi sementano lino: né altro da questa città raccolgono.


Cammar.

Cammar è un'altra città pure antica, vicina a Cartagine e discosta da Tunis circa a 8 miglia verso tramontana, la quale è bene abitata, ma da certi ortolani che portano le loro erbe e frutti a Tunis. Nel suo terreno nasce molta quantità di canne di zucchero, le quali si vendono pure a Tunis; ma quei che le comperano le tengono per succiare doppo pasto, percioché non sanno trarne fuori il zucchero.


Marsa.

Marsa è una piccola e antica città edificata sul mare Mediterraneo, dove era il porto di Cartagine, percioché Marsa significa "porto". Questa città già molto tempo fu rovinata, ma oggi è abitata da pescatori, lavoratori di terreno e da quelli che sogliono biancheggiar le tele. E vicino a lei sono alcuni real palazzi e possessioni, dove il presente re suol trapassar tutta la state.

Ariana.

Ariana è piccola città e antica, e fu edificata da' Gotti vicina a Tunis circa 8 miglia verso tramontana, non molto discosto dalla quale sono assai giardini di varii frutti, massimamente di carobbe. Le sue mura sono antichissime, e gli abitatori lavoratori di terre.
Sono similmente vicino a Cartagine alcune altre piccole città, abitate e disabitate, delle quali non mi raccorda il nome.


Hammamet.

Hammamet è città moderna edificata da' maumettani e murata con forte mura, la quale è discosta da Tunis 50 miglia e abitata da una poverissima gente: sono tutti pescatori, barcaruoli, carbonari e biancheggiatori di tele. E tanto la città è aggravata dal signore, che i poveri uomini sono presso che mendichi.


Eraclia.

Eraclia è una piccola città antica, edificata da' Romani s'una collina appresso il mare; ma fu distrutta dagli Arabi.


Susa città.

Susa è una gran città antica edificata da' Romani sul mare Mediterraneo, discosta da Tunis 200 miglia; e fuori di lei sono molti terreni d'olive e fichi, donde si cava gran quantità d'olio. Vi sono ancora molti terreni per orzo, ma non gli posson gli abitatori coltivar per la molestia degli Arabi. I quali abitatori sono uomini piacevoli e umani, e molto i forestieri accarezzano; e la maggior parte di questi sono marinai, i quali vanno con li navili dei mercatanti in Levante e in Turchia. Alcuni similmente di loro vanno in corso, costeggiando le città vicine a Sicilia e ad altri luoghi d'Italia. Il rimanente dei detti sono o tessitori di tele, o vaccari, o facitori di scodelle, di boccali e d'ogni sorte di vasi, dei quali tengono fornita la rivera e Tunis.
E quando i maumettani acquistorono questa rivera, la detta città fu residenza del luogotenente, e ancora v'è il palazzo. La città è bella e murata intorno di belle mura, e posta in un bel sito. Fu eziandio molto abitata e ornata di belle case, delle quali ancora ve n'è alcuna; e vedesi oggidí un bellissimo tempio. Ora è quasi tutta disabitata, per la ingiustizia e gravezza dei signori, né sono in tutta lei piú che cinque o sei botteghe, fra pescatori e speziali ed erbolai. Io fui in questa città quattro giorni, tenutovi dalla malvagità del tempo.


Monaster.

Monaster è una città antica edificata da' Romani sul mare, discosta da Susa circa dodici miglia, murata d'intorno con forti e alte mura. Le case di dentro sono medesimamente fabbricate con bella architettura. Una è che gli abitatori sono poveri e mendichi, e vanno vestiti di misero e rozzo abito, portando ne' piedi certe pianelle fatte di giunchi marini, la piú parte de' quali sono o tessitori di tele o pescatori. Il cibo loro è pane d'orzo e quello bezzin con olio che di sopra dicemmo, come fanno ancora tutte le città che sono in questa riviera, percioché altro grano non vi nasce che orzo. E a questo proposito dirò ciò che m'intervenne, trovandomi in viaggio sopra un galeone con un ambasciador di questa città ch'andava in Turchia: costui ragionando meco di diverse cose, venimmo a parlare della provisione che il re gli dava, qual era una certa quantità di ducati, e appresso 24 moggia d'orzo l'anno. Allora, non essendo io pratico del paese, gli dissi: "Voi dovete aver molte cavalcature". Qual respondendomi di no, gli replicai: "E che fate voi di tanto orzo?" Allora io viddi ch'el si arrossí, volendo dire che lo mangiavano; e anco io fui malcontento di averli fatta simil domanda, la qual feci pensandomi che solamente i poveri lo mangiassero. Fuori della città sono assaissimi possessioni di frutti, come crisomele, fiche, mele, pere, granate e numero infinito d'olive. Ma pure il signor molto l'aggrava.


Tobulba.

Tobulba è una città antica edificata da' Romani sul mare Mediterraneo, discosta da Monaster circa a 12 miglia verso levante. Un tempo fu molto abitata e i suoi terreni erano fertilissimi d'olive, i quali tutti furono abbandonati per offesa degli Arabi. Non v'è quantità di case, e quelle poche sono abitate da certi, come religiosi, i quali tengono un gran luogo a guisa di spedale per alloggiar forestieri. Vengono anco degli Arabi nella città, ma non fanno loro dispiacere.


El Mahdia città.

El Mahdia è una città a' nostri tempi edificata dal Mahdi, eretico e primo pontefice del Cairaoan, il quale la edificò sul mare Mediterraneo e sopra un braccio di monte che entra in mare, cingendola di forti e alte mura, con grosse torri che hanno le porte ferrate; e anco il porto è diligentemente e con buoni ripari guardato. Costui venne in questi paesi in abito di pellegrino e, fingendo d'esser della casa di Maumetto, concitò in sé la benivolenza di quei popoli, talmente che con l'aiuto loro si fece signor del Cairaoan, faccendosi chiamare el Mahdi califa. Ma poi, lontano dal Cairaoan circa 40 giornate in la Numidia per ponente, mentre egli andava riscotendo i tributi di quel paese, fu preso dal principe di Segelmese e in prigione posto: il qual principe, mosso a compassione, gli diede libertà, ed egli per guidardone l'uccise. Onde faccendo dipoi la tirannide, il popolo incominciò a congiurar nella sua morte, per il che esso fece fabbricar questa città come per una fortezza, nella quale si potesse riparare quando bisogno facesse. E bene gli fe' di mistiero, percioché uno Beiezid predicatore, che era appellato il cavaliere dell'asino perché egli sempre cavalcava un asino, con l'esercito di 40 mila persone venne verso il Cairaoan. Ed el Mahdi si fuggí nella nuova città, la quale col soccorso di 30 navili d'un signor di Cordova macomettano cosí ben difese, che ruppe e uccise Beiezid insieme col suo figliuolo. Quindi tornato al Cairaoan pacificò e si rese amico il popolo, rimanendo il dominio nella sua famiglia fin al tempo sopradetto. Dapoi 130 anni questa città fu presa da' cristiani, ma fu poi ricoverata da Habdulmumen, pontefice e re di Marocco. Ora è in potere del re di Tunis, il quale vi manda un governatore, né gl'impone molta gravezza. Gli abitatori usano di trafficar per mare, e hanno molta nimicizia con gli Arabi, di modo che non possono coltivar i lor terreni. A' giorni nostri il conte Pietro Navarro con nove legni pensò di poter prender la detta città, ma si difesero con l'artiglieria, per il che si tornò adietro con molto danno e senza effetto niuno: fu gli anni del Natale de' cristiani 1519.


Asfachus città.

Asfachs è una città antica edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo, nel tempo delle guerre che essi ebbero co' Romani; la qual città è grande, e similmente murata con alte e forti mura. Fu già molto abitata, ma oggi non fa piú che 300 o 400 fuochi, e in minor copia sono le botteghe, percioché è molto gravata cosí dagli Arabi come dal re di Tunis. Gli abitatori sono per la maggior parte tessitori di tele, marinai e pescatori, i quali pigliano gran copia d'un certo pesce detto spares, la qual voce non è arabica, né barbaresca, né meno latina. Il loro cibo è, come quello degli altri detti, pane d'orzo ed el bezin. Vanno male in arnese; vi sono alcuni d'essi che con certi legni soglion trafficare in Egitto e in Turchia.


Cairaoan, la quale fu città grande.

Cairaoan, o Caroen, città nobile, fu edificata da Hucba, capitano degli eserciti mandati della Arabia Diserta da Hutmen terzo pontefice, il quale la fabbricò discosta dal mare Mediterraneo 36 miglia e da Tunis circa cento, non per altra cagione che per assicurarne il suo esercito, le facultà e i tesori che egli avea rubbati e saccheggiati per le città di Barberia e di Numidia. E cinsela di belle mura fatte tutte di mattoni, e fece edificare in lei un grande e mirabile tempio fatto sopra bellissime colonne di marmo, due delle quali, che sono appresso la cappella grande, sono di grandezza inestimabile e d'un color vivo rosso perfetto e lustro, tempestato di certi punti bianchi, il quale è simile al porfido.
Costui, doppo la morte di Hutmen, fu confermato nel dominio da Muchauia fino al tempo di Qualid califa, figliuolo di Habdul Malic, che allora regnava in Damasco, il quale mandò un suo capitano al Cairaoan con molto esercito, detto Muse figliuolo di Nosair. Questo Muse, come giunse al Cairoan, vi si fermò per molti dí, fin che fu bene riposato l'esercito. Dipoi se n'andò verso ponente, spogliando e saccheggiando molte città, per insino a tanto che egli giunse alla riviera del mare Oceano, dove entrò nell'onde col cavallo tanto che bagnò le staffe; e parendogli per quella fiata avere acquistato assai, tornò al Cairaoan e mandò in sua vece in Mauritania un suo capo detto Tarich, il quale molte città similmente acquistò, di maniera che Muse, avendogliene invidia, comandò che fermar si dovesse e attender la sua persona: il che fece Taric alla riviera della Andologia. Nello spazio di 4 mesi arrivò Muse con grande esercito, e ambi, congiuntisi insieme, passarono il mare in Granata e se n'andarono fra terra per affrontare l'esercito dei Gotti. Mossesi allora contra questi Roderigo re di Gotti e fece giornata, ma per non buona ventura fu rotto e distrutto tutto il suo esercito. Onde i due, seguitando la vettoria, andarono insino in Castiglia e presero Toleto, dove trovarono molti tesori, molte facultà e molte reliquie di santi che erano nella basilica di Toleto, sí come fu la tavola sopra la quale cenò Cristo con li suoi apostoli, la quale era coperta d'oro e d'intorno ornata di gioie istimate mezzo milione di ducati; doppo la qual presa si partí Muse con una parte dell'esercito, seco portando quasi tutti i tesori di Spagna, e passò il mare per tornar verso Cairaoan. Ma ebbe fra questo mezzo lettere di richiamo da Qualid, pontefice di Damasco, onde Muse, caricati tutti i tesori, s'inviò verso Egitto; e come fu giunto in Alessandria, ebbe aviso da un fratello del pontefice di Damasco, il quale si chiamava Hescian, che 'l pontefice era in termine di morire: perciò non si curasse di venire allora in Damasco, perché seguitandone la morte quei tesori anderebbono di leggiero a pericolo d'essere saccheggiati. Di ciò non si curò Muse, ma venne a Damasco e assegnò il tutto a Qualid, il quale doppo 5 giorni si morí. E asceso il fratello nel pontificato, levò a Muse il governo di mano dell'Africa e fece un altro capitano detto Iezul; il cui figliuolo, fratello e nipote un doppo l'altro successero e governarono la città, fin che fu priva la casa di Qualid di quella dignità e fu fatto locotenente Elagleb, il quale dominò a guisa di signore, percioché allora i pontefici macomettani, lasciando la sedia di Damasco, quella fecero in Bagded, come nelle croniche si narra. Onde, morto costui, regnorno i figliuoli, e cosí succedendo di mano in mano, rimase la signoria in questa famiglia 170 anni, fin che fu scacciato l'ultimo signore per el Mahdi eretico califa.
Nel tempo adunque di questi signori della casa di el Lagleb, accrebbe la città sí di grandezza come di numero di popolo, di modo che ella non basta a caperne tutti. Per il che il signore fece fabbricare appresso di questa un'altra città, a cui pose nome Recheda, nella quale abitava egli e i primieri della sua corte. In questo tempo fu presa Sicilia dalli suoi eserciti, mandativi per mare con un capitano detto Halcama, il quale nella detta isola edificò una piccola città per fortezza e sicurtà della sua persona, chiamandola dal suo nome: la quale v'è fin oggi chiamata da' Siciliani Halcama. Dapoi quest'Halcama fu quasi assediata dagli eserciti che vennero in soccorso di Sicilia; allora il signore di Cairaoan mandò un altro esercito piú grande, con un valente capitano chiamato Ased, il quale rinfrescò Halcama, e tutti si ridussero insieme e occuparono il resto delle terre che rimaseno: e per tale impresa e dominio della detta isola crebbe in civilità e abitazione il Cairaoan.
Il sito del quale è in una campagna di arena diserta, dove non nasce né albero né grano, e questo e ogni altro frutto pertinente al vivere è portato dalla riviera del mare, o da Susa o da Monaster o da el Mahidia, che son tutte lontane 140 miglia. E discosto da questa città 12 miglia è un monte detto Gueslet, nel quale rimangono certe vestigia degli edifici romani: e in lui sono molti fonti e terreni di carobe, le quali si portano al Cairaoan, dove non è né fonte né pozzo d'acqua viva, eccetto qualche cisterna. Ma di fuori della città sono certe conserve d'acqua antiche, le quali con le pioggie s'empiono: ma passato il mese di giugno non vi si truova acqua, percioché gli abitatori ne danno bere alle lor bestie. Gli Arabi vengono la state a starsi d'intorno alla detta città, i quali raddoppiano la carestia del grano e dell'acqua, ma fanno venire abbondanza di carne e di datteri, i quali portano dalle città di Numidia, discoste dalla detta circa a 170 miglia.
In questa città molto fiorí un tempo lo studio della legge, di maniera che la piú parte dei dottori d'Africa sono creati in essa. Ora la detta città, dopo il guasto che di lei fecero gli Arabi, cominciò a esser riabitata, ma miseramente: e gli abitatori d'oggi sono tutti poveri artigiani, e per la piú parte conciatori di pelle di agnelli e di capretti, e pellicciai, le cui pellicce si vendono nelle città di Numidia dove non si truova panno d'Europa; e di cotai mestieri assai parcamente vivono. Appresso l'esser gravati dal re di Tunis gli ha compiutamente ridotti ad estrema calamità, sí com'io vidi nel tempo d'un mio viaggio da Tunis a Numidia, dove era il campo del re di Tunis: e fu l'anno 922 di legira.


Capes città.

Capes è una grandissima città edificata da' Romani sul mare Mediterraneo e dentro d'un golfo, la qual città è murata d'alte mura e antiche, e cosí la rocca. E appresso lei passa un fiumicello, ma d'acqua calda e quasi salsa. L'esser saccheggiata dagli Arabi molto le tolse di civilità e grandezza, anzi tanto avanti le fece di danno che gli abitatori, lasciandola, abitarono nella campagna, in luogo dove è molta quantità di datteri, i quali non durano per tutto l'anno, ma si ammarciscono. Né altro vi nasce per tutto quel terreno, eccetto un frutto che nasce sotto terra, di grossezza come un radicchio ma piccolo come fave, el qual succiano: ed è dolce come mandrole e ha qualche sapore di mandrole, e se usa in tutto il regno di Tunis, e dagli Arabi è chiamata habbhaziz. Sono i detti abitatori uomini negri e poveri lavoratori di terra o pescatori, molto aggravati dagli Arabi e dal re di Tunis.


El Hamma città.

El Hamma è una città antica edificata da' Romani fra terra, discosta da Capes circa a 15 miglia: è cinta di mura fatte di pietre grosse e molto ben lavorate, e fino al dí d'oggi si veggono tavole di marmo con lettere intagliate su le porte. Le case e le strade di questa città sono brutte, e gli abitatori poveri e ladri; e il terreno è aspro e secco, dove altra cosa non nasce che palme, i cui datteri non sono molto buoni. Lontano dalla città un miglio e mezzo verso mezzogiorno nasce un capo grosso d'acqua caldissima, il quale entra nella città e vi passa per mezzo, ma per cotai canali larghi. E sotto la terra e dentro il canale sono certi edifici, come camere separate l'una dall'altra, e il pavimento di queste camere è il fondo del canale, e a ciascuno che vi entra l'acqua aggiunge per insino all'ombilico: ma a niuno basta l'animo d'entrarvi, per lo superchio caldo dell'acqua. Nondimeno gli abitatori beono della detta: è vero che, volendo bere la mattina, la cavano la sera, e cosí all'incontro. Dalla parte di tramontana pur fuori della città l'acqua si raccoglie insieme e fa un lago, che è detto il lago dei leprosi, percioché ha virtú di sanar la lepra e saldar le piaghe: perciò vi abitano sempre al d'intorno gran moltitudine di leprosi, con capanne fatte a torno detto lago, e infiniti si risanano. Questa acqua ha odore di solfo e mai non sazia chi la bee, come ho provato io che piú volte ve ne pigliai, ancora che non mi facesse di bisogno.


Machres castello.

Machres è un castello edificato dagli Africani alla nostra età su la bocca del golfo di Capes, e quasi fu edificato per guardare il detto golfo dalle offese delle navi dei nimici. È discosto dall'isola del Cerbo circa a cinquanta miglia, e abitato da alcuni tessitori di certe sorte di panni di lana. E vi sono molti barcaruoli e pescatori, i quali hanno molta pratica nella detta isola; e tutti parlano in lingua africana come quelli del Cerbo. E perché non hanno altro terreno né possessione alcuna, trattone i tessitori, gli altri tutti vivono del mestiero del mare.


Il Gerbo isola.

Gerbo è un'isola vicina alla terra ferma a... miglia, tutta pianura e arenosa, dove sono infinite possessioni di datteri, d'uve, d'olive e d'altri frutti; e circonda quasi diciotto miglia. Le abitazioni della quale sono casali separati, cioè ogni possessione ha la sua casa, dove abita da per sé una famiglia: ma sono pochi i casali dove siano molte case insieme. I terreni sono magri, di modo che, con molti lavori e cure d'acquare i detti terreni con l'acque di certi profondi pozzi, non vi nasce appena un poco d'orzo, onde quivi è sempre carestia di grano, il quale quasi sempre vale sei doble il moggio e alle volte piú, e la carne è similmente carissima. È nell'isola una rocca sul mare, dove abita il signore e la sua famiglia, e vicino alla rocca è un gran casale, nel quale alloggiano i mercatanti forestieri, mori, turchi e cristiani. E nel detto casale ogni settimana si fa il mercato, il quale è simile a una fiera, percioché tutti quelli dell'isola si riducono a questo mercato, e molti Arabi parimente vi vengono dalla terra ferma, menando bestiame e portando lana in molta quantità all'isola. Ma gli isolani vivono per la maggior parte di mercatanzia dei panni di lana, che si fa nella detta isola, i quali portano da Tunis in Alessandria; e medesimamente l'uva secca.
E circa anni cinquanta sono che detta isola fu assaltata da una armata di cristiani, la quale la prese e saccheggiò; ma subito fu recuperata dal re de Tunis e fatta riabitare, e allora fu edificata la sopradetta rocca, perché per il passato non vi erano se non casali. E di continuo fu governata da duoi capi di parte di duoi popoli che abitano in detta isola, sotto il nome del re di Tunis, quale vi mandava un governatore giudice e un fattore; ma venuto a morte il re Hutmen, li suoi successori mancandoli le forze, l'isola si vendicorno in libertà, e il popolo immediate ruppe il ponte che della terra ferma butta sopra l'isola, per tema di qualche esercito terrestre. E un di questi capi ammazzò tutti li principali de l'altra parte, di modo che esso solo rimase signore, e tutti li suoi, fin al giorno presente.
Detta isola dà d'intrata fra le gabelle e dogane ottantamila doble, per li gran traffichi che si fanno, essendo molto frequentata da mercatanti alessandrini, turchi e dalla città di Tunis; ma questi che al presente la dominano usano fra loro di gran tradimenti, perché il figliuolo ammazza il padre e il fratello l'altro fratello per signoreggiare, di modo che in quindici anni furono ammazzati da dieci signori. A' nostri tempi Ferdinando re di Spagna vi mandò una grande armata, capitano della quale era il duca di Alba, qual, non essendo pratico della detta isola, fece dismontare l'esercito delle navi molte miglia lontano dalla terra: la qual essendo difesa gagliardamente da' Mori, gli fu forza di ritirarsi adrieto, e massimamente per il gran caldo e sete che pativano, non vi essendo acqua da bere. E perché quando smontorono l'acqua era cresciuta in colmo e a questo suo ritorno l'acqua era calata, le navi per non restar in secco s'erano ritirate drieto la marea, di modo che era discoperto il spazio di quattro miglia, li quali aggionti agli altri che avean lasciati, messe in tanto pericolo e travaglio li soldati, che senza niun ordine camminavan alla volta delle navi, ed eran seguitati da' cavalli di Mori, di sorte che la maggior parte furon morti e presi, eccetto alcuni pochi che si condussero con l'armata in Sicilia. Dapoi ancora Carlo imperatore vi mandò un'altra armata, capitano un cavalier di Rhodi dell'ordine di Santo Giovanni di Messina, e costui si governò con tanta prudenza che li Mori si resero a patti, obligandosi di pagar certo tributo; e fu mandato un ambasciatore fino nella Magna a sua maiestà, la qual sottoscrisse alli capitoli e ordinò che ogni anno pagassero cinquemila doble al vice re di Sicilia, e cosí stanno con questa triegua.


Zoara città.

Zoara è una piccola città edificata dagli Africani sul mare Mediterraneo, discosta del Gerbo circa a cinquanta miglia verso levante. È murata di triste e deboli mura, e abitata da un povero popolo, perché d'altro non vive che di far calcina e gesso e portagli a Tripoli, né ha terreno da seminar, e sta in continova paura d'essere assaltata da' corsari cristiani, massimamente da che fu preso Tripoli.


Lepede.

Anche questa città fu edificata da' Romani, con mura alte di pietre grosse, la quale fu due volte rovinata da' macomettani e delle sue pietre e colonne fu edificata Tripoli.


Tripoli vecchia.

Questa è una città antica edificata pur da' Romani, e dapoi fu signoreggiata da' Gotti e finalmente da' maumettani, nel tempo di Homar califa secondo, i quali tennero sei mesi assediato il duca loro e constrinsonlo a fuggire verso Cartagine. Onde la città fu saccheggiata, e degli abitatori altri uccisi e altri menati cattivi in Egitto e in Arabia, sí come racconta Ibnu Rachich, istorico africano.


Tripoli di Barberia.

Tripoli fu edificata dagli Africani doppo la rovina della vecchia Tripoli, e murata di mure alte e belle, ma non molto forti; ed è posta in un piano di arena, dove sono molti piedi di datteri. Le case di questa città sono belle a comparazione di quelle di Tunis, e similmente le piazze ordinate e distinte di diverse arti, massimamente di tessitori di tele. Non vi sono pozzi né fonti, ma solamente cisterne, e sempre v'è carestia di grano, percioché tutte le campagne di Tripoli sono arena, come quelle di Numidia. La cagione è che 'l mare Mediterraneo entra assai verso mezzogiorno, in modo che i luoghi che debbono esser temperati e buoni terreni sono tutti coperti dall'acque. La oppenione degli abitatori di questa riviera è che anticamente vi fusse gran spazio di terreni che s'estendessero verso tramontana, ma che per molte migliaia d'anni il mare con gli gran flussi gli abbi coperti, sí come si vede e conosce nelle spiaggie di Monestier, di el Mahdia, di Asfacos, di Capes e dell'isola del Gerbo e altre città che sono verso levante, le qual da spiaggie hanno poca profondità d'acqua, di maniera che alcuno va dentro il mare un miglio e dui, e l'acqua non gli aggiunge alla cintura. Adunque li luoghi che sono di tal sorte dicono esser terreni coperti modernamente dal mare. Tengono ancora gli abitatori che la loro città fusse piú verso tramontana, ma pel roder dell'acque sempre si sono venuti ritirando verso mezzogiorno; e dicono che fin ora si veggono case ed edifici sotto l'acqua.
Furono nella detta città molti tempii, e qualche collegio vi fu di scolari; medesimamente v'erano spedali, per dare alloggiamento a poveri e forestieri. Il cibo degli abitatori è parco e misero: usano il bezin e 'l besis d'orzo, percioché le vettovaglie che vengono portate in Tripoli non la tengono appena fornita un giorno, ed è ricco quel cittadino il quale può serbare per suo uso uno o due moggia di grano. Nondimeno questo popolo si dà molto al traffico, percioché la città è vicina a Numidia e a Tunis, e fino ad Alessandria non v'è altra città che questa. È ancora vicina a Sicilia e a Malta, e già al suo porto solevano ogni anno venire le galee de' Veneziani, i quali facevano di gran faccende con li mercatanti di Tripoli, e con quelli che vengono a posta ogni anno per dette galee.
Questa città fu sempre sotto il dominio di Tunis, fuor che al tempo che venne Abulhasen re di Fessa a campo a Tunis, e constrinse el re di Tunis a fuggirsene nelli diserti con gli Arabi; ma poi che Abulhasen fu rotto e destruttogli lo esercito, il re di Tunis si tornò in stato. Tripoli rebellò e durò questa sua rebellione anni cinque, fino che venne Abuhenan re di Fessa contro similmente del regno di Tunis, il re del qual, che allora si chiamava Abulhabbes, si fece all'incontro: e tutti dui gli eserciti fecero la giornata, e il re di Tunis fu rotto e se ne fuggí in Constantina, dove vi andò a campo il re di Fessa. E fu la ossidione cosí gagliarda che 'l popolo, non potendo sopportarla, aperse le porte: e fu preso il re di Tunis e menato cattivo a Fessa, e poi posto in pregione nella rocca di Sebta. E in questo tempo che 'l re di Fessa menava cattivo questo re di Tunis, Tripoli fu assaltata da una armata di venti navi di Genovesi, che la combatterono gagliardamente e la presero e saccheggiorono, faccendo pregioni tutti gli abitanti. Immediate il luogotenente che era in la città scrisse al re di Fessa la cosa come era passata, qual si compose con Genovesi di darli ducati cinquantamila: quali pagati, lassorono la città e il popolo che era cattivo, ma, dapoi partiti, trovorono la metà di detti danari esser falsi. Dapoi il re di Tunis fu liberato di prigione da Abuselim re di Fessa, per causa del parentado che 'l fece con lui, e tornossene al stato: e cosí Tripoli tornò similmente sotto il governo del re di Tunis, e durò fino al tempo del principe Abubacr, figliuolo di Hutmen re di Tunis, che fu ucciso con uno suo figliuolo in la rocca di Tripoli per comandamento di Iachia, nepote del detto principe, che si fece re di Tunis; e Tripoli si dette al detto re Iachia. Poi costui fu ucciso in una battaglia da Habdulmumen suo cugino, che li tolse il regno e lo godette fino alla morte; a costui successe Zacharia, figliuolo del sopradetto Iachia, e dopo non molti mesi moritte da peste. Allora il popolo e li principali di Tunis elessero re Mucamen, figliuolo di Hesen, cugino del sopradetto Zacharia, e lo posero nella sedia regale: ma costui, vedendosi alzato tanto in alto, cominciò a superbire e usar la tirannide e aggravar la città di Tripoli, di sorte che 'l popolo scacciò di Tripoli il governatore e' ministri del re, ed elessero un suo cittadino per loro signore, e li posero in le mani tutte l'intrade e tesori publici, qual governava con gran modestia la città.
Ma il re di Tunis, per vendicarsi di questa rebellione, vi mandò un esercito grosso con un suo vicegerente, qual fu attossicato dagli Arabi per opera de' principali di Tripoli, e l'esercito si disfece. Successe che questo signor di Tripoli, che prima pareva modesto, cominciò a far il tiranno e fu morto da un suo cognato: allora il popolo sforzò un cortegiano del principe Abubacr, che s'era fatto romito, ad esser loro signore, qual resse Tripoli molti mesi, fino al tempo che 'l re catolico Ferdinando vi mandò una armata, capitano il conte Pietro Navarro, la qual gionta a l'improviso una sera, il dí dietro la città fu presa e fatto cattivo ognuno. E il signore di Tripoli insieme con un suo genero furono menati a Messina, dove molti anni in prigione stettero; dipoi a Palermo, e d'indi fu lor data licenza da Carlo imperadore, onde essi di propria volontà si ritornarono a Tripoli, la quale fu poscia rovinata da' cristiani. Vero è che 'l castello fortificarono con forti mura e con grosse artiglierie, sí come noi abbiamo veduto negli anni MDXVIII di Cristo. E sí come ho da poco tempo inteso, il signore di Tripoli ha incominciato a far riabitar la città a nome di Cesare.
E questo è quanto si può dire delle città del regno di Tunis.


Monti dello stato di Buggia.

Quasi tutto lo stato di Buggia è di monti asperi e alti, dove sono molti boschi e fonti, i quali monti sogliono abitar ricchi popoli, nobili e liberali. Questi tengono assai numero di capre, di buoi e di cavalli, e quasi sempre sono vissi in libertate, massimamente dopo che Buggia fu presa da' cristiani. E quasi tutti particolarmente portano su la guancia una croce negra per antica usanza, come si disse disopra. Il loro cibo è per lo piú pane d'orzo, e hanno gran copia di noci e fichi: spezialmente se ne truovano in quei monti che sono maritimi, detti Zoaoa. Sono in alcuni di questi monti alquante mine di ferro, del quale ne fanno alcuni pezzi piccoli di mezza libbra, e gli spendono come la moneta. Fanno eziandio batter certe piccole monete d'argento, del peso di quattro grani. Nascevi ancora molto lino e canapo, e di quello fanno gran quantità di tele, ma tutte grosse. Sono questi abitatori persone gelose, ma per altro gagliarde e molto aitanti della persona, e quasi tutti vestono male. Lo detto stato di Buggia verso i monti s'estende sul mare Mediterraneo circa a centocinquanta miglia, e per larghezza è circa a quaranta. E in ciascun di questi monti è una stirpe di popolo separata, ma non ha differenza circa al vivere: perciò pretermetto di ragionarne.


Auraz monte.

Questo monte è molto alto, e abitato da un popolo rozzo d'intelletto, ma ladro e assassino. È discosto da Buggia circa a ottanta miglia, e da Costantina sessanta. È separato da altri monti, e s'estende per lunghezza circa a settanta miglia, e dalla parte di mezzogiorno confina con il diserto di Numidia, e da tramontana con li contadi di Mesila, di Stefe, di Necaus e di Costantina. Nella sua cima nascono molti capi d'acqua, i quali si spargono per lo piano e fanno alcune quasi paludi: ma come il tempo si riscalda tutte diventano saline. Nessuno può aver pratica con gli abitatori, percioché per rispetto degli Arabi loro nimici e dei vicini signori, come è il re di Tunis, non vogliono che siano i lor passi conosciuti.


De' monti dello stato di Costantina.

Tutta la parte di tramontana e di ponente, che è vicina a Costantina, è piena di moltissimi monti, i quali incominciano da' confini dei monti di Buggia e s'estendono sul mare Mediterraneo insino al confino di Bona, che è di spazio circa a centotrenta miglia. E sono tutti abbondanti, percioché i terreni che sono fra loro nel piano sono fertilissimi, e producono molte olive, fichi e altri frutti, di maniera che forniscono tutte le vicine città, come è Costantina, Collo e Gegel, e ancora gli Arabi. Gli abitatori sono piú civili che quelli di Buggia, ed esercitano diverse arti, e sopra tutto fanno gran quantità di tele. Ma spesso insieme combattono, per cagione delle mogli che fuggono da un monte a l'altro a cambiar mariti. Sono molto ricchi, percioché sono liberi dai tributi, ma non possono praticar nel piano per tema degli Arabi, né meno nelle cittadi per tema similmente dei signori. Fassi ogni settimana il mercato in diversi giorni, a' quali vengono molti mercatanti di Costantina e Collo: e bisogna avere da ciascun di questi monti un amico che gli favorisca, altramente, s'egli è tradito, nessuno gli fa ragione. Né v'è né giudice, né sacerdoti, né un solo che sappia lettere, e se alcuno ha bisogno d'uno che gli scriva una lettera, gli convien cercarne dodici o quindici miglia lontano. Questi monti fanno communemente quarantamila combattenti, de' quali ne sono circa a quattromila cavalli: e se fussero i detti abitatori tutti uniti insieme, potrebbono di leggiere dominar tutta l'Africa, percioché sono valentissimi.


Monti di Bona.

Bona ha di verso tramontana il mare, e di verso mezzogiorno e ponente ha pochi monti, i quali sono colligati ai monti di Costantina. Ma verso levante sono alcuni monti a guisa di colline di buoni terreni, dove furono già molte cittade e castella fabbricate da' Romani, che or sono solamente rovine e vestigia, né si sa il nome di alcuno. Questi terreni sono disabitati per causa degli Arabi, eccetto una piccola parte, coltivata da certi popoli che dimorano nella campagna, i quali per forza d'arme se gli tengono a mal grado degli Arabi. Queste colline s'estendono da ponente a levante per lunghezza circa a ottanta miglia, che è da' confini di Bona fino a Bege, e per larghezza circa a trenta. E sono in quelli molti fonti, dai quali parecchi fiumi ne nascono, che passano per lo piano che è fra le colline e il mare Mediterraneo.


Monti vicini a Tunis.

Tunis è posto nel piano e quasi da vicino non ha monte alcuno, eccetto certe braccia sopra il mare verso ponente, come è quello dove è Cartagine. V'è bene un altro monte altissimo e freddo vicino a Tunis circa a trenta miglia verso silocco, il quale è detto Zagoan: ma è disabitato, eccetto che vi sono pure alcune poche capanne di certi villani, che attendono alla cura delle api e vi sogliono seminar qualche poco d'orzo. I Romani anticamente fabbricorono molti castelli su la cima, ne' fianchi e a' piedi del detto monte, di quali ora si veggono le rovine, e leggonsi alcuni epitaffi in marmo scritti nella lingua latina. Dal detto in que' tempi si conduceva l'acqua per insino a Cartagine, e si veggono ancora gli acquedutti.


Monti di Beni Tefren e di Nufusa.

Questi monti sono separati dal diserto, e discosto dal Gerbo e de Sfacos circa a trenta miglia, alti e freddi; né in loro nasce molta quantità di formento, ma appena qualche poco di orzo, il quale non basta per la metà dell'anno. Gli abitatori sono nel vero uomini valenti, ma eretici appresso li macomettani della setta de' pontefici del Cairaoan: e ogni paese in Africa ha lassata questa setta, eccetto questi montanari, e per tal causa vanno intorno a Tunis e altre città, faccendo arte vili per guadagnarsi il vivere, ma non osano appalesar la lor eresia, temendo di essa dagli inquisitori esser puniti.


Monte di Garian.

Garian è un monte alto e freddo, lungo circa a quaranta miglia e largo circa a quindici, separato dagli altri monti per l'arena e discosto da Tripoli circa a cinquanta miglia, nel quale nasce gran quantità d'orzo e di datteri buonissimi, ma vogliono esser mangiati freschi. Vi nascono ancora molte olive, delle quali cavano infinita quantità d'olio, che poi viene portato in Alessandria e alle città vicine. Nascevi eziandio grandissima copia di zafferano, mirabile sí di colore come di bontà, e il piú perfetto che se ne venga d'altra parte del mondo, percioché se nel Cairo, o Tunis, o di Grecia, el zafferan vale dieci sarafi la libbra, questo, come mi fu riferito da uno che fu vicario nel detto monte, ne vale quindici. Costui mi disse ancora che, nel tempo del principe di Tripoli, questo monte fruttava l'anno sessantamila doble, e che nel tempo del suo vicariato si trassero trenta cantari di zafferano, che sono quindici some di muli. Ma sempre gli abitatori furono aggravati dagli Arabi e dal re di Tunis. Vi sono molti casali, e circa a centotrenta casali, ma le case sono vili e triste.


Beni Guarid monte.

Beni Guarid monte è discosto da Tripoli circa a cento miglia, abitato da valente e ricco popolo, il quale si vive in libertà: e sono in liga con certi altri monti, confini con li deserti di Numidia.


Casr Acmed castello.

Casr Acmed è un castello edificato da un capitano degli eserciti venuto in Africa, sul mare Mediterraneo, discosto da Tripoli circa miglia...: e dipoi fu rovinato dagli Arabi.


Subeica castello.

Subeica fu un castello edificato pure nel tempo che i maumettani vennero in Africa, il quale fu molto abitato, ma poi distrutto dagli Arabi, come che oggi sia abitato da certi pochi pescatori e da altra povera gente.


Casr Hessin castello.

Questo fu un altro castello sul mare Mediterraneo, edificato dai sopradetti e medesimamente rovinato dagli Arabi.

SEXTA PARTE

Gar.

Avendo fin qui detto d'alcuni monti, seguiremo di certi villaggi, che non hanno né città né castelli, e di alcune poche provincie, e poscia descriveremo Numidia.
Cominciando adunque da Gar, questa è una villa sul mare Mediterraneo, la quale è abbondante di datteri. Il terreno è asciutto, e nascevi qualche poco d'orzo, di che si nudriscono gli abitatori.


Garel Gare.

Garel Gare è un terreno nel quale sono molte cave grandi e maravigliose, dalle quali si stima che fussero cavate le pietre con che fu edificata Tripoli vecchia, perché questo luogo gli è vicino.


Sarman.

Sarman è una villa assai grande e bene abitata vicina a Tripoli vecchia, e abbonda di datteri, ma quasi non vi nasce grano d'alcuna sorte.


Zauiat Ben Iarbuh.

Zauiat Ben Iarbuh è un altro villaggio discosto poco dal mare, dove nasce pochissimo grano, abitato da certi religiosi, con molti arbori di datteri.

Zanzor.

Zanzor è un villaggio vicino al mare Mediterraneo e discosto da Tripoli circa a dodici miglia, il quale è ripieno di artigiani, fertilissimo di datteri, di granate e di cotogne. Gli abitatori sono poveri, massimamente dapoi che Tripoli fu presa da' cristiani, co' quali nondimeno sogliono aver pratica, e vendono a quelli i frutti loro.


Hamrozo.

Hamrozo è un casale sei miglia vicino a Tripoli fra terra, ripieno di datteri e di giardini di diversi frutti.


Taiora.

Taiora è una campagna vicina a Tripoli circa a tre miglia verso levante, dove sono molti casali e giardini di datteri e d'altri frutti. Doppo la presa di Tripoli questa campagna divenne assai nobile e civile, percioché molti de' cittadini fuggirono in lei; ma in tutti i sopradetti villaggi o casali sono uomini vili, ignoranti e ladri, e le case loro sono di frasche di palme. Il cibo è pan d'orzo e di besin. E tutti sono soggetti al re di Tunis e agli Arabi, eccetto questa campagna.


Mesellata provincia.

Mesellata è una provincia sul mare Mediterraneo, discosta da Tripoli circa a trentacinque miglia, nella quale sono molti casali e castelli bene abitati e da gente ricca, percioché vi sono molti terreni di datteri e d'olive. E questo popolo è in libertà e crea un suo capo a guisa di signore, il quale amministra le paci e le guerre con gli Arabi. Fa circa a cinquemila combattenti.


Mesrata provincia.

Mesrata è ancor ella una provincia sul mare Mediterraneo, lontana da Tripoli circa a cento miglia, dove sono parecchi castelli e villaggi, quale in piano e quale in monte. E gli abitatori sono ricchissimi, perché non pagano alcun tributo, e attendono alla mercatanzia, pigliando le robbe che vengono a quei paesi con le galee de' Veneziani, le quali portano a Numidia dandole per contracambio di schiavi, zibetto e muschio che vien della Etiopia, e portandogli in Turchia: onde fanno guadagno e nello andare e nel tornare.


Diserto di Barca.

Questo diserto incomincia da' confini del contado di Mesrata e s'estende verso levante insino a' confini d'Alessandria, il che è di spazio circa a milletrecento miglia; e per larghezza s'estende circa a dugento. Barca è una campagna diserta e aspera, dove non si truova né acqua né terreno da coltivare. Prima che gli Arabi venissero in Africa, fu il detto diserto disabitato; ma poi che essi vi vennero, i piú possenti abitarono nei paesi abbondanti, e quelli che men poterono rimasero nel detto diserto scalzi e nudi, e con grandissimo assalto di fame. Percioché il diserto è lontano da ogni abitazione e non vi nasce cosa alcuna, onde, se vogliono aver grano o altre cose necessarie alla lor vita, convien che i miseri impegnino i loro figliuoli: il qual grano e le quali cose sono loro portate per mare da' Siciliani, i quali se ne tornano con questi ostaggi. In questo mezzo eglino vanno a rubbare discorrendo sino a Numidia, e sono i maggior ladri e traditori che siano in tutto il mondo. E spogliando i poveri pellegrini, danno loro a bere latte caldo, dapoi gli crollano e levano in alto, per sí fatto modo che i poveri uomini sono costretti a vomitar per insino alle interiora; ed essi cercano in quella bruttura se vi è qualche ducato, percioché dubitano queste bestie che i viandanti, come s'appressano a quel diserto, inghiottino i danari perché non gli siano trovati adosso.


Tesset, città di Numidia.

Parmi aver detto, nella prima parte dell'opera, che Numidia era meno istimata dai cosmografi e istorici africani; e penso di avervi dette le cagioni. Alcune delle sue città sono vicine al monte Atlante, come nella seconda parte si disse, quando trattai di Heha; cosí parimente Sus, Guzula, Helchemma e Capes sono nel regno di Tunis. Vogliono ancora i detti che queste città siano di Numidia: ma io, accostandomi alla opinion di Tolomeo, metto tutta la riviera del regno di Tunis per Barberia. Ora, volendo io darvi particolare informazione di questa parte di Numidia, incominciarò da Tesset, la quale è una piccola città anticamente edificata dai Numidi ne' confini dei diserti di Libia, murata di mura di pietre crude. In lei c'è poco o nulla di civiltà, e fa circa a quattrocento fuochi. D'intorno altro non v'è che campagna di arena; gli è vero che vicino alla città è qualche piccolo terreno di datteri e alcun altro dove si semina orzo e miglio, col quale gli abitatori sostengano la loro povera e misera vita, e pagano grandissimo tributo agli Arabi, lor vicini del diserto. Sogliono andar d'intorno con le loro mercatanzie ai paesi dei negri e a Guzula, di maniera che non si truova mai quasi la metà nelle lor case. Sono molto brutti e quasi negri, e senza niuna cognizion di lettere, percioché in loro vece le donne usano gli studi, e insegnano a fanciulle e fanciulli, i quali, pervenuti a certa età, si danno alla zappa e al lavoro dei terreni. E queste donne sono piú degli uomini bianche e grasse e, trattone fuori quelle che studiano o filano lana, tutte l'altre si stanno oziose e con le mani a cintola. Quivi la povertà è comune, e pochi sono quegli uomini ch'abbiano quantità di bestiami, e queste sono pecore. L'arar de' loro terreni si è con un cavallo e con un camello: e cosí si suol fare per tutta Numidia.


Guaden.

Guaden è certo casale nel diserto di Numidia, che confina con Libia, il quale è abitato da un popolo bestiale e povero: e in questo altro non nasce che qualche poca quantità di datteri. Sono gli abitatori poveri e vanno quasi ignudi, né possono andar fuori delli loro casali, per le nimicizie che tengono co' vicini. Si danno alla caccia con trappole e pigliano qualche animal salvatico di quei paesi, come elamth e struzzi, e non si truova altra carne eccetto di questi animali; è ben vero che hanno qualche capra, ma la tengono pel latte. Sono piú tosto neri che bianchi.


Ifran.

Ifran sono circa a quattro castelli edificati dai Numidi, l'uno discosto dall'altro quasi tre miglia, sopra un fiumicello vivo il verno e secco la state. Sono fra questi castelli molti terreni di datteri, e gli abitatori posseggono qualche ricchezza, percioché contrattano le loro mercatanzie con Portogallesi nel porto di Gart Guessem, pigliando da loro panni grossi, tele e tai cose, i quali portano ai paesi dei negri, come Gualata e Tambutu. Nei castelli sono molti artigiani, massimamente d'alcuni che fanno vasi di rame, de' quali ne fanno buona vendita nei paesi dei detti negri, percioché vicino ai loro paesi, ne' piedi d'Atlante, sono molte vene di rame. Una volta la settimana sogliono fare il mercato per ciascun castello, ma v'è sempre carestia di grano. E vanno costoro vestiti di bello abito. Hanno un bellissimo tempio, e tengono sacerdoti e un giudice nelle cose civili; nelle capitali altra giustizia non si fan che bandire quelli che alcun male commettono.


Accha.

Accha sono tre piccoli castelli l'uno vicino all'altro nel diserto di Numidia, e ne' confini di Libia. Furono molto abitati, e per discordie civili mancarono gli abitatori; dipoi per opera d'un religioso furono sedate le discordie e, fatto tra loro parentado, di nuovo furono riabitati: e questo uomo fu lor signore. Questa è invero la piú povera gente che sia, né alcuno ha altro esercizio che raccogliere i datteri.


Dara.

Dara è una provincia la quale incomincia dal monte Atlante e s'estende verso mezzogiorno circa a dugentocinquanta miglia per lo diserto di Libia. Questa provincia è assai stretta, percioché gli abitatori sono sopra un fiume del medesimo nome, il quale tanto cresce il verno che assembra un mare, e la state scema in modo che l'uomo lo passa a piedi. Ma crescendo adacqua tutti quei paesi: e se egli non cresce al principio di aprile, tutto il seminato è perduto; e se cresce nel detto mese, fanno assai buone ricolte. Sopra la riva di questo fiume sono infiniti casali e castelli murati di pietre crude e di creta, e tutti i tetti sono coperti con travi di datteri, de' quali eziandio ne fanno le tavole, benché di loro poco si ponno valere, percioché questo legno è tutto filoso e non sodo come gli altri. E d'intorno al fiume e discosto ancora cinque e sei miglia sono infinite possessioni di datteri perfettissimi e grossi, i quali potrebbono starsi sette anni in un magazino che non si guastarebbono: ma li magazeni vogliono esser nel secondo solaio. E sí come sono di diverse sorti e colori, cosí sono eziandio di diversi prezzi: alcuni vagliano un ducato il moggio e alcuni altri un quarto, e tali solamente si danno mangiare ai camelli o ai cavalli. E sono questi piedi di datteri maschi e femine: le femine fanno i frutti, e i maschi non producono altro che graspi de fiori. Ma è bisogno, prima che s'aprino i fiori della femina, torre un ramoscello coi fiori del maschio e innestarlo nel fior della femina, altrimenti i datteri nascono tristi, magri, e fanno l'osso molto grosso. Gli abitatori si nudriscono di sí fatti datteri, spezialmente ne' giorni che altro cibo non pigliano: il quale cibo è orzo in minestra e certi altri cibacci miseri, né usano mangiar pane se non nei dí solenni e nelle nozze.
Nei castelli di questa provincia c'è poca civilità; pur vi sono degli artigiani e orefici giudei, come ne' suoi confini che rispondono verso Mauritania, sopra la strada che è fra Fez e Tombutto. Nondimeno in questi luoghi sono circa a tre o quattro città grosse, dove ci sono e mercatanti forestieri e del paese, e botteghe, e tempii molto ben forniti. La piú eccellente è appellata Beni Sabih, la quale ha un solo muro ed è divisa in due parti, ma governata da diversi capi, i quali le piú volte discordando combattono tra loro, massimamente nel tempo che si adacquano i terreni per la penuria dell'acqua. Gli abitatori di questa città sono uomini valenti e liberali, e usano di tenere in casa a loro spese un mercatante un anno e piú, né altro pigliano da lui che quello che egli secondo la sua discrezione gli lascia. Fra questi sono molti capi di parte, e di continovo vengono alle armi; e ogni parte si fa aiutare dagli Arabi loro vicini, ai quali danno molto buon salario, che è mezzo ducato per giorno, e di piú ancora a ciascun cavallo che combatte per loro: ma gli pagano giorno per giorno per quei pochi dí quando fanno i fatti d'arme. E da certo tempo in qua sogliono adoperare archibusieri e schioppi, e sanno meglio tirar che uomini ch'io abbi mai veduto, perché darebbono nella punta d'un ago, e con i detti archibusi n'amazzano assai fra loro.
Nasce nel detto paese gran copia d'endico, che è certo colore che somiglia al guasto, del quale ne fanno baratti con i mercatanti di Fez e di Telensin. I grani vi sono assai cari, ma ve n'hanno per datteri, e sono loro recati da Fez e d'altre vicine cittade. Hanno poco numero di cavalli e similmente di capre, e a' cavalli, in luogo di biada, danno datteri e di quel fieno che si truova nel regno di Napoli, detta farfa; e alle capre danno gli ossi dei datteri da loro primieramente rotti, e per questo cibo le capre ingrassano e abbondano di latte. Sogliono mangiar molta carne di becchi vecchi, e cosí di camelli vecchi, che è cosa tristissima. Somigliantemente allevano dei struzzi e gli mangiano: la lor carne ha del sapore del gallo, ma è dura e puzza oltre modo, e massimamente quella delle coscie, che è viscosa. Le donne sono belle, grasse e piacevoli, e molte ve ne sono da partito. Tengono schiave e schiavi negri, i quali figliano, e poscia adoperano i figliuoli e i padri nei loro servigi: per questa cagione molti di costoro son bruni e pochissimi sono bianchi.


Segelmesse.

Segelmesse è una provincia detta dal nome della città principale, la quale s'estende sul fiume Ziz, incominciando dallo stretto che è vicino alla città di Gherseluin, e va verso mezzogiorno centoventi miglia, insino a' confini del diserto di Libia. È abitata da diversi popoli barbari, i quali sono Zeneta, Zanhagi e Haoara. E anticamente era sottoposta a un signor che da per sé la reggeva, ma dipoi fu dominata da Giuseppe re de Luntuna, poi da Muahidin, poi dai figliuoli dei re della casa di Marin. Finalmente il popolo si ribellò e, uccisone il signore, distrusse la città, la quale è rimasa abbandonata fino al dí d'oggi. Gli abitatori si ridussero insieme, e fra le possessioni e i contadi della detta provincia edificarono alcuni grossi castelli, de' quali parte sono liberi e parte soggetti agli Arabi.


Cheneg.

Cheneg è una provincia, o contado che dire lo vogliamo, sul fiume di Ziz, e confina con i monti d'Atlante, nella quale sono molte castella e casali, e possessioni di datteri non molto buoni. I terreni sono magri e angusti, eccetto certe poche liste che s'estendono dalle rive del fiume fino a' piedi del monte (che alle volte non c'è di larghezza un tratto di mano), dove si semina qualche poco d'orzo. Degli abitatori alcuni sono vassalli degli Arabi e anco della città di Gherseluin, e alcuni liberi. Quei sono poveri e quasi mendichi, e questi molto ricchi, percioché hanno dominio del passo che è fra Fez e Segelmesse, e fanno pagar buona gabella alli mercatanti. In questa strettezza sono tre principali castelli: uno detto Zehbel, il quale è sopra una rupe altissima propio nel principio del passo, e pare che egli tocchi il cielo con la sua altezza; a' piedi del castello vi sta la guardia, la quale piglia un quarto di ducato per camello. L'altro castello è detto Gastrir, discosto dal sopradetto circa a quindici miglia, ma è nella costa del monte quasi nel piano, ed è piú ricco e piú nobile del primo. Il terzo è chiamato Tammaracrost, il quale è lontano dal secondo circa a venti miglia verso mezzogiorno e sopra la via maestra. Ciò che resta sono casali e alcuni piccoli castelli. E hanno gli abitatori di questa strettura molto carestia di grano, ma gran numero di capre, le quali tengono il verno in certe grotte grandi e larghe, che sono le lor fortezze, percioché sono molto alte da terra e hanno l'entrata molto stretta e le vie piccole fatte a mano, di maniera che due uomini potrebbono sostener l'empito di tutta la provincia. Questo cotale stretto della detta provincia s'estende per lunghezza circa a quaranta miglia.


Matgara.

Matgara è un altro contado, il quale confina col sopradetto di verso mezzogiorno fuori del detto stretto, dove sono molti castelli pure sul fiume di Ziz. E il piú nobile è chiamato Helel, nel quale è la stanza del signore del contado, che è arabo e tiene una famiglia del suo popolo coi padiglioni nella campagna; ve ne tiene eziandio un'altra con parecchi soldati nel suo castello. Né può alcuno passar per lo suo stato senza espressa licenza del detto, e se i suoi soldati incontrano nel suo stato una carovana senza salvocondotto, subito la rubano e spogliano tutti i mercatanti e vetturali. Vi sono ancora degli altri castelli e casali, ma tutti vili e di niun prezzo, come io medesimo ho veduto.


Retel.

E questo è similmente un altro contado, il quale confina con Matgara e s'estende sul fiume di Ziz verso mezzogiorno circa a cinquanta miglia, insino al territorio di Segelmesse, dove sono infiniti castelli e possessioni di datteri. E sono gli abitatori sottoposti agli Arabi, avarissimi e di poco animo, di maniera che cento di lor cavalli non ardirebbono di affrontar dieci cavalli arabi. E i loro terreni coltivano per li detti Arabi come se li fussero schiavi. Dalla parte di levante confina questo contado con un certo monte disabitato, e da quella di ponente con una pianura diserta e arenosa, dove sogliono alloggiare gli Arabi quando tornano dal diserto.


Territoro di Segelmesse.

Come che io abbia detto di sopra della provincia di Segelmesse con brievi parole quello che mi parve degno di notizia, nondimeno non resterò ora di dire che nel suo territoro, che s'estende da tramontana a mezzogiorno 20 miglia sopra il fiume Ziz, sono circa a trecentocinquanta castelli, qual grande qual piccolo, fuori dei casali, dei quali i principali sono tre. Uno è detto Tenegent, che fa circa a mille fuochi, e piú vicino alla città, dove è qualche artigiano. Il secondo è chiamato Tebuhasant, discosto dal primo circa a otto miglia verso mezzogiorno, il quale è maggior e piú civile, e sono in lui molti mercatanti forestieri e molti giudei artigiani e mercatanti: e nel vero è piú popolo in questo castello che in tutto il resto della provincia. Il terzo è appellato Mamun, che è ancora esso grande e forte e ripieno di molto popolo, come di mercatanti giudei e mori. E ciascuno di questi castelli si governa per un particolar signore, cioè capo di parte, perciocché sono fra queste genti molte discordie e sempre combattono insieme faccendo il peggio che ponno, cioè di guastarsi li condotti che vengono dal fiume per adacquare i loro terreni, dove vi va gran fatica e spesa a rifarli; tagliano anco li datteri da' piedi e si saccheggiano l'un l'altro, il che gli Arabi l'aiutano. Fanno costoro ne' lor castelli batter moneta d'argento e d'oro, e i lor ducati sono come quelli dei bislacchi d'oro basso. Le monete sono d'argento fino, di peso di quattro grani l'una, e ottanta di loro fa un ducato. Parte delle loro rendite sono tirate da quei capi di parte, cioè il tributo delli giudei e l'utile della zecca, e parte degli Arabi, come è l'utile della dogana.
È vil popolo, e quando vanno fuori fanno tutti li vili mestieri; e vi sono alcuni gentiluomini ricchi, e molti vanno nella terra negra e vi portano robbe di Barbaria, dandole per oro e per ischiavi. Il cibo è di datteri e di qualche poco di grano, e per tutti i lor castelli vi sono infiniti scorpioni, ma non hanno pulici. E nella state il caldo è tanto eccessivo e levasi tanta polvere, che io penso che da questo proceda che ciascun di loro ha enfiati gli occhi. V'è eziandio in tale stagione le piú volte, sciemando il fiume, gran penuria d'acqua, la qual è salata, de' pozzi fatti a mano. Intorno a detto territorio vi sono circa ottanta miglia di circuito, quale, dapoi la rovina della città, essendo questo popolo in unione, fecero murare con mura di poca spesa accioché li cavalli non vi potessero correre; e fino che stettero uniti e d'un volere furono liberi, ma venuti in parte le mura furono rotte, e cadauno chiamò gli Arabi in loro difesa, alli quali a poco a poco divennero soggetti e quasi schiavi.


Segelmesse città.

Questa città, secondo alcuni nostri scrittori, fu edificata da un capitano de' Romani, il quale, partito di Mauritania, acquistò tutta la Numidia e andò verso ponente fino a Messe, dove edificò questa città, e le pose nome Sigillummesse per esser ultima nello stato di Messe, quasi sigillo doppo il fine della sua vettoria. Dipoi fu corrotto il nome e cangiossi in Segelmesse. Un'altra oppenione è quasi del vulgo e del Bicri nostro cosmografo, che la detta città fosse edificata da Alessandro Magno per gli amalati e storpiati del suo campo, la quale al mio giudicio è falsa, percioché non si truova fra gli istorici che Alessandro arrivasse mai a tali paesi. Questa città è edificata in una pianura sopra il fiume Ziz, d'intorno murata di belle e alte mura, come ancor se ne vede qualche parte; e quando li macomettani introrono nell'Africa, fu soggetta a certi signori del popolo di Zeneta, quali durorono fin che Iosef re, figliuol de Tesfin de Luntuna, gli discacciò. Era civile, fatta con buone case, e gli abitatori ricchi per il traffico che aveano in terra di negri, e ornata di belli tempii e collegii, con assai fontane, l'acqua delle quali era cavata con certe ruote grandi del fiume, che la facevan sbalzare sopra il condotto che andava per la città. Vi era buon aere, eccetto che 'l verno è molto umido, e però vi regnavano assai catarri negli abitatori, e nella state mal d'occhi: ma presto guarivano. Al presente è tutta rovinata e, come abbiamo detto, il popolo si ridusse ad abitare per li castelli e territorio. Io vi son stato sette mesi di continuo, nel castello detto Mamun.


Essuoaihila castello.

Essuoaihila è un castello piccolo, discosto dal territorio della detta città circa a dodici miglia verso mezzogiorno, edificato dagli Arabi in un diserto, nel quale tengono le robbe loro e le vettovaglie per assicurarle dai nimici loro. D'intorno altro non è che la maledizione di Dio, perché non c'è né giardino né orto né terreno né bene alcuno, se non pietre negre e arena.


Humeledegi.

Humeledegi è un altro castello, lontano da Segelmesse circa a diciotto miglia, edificato pur dagli Arabi nel diserto per la cagione sopra detta; né altro c'è intorno di buono che una campagna aspra, dove nasce gran copia di certi frutti, li quali da lontano paiono alla vista melaranci gettati e sparsi per la detta campagna.


Ummelhefen.

Ummelhefen è un malvagio castello, discosto da Segelmesse circa a venticinque miglia, edificato dagli Arabi in un aspro diserto sopra la strada che è fra Segelmesse e Dara, il quale è murato di pietre cosí negre che paion carboni. In lui sta di continuo la guardia di certi signori arabi, né vi può passare alcuno che non paghi un quarto di ducato per camello; e cosí riscuotono da cadaun giudeo. Io vi passai una fiata con la compagnia di quattordici giudei, ed essendo noi dimandati dalla guardia quanti eravamo, e noi dettole due di meno, quella ricercando il numero volevano ritener due. E inteso che erano due maumetani e il resto giudei, volle certificarsi minutamente, di modo che fece ai detti due legger l'uficio di Maumetto; poi, chiesto loro perdono, ci lasciò andare.


Tebelbelt.

Tebelbelt è un'abitazione in mezzo del diserto di Numidia, discosta da Atlante circa a dugento miglia e da Segelmesse circa a cento verso mezzogiorno. E sono appunto tre molto bene abitati castelli, i cui terreni sono possessioni di datteri. V'è penuria d'acqua e carne, ma vi si mangia dei struzzi e cervi che vanno cacciando; e ancor che faccino mercanzia in terra di negri, nondimeno sono poveri per esser vassalli d'Arabi.


Todga.

Todga è una piccola provincia sopra un fiumicello del medesimo nome. È abbondante di datteri, di persiche, d'uva e di fichi, e sonovi circa a quattro castelli e dieci casali abitati da povera gente, che è per la piú parte de lavoratori de terreni e conciatori di cuoi. È discosta da Segelmesse circa a quaranta miglia verso ponente.


Farcala.

Farcala è un'altra abitazione sopra un fiumicello, la quale è copiosa similmente di datteri e d'altri frutti, ma non vi nasce grano eccetto qualche piccola e misera quantità. Sonovi tre castelli e cinque casali. È discosta da Atlante verso mezzogiorno circa a cento miglia, e da Segelmesse sessanta. Gli abitatori sono vassalli degli Arabi e poverissimi.


Tezerin.

Tezerin è una bella abitazione pur sopra un fiumicello, discosta da Farcala circa a trenta miglia e da Atlante circa 60 miglia, molto fertile di datteri. Sono in lei quindici casali e sei castelli, e le vestigia di due città di cui non si sa il nome, dal che è derivato il nome della città, percioché Tezerin, nella lingua africana, tanto suona quanto nella italiana "cittadi".


Beni Gumi.

Beni Gumi è una abitazione sopra il fiume Ghir, copiosa pur di datteri. Gli abitatori sono poveri e fanno ogni vil mestiero in Fez, e del danaro del guadagno comprano qualche cavallo, e rivendono poi a' mercatanti che vanno nelle terre de' negri. In questa sono a otto piccoli castelli e quasi piú di quindici casali, discosti da Segelmesse circa a centocinquanta miglia verso silocco.


Mazalig e Abuhinan castelli.

Questi sono due castelli nel diserto di Numidia, discosti da Segelmesse circa a cinquanta miglia, gli abitatori de' quali, perché sono arabi, hanno con esso loro di continovo la miseria e la calamità, percioché non nasce nel lor terreno grano d'alcuna sorte, e sonovi pochi piedi di datteri. Sono questi due castelli su la riva del fiume Ghir.


Chasair.

Chasair è una piccola città nel diserto di Numidia, vicina ad Atlante circa a venti miglia. È in lei una vena di piombo e un'altra d'antimonio, i quali due metalli sono l'esercizio degli abitatori, e ne gli portano a Fez. Né altro vi nasce appresso di loro.


Beni Besseri.

Beni Besseri è un'altra abitazione, nella quale sono circa a tre castelli ne' piedi di Atlante. È abbondevole di molti frutti, ma non vi nascono né datteri né grani. V'è una vena di ferro, la quale fornisce tutta la provincia di Segelmesse. Vi sono pochi casali, e tutti sottoposti al signore di Dubdu e agli Arabi. Gli abitatori sono tutti egualmente lavoratori della detta vena.


Guachde.

Guachde è una abitazione discosta da Segelmesse circa a 70 miglia verso mezzogiorno, e sono tre grossi castelli e molti casali, tutti sopra il fiume Ghir. Vi nasce qualche poco di grano, ma gran copia di datteri. Gli abitatori fanno portare le loro mercatanzie alla terra de' negri, e sono tutti tributari agli Arabi.


Fighig.

Questi sono tre altri castelli in mezzo del diserto, dove è grandissima abbondanza di datteri. Le donne intessono certi panni di lana a modo di coltre, ma tanto sottili e delicati che paion di seta, i quali si vendono molto cari per le città di Barberia, come in Fez e in Telensin. Gli uomini sono di grande ingegno, percioché altri si danno alla mercatanzia in terra di negri e altri in Fez agli studii di lettere. E come uno ha ricevuto le insegne del dottorato, ritorna in Numidia e fassi sacerdote e predicatore, di modo che tutti sono ricchi. Questi castelli sono lontani da Segelmesse circa a centocinquanta miglia verso levante.


Tesebit.

Tesebit è una abitazione nel diserto di Numidia, discosta da Segelmesse circa a dugentocinquanta miglia verso levante, e da Atlante circa a cento. E sono circa a quattro castelli e molti casali ne' confini di Libia, su la strada per cui si va da Fez o da Telensin al regno di Agadez, nella terra de' negri. Gli abitatori sono molto poveri: non nasce in lor paese bene alcuno eccetto datteri e un poco d'orzo. Gli abitatori sono quasi tutti neri, ma le donne sono belle, ma brune.


Tegorarin.

Tegorarin è una grande abitazione nel diserto di Numidia, discosta da Tesebit circa a centoventi miglia verso levante, dove sono circa a cinquanta castelli e piú di cento altri casali, tutti fra possessioni di datteri. È il popolo di questa abitazione ricco, percioché usa spesso andare con mercanzie alla terra dei negri; e nella detta abitazione si fa il capo, percioché li mercatanti di Barberia aspettano quelli della terra de' negri, e ne vanno poi tutti insieme. Nel paese è molto terreno da seminare, ma bisogna adacquarlo con acqua de pozzi, per esser molto secco e magro: onde ancora l'ingrassano col letame. E per questa cagione sogliono prestar le lor case a' forestieri senza pigione, solamente per avere i letami dei cavalli e lo sterco: e lo serbano con gran diligenza, e il maggior dispiacer che possi ricever un dal suo ospite, è quando lo vede votar il peso del corpo fuori di casa, e si corroccia dicendogli: "Forse tu non hai veduto il luogo deputato a questo". Quivi la carne è molto cara, percioché non si può tener bestie per la seccaggine del paese. V'è qualche capra, la quale si tiene per cagione del latte. Sogliono mangiar carne di camello, che gli abitatori comperano dagli Arabi che vengono nel detto paese alli mercati che vi si fanno: e sono cotai camelli rifiutati, né piú buoni da soma. Adoperano ancora sevo salato ne' loro miseri cibi, portato da' mercatanti di Fez e di Telensin, del quale molto buon profitto ne fanno. V'erano già certi giudei ricchissimi, i quali per cagione d'un predicatore di Telensin furono saccheggiati, e la piú parte uccisi dal popolo: e questa istoria fu l'anno proprio che li giudei furono cacciati di Spagna dal re catolico, e di Sicilia. Il governo di questi tali è nelle mani d'alcuni capi di parte, e molto spesso si uccidono tra loro, ma non fanno dispiacer a' forestieri; usano di dare qualche poco di tributo ai lor vicini Arabi.


Meszab.

Meszab è una abitazione nei diserti di Numidia, discosta da Tegorarin circa a 300 miglia verso levante, e dal mare Mediterraneo altretante, nella quale sono sei castelli e molti casali. Sono gli abitatori ricchi, e molto solleciti alle mercanzie nelle terre de' negri; e ancora i mercatanti dal Gier e di Buggia fanno capo in questo luogo con li mercatanti de' negri. Danno nondimeno tributo agli Arabi, dei quali sono vassalli.


Techort.

Techort è una città antica, edificata dai Numidi sopra una montagna come un toffo, e di sotto passa un fiumicello, sopra il quale è un ponte che si sbassa e lieva, come hanno alle porte della città. È murata con mura di pietra viva e di creta, non dalla parte del monte, percioché ivi è difesa dalle rupi. Questa città è discosta dal mare Mediterraneo circa a 500 miglia verso mezzogiorno, e lontana da Tegorarin circa a trecento; e fa duemilacinquecento fuochi. Tutte le sue case sono fatte di mattoni e di pietre crude, eccetto il suo tempio, che è fatto di pietre belle e lavorate. È bene abitata sí di artigiani come di gentiluomini, i quali sono ricchi di possessioni di datteri, ma hanno carestia di grani, benché siano lor portati di Costantina dagli Arabi, a baratto di datteri. Amano molto i forestieri e gli alloggiano nelle lor case senza pagamento niuno, e piú volentieri maritano le lor figliuole a forestieri che a quei del paese; usano di dar dote di possessioni alle lor figliuole come si fa in Europa. Fanno ancora molti presenti d'importanzia alli forestieri, ancor che pensino che mai debbino tornare, e questo per esser molto liberali. Fu prima sotto il dominio dei re di Marocco; dipoi fu tributaria ai re di Telensin; finalmente è venuta tributaria al re di Tunis, al quale dà cinquantamila ducati l'anno, ma con patto che vi vadi lui in persona a torre il tributo: e il re presente di Tunis v'è stato due volte.
D'intorno di lei sono molto castelli e villaggi, e ancora abitazioni discoste dalla medesima tre o quattro giornate, ogniun dei quai è tributario al signor della città, il quale ha di rendita centotrentamila ducati. E tiene buona guardia di cavalli, di balestrieri e di schioppettieri turchi, e dà loro buono salario, di maniera che ciascuno si sta volentieri nella sua corte. Ed è invero giovane magnanimo e liberale, nominato Habdulla. Io ebbi pratica con esso lui, e lo trovai tutto amorevole, suave e molto allegro, e vede volentieri forestieri.


Guargala.

Guargala è una città antichissima, edificata dai Numidi nel diserto di Numidia, murata intorno di crudi mattoni. Vi sono di belle case, e d'intorno infinite possessioni di datteri, molti castelli e infiniti casali. È fornita d'artigiani, e sono gli abitatori molto ricchi, percioché confinano con il regno di Agadez, fra' quali si truovano assai mercanti forestieri, massimamente di Costantina e di Tunis. Questi portano alla città robbe che traeno di Barberia, e ne fanno baratto co' mercatanti della terra de' negri; v'è tuttavia gran carestia di grano e di carne, la quale essi mangiano di camelli e di struzzi. Sono uomini la piú parte negri, non per cagione dell'aere del clima, ma percioché essi tengono molte schiave negre, con le quali dormeno, onde tali figliuoli ne nascono. Costoro sono liberali e piacevoli e accarezzano i forestieri, perché non hanno bene alcuno se non da loro, cioè grano, carne salata, sevo, panni, tele, arme, coltelli e tutto quello che fa di bisogno. Hanno un signore il quale onorano come re, ed egli tiene fra la sua guardia circa a mille cavalli. Ha di rendita dal suo stato centocinquantamila ducati, e risponde agli Arabi suoi vicini gran tributo.


Zeb provincia.

Questa provincia è nel mezzo dei deserti di Numidia, la quale incomincia dalla parte di ponente del confino di Mesila, e confina da tramontana co' piedi del monte del regno di Buggia, in levante nel paese dei datteri che risponde al regno di Tunis, e da mezzogiorno in certi diserti, dove è la strada di Techort e di Guargala. Questa città è molto calda e arenosa, ed è in lei poca acqua, e ha pochi terreni per seminar grano, ma infiniti ve ne sono di datteri.
Sono ancora in questa provincia cinque città e infiniti casali, le quali città ordinatamente vi si descriveranno.


Pescara.

Pescara è una città antica, edificata nel tempo che i Romani signoreggiarono la Barberia; dipoi fu rovinata, e rinovata allora che gli eserciti de' maumettani entrarono in Africa. E oggidí è onestamente abitata, e le mura sono di mattoni crudi, e gli abitatori sono civili ma poveri, percioché ne' loro terreni altro non nasce che datteri. Questa città ha mutato molti signori; è stata per un tempo sotto il re di Tunis, fino alla morte del re Hutmen; allora il sacerdote della città la fece ribellare e se ne fece signor, né piú il re di Tunis l'ha potuta riavere. È in lei gran moltitudine di scorpioni, de' quali come uno è punto, di subito si muore: e per questa cagione gli abitatori la state abbandonano la città, e dimorano nelle loro possessioni fino al mese di novembre.


Borgi.

Borgi è un'altra città, discosta da Pescara circa a quattordici miglia verso ponente, civile e bene abitata, nella quale sono molti artigiani, ma in maggior copia sono i lavoratori delle possessioni. Hanno tanta penuria d'acqua che, volendo adacquarne il terreno d'un canale di cui si servono, ciascuno separatamente fa correr l'acqua ai suoi campi per lo spazio d'una o due ore, secondo la quantità del terreno; dipoi se ne vale un altro, tenendovi l'orologio, in modo che spesso tra loro ne nascono molte quistioni e morti.


Nefta.

Nefta è una città, o piú tosto abitazione, divisa in tre castelli molto grandi, e massimamente uno dove è la rocca. Penso che fusse edificata da' Romani per gli edificii che si veggono; ma, come che ella sia bene abitata, non è perciò in lei civilità alcuna. Ben solevano esser gli abitatori ricchi, percioché essi sono ne' confini di Libia e su la strada per cui si va al paese dei negri; ma essendo da cento anni in qua stata sempre ribella al regno di Tunis, il presente re v'andò a campo e la prese e la saccheggiò, molti di loro uccidendo e le mura rovinando, in modo che tutti tre i castelli oggi sono divenuti un solo casale. Le passa da vicino una certa acqua viva, piú tosto calda che fredda, della qual beono e n'adacquano i terreni.


Teolacha.

Teolacha è una città edificata dai Numidi e murata di triste mura, appresso la quale passa un fiumicello d'acqua calda. Il suo terreno è abbondante di datteri, ma povero di formento. Poveri sono similmente gli abitatori, e molto gravati dagli Arabi e dal re di Tunis, ma avari e superbi oltre modo, e vedono mal volentieri forestieri.


Deusen.

Deusen è una città antichissima, edificata da' Romani dove confina il regno di Buggia col diserto di Numidia. Fu rovinata nell'intrar degli eserciti de' macomettani nell'Africa, percioché in ditta città v'era un conte romano con gran numero di valentissimi uomini, né mai volse render la città alli capitani saraceni, di maniera che durò l'assedio un anno e poi fu pigliata per forza, e uccisone dentro tutti gli uomini, e le donne e fanciulli fatti prigioni. E la terra fu rovinata, cioè le case, perché le mura, essendo fatte di pietre grossissime, non poteron andar a terra: pur due facciate si vedono rovinate, non so se per artificio over per qualche terremoto. Sono vicine alla terra alcune vestigia che pareno sepolture, e i cacciatori nel tempo delle pioggie vi truovano certe grosse medaglie d'oro e d'argento con teste e lettere, delle qual mai non fu uno che mi sapesse esporre il significato.


Biledulgerid provincia.

Biledulgerid provincia s'estende dal confino di Pescara insino a' confini dell'isola del Gerbo. E una parte che è molto discosta dal mare Mediterraneo, come è Caphsa e Teusar, le quali sono lontane trecento miglia fra terra. Questo paese è molto caldo e secco, né in lui nasce grano, ma gran copia di datteri molto buoni e perfetti, che vanno per tutta la riviera di Tunis. E ha molte cittadi, come vi si diranno.


Teusar.

Teusar è una città antica, edificata da' Romani nel diserto di Numidia, sopra un piccol fiume, il quale viene da certi monti nella parte di mezzogiorno. Le mura sue solevano esser bellissime e forti, e molto terreno circondavano, ma furono rovinate da' maumettani insieme con molti belli palazzi antichi: ora sono tristissime. Gli abitatori sono ricchi di possessioni e di danari, percioché fanno nella lor città molte fiere, alle quali vengono diversi popoli numidi e barberi. Sono divisi in due parti, e dividegli il piccol fiume: l'una parte, nella quale è il natio e il nobile della città, è detta Fatnasa; l'altra è appellata Merdes, che è di certi Arabi che rimasero nella città, dapoi che fu presa da' maumettani. E sempre queste due parti sono fra se stesse contrarie, e poche volte danno obbedienza al re di Tunis, il quale, quando vi va in persona, molto malamente gli tratta, e massime il presente re.


Caphsa città.

Caphsa è una città antica edificata da' Romani, e rimase in mano d'alcuni duchi fino che vi venne a campo Hucba, capitano di Hutmen califa: allora fu presa da' maumettani, i quali disfecero le sue mura; ma non poterono disfar la rocca, che è invero singularissima, percioché ha le mura alte venticinque braccia e larghe cinque, fatte di grossissime pietre lavorate, come sono quelle del Coliseo di Roma. D'indi a certo tempo furono le dette mura rifatte, e un'altra volta gettate a terra da Mansor, che, fatto giornata col signore della città, uccise lui e i suoi figliuoli, e pose governatori e rettori per tutta la provincia. Oggi la città è tutta abitata, ma ha vili case, cavandone il tempio e altre moschee; le sue strade sono molto larghe e tutte lastricate di pietre negre, come sono le strade di Napoli e di Firenze. Gli abitatori sono civili ma poveri, per esser troppo gravati dal re di Tunis. In mezzo della città sono certe fontane fatte in forma di fosse, quadre e profonde e larghe, e d'intorno cinte di mura; pure v'è uno spazio fra i muri e le rive delle fonti, dove si possono star gli uomini a lavar la loro persona, percioché l'acqua è calda: e d'essa beono, lasciandola prima raffreddare una o due ore. L'aere di questa città è pessimo, e la metà degli abitatori per tal cagione è sempre offesa da febbre; i quali sono uomini poveri, ma sopra modo maligni, né vogliono amicizia di forestieri: e perciò sono vituperati per tutta l'Africa. Fuori della città sono infinite possessioni di datteri, d'olive e di melangole: e i datteri sono i piú belli, i migliori e i piú grossi che si truovino in tutta la provincia, e le olive similmente, onde ne fanno perfettissimo olio, sí di sapore come di colore. E quattro cose nobili sono in questa città: datteri, olive, tele e vasi. Vestesi eziandio assai gentilmente, ma s'usano cotai scarpaccie di cuoio di cervo larghissime, per poter piú volte mutar la suola.


Nefzaoa.

Nefzaoa sono tre castelli l'uno all'altro vicino, tutti abitati e popolosi, ma murati di triste mura: e peggiori sono le case. I terreni hanno fertilità pur di datteri, ma non vi nasce grano; e gli abitatori sono molto poveri, per esser gravati dal re di Tunis. La loro distanza dal mare Mediterraneo è circa a cinquanta miglia.
Della città di Clemen, di Capes, del Gerbo, ne abbian parlato discorrendo il regno di Tunis, e delle abitazioni di Numidia che rispondeno allo stato di Tripoli vi dirò adesso.


Teorregu.

Teorregu è una abitazione ne' confini dello stato di Tripoli, cioè dove esso confina col diserto di Barca, e sono tre castelli e parecchi casali, ne' quali è gran quantità di datteri, ma grano niuno. E gli abitatori sono non men poveri di robbe che di danari, perché sono confinati in quel diserto discosto da ogni luogo civile.


Iasliten.

Iasliten è una abitazione sopra il mare Mediterraneo, dove sono molti casali e terreni di datteri, gli abitatori della quale sono mediocremente ricchi percioché, essendo sopra il mare, contrattano loro mercatanzie con gli Egizii e con i Siciliani.


Gademes abitazione.

Gademes è una grande abitazione, dove sono molti castelli e popolosi casali, discosti dal mare Mediterraneo verso mezzogiorno circa a trecento miglia. Gli abitatori sono ricchi di possessioni di datteri e di danari, percioché sogliono mercatantare nel paese di negri, e si reggono da lor medesimi, e pagano tributo agli Arabi; ma prima erano sotto il re di Tunis, cioè il locotenente di Tripoli. È vero che quivi il grano e la carne sono molto cari.


Fezzen.

Fezzen è similmente una grande abitazione, nella quale sono di grossi castelli e di gran casali, tutti abitati da un ricco popolo sí di possessioni come di danari, percioché sono ne' confini di Agadez e del diserto di Libia che confina con lo Egitto, ed è discosto dal Cairo circa a sessanta giornate. Né pel diserto altra abitazione si truova che Augela, ch'è nel diserto di Libia. Fezzen è dominato da un signore, che è come primario del popolo, il quale tutta la rendita del paese dispensa nel comun beneficio, pagando certo tributo a' vicini Arabi. Similmente in cotal paese è molta penuria di pane e di carne, e si mangia carne di camello, la quale è tuttavia carissima.


Diserti di Libia, e prima di Zanhaga

Poscia che abbiamo detto di Numidia, seconda parte di Africa, ora vi raccontaremo dei diserti di Libia, i quali sono divisi in cinque parti, come nel principio dell'opera s'è detto. E per incominciar dal diserto di Zanhaga, è questo diserto secco e arido, e ha principio dal mar Oceano, cioè da ponente, e s'estende verso levante insino dove sono le saline di Tegaza, e nella parte di tramontana termina ne' confini di Numidia, cioè con la provincia di Sus, di Haccha e di Dara, ed estendesi verso mezzogiorno fino alle terre di negri, cioè fino al regno di Gualata e di Tombutto. In lui non si truova acqua se non da cento miglia ad altretante, e quella ancora è salsa e amara, in profondissimi pozzi, massimamente per la strada che è fra Segelmesse e Tombutto. Vi sono molti animali salvatichi e serpi, come al suo luogo vi si dirà. In questo diserto vi si truova un diserto molto aspro e doloroso chiamato Azaoad, dove per dugento miglia non si truova acqua né abitazione, cominciando dal pozzo di Azaoad fino al pozzo di Araoan, che è vicino a Tombutto cento e cinquanta miglia, dove, e per lo gran calore e per la penuria d'acqua, vi muoiono molti uomini e animali, come mi ricorda avervi detto.


Diserto dove abita Zuenziga popolo

Il secondo diserto incomincia da' confini di Tegaza dalla parte di ponente, e s'estende verso levante fino a' confini di Hair diserto, dove abita Targa popolo, e di verso tramontana col diserto di Segelmesse, di Tebelbelt e di Benigorai, e di verso mezzogiorno confina con Ghir diserto, che risponde verso il regno di Guber: ed è questo diserto piú aspro e piú arido del sopradetto. Quivi è il passo de' mercatanti che vanno da Telensin a Tombutto, e passano per il diametro di questo diserto, di modo che per l'asprezza e per il sito vi muoiono uomini e animali molti, per la penuria dell'acqua. Fra questo diserto vi è un particolar diserto chiamato Gogdem, dove non si truova acqua per nove giorni, eccetto quella che si porta sopra li camelli, e alle volte qualche lago fatto dalle pioggie, ma d'improviso e a caso.


Diserto dove abita Targa popolo

Il terzo diserto incomincia da' confini di Hair dal lato di ponente, e s'estende fino al diserto d'Ighidi verso levante, e di verso tramontana confina con li diserti di Tuath e di Tegorarin e di Mesab, da mezzogiorno con li diserti vicini al regno di Agadez. Questo diserto non è cosí aspro e crudele come sono i due primieri, e truovavisi acqua buona e pozzi profondissimi, massimamente vicino ad Hair, nel quale è un temperato diserto e di buono aere, dove nascono molte erbe. E piú oltre vicino di Agadez si truova assai manna, che è cosa mirabile: e gli abitatori vanno la mattina per tempo a raccorla e ve n'empiono certe zucche, e vendonla cosí fresca in la città de Agadez, e un fiasco che tien un boccale val duoi baiocchi; beesi mescolata con acqua ed è cosa perfettissima; la mescolano ancora nelle minestre, e rinfresca molto. Penso che per tale cagione li forestieri rade volte s'ammalano in Agadez come in Tombutto, ancora che vi sia aere pestifero. Questo diserto s'estende da tramontana verso mezzogiorno 300 miglia.


Diserto dove abita Berdoa popolo.

Il quarto diserto incomincia dal confino del sopradetto Ighidi, e s'estende fino a' confini del diserto dove abita Berdoa popolo; e di verso tramontana confina col diserto di Techort, di Guarghala e di Gademis, e da mezzogiorno verso i diserti che vanno a Cano, regno nelle terre dei negri. È secco e di molto pericolo a' mercatanti che vi passano, come sono quei che vanno da Costantina alle dette terre. E perché gli abitatori pretendono che la signoria di Guargala tocchi al loro dominio, sono nimici di quel signore, e spogliano quanti mercatanti incontrano nel diserto, ma quei di Guargala gli uccidono senza averne pietà o compassione alcuna.


Diserto dove abita Lemta popolo

Il quinto diserto incomincia da ponente da' confini del sopradetto diserto, e s'estende verso levante fino al diserto di Augela; da tramontana confina con li diserti di Fezzen e di Barca, e s'estende verso mezzogiorno fino a' confini del diserto di Borno. E in questo diserto è ancora grande seccaggine di terreno, né vi può sicuramente passare se non il popolo di Gademis, li quali sono amici del popolo di Berdoa, e a Fezzen pigliano le vettovaglie e panni e altre cose necessarie per passare. Il resto dei diserti di Libia, cioè di Augela fino al Nilo, è abitato d'Arabi e da un popolo detto Leuata, che è pure africano.
E finiscono i diserti di Libia.


Nun abitazione.

Nun è una abitazione sopra il mare Oceano, che sono tutti casali abitati da un povero popolo, la quale abitazione è fra Numidia e Libia: nondimeno tocca maggior parte di Libia. Non vi nasce altro grano che orzo, e qualche quantità di datteri, ma tristi. Gli abitatori vanno male ad ordine e sono poveri, perché gli Arabi gli gravano assai; vi sono di loro alcuni che vanno con mercanzie nel regno di Gualata.


Tegaza.

Tegaza è una abitazione nella quale sono molte vene di sale che paion marmo, e il detto si cava d'alcune grotte, d'intorno le quali vi sono molte capanne, dove alloggiano quelli che attendono a tale mestiero: e questo non è fatto dagli abitatori, ma da uomini di straniere contrade, che vengono con le carovane e rimangono in quel luogo a cavarlo, e lo salvano fin che viene un'altra carovana che compri detto sale dalli lavoranti, qual portano a Tombutto dove è gran carestia; e cadaun camello porta quattro tavole del detto sale. Né altra vettovaglia hanno questi lavoranti se non quella che li vien portata da Tombutto over Dara, che sono lontane al cammino di venti giornate da Tegaza; e alle volte de' detti sono stati trovati morti tutti nelle loro capanne, per causa della vettovaglia che gli era venuta a manco, e la carovana non era venuta. Oltra di questo nella state si muove un vento da silocco che gli storpia i ginocchi e a molti fa perder la vista, di modo che l'abitar in questo loco è molto pericoloso. Io vi stetti una fiata tre giorni continui, fino che li mercatanti finirono di caricare il sale, e di continovo mi convenne bere acqua salsa di certi pozzi vicini alle cave del sale.


Augela.

Augela è una abitazione nel diserto di Libia, la quale è discosta dal Nilo circa a quattrocentocinquanta miglia; e sono tre castelli e qualche piccolo casale, d'intorno a' quali sono molti terreni di datteri, ma non vi nasce grano; egli è vero che gli Arabi ve ne portano d'Egitto. È questa abitazione sopra la strada maestra per la quale si va da Mauritania ad Egitto, che è per lo diserto di Libia.


Serte.

Serte è una città antica, edificata, come alcuni vogliono, dagli Egizii, e secondo altri da' Romani, benché siano alcuni di oppenione che ella fusse edificata dagli Africani. Come si fu, ora è rovinata, e credesi che la distrussero i maumettani, ancor che Ibnu Rachic istorico dica da' Romani; né altro in lei si vede fuori che qualche piccolo vestigio delle mura.


Berdeoa abitazione.

In mezzo del diserto di Libia, discosto dal Nilo circa a cinquecento miglia, sono tre castelli e cinque o sei casali, ne' quali è gran quantità di perfetti datteri. Questi tre castelli da 18 anni in qua furono trovati da una guida chiamata Hamar, qual smarrí la strada per causa d'una malattia che li venne agli occhi e, non vi essendo in la carovana altri che lui che sapesse la strada, andava avanti sopra un camello e ogni miglio di continuo si faceva dar della arena e l'odorava, e per questa sua pratica, come la carovana fu vicina quaranta miglia dalla detta abitazione, costui disse: "Sappiate che noi siamo vicini ad una abitazione". Né alcuno lo poteva credere, perché sapevan che eran discosti da Egitto 480 miglia, e dubitavan di esser tornati ad Augela: ma nel terzo giorno la carovana si vidde vicina a questi tre castelli. La gente dei quali, maravigliandosi di vedere uomini forestieri, si ritirò nei castelli e serrò le porte, ricusando di dar loro acqua da bere, del che la carovana pativa molto; e i pozzi erano di dentro. Onde essi, doppo una leggier battaglia, presero i castelli e, provedutisi a bastanza d'acqua, se n'andarono al loro viaggio.


Alguechet.

Alguechet è una abitazione vicina ad Egitto centoventi miglia nel diserto di Libia, dove sono tre castelli, molte case e parecchie possessioni di datteri. Gli abitatori sono uomini negri e vili e avari, ma ricchi per esser fra Egitto e Gaogao. Hanno un capo a guisa di re, e nondimeno danno tributo agli Arabi loro vicini.


SETTIMA PARTE

Nella quale si tratta del paese de' negri, e nella fine dell'Egitto

Gli antichi nostri scrittori dell'Africa, come il Bichri, el Meshudi, non hanno scritto alcuna cosa del paese di negri, se non del Guechet e di Cano, percioché nel tempo loro non vi era notizia alcuna d'altri paesi di negri; ma nell'anno 380 di legira furono scoperti, e la causa fu questa, che allora Luntuna e tutto il popolo di Libia per causa d'un predicatore si fece maumettano, e venne ad abitare in la Barberia, e cominciò a praticare e aver cognizione di detti paesi. Tutti adunque questi paesi sono abitati da uomini che vivono a guisa di bestie, senza re, senza signore, senza republiche e senza governo e costume alcuno, e appena sanno seminare il grano. Il loro abito è di pelle di pecore, né alcuno ha propia o particolar moglie, ma vanno il giorno pascolando le bestie o lavorando i terreni, e la notte s'accompagnano insieme dieci o dodici uomini e donne in una capannetta, e ciascuno si giace con quella che piú gli piace, dormendo e riposando sopra qualche pelle di pecora. Non sogliono a niuno far guerra, né alcuno mette il piè fuori del suo paese. Alcuni adorano il sole, e se gli inchinano tosto che lo veggono spuntar fuori; altri riveriscono il fuoco, come il popolo di Gualata; e altri sono pure cristiani a guisa degli Egizii, cioè quelli della regione di Gaogao.
Giuseppe, re ed edificator di Marocco, del popolo di Luntuna, e i cinque popoli di Libia dominarono questi negri, e a loro insegnarono la legge di Macometto e l'arte necessarie al vivere, e molti di loro si fecero maumettani. Allora non pochi mercatanti di Barberia incominciarono andare ai detti paesi contrattando diverse mercatanzie, in modo che essi impararono la lingua; e i cinque popoli di Libia divisero fra loro tali paesi in quindici parti, e ogni parte risponde a un terzo dei detti popoli. Egli è vero che il presente re di Tombutto, Abubacr Izchia, è del popol negro: il quale, essendo fatto capitano di Soni Heli, re di Tombutto e Gago, della stirpe di Libia, doppo la morte del detto si ribellò contra i figliuoli e quelli fece morire, e tornò il dominio nei negri, acquistando in anni 15 appresso molti regni. E poi che ebbe reso pacifico e quieto il suo, gli venne disio di andar come pellegrino alla Mecca, nel quale pellegrinaggio spese tutti i suoi tesori e rimase debitore di centocinquantamila ducati.
Tutti questi quindici regni cogniti a noi s'estendono da un canto all'altro sopra il fiume Niger e sopra altri fiumicelli che entrano nel detto, e sono in mezzo de due lunghissimi diserti: uno è quello che incominciando da Numidia termina al sopradetto paese, l'altro dalla parte di mezzogiorno s'estende fino al mare Oceano, nei quali sono moltissime regioni, ma la piú parte a noi incognite, sí per lo lungo e difficile viaggio e sí per la diversità della lingua e della fede. E per questo loro non praticano con questi nostri cogniti, né manco li nostri con loro: pure si tiene qualche pratica con quelli che abitano sopra il mare Oceano.


Gualata regno.

Questo regno appresso gli altri regni è piccolo e di poca condizione, percioché altra abitazione non è in lui fuori che tre gran casali e certe altre capanne in alcune possessioni di datteri: questi casali sono discosti da Nun circa a trecento miglia verso mezzogiorno, da Tombutto circa a cinquecento verso tramontana, e dal mare Oceano circa a cento. I popoli di Libia, nel tempo che vi dominarono, qui fecero la real sedia, onde soleano venirci molti mercatanti della Barberia; ma quando vi regnò Heli, che fu un gran principe, essi abbandonarono questo viaggio e se n'andarono a Tombutto o a Gago, in modo che il detto signore è divenuto povero e impotente. Questa gente usa un certo linguaggio detto sungai, e sono uomini negrissimi e vili, ma molto piacevoli, massimamente con forestieri. A' nostri tempi il re di Tombutto prese questo regno, e il signore se ne fuggí nel diserto dove sono tutti li suoi parenti: il che vedendo detto re e dubitando che, partito che si fusse, il signor torneria con l'aiuto di quelli del diserto, s'accordò con lui che li pagasse una certa quantità di tributo, e cosí fino al presente è suo tributario. Il vivere e i costumi loro sono simili a quelli de' lor vicini abitanti ne' diserti. E nasce in questo paese poco grano, e questo è miglio e una altra sorte di grano tondo e bianco come ceci, che non se ne vede nell'Europa; di carne v'è grandissima carestia. Le donne e gli uomini usano similmente di portare i loro visi coperti. In questa lor abitazione non è civilità, né cortegiani, né giudici, ma vivono con gran miseria e povertà.


Ghinea regno.

Questo secondo regno è chiamato da' nostri mercatanti Gheneoa, dagli abitatori Genni, e da' Portogallesi e da alcun altro dell'Europa che ne abbia notizia è detto Ghinea. Confina col passato, ma pure c'è fra l'uno e l'altro circa a cinquecento miglia di spazio per lo diserto, e Gualata rimane verso tramontana, Tombutto verso levante e Melli verso mezzogiorno. Estendesi sopra il fiume Niger circa a dugentocinquanta miglia, e una parte è sul mare Oceano, cioè dove il Niger entra nel detto mare. È abbondantissimo d'orzo e riso, di animali, pesci e di bambagio, e molto guadagnano gli abitatori nel traffico delle tele bambagine, il quale fanno co' mercatanti di Barberia; ed essi allo incontro vi vendono molti panni d'Europa, rame, ottone, arme e cotai cose. La moneta di questi negri è oro non battuto e qualche pezzo di ferro, che spendono nelle cose di poco momento, come latte, pane, mele, del peso d'una libbra, di mezza e d'un quarto. In questo paese non è albero alcuno che faccia frutto, né meno si vede frutto d'alcuna sorte, fuor che datteri che si portano di Gualata o di Numidia. Né v'è città né castello, eccetto un gran casale, dove abita il signore, sacerdoti, dottori, mercatanti e gli uomini di stima. Tutte le case di costoro sono fatte a modo di capanne, ma investite di creta e coperte di paglia. Gli abitatori vestono assai bene, l'abito de' quali è panno di bambagio negro o azurro, del quale se ne cuoprono eziandio il capo; ma i sacerdoti e i dottori l'usano bianco. In fine questo casale per tre mesi dell'anno, cioè il luglio e lo agosto e il settembre, si rimane come un'isola, percioché il Niger allora cresce non altrimenti che faccia il Nilo. Nel qual tempo soglion venirci mercatanti da Tombutto, conducendo le loro merci in certe barchette molto strette, e fatte d'una metà d'albero cavato; tutto il giorno navigano, e la notte ligano le barche a canto la ripa e lor dormeno in terra.
Questo regno fu signoreggiato già da una famiglia della origine del popolo di Libia, ma nel tempo che Soni Heli re, il signor di questo regno divenne suo tributario; ma, privato che fu Soni Heli da Izchia suo successor, questo signor fu preso dal detto Izchia e tenuto in Gago fino alla morte, governando il regno con un suo locotenente.


Melli regno.

Melli s'estende sopra un ramo del Niger forse a trecento miglia, e confina da tramontana col superiore, da mezzogiorno col diserto e con certi aridi monti; da ponente confina con alcuni boschi selvaggi che giungono per insino al mare Oceano, e da levante col tenitoro di Gago. In questo paese è un grandissimo casale, il quale fa presso a seimila fuochi ed è detto Melli, onde è appellato tutto il resto del regno, e in questo abita il re e la sua corte. Il paese è abbondante di grano, di carne e di bambagio; si truovano nel casale moltissimi artigiani e mercatanti natii e forestieri, ma molto piú dal re sono accarezzati i forestieri. Gli abitatori sono ricchi per le mercatanzie che soglion fare, tenendo di molte cose fornite Ghinea, e Tombutto. Hanno molti tempii, sacerdoti e lettori, quali leggono nei tempii, perché non hanno collegii: e sono costoro i piú civili, i piú ingeniosi e i piú riputati di tutti i negri, percioché essi furono i primi che s'accostarono alla fede di Maumetto. In quel principio furono signoreggiati da un principal principe fra li popoli di Libia, ch'era zio di Giuseppe re di Marocco, e cosí durò la signoria in li suoi descendenti fino al tempo di Izchia, qual lo fece tributario, di modo che questo signore non può avanzare tanto che pasca la sua famiglia, per la gravezza che li vien data.


Tombutto regno.

Il nome di questo regno è moderno, detto dal nome d'una città che fu edificata da un re chiamato Mense Suleiman, gli anni di legira seicento e dieci, vicina a un ramo del Niger circa a dodici miglia, le cui case sono capanne fatte di pali, coperte di creta, coi cortivi di paglia. Ben v'è un tempio di pietre e di calcina fatto da uno eccellente maestro di Granata, e similmente un gran palazzo fatto dal medesimo artefice, nel quale alloggia il re. E in questa città sono molte botteghe di artigiani e mercatanti, e massimamente di tessitori di tele di bambagio; vengono ancora a lei panni d'Europa portati da mercatanti di Barberia. Le donne di questo usano ancora elle di coprirsi il viso, eccetto le schiave, le qual vendono tutte le cose che si mangiano; e gli abitatori sono persone ricchissime massimamente i forestieri che vi sogliono abitare, in tanto ch'el re d'oggi ha dato due sue figliuole per ispose a due fratelli mercatanti, mosso dalle ricchezze loro. Nella detta città sono eziandio molti pozzi d'acqua dolce, benché, quando cresce il Niger, ei se ne va per certi canali vicino alla città. V'è grandissima abbondanza di grani e di animali, onde il latte e il butiro è molto da loro frequentato; ma di sale v'è molta carestia, percioché è portato da Tegaza, discosta da Tombutto circa a cinquecento miglia. E io mi trovai a Tombutto una fiata che la soma del sale valse ottanta ducati.
Il re possiede gran ricchezza in piastre e verghe d'oro, delle quali alcuna è di peso di milletrecento libbre. La sua corte è molto ordinata e magnifica, e quando egli va da una città all'altra con li suoi cortigiani, cavalca sopra camelli e gli staffieri menano i cavalli a mano; e se va a combattere, essi legano i camelli e tutti i soldati cavalcano su cavalli. Qual volta alcuno vuol parlare a questo re, se gli inginocchia innanzi, e piglia del terreno e se lo sparge sopra il capo e giú per le spalle: e questa è la riverenza che se gli fa, ma da quelli solamente che non gli hanno piú parlato, o da qualche ambasciadore. Tiene egli circa a tremila cavalli e infiniti fanti, i quali portano cotai archi fatti di bastoni di finocchi salvatichi, usando di trar con quelli velenate saette. Suole ancora spesse volte far guerra co' vicini nimici e con quelli che non gli vogliono dar tributo, e avendo vittoria fa vendere in Tombutto per insino a' fanciulli presi nella battaglia.
Non nascono in questo paese cavalli, eccetto alcune piccole chinee, le quali sogliono cavalcare i mercatanti per loro viaggio, e anco qualche cortigiano per la città. Ma i buoni cavalli vengono di Barberia, e tosto che sono giunti con la carovana di Barberia, il re manda a scrivere il numero, e se passa a dodici, egli subito si elegge quello che piú gli piace e pagalo assai onestamente. È questo re nimicissimo di giudei, né vuole che niuno stanzi nella sua città: e s'egli intende che alcuno de' mercatanti di Barberia tenga con loro pratica o faccia alcun traffico, gli confisca i suoi beni. Sono nella detta città molti giudici, dottori e sacerdoti, tutti ben dal re salariati, e il re grandemente onora i letterati uomini. Vendonsi ancora molti libri scritti a mano che vengono di Barberia, e di questi si fa piú guadagno che del rimanente delle mercatanzie. Usasi in luogo di moneta spendere alcuni pezzi di puro e schietto oro, e nelle cose minime cotai concoline, o diciamo cocchiglie, recate di Persia, le quali s'apprezzano quattrocento al ducato; i ducati loro entrano sei e due terzi per una dell'oncie romane. Sono questi abitatori uomini di piacevol natura, e quasi di continovo hanno in costume di girsi, passate che sono le ventidue ore, fino ad una ora di notte, sonando e danzando per tutta la città; e i cittadini tengono a loro bisogne molte schiave e schiavi maschi. Questa città è molto sottoposta a' pericoli del fuoco, e nel secondo viaggio che io vi fui s'abbruciò quasi la metà in spazio di cinque ore. D'intorno non v'è giardino né luogo niuno fruttifero.


Cabra città.

Cabra è una città grande a modo d'un casale, senza mura d'intorno di niuna sorte, vicina a Tombutto circa a dodici miglia sopra il fiume Niger, dove s'imbarcano i mercatanti per andare a Ghinea e a Melli. Le case e gli abitatori sono simili alle case e agli abitatori detti di sopra. Quivi si truovano molte generazioni di negri, percioché è il porto dove essi vengono con le loro barchette da diversi luoghi. Il re di Tombutto manda in questa città un suo luogotenente, per accommodar li popoli dell'audienza e per levarsi questo fastidio d'andar dodici miglia per terra. E ne' tempi che io mi truovai ve n'era uno parente del re, chiamato Abu Bacr e per sopranome Pargama: era costui negrissimo uomo, ma valoroso d'intelletto e molto giusto. È la città danneggiata da spesse infermità, per cagione della qualità dei cibi che si mangiano, che sono pesci, latte, butiro e carne, tutti mescolati insieme. E da lei se ne vengono quasi la maggior parte delle vettovaglie che sono in Tombutto.


Gago e suo regno.

Gago è una grandissima città simile alla sopradetta, cioè senza mura, ed è discosta da Tombutto circa a quattrocento miglia verso mezzogiorno, e quasi inchina alla parte di silocco. Le case sono comunemente brutte; pure alcune ve ne ha assai apparenti e commode, nelle quali è l'albergo del re e della corte. Gli abitatori sono ricchi mercatanti, e vanno di continovo con le loro mercatanzie d'intorno. Vengono in lei infiniti negri, i quali vi portano grandissima quantità d'oro per comperar robbe che vengono di Barberia e di Europa: ma non ve ne truovano mai tante che supplischino alla quantità dell'oro, e ne portano indrieto sempre la metà o li duoi terzi. Questa città a comparazion dell'altre è molto civile, e vi è moltissima abbondanza di pane e di carne, ma vino o frutto non si può trovare; vero è che è abbondante di melloni, di cetrioli e di coccuccie perfettissime e riso infinito. Sonovi ancora molti pozzi d'acqua dolce. V'è una piazza dove il giorno del mercato si vendono infiniti schiavi, cosí maschi come femine, e una garzona di quindici anni è comperata per sei ducati, e per altretanti un fanciullo.
Il re tiene in un palazzo separato infinito numero di moglieri, di concubine, di schiave e d'eunuchi, i quali sono per guardia delle dette femine. Usa eziandio di tener buona guardia di cavalli e di fanteria con archi. E fra la porta publica e la segreta del suo palazzo è una gran piazza murata d'intorno, e da ciascuna parte è una loggia dove il detto re dà udienza: e come che egli in persona ispedisca quasi tutte le faccende, nondimeno ha molti uficiali, come sono secretari, consiglieri, capitani, tesorieri e fattori. L'entrata del regno è grande, ma piú grandi sono le spese, percioché un cavallo che vale nell'Europa dieci ducati quivi si vende quaranta e cinquanta; il piú tristo panno d'Europa si vende quattro ducati la canna, e il monachino è minimo ducati quindici, e il veneziano fino, come è lo scarlatto o il pavonazzo o il turchino, trenta ducati la canna; la piú trista spada vale similmente in questo paese tre e quattro ducati: cosí gli sproni, le briglie, e cosí parimente tutte le cose di merceria o di speziaria; ma il sale vale piú di ogni altra merce che vi si porta.
Il resto di questo regno è di villaggi e di casali, dove si stanno i lavoratori di terreno e quegli che vanno con le pecore, i quali il verno vestono di pelle di pecora e la state vanno ignudi e scalzi, se non che pur cuoprono le parti vergognose con un poco di pannicello, e alle volte portano sotto alla suola del piede cuoio di pelle di camello. Sono uomini ignorantissimi, e nello spazio di cento miglia a fatica si può trovare uno che sappia scrivere o leggere. Ma il re gli tratta come è il lor merito, percioché appena tanto gli lascia che si possino francar il vivere, per li gran tributi che li fa pagare.


Guber regno.

Questo è discosto da Gago circa a trecento miglia, verso levante, e fra questi due regni egli si va per un diserto, dove si truova poca acqua, per esser discosto dal Niger quasi quaranta miglia. E il detto regno fra altissimi monti, e sono in lui infiniti casali, ne' quali abitano guardiani di pecore e vaccari, percioché v'è gran numero di pecore e di buoi, ma di piccola statura. Le genti comunemente sono assai civili, e truovanvisi molti artigiani tessitori, massimamente calzolai, i quali fanno alcune scarpe simili a quelle che portavano anticamente i Romani, e di queste molte sono recate a Tombutto e a Gago. V'è eziandio gran quantità di miglio e riso e d'altri grani che io non ho veduto in Italia, ma credo che se ne truova di cotali in Ispagna. Quando cresce il Niger cuopre tutte le pianure vicine alle abitazioni di questo popolo, ed esso sopra l'acqua suole seminare il grano.
Fra le dette abitazioni è un grandissimo casale che fa seimila fuochi, nel quale abitano i mercatanti cosí del paese come forestieri. E quivi era già la stanza e la corte del re, il quale alla nostra età fu preso da Ischia re di Tombutto e fatto uccidere; i suoi piccoli figliuoli il detto Ischia fece similmente castrare, e messegli al servigio del suo palazzo. Cosí egli si fece padrone di questo regno e mandovvi governatore, aggravando molto la gente, la quale molto guadagnava di mercanzie, ma oggi è impoverita e mancatavi piú che la metà, percioché Ischia menò da questi paesi grandissima quantità di uomini, tenendogli in cattività e parte per ischiavi.


Agadez e suo regno.

Agadez è una città murata, edificata dai moderni re ne' confini di Libia, e questa città è quasi vicina alle città dei bianchi piú che alcun'altra dei negri, trattone fuori Gualata. Le case sono benissimo edificate, a modo delle case di Barberia, percioché gli abitatori sono quasi tutti mercatanti forestieri, e pochi sono paesani, e que' pochi sono tutti o artigiani o soldati del re della detta città. E ciascuno dei mercatanti tiene gran quantità di schiavi, per valersi dell'aiuto loro ne' passi da Cano a Borno, i quali sono infestati da diversi popoli del diserto, come da Zingani, poverissima e ladra gente. Vanno dunque i mercatanti con la compagnia degli schiavi, molto ben forniti di partigiane e di spade e d'archi, e oggidí hanno incominciato a usar balestre, di maniera che cotai ladri non possono far profitto. E subito che alcun mercatante è pervenuto a qualche città, mette i suoi schiavi a diversi lavori acciò si guadagnino il vivere, serbandone dieci o dodici alle bisogne della persona del mercatante e a guardia delle mercatanzie.
Il re della detta città tiene ancora egli buona guardia e un bel palazzo in mezzo della città, ma il suo esercito è degli abitatori della campagna e nelli diserti, percioché la sua origine è di quelli popoli di Libia. E alle volte questi scacciano il re e pongono qualche suo parente in luogo di lui, né usano amazzar alcuno, e quel che piú contenta gli abitatori del diserto è fatto re in Agadez. Il rimanente di questo regno, cioè quelli che abitano verso mezzogiorno, tutti attendono alle capre e vacche; le loro abitazioni sono di frasche o di stuore, che di continuo portano sopra buoi dove vanno e le pongono dove pascolano, come fanno anco gli Arabi. Riceve il re gran rendita delle gabelle che pagano le robbe de' forestieri, e anco di quello che nasce nel regno, ma paga di tributo al re di Tombutto circa a cento e cinquantamila ducati.


Cano.

Cano è una gran provincia discosta dal Niger circa a cinquecento miglia verso levante, dove sono molti popoli i quali abitano in casali e attendono alle pecore e alle vacche, e gli altri sono lavoratori di terra. Nasce in questa provincia assai grano e riso, e ancora gran copia di bambagio; vi si truovano per lei molti monti diserti pieni di boschi e di fonti, e ne' boschi sono molti alberi di melaranci e di limoni salvatichi, i quali tuttavia nel sapore sono poco differenti dai domestici. E nel mezzo della provincia è la città la quale gli dà il nome: è d'intorno murata di pali e di creta, e cotali sono le case. Gli abitatori sono civili artigiani e ricchi mercatanti, e il re loro fu un tempo molto possente, e teneva gran corte e molti cavalli, in modo che si feciono tributari al re di Zegzeg e al re di Casena. Ma Ischia re di Tombutto, fingendo di volere essere in aiuto dei detti due re, con inganno gli uccise e ottenne i loro regni. D'indi circa a tre anni mosse guerra a questo re di Cano, e per molto assedio lo indusse a tor per moglie una sua figliuola e a dargli ogni anno il terzo dell'entrata, lasciando in quel regno molti fattori e tesorieri per riscuotere la sua parte.


Casena e suo regno.

Casena è un regno vicino al sopradetto verso levante, dove sono assai monti, e i suoi terreni sono asperi ma buoni per orzo e miglio. Il popolo è negrissimo, e ciascuno ha il naso sconciamente grosso e parimente le labbra. Tutte le abitazioni di questo paese sono piccoli casali fatti a guisa di capanne, e tutti tristi, né v'è alcuno che passi trecento fuochi. Quivi è la povertà accompagnata con la viltà. Già fu bene il detto popolo dominato dal re, ma egli fu ucciso da Ischia e il popolo mezzo distrutto, e fecesi padrone del regno, come dicemmo di sopra.


Zegzeg e suo regno.

Questo è un paese che confina con Cano dalla parte di silocco, ma è discosto da Casena circa a centocinquanta miglia. È abitato da un ricco popolo, il quale in ogni luogo contratta mercatanzie. E una parte del paese è nel piano, un'altra nel monte: quella è molto calda e questa fredda, di maniera che gli abitatori, non potendo sofferir l'inverno, sogliono far nel battuto delle lor stanze alcuni gran focolari, nei quali accendono di molta bracia, e la pongono sotto le lor lettiere che sono alte, e cosí dormono. Nondimeno esso terreno è fruttifero e abbondante d'acqua e di grani; le case e i casali sono come i detti di sopra. Soleva aver questo paese un re che da per sé lo reggeva, ma fu ucciso dal sopradetto Ischia, il quale similmente si fece signore di questo regno.


Zanfara.

Zanfara è una regione che confina con la sopradetta dalla parte di levante, nella quale abitano molti vili e rozzi popoli. Il paese è abbondante di grano, di riso, di miglio e di bambagio. E sono i medesimi abitatori uomini di statura grandi, ma negrissimi sopra modo; hanno cotai faccie larghe e brutte, e partecipi piú della bestia che dell'uomo. Ischia avvelenò il re loro e distrussene una gran parte.


Guangara e suo regno.

Questa è una regione che di verso silocco confina con la sopradetta, dove abita gran popolo dominato da un re, il quale può avere settemila fanti con archi e circa a cinquecento cavalli forestieri, e cava grande entrata delle mercatanzie e gabelle. Tutte le abitazioni di lei sono casali di capanne, eccetto uno che è grande e piú bello degli altri. Gli abitatori sono molto ricchi, percioché vanno con loro mercatanzie in lontani paesi, e dalla parte di mezzogiorno confinano con certi paesi ne' quali si truova molta quantità d'oro. Come che oggidí il popolo non può esercitar la mercatanzia di fuori, percioché ha due possenti e fieri nimici: da ponente Ischia e da levante il re di Borno. E quando fui in Borno, il re, che si chiamava Abram, congregò tutto il suo esercito per venir adosso al re di Guangara, e come fu vicino al detto regno ebbe nuova che Homar, signor di Gaogao, veniva verso Borno, e fu astretto di tornarsene indrieto, che fu gran ventura al re di Guangara. Li mercanti di Guangara, quando vanno al paese dell'oro, convien che passino per alti e scabrosi monti, di maniera che non vi possono andar le bestie; ma essi fanno che i loro schiavi portano sopra la testa le mercatanzie e le cose lor necessarie in certe zucche secche, che sono larghe e grandi, e ciascuno schiavo può far di cammino dieci e piú miglia col carico in testa di cento libbre: e io n'ho veduti alcuni aver reiterato due volte in un giorno il viaggio. E non tengono capelli in cima del capo per li gravi pesi che usano di portare, che oltra le mercanzie portano le vettovaglie per li patroni e per tutti gli schiavi che vanno armati per custodia di mercatanti.


Borno e suo regno.

Borno è una gran provincia, la qual confina con Guangara dalla parte di ponente, e s'estende verso levante circa a cinquecento miglia, discosta dal capo donde nasce il Niger circa a centocinquanta miglia, e verso mezzogiorno confina col diserto di Seu, e da tramontana confina pure con li diserti che rispondono verso Barca. Questa provincia non è uguale di sito, percioché alcuni luoghi sono monti e alcune pianure. Nel piano sono molti casali abitati da gente civile e da mercanti forestieri negri e bianchi, dove sono terreni grassi per grani: e nel maggiore de' detti casali abita il re co' suoi soldati. I monti vengono abitati da guardatori di capre e buoi, e vi si semina eziandio pur miglio e alcuni altri grani a noi incogniti. E questi la state vanno ignudi con certe brache di cuoio, e il verno portano a torno pelle di pecore, e di quelle sono i loro letti. E sono uomini che non tengono fede alcuna, né cristiana né giudea né macomettana, ma stanno senza, a modo di bestie, tenendo le moglie e i figliuoli in comune. E secondo che io udi' raccontare da uno mercante, che fu longamente in questo paese e intendeva la loro lingua, essi non si pongono propii nomi come fanno le altre genti, ma se uno è di persona grande lo chiamano lungo, se piccolo corto, se è guercio guercio, e cosí somigliantemente da tutti gli altri accidenti e particolari.
La detta provincia è dominata da un potentissimo signore, che è pure della origine di Bardoa popolo di Libia, e tiene circa a tremila cavalli e di fanti quanto numero egli vuole, perché tutto il popolo è in suo servizio e lo mena dove gli piace; non gli dà gravezza alcuna, se non della decima delli frutti della terra. Questo re non ha altra intrata se non il robbare e assassinare i loro vicini che li sono inimici, e abitano oltra il diserto di Seu, e sono infiniti, li quali anticamente passavan detto diserto a piedi e rubavan tutto il regno di Borno. Ma questo re, avendo fatto venir mercatanti di Barberia a condur li cavalli, li quali barattano per schiavi, e hanno per ciascun cavallo 15 e vinti schiavi, in questo modo mette ordine di correr contra li loro inimici, e fa aspettar li mercatanti fin che 'l ritorni, li quali qualche fiata stanno due e tre mesi ad aspettare: e in questo tempo hanno sempre le spese dal re, qual, quando torna dalla correria, alle volte mena quantità sufficiente per pagar li mercatanti, e alle volte bisogna che li mercatanti aspettino l'anno futuro, non avendo schiavi da pagarli, perché non può fare questa correria senza pericolo se non una volta l'anno. Quando io fui in questo regno, vi trovai molti mercatanti disperati che volevan lasciar la pratica di mai piú tornarvi, essendo stati un anno ad aspettar il pagamento. E tutta volta il re dimostra esser ricco e possessore d'un infinito tesoro, percioché io ho veduto tutti i fornimenti dei suoi cavalli, come sono staffe, sproni, briglie e morsi, tutti d'oro, e le scodelle e catini nei quali egli mangia e bee similmente per la maggior parte esser d'oro, cosí le catene dei cani del re tutte di finissimo oro: nondimeno egli, come s'è detto, è avarissimo, e dà piú volentieri in pagamento schiavi che oro. Sono a questo re di Borno molti regni di negri e bianchi soggetti, dei quali per non aver particolar notizia, essendovi stato se non un mese, non posso scrivere altramente.


Gaogà e suo regno.

Gaogà è una provincia che confina con Borno da ponente e s'estende verso levante insino a' confini del regno di Nubia, il quale è sopra il Nilo; da mezzogiorno termina in un diserto, che confina pure con un certo giro che fa il Nilo, e da tramontana confina con i diserti di Serta e a' piedi di Egitto; e s'estende da ponente a levante circa a cinquecento miglia e quasi per larghezza altretanto. Né in lui è civilità, né perizia di lettere, né governo: gli abitatori sono piú tosto uomini senza intelletto che no, massimamente quei che abitano ne' monti, i quali vanno la state nudi e scalzi, eccetto che pur cuoprono le vergogne con certe mutande di cuoio. Le lor case sono capanne di frasche, le quali le piú volte leggermente per ogni piccolo vento s'abbruciano; hanno gran copia di pecore e di buoi, e alla lor cura attendono.
Vissero costoro gran tempo in libertà, ma da cento anni in qua gliela tolse uno schiavo negro del detto paese, il quale essendovi menato da un suo padrone ricchissimo mercatante, egli come si vidde vicino al suo terreno uccise il padrone, mentre che colui senza sospetto dormiva, e con le facultà sue, le quali erano molte some di panni e d'arme, se ne tornò qui a casa sua, compartendo il tutto co' suoi parenti e amici. E avendo comperati alcuni cavalli da mercanti bianchi, incominciò a far correrie nel terreno de' nimici, onde che sempre ne riportava vettoria, perché egli e li suoi avean arme, ma non gli nimici, se non alcuni archi mal fatti di legno. E guadagnando molti schiavi, quali barattava per cavalli che venivan d'Egitto, e accrescendo il numero de' suoi soldati, era ubbidito da tutti a guisa di lor capo e signore. Doppo la cui morte successe il figliuolo, non men prode e ardito del padre, il quale dominò quaranta anni, e doppo lui un suo fratello detto Mosè, e finalmente un suo nepote chiamato Homara, che oggidí regna. Costui allargò molto la signoria, e con presenti e amorevolezze acquistò l'amicizia e benivolenza del soldano del Cairo, quale li manda arme, panni, cavalli; e li paga il doppio per esser liberale, in tanto che i mercatanti di Egitto non vanno piú oltra se non alla sua corte, e molti poveri del Cairo lo vanno a trovare portandoli qualche presente che sia bello e raro, e costui gli remunera il doppio, di modo che ciascuno da lui si diparte mirabilmente sodisfatto; fa grande onore agli uomini dotti, e massimamente a quelli della casa di Macometto. Io mi trovai presente a tempo che un uomo nobile di Damiata appresentò a questo re un bellissimo cavallo, una spada turchesca, una camicia di maglia, uno schioppo e certi altri belli specchi e pettini, corone di coralli e alcuni coltelli: le quai tutte cose potevano valere nel Cairo centocinquanta ducati. Il re all'incontro donò a colui cinque schiavi, cinque camelli e cinquecento ducati della loro moneta, e appresso cento denti grossissimi di elefante.


Nubia e suo regno.

Il regno di Nubia dalla parte di ponente col sopradetto confina, cioè con i suo' diserti, ma estendesi sopra il Nilo; da mezzogiorno confina col diserto di Goran, e da tramontana coi terreni di Egitto. Dal detto regno non si può navigare ad Egitto, percioché l'acqua del Nilo, spargendosi per certe pianure, è tanto bassa che gli uomini e le bestie vi passano a guazzo. In questo regno è una principale città chiamata Dangala, la quale è molto bene abitata e fa circa a diecimila fuochi, ma le case sono tutte triste, fabbricate con creta e pali. Gli abitatori sono uomini molto ricchi e civili, perché fanno mercatanzie nel Cairo e in tutti i luoghi d'Egitto, d'arme, di panni e di diverse altre merce. Nel rimanente del regno sono casali sopra il Nilo abitati dai lavoratori dei terreni, ed è per tutta Nubia grande abbondanza di grano e di zucchero, ma non lo sanno cuocere, in modo che esso divien negro e brutto. Si truova ancora in Dangala molto zibetto e legno di sandolo, e gran quantità d'avorio, percioché vi si prendono molti elefanti. Si truovano eziandio veleni acutissimi, un grano de' quali, partito fra 10 uomini, gli fa morire nello spazio d'un quarto d'ora, ma preso per un solo muore subitamente: e val ducati cento l'oncia. E questo veleno non si vende se non a forestieri, con sicurtà e giuramento che essi non l'abbiano a usare ne' loro paesi, e chi lo compera paga altretanto di dazio al signore quanto fu il prezzo del veleno, onde niuno lo può vender segretamente, sotto la pena della vita.
Il re di Nubia sempre è in guerra, ora con quei di Goran, che sono una generazione di Zingani, i quali rozzamente abitano nel diserto, e niuno intende il lor linguaggio; ora è in fatto d'arme con un'altra sorte di gente, la quale alberga nel diserto oltra il Nilo verso levante, e tende fino al mar Rosso verso i confini di Suachin: e ha questa gente una cotal lingua mescolata al mio giudicio con la caldea, e molto si conforma con quella di Suachin e dell'alta Etiopia, dove è la stanza del Prete Gianni; e questa generazione è detta Bugiha. Sono uomini vili, disarmati, poveri, e vivono di latte di camello, della carne del detto e delle fiere salvatiche; alcuna fiata riscuotono qualche tributo dal signore di Suachin o dal signore di Dangala, e solevan avere una città grossa sopra il mar Rosso chiamata Zibid, dove è un porto che dirittamente risponde al porto del Zidem, il quale è vicino alla Mecca quaranta miglia. Ma da cento anni in qua, per cagione che costoro rubbarono una carovana che portava robba e vettovaglia alla Mecca, il soldano si sdegnò e mandò un'armata pel mar Rosso, la quale assediò e disfece la detta città e il porto de Zibid, che dava loro d'entrata dugentomila saraffi. Allora quelli che fuggirono incominciarono a girsene a Dangala e Suachin, qualche piccola cosa guadagnando. Ma dipoi il signor di Suachin, col favor di certi Turchi armati di schioppi e d'archi, gli dette una gran rotta, percioché in una giornata ammazzarono, di questa canaglia che andava nuda, piú che quattromila persone, e mille ne menarono vivi a Suachin, i quali furono uccisi dalle femine e da' fanciulli.
Questo è quanto brevemente ho potuto scrivere del paese de' negri, de' quali piú particolare informazione dare non si può, percioché ciascuno dei quindici regni è all'altro conforme, sí di sito come di civilità, costume e ordine di vivere, e signoreggiati da quattro signori. Ora io seguiterò dell'Egitto.


OTTAVA PARTE

Dell'Egitto.

Egitto, famosissima provincia, termina da ponente ne' diserti di Barca, Numidia e ancor di Libia; da oriente termina e confina ne' diserti che sono fra Egitto e il mare Rosso, da tramontana nel Mediterraneo, e da mezzogiorno confina pure col terreno e abitazioni di Buggia sopra il Nilo. Estendesi per lunghezza dal Mediterraneo fino al paese di Buggia circa a quattrocentocinquanta miglia; di larghezza ha quasi niente, percioché altro non v'è che quel poco di terreno che è sopra le rive del Nilo, il quale corre fra alcuni monti secchi che confinano coi sopradetti diserti, e tanto è di culto e di abitato quanto è dalle rive del fiume ai detti monti. Vero è ch'è qualche poco larga verso il mare Mediterraneo, percioché il Nilo, di là dal Cairo circa a ottanta miglia, si divide in due parti e fa un ramo che entra piú verso ponente, e pure ritorna al primiero ramo di donde è nato; e passato el Cairo circa sessanta miglia, si divide in altre due: l'una ne va a Rosetto e l'altra a Damiata. Da quella che va a Damiata deriva un altro ramo, il quale si converte in un lago; pure vi rimane una goletta che congionge il mare col lago, e sopra quella è Tenesse, antichissima città. Da questa divisione del Nilo in piú parti procede, come abbiamo detto, qualche poca di larghezza. Tutta questa provincia è piana e fertile di grani e di legumi, e vi sono buonissimi pascoli per gli animali e infiniti polli e oche.
Gli uomini del paese sono quasi tutti di color bruno, ma gli abitatori delle città sono bianchi, i quali vanno comunemente tutti in buono abito: questo è stretto, cucito nel petto, e d'indi aperto insino a' piedi; hanno le maniche similmente strette, e nel capo usano dolopani grandi sopra certi invogli tondi, fatti di ciambellotto. Portano ne' piedi alcuni calciamenti all'antica, e pochi costumano di portare scarpe, ma non le calzano tutte, anzi portano la parte di dietro piegata sotto il calcagno. La state usano panni di tela bambagina lavorati di diversi colori, e il verno cotai drappi pieni di bambagio, i quali chiamano chebre; e i grandi cittadini e mercanti vestono di panni della Europa. Sono uomini da bene, piacevoli e piú tosto liberali che altramente. Frequentano molto nel loro cibo latte e cacio fresco, ma il latte lo mangiano agro e duro per certi loro artificii, e nel cacio pongano assai sale: e uno forestiero non avvezzo non può gustare quel che a loro è suavissimo; e quasi in tutte le minestre usano di porre del detto latte agro.

Divisione della detta provincia.

A' tempi nostri, il che è dapoi che maumettani incominciarono a dominar la detta provincia, fu l'Egitto diviso in tre parti: cioè dal Cairo fino a Rosetto, e chiamata la riviera di Errif; dal Cairo in su fino a' confini di Buggia, detta Assahid, cioè terreno; e la parte che è sopra il ramo che va a Damiata e a Tenesse dicono el Bechria, cioè maremma. Tutte queste tre parti sono abbondantissime e fertili, ma Sahid è molto piú copiosa di grani, di legumi, d'animali, di polli e di lino; Errif è piú abbondevole di frutti e riso; la maremma di bambagio e di zucchero, d'alcuni altri frutti detti el maus, cioè muse. Gli abitatori di Errif e di maremma sono piú civili di quelli di Sahid, percioché queste due parti, per esser vicine al mare, sono molto piú frequentate da forestieri di Barberia, d'Europa e di Assiria; ma quelli di Sahid sono dentro fra terra, né mai veggono forestieri, percioché sono di là dal Cairo, dove non sogliono andar forestieri, eccetto alcuni d'Etiopia.


Origine e generazion de Egizii.

Gli Egizii, sí come scrive Mosè, sono della origine di Mesrain figliuolo di Cus, figliuolo di Cam, che fu figliuolo di Noè; e gli Ebrei chiamano la regione e gli abitatori con un medesimo vocabolo, il quale è Mesrain. Cosí medesimamente gli Arabi dicono a tutto il paese Mesre, ma gli abitatori appellano el Chibth, e dicono che Chibth fu uno che primo incominciò a dominare il detto paese e a fabbricarvi case. E i detti abitatori fra lor medesimi parimente cosí si chiamano, né altri vi sono rimasi veri Egizii che quei cristiani che ci sono ora; gli altri tutti s'accostarono alla fede di Maumetto, e s'accompagnarono con gli Arabi e con gli Africani.
Questo regno restò molti anni sotto il dominio degli Egizii, cioè de' faraoni, che furono potentissimi e grandissimi, come ne fanno testimonio li vestigii di cosí superbi e admirabili edificii, e ancora l'istorie ne parlano, e delli re Ptolemei. Dipoi fu soggiogato da' Romani, e doppo l'avvenimento di Iesú Cristo gli Egizii divennero cristiani, e il regno rimase pur sotto l'imperio romano. E mancato questo imperio, fu trasferito all'imperio di Costantinopoli, e molto ebbero caro quegli imperadori di mantener cotal regno. Infine, doppo la pestilente venuta di Maumetto, il detto regno fu preso da' maumettani: preselo Hamr figliuolo di Hasi, capitano d'un esercito arabo di Homar, secondo pontefice. Costui lasciò ciascuno nella sua fede, né altro vi volle che il tributo, e fabbricò sul Nilo una piccola città, detta fra gli Arabi Fustato, che nella lor lingua "padiglione" significa, percioché quando egli venne a questa impresa trovò quei luoghi tutti disabitati e inculti, di maniera che alloggiò ne' padiglioni. Il volgo appella questa città Mesre Hatichi, cioè città vecchia, percioché ella a comparazione del Cairo, che è nuovo, si può cosí dire.
Molti eccellenti uomini d'oggidí, cosí maumettani come cristiani e giudei, s'ingannano a credere che la detta Mesre sia quella dove abitò Faraone di Mosè e Faraone di Giuseppe, percioché la città di Faraone è nella parte d'Africa, cioè dove è il passo del Nilo verso ponente e dove sono le piramidi. E quasi la Scrittura testimonia questo nel libro della Generazione, quando ella fa menzione che li giudei furono adoperati nella fabbrica di Apthun, città edificata da Faraon nel tempo di Mosè, pur nella parte dove il Nilo passa verso l'Africa, discosta dal Cairo circa a cinquanta miglia verso mezzogiorno, sopra quel ramo del Nilo il quale abbiamo detto che piú entra verso ponente. V'è un altro testimonio che la città di Faraon fosse dove io dico, percioché su l'entrar d'un ramo del Nilo nell'altro è un edificio antichissimo, il quale è detto la sepoltura di Giuseppe, dove egli fu sepolto prima che gli Ebrei lo portassero di Egitto alle sepolture de' suoi antichi. Adunque el Cairo e tutti li suoi vicini luochi non hanno da fare cosa alcuna con le terre degli antichi faraoni. Ed è da sapere che la nobiltà degli antichi Egizii soleva essere verso Sahid dal Cairo in su, in le città dette el Fium, Manf, Ichmim, e in altre città famose; ma dapoi che 'l regno fu occupato da' Romani, tutto il fiore si ridusse verso Errif, cioè alla riviera del mare dove è Alessandria e Rosetto, e fin ora si truovano molte città e luoghi che hanno nome latino. E ancora, nel traslatar dell'imperio di Roma in Grecia, la detta nobilità si ristrinse sempre verso la maremma, e il locotenente dello imperadore soleva far residenza in Alessandria. Ma quando vi vennero gli eserciti maumettani, si fermarono quasi in mezzo del regno, pensando di partorir in un medesimo tempo due buonissimi effetti: l'uno di pacificare il regno dalle due parti, l'altro d'esser sicuri dagli assalti de' cristiani, dei quali potevano molto temere se fossero nella maremma.


Qualità e accidenti dell'aere di Egitto.

L'aere è molto nocivo e caldissimo, e mai in quella regione non piove se non alcune rare volte: e allora le pioggie sono cagione di molte infermità, percioché alcuni sono molestati da febbre e catarro, ad altri si gonfiano i testicoli di maniera che è maravigliosa cosa a vedere, e i medici ne fanno la colpa al cacio salato e alla carne di buffolo che si mangiano. La state pel soverchio calore il paese s'abbrucia, di modo che per riparo di ciò per tutte le cittadi si suol fare alcune torri alte, che hanno un uscio nella sommità e un altro a' piedi, che risponde agli alberghi delle case, e dal capo di quelle torri entra il vento, il quale uscendo dalla parte di sotto rende pure alquanto di fresco: altrimente non si potrebbe vivere per lo insopportabil caldo. Alle volte vi viene la peste, la quale uccide infinite persone, massimamente nel Cairo, nella qual città alcune volte muoiono il dí dodicimila persone; e da mal franzese non credo che altra parte del mondo abbia ricevuto tanto danno quanto questo paese, e veggonsi nel Cairo non pochi storpiati e guasti da cotal morbo.
Quivi si taglia il grano il principio di aprile, e una parte si batte pur di aprile e un'altra il maggio; ma prima che fornischino i venti giorni di maggio, non rimane alcun grano nella campagna. Il Nilo incomincia a crescere a mezzo giugno, e dura questo suo accrescimento quaranta giorni, e cosí il suo discrescere parimente altri quaranta. Onde fra questo spazio, che è di ottanta giorni, tutte le città e villaggi dell'Egitto paion isole, né si può andar da una villa all'altra se non con barche: ma allora egli s'ha commodità di poter caricare grossi burchi, de' quali alcuno porta sei o settemila moggia di grano, e insieme qualche centinaio di pecore; questi burchi non possono andar cosí carchi se non nel tempo del crescimento del Nilo e a seconda del fiume, perché a contrario dell'acqua a pena torneriano voti. Gli Egizii nel crescer del Nilo antiveggono assai bene quello che può valere il grano per tutto l'anno, come vi ragionerò dove si parla dell'isola del Nilo, scontro alla terra vecchia, dov'è la misura del Nilo. Quantunque non è mia intenzione di narrarvi di tutte le città d'Egitto, percioché gli scrittori nostri sono tra loro medesimi discordanti, e alcuni non vogliono che l'Egitto abbia parte in Africa, altri sono di contraria oppenione, e molti affermano quella parte la quale è verso il diserto di Barberia, di Numidia e di Libia, esser d'Africa. Non pochi tengono che tutta l'abitazione che è sopra il ramo principale del Nilo sia d'Africa e l'altra no, come è Manf, Fium, Semmenud, Damanhore, Berelles, Tenesse e Damiata: e questa è similmente l'oppenion mia per molti ragionevol respetti, e perciò non descriverò altre città che quelle le quali sono sopra il detto ramo.


Bosiri città.

Bosiri fu una città antica, edificata dagli Egizii sul mare Mediterraneo, discosta da Alessandria verso ponente circa a venti miglia. Soleva esser cinta di fortissime mura, ed era addorna di bellissime case. Ora d'intorno vi sono molte possessioni di datteri, ma non è alcuno che ve n'abbia cura, percioché, allora che fu Alessandria presa da' cristiani, gli abitatori lasciarono la loro città e fuggirono verso il lago che è detto el Buchaira.


Alessandria, gran città in Egitto.

La gran città d'Alessandria fu, come è noto, da Alessandro Magno edificata: edificolla non senza il consiglio di nobili e periti architetti, di forma bellissima e in bel sito, su la punta del mare Mediterraneo, discosta dal Nilo verso ponente quaranta miglia. Non è dubbio ch'ella fu nobile e di fortezza e di bellezza di palazzi e di case quanto alcun'altra ne fosse, e con una cotal fama si rimase gran tempo, per insino a tanto che venne in mano dei maumettani. Onde per molti anni andò scemando e perdendo della sua antica nobiltà, percioché non v'era mercatante niuno, o di Grecia o di Europa, che piú in lei praticasse, in modo che fu quasi disabitata. Ma uno astuto pontefice, maumettano, con colorita menzogna dicendo che Maumetto, in una sua profezia, avea lasciato di molte indulgenzie a' popoli abitatori di questa città, e a quelli che vi verranno stare qualche giorno per custodia, e a quelli che faranno elemosine, in poco tempo la riempié di abitazioni e di gente forestiere e d'ogni sorte, venute per la detta indulgenzia. Per le quali furon fabbricate molte case ne' torrioni delle mura della città, e molti collegi per scolari e studenti di lettere, e ancora molti monasteri per gli uomini religiosi venuti per devozione.
È la città di forma quadra, con quattro porte: l'una verso levante, alla parte del Nilo; l'altra verso mezzogiorno, al lago detto el Buchiara; la terza verso ponente, al lato del diserto di Barca; la quarta porta verso la marina, dove è il porto. E in questa stanno i guardiani e i ministri della dogana, i quali cercano per insino dentro alle mutande di chi vien per mare, percioché non pure della robba, ma dei danari, si paga un tanto per cento. E sono similmente due altre porte appresso le mura della città, l'una dall'altra separate con un corridore, e una fortissima rocca, la quale è sopra la bocca d'un porto chiamato Marsa el Borgi, cioè il porto della torre. A quello si riducono le navi piú nobili e di piú importante mercatanzia, come sono i legni de' Veneziani, de' Genovesi, de' Ragusei e d'altri navili d'Europa, percioché a questa città sogliono venire per insino a legni di Fiandra, d'Inghilterra, di Biscaglia, di Portogallo e di tutta la riviera d'Europa. Ma in molto maggior copia sono gli Italiani, massimamente Pugliesi e Siciliani; ancora le navi di Grecia, cioè turchesche, vengono insieme a questo porto, per esser piú sicuro da' corsali e dalla fortuna. V'è un altro porto chiamato Marsa Essil Sela, che tanto è a dire il porto della catena, nel quale si riducono i navili che vengono di Barberia, come sono quegli di Tunis, dell'isola del Gerbo e d'altri luoghi. I cristiani pagano di dogana quasi dieci per cento e i maumettani cinque, cosí nell'entrare come nell'uscire, ma delle mercatanzie che per terra si portano al Cairo non si paga gabella alcuna. Questo porto è oggidí la piú nobile e famosa parte che abbia la città, per esser vicino al Cairo, dove si vendono infinite merci e vi corrono mercatanti da tutte le parte del mondo.
Nell'altre cose in questa età ella invero non ha molta civilità, né gran numero d'abitazioni, percioché, trattone una lunga strada per cui si va dalla porta di levante a quella di ponente, e un canto che è vicino alla porta della marina, dove sono molte botteghe e fondachi dove alloggiano i cristiani, il resto è voto e distrutto. E ciò avvenne che, poscia che Lodovico quarto re di Francia fu liberato dalle mani del soldano, allora il re di Cipri insieme con certi legni de Veneziani e ancora de Francesi assaltorono all'improviso Alessandria, e la presero e saccheggiarono, e uccisero infiniti uomini. Ma, venutovi in persona il soldano con grande esercito a soccorrerla, veggendo che tenere non la potevano, acceso il fuoco nella città abbruciarono tutte le case, e cosí partendosi la lasciarono. Il soldano ristaurò le mura meglio che possette, e fece fabbricar la rocca che è sopra il porto, e a poco a poco la ridusse nell'essere in che ora la veggiamo.
Nella città è una montagna altissima, la quale somiglia a quella del Testaccio di Roma, nella quale si truovano molti antichi vasi e invero ella non ha sito naturale. Sopra la detta montagna è una torricella, su la quale di continovo sta uno che spia i legni che passano, e per ogni legno di cui egli dà notizia ai ministri della dogana ha un certo premio; e se 'l dorme over va a spasso, e che giunga qualche navilio che non abbia data la notizia agli uficiali, è condannato nel doppio: i quali sono diputati alla camera del soldano. Quasi tutte le case della città sono fabbricate sopra certe grandi cisterne fatte a volto, similmente sopra grosse colonne e archi, alle quai cisterne se ne viene l'acqua del Nilo, percioché quando ei cresce l'acqua va per un canale artificiosamente fatto per la pianura tra il Nilo e Alessandria, per insino a tanto che, passando sotto le mura della città, entra come abbiamo detto nelle dette cisterne. Ma in processo di tempo queste cisterne sono divenute torbide e fangose, di maniera che la state molti per cagion di quelle s'infermano. Cerca alla abbondanza, la città è posta in mezzo d'un diserto di arena, in modo che non v'è né terreno da seminare, né vite, né giardino alcuno, e il grano è condotto quaranta miglia di lontano. Egli è vero che appresso il canale per cui vien l'acqua del Nilo sono alcuni piccoli orticelli, ma i lor frutti sono piú tosto pestilenti che altrimente, percioché nel tempo che se ne mangia gli uomini per la piú parte sono offesi da febbre o da altro male.
Discosto da Alessandria forse a sei miglia verso ponente si truovano certi antichissimi edifici, fra' quali è una colonna grossissima e altissima, la quale nella lingua arabica è detta Hemadussaoar, che tanto vuol dire quanto la colonna degli alberi. E di questa raccontasi certa favola, la quale è che un Tolomeo re di Alessandria fece far la detta colonna per render la città sicura e inespugnabile dagli assalti dei suoi nimici, faccendo nel capo di quella porre un grande specchio di acciaio, il quale aveva cotale virtú, che tutti i legni che passavano vicini alla colonna a tempo che lo specchio fusse scoperto, subito miracolosamente ardevano. Perciò aveva egli fatto porre questa colonna sopra la bocca del porto. Ma dicesi che poi i maumettani guastarono lo specchio, onde esso perdé la virtú, e fecero portar via la colonna: cosa invero ridicolosa e da far credere a' fanciulli.
Sono ancora in Alessandria, fra i suoi antichi abitatori, molti di quei cristiani che sono detti giacobiti, i quali tengono una lor chiesa dove già era il corpo di san Marco evangelista, qual fu tolto nascosamente da Veneziani e a Venezia portato: e sono questi giacobiti tutti artigiani e mercanti, e pagano tributo al signor del Cairo. Non è da pretermettere che nel mezzo della città, fra le rovine che si veggono, è una piccola casa a modo di chiesetta, nella quale è una sepoltura molto onorata da' maumettani, percioché affermano in quella serbarsi il corpo d'Alessandro Magno, gran profeta e re, sí come essi leggono nell'Alcorano: e molti forestieri vengono di lontani paesi per vedere e riverir la detta sepoltura, lasciando a quel luogo grandi e spesse limosine. Molte altre cose notabili vi lascio di scrivere, per non crescer l'opera con fastidio e noia dei lettori.


Bocchir città.

Bocchir era una piccola e antica città edificata sul mare Mediterraneo, e discosta da Alessandria circa a otto miglia verso levante: ma a' nostri dí fu distrutta, e rimangono ancora molte vestigia delle sue mura. Sono, dove ella fu, molte possessioni di datteri de' quali si nutrisce certa povera gente, la quale abita in piccole e diserte capanne. C'è una torre sopra una piaggia pericolosa, nella quale molti navili di Soria che vengono di notte rompono, percioché arrivando di notte, non vi essendo alcuno che sappi entrar nel porto d'Alessandria, s'affermano sopra detta spiaggia. D'intorno la città non sono altri terreni che campagne d'arena per insino al Nilo.

Rasid, detto dagli italiani Rosetto.

Rosetto over Rasid è una città sopra il Nilo dalla parte d'Asia, discosta dal mare Mediterraneo tre miglia dove entra il Nilo nel detto mare. Fu edificata da uno schiavo d'un pontefice, il quale era luogotenente dell'Egitto. Ha di belle case e palazzi posti sopra il Nilo, e una gran piazza ripiena di diversi artigiani e mercanti; oltre a ciò un tempio bellissimo e allegro, che ha alcune delle sue porte verso la piazza e altre sul fiume, dove si discende per certe bellissime scale. Sotto il detto tempio è un porto, al quale si sogliono ridurre alcuni burchi che portano merci al Cairo. Ma la città non è cinta di mura, e ha piú tosto forma d'una gran villa che di città; e d'intorno sono molte case dove si suol batter il riso con certi artificii di legno, e credo che ciascun mese se ne purghino e nettino piú di tremila moggia. E fuori della detta città è un luogo, come un borgo, nel quale si tengono molti muli e asini a vettura per chi vuole andare in Alessandria, e l'uomo che gli piglia altra fatica non ha che di lasciargli andare alla diritta via, percioché essi lo portano per insino alla casa dove si ha a lasciar la bestia; e hanno cosí veloce portante che fanno quaranta miglia di cammino dalla mattina insino al vespro, sempre costeggiando per la marina, di maniera che alcuna volta l'onda del mare percuote ne' piedi della bestia. D'intorno alla città sono molte possessioni di datteri e terreni bonissimi per riso. Gli abitatori sono uomini domestici e piacevoli con forestieri, e con quegli che volentieri si danno buon tempo. Di dentro è una bellissima stufa, la quale ha in lei diversi fonti non meno freddi che caldi, e invero di bellezza e di commodità non è un'altra simile in tutto l'Egitto. Io fui in questa città nel tempo che Selim gran Turco passò per lei nel suo ritorno d'Alessandria, ed egli in persona, insieme con i suoi piú favoriti e cari, volle veder questa stufa e mostrò d'averne preso grandissimo piacere.


Anthius città.

Anthius è una bella città edificata da' Romani su la riva del Nilo nella parte d'Asia, e finora si veggono molte lettere latine intagliate sopra tavole di marmo. È civile e fornita di tutte l'arti, e le sue campagne sono buonissime per riso e per grano, e v'ha molte possessioni di datteri. Gli abitatori sono mirabili in bontà e piacevolezza; usano tutti di condur il riso al Cairo, e ne fanno un largo e ottimo guadagno.


Barnabal.

Barnabal è una città antica, edificata sopra il Nilo dalla parte d'Asia; fu fabbricata nel tempo che gli abitatori dell'Egitto divennero cristiani. È bellissima e abbondante, massimamente di riso, e si truovano nella città piú di quattrocento case dove il detto riso si batte, e i battitori sono uomini forestieri e per la maggior parte di Barberia, i quali si stanno quasi sempre nelle delicatezze e nelle lascivie, di modo che tutte le meretrici d'Egitto vengono per tal cagione alla detta città, le quai senza rasoio e forfice lor tagliano i capegli e gli radono insino sopra all'ossa.


Thebe città.

Thebe è una molto antica città edificata sopra il Nilo dalla parte di Barberia. Gli istorici sono tra loro differenti dell'edificatore: alcuni vogliono che ella fusse fabricata da Egizii, alcuni da Romani e altri da Greci, percioché fino al dí d'oggi si truovano in lei molti epitaffi, quale scritto con lettere latine, quale con greche e quale in lingua egizia. Questa città a' nostri tempi non fa piú che trecento fuochi, ma è ornata di belle case, abbondante di grano, di riso e di zucchero, e di alcuni altri frutti detti muse, che sono perfettissimi. E vi sono molti mercanti e artigiani, ma la piú parte degli abitatori coltivano i terreni. E chi va il giorno per la città altro quasi non vede che femmine, le quali certamente non sono men belle che piacevoli. E d'intorno alla città sono molte possessioni di datteri, intanto che non si può veder la città per insino che l'uomo non è appresso le mura. Sonvi eziandio molti giardini di uva, di fichi e di persiche, dei quai frutti gran quantità si porta al Cairo. Fuori ci sono molte vestigia d'anticaglie, di colonne, di epitaffii e di alcune mura fatte di grossissime e lavorate pietre, e mostra esservi stata una grandissima città, tante sono le rovine che si veggono.


Fuoa città.

Fuoa è una città antica edificata dagli Egizii sopra il Nilo dalla parte d'Asia, discosta da Rosetto circa a quarantacinque miglia verso mezzogiorno, bene abitata e civile e abbondantissima. Ha di belle botteghe di mercanzie e d'artigiani, ma le piazze sono strette. E gli abitatori amano la quiete e i piaceri, e le loro mogli hanno tanta libertà che elle si stanno il giorno dove piú gli piace, e la sera ritornano a casa senza niuna questione del marito. E fuori della città è una contrada, o vogliamo dir borgo, dove dimorano le meretrici, la quale è quasi una buona parte di lei. D'intorno sono assaissime possessioni di datteri, e una buona campagna per zucchero, e ancora medesimamente per grano; ma le canne di questo terreno non fanno buon zucchero, ma in luogo di zucchero producono certo mele come sapa, il quale s'adopera per tutto l'Egitto, percioché in lui suol trovarsi poco mele.


Gezirat Eddeheb, cioè l'isola dell'oro.

Gezirat Eddeheb è un'isola dirimpetto alla sopradetta città, ma in mezzo del Nilo. Ha il terreno alto, di modo che si truova nella detta isola ogni sorte di alberi fruttiferi, fuori che olive. In lei sono molti casali e bei palazzi, ma non si possono veder per la spessezza dei datteri e di altri alberi. Il terreno è buonissimo per zucchero e riso, e tutti gli abitatori attendono a lavorare il detto terreno, o a condur le loro robbe al Cairo.


Mechella.

Mechella è una città edificata a' nostri dí da maumettani sopra il Nilo nella parte d'Asia, cinta intorno di triste mura, la quale è benissimo abitata, ma la piú parte degli abitatori sono tessitori di tele o lavoratori di terreno. Sogliono tener grandissima quantità d'oche, e le vendono al Cairo. E intorno alla città sono terreni buoni per grani e lino. E dentro la città è poca civilità e poco intertenimento o pratica d'uomini.


Derotte città.

Derotte è una nobile città edificata al tempo de' Romani sopra il Nilo nella parte d'Africa, né ha alcune mura d'intorno. È bene abitata e adornata di belle case fatte con bellissima forma, e i suoi borghi sono larghi e ripieni di belle botteghe. Ha similmente un bel tempio, e gli abitatori sono ricchissimi, percioché hanno molti terreni di zuccheri: e il comune della città paga l'anno circa a centomila saraffi al soldano, per aver libertà di far detto zucchero. Hanno una grandissima stanza, la quale pare un castello, in cui sono i torcoli e le caldaie dove fanno e cuocono il zucchero, né mai ho veduto altrove tanto numero di lavoratori di cotal cosa: e intesi da uno ministro della comunità che si spende per ciascun giorno nei detti circa a dugento saraffi.


Mechellat Chais.

Mechellat Chais è una città moderna, edificata al tempo dei maumettani sul Nilo dalla parte d'Africa sopra un alto colle, e tutti i suoi terreni sono alti, in modo che le possessioni di questa città servono per vigne, percioché quando cresce il Nilo non può giugnere alle dette possessioni: e la città fornisce il Cairo d'uva fresca quasi per la metà della stagione. In lei è poca civilità, e gli abitatori sono per la maggior parte barcaruoli, percioché poco terreno hanno da coltivare.


La grandissima e mirabile città del Cairo.

Cairo, la cui fama risuona per tutto esser delle maggior e mirabili città che siano nel mondo. Ma io vi narrerò di parte in parte la sua forma e come ella sta, lasciando da parte le menzogne che in diversi luoghi si dicono. E per incominciar dal suo nome, dico il Cairo esser vocabolo arabico, ma corrotto nella comune lingua dell'Europa, percioché dirittamente è detto el Chahira, che tanto dinota quanto "coatrice". E fu questa città edificata a' tempi moderni da un ischiavo schiavone detto Gehoar el Chetib, sí come parmi di aver detto nella prima parte del libro. E vi affermo che 'l Cairo, cioè la città murata, fa circa a 8 mila fuochi, nella quale abitano gli uomini di maggior condizione, dove si vendono le ricchezze che vengono da ogni parte, e dove è il famosissimo tempio detto Gemih el Hashare, cioè il tempio illustre, il quale fu fabbricato dallo schiavo che fabbricò la città, il cui cognome era el Hazhare, cioè lo illustre, ed ebbe questo cognome dal pontefice suo padrone.
La detta città è edificata in una pianura, sotto un monte appellato el Mucattun, discosta dal Nilo circa a due miglia. È cinta di bellissime e forti mura, con bellissime porte ferrate, e le piú famose sono tre: una che è detta Babe Nansre, cioè la porta della vettoria, la quale è di verso levante e verso il diserto del mar Rosso; un'altra è chiamata Beb Zuaila, la quale va verso il Nilo e la città vecchia; e la terza s'appella Bebel Futuh, cioè la porta dei trionfi, la quale conduce verso un lago e certe altre campagne e possessioni. Questa città è ben fornita di artigiani e mercatanti d'ogni sorte, massimamente tutta la strada ch'è dalla porta di Nansre fino alla porta di Zuaila, dove è la maggior parte della nobiltà di lei. Per la detta strada sono alcuni collegi mirabili di grandezza e di bellezza, sí di edificio come di ornamenti, e sono eziandio molti tempii grandissimi e bellissimi, fra i quali è il tempio di Gemith Elhecim, terzo pontefice del Cairo scismatico. Vi sono ancora infiniti altri tempii grandi e famosi, ma non accade a narrarli ad uno per uno. Vi sono similmente molte stufe, fatte con bellissimo disegno di perfetta architettura. V'è una contrada chiamata Beinel Casrain, dove sono alcune botteghe nelle quali si vendono le vivande cotte, e sono circa a sessanta, fornite tutte di vasi di stagno. Ve ne sono certe altre nelle quali si vendono acque fatte d'ogni sorte di frutti, e queste acque sono nel vero molto delicate, onde tutti i nobili sogliono bere di quelle, e quei che le vendono le tengono in certi molto gentili vasi di vetro e di stagno, e molto gentilmente lavorati. Sono appresso altre botteghe dove si vendono confezioni fatte in buona e bella forma, e molto differenti da quelle che si sogliono vender per la Europa, le quali sono di due sorte, cioè di mele e di zucchero. Poi vi sono alcuni fruttaiuoli i quali vendono i frutti che vengono di Soria, come sono pere cotogne, melagrane e altri frutti che non nascono in Egitto. Fra queste hanno luogo diverse altre botteghe, nelle quali si vende pan fritto in olio, uove fritte e cacio fritto. Doppo queste botteghe è una contrada ripiena di diversi artigiani di nobile arte, e piú oltre è il nuovo collegio fatto dal soldano detto Ghauri, il quale fu ucciso nella guerra che fu tra lui e Selin imperador di Turchi. Doppo il collegio sono i fondachi dei panni, e in ogni fondaco sono infinite botteghe. Nel primo vendonsi alcune tele forestiere in tutta perfezione, come sono tele di Bahlabach, cioè le bambagine sottilissime oltr'a modo, e altre tele dette mosal, cioè de Ninou, le quali sono mirabili e di sottilezza e di fermezza, delle quali tutti i gran maestri e persone di riputazione fanno i lor camicioni e gli sciugatoi che portano sopra i dolopani. Oltr'a questi sono i fondachi ne' quali si vendono i piú nobili panni d'Italia, come sono rasi damaschini, velluti, taffettà, broccati e altri, a quai posso affermare di non aver veduto uguali in Italia, dove si fanno. Piú oltre sono i fondachi dei panni di lana, che vengono pure d'Europa, veneziani, fiorentini, fiandresi e d'ogni altro paese. Piú oltre si vendono i ciambellotti e cose tai.
E di mano in mano si giunge alla porta di Zuaila, dove similmente sono infiniti artigiani. Vicino a questa via maestra è un fondaco chiamato Canel Halili, dove alloggiano i mercanti persiani, il quale fondaco pare un palazzo d'un gran signore. È altissimo e fortissimo e fatto in tre solai, e a basso vi sono certe stanze dove li mercanti danno audienza e fanno li baratti di grosse mercanzie, percioché altri mercanti non stanziano in questo fondaco se non quegli che hanno grandissima facultà: e sono le loro merci spezie, gioie, tele indiane, come veli e tai cose. Da un'altra parte della sopradetta via è una contrada dove sono i mercatanti dei profumi, come è zibetto, muschio, ambracane e belzui, i quai odori sono in tanta copia che se tu domandi venticinque libbre di muschio te ne verran mostrate cento. Da un'altra parte della detta via è una contrada dove si vende la carta bella e liscia, e i medesimi che vendono la carta vendono similmente qualche rara e bella gioia, la quale è portata da una all'altra bottega da un sensale che grida il prezzo. Ancora in la detta via maestra vi è una contrata dove stanzano gli orefici, i quai sono giudei e maneggiono di gran ricchezza. Sono eziandio altre contrade in detta via di stracciaruoli, i quali rivendono gran quantità di belli e nobili panni de cittadini e d'uomini di gran stima: né questi sono gabbani né casacche né lenzuola, ma cose mirabili e d'incredibile prezzo, e io fra le altre vi viddi un padiglione tutto fatto ad ago e coperto tutto di sopra da una rete di perle, e dissemi colui che 'l vendeva che quelle perle pesavano quarantacinque libbre, e che 'l padiglione senza le perle fu venduto diecimilla saraffi. E ho veduto molte altre cose mirabili in dette botteghe, che sono simile di questi prezii grandi. È nella detta città un grande spedale, il quale fu edificato da Piperis primo soldano dei Mammalucchi, e ha d'entrata dugentomila saraffi. Ogni infermo può stare in questo spedale con ogni commodità e cura di medici e di ciò che gli fa bisogno per fin ch'ei guarisce; ma se aviene che egli vi muoia dentro, tutta la facultà è dello spedale.


Borgo detto Bebzuaila.

Beb Zuaila è un grandissimo borgo e fa circa a dodicimila fuochi. Incomincia dalle porte di Zuaila e s'estende verso ponente circa a un miglio e mezzo, verso mezzogiorno fino alla rocca del soldano, e verso tramontana circa un miglio fino al borgo chiamato Bede Elloch. E in questo borgo è quasi la medesima nobiltà ch'è nella città; molti hanno botteghe nel detto borgo e case nella città, e cosí per lo contrario. Vi sono molti tempii, monasteri e collegi, massimamente il famoso collegio fabbricato da Hesen soldano, il quale è di mirabil altezza di volti e forte di mura, in modo che tal volta si ribella uno soldano contra l'altro, e a quello di fuori li basta d'animo di fortificarsi nel detto collegio e dar la battaglia alla rocca del soldano, percioché detto collegio è vicino alla detta rocca mezzo tratto di balestra.


Borgo detto Gemeh Tailon.

Gemeh Tailon è un altro gran borgo, il quale confina col sopradetto dalla parte di levante, e s'estende verso ponente insino a certe rovine che sono verso la città vecchia. Il quale borgo fu edificato innanzi il Cairo da un certo Tailon, che fu schiavo o schiavon d'un pontefice di quei di Bagded, e fu locotenente d'Egitto, uomo savio e prudente. Costui lasciò l'abitazione della città vecchia e venne ad abitare in questo borgo, e fecevi fabbricare un grandissimo e mirabilissimo palazzo e un tempio di pari bellezza e grandezza, nel qual vi sono assaissimi artigiani e mercanti, e massime della Barberia.


Borgo detto Beb Elloch.

Beb Elloch è ancora egli un gran borgo, discosto dalle mura del Cairo circa a un miglio; fa circa a tremila fuochi, e sono in lui artigiani e mercanti d'ogni sorte. V'è una piazza grande, dove è un grandissimo palazzo e un mirabile collegio, edificato da un Mammalucco detto Iazbach, il quale fu consigliere d'uno antico soldano: e la piazza è chiamata dal suo nome Iazbachia. Alla qual piazza, poi che è fornita la orazione e la predica, ogni venerdí tutto il popolo del Cairo suol ridursi, percioché nel borgo sono molte cose disoneste, come le taverne e le femmine da partito. Vi si riducono similmente molti ciurmatori, massimamente di quegli che fanno ballare i camelli, gli asini e i cani, cosa in vero molto piacevole, come è dell'asino. Percioché alle volte uno di questi ciurmatori, come ha ballato un poco, parlando con lui gli dice che 'l soldano vuol far una gran fabbrica, perciò gli conviene adoperar tutti gli asini del Cairo per portare la calcina, le pietre e l'altre cose necessarie: allora lo asino subito si lascia cadere a terra e, rivolgendo i piedi al cielo, gonfia il ventre e serra gli occhi, non altrimenti che s'egli fusse morto. Intanto colui si lamenta coi circostanti di aver perduto il suo asino, e gli prega che l'aiutino ricomperarsene un altro; e raccolta la offerta ch'e' può, dice che essi non istimino che 'l suo asino sia morto, percioché il ghiotto, conoscendo la povertà del padrone, finge affine che con i presenti che gli vien fatti possa comperargli della biada. Poi, volto all'asino, gli dice ch'ei levi suso, ma quello non si movendo lo carica di piene e spesse bastonate, né perciò l'asino si muove punto. Onde egli ripiglia la favola e dice: "Signori, io voglio che sappiate che 'l soldano ha fatto bandire che domani tutto il popolo debba uscir fuori del Cairo per veder un suo trionfo, e comanda che tutte le gentil donne e le belle del Cairo cavalchino sopra belli asini, e diano lor mangiare orzo e bere buona acqua del Nilo". Né appena ha il ciurmatore fornito di dire tai parole, che l'asino salta in piede e brava e mostra grande allegrezza. Seguita poi il ciurmatore: "Egli è vero che 'l caporione della mia contrada mi ha dimandato in presto il mio galante asino per servirne una sua vecchia e brutta moglie". A queste parole l'asino, come avesse intelletto umano, piega gli orecchi e incomincia a gir zoppo, fingendo d'essere storpiato. Allora dice il maestro: "Adunque a te piacciono le giovani?" E l'asino chinando il capo pare che dica che sí. "Orsú, - segue colui, - qui ci sono molte giovani, dimostrami quale piú ti piace". L'asino corre fra il cerchio dove è qualche femmina che sta a riguardare, e scegliendo la piú onorevole, a quella se ne va e la tocca col capo. E tutti i presenti gridano con alta voce: "O la madonna dell'asino", per dar la baia a quella donna; a questo il ciurmatore, salito sopra il suo asino, se ne va altrove.
V'è un'altra sorte di ciurmatori, i quali tengono alcuni piccoli uccelletti legati a una cassetta fatta a modo d'una credenza, i quali uccelli col becco cavano fuori i bollettini delle sorti, sí di buono come di cattivo augurio, e quei che vogliono saper la lor ventura gettano un quattrino innanzi all'uccelletto, il quale lo piglia col becco e lo porta dentro la cassa, dipoi torna fuori recando nel medesimo becco un bollettino della risposta: e a me intravenne che mi toccò un bollettino di male, al qual io non detti mente, ma m'intravenne peggio di quello ch'era scritto. Vi sono diversi altri giuocatori di spada, di bastone, di braccia e di tai cose, e altri che cantano le battaglie successe fra gli Arabi e gli Egizii, nel tempo che gli Arabi acquistarono lo Egitto: e sono infinite le pazzie e favole che si cantano.


Borgo detto Bulach.

Bulach è un grandissimo borgo, discosto dalla città murata circa a due miglia; ma per tutta la strada si truovano case e mulini che macinano per forza di bestie. E questo borgo è antichissimo, edificato su la riva del Nilo; fa circa a quattromila fuochi, e sono in lui molti artigiani e mercanti, massimamente di grano, d'olio e di zucchero. Nel detto borgo sono eziandio di belli tempi, case e collegi di studenti, e bellissime sono le case fabbricate sopra il Nilo. Ed è un gran piacere mentre si sta sopra le finestre delle dette case a vedere i navili che vengono pel Nilo al porto del Cairo, che è in questo borgo: e tal volta l'uomo vede un migliaio di burchi nel detto porto, spezialmente alla stagione della raccolta del grano. E quivi si stanno i gabellieri diputati sopra le robbe che vengono di Alessandria e di Damiata, benché poco vi si paga, avendosi già pagato la dogana su la marina; ben è vero che le merci che vengono d'Egitto pagano intera gabella.


Borgo detto Charafa.

Charafa è un borgo a guisa d'una piccola città, vicino al monte una tirata di mano, e discosto dalla città murata circa a due miglia e dal Nilo circa a un miglio. Fa circa a duemila fuochi, e oggidí è quasi la metà distrutto. Si veggono in lui molte sepolture d'alcuni uomini, dallo sciocco volgo tenuti santi, le quali sono fatte in volti bellissimi e altissimi, e di dentro ornate di varii lavori e colori, e coperte in terra e le mura di tappeti finissimi: a queste ogni venerdí mattina molti vengono dal Cairo e dagli altri borghi per cagione di divozione, lasciandovi molte limosine, ogni venerdí.


La città vecchia detta Misrulhetich.

Misrulhetich è la prima città che fu edificata nell'Egitto al tempo dei maumettani, da Hamre, capitano di Homar secondo pontefice, la quale fu edificata sopra il Nilo. Non è cinta di mura, ma fatta a modo d'un gran borgo che s'estenda sul Nilo; fa circa a cinquemila fuochi. Sono in lei molti palazzi belli e alti, massimamente quelli che riguardano sopra il Nilo, e v'è un tempio molto nobile, detto il tempio di Hamr, il quale è stupendo sí di bellezza e di grandezza come di fortezza. Di artigiani di varie e di diverse arti la città è a bastanza fornita.
Quivi è quella famosa sepoltura della santa femmina, tanto dai maumettani riverita, chiamata santa Nafissa, la quale fu figliuola d'uno chiamato Zeinulhebidin, figliuolo del Husein figliuolo di Heli, fratello consobrino di Maumetto. Costei, veggendo la sua casa esser privata del pontificato dai medesimi suoi parenti, disperata si partí da Cufa, città nella Arabia Felice, e fece la sua abitazione in questa città, onde, tra per essere ella della casa di Maumetto, e tra perché assai onesta vita menava, doppo la sua morte fu dal volgo riputata santa. Perciò, nel tempo che regnarono nell'Egitto i pontefici eretici parenti di questa donna, fu a questa santa donna fabbricata una bellissima sepoltura, la quale si tiene oggidí adorna di lampade di argento, di tappeti di seta e di cose tai. E tanta è la fama di questa loro Nafissa, che non è maumettano, mercante o altro, che venghi al Cairo per mar o per terra, che non vadi a onorar la sua sepoltura, tutti faccendo le loro offerte; e il simil fanno tutti gli abitatori circonvicini, di maniera che queste limosine giungono l'anno a centomila saraffi, i quali sono dispensati a' poveri della casa di Maumetto e a quegli che hanno cura del governo della detta sepoltura, i quali ogni giorno con mentiti miracoli che fa quel corpo santo accendono gli animi de' semplici a vie maggior divozione, e piú all'allargar la mano nell'utile loro. Nell'entrata di Selin gran Turco nel Cairo, i ghiannizzeri saccheggiarono questa sepultura, e trovarono cinquecentomila saraffi che erano serbati in danari contanti, senza le lampade d'argento, le catene e i tappeti: egli è vero che Selin ve ne fece ritornare una gran parte. Quelli che hanno scritto le vite dei santi macomettani non fanno menzion alcuna di questa donna chiamata Nafissa, ma dicono che fu onesta e casta e nobile, della casa di Heli; ma il semplice volgo ha trovato questi tanti miracoli, e cosí quelli che serveno a quel maledetto sepolcro.
Sopra il detto borgo, appresso il Nilo, è la dogana delle mercanzie che vengono da Sahid. Fuori della città murata sono belle e magnifiche sepolture dei soldani, fatte a guisa di volti grandi. E un soldano che fu a' tempi moderni fece fare un corridore fra due alti muri, il quale incomincia dalla porta della città e viene per insino al luogo dove sono le sepolture, e nei capi dei detti muri sono due torrioni altissimi, dove sta una guardia per li mercanti che vengono dal porto di monte Sinai. Discosto da queste sepolture circa a un miglio e mezzo sono i terreni chiamati Almathria, dove è il giardino dell'unico albore che produce il balsamo, percioché in tutto il mondo altra non v'è che questa sola pianta. Ella è piantata nel mezzo d'una fonte a modo d'un pozzo; non è molto grande, e le sue foglie sono come sono quelle della vite, ma piccole: e, come io ho udito dire, se l'acqua della fonte venisse meno la pianta si seccarebbe. Il giardino dove ella è è tutto cinto di forti mura, né vi si può andare se non per via di grandissimo favore, o con qualche dono ai guardiani.
In mezzo del Nilo, dirimpetto alla città vecchia, è un'isola detta el Michias, cioè la misura, perché si vede la misura segnata del Nilo, con il crescer del quale si sa l'abbondanza o la carestia che ha da esser nell'Egitto: ed è una sperienza che non erra già mai, trovata dagli antichi Egizii. La detta isola è bene abitata e fa circa a millecinquecento fuochi. Nel capo è un bellissimo palazzo, fabbricato da un soldano che fu a' dí nostri, e appresso un tempio assai grande e allegro, per esser sopra il fiume. Da uno de' lati c'è una stanza separata e serrata, nel cui mezzo sotto un scoperto è una fossa quadra, la quale ha di profondo diciotto braccia: e in una parte del profondo è un acquedutto, che va di sotto la terra e risponde alla riva del Nilo. In mezzo della fossa è piantata una colonna, divisa e segnata in altretante braccia quante è profonda la fossa, cioè 18: e quando il Nilo incomincia a crescere, che è alli 17 de giugno, entra di subito l'acqua del detto acquedutto e ne va alla fossa, e quivi alcun giorno crescerà due dita, altro tre e altro mezzo braccio. Onde a questa colonna vengono ogni dí gli uomini diputati e, veggendo quanto è cresciuto il Nilo, lo dicono a certi fanciulli che portano una tovaglia gialla sopra il capo per segno, i quali sono tenuti di publicar quella quantità per tutto il Cairo e per li suoi borghi, e pigliano presenti da tutti gli artigiani, mercanti e donne, ogni dí fin che il Nilo cresce. La sperienza è che, quando il fiume cresce a quindici braccia della colonna, è tutto quell'anno abbondantissimo; se sciema da quindici a dodici, sarà mediocre raccolta; e se giunge da dodici fino a dieci, dimostra che 'l grano dee valere dieci ducati il moggio. Ma se 'l detto fiume passa da quindici insino a diciotto, annunzia alcun danno per la moltitudine dell'acqua, e avanzando i diciotto è gran pericolo d'affogar tutte le abitazioni dell'Egitto: gli uficiali annonzian tal segno, e li fanciulli deputati vanno gridando: "O popolo, temete Iddio, perché l'acqua arriva alla summità degli argini che tengono il fiume". E allora il popolo si comincia a spaventare, e fanno orazioni ed elemosine.
E cosí il Nilo va crescendo per quaranta dí e altretanti va calando, di maniera che con tanto flusso d'acqua si truova qualche carestia di vettovaglie: perciò, fra questo crescer e dicrescere, ciascuno ha libertà di venderle come a lor piace; pur usano discrezione. Ma come sono passati li 80 giorni, il consolo della piazza limita il prezzo delle vettovaglie, massime del pane, la qual limitazion fa una volta sola l'anno, perché secondo il crescer del Nilo gli uficiali sanno li paesi che sono bene adacquati, e quelli che ne hanno di superchio, e quelli che mancano, secondo la diversità dell'altezze e bassezze delli loro terreni, e secondo quello fanno il prezzo del grano. E in capo di cotali giorni si fa una grandissima festa nel Cairo, con suoni, gridi e tante sorte strumenti che par che la città vadi sottosopra; e cadauna famiglia piglia un burchio, e lo adornano con panni finissimi e bellissimi tappeti, e portano seco carne d'ogni sorte in grande abbondanza e confezioni con bellissimi torchi di cera, e tutto il popolo si truova in barca, sollazzandosi secondo la loro qualità. E il soldano medesimo con tutti li suoi principali signori e uficiali vi viene, e se ne va ad un canale detto il maggior, ch'è murato, e il soldano piglia una scure in mano e rompe il muro, e li suoi primarii fanno il simile, di modo che, essendo rotta quella parte del muro che impediva l'acqua, subito il Nilo entra dentro con gran furia e va per il detto canale, e poi si parte per altri canali e passa per tutti li canali delli borghi e anco della città, in modo che quel giorno il Cairo è simile alla città di Venezia, che si può andare per barca per tutte le abitazioni e luoghi d'Egitto. E dura questa festa 7 dí e 7 notti, in modo che quello che un mercante o artigiano si guadagna in tutto l'anno, se lo spende in quella settimana in pasti, confezioni, torchi e profumi e musiche: e questa è una delle reliquie delle feste degli antichi Egizii.
Fuori del Cairo, nel confino del borgo di Bebzueila, è la rocca del soldano, edificata su la costa del monte Mochattan, la qual rocca è cinta di alte e forti mura, e ha d'intorno quivi belli e maravigliosi palazzi, che non si possono descriver perfettamente, i pavimenti dei quali sono di marmi di diversi colori e mirabilmente lavorati, e i cieli delle sommità sono tutti d'oro e di finissimi colori dipinti. Le finestre sono di vetro di varii colori, come ne veggiamo in alcuni luoghi d'Europa, e le porte sono di bellissimi legni intagliati con mirabili lavori, e adorne d'oro e di colori. E questi palazzi erano diputati quale per la propria famiglia del soldano, quale per la moglie, quale per le sue concubine, quale per gli eunuchi e quale per la guardia. E ve ne sono alcuni dove il soldano soleva fare i conviti publici, o dare udienza agli ambasciatori e mostrar la sua pompa con gran cerimonie, e altri per gli uficiali deputati al governo della sua corte. Ma tutti questi ordini al presente sono stati levati via e annichilati da Selim gran Turco.


Costume, abito e usanza degli abitatori del Cairo e de' suoi borghi.

Gli abitatori del Cairo sono comunemente uomini molto piacevoli, buoni compagni e di allegra vita, ma larghi nelle promesse e stretti ne' fatti. Sogliono esercitarsi nelle mercanzie e nelle arti, ma non si dipartono dal loro paese. Ci sono molti che attendono agli studii delle leggi, pochissimi a quegli dell'arti, e come che i collegi siano sempre pieni di scolari, poco nondimeno è sempre il numero di coloro che faccino profitto. Gli abitatori vanno ben vestiti nell'inverno con panni di lana e certe veste piene di bambagio; nella state con certi camicioni di tele sottili, e di sopra qualche altro abito di tela tessuta con seta vergata di colore, alcuni ciambellotti, e sopra il capo turbanti grandi di veli che vengono d'India. Le donne vestono riccamente e vanno molto superbe di gioie, le quali portano in certe ghirlande sopra la fronte e d'intorno al collo, e in capo alcune cuffie di gran prezzo strette e lunghe come un cannone alto un palmo. I lor drappi sono certe gonne d'ogni sorte di panno, con maniche strette e molto sottilmente lavorate e con bei ricami, d'intorno alle quali usano alcune lenzuola di finissima e liscia tela di bambagio, che viene recata d'India. Sopra la faccia portano un certo drappicino negro e sottilissimo, ma alquanto ha dell'aspretto e par fatto di capelli, sotto il quale esse veggono gli uomini, né possono essere da lor vedute. Ne' piedi portano borzacchini e certe scarpe bellissime alla turchesca. E tengono queste femmine tanta pompa e reputazione che niuna si degna di filare né di cucire né di cucinare, onde il marito convien comprar ogni cosa cotta dalli cuochi fuor di casa, e sono pochi quelli che faccino cuocere in casa, se non han gran famiglia. Hanno eziandio queste donne gran libertà e auttorità, percioché, come el marito è andato alla sua bottega, la donna si veste e si profuma con odori preziosi e va a spasso per la terra a visitar li suoi parenti o amici per parlar onestamente. E usano non cavalli ma asini, i quali hanno un portante suave e delicato come le chinee, percioché a questo i loro padroni gli avezzano, i quali gli tengono forniti di bellissimi drappi, e gli danno parimente a vettura a sí fatte donne, aggiuntovi un loro garzone per guida e istaffiere. E vi sono infinite persone che non anderebbono un quarto di miglio se non a cavallo.
In questa città, come in molte, vanno il dí infiniti uomini d'intorno vendendo diverse cose, come sono frutti, cacio, carne cruda e cotta e sí fatti cibi. Vi sono anco molti che portano sopra a camelli some di grossi utri pieni d'acqua, percioché la città, come io dissi, è discosta dal Nilo due buone miglia. Altri sono che portano un otre in collo molto ornato, con una cannella di ottone nelle braccia e in mano una tazza damaschina fatta con bei lavori, e va gridando l'acqua, e chi beve paga mezzo quattrino di quella moneta. Vanno eziandio per la città molti che vendono un numero infinito di polli, i quali sogliono dare a misura, percioché usano un modo mirabile a fargli nascere, il quale è che, pigliando uno di costoro mille uova e piú, le pone tutte insieme in certi fornelli fatti in molti solai, e nell'ultimo è un buco: sotto questi fornelli si suole fare un fuoco temperato, e in capo di sette giorni i polli cominciano a nascere in molta fretta. E questi maestri li raccogliono in certi vasi grandi e li vendono a misura, e usano di far certe misure senza fondo, quali pongono in la sporta del compratore e le empiono di polli piccolini, e come sono piene le alzano, e i polli rimangono senza votarli nella sporta. Questi compratori, dapoi che gli hanno allevati alquanti giorni, gli vanno vendendo per la città, e questi maestri che li fanno nascere pagano un gran dazio al soldano. Gli artigiani che vendono le cose da mangiare tengono le loro botteghe aperte insino a mezzanotte; gli altri tutti innanzi a ventitre ore le serrano, e vanno da un borgo all'altro pigliando diporto e sollazzo per la città.
Nel parlare sono i medesimi abitatori molto disonesti, e per tacer delle altre disonestà loro, non poche volte aviene che la moglie si lamenta al giudice che 'l marito non fa il convenevole uficio suo ogni notte, nei congiungimenti di Venere, onde spesso ne nascono le separazioni e il pigliare altri mariti, come si concede nella legge di Maumetto. Gli artigiani, quando aviene che alcun di lor mestiero faccia qualche bel lavoro nuovo e ingenioso, non mai piú veduto, vestono colui d'una casacca di broccato e lo menano per tutte le bottege, accompagnato da diversi sonatori, come se 'l trionfasse, e ciascuno gli dona qualche moneta. E io viddi un giorno uno condotto con tal suoni che andava trionfando per aver fatto una catena ad uno pulice, lo qual mostrava sopra una carta. Nelle altre cose i detti abitatori sono di poco animo, né tengono arme di sorte alcuna nelle lor case, e appena vi si truova un coltello per uso di tagliare il cacio. E se fanno alle volte quistione, giuocano di pugna, e gli correno i centenari di uomini a vedere, né si parteno fin che non hanno fatta la pace.
Il cibo piú usato è carne di buffolo e gran quantità di legumi, e quando mangiano, se la famiglia è poca, distendono un mantile corto e tondo, e se è molta lungo, come si usa nelle corti. Vi è una religione de mori che usano mangiar carne di cavallo, e come si storpia un cavallo, gli beccai di costoro lo comprano e ingrassato amazzano, e la carne sua si vende in furia: e questa tal religione è chiamata el chenefia. Li Turchi e Mammalucchi e la maggior parte dell'Asia sono di tal setta, e ancor che questa tal cosa sia lecita a' Turchi, pur non la usano di fare.
Nel Cairo e per tutto l'Egitto si truovano quattro religioni, una differente dall'altra in le cerimonie della legge spirituale, nelli consigli della civile e canonica: ma tutte hanno il suo fondamento sopra la scrittura macomettana, perché dovete sapere che anticamente furono quattro valenti e dotti uomini, quali con loro sottil ingegno trovorono modo di far terminar le cose particolari sotto le cose universali scritte da Macometto, e ognun di loro interpreta e tira la detta scrittura a suo proposito, per il che sono molto differenti nelle opinioni. Costoro, avendo acquistato gran credito per la somma existimazione che si faceva delle loro regole, furono capi e principio delle dette quattro religioni, di maniera che tutti li popoli macomettani seguitano la via dell'uno o dell'altro. E come hanno presa la opinion d'una di queste tal religioni, non possono lasciarla né accostarsi all'altra, se non sono uomini dotti e che intendino e cognoschino le ragioni.
Nella città del Cairo sono quattro che si chiamano capi di giudici, quali giudicano le cose d'importanza, e sotto questi quattro capi vi sono infiniti giudici, di sorte che per ogni contrada si truovano due o tre giudici per le cose di manco momento, e se un litigante è d'una religione e l'altro dell'altra, quello che cita e chiama prima il suo adversario al suo giudice, a quello si vanno; ma l'altro si può appellar poi ad un altro capo ordinato sopra li detti quattro capi di giudici, e questo capo è il giudice della religione chiamata essafichia, che ha suprema auttorità sopra li detti quattro capi e sopra tutti gli altri giudici. Se una persona d'una religione fa alcuna cosa proibita nella sua religione, il suo giudice lo castiga gravemente. Al medesimo modo sono li sacerdoti di dette religioni differenti fra loro, sí nel far l'orazione come in molte altre cose. e ancor che siano differenti queste quattro religioni, non però si portano odio over hanno inimicizia l'una con l'altra, e massimamente il volgo; ma gli uomini d'intelletto e che hanno studiato vengono spesso a parole, argomentando l'un con l'altro in cose particolari, volendo difender e provar che la regola del suo dottor, qual seguitano, sia la migliore. Ma non però possono dir male d'alcun delli sopradetti quattro dottori, perché sarian puniti gravemente di pena corporale. In la fede veramente tutti sono equali, perché tengono la via e regola del Hashari, capo di tutti li teologi, e la regola di costui si osserva per tutta l'Africa e per l'Asia, eccetto dove signoreggia il Sofi, che quelli popoli non osservano la detta regola del Hashari né alcuna delle quattro religioni, e per questo vengono reputati eretici. Lunga e fastidiosa cosa saria s'io volesse al presente esplicar le ragioni delle quali è processa tanta differenza de opinioni fra li detti quattro dottori; ma avendole io scritte in una mia opera molto longa sopra la fede e legge di Macometto, seguendo la dottrina del Malichi, che fu uomo di grande ingegno e dottrina nasciuto in la città de Medina Talnabi, dove è il corpo di Macometto, la qual dottrina è seguita da tutti gli abitanti l'Egitto, Soria e Arabia, però, se alcun si deletterà di saperne piú particolarità, legga detta mia opera, dove apieno sarà satisfatto.
Le pene che si danno a' malfattori sono gravi e crudeli, massimamente quelle che si danno nella corte. Chi rubba è impiccato, e chi fa un omicidio a tradimento ha la sua punizione in questa guisa: l'uno dei ministri del boia lo tiene per ambi e' piedi e l'altro lo piglia pel capo, e il giustiziere con una spada da due mani lo taglia in due parti. La parte dove è il capo esso dipoi subito pone sopra un focolare pieno di calcina viva: egli è cosa mirabile e spaventosa a dire che quel busto vive lo spazio d'un quarto d'ora, parlando sempre e rispondendo a chi gli dimanda. Gli assassini o rubelli si scorticano vivi, ed empiendo la pelle di crusca, la cuseno in modo che 'l pare un uomo, e quello posto sopra un camello lo menano per tutta la città, publicando il male che egli ha commesso.
E questa è la piú crudel giustizia ch'ho veduto pel mondo, percioché l'uomo assai pena a morire; ma se il carnefice giunge all'umbilico col ferro, egli di subito muore: ma non può ciò fare se non è di espresso ordine dei superiori. Quelli che sono nelle prigioni per cagione di debito, se essi non hanno da pagare, il capitano delle prigioni sodisfa al creditore in loro cambio e tiene quei miseri incarcerati, mandandogli ogni giorno, con le catene al collo e accompagnati da alcuni garzoni, per la città accattando limosina, la quale perviene in lui, lasciandogliene tanta parte che appena ei si può vivere miseramente. Vanno similmente per la città alcune donne vecchie gridando, né si sa quello che esse si dicano, ma il loro uficio è di tagliar la punta della cresta della natura delle femmine, cosa lor comandata da Maumetto, ma non osservata se non in Egitto e in Soria.


Come si crea il soldano, e l'ordine di gradi e ufici della sua corte.

La dignità e potenza del soldano già era grande e maravigliosa, ma fu privata da sultan Selin imperadore dei Turchi gli anni di Cristo, se io non m'inganno, MDXVII, e furon mutati tutti gli ordini e le regole dei soldani. Ma, per avermi io trovato nell'Egitto poco dipoi di questi mutamenti, nel quale fui tre viaggi, m'è parso convenevole della corte che tenevano i detti soldani dire alcuna cosa. Soleva essere eletto a questo grado e dignità di soldano un de' piú nobili Mammalucchi, e questi Mammalucchi erano tutti cristiani rubbati piccoli fanciulli da' Tartari nella provincia detta Circassia sopra il mar Maggiore e venduti in Caffa, di dove menati da mercanti al Cairo, erano comperati dal soldano, il quale, subito fatto loro rinegare il battesmo, gli faceva ammaestrare nelle lettere arabiche e nella lingua turchesca e nel mestiero dell'arme, onde essi di mano in mano salivano nei gradi e nelle degnità, per insino che pervenivano a questa maggioranza. Ma sí fatto costume, cioè che 'l soldano sia Mammalucco e schiavo, non si è servato se non da 250 anni in qua, cioè doppo che mancò la casa del valoroso Saladino, la cui fama è nota per tutto.
Nel tempo che l'ultimo re di Gierusalem voleva occupare il Cairo, qual già, per la imprudenza e viltà del califa over pontefice che solo il governava, era per farsi tributario, i dottori e giudici con consentimento del detto pontefice mandoron a chiamar un principe in Asia de una nazion detta Curdu, popolo che, come fanno gli Arabi, abitava ne' padiglioni, el qual principe si chiamava Azedudin, e un suo figliuolo, detto Saladin, volendo far un capitano general contra detto re di Gierusalem. Questo principe venne con cinquantamila cavalli, e ancora che Saladino fusse giovane, nondimeno per la gran valorosità che in lui si vedeva lo creorono capitano, con auttorità di riscuoter e spender tutte l'intrate dell'Egitto. Costui, ordinati li suoi eserciti, andò contro a' cristiani, de' quali ebbe presta vittoria, e scacciolli di Gierusalem e di tutta la Soria. Tornato dapoi al Cairo, si messe in animo di farsi signore, onde amazzò li capi delle due guardie del califa, le quali erano di due diverse nazioni, cioè de negri della Etiopia e di schiavoni, e questi capi governavan tutto lo stato. Il califa, vedendosi esser rimaso senza difesa, volse far attossicar il Saladino, ma lui, accortosene, lo fece morire e subito mandò a dar obedienza al califa di Bagadet, che era il vero. Allora il califa del Cairo, che era scismatico e aveva regnato 230 anni, mancò e restò solo il califa di Bagadet, ch'è il vero pontefice. Levato via questo scisma de' califi o vero pontefici, nacque discordia fra il soldan di Bagadet e il Saladino, qual si fece soldan del Cairo, percioché quel di Bagadet, qual è d'una nazion d'Asia e già il signore di Mazangran ed Evarizin, che sono due provincie sopra il fiume Ganges, pretendeva che 'l Cairo fusse suo; e volendoli far guerra fu intratenuto da' Tartari, i quali, venuti nel Corasan, gli erano molto molesti.
Dall'altra parte il Saladino dubitava che i cristiani venissero nella Soria per far vendetta dell'oltraggio da lui ricevuto, e le sue genti altre erano state uccise nelle guerre, altre tolte dalla pestilenza e altre erano ai maneggi e governi del regno: e di qui nacque la cagione che egli incominciò a comperar degli schiavi di Cercassia, che allora li re d'Armenia usavan di pigliar e mandar a vender nel Cairo, e li faceva renegar e imparar il mestiero dell'armi e la lingua turchesca, che era quella del Saladino, i quali schiavi accrebbero in valore e tanto numero, che egli si trovava di loro e buoni soldati ed espertissimi capitani e ministri di tutto il regno. Morto il Saladino, lo stato rimase nella sua casa centocinquanta anni, e i suoi successori servarono pure il costume di comperar de' detti schiavi, laonde, mancata la casa del soldano, gli schiavi elessero per loro signore e soldano un Mammalucco di molto pregio, il cui nome fu Peperis. E questa usanza dipoi sempre si tenne, di modo che 'l figliuolo del soldano non poteva ascender nella dignità, né meno un Mammalucco che non sia stato cristiano e dipoi rinegato, e che non sappia la lingua di Cercassia e la turchesca. E furono molti soldani che mandorono i suoi figliuoli piccoli in Cercassia per imparar quella lingua e costumi rustichi, acciò che fussero abili ad esser soldani, ma questo loro desiderio mai non ha avuto effetto, perché li Mammalucchi non hanno voluto consentire. Questo è il successo dell'istoria del regno de' Mammalucchi e dei lor principi chiamati soldani fino alli presenti tempi.


Eddaguadare.

Questa appresso il soldano era la seconda dignità, a cui egli dava auttorità di comandare, di rispondere, di dar gli ufici e rimovergli e ordinare, poco meno che la sua persona. E tiene una corte non molto differente da quella del soldano.


Amir cabir.

Cotesta era la terza dignità, e chi la possedeva era come un general capitano: faceva gli eserciti e gli moveva contra gli Arabi e nimici, ponendo castellani e governatori per le città, e aveva libertà di spendere i tesori in tutte le cose che gli parevano necessarie.


Nai bessan.

Questo era il quarto ministro, ed era nella Soria il vice soldano: amministrava quello stato, e riscoteva e spendeva l'entrate d'Assiria come gli piaceva. È vero che i castelli e le rocche erano tenute per castellani fatti dal soldano, e il detto ministro era obbligato di dare a esso soldano alquante migliaia di saraffi per qualunque anno.


Ostadar.

Il quinto era il maestro del palazzo del soldano, il quale aveva cura di tener la persona del soldano e la famiglia forniti di vettovaglie e di tutti gli ornamenti e cose necessarie. E sogliono li soldani metter qualche uomo vecchio delli suoi onorati, che l'abbi allevato da piccolo e sia virtuoso.


Amiri achor.

Il sesto teneva il carico di fornir la corte di cavalli e di camelli e dei lor fornimenti e vettovaglie, e compartivagli fra la famiglia della corte secondo la qualità e il grado di ciascuno.


Amiralf.

Questo settimo era tenuto da certi gran Mammalucchi, i quali erano sí come sono nell'Europa i colonnelli; ogniun di loro era capo di mille Mammalucchi, e sono molti, e questi avevano auttorità d'ordinar le battaglie e trattar l'arme del soldano.


Amirmia.

Nell'ottavo erano alcuni, ciascun de' quali soprastava a cento Mammalucchi; e quando cavalcava il soldano sempre gli andavano d'intorno, cosí quando egli faceva alcun fatto d'arme.


Chazendare.

Nel nono era il tesoriere, il quale teneva il conto dell'entrate del regno, riscotevale e assegnavale al soldano; e metteva in mano di banchieri quel danaio che si dovea spendere, il resto teneva nella rocca del soldano.


Amirsileh.

Costui nel decimo grado aveva cura dell'arme del soldano, delle quali n'era guardiano, e tenevale serrate in una gran sala, faccendole pulire e rinovare secondo il bisogno; e per governo delle dette arme lo servivano molti Mammalucchi.


Testecana.

Questo testecana nell'undecimo grado aveva carico di governar le vesti del soldan, consegnate a lui dal maestro del palazzo, e dispensavale secondo l'ordine del signore, percioché il soldano soleva vestir ciascuno a cui dava dignità: le vesti erano di broccato o di velluto o di raso. E costui per strada sempre andava accompagnato da molti Mammalucchi.
V'erano altri ufici, come serbedare, ch'era uno che aveva la cura del bere del soldano, tenendo certe acque gentili di zucchero e altre acque composte. V'erano i farrasin, cioè diversi camerieri, i quali avevano non men carico di tenere ornate le stanze del soldano di panni di razzo e di tappeti, che delle candele e dei torchi di cera che s'abbruciavano, le quali erano incorporate con ambracane, onde servivano per lumi e per profumi odoriferi. V'erano i sebabathia, cioè gli staffieri; vi sono altri chiamati taburchania, che sono li allabardieri che stanno appresso il soldano quando cavalca e dà audienza; li addavia, che stanno avanti il carriaggio del soldano quando sta in campagna over è in viaggio: e di costoro si elegge il boia quando ei manca, e ogni fiata che fa il suo uficio sopra alcun malfattor lo vanno a compagnare per imparar il mestiero, e massime di scorticare gli uomini vivi, overo quando si dà tormento per fargli confessare. Vi sono gli esuha, li quali portano le lettere del Cairo in Soria, e vanno a piedi faccendo ogni giorno sessanta miglia, per non vi esser né monte né luoghi fangosi ma sola arena fra l'Egitto e Soria: ma quelli che portano lettere di maggior importanza cavalcano camelli.


Soldati del soldano.

I soldati del soldano erano divisi in quattro parti. I primieri s'appellavano caschia, cioè i cavalieri, e costoro erano uomini eccellentissimi nel maneggio dell'armi: e di questo numero creava il soldano i castellani e i capitani e governatori delle città. Alcuni avevano provisione dalla camera del soldano in danari contanti, e altri possedevano l'entrate di villaggi e castelli. I secondi erano detti eseifia, e questi erano fanti a piè, che altra arma non portavano che la spada; il loro salario se ne veniva pure dalla camera del signore. I terzi si addimandavano el charanisa, cioè quelli che hanno la spettativa, i quali sono oltra il numero dei soldati provisionati, né altro avevano che le spese: e come muore un Mammalucco provisionato, costoro entrano in suo luogo. Erano chiamati gli ultimi soldati el galeb, e questi erano i Mammalucchi di nuovo venuti, i quali non avevano ancora cognizion della lingua turchesca né moresca, né avevano fatto prodezza alcuna.


Uficiali deputati al governo delle cose piú universali. Nadheasse.

Questo era come un camarlingo, il quale aveva carico d'affittar le dogane e le gabelle di tutto lo stato del soldano, e l'entrata assegnava al tesoriere. Ancora nel Cairo egli in persona faceva l'uficio di doganiere, e in ciò guadagnava centinaia di migliaia di saraffi. Egli è vero che nessuno poteva entrare a questo maneggio se prima non pagava al soldano centomila saraffi, i quali poi ricoverava in sei mesi.


Chetebeessere.

Era costui il segretario, il quale, oltre il comune uficio di dettar le lettere e brievi, rispondere a nome del soldano, teneva particolar conto eziandio di tutto il censo del terreno d'Egitto, e raccoglie l'entrata da molti che sono suoi sudditi.


Muachih.

Questo era il secondo segretario, di manco condizione ma piú fedele al soldano, il quale aveva cura di rivedere i brievi scritti dal primo, se erano conformi alle comissioni del soldano, e poi notava nel luogo bianco lasciatogli dal scrittore il nome del soldano. Ma il detto primo secretario tien molti abbreviatori, che sono tanto pratichi di scriver detti brievi che rare volte el muachih truova cosa da cancellare, tanto sono esercitati in questo mestiero.


Muhtesib.

Questo era sí come un consolo, o diciamo capitano della piazza, il quale era sopra i prezzi del grano e di tutte le cose che si mangiano, accrescendogli e calandogli secondo il numero de' navilii che vengono di Sahid e da Rif, e ancora secondo l'accrescimento del Nilo, e faccendo a' trasgressori patir quelle pene che erano ordinate dal soldano. Io intesi, quando fui nel Cairo, che questo capitano cavava per ciascun giorno dal detto uficio circa a mille saraffi, non solamente dal corpo del Cairo, ma di tutte le città e luoghi d'Egitto, ne' quali mette suoi soprastanti e vicari, e gli sono tributari.


Amir el cheggi.

Questo era uficio non men di gran dignità che di gran carico, e davasi dal soldano al piú sufficiente e piú ricco Mammalucco che egli avesse. Era costui capitano della carovana che andava una volta l'anno dal Cairo alla Mecca: non poteva egli fare cotale uficio senza molta spesa, volendo andarvi con pompa e commodità, e menava per custodia della detta carovana in sua compagnia molti altri Mammalucchi; e stavano tre mesi nell'andar e tornare, né si potria dir il gran travaglio e spesa che avea detto capitano, senza utilità né dal soldano né da quelli della carovana.
V'erano altri ufici di poca importanza, che non fa di mestiero raccontargli.


Geza città.

Geza è una città sopra il Nilo, dirimpetto alla città vecchia, e l'isola la separa dalla detta città. È bene abitata e civile, e sono in lei di bei palazzi fatti fabbricar da gran Mammalucchi a lor diletto, fuori della gran turba del Cairo. Vi sono ancora molti artigiani e mercanti, massimamente di bestiami menati dagli Arabi, i quali conducono da' monti di Barcha, e li rincresce di fargli passare il fiume con le barche, e per tanto ivi sono mercanti che li comprano e poi rivendono a beccai del Cairo, che vengono a questo effetto. Sopra il fiume è il tempio della città e altri belli e dilettevoli edifici; d'intorno alla città vi sono giardini e possessioni di datteri. Vengono alla detta città per loro bisogne dal Cairo diversi artigiani, i quali poi ritornano la notte alle lor case. E chi vuole andare alle piramidi, le quali sono sepolture d'antichi re d'Egitto, che dove sono si chiamava Memphis anticamente, per questa città è la dritta via. Ma da lei insino alle piramidi tutto è diserto di arena, e vi sono molte pozze d'acqua fatte nello accrescer del Nilo; tuttavia con buona guida e bene esperta del paese puossi andare con poco disconcio.


Muhallaca.

Muhallaca è una piccola città discosta dalla città vecchia circa a tre miglia, edificata sul Nilo nel tempo degli antichi Egizii, la quale ha di belle case ed edifici, come ha il tempio ch'è sopra lo istesso Nilo. D'intorno sono molte possessioni di datteri e di fiche egizie. Gli abitatori tengono quasi i medesimi costumi di quegli del Cairo.


Chancha.

Chancha è una gran città edificata nel principio del diserto che va a Sinai, discosta dal Cairo circa a sei miglia, nella quale sono di belle case, di belli tempii e collegi; e fra lei e il Cairo per tutti sei miglia sono molti giardini di datteri. Ma da questa città insino al porto di Sinai non si truova alcuna abitazione, e c'è di spazio circa a cento e quaranta miglia. Gli abitatori sono ricchi assai, percioché, quando si parte la carovana per andare in Soria, qui si raccogliono le brigate, comperando diverse cose, le quali vengono dal Cairo percioché, fuor che i datteri, altro nel suo terreno non nasce. In lei sono due vie maestre, l'una per cui si va in Arabia e l'altra per cui si va in Soria. Né v'è altra abbondanza d'acqua che quella che rimane nei canali quando cresce il Nilo, e se rompono i canali, quell'acqua corre per li piani e fa certi laghetti, e dipoi viene alla città per certi aquedutti ed entra nelle conserve.


Muhaisira.

Muhaisira è una piccola città edificata doppo il Cairo sopra il Nilo, ed è discosto dal Cairo circa a trenta miglia verso levante, dove nasce gran quantità di sesamo, e sono nella detta molte mole, le quali lavorano in fare olio de' grani del detto sesamo. Tutti gli abitatori sono lavoratori di terreno, eccetto alcuni che tengono botteghe.


Benisuaif.

Benisuaif è una piccola città edificata sul Nilo nella parte d'Africa, discosta dal Cairo circa a centoventi miglia. Ha d'intorno una grandissima e perfettissima campagna per seminar lino, canapo; e il lino è in tutta bontà, di maniera che ve n'è portato per insino a Tunis di Barberia, e di lui si fa una tela mirabile, sottile e saldissima: e di questo lino si tiene fornito tutto l'Egitto. Egli è vero che 'l Nilo, di continovo rodendo e a' suoi tempi crescendo, scema e sminuisce il terreno: massimamente quando io v'era, che ve ne trasse seco piú della metà delle possessioni di datteri. Gli abitatori tutti attendono a' diversi lavori del detto lino, quando è raccolto. Pure oltre di questa città si truovano i cocodrilli, i quali mangiano le creature umane, come vi si dirà nel libro degli animali.


Munia.

Munia è una bellissima città, edificata nel tempo dei maumettani da un luogotenente chiamato el Chasib, che fu famigliare d'un pontefice di Bagded, sopra il Nilo nella parte d'Africa in un alto sito. E d'intorno ha molti giardini e vigne, che fanno buonissimi frutti e perfettissime uve, de' quali gran quantità se ne porta al Cairo: ma non vi possono giugner freschi, percioché la città è discosta dal Cairo circa a centoottanta miglia. E in questa città sono molti belli edifici, palazzi, tempii, e certe rovine degli antichi Egizii. Gli abitatori sono uomini ricchi, percioché essi vanno per mercanzia a Gaogao, regno dei negri.


El Fium.

El Fium è un'antica città, edificata da uno de' faraoni che fu nelli tempi che si partirno gli Ebrei dello Egitto: costui adoperò gli Ebrei in far pietre e altri servigi. Edificolla sopra un piccol ramo del Nilo in un alto sito, dove si truova gran quantità di frutti e d'olive: ma le olive sono buone solamente da mangiare e non da fare olio. E in questa città fu sepellito Iosef, figliuolo d'Israel; poscia d'indi fu da Mosè cavato, allora che gli Ebrei fuggirono d'Egitto. La città è civile e bene abitata; ci sono molti artigiani, massimamente tessitori di tele.


Manf Loth.

Manf Loth è una grandissima e antichissima città, la quale fu edificata dagli Egizii e rovinata da' Romani, e nel tempo dei maumettani fu incominciata a riabitare, ma quasi niente a comparazione de' primi tempi. Oggidí si veggono certe grosse e alte colonne e portichi, dove sono scritti versi in lingua egizia; e appresso il Nilo v'è una gran rovina d'un grande edificio, il quale dimostra essere stato un tempio: gli abitatori alle volte vi truovano medaglie d'oro, d'argento e di piombo, le quali da una parte hanno lettere egizie e nell'altra teste di antichi re. Il terreno è abbondante, ma c'è gran caldo e i cocodrilli fanno di molti danni: e per questa cagione si giudica che questa città fosse abbandonata da' Romani. Pure gli odierni abitatori sono uomini onestamente ricchi, percioché esercitano la mercanzia nel paese dei negri.


Azioth.

Azioth è città antichissima, edificata dagli Egizii sul Nilo, discosta dal Cairo circa a dugentocinquanta miglia. È mirabile città di grandezza e d'antichi edifici e molti epitaffi, ma tutti rovinati e guasti, con lettere pure egizie. Nel tempo de' maumettani fu questa città abitata da molti nobili cavalieri, e fin ora ha grande nobilità e ricchezza. Ci sono circa a cento case di cristiani egizii e tre o quattro chiese, e di fuori è un monastero dei detti cristiani, nel quale vi sono piú di 100 monachi che non mangiano carne né pesce, ma pane, erbe e olive: fanno assai cibi delicati, dove non intra grasso alcuno. Il monastero è ricco e usa di dar mangiare e albergo a tutti i forestieri che di là passano per tre giorni, tenendo molti colombi, polli e animali per questo effetto.


Ichmin.

Ichmin è la piú antica città d'Egitto, edificata da Icmin figliuolo di Misrain, a cui fu padre Cus figliuolo di Hen: edificolla sopra il Nilo nella parte d'Asia, discosta dal Cairo circa a trecento miglia verso levante. Ma fu distrutta nel principio che i maumettani vennero nello Egitto, per cagioni nelle istorie contenute, in modo che altro non si truova della detta città che le fondamenta, percioché le colonne e le altre pietre furono portate dall'altra parte del Nilo, con le quali fu edificata la seguente città.


Munsia.

Munsia città fu edificata sopra il Nilo nella parte d'Africa da un certo luogotenente d'un pontefice, ma non è in lei grazia né bellezza alcuna, e tutte le sue strade sono strette, e la state non vi si può andare per la molta polvere; è bene abbondante di grano e di animali. E possedeva questa città e il suo contado un signore africano del popolo barbero, il cui nome fu Haoara, percioché i suoi antecessori furono signori di Haoara; ed ebbe questa città per merito di certo aiuto che egli diede allo schiavo edificator del Cairo; ma io non posso creder che tanto tempo abbi durata la signoria in questa famiglia. Suliman nono imperadore de' Turchi al tempo nostro gli levò di mano la signoria.


Giorgia.

Giorgia fu un ricchissimo e gran monastero di cristiani chiamato San Giorgio, discosto da Munsia circa a sei miglia, il quale possedeva d'intorno grandissimi terreni e pascoli. Ed erano nel detto monastero piú di dugento monachi, i quali ancora essi solevano dar mangiare a' forestieri, e quello che avanzava delle loro entrate mandavano al patriarca del Cairo, il quale faceva dispensare fra poveri cristiani. Ma da cento anni in qua venne una pestilenza in Egitto, la quale estinse tutti i monachi del detto monastero, onde il signor di Munsia lo fece murar d'intorno, e far case nelle quali abitarono mercanti e artigiani di diverse sorti; ed egli ancora v'andò ad abitare, tratto dall'amenità d'alcuni bellissimi giardini, che sono sopra alcuni colli non molto discosti. Ma il patriarca dei giacobiti si lamentò al soldano, onde egli fece fabbricare un altro monastero nel luogo dove fu edificata la città vecchia, e diegli tanta pensione che poteva commodamente sostenere trenta monachi.


El Chian.

El Chian è una piccola città sul Nilo edificata nel tempo dei maumettani, ma pur non abitano nella detta città se non cristiani giacobiti, i quali sono tutti lavoratori di terreno, e usano allevar pollami e oche e infinito numero di colombi: per duoi baiocchi ne averete dieci. In lei sono alcuni monasteri di cristiani, i quali sogliono pure dar mangiar a' forestieri; e in questa città non è altro maumettano che 'l governatore e la sua famiglia.


Barbanda.

Barbanda è una città edificata dagli antichi Egizii sopra il Nilo, discosta dal Cairo circa a quattrocento miglia, la quale fu distrutta da' Romani, né ora se ne vede altro che le rovine grandissime, percioché il meglio fu portato ad Asna, di cui di sotto diremo. Si trovano nelle dette rovine molte antiche medaglie d'oro e d'argento, e ancora si truovano molti pezzi di smeraldi.


Chana.

Chana è antica città edificata dagli Egizii sul Nilo dirimpetto a Barbanda; è cinta di mura, ma fatta di pietre crude. Gli abitatori sono uomini di poco prezzo e lavoratori di terreni, ma la città è abbondante di grano, percioché quivi si fa la scala delle mercanzie che sono portate per lo Nilo dal Cairo alla Mecca. Percioché la detta città è vicina al mar Rosso circa a centoventi miglia per lo diserto, dove non si truova acqua dal Nilo per insino alla riviera del detto mare, nella quale è un porto chiamato Chossir, dove sono molte capanne nelle quali si scaricano le dette mercanzie: e tutte le case del porto sono di stuore; pigliavisi gran quantità di pesce. E dirimpetto al detto porto dalla parte d'Asia, sul mare Rosso, v'è un altro porto detto Iambuh, e in quest'altro si fa scala per gire a Medina, dove è il corpo di Maumetto. Si forniscono dei grani di questa città la detta Medina e alla Mecca, nelle quali due n'è grandissima carestia.


Asna, cioè Siene, sotto il tropico di Cancro.

Asna fu anticamente detta Siene, ma cosí la chiamarono gli Arabi, percioché il primo nome di Siene era simile ad un lor vocabolo che dinota brutto, ed essi la chiamarono Asna, che vuol dire bella, percioché la città è molto bella, edificata sul Nilo dalla banda d'Africa. E ben che fusse da' Romani mezza distrutta, nondimeno fu molto bene rinovata nel tempo dei macomettani. E sono i suoi abitatori ricchi sí di grani e di animali come di danari, percioché usano di trafficar nel regno di Nubia, parte per lo Nilo e parte per lo diserto. Si veggon nel gran circuito di questa città grandissimi edificii, e certe sepulture mirabili con epitaffii scritti con caratteri egizii e ancora con lettere latine.

Assuan città.

Assuan è una grande e antica città edificata dagli Egizii sul Nilo, discosta da Asna circa a ottanta miglia verso levante, la quale ha d'intorno buonissimi terreni per grani. Ed è questa città molto abitata e molto inclinata alle mercanzie, percioché confina col regno di Nubia. E piú oltre della detta non si può navigare per Nilo, percioché egli s'allaga per le pianure, l'acqua delle quali non serve. Confina ancora la istessa città col diserto per cui si va alla città di Suachin sopra il mare Rosso, e nel principio d'Etiopia. E quivi nella state è uno smisurato caldo, e gli abitatori sono quasi tutti bruni, sí per questo e sí per esser mescolati con li Nubi e con quelli d'Etiopia. Sono eziandio per molti luoghi edifici degli antichi Egizii, e certe torri altissime, le quali dai detti sono dette Barba.
Piú oltre finalmente non si truova né città né abitazione che sia degna di memoria, se non alcuni casali di gente bruna, il cui linguaggio è mescolato con l'arabo, con l'egizio e con quello d'Etiopia. E questa gente è soggetta ad una generazion detta Buge, che vivono in campagna a modo d'Arabi, e il soldano non ha da far in questi luoghi, ma quivi finisce il suo stato.
Queste sono le città piú famose poste sopra il ramo grande del Nilo, delle quali alcune ho vedute, in alcune sono intrato dentro e ad altre passatovi a canto, e sempre ho avuta particolar informazion dagli abitanti d'esse e da' marinari che mi condussero dal Cairo fino alla città d'Assuan, con li quali tornai fino a Chana, e camminando per lo diserto arrivai al mar Rosso, qual trapassai sopra l'Arabia Diserta al porto di Iambuh e di Zidden, che sono in Asia, delli quali non mi accade che ne parli per non esser dell'Africa. Ma se Dio mi concederà vita, io ho desiderio di scriver delle parti d'Asia quanto che ne ho veduto, come l'Arabia Diserta, Felice e Petrosa, e ancora dell'altra parte dell'Egitto qual è in Asia, e di Babilonia, e d'una parte della Persia e Armenia, e parte della Tartaria, che nel principio della mia gioventú viddi e transcorsi; e appresso quel ultimo mio viaggio che feci da Fez a Costantinopoli, e da Costantinopoli in Egitto, e dapoi d'Egitto in Italia, dove viddi molte isole. Qual tutte mie peregrinazioni con l'aiuto di Dio, tornato che sia d'Europa, scriverò particolarmente, ponendo nel principio le piú degne e nobili parti d'Europa, poi d'Asia, cioè dove sono stato, e nell'ultima questa presente opera d'Africa, per dar piacer agli studiosi che di leggere tal cose si diletteranno.

NONA E ULTIMA PARTE

Nella quale si tratta ti tutti i fiumi, animali ed erbe più notabili che sono nell'Africa

Tensist fiume.

Incominciando dalla parte occidentale in Barberia, Tensist è un gran fiume, il quale nasce dal monte Atlante vicino alla città detta Hanimmei nel tenitoro di Marocco, cioè verso levante, e s'estende verso tramontana per le pianure, per insino che egli entra nel mare Oceano nel contado d'Azafi, nella region di Ducala. Ma prima che esso entri nel detto mare, entrano in lui molti altri fiumi, de' quali due sono cognosciuti. L'uno è Sifelmel, il quale nasce da Hanteta monte vicino a Marocco, e scende per lo piano fin che entra nel detto fiume. L'altro è Niffis, che nasce da Atlante pur vicino a Marocco, e viene per lo piano d'intorno a Marocco, e poi entra nel sopradetto. Questo Tensist è abbondantissimo e profondo d'acqua; pure v'ha alcuni luoghi dove egli si può passare a guazzo, quantunque l'acqua superchi le staffe e a chi è a piè convenga passare ignudo. Vicino a Marocco è un ponte che attraversa il fiume, edificato dal re Mansor e fatto sopra a quindici volti, il quale è uno dei piú belli edifici che si truovino in tutta l'Africa. Ma furon disfatti tre delli suoi volti da Abu Dubus, ultimo re e pontefice di Marocco, per impedire il passo a Giacob, primo re della casa di Marin: ma il suo pensiero non ebbe effetto.


Teseuhin.

Teseuhin sono due fiumi i quali nascono dal monte Gugideme, uno discosto dall'altro circa a tre miglia, e vanno per una pianura passando per la provincia di Hascora, ed entrano nel fiume Lhebich. Questi due fiumi hanno, come s'è detto, un medesimo nome, ch'è Teseut nel numero del meno, e in quello del piú Teseuhin, il che significa nella lingua africana "le liste".


Quadelhabid, cioè il fiume di Servi.

Quadelhabid fiume nasce d'Atlante fra certi monti alti e freddi, e passa per difficili e scabrose valli, dove Hascora confina con la provincia di Tedle, e scende alla pianura stendendosi verso tramontana per insino che entra nel fiume Ommirabih. È assai grande, massimamente il maggio, allora che le nevi si sogliono liquefare.


Ommirabih.

Ommirabih è un fiume grandissimo, il qual nasce d'Atlante fra alti monti, dove Tedle confina col regno di Fez, e corre per certi piani chiamati Adachsan, e dipoi passa piú oltre per certe valli strette, dove è un ponte molto bello, fatto fabbricar da Abulhasen, quarto re della casa di Marin. E doppo questo ponte, verso mezzogiorno, passa per le pianure che sono fra la regione di Ducala e di Temesne, per insino che entra nel mare Oceano, appresso il muro della città di Azamor. Questo fiume il verno e la primavera non si può passare a guazzo, ma gli abitatori per le ville d'intorno tragettano le persone e le robbe sopra a certe rastelle, che pongono a traverso le rive sopra gli utri gonfi. Nel fine del mese di maggio si pescan in questo fiume gran quantità di pesce chiamato in Italia lasche, del qual si sazia la città di Azamor, e appresso ne portano molte caravelle di salato in Portogallo.


Buregrag.

Buregrag fiume nasce da uno de' monti che procedono d'Atlante, il quale passa fra molte valli e boschi; dapoi riesce fra certi colli, s'estende per una pianura, di donde entra nel mare Oceano, dove sono le due città Sala e Rabat, che sono nel principio del regno di Fez. E queste città non hanno altro porto se non nella gola del detto fiume, il qual porto è tuttavia difficile all'entrar de' legni, di maniera che, se il nocchiero non è molto bene esperto della qualità del luogo, di facile si rompono nell'arena. Il che è il riparo e la fortezza delle due città contra l'arme de' cristiani.


Baht.

Baht è un fiume che pur nasce d'Atlante, e s'estende verso tramontana fra monti e boschi e, riuscendo fra certi colli, dipoi si sparge in una pianura della provincia d'Azgar, in modo che 'l detto fiume si converte in paludi, valli e laghi, nei quali si truovano infinite anguille e lasche di grandezza e perfezione mirabile. D'intorno di questi abitano molti pecorai arabi, i quali vivono delle loro pecore e di pescare: e per la gran quantità del pesce, del latte e del butiro che mangiano, molti sogliono patire una infirmità detta morfia. Questo fiume d'ogni tempo si può passare a guazzo, se non allora che si gonfia per le gran pioggie over nevi disfatte, ed entrano in lui alcuni pochi fiumicelli, che vengono pure d'Atlante.


Subu.

Subu è un fiume che nasce da un monte detto Selilgo, in Cheuz, provincia del regno di Fez. Ha principio da una grandissima fonte in uno spaventoso bosco, e passa per molte valli fra monti e colli; dipoi s'estende per lo piano, e corre discosto da Fez circa a sei miglia; indi passa oltra per una pianura, separando Habat da Azgar, e se ne va oltre, fin che egli entra nell'Oceano vicino a un luogo detto Mahmora, discosto dalla città di Sala. In questo fiume entrano molti altri fiumi, de' quali alcuni scendono da' monti di Gumera, come Guarga e Aodor, e alcuni altri se ne vengono da' monti che sono nello stato di Teza. Ha gran corso e gran quantità d'acqua, ma pure ci sono molti luoghi ove si passa a guazzo: ma il verno e la primavera non vi si può passare altrimenti che in certe pericolose barchette. E nel detto fiume entra pure quel fiume che passa per la città di Fez, il quale nel lor linguaggio è chiamato il fiume delle Perle: in lui si truova gran quantità di pesce, massimamente laccie, che è in vil prezzo. E quando entra in mare forma una larghissima e profondissima bocca, nella quale possono entrar grosse navi, come fu provato da Portogallesi e Spagnioli. Vi si potrebbe ancora navigare, ma l'ignoranza degli abitatori nol comprende; e se i mercanti di Fez pigliassero cura di far portare il grano, che vien per terra d'Azgar, per questo fiume, egli invero valerebbe in Fez la metà meno.


Luccus.

Luccus è un fiume il quale, nascendo da' monti di Gumera, s'estende verso ponente per le pianure di Habat e di Azgar, e passa da presso la città del Casar Elcabir, e s'estende oltra fin che entra nell'Oceano vicino ad Harais, città nella regione di Azgar, pure ne' confini di Habat. E nella goletta di questo fiume è il porto della detta città, ma difficilissimo da entrarvi, massimamente da uno che non ve n'ha avuto pratica.


Mulullo.

Mulullo è un fiume che nasce dal monte Atlante, nelli confini fra Tezza città e Dubdu, ma piú vicino a Dubdu, qual fiume passa per certe pianure aspre e secche, dette Terrest e Tafrata; di sotto poi entra nel fiume Muluua.


Muluua.

Muluua è un gran fiume il quale nasce da Atlante, cioè nella regione del Cheuz, vicino alla città di Gherseluin circa a venticinque miglia, e passando per certe aspre e secche pianure descende in un'altra pianura via peggiore di questa, cioè nel mezzo del diserto di Angad e di Garet, se ne va oltre sotto il monte di Beni Iezneten, ed entra nel mare Mediterraneo non molto discosto dalla città di Chasasa. Questo fiume la state sempre si passa a guazzo, e in lui vicino al mare si truovano perfettissimi pesci.


Zha.

Zha è un fiume che nasce dal monte Atlante, e s'estende per certa pianura nel diserto di Angad, cioè dove il regno di Fez confina con quello di Telensin. Questo fiume io mai non viddi pieno, ma ha grande profondità. In lui è molta quantità di pesce, ma gli abitatori non ve ne posson prendere, sí per non avere strumenti atti a pescare, e sí per esser il fiume d'acqua molto chiara, dove non è buon pescare.


Tefne.

Tefne è un fiume piú tosto piccolo che altrimente, il quale, nascendo da certi monti ne' confini di Numidia, s'estende verso tramontana per lo diserto di Angad insino a tanto che entra nel mare Mediterraneo, vicino alla città di Telensin circa a quindici miglia. In questo fiume non si truovano se non alcuni piccoli pesci.


Mina.

Mina è un fiume alquanto grande, il qual discende da certi monti vicini alla città di Tegdemt, e passa per le pianure della città di Batha. Doppo se ne va verso tramontana, per insino che gli entra nel Mediterraneo.


Selef.

Selef è un gran fiume, il quale, nascendo da' monti di Guanseris, e discendendo per le pianure diserte che sono dove confina il regno di Telensin con quello di Tenez, passa oltre per insino che gli entra nel Mediterraneo, separando Mezzagran da Mustuganin. Nella gola di questo fiume, cioè dove egli sbocca nel mare, si piglia buonissimo pesce d'ogni maniera.


Seffaia.

Seffaia è un certo fiume non molto grande, il quale nasce d'Atlante e s'estende per la pianura detta Mettegia, che è vicina alla città d'Alger, e non lungi dall'antica città il cui nome è Temendefust entra nel mare Mediterraneo.


Fiume chiamato il Maggiore.

Questo fiume nasce da monti i quai confinano con la provincia di Zab, e discende fra altissimi monti; anche entra nel mare Mediterraneo, vicino alla città di Buggia circa a tre miglia. Egli non cresce se non al tempo delle pioggie e delle nevi. Quei di Buggia non sogliono pescarvi dentro, percioché hanno il mare.


Sufgmare.

Sufgmare nasce in certi monti i quali confinano col monte chiamato Auraz, e discendendo per certa secca campagna riesce nel tenitorio della città di Costantina, e passa sotto le sue rive, e congiungesi con un altro piccolo fiume, e va verso tramontana, talvolta fra colli e alcuna fra monti, fin che gli entra nel mare Mediterraneo, separando il contado di Chollo città dal contado di Gegel castello.


Iadog.

Iadog fiume non è molto grande, qual nasce da certi monti vicini alla città di Costantina e scende fra detti monti verso levante, finché entra nel Mediterraneo appresso la città di Bona.


Guadilbarbar.

Nasce questo fiume da certi monti che confinano col contado di Urbs città, e scende sempre fra colli e monti, e si torce in modo che quelli che tengono il cammino fra Tunis e Bona sono constretti a passarlo venticinque volte, e non c'è né ponte né barche. Ultimatamente entra nel Mediterraneo vicino a un porto diserto detto Tabraca, discosto dalla città di Bege non piú che quindici miglia.


Megerada.

Megerada è un fiume molto grande, il qual nasce da alcuni monti che confinano con la provincia di Zeb, ed è vicino a Tebessa città, e s'estende verso tramontana per insino che gli entra nel mare Mediterraneo in un luogo detto Gharel Meleh, discosto da Tunis circa a quaranta miglia. Questo fiume nel tempo delle pioggie cresce mirabilmente, in tanto che i passaggieri convengono alle volte indugiar due e tre dí attendendo il discrescer dell'acqua, percioché non si truova barca né ponte alcuno, massimamente in un luogo dove correndo questo fiume si fa vicino alla città di Tunis sei miglia. Vedete quanto gli Africani sono tralignati d'ingegno e d'animo da quegli antichi che piú volte fecero tremare il popolo romano.


Capis fiume.

Capis fiume nasce da un diserto verso mezzogiorno, e discende per certe pianure d'arena, fin che gli entra nel Mediterraneo appresso la città detta dal suo nome. La sua acqua è salsa e calda tanto che, volendosi bere, fa di mestiero lasciare ch'ella si raffreddi lo spazio d'un'ora.
E questi sono i fiumi piú nobili di Barberia. Ora seguiremo di quei di Numidia.


Sus.

Sus è un gran fiume il quale nasce da' monti d'Atlante, cioè da quelli che separano Heha da Sus, e discende verso mezzogiorno fra i detti monti, uscendo nella campagna della detta regione. Dipoi s'estende verso ponente, per insino che entra nel mare Oceano, vicino al luogo chiamato Gurtuessen. E lo inverno molto cresce, di maniera che disfa assai terreni, ma la state si rimane meno che mediocre.


Darha.

Darha è un fiume il quale nasce d'Atlante ne' confini d'Hascora, e scende verso mezzogiorno per la provincia di Darha; dipoi passa al diserto, spargendosi per certe campagne nelle quali nasce gran copia d'erba nella primavera, onde vi vengono gli Arabi a pascolar le lor bestie, cioè i camelli. La state il fiume si secca, di maniera che vi si può passare senza bagnar le scarpe, ma l'inverno cresce in modo che non si può far questo varco, posto che vi fussero le barche. E ne' gran caldi l'acqua è amara.


Ziz.

Ziz fiume nasce d'Atlante, cioè da' monti abitati dal popolo Zanaga, e scende verso mezzogiorno fra molti monti, passando da vicino alla città chiamata Gherseluin, e se ne va oltre per lo contado di Cheneg, di Metgara e di Reteb, ed entra nel tenitoro di Segelmesse città e passa per le sue possessioni, ed esce nel diserto appresso a Sugaihila castello; dapoi forma un lago in mezzo l'arena, dove non si truova abitazione alcuna, ma vi usano andar d'intorno alcuni Arabi cacciatori, percioché essi fanno di gran preda.


Ghir.

Ghir è un fiume che nasce pure d'Atlante, e s'estende verso mezzogiorno discendendo per certi diserti, e dapoi esce per quella abitazione chiamata Benigumi, e passa al diserto trasformandosi ancor egli in un lago in mezzo il diserto.
Già io vi dissi del fiume chiamato da Tolomeo Niger nel principio della opera, trattando della division dell'Africa: perciò, non volendo altrimenti replicarne, passerò a dire brievemente del Nilo.


DEL GRANDE FIUME NILO

Mirabili sono nel vero i corsi e le novità del Nilo, e stupendi sono gli animali che si truovano in lui, sí come cavalli e buoi marini e cocodrilli, che sono nocevolissimi e ferocissimi animali, come poco piú basso raccontaremo. Né a tempo degli Egizii e de' Romani solevano far tanti danni come oggidí, ma sono peggiorati dapoi che i macomettani occuparono l'Egitto. Dice il Meshudi, in una sua opera dove tratta delle cose mirabili scoperte alli tempi moderni, che quando Hameth, figliuolo di Thaulon, che fu luogotenente in Egitto di Gihsare el Mutauichil, pontefice di Bagadet, nell'anno 270 di legira, che fu trovata una statua di piombo della grandezza d'un cocodrillo, con lettere egizie, nelli fondamenti d'un tempio de' gentili egizii, fatta sotto certe costellazioni contra detto animale, la qual detto luogotenente fece disfare e rompere: e allora detti animali cominciarono a far molti danni. Ma io non so donde egli avvenga che i cocodrilli che sono nel Nilo dal Cairo in giú verso il mare non fanno alcun dispiacere, e quegli altri che si truovano dal Cairo in su uccidono e divorano molte persone.
Ora tornando al Nilo, esso, come detto abbiamo, cresce quaranta giorni, il che è a' dicessette di giugno, e altri quaranta discresce, percioché si dice che nella Etiopia alta piove maravigliosamente il principio di maggio, ma i corsi dell'acque tardano per tutto maggio e una parte di giugno prima che giunghino all'Egitto. Della origine di questo fiume sono diverse oppenioni, e niuna certa, percioché alcuni vogliono ch'ei nasca dai monti della Luna, e alcuni altri da certe diserte pianure sotto a' piedi dei detti monti, da molti gran fonti che ivi si truovano, l'uno molto dall'altro discosto. Ma i primi affermano che quando il Nilo cade da quei monti, portato dal grandissimo suo furore e impeto, entra sotto la terra e forma quei fonti. L'una e l'altra oppenione è falsa, percioché non s'è mai veduto donde egli abbia nascimento. Dicono i mercanti d'Etiopia, i quali hanno pratica nella città di Dangala, che 'l detto fiume verso mezzogiorno si va allargando e diventa come un lago, in modo che non si conosce dove vada il suo corso, e che pur verso mezzogiorno fa molti rami li qual, scorrendo per diversi alvei, s'estendono verso levante e ponente, e impediscono le persone, che non possono andare d'intorno ai giri del detto. Affermano ancora molti Etiopi, i quali dimorano nella campagna come fanno gli Arabi, che alcuni di loro alle volte, avendo smarrito alcuno dei suoi camelli nel tempo che essi sentono il caldo d'amore, saranno andati verso mezzogiorno cerca 500 miglia ricercandogli, e sempre l'acque del medesimo fiume hanno vedute a un modo, cioè spessi laghetti e gran rami; e truovano assai monti secchi e diserti, nei quali Meshudi istorico dice che si truovano molti smeraldi, il che mi si fa piú verisimile a credere che di alcuni uomini salvatichi che, secondo lui, corrono come caprioli e vivono nel diserto di erbe come fanno le fiere. Se io scrivessi tutte le cose che hanno detto li nostri istorici del detto Nilo, pareriano favole, e sariano tediose a chi leggesse.


DEGLI ANIMALI

Ora passiamo a dire degli animali, nel che non mi offerisco di raccontare di tutti gli animali che si truovano in Africa, che sarebbe invero quasi cosa impossibile, ma di quelli solamente che non sono nell'Europa o di quelli che hanno qualche differenza da quest'altri, trattandone ordinatamente, sí dei terrestri come degli aquatici e di quei che volano, e molte cose trapassando che sono scritte da Plinio. Il quale certamente fu un dotto e singulare uomo, quantunque in alcune piccole cose dell'Africa egli certamente prese errore, non per colpa di lui, ma di chi lo informò e degli auttori che inanzi a lui scrissero: ma pure una macchietta non ha forza di estinguere tutta la bellezza d'un leggiadro e ben formato corpo.


Elefante.

L'elefante è animale salvatico, ma atto ad imparare. E gran copia di questi animali si truovano nei boschi della terra negra, i quali sogliono andare molti insieme, e come incontrano un uomo lo schifano e gli danno luogo. Ma se l'uomo cerca di fargli dispiacere, egli lo piglia con quel suo lungo rostro e, sollevandolo in alto, lo percuote in terra stropicciandogli adosso co' piedi, tanto che lo lascia morto. Ma come che il detto sia animale grande e feroce, pure i cacciatori nell'Etiopia ve ne pigliano molti, il che è in cotal modo. Essi, ne' folti boschi dove sanno che la notte questi animali si riposano, fra molti alberi fanno un serraglio di forti e spesse frasche, lasciandovi da una parte un poco d'intervallo voto, dove attaccano una porta che tengono distesa sul terreno a guisa di rastrello, la quale si può con una fune alzare e con essa leggiermente serrare il passo. Come adunque lo elefante, che vien per dormire, è entrato in quel serraglio, ed essi tosto tirano la fune e l'hanno in prigione, onde discendendo dagli alberi con saette l'uccidono, dipoi ne traggono i denti e gli vendono. Ma se gli scampa fuor del serraglio, ammazza quanti uomini ch'ei ritrova. Nella India ed Etiopia alta è un'altra sorte di caccia, la quale pretermetto.


Giraffa.

Questo animale è cotanto salvatico che rade volte si può vedere, percioché si nasconde ne' boschi e ne' diserti dove non si truovano altri animali, e come vede gli uomini fugge, ma non ha molta velocità nel suo corso. Ha il capo simile al camello, le orecchie di bue e i piedi di... I cacciatori non ve ne pigliano se non di piccoli, ne' luoghi dove sono di poco nati.


Camello.

Il camello è animale domestico e piacevole assai. Se ne truova in Africa grandissima quantità, massimamente ne' diserti di Numidia, di Libia e ancora di Barberia. Questi animali tengono gli Arabi per lor ricchezze e per lor possessioni, e come vogliono dir della ricchezza d'uno lor principe o nobile, usano di dire: "Il tale ha tante migliaia di camelli", e non dicono ha tanti ducati, né tante possessioni. Tutti gli Arabi che hanno detti animali sono signori, over vivono liberi, perché con quelli possono viver nelli diserti, dove non può andare né re né signori, per la siccità delli detti. Questi animali si truovano in tutte le parti del mondo, cioè Asia, Africa e ancora Europa. In Asia gli usano tenere li popoli tartari, curdi, dailemi e turcomanni; in Europa gli tengono li signori turchi per portar li carriaggi, e il simile fanno in Africa tutti gli Arabi e quelli che abitano i diserti di Libia, e ancora tutti li re per le vettovaglie e carriaggi. Ma li camelli d'Africa sono piú perfetti che non sono quelli d'Asia, perché portano quaranta o cinquanta giorni la soma senza toccar la sera la biada; ma, come sono discaricati, gli lasciano pascolar nella campagna qualche poco d'erba, spini o qualche ramo d'arbori, la qual cosa non possono fare li camelli d'Asia. E quando cominciano a far un viaggio, allora il camello vuol esser molto ben grasso e pieno, e per esperienza s'ha veduto che, come el detto animal ha fatto un viaggio di cinquanta giorni senza mangiar biada essendo caricato, la grassezza della gobba manca prima, dapoi della pancia, e l'ultima è quella delle coscie, le qual mancate, il detto animal allora non porteria cento libbre di peso. Nell'Asia li mercanti gli danno la biada, e sono sforzati a menare per ogni camello carico un altro camello con la biada, perché vanno caricati nelle sue carovane e tornano caricati, e però gli mantengono grassi, perché raddoppiano il viaggio. Ma li mercanti africani che vanno nella Etiopia, non si curano della tornata, perché ritornano discaricati, né riportano d'Etiopia cosa di troppo peso rispetto a quella che vi hanno portato. Di sorte che li camelli, come giungono nella Etiopia, sono magri e piagati tutta la schiena, e cosí gli vendono per pochi danari agli abitatori de' diserti, li quali gli menano ad ingrassare. Li mercanti che ritornano in Numidia o in Barberia hanno bisogno di pochi camelli, cioè per cavalcare e per portar vettovaglia e oro e qualche cosa leggiera.
Sono tre spezie, o vogliamo dire sorte, di camelli. Quelli della prima sono addimandati camelli hugiun, i quali sono grossi e grandi di persona e buonissimi per someggiare, ma non possono portar la soma fin che non aggiungano a quattro anni: e allora ogni mediocre camello porta mille libbre di peso d'Italia. Ma quando si caricano, il camello, tocco d'una verghetta su le ginocchia e sopra il collo, per natural costume subito si corica a terra, e come sente il peso bastevole alla sua persona, allora si lieva. Gli Africani e tutti communemente, volendo mantenere i camelli perfetti alla soma, usano di castrargli, e fra dieci femmine ne lasciano un maschio solo. I camelli della seconda spezie sono detti el becheti, i quali hanno due gobbe, l'una e l'altra delle quali son parimente buone per someggiare e per cavalcarvi sopra: ma di questa non se ne truova se non in Asia. Quei della terza sono appellati el raguahil, e sono piccoli di persona e sottili di membra, né son buoni se non per cavalcare; ma hanno gran velocità, di maniera che molti ne sono che in un giorno camminaranno cento miglia e ancora molto piú, continovando questo cammino otto e dieci giorni per lo diserto con pochissima vettovaglia. E tutti li nobili arabi di Numidia e africani di Libia usano di cavalcare detti camelli; e il re di Tombutto, quando vuole con prestezza fare intendere a' mercanti di Numidia qualche cosa importante, manda il messaggio con uno di questi camelli, il quale fa da Tombutto insino a Darha o a Segelmesse in termine di sette o otto giornate novecento miglia. Ma quei che vanno per tai negoci, fa di mestiero che siano uomini molto pratichi per li diserti, e vogliono cinquecento ducati per lo viaggio fra l'andare e il tornare.
I camelli sono tocchi d'amore il principio del verno, e allora non solo si offendono l'un l'altro, ma nuociono mortalmente a ciascuno uomo dal quale hanno ricevuto ingiuria, percioché allora si raccordano d'ogni minuta percossa ricevuta dai padroni. E se ve ne possono pigliare uno co' denti, lo alzano in aere, poi lo lasciano cascar giú, calpestandolo stranamente co' piedi dinanzi. Non durano in amore se non quaranta giorni, poi ritornano quieti. Questo animale, sí come è paziente di fame, cosí ancora è pazientissimo di sete, percioché può stare quindici dí senza bere e non li fa male: e se i patroni danno ai camelli da bere in capo di tre dí, l'acqua gli offende, percioché il loro consueto bere è di cinque in cinque giorni, o di nove, e al piú per necessità in quindici. Sono ancora i camelli di natura pietosi e hanno qualche sentimento umano, onde avviene che alle volte fra Etiopia e Barberia, convenendo a quei che gli conducono per qualche necessità far la giornata piú lunga dell'usato, veggendo che i camelli non vogliono andar piú avanti, non gli sforzano a camminar con le battiture, ma cantano certe loro particulari canzone, dal diletto delle quali mossi, i camelli seguitano il loro cammino con maggiore velocità che non farebbe un cavallo ben battuto e punto dagli sproni, in modo che essi appena gli possono tener dietro. E io viddi nel Cairo un camello ballare al suono d'un tamburo, e il maestro m'insegnò l'arte con che egli avea fatto imparare al suo. Questa è tale: si elegge un giovinetto camello, il quale si lascia stare per una mezza ora in una stanza fatta aposta come una stufa, il cui terrazzo sia riscaldato dal fuoco; e sonando uno di fuora il tamburo, il camello, non per virtú del suono, ma per cagione di quel caldo che gli offende i piedi, ora alza una gamba ora un'altra, come fanno quei che danzano. Ed essendo egli avezzo a questo per dieci mesi o per un anno, dipoi menato in un luogo publico, tosto ch'ei sente il suono del tamburo, per rimembranza di quei giorni ne' quali sentiva il calore del fuoco, tenendosi di esser su quel battuto alza similmente i piedi e par ch'ei balli. Cosí l'uso ne forma una natura, che esso dapoi in alcun tempo non lascia. Molte altre cose potrei dire del detto animale, le quali per non v'infastidire lascio da parte.


Cavallo barbero.

Questi cavalli sono detti nell'Italia e parimente in tutta l'Europa barberi, percioché vengono di Barberia, e sono d'una spezie che si genera in quei paesi. Ma quelli che hanno sí fatta oppenione s'ingannano, percioché i cavalli comuni di Barberia sono come gli altri, ma questi cosí agili e correnti vengono chiamati nella lingua arabica, cosí in Soria, in Egitto, in Arabia Diserta e Felice e in Asia, cavalli arabi. E tengono gli istorici che questa sorte fosse di cavalli salvatichi che andavano errando per li deserti di Arabia, e che da Ismahel in qua gli Arabi gli incominciassero a domesticare, in tanto che crebbero in quantità e n'empierono l'Africa. La quale openione si conosce esser vera, percioché se ne veggono ancora oggidí non pochi di questi cavalli salvatichi per li diserti d'Arabia e d'Africa, e io ancora ne viddi un piccolo puledro nel diserto di Numidia, di pelo bianco e con i crini ricci sopra il collo. La maggiore esperienza nel corso che si possa fare d'uno di questi cavalli, si è quando essi giungono una fiera detta lant, overo uno struzzo: e se riescono in una di queste due esperienze, allora il cavallo è apprezzato il valore di mille ducati o per cento camelli. E pochi se ne truovano in Barberia, ma gli Arabi del diserto e i popoli di Libia, che usano di allevarne molti, non gli cavalcano nei viaggi né gli adoperano nelle battaglie, ma solamente nelle caccie. Né essi danno loro altro cibo che latte di camella due volte fra il dí e la notte, e cosí gli mantengono gagliardi e leggieri, e piú tosto magri che altrimente; e nel tempo delle erbe ben gli lasciano mangiar delle dette erbe, ma allora non gli cavalcano. Quelli che tengono i signori di Barberia non sono cosí veloci di corso, ma vie piú belli e piú grossi, perché gli danno biada a mangiare; e con questi se ne vagliono ne' bisogni, quando convien loro scampar la furia de' nimici.


Cavallo salvatico.

Il cavallo salvatico è tenuto per una fiera, e non si vede se non rare volte. Gli Arabi del diserto, quando lo pigliano, se lo mangiano, e dicono quella carne esser perfettissima, e piú se è giovane. Ma di rado si può pigliare, né con cavalli né con cani: essi formano certi lacci e gli pongono su l'acqua dove pratica l'animale, coprendogli con l'arena; e tosto che il cavallo pone il piè sopra quel laccio, gli s'annodano i piedi di modo che convien ch'ei si fermi, e in tal guisa si prende.


Lant over dant.

Questo è un animale che somiglia al bue di forma, ma è piú piccolo e ha piú gentili gambe e corna. Il suo colore è quasi bianco, e l'unghie de' piedi sono negrissime. È velocissimo di corso, in modo che non è altro animale che lo avanzi, fuor che, come s'è detto, qualche cavallo barbero. Piú agevolmente si piglia la state, percioché, per lo calor dell'arena e per la velocità del correre, l'unghie gli si muovono, onde per la passione non può correre. Cosí parimente si pigliano i caprioli e i cervi. Del cuoio di questo si soglion fare alcune targhe fortissime, per modo che altra cosa non le può passare che un schioppo: ma molto care si vendono.


Bue salvatico

Quest'altro assomiglia pure al bue, ma è similmente piú piccolo, e sono quasi tutti di color bigio, velocissimo ancora esso. Né si truovano in altro luogo che ne' diserti o ne' confini dei diserti. La sua carne è perfettissima.


Asino salvatico

Si truovano per li deserti o ne' loro confini molti di questi asini, pure di color bigio e velocissimi, e solamente cedeno ai barberi. Questi, come veggiono un uomo, subito cominciano ad urlare tirando de' calci, e stanno fermi fin che l'uomo gli è tanto vicino che gli può giunger con mano: allora fuggono. Gli Arabi delli diserti gli pigliano con le trappole e altri ingegni. E vanno sempre molti insieme allora che si pascono o beono. La lor carne è buona, ma quando è calda pute e sa del salvatico; ma, lasciandola raffreddare due dí doppo cotta, è cosa perfetta e saporita.


Buoi di monti d'Africa.

Tutti i buoi domestichi che nascono ne' monti d'Africa sono tanto piccoli che paion vitelli di due anni, a comparazione degli altri. Pure i montanari gli adoperano in arare i terreni, e dicono che sono molto gagliardi e molto durano alle fatiche.


Adimmain.

Questo animale è domestico e ha la forma di montone, ma è grande come un mediocre asino; ha le orecchie molto lunghe e pendenti. E gli abitatori di Libia tengono questi animali per le loro pecore, e ne cavano gran copia di latte, del quale fanno butiro e cacio. La lana di questi è buona, ma non molto lunga, e solamente le femmine, non i maschi, mettono le corna e sono piacevoli. Io, invaghito dalla giovanezza, piú volte volli cavalcar sopra queste bestie, ed era portato gagliardamente un quarto di miglio. Non se ne truovano in gran quantità, se non ne' diserti di Libia; ben se ne vede alcuno nei terreni di Numidia, ma per cosa mostruosa si tiene.


Montoni.

Questi montoni non hanno altra differenzia dagli altri se non nella coda, la quale è larghissima; e tanto uno ha piú grossa la coda, quanto egli è piú grasso: ve n'è alcuno la cui coda pesa dieci e venti libbre, e ciò avviene quando s'ingrassano da per loro. Ma in Egitto sono molti che attendono a ingrassare i detti castroni, e gli pascono di remola e di biada, onde tanto s'ingrossa loro la coda che non si posson muovere, ma quelli che ne hanno cura legano la detta coda sopra certi carri piccoli, e a quel modo essi camminano. Io viddi una coda di questi castroni in Asiot, città di Egitto discosta dal Cairo centocinquanta miglia sopra il Nilo, la quale pesava ottanta libbre; e molti mi affermavano averne veduto di peso di centocinquanta. Tutto adunque il grasso di cotai bestie è nella coda solamente, né se ne truovano di tal sorte se non in Tunis e in Egitto.


Leone.

Questi animali sono salvatichi e nocivi a tutti gli altri animali, e sono piú di tutti gli altri gagliardi, animosi e crudeli. Mangiano non pur le bestie ma gli uomini, e alcuno in tal luogo ve n'è che ha ardimento di assaltare dugento uomini a cavallo. Ciascuno assalta securamente i greggi degli armenti, e ve ne piglia e porta nel suo bosco e nelle grotte dove sono i suoi piccoli figliuoli. Ma degli uomini a cavallo tale, come io vi dico, ve n'è, che n'ammazzarà cinque e sei. I leoni che abitano ne' monti freddi sono meno audaci e men fieri, né possono tanto nuocere, massimamente agli uomini. All'incontro, quanto piú participano del caldo, tanto sono piú rabbiosi e audaci, come sono quelli che si truovano fra Temesna e il regno di Fez, e nel diserto di Angad vicino a Telensin, e fra Bona e Tunis: questi sono i piú famosi e i piú crudeli leoni di tutta l'Africa. Il verno, quando essi vanno in amore, combattono insieme a sanguinosa battaglia: tristo a colui che gl'incontrano; e alle volte otto e dodici si veggono insieme dietro a una leonessa. Ho inteso da molti uomini e donne che, quando avviene che una femmina s'abbatta sola in luogo rimoto in uno di questi leoni, mostrandogli ella la sua natura, il leone subito grida forte e abbassando gli occhi se ne va via. Ciascuno creda quello che gli pare. Infine tutto quello che piglia un leone, se ben fosse un camello, se lo porta in bocca. Due volte io fui vicino ad esser divorato da' leoni, e per bontà di Dio amendue ne scampai.


Leopardi.

Abitano questi animali ne' boschi di Barberia, e sono molto gagliardi e crudeli, ma non nuociono all'uomo se non quando, alcune rare volte, avviene che lo incontri in qualche stretto calle, dove l'uomo non possa dargli luogo, o se alcuno gli sgrida o dà loro noia. Allora gli s'avventa adosso, e con gli artigli aggrapandogli il volto, tanta carne ne porta via quanta egli ne prende, e tal volta gli spezza il cervello e uccide l'uomo. Non usa di dar molto assalto al gregge, ma de' cani è nimico mortalissimo, e gli ammazza e mangia. I montanari della regione di Costantina sogliono loro dar la caccia co' cavalli, chiudendone tutti i passi, onde il leopardo, fuggendo, come truova a uno de' passi la quantità de' cavalli, corre a un altro, e ivi trovando il medesimo, al fine doppo molto ritornare in su e in giú è occiso. E chi se lo lascia fuggire dalla sua parte è tenuto di fare un convito a tutto il numero dei cacciatori, se fussero ben trecento.


Dabuh.

Dabuh è un animale grande e come un lupo, e quasi ha forma di lupo, e i suoi piedi somigliano a piedi umani, e similmente le gambe. Gli Arabi cosí lo chiamano, ma gli Africani iesef. Non nuoce alle altre bestie, ma cava i corpi umani delle sepolture e gli mangia. È vile e semplice animale. I cacciatori, informati della grotta ove egli abita, vanno a quella grotta sonando un tamburino e cantando, e l'animale tanto si diletta di quell'armonia che non s'accorge d'uno che, fra quello spazio, gli annoda ambe le gambe con una salda fune e legato lo strascina fuori, onde gli altri l'uccidono.


Il gatto che fa il giubetto.

Sono questi gatti naturalmente salvatichi, e si truovano ne' boschi d'Etiopia. I mercatanti gli pigliano piccoli e gli fanno allevare in gabbie, nudricandogli di latte e di alcune minestre di remola, e ancora danno lor carne. Il giubetto cavano due e tre volte il giorno, il quale altro non è che sudore del detto animale, percioché essi, con una verghetta percotendolo, lo fanno spesso muovere di qua e di là per la gabbia, per insino a tanto che n'esce il sudore. E allora glielo cavano di sotto le braccia, le coscie, il collo e la coda: e quello è il giubetto.


Simia.

Simie sono de diverse sorti, alcune dette monne, con la coda, altre dette babuini, senza. Si truovano in gran quantità ne' boschi di Mauritania, ne' monti di Buggia e ancora in quelli di Costantina. Hanno, come si vede, non pure i piedi e le mani, ma ancora la faccia molto simile all'uomo, e sono dotate dalla natura di maravigliosa astuzia e ingegno. Si nutriscono di erbe e di grano, e quando vogliono rubbar le spighe, vanno venti e trenta insieme, e una riman fuori del campo a far la guardia: e subito che vede venire il padron del grano grida forte, onde le altre sgombrano velocemente, saltando sugli alberi e faccendo d'uno all'altro albero salti grandissimi. Le femmine portano i loro figliuoletti sopra le spalle, e con essi saltano similmente pure d'un albero all'altro. Quelle che sono ammaestrate fanno cose incredibili; ma sono sdegnosi e crudeli animali, benché di facile si placano.


Conigli.

Gran quantità di conigli salvatichi è ne' monti di Gumera e in Mauritania. Dico che si tengono per salvatichi, ma io ho ferma oppenione che essi siano della spezie dei domestici, il che lo dimostra la carne, che non è dai domestici differente né di colore né di sapore.

DE' PESCI

Ambara pesce.

Ora, per dire de' pesci, ambara è un pesce spaventoso di forma e di grandezza, il quale non si può vedere se non quando e' muore, percioché allora il mare lo getta al lido. La testa sua è durissima, come ella fosse di pietra; e ve ne sono alcuni lunghi venticinque braccia e altri piú. Dicono gli abitatori della riva dell'Oceano che questo è quel pesce che getta l'ambracan, ma sono fra sé differenti, se ciò è sterco o sperma. Come si sia, egli merita per la sua grandezza esser chiamato balena.


Cavallo marino.

Nel Niger e ancora dentro il Nilo si truova questo animale, il quale ha forma di cavallo, ma non ha pelo. La sua pelle è durissima ed è grande come un asino; vive cosí nell'acqua come nel terreno, ma non esce dell'onde se non la notte. È maligno e pericoloso per le barchette che vanno cariche giú pel Niger, percioché esso, accostandovi la schiena, le travolge e affonda: e guai a chi non sa notare.


Bue marino.

Questo è un altro animale che somiglia in ogni sua parte al bue, ma è molto piccolo, di maniera che pare un vitello di sei mesi; e si truova nel Niger e nel Nilo ancora. I pescatori alcuni ve ne pigliano, i quali molti dí vivono in terra; e la loro pelle è molto dura. Io ne viddi uno nel Cairo, menato con una catena onde aveva legato il collo, da uno che mi disse averlo preso nel Nilo vicino ad Asna, città discosta dal Cairo verso mezzogiorno cerca a quattrocento miglia.


Tartaruca testuggine.

Questo animale si doveva porre nel numero degli animali terrestri, percioché vive ne' diserti, e molti se ne truovano nel diserto di Libia di grandezza d'una botte. Scrive Bicri geografo nel libro delle regioni e vie d'Africa che, trovandosi un uomo da bene la notte in questo diserto stracco dal lungo cammino, vidde dapresso una pietra molto alta, sopra la quale fe' pensiero di dormire, acciò qualche animale velenoso non gli nocesse. Il che avendo fatto, trovossi la mattina discosto da quel luogo circa tre miglia, del che maravigliandosi, intese poi quella che egli stimò che fosse pietra esser stata una testuggine. La quale suol starsi nel giorno ferma e camminar la notte pascolando, ma cammina cosí lenta che l'uomo non se n'accorge. Io per me non ve ne viddi mai di cosí grandi; ben ne ho vedute alcune della grandezza d'un gran barile. Dicesi che la carne di queste testuggini guarisce la lepra, se non passa a sette anni, e bisogna che se ne mangi sette giorni continui.


Cocodrillo.

Si truova gran quantità di questi cocodrilli nel Niger, ma piú nel Nilo. È animale maligno e molto nocevole. La sua lunghezza è di dodici braccia e ancora piú, e tanto è lunga la coda quanto il rimanente del corpo: ma rari si truovano di questa grandezza. Ha quattro piedi ed è simile al ramarro, né è piú alto d'un braccio e mezzo. La coda è annodata di molti nodi, e la pelle ha tanto dura che non si può passare con una balestra grossa. Alcuni cocodrilli non mangiano altro che pesci, altri mangiano degli animali e degli uomini, i quali con grande astuzia si stanno ascosi vicino ai liti dove pratican gli uomini e molte bestie, e come gli veggono mandano velocemente quella lor coda fuori dell'acqua, e con quella legono o bestia o uomo e tirano in acqua e lo mangiano. Ma quando mangiano, non muovono se non il palato di sopra, percioché quel di sotto è congiunto con l'osso del petto. Non sono tutti di questa natura, percioché se fussino non si potria abitar alle ripe del fiume Niger o del Nilo.
Navigando io per il Nilo in una barca dal Cairo a Cana (ch'è una città nell'Egitto alto discosta dal Cairo quattrocento miglia), quando fussemo a mezzo il viaggio, una notte che la luna era alquanto coperta di nugole e con buon vento navigavamo, tutti li marinari e passaggieri dormivano. Io veramente, che mi era ritratto nella mia cameretta studiando con la candela, fui chiamato da un vecchio, che era uomo di buona vita, qual veggiava e leggeva certe orazioni, e mi disse: "O tale, sveglia alcun de' nostri, che venghi aiutarmi a pigliar un gran pezzo di legno, che sarà buono diman per far la cucina". Io gli risposi: "Volete venga io medesimo?", piú presto che svegliar alcuno a quell'ora, che era quasi mezzanotte. Disse adunque costui: "Io farò la pruova se da per me lo potesse pigliare". E come la barca fu appresso, secondo lui, al legno, cominciò a distender le mani per mettervi un laccio e tirarlo suso. Ecco che subito sbalzò fuori d'acqua una lunga coda, che lo cinse e lo tirò giuso sotto acqua in un momento. Io allora cominciai a gridare, e tutti della barca saltarono suso, e si calò la vela e si fermassemo, e molti saltarono in acqua per trovarlo, e si stette una buona ora legati a terra: ma il tutto fu indarno, che mai piú fu veduto, e tutti affermarono quello esser stato un cocodrillo. Piú oltre navigando, molti in frotta ne vedemmo sopra a certe isolette in mezzo il Nilo, che si stavano al sole; e tenendo le lor bocche aperte, certi uccelletti bianchi della grandezza d'un tordo v'entravano dentro, e statovi aliquanto spazio fuori uscivano e volavano altrove. E dimandando io la cagione di ciò, mi fu risposto che nelle gingive e fra i denti dei cocodrilli, che assai pesce over animali mangiano, sempre rimane qualche reliquia di carne attaccata, la quale putrefatta crea alcuni piccoli vermi che fan lor noia: onde quegli uccelli, che volando vedeno i vermi, entrano nella lor bocca per mangiargli. Ma, come gli hanno mangiato, il cocodrillo serra la bocca per inghiottir l'uccello; ma egli ha sopra il capo una acuta e dura spina con la quale punge il palato al cocodrillo, onde conviene ch'ei torni ad aprir la bocca, e l'uccello via se ne fugge. Se avverrà che io possa avere un di questi uccelli, narrerò questa istoria piú securamente.
I cocodrilli fanno le lor uove nel terreno e le cuopreno con la sabbia, e tosto che nascono i figliuolini, essi entrano nel fiume. Ben sono alcuni che, sviandosi dall'acqua, stanno nel diserto: questi sono velenosi; ma quelli che vivono nel fiume non hanno veleno. Nell'Egitto molti sogliono mangiar della lor carne e affermano che è molto buona, e nel Cairo è in gran prezzo il grasso, e dicesi che è buono a guarir le piaghe vecchie e incancherite.
S'usa di pigliare il cocodrillo in questa guisa. I pescatori pigliano una lunga e grossa fune di cento e piú braccia, l'un capo della quale legano saldamente a un grosso albero, o a una colonna a questo effetto piantata su la riva del Nilo. Dall'altro capo della fune legano uno uncino di ferro, lungo un braccio e grosso come un dito d'un uomo, al quale attaccano o castrato o una capra viva, al grido della quale esce il cocodrillo al lito e subito l'inghiotte con tutto l'uncino, il quale gli s'attraversa e ficca nelle interiori, in modo che non si può lasciare. Onde essi ora allungando ora scortandogli la fune, il cocodrillo dibattendosi e or qua or là percotendo, al fine vinto si lascia cadere come morto, e allora i pescatori l'uccidono con certe partigiane, forandogli la gola, le braccia e di sotto le coscie verso il ventre, nei quali luoghi tenerissima ha la pelle, perché un archibuso o falconetto a pena è bastante a passargli la pelle della schiena, tanto è grossa e durissima. Su le mura di Cana viddi piú di trecento capi di questi animali appiccati con le bocche aperte, le quali erano tanto ampie e grandi che vi sarebbe entrata una vacca intera; i denti erano acuti e grandi. Tutti li pescatori delle terre d'Egitto hanno costume, come pigliano uno cocodrillo, di tagliarli il capo e attaccarlo alle mura, come fanno li cacciatori li capi delle fiere.


Dragone.

Nel monte Atlante in certe grotte si truovano molti dragoni grossissimi, i quali sono gravi della persona e con fatica si muovono, percioché una parte è grossissima, cioè quella del busto, e l'altra verso la coda è molto sottile, e cosí verso il capo. Sono animali velenosissimi, e se uno a caso gli tocca o è morso da loro, subito le sue carni diventano fragili e s'ammolliscono come il sapone, né v'è scampo alla sua vita.


Idra.

Idra è una serpe corta e sottile di coda, e cosí verso il capo. Si truovano molte di queste serpi nel diserto di Libia, le quali hanno un veleno acutissimo, né altro rimedio dicono essere a chi è morso dalle dette che a tagliar quella parte di membro dove è la morsicatura, prima che il veleno discorra per le altre membra.


Dubh.

Questo animale vive ne' diserti ed è simile di forma alla tarantola, ma è piú grosso, e lungo come un braccio d'un uomo, e largo quattro dita. Non bee mai acqua, e se alcuno a bere ne lo sforzasse buttandoli acqua in bocca, senza intervallo si morrebbe. Fa le uova come la testuggine, non ha veneno alcuno. Io ho veduto gli Arabi pigliarlo nelli diserti, e ancora io ne volsi pigliare e scannare, ma non esce molto sangue. Dapoi che è arrostito se li leva la scorza e si mangia: ha la carne saporita come di ranocchia, e il medesimo gusto. È veloce come le lucertole e, s'egli si caccia in un buco e che la coda rimanga fuori, non è forza che lo possa cavar di là: ma i cacciatori con zappette allargano il buco, e a quel modo lo prendono. Doppo tre giorni che è ucciso, accostato al fuoco, si muove non altrimenti che se allora scannato fosse.


Guaral.

Guaral è un animale che somiglia al sopradetto, ma è piú grande, e ha nel capo il veleno e nella coda. Gli Arabi, sí come io ho veduto, gli tagliano quelle due parti e lo mangiano. Ha brutto colore e brutta figura d'animale, di modo che non mi bastò mai l'animo di mangiar della sua carne.


Cameleonte.

Il cameleonte è animal grande come un ramarro, ma è brutto e gobbo e magro, e ha la coda lunga come il topo; cammina piano; si nudrisce d'aria e de' razzi del sole, allo spuntar de' quali verso loro si rivolge aprendo la bocca, e dove si gira il sole ancora egli si volge. Muta eziandio colore secondo la varietà dei luoghi dove si truova, onde se il detto è sopra il negro diventa negro, se sopra il verde verde, e somigliantemente degli altri colori: del che io stesso ne feci la esperienza. È nimicissimo delle serpi che hanno veleno, e quando ne vede una sotto un albero addormentata, subito monta sopra l'albero e considera di esser in luogo che sia diritto sopra il capo della serpe; e allora manda fuori della bocca un filo di sputo come quello dei ranocchi, el quale ha in cima una gocciola a guisa d'una perletta, e se 'l vede che 'l filo non descende diritto sopra il capo della serpe, muove li piedi del luogo, e questo fin che 'l fa cascare detta gocciola sopra la testa, la quale ha questa virtú, che come gliela tocca la penetra e fa morire. Li nostri scrittori africani hanno detto assai cose della sua proprietà e virtú, le quali per ora non mi ricordo.


Struzzo.

Per ragionare eziandio alquanto degli uccelli, lo struzzo è uccello salvatico grande di persona, e ha quasi forma di oca. Ma le gambe ha molto lunghe e cosí il collo, di modo che tali vi sono che gli hanno lunghi due braccia. Il suo corpo è grosso e nelle ali hanno penne grandi, onde non può volare, ma nel correre molto s'aiuta col percuotere delle dette ali e della coda, le quali sono negre e bianche come quelle della cicogna. Suole abitare in secchi diserti dove non si truovi acqua, e fa le sue uova nell'arena, dieci e dodici insieme; e ciascun uovo è grande quanto una pallottola di artigliaria che pesasse quindici e sedici libbre, ma li gioveni le fanno piú piccole. Ma fatte che l'ha, è di sí poca memoria che si scorda il luogo dove gli ha fatti, onde, come la femmina si abbatte in questi uovi, o che essi siano suoi o d'altri, ella gli cova e scalda: e subito che sono nati i piccoli figliuoli, essi vanno per la campagna cercando il cibo, e sono molto veloci nel correre prima che nascano loro le penne, di maniera che non si posson giugnere. Lo struzzo è semplice e non sente cosa alcuna per le orecchie ed è sordo, e mangia ciò che truova, per insino al ferro; e la sua carne è puzzolente e viscosa, massimamente quella delle coscie. Pure nei terreni di Numidia se ne mangia gran quantità, percioché prendono gli struzzi giovani e gli nudriscono e ingrassano, come di sopra si disse. Ed essi vanno a schiera a schiera per lo diserto, onde a chi gli vede dalla lunga par di vedere altretanti uomini a cavallo, il che causa assai volte di gran romori e paure alle carovane. Io ancora ho mangiato di questa carne quando era in Numidia, né mi parve molto cattiva.


Aquila.

Questi uccelli sono divisi in molte spezie circa alla proprietà, alla grandezza e al colore, e la maggiore è detta nella lingua araba nesr.


Nesr.

Questo è il piú grande uccello che si truovi in Africa, ed è maggior della grue, ma ha piú corto il rostro, il collo e le gambe. Tanto ad alto ascende volando che non si vede, e come vede qualche animal morto si cala subito sopra, ma quando vola ne va sempre in compagnia di molti; e vive una lunga età, di maniera che molti se ne hanno veduti ignudi e senza penna alcuna sopra il capo, come se fusse raso. Vivono come è detto molti anni, e per la lunghezza del tempo cascandoli tutte le penne e piume, si riducono a star nelli nidi come se fussero nati allora, e li gioveni gli proveggono di cibo. M'è stato detto che in lingua italiana vien chiamato buettere, il che non ho mai sentito. Usano di abitar nelle rupi delle cime degli altissimi e diserti monti, e piú in quelli d'Atlante; pure coloro che sono pratichi de' luoghi ve ne prendono alcuni.


Bezi, altrimente astore.

Il bezi, detto nella lingua italiana lo astore, si truova in Africa in molta copia. Alcuni sono bianchi, e questi si prendono in certi monti dei diserti di Numidia, e sono i piú cari e i piú perfetti, e con essi si pigliano le grue. Sono di diverse spezie: alcuni sono atti a pigliare coturnici e starne, e alcuni sono buoni per lepri. Nell'Africa s'insegna all'aquile comuni a pigliar volpi e lupi, e combattono insieme, ma l'aquile pratiche gli pigliano sopra la schiena con gli artigli e sopra il capo con il becco, di modo che non gli può aggiunger a morsicargli con la bocca, e se l'animale rivolta la sua schiena verso la terra, l'aquila non si cura fin che l'amazza o cava gli occhi. Dicono molti nostri istorici africani che 'l mascolo dell'aquila qualche fiata si congiunge con la lupa e la ingravida, ma ella tanto sgonfia che crepa, e n'esce fuori un dragone, il quale ha il rostro e le ali di uccello, la coda di serpe e i piedi di lupo, e il pelo pur di serpe macchiato di diversi colori; non ha forza d'alzar le ciglia degli occhi, e abita nelle grotte. Ma io mai nol vidi, né intesi da alcuno che veduto l'avesse; nondimeno è fama publica per tutta l'Africa che si vede questo mostro.


Nottole, altrimenti pipistrelli.

Questi brutti uccelli e nimichi della luce si truovano per tutto il mondo, ma in certe grotte del monte Atlante se ne veggono molti, grandi come colombi e ancora piú, massime nelle ale. Io proprio non gli ho veduti, ma m'è stato referito da infinite persone.


Pappagallo.

Ne' boschi d'Etiopia si truova gran quantità di questi uccelli, di varii e diversi colori, ma i migliori, e quelli che piú perfettamente imparano a formar gli accenti umani, sono i verdi. Se ne veggono molti grandi come colombi, ma sono pure di diversi colori, cioè nero, rosso e berrettino: questi non sono molto atti a imitar le parole, ma hanno suave e dolce voce.


Locuste.

Di questi animali si vede nell'Africa alle volte tanta quantità che, quando esse volano, a guisa di nebbia ricuoprono la luce del sole. Mangiano gli alberi, i frutti e le foglie degli alberi, e partendosi lasciano le loro uove, delle quali altre poi ne nascono, le quali non volano, ma sono peggiori delle madri: queste mangiano per insino alle scorze degli alberi; dove si truovano lasciano gran carestia, massimamente nella Mauritania. Ma i popoli dell'Arabia Diserta e di Libia hanno per somma ventura la venuta di sí fatte locuste, percioché alcuni le mangiano lesse, e altri le asciugano al sole, dipoi le pestano e le fanno come farina, e cosí le mangiano.
Questa è quasi tutta la qualità degli uccelli e degli animali che non si truovano nell'Europa, o sono da quelli che si truovano in qualche parte differenti. Ora, detto che averemo d'alcune poche cose minerali che si truovano in Africa, e di alcuni frutti e arbori domestichi e salvatichi, all'opera imporremo fine.


DE' MINERALI

Sale.

Nella maggior parte d'Africa altro sale non si truova che quello che si cava delle minere nelle grotte, non altrimente che s'ei fusse marmo o gesso, e ve n'è di berrettino, di bianco e di rosso. Nella Barberia se ne truova gran quantità e nella Numidia mediocremente, ma tanto che basta; nel paese de' negri non ve n'è, massimamente nell'Etiopia interiore, dove il detto vale mezzo ducato la libbra. E quelle genti non usano a tenerlo nel salarino sopra la mensa, ma mangiando il pane tengono un pezzo di sale in mano, e per ogni boccone che pigliano pongono la lingua sopra il sale e lo leccano, e ciò fanno per non ve ne consumar molto. In alcuni laghetti e paludi di Barberia si congela la state del sale, il quale è uguale e bianco come ne' luoghi vicini a Fez.


Antimonio.

Questo nasce in alcuni luoghi d'Africa nelle minere del piombo, e i maestri lo dipartono dal piombo col zolfo. Se ne truova gran quantità ne' piedi del monte Atlante verso mezzogiorno, massimamente dove Numidia confina col regno di Fez. Eziandio in altri luoghi si truova molto zolfo.


Euforbio.

Euforbio è gomma di certa erba che nasce a modo d'un capo di cardo salvatico, fra i rami della quale nascono certi frutti grossi come cetriuoli e verdi, i quali hanno pure quei granetti di sopra come il cetriuolo, ma sono molto lunghi, alcuni un braccio e altri piú. Li detti frutti non nascono sopra li rami della detta pianta, ma escano di sotto terra come stipite o fusto: e da uno cespite di questa pianta n'escono venti, venticinque e trenta. I villani di quel paese, come essi sono maturi, gli pungono con un coltello, e fuori n'esce un liquore a guisa di latte, il quale diviene viscoso; dipoi lo levano pur col coltello e lo mettono negli utri, e in quel modo si asciuga. Ed è da sapere che la pianta è tutta spinosa.


Pece.

Sono due sorti di pece: l'una è materiale, e si raccoglie d'in su le pietre le quali sono in mezzo l'acqua d'alcune fonti, e quell'acqua molto pute e ha il sapore della medesima; l'altra sorte è artificiale, e si cava del ginepro o del pino. Io l'ho veduta far nel monte Atlante: fanno un forno tondo e profondo, che ha di sotto una buca che è sopra una fossa come un vaso; pigliano i rami verdi de' detti arbori e, tagliati in pezzi minuti, pongono dentro il forno, e turando la finestra del forno vi si fa un fuoco tiepido, per lo calor del quale il legno si distilla e corre nella fossa, per la buca che è nel fondo del forno, e in questa guisa si raccoglie e si pone negli utri.


Maus frutto, cioè musa.

Questo frutto è molto gentile e dolce, della grandezza de' cetriuoli piccoli, e nasce di piccola pianta, e ha le foglie grande, larghe e lunghe un braccio. Dicono i dottori maumettani questo esser quel frutto che vietò Dio in cibo ad Eva e Adam, percioché come l'ebbe mangiato si scoperse le sue vergogne e, volendole coprire, pigliò le foglie di questo frutto, le qual sono piú atte a coprire che foglie di alcun frutto. Ne nascono molti in Sela, città nel regno di Fez, ma maggior copia in Egitto, massimamente in Damiata.


Cassia.

Gli alberi che fanno la cassia sono grossissimi, e hanno le foglie quasi simili alle foglie del moro. I fiori sono larghi e bianchissimi, e producono tanti frutti ch'è di bisogno levarne molti, innanzi che siano maturi, per potere alleggerirgli, percioché la gravezza gli romperebbe. Nascono solamente nell'Egitto.


Terfez.

Questo si può dire vie piú tosto radice che frutto. È simile alle tartufole, ma è piú grossa e ha la scorza bianca, e nasce nell'arena in luoghi caldi: si conosce dove ella giace al gonfio del terreno un poco rotto. Alcuni sono grandi come le noci, e alcuni piú grossi come le melangole. Secondo i medici, che la chiamano camha, è frutto rinfrescativo. Ne nasce in gran quantità ne' diserti di Numidia, e gli Arabi lo mangiano cosí volentieri come s'ei fusse zucchero. E invero che, arrostito su la bracia e dipoi netto e cotto in brodo grasso, è cibo delicatissimo: gli Arabi lo mangiano bollito in acqua over in latte. Se ne truova ancora in gran quantità nell'arena vicina alla città di Sela.
Del dattero ora niente diremo, per averne parlato a bastanza quando trattammo di Segelmesse, città di Numidia.


Fico egizio, detto dagli Egizii "giumeiz".

L'albero e le foglie di questo fico sono come quelli degli altri fichi, ma sono altissimi e grossissimi. E i frutti non nascono fra le foglie sui rami, cioè sopra il capo delle gemme, ma nel tronco dell'albero, dove non nasce foglia; e hanno il medesimo sapor dei fichi comuni, ma la scorza è molto grossa e il colore pavonazzo.


Ettalche albero.

Questo è un grande e spinoso albero, ha le foglie come il ginepro, e fa una gomma simile ai mastici. Gli speziali d'Africa usano di falsificar li mastici con la detta gomma, percioché ha il medesimo colore e ancora un poco di odore. Simigliante si truova nel diserto di Numidia e di Libia e nel paese de' negri; ma gli alberi di Numidia, quando s'aprono, hanno in mezzo il legno la istessa bianchezza che hanno gli altri alberi, e quelli di Libia sono di dentro pavonazzi, negrissimi quelli della terra de' negri. E questa tal medolla negra è chiamata nell'Italia sangu, e di lei si fanno alcuni belli e gentili strumenti. Il pavonazzo oggidí si adopera dai medici d'Africa a guarire il male francioso, e volgarmente dallo effetto lo chiamano il legno del mal francese.


Tauzarghente radice.

Questa è una radice assai odorifera, la qual si truova nelle rive dell'Oceano di verso ponente. I mercanti di Mauritania ve ne portano nel paese de' negri, dove s'adoperano in luogo di delicato profumo. Ma non bisogna abbruciarla o altrimente scaldarla, percioché tenuta nelle camere rende da se medesima buon odore. In Mauritania una soma di camello vale un ducato e mezzo, ma nel paese de' negri la medesima soma è di valuta di ottanta e cento ducati, e alcuna volta piú.


Addad radice.

Questa è un'erba amara, e la sua radice ha tal veleno che una dramma di quell'acqua stillata ha forza d'uccider l'uomo in termine d'un'ora: e questo è noto in tutta l'Africa per insino alle femine.


Surnag radice.

Quest'altra è similmente una radice, che nasce nel monte Atlante, ma nelle parti di ponente, la qual, come dicono quelle genti, ha virtú di confortare il membro dell'uomo, e moltiplicare il coito a chi la mangia in qualche lattovaro. Ancora affermano che se uno per aventura s'incontra ad orinar sopra la detta radice, che subito il detto membro se gli rizza. Né voglio tacer ancora quello che dicono tutti gli abitatori del monte Atlante, che si hanno truovate molte gioveni, di quelle che vanno pascendo gli animali per questo monte, che hanno perso la loro virginità non per altro accidente se non per aver orinato sopra detta radice: alli quali per giuoco io respondeva creder esser vero ciò che dicevan di detta radice, e appresso che se ne trovavan di tanto avvelenate che non solamente facevan perder la virginità, ma ancora enfiarli tutto il corpo.
Questo è in somma quanto di bello e memorabile ho veduto io, Giovan Lioni, in tutta l'Africa, la qual è stata da me circondata di parte in parte, e quelle cose che mi parsero degne di memoria, sí come io le viddi, cosí con diligenza di giorno in giorno le andai scrivendo; e quelle che non viddi, me ne feci dar vera e piena informazione da persone degne di fede che l'avean vedute; e dapoi con mia commodità questa mia fatica messi insieme e fecine un corpo, trovandomi in Roma. L'anno di Cristo MDXXVI, alli X di marzo.

Finisce il libro di Giovan Lion, nasciuto in Granata e allevato in Barberia.


Le navigazioni di Alvise da Ca' da Mosto e Pietro di Sintra

Delle navigazioni di Alvise da Ca' da Mosto, gentiluomo veneziano


Discorso sopra il libro di M. Alvise da Ca' da Mosto, gentiluomo veneziano


Queste sono le navigazioni del nobil uomo messer Alvise da Ca' da Mosto, fu di messer Zuanne, fatte del 1455 lungo la costa della Bassa Etiopia sopra il mar Oceano verso ponente. Il qual fu il primo che discoprí le isole di Capo Verde, e arrivò fino al rio Grande, gradi 11 e mezzo sopra la linea dell'equinoziale, e dapoi scrisse sommariamente la navigazione del capitano di Pietro Sintra portoghese, che giunse fino a gradi 6 sopra detta linea, dove è il bosco over alboredo di Santa Maria. Le quali veramente sono degne di esser lette dagli studiosi, percioché vederanno il paese verso detta linea, il qual gli antichi savi affermavano che era abbruciato dal sole e senza abitazioni, esser verdissimo e amenissimo e da infinite genti abitato.
È parso ancora molto conveniente luogo di metter dette navigazioni subito doppo il libro di Giovan Lioni, percioché, avendosi l'uomo informato per la lettura di quello delli regni de' Negri ricchissimi di oro posti sopra il fiume Niger, e delle carovane de' mercatanti che al presente di continuo di molti paesi di Barberia vi vanno, passando quelli sí lunghi diserti, con estremo pericolo della vita e infinita spesa di vetture (il che non ebbero mai animo gli antichi di fare), possa leggendo queste navigazioni veder e toccar con mano come si potria aprir un nuovo viaggio a detti regni de' Negri per mare, che saria breve, facile, commodo e sicuro. E sí come al presente ciascuna nazion de' cristiani ha licenzia di poter andar con li loro navilii alla isola di San Tomé a caricar zuccheri, pagando li dretti al serenissimo re di Portogallo, il qual viaggio va sempre lungo la ditta costa, fino sotto della detta linea dove è la isola di San Tomé, cosí fusse lecito a cadauna persona di poter navigar a questi regni de' Negri, pagando similmente li dretti delle robbe che portassero, e come fussero al mezzo del cammino, cioè alla isola di San Iacobo, che è gradi quindici sopra detta linea, fermarsi e di quivi passar sopra la costa della Etiopia al fiume di Senega over al rio Grande, che sono tutti duoi rami del Niger che sboccano in mare, e mandar a contrattar con il re di Tombutto o di Melli di poter venir con suoi navilii e mercanzie sino a detti regni, non è dubbio che non fussero ben veduti e accarezzati e fattoli tutti i piaceri che dimandassero, essendo quelli regni al presente tanto civili e desiderosi delle robbe di Europa, come si è letto nel detto libro di Giovan Lioni. E li mercatanti che facessero questo viaggio sarian sicuri di non trovar corsari per quelli mari, né tante fortune, appressandosi al tropico di Cancro, come si fa nelli nostri mediterranei.
E che bisogna dir? La commodità e facilità che saria a condur ogni sorte di mercatanzia per il detto fiume del Niger, che è grossissimo come il Nilo e si può navigar per cinquecento e piú miglia, trovando sempre città e regni? Appresso, quanto guadagno si faria conducendovi il sale, tanto caro e apprezzato da loro? Del qual si potrian caricar le navi ad una delle isole di Capo Verde detta dal Sale, non per altra cagione che per esser tutta di lagune congelate di sale. E per questo è da esistimare che vi concorreria gran numero di mercatanti per il grande utile che vi saria, essendo viaggio cosí propinquo e non vi andando tanto tempo e spesa come va in quello delle Indie orientali. E oltra l'oro puro e infinito, riporteriano ancora delle loro merci molte teste de Negri, i quali, condotti all'isola di San Iacobo di Capo Verde, si vendono immediate per le Indie occidentali. Ma, sapendo già tanti anni li serenissimi re di Portogallo tutte le sopradette cose, e molte di piú, circa detto viaggio e non avendo voluto che fin ad ora sia fatto, è da pensar che sia stato per loro convenienti respetti, li quali, come non è bene di volergli investigare, cosí ancora penso che non sia lecito il voler discorrer piú oltre sopra di molte altre cose di valore e ad uso del vivere nostro, che si potrian cavare di quella parte della Etiopia qual è fra il tropico di Cancro e l'equinoziale, e corre per li medemi paralleli di longitudine che correno le Indie orientali.

Delle navigazioni di messer Alvise da Ca' de Mosto, gentiluomo veneziano

IL PROEMIO


Essendo io, Alvise da Ca' da Mosto, stato primo che della nobilissima città di Venezia mi sia messo a navigare il mare Oceano fuori del stretto di Gibralterra, verso le parti di mezodí, nelle terre de' Negri della bassa Etiopia, e in questo mio viaggio avendo vedute molte cose nuove e degne di notizia, meritamente mi ha parso sopra di quelle farne qualche fatica e, cosí come nei miei memoriali di tempo in tempo le ho notate, cosí con la penna andarle transcrivendo, acciò che quelli che dapoi di me aranno a venire possino intender qual sia stato l'animo mio a cercarle in diversi e nuovi luoghi, che veramente, in comparazion di nostri, quelli per me veduti e intesi un altro mondo si potrian chiamare. E se per me non saranno cosí ordinatamente scritte come la materia richiede, almeno non mancherò di integra verità in ogni parte, e questo senza dubbio piú presto di manco dicendo che oltra il vero alcuna cosa narrando.
Dovete adunque sapere che il primo inventore di far navigare a' tempi nostri questa parte del mare Oceano verso mezzodí delle terre de' Negri della bassa Etiopia, è stato lo illustre signor infante don Henrich di Portogallo, figliuolo che fu dell'infante don Zuanne, re di Portogallo e di Algarbes primo di questo nome, il quale, ancor che degli studii suoi nelle scienzie delli corsi de' cieli e di astrologia grandemente si possi laudarlo, nondimeno di tutto me ne passo. Solamente dirò che, essendo di gran cuore e sublime ed elevato ingegno, si dette tutto alla milizia del nostro Signor messer Iesú Cristo in guerreggiar a' barbari e combatter per la fede, né volse mai prender donna, sotto grande castità conservandosi in la sua gioventú. Molte cose eccellenti in battaglia de' Mori fece, e con la sua propria persona e per sua industria degne di gran memoria. Dove che, essendo il prefato re don Zuanne suo padre venuto a morte del 1433, chiamò il detto don Henrich suo figliuolo, come quello che cognosceva le sue virtú, e con affettuose parole gli raccomandò la università de' cavalieri portogallesi, pregandolo ed esortandolo a proseguire il suo santo, vero e laudabile proposito di perseguitare con ogni suo potere i nimici della santa fede di Cristo. Il qual signore, brevemente parlando, li promise di farlo, e dapoi la morte del padre fece col favore del re don Doarth, suo fratello maggiore, qual successe nel regno di Portogallo, molta guerra in Africa a quelli del regno di Fessa; il che essendoli successo felicemente molti anni, procurando per ogni via possibile dannificar il detto regno, se imaginò di voler far che le sue caravelle armate scorresseno la costa di Azafi e Messa, che sono pur del predetto regno di Fessa, qual vien fino sopra il mare Oceano dalla parte di fuori del stretto di Gibralterra. E cosí le mandò di anno in anno, quali fecero molti danni a' Mori, in modo che, sollecitando il prefato signore di farle navigar ogni anno piú avanti, le fece andar fino ad un promontorio detto Capo Non, qual vien cosí chiamato fin a questo giorno. E questo capo fu sempre il termine dove non si trovava alcuno che, piú oltra si fosse passato, mai tornasse, in tanto che 'l si diceva Capo de Non, cioè chi 'l passa non torna; sí che fino a questo capo andorono le dette caravelle, e piú avanti non osavan passare.
E desiderando il detto signore di saper piú oltra, terminò che le dette caravelle l'anno seguente passassino il detto capo col favore e aiuto di Dio, percioché, essendo le caravelle di Portogallo i migliori navilii che vadino sopra il mare di vele, ed essendo quelli bene in punto d'ogni cosa che gli fa di bisogno, esistimava non esser possibile che non potessero navigar per tutto. E, desideroso di scoprir e intendere cose nuove, a fine di sapere le generazioni degli abitanti in quei paesi, per voler offender Mori, fece mettere ad ordine tre altre caravelle di tutte le cose necessarie e messevi dentro di valenti uomini, quali andorono e passorono il detto capo, navigando per la costa di giorno e di notte sorgendo. Ed essendo andati circa miglia cento piú oltre che 'l detto Capo di Non, e non trovando abitazione né gente alcuna, salvo tutta terra arenosa, tornorono indrieto. E veduto il prefato signore quell'anno non aver potuto intendere cosa alcuna, l'anno seguente le tornò a rimandare, con ordine che passassero piú oltre di dove erano state le predette sue caravelle miglia 150 e piú, se piú gli paresse, che tutti gli faria ricchi: e cosí andorono, i quali similmente non trovando altro che arena se ne tornorono. E, brevemente parlando, sapendo il prefato signor infante, per la cognizione delle scienzie che lui avea, che al fine si troverian genti e abitazioni, tante volte e tanti anni ve le fece andare che vennero in notizia alcune parti esser abitate da Arabi che vivono in quei diserti, e piú oltra da una generazione che si chiama Azanaghi, che sono uomini berrettini, de' quali piú avanti se ne farà larga menzione. A questo modo furono scoperte determinatamente le terre de' primi Negri, dove dipoi di tempo in tempo s'intese di altre generazioni, di diverse lingue, costumi e fede, come nel successo di questo mio libro piú largamente si vederà.

NAVIGAZION PRIMA

Trovandomi adunque io, Alvise da Ca' da Mosto, nella nostra città di Venezia l'anno del Signor MCCCCLIIII, essendo di età di circa anni ventidue, avendo navigato per alcune parti di questi nostri mari mediterranei, avea determinato di tornare in Fiandra, dove un'altra volta ero stato, e questo a fine di guadagnare. Perché tutto il pensier mio era di esercitar la mia gioventú travagliando per ogni via possibile, per acquistarmi facultà, accioché poi con la esperienzia del mondo in età potessi pervenir a qualche perfezione di onore. E avendo deliberato di andarvi, come ho detto, mi misi in punto con quelli pochi danari che mi trovavo, e montai sopra le galee nostre di Fiandra, capitano messer Marco Zen cavalier. E cosí nel nome di Dio partimmo di Venezia nel sopranominato millesimo adí otto d'agosto, e navigammo per nostre giornate faccendo le nostre scale ne' luoghi consueti, fin che capitammo in Spagna. E ritrovandomi per tempi contrari star con dette galee al Capo di San Vicenzo, che cosí vien chiamato, avenne per aventura non troppo lontano di quel luogo esservi alloggiato il prefato signor infante don Henrich, in una villa vicina chiamata Reposera, nella qual, per esser remota dalli tumulti delle genti e atta alla contemplazione degli studii suoi, vi abitava molto volentieri. E avendo notizia di noi, mandò alle nostre galee un suo secretario nominato Antonio Gonzales, e in sua compagnia un Patrizio di Conti, quale si dicea esser veneziano e consolo della nostra nazione nel detto regno di Portogallo, come mostrò esser vero per una lettera della nostra signoria con il sigillo pendente, il qual Patrizio ancora lui era provisionato del prefato signor infante. E vennero alle predette nostre galee per sua commissione, con alcune mostre de zuccari della isola di Madera, e di sangue di drago e altre cose cavate delli luoghi e dell'isole del prefato signore. Le qual mostrate a piú persone, essendo io presente, e dimandati da' nostri delle galee di diverse cose, disseno che questo signore avea fatto abitare isole nuovamente trovate, le quali mai per avanti erano state abitate, e in segno di questo mostravano li detti zuccari e sangue di drago e altre buone cose utili; e che questo era niente rispetto ad altre maggior cose che detto signor faceva, dichiarandoci come, da certo tempo in qua, aveva fatto navigar mari che mai per altri furono navigati, e discoperte terre di diverse generazioni strane, fra le quali si truovano cose maravigliose, e che quelli che erano stati in quelle parti avevano fatto fra quella nuova gente di grossi guadagni, perché di un soldo ne facevano sette e dieci. E circa questo dissero tante e tante cose che mi fecero fra gli altri assai maravigliare, anzi mi fecero crescere un desiderio di volergli andare.
E dimandando se 'l prefato signor lasseria andar cadauno che vi volesse navigare, risposono de sí, faccendo l'una delle due condizioni quello che vi voleva andare, cioè che armasse la caravella a sue spese e mettervi la mercanzia, e poi di ritorno saria obligato a pagar per dretto e costume al prefato signore il quarto d'ogni cosa ch'egli riportasse, e le altre parti fossero sue; o che veramente il detto signore armaria lui la caravella a chi volesse andarvi a tutte sue spese, solamente quello vi mettesse la mercanzia, e poi al ritorno partissero per metà tutto quello che si trazesse de' detti luoghi, e che in caso che non si trazesse alcuna cosa, che la spesa fusse fatta a suo danno. E questo dichiarò che 'l non si poteva tornare se non con gran guadagno, e che, se alcuno della nostra nazione vi voleva andare, che 'l predetto signore l'averia gratissimo e fariali gran favore, perché lui presumeva che nelle dette parti si scopreriano speciarie e altre buone cose, e sapeva che li Veneziani ne erano piú cognoscitori che alcun'altra nazione. Udito questo, terminai di andare con li sopradetti a parlare al detto signore, e cosí feci, qual brevemente mi confirmò tutto quello che mi aveano detto esser vero, e molto piú, promettendo di farmi onore e utile se volessi andarvi. Io veramente, inteso il tutto, vedendomi giovane e ben disposto a sostener ogni fatica, desideroso di veder del mondo e cose che mai alcun della nazion nostra non avea veduto, sperando etiam di doverne conseguire onore e utile, deliberai al tutto di andarvi. E informatomi delle mercatanzie e cose che vi erano necessarie, venni alla galea dove, consegnate tutte le cose che avea per ponente ad uno mio parente, comperai sopra dette galee quelle che mi parvon esser necessarie per mio viaggio, e cosí dismontai in terra, e le galee seguirono il suo viaggio per Fiandra.


Come messer Alvise, rimaso al Capo di S. Vicenzo, l'anno seguente si partí per le Canarie.

Essendo io rimaso al Capo di San Vicenzo, il detto signor infante mostrò aver gran piacere e mi fece festa assai; e dapoi molti e molti giorni mi fece armare una caravella nova, di portada di circa botte novanta, della quale era patrone uno Vincente Dies, natural di Lagus, che è uno luogo appresso il Capo San Vincenzo a miglia sedeci. E, fornita di tutte le cose necessarie, col nome di Dio e in buona ventura partimmo dal sopradetto Capo San Vincenzo adí ventidue marzo MCCCCLV, con vento da greco e tramontana in poppe, drizzando il nostro cammino verso l'isola di Madera, andando alla quarta di garbin verso ponente a via dritta. Alli venticinque del detto mese giungemmo all'isola di Porto Santo, circa mezzogiorno, che è lontana da detto capo San Vincenzo miglia DC in circa.


Dell'isola di Porto Santo dove arrivò.

Questa isola di Porto Santo è molto piccola, volge circa miglia quindici, trovata da ventisette anni in qua dalle caravelle del sopradetto signore infante: e lui l'ha fatta abitare da Portogallesi, che mai per avanti fu abitata. E governatore di quella uno Bartolomeo Pollastrello, uomo del detto signore. Questa isola raccoglie formento e biava per suo uso, ed è abbondante di carne de bovi, porci salvatichi e d'infiniti conigli. E in quella vi si truova ancora sangue di drago, il qual nasce da alcuni arbori, cioè gomma che fruttan ditti arbori certo tempo dell'anno, e tirasi in questo modo: danno alcuna botta di mannara al piè dell'arbore, e l'anno seguente a certo tempo le dette tagliature buttano gomme, le quali cuocono e purgonle e fassen sangue; e il detto arbore produce un certo frutto, che nel mese di marzo è maturo e bonissimo da mangiare, a similitudine di cerese, ma è giallo. E nota che a torno di detta isola vi si truovano gran pescarie di dentali e orade vecchie e altri buoni pesci. Questa isola non ha porto, ma ha buon staggio, coperto da tutti i venti, salvo che da levante e sirocco e da ostro e sirocco, che con tal venti non si staria ben securi: ma, che che si sia, ha buon tegnitore. Questa isola è chiamata Porto Santo perché fu trovata da' Portogallesi il giorno d'Ogni Santi. E fassi il miglior mele che credo che sia al mondo e cera, ma non per gran somma.

Del porto dell'isola di Madera, e delle cose che ivi nascono.

Dapoi adí ventiotto marzo partimmo dalla detta isola e in quel medesimo giorno giungemmo a Monchrico, che è uno de' porti dell'isola di Madera, la quale è distante da quella di Porto Santo miglia quaranta, e vedesi con tempo chiaro l'una dall'altra. Questa isola di Madera ha fatto abitare il prefato signore da Portogallesi pur da ventiquattro anni in qua, la quale mai per avanti fu abitata. E ha fatto governatori di quella duoi suoi cavalieri, de' quali uno ha nome Tristan Tessera, e costui tiene la mità dell'isola dalla parte di Monchrico; e l'altro, nominato Zuangonzales Zarcho, tien l'altra metà dalla parte del Fonzal. E chiamasi l'isola di Madera, che vuol dire isola de' legnami, perché, quando prima fu trovata per quelli del detto signore, non vi era un palmo di terra che tutta non fusse piena di arbori grandissimi: e fu necessario alli primi che la volsero abitare darli il fuoco, il quale andò ardendo per l'isola un buon tempo. E fu sí grande il primo fuoco, che mi fu detto che al sopradetto Zuangonzales, che ivi si trovava, fu necessario lui e tutti gli altri con le mogliere e figliuoli fuggir dalla furia e redursi all'acqua in mare, dove stettero in essa fin alla gola per circa duoi giorni e due notti senza mangiare né bere, che altramente sariano morti. Cosí spazzorno gran parte di detto legname, faccendo terra da lavorare.
Questa isola è abitata da quattro parti: la prima si chiama Monchrico, la seconda Santa Croce, la terza il Fonzal, la quarta Camera di Lupi. E benché l'abbia altre abitazioni, queste sono però le principali, e potrebbe far circa uomini ottocento, fra li quali ne saranno cento a cavallo. L'isola volge miglia cento e quaranta; non ha porto alcuno serrado, ma ha buoni staggi, e ha paese fruttuosissimo e abbondante. E posto che la sia montuosa come la Cicilia, nientedimeno è fertilissima: raccoglie ogni anno stara trentamila veneziani di formento, e quando piú e meno. I terreni suoi solevano rendere al principio sessanta per uno, e al presente è ridotta a trenta e quaranta, perché li terreni si vanno frustando alla giornata. E il paese è copioso d'acqua di fontane gentilissime, e ha circa otto fiumicelli molto grandi che traversano la detta isola, sopra li quali sono fatte alcune seghe che continuamente lavorano legnami e tavole di molte sorti, di che si fornisce tutto Portogallo e altri luoghi. Delle qual tavole di due sorti ne faccio conto: l'una è di cedro, che ha grande odore ed è simile al cipresso, e fannosi bellissime tavole larghe e lunghe e casse e altri lavori; l'altra sorte è di nasso, che anche sono bellissime e di color di rosa rossa. E per esser bagnata di molte acque, il sopradetto signore ha fatto mettere in questa isola molte cannemele, le quali han fatto gran prova, e fansi zuccari per somma di cantara quattrocento d'una cotta e di mistura. E per quello che posso intendere, se ne farà con tempo maggior somma, per esser paese molto conveniente a tal cosa per l'aere caldo e temperato, che mai non vi fa freddo da conto, come in Cipri e in Cicilia; e fannosegli di molte confezioni bianche che sono in tutta perfezione. Produce cere e mele, ma non in quantità. Vi nascono vini assai buonissimi secondo l'abitazion nova, e sono tanti che bastano per quelli dell'isola e se ne navica ancora fuori assai. Fra le cui vite il detto signor fece mettere piante overo rasoli di malvasie, che mandò a torre in Candia, quali riuscirono molto bene. E per esser il paese tanto grasso e buono, le viti producono quasi piú uva che foglie, e li graspi sono grandissimi, di lunghezza di duoi palmi e di tre e ardisco a dire anco di quattro, ch'è la piú bella cosa del mondo da vedere. Sonvi eziandio uve nere di pergola senza ciollo, in tutta perfezione. E fansi in ditta isola archi di nasso bellissimi e buoni, e navigasene in ponente, e anco bellissimi fusti da balestra e fusti da tenier.
Trovansi in quella pavoni salvatichi, fra li quali ve ne sono de bianchi, e pernici, né altre salvadicine hanno, salvo quaglie e copia di porci salvatichi alle montagne. E dico aver inteso da uomini di quella isola degni di fede che nel principio vi si trovava grandissima copia di colombi, e ancora ve n'è, alli quali andavano a caccia con un certo lacciuolo che li mettevan con una mazzetta, qual pigliava il colombo per il collo e tiravalo giuso dall'arbore, e il colombo non aveva paura: e questo avveniva perché il colombo non conosceva che cosa fosse l'uomo, né erano usati ad esser spaventati; e puossi credere, perché in un'altra isola nuovamente trovata ho udito esser stato fatto il simile. È abbondante la detta isola di carne; e sono in quella molti ricchi uomini secondo il paese, perché la è tutta un giardino, e tutto quello che vi si raccoglie è oro. In questa isola vi sono monasterii di frati minori di osservanzia, e sono uomini di santa vita. E ho udito dire da uomini da bene e degni di fede aver visto in questa isola, per la temperie dell'aere, agresta e uva matura la settimana santa over per tutta l'ottava di Pasca.


Delle sette isole delle Canarie e delli loro costumi.

Partimmo dalla infrascritta isola di Madera seguendo il nostro cammino per ostro e pervenimmo alle isole di Canaria, che sono distanti dell'isola di Madera circa miglia trecento e venti. Queste isole di Canaria sono sette: quattro abitate da cristiani, cioè Lanzarotta, Forte Ventura, la Gomera e il Ferro; tre sono de idolatri, cioè la Gran Canaria, Teneriffe, la Palma. Il signore di queste abitate da cristiani è nominato Ferrera, gentiluomo e cavalier naturale della città di Sibillia e soggetto al re di Spagna. Il vivere di questi cristiani, per quello che hanno queste isole, è pan d'orzo, carne e latte assai, principalmente di capra, delle quali ne hanno molte. Non hanno vini né formenti, se d'altre parti non ve n'è portato; pochi frutti, né quasi niuna altra cosa buona hanno. Trovasi in queste isole copia di asini salvatichi, e spezialmente nell'isola del Ferro. E sono queste isole lontane l'una dall'altra da quaranta in cinquanta miglia; tutte stanno alla fila l'una doppo l'altra, e guardasi la prima con l'ultima, quasi levante e ponente. Si tragge da queste isole gran somma d'una erba che si chiama oricello, con il quale si tingono panni, il qual capita in Calese e al rio di Sibillia, e de lí si naviga per levante e per ponente. Traggesi etiam gran somma de corami di capra, che sono grossi e in tutta perfezione, e sevo assai e anche di buoni formagi. Gli abitanti di queste quattro isole soggette a' cristiani sono canarii, e sono differenti di linguaggio e poco s'intende l'un con l'altro; le quali isole non hanno alcuno luogo murato, salvo villaggi, ma hanno ridotti nelle montagne, per esser quelle altissime, e passi molto forti, che tutto il mondo non gli pigliaria salvo che per assedio. Questo basti quanto alle quattro abitate da cristiani: cadauna delle dette isole è grande, e la minore di esse non volge meno di novanta miglia.
Le altre tre, abitate da idolatri, sono maggiori e molto meglio abitate, e spezialmente due, cioè la Gran Canaria, che fa da circa otto in novemila anime, e Teneriffe, che è maggior di tutte tre, che si dice aver da quattordici in quindecimila anime; la Palma fa poca gente, è bellissima isola a vedere. Le qual tre isole, per esser abitate da molta gente da difesa, con montagne altissime e luoghi pericolosi, quali sono forti, non si hanno mai potuto subiugar da' cristiani. De Tenariffe, che è la piú abitata, è da farne menzione, che è una delle piú alte isole del mondo, e vedesi con tempo chiaro un grandissimo cammino. E da marinari degni di fede ho inteso quella aver vista in mare a suo arbitrio da sessanta in settanta leghe di Spagna, che sono da dugentocinquanta miglia de' nostri, perché l'ha una punta over monte nel mezzo d'isola a modo di diamante, che è altissima e continuamente arde. E questo si può intendere da' cristiani che sono stati presoni in detta isola, che affermano la predetta punta esser alta dal piedi fino alla cima leghe quindici di Portogallo, che sono miglia sessanta de' nostri italiani. In questa isola hanno fra loro nove signori, chiamati duchi: non sono signori per natura, che succeda il figliuolo al padre, ma chi piú puole è signore; e fanno alle volte fra loro guerre, ammazzandosi come bestie. Non hanno altre armi che pietre e mazze a modo di dardi, e alla punta mettono un corno aguzzo in luogo di ferro; le altre che non hanno corno sono abbruciate nella punta, e fassi quel legno duro come ferro, e con quello offendono. Vanno sempre nudi, salvo che alcuni pur si mettono certe pelli di capra, una davanti l'altra di drieto; e ungonsi la carne di sevo di becco composto con sugo d'alcune loro erbe, che ingrossa la pelle e defende dal freddo, benché poco freddo regni in quelle parti, per esser verso l'ostro. Non hanno case di muro né di paglia: stanno in grotte o sia in caverne di montagne. Vivono d'orzo e di carne e latte di capra, di che ne hanno abbondanzia, e di alcuni frutti, spezialmente di fichi; e per esser il paese molto caldo, raccolgono le sue biade del mese di marzo e d'aprile. Non hanno fede, ma adorano alcuni il sole, altri la luna e altri pianeti, e hanno nuove fantasie di idolatria. Le femmine sue non sono communi, ma a ciascuno è lecito pigliarne quante vuole; e non torriano femmine vergini se prima non dormissero col signor suo una notte, e questo lo reputano grande onore.
E se mi fusse detto come si sa queste cose, rispondo che gli abitanti delle quattro isole de' cristiani hanno per costume, con alcune loro fuste, andar ad assaltar queste isole di notte per pigliar di questi Canarii idolatri, e alle volte ne prendono maschi e femmine e li mandano in Spagna a vendere per schiavi. E intraviene che alle fiate rimangono presi alcuni delle fuste, i quali detti Canarii non fanno morire, ma fannoli ammazzar capre e scorticarle e far carne, che tengono per vilissimo officio, e per dispregiarli, e li fanno far fino a tanto che si possino scodere. Hanno detti Canarii un'altra usanza, che quando li signori suoi entrano nuovamente nella signoria, alcuno si offerisce voler morire per onorar la festa. E vengono tutti ad una certa valle profonda, dove, dapoi fatte certe sue cerimonie e dette alcune parole, quel tale che vuol morire per amor del signore si getta giuso in quella gran valle e fassi in pezzi: e dipoi quel signore riman obligato a far grandissimo onore e beneficio alli parenti del morto. Questo costume brutto e bestiale vien detto esser cosí, e li cristiani che sono scossi di preson l'affermano.
Ancora questi Canarii sono uomini sutti e gran corridori e saltatori, per esser avezzi in quei brichi di quelle isole piene di montagne: e saltan di sasso in sasso discalzi come caprioli, e fanno salti che non sono da credere. Ancora tirano dretto e fortemente una pietra, sí che percuotono dove vogliono, e hanno sí fatto braccio che a pochi colpi fanno uno scudo in mille pezzi. Dinotandovi che io viddi un Canario cristiano nell'isola di Madera, che si obbligava a pegno dare a tre uomini dodici naranzi a cadauno, e lui ne voleva prendere altri dodici, e si obbligava ferir cadauno di loro con li suoi dodici naranzi, in modo che niuno anderia a fallo e che mai alcun di loro non lo toccaria con alcuno delli suoi, salvo che nelle mani per volersi con quelle riparare, e che non si approssimassero a lui ad otto o vero dieci passa: e non si trovò chi volesse stare al pegno, perché ciascuno cognosceva che 'l faria meglio di quello che 'l diceva. Sí ch'io concludo che i piú destri e piú leggieri uomini che siano al mondo è la progenie di costoro. Ancora sanno dipingersi, cosí maschi come femmine, le carne sue con sughi d'erbe verdi, rossi e gialli, e tengono che simili colori siano una bella divisa, faccendone oppenione come facciamo noi delle belle veste. Io Alvise fui in due di dette isole di Canaria, cioè nell'isola Gomera e nel Ferro, che sono de' cristiani, e anche all'isola della Palma, ma in questa non dismontai per seguir il nostro viaggio.


Del Capo Bianco della Etiopia, e dell'isola d'Argin e altre vicine.

Partimmo da questa isola navigando tuttavia per ostro verso l'Etiopia, e pervenimmo in pochi giorni al Capo Bianco, distante da questa isola di Canaria circa miglia ottocentosettanta. Ed è da notare che, partendosi dalle dette isole per venir verso il detto capo, si vien scorrendo la costa dell'Africa, la qual andando per ostro ne viene a romagnir a man sinistra, benché l'uomo scorri largo e non abbi vista di terra, perché le dette isole di Canaria sono molto fuora in mare verso ponente, e una piú fuori dell'altra. E cosí va l'uomo scorrendo largo da terra finché l'ha passato al meno i duoi terzi del cammino che è dalle dette isole al detto Capo Bianco, e poi si appressa a man sinistra con la costa fino che ha vista di terra, per non scorrere il detto Capo Bianco senza riconoscerlo. Perché oltra il detto capo non si vede terra alcuna fino a gran cammino piú avanti, mettendo la costa dentro al detto capo, e dove si fa un colfo che si chiama la forna d'Argin, il qual nome deriva da una isoletta che è posta nel detto colfo, la qual vien cosí chiamata per quelli del paese d'Argin. Ed entra il detto colfo dentro piú di cinquanta miglia, e sonvi ancora tre isole, alle quali per Portogallesi sono stati posti questi nomi: l'isola Bianca, per esser quella arenosa; e l'isola delle Garze, perché li Portogallesi primi vi trovorno in essa tante ova di questi uccelli marini che ne cargarono due barche delle caravelle; la terza l'isola di Cuori. E tutte sono piccole, arenose e non abitate, e in quella d'Argin si truova dell'acqua dolce assai, nelle altre no.


Discorso dell'Etiopia e del diserto ch'è fra quella e la Barberia,
e per che causa fu chiamato Capo Bianco.

E nota che, partendosi l'uomo fuora del stretto di Gibralterra, venendo a man sinistra per la detta costa, che è della Barberia verso questa Etiopia, non si truova abitato da detti Barbari salvo per fin al capo detto di Canthin. E dal detto capo per la detta costa verso il Capo Bianco cominciano le terre arenose, che è il diserto che confina alla parte di tramontana con le montagne, le quali serrano questa nostra Barberia di qua da Tunis e da tutti quelli luoghi della costa; il qual diserto i detti Barberi chiamano Sarra, e dalla parte di ostro confina con Negri d'Etiopia. Ed è grandissimo diserto, che dura a traversare da cinquanta in sessanta giornate di uom cavalcante, e in alcuni luoghi piú e meno; e viene a bere questo diserto sul mare Oceano alla costa, la qual è tutta arenosa e bianca e secca, ed è terra bassa tutta eguale, e non mostra esser piú alta in un luogo che in l'altro fino al detto Capo Bianco, il qual fu chiamato cosí perché i Portogallesi che prima lo trovorono viddero quello esser arenoso e bianco, senza segnale di erba o di arbore alcuno. Ed è bellissimo capo per esser in triangolo, cioè in faccia di esso fra tre punte, larghe l'una dall'altra circa un miglio.


De' pesci che si trovano in detta costa, e delle secche dell'arena che sono nel colfo d'Argin.

In tutta questa costa si truova grandissima pescaria e senza fine di diversi e buonissimi pesci, grandi e simili alli nostri che abbiamo di qua in Venezia, e anche d'altra forma. Nel detto colfo d'Argin per tutto è poca acqua, e sonvi molte secche, alcune d'arena e alcune di pietra. E qui il mare ha gran correntia d'acqua, per la qual cosa non si naviga salvo che di giorno, col scandaglio in mano e con l'ordine dell'acqua: e in detto colfo si ruppeno già duoi navilii in le dette secche. E il capo antedetto di Cantin si guarda con Capo Bianco quasi greco e garbin.


Del luogo di Hoden, e suoi costumi e mercanzie.

Dovete ancora sapere che drieto del detto Capo Bianco fra terra è uno luogo per nome chiamato Hoden, ch'è dentro circa sei giornate di camello, il qual luogo non è murato, ma è ridutto d'Arabi e scala dove capitano le carovane che vengono da Tombutto e d'altri luoghi de' Negri, quali vogliono venire a queste nostre Barberie di qua. E il viver degli abitanti di questo luogo sono dattili e orzi, delli quali hanno copia, che pur ne nascono in alcuni suoi luoghi, ma non a bastanza; e beveno latte di camello e d'altri animali, perché non hanno vino. Hanno etiam vacche e capre, ma non molte perché la terra è secca; e sono i buoi e vacche piccoli a rispetto de' nostri.
Costoro sono macomettani e inimicissimi de' cristiani, e non stanno mai fermi, ma sempre vanno vagando per quelli diserti. Sono uomini che vanno alle terre de' Negri, e vengono etiam a queste nostre Barberie di qua; e sono in gran numero e hanno gran copia di camelli, e con quelli conducono i rami e argenti delle Barberie e altre cose a Tombutto e alle terre de' Negri, e di là trazzeno oro e melegette che conducono di qua. E sono uomini bruni, e vestono alcune cappette bianche su le carne, con una tressa nelli capi rossa, e cosí vestono le lor femmine senza camicia; in testa portano gli uomini uno fazzuolo alla moresca, e vanno discalzi sempre. In questi luoghi arenosi si truova copia di leoni e liopardi e struzzi: dell'ova di quelli ho mangiato assai volte, e sono buone.


Dello appalto fatto per il signor infante nell'isola d'Argin cerca le mercanzie; del fiume di Senega e de' costumi degli Azanaghi.

E il preditto signor infante ha fatto di questa isola d'Argin uno appalto per dieci anni a questo modo, che nissuno possi entrare in questo colfo per mercadantare con li detti Arabi, salvo quelli che hanno l'appalto, i quali hanno abitazione in detta isola, e tengono fattori che comprano e vendono con li detti Arabi che vengono alle marine, faccendo mercanzie di diverse cose, come sono panni, tele e argenti e alchizeli, cioè cappette, tappedi e altre cose, e sopra tutto formento, perché sono sempre affamati. E hanno all'incontro teste de Negri, che conducono i detti Arabi delle terre de' Negri, e oro tiber. In modo che questo signor infante fa lavorar un castello in detta isola per conservar questo traffico in perpetuo, e per tal cagione tutto l'anno vanno e vengono caravelle di Portogallo alla detta isola. Hanno anco detti Arabi molti cavalli barbari, di quali loro ne fanno mercanzia, e gli conducono nelle terre de' Negri vendendoli ai signori, i quali gli danno all'incontro teste de schiavi: e vendon detti cavalli da dieci fin a quindeci teste l'uno, secondo la bontà loro. Similmente vi conducono lavori di seda moreschi, che si fanno in Granata e a Tunis di Barberia, e argenti e molte altre cose; all'incontro hanno copia di queste teste e alcuna somma d'oro. Le qual teste capitano alla detta scala e luogo di Hoden e de lí si dividono, che parte ne va alli monti di Barcha, e de lí capitano in Sicilia, e parte ne capitano al detto luogo di Tunis e per tutta la costa di Barberia; e un'altra parte conducono a questo luogo d'Argin e vendesi a' Portogallesi dell'appalto, in modo che ogni anno si trazze d'Argin per Portogallo da settecento in ottocento teste.
Dichiarando che, avanti che fussi ordinato questo traffico, solevano le caravelle de Portogallo venire a questo colfo d'Argin armate, quando quattro e quando piú, e saltavano in terra di notte e assalivano alcuni villaggi de pescatori e anche scorrevano fra terra, in modo che prendevano di questi Arabi, sí mascoli come femmine, e conducevanli in Portogallo a vendere. E cosí facevano per tutta l'altra costa e piú avanti, che tien del detto Capo Bianco fino al rio di Senega, il quale è uno gran fiume e parte una generazione che si chiama Azanaghi del primo regno de' Negri: i quali Azanaghi sono uomini berrettini, e piú presto forte bruni che berrettini, e abitano in alcuni luoghi della detta costa che è di là dal Capo Bianco, e vanno per quel diserto molti di loro fra terra, e confinano coi sopradetti Arabi di Hoden. Questi vivono pur ancora loro di dattili e orzo e latte di camello; ma per esser loro piú vicini alla prima terra de' Negri praticano fra loro, e traggono delle dette terre de' Negri migli e qualche legumi, cioè fasuoli, con li qual si sostengono. Sono uomini di poco cibo e che patiscon la fame, perché con una scudella di sugoli di farina d'orzo si mantengono tutto il giorno freschi: e questo fanno per il mancamento che hanno di vettovaglie. Di questi tali, come ho detto, prendevan i detti Portogallesi e li vendevan come di sopra, ed erano i migliori schiavi di tutti li Negri.
Ma, come si sia, da un certo tempo in qua tutto si è ridotto a pace e a tratto di mercanzia, e non consente il detto signor infante che sia fatto piú danno ad alcuno, perché 'l spera che, conversando con cristiani, leggiermente si potriano ridurre alla fede nostra, non essendo ancora ben stabiliti nella fede macomettana, salvo di quanto hanno udito dire. E questi tali Azanaghi hanno un stranio costume, che continuamente portano un fazzuol a torno la testa, con un capo che viene a traverso il viso, e si cuoprono la bocca e parte del naso; e dicono che la bocca è una brutta cosa, che continuamente rende ventositade e malfiato, e per tanto si deve tener coperta e non la mostrar, volendola quasi comparar al culo, e che queste due parti si debbono coprire. È vero che loro mai non se la discuoprono, avendovene veduti molti, salvo quando mangiano e non piú. Costoro non hanno signori fra loro, salvo che quelli che sono piú ricchi sono reveriti e ubbiditi alquanto piú degli altri. Sono povera gente, bugiardi, ladri piú che uomini del mondo e gran traditori. E sono uomini di comune grandezza e magri, e portano li capelli ricci giú per le spalle, quasi al modo di Alemani: ma sono i capelli loro negri tutti, e se gli ungono ogni giorno con grasso di pesce; per questo puzzano molto, il che reputano per gran gentilezza.


Quel che stimassero gli Azanaghi esser navilii, quando furono da loro primamente veduti.

Ed è da sapere che costoro non hanno avuto notizia d'altri cristiani salvo de' Portogallesi, li quali li fecero guerra per anni tredici o quattordici, prendendone molti di loro, come ho predetto, e vendendoli per schiavi. Certificandovi che quando costoro ebbero la prima vista di vele over navilii sopra il mare (che mai per avanti né per loro né per suoi antecessori erano stati veduti), credettero che quelli fossero uccelli grandi con ale bianche, che volassero e fussero venuti d'alcun strano luogo; e dapoi che abbassavano le vele per sorzere, alcuni di loro pensavano che quelli navilii fussero pesci, vedendoli cosí da lungi. Altri dicevano che erano fantasme che andavano di notte, e ne avevano grandissima paura: e questo perché la sera alle fiate erano assaltati in un luogo e in quella medesima notte all'alba veniva esser fatto quel medemo cento miglia piú oltra per la costa, o alle volte piú indrieto, secondo che ordinavano quelli delle caravelle di fare e secondo li respondevan li venti. E dicevan tra loro: "Se queste fussero creature umane, come potriano andar tanto cammino in una notte, che noi non potessamo andarvi in tre dí?", non intendendo il modo del navigare: sí che del tutto tenevano che fussero fantasme. E di questo sono stato certificato da molti Azanaghi che sono schiavi in Portogallo, e da molti Portogallesi che a quel tempo praticavano a quelle riviere con caravelle: e per questo si puol considerare quanto fossero novi nelle cose nostre, avendo tale oppenione.


D'un luogo detto Tegazza, dove si cava grandissima quantità di sale, e dove quello si porta e come, e in che modo si fa la mercatanzia di esso sale.

Sopra la detta scala di Hoden piú fra terra giornate sei vi è un luogo che si chiama Tegazza, che vuol dire in nostra lingua "carcadore", dove si cava una grandissima quantità di sale di pietra, e quella ogni anno da grandissime carovane di camelli de' sopradetti Arabi e Azanaghi, partiti in piú parti, vien portata per Tombutto, e di lí vanno a Melli, imperio de' Negri. Dove subito giunto il detto sale in otto giorni tutto si spaccia, a pregio di mitigalli dugento fin trecento la carga, secondo la quantità: e un mitigal val un ducato vel circa; poi col suo oro tornano alle sue case. In questo imperio di Melli vi è gran caldo, e li cibi sono molto contrarii alle bestie quadrupedi, che la maggior parte che vi vanno con le carovane, di cento non ne tornano venticinque indrieto. E nel detto paese non hanno bestie da quattro piedi, perché tutte moreno; e anco molti delli sopradetti Arabi e Azanaghi si ammalano nel detto luogo e moreno, e questo per il gran caldo. E dicono che da Tegazza a Tombutto sono circa quaranta giornate da cavallo, e da Tombutto a Melli trenta.
Ho dimandato a costoro quello che fanno i mercanti di Melli di questo sale: rispondeno che una piccola quantità di quello si consuma nel loro paese, conciosiacosaché, per esser loro propinqui allo equinoziale, dove continuamente è tanto il giorno quanto la notte, vi sono estremi caldi a certi tempi dell'anno, qual putrefà il sangue, per modo che, se non fusse quel sale, moreriano. Ma la medicina che fanno è questa: prendono un pezzetto di detto sale e lo distemperano in una scodella con un poco d'acqua, e quella bevono ogni giorno. Con questo dicono salvarsi, e che 'l resto della detta quantità di sale la conducono in pezzi cosí grandi quanto abilmente uno uomo possa portarli sopra la testa, con uno certo suo ingegno, un lungo viaggio. E il detto sale vien condotto a Melli con li predetti camelli, in duoi pezzi grandi cavati dalla minera, che pareno piú abili a cargar sul camello, portandone ogni camello duoi pezzi. E dipoi a Melli questi Negri lo rompono in piú pezzi per portarlo in su la testa, sí che ogni uomo ne porta un pezzo. E cosí fanno uno grande esercito d'uomini da piè, che lo conducono un gran cammino; e quelli che lo portano hanno due forcate, una per mano, e quando sono stracchi le ficcano in terra e sopra quelle appoggiano il sale. E a questo modo lo conducono fino sopra certa acqua, la qual non hanno saputo dire se è dolce overo salsa, per poter intendere s'egli è fiume over mare: ma io tengo che sia fiume, perché se 'l fusse mare in sito cosí caldo non averian bisogno di sale. E convengono questi Negri condurlo in questo modo perché non hanno camelli né altri animali da caricare, percioché non vi potriano vivere per il caldo grande. E però pensate quanti uomini vogliono esser quelli che lo portino a piè, e quanti debbono esser quelli che lo consumano ogni anno. E giunto detto sale sopra quest'acqua, servano questo modo: tutti quelli di chi è il sale ne fanno monti alla fila, ciascuno segnando il suo, e dapoi fatti i detti monti, tutti della carovana tornano indrieto mezza giornata.
Dipoi viene un'altra generazione de Negri, che non si vogliono lasciar vedere né parlare; e vengono con alcune barche grandi che pare che eschino d'alcune isole, e dismontano e, veduto il sale, mettonvi una quantità d'oro all'incontro d'ogni monte, e poi tornano indrieto lassando l'oro e il sale. E partiti che sono, vengono li Negri del sale e, se la quantità dell'oro li piace, prendono l'oro e lasciano il sale; se non li piace, lasciano il detto oro col sale e tornansi indrieto. E dipoi vengono gli altri Negri dall'oro, e quel monte che truovano senza oro lo levano, e agli altri monti di sale tornano a mettere piú oro, se li pare, overo lasciano il sale. E a questo modo fanno la sua mercanzia senza vedersi l'un l'altro né parlarsi, per una lunga e antica consuetudine, e benché questo para dura cosa a dover credere, pur vi certifico aver avuto questa informazione da molti mercanti, sí arabi come azanaghi, e anco da persone alle quali si poteva prestar fede.


Della statura d'alcuni Negri che non si vogliono lasciar vedere, e dove si porta l'oro che da loro si trae.

Avisandovi come io dimandai a detti mercanti come poteva essere che l'imperatore di Melli, che era sí gran signore, come loro dicono, non abbi voluto tener tal modo di poter intendere per amore o per forza che gente fusse questa, che non si vuol lassar vedere né parlare. Fummi risposto che non erano molti anni passati che uno imperatore di Melli determinò al tutto voler nelle mani uno di costoro. E avuto consiglio sopra di questo, fu ordinato che alcuni suoi uomini, un giorno avanti che ritornasse la carovana del sale la sopra detta mezza giornata, dovessero fare fosse appresso al luogo dove avean posti i monti del sale, e che vi si nascondessero dentro, e quando li Negri venissero a metter l'oro appresso il sale, che gli assaltassero e prendessero duoi over tre, quali sotto buona guardia dovessero menare a Melli. E brevemente parlando cosí fu fatto: ne pigliarono quattro e gli altri fuggirono, e anco di quattro ne lasciarono tre, parendoli che uno potesse satisfar alla volontà del signore, per non isdegnar piú i detti Negri. Nondimeno il detto Negro mai non volse parlare, ancor che gli parlassero in diversi linguaggi, né mangiare: vivette quattro dí e poi moritte. Per questo è oppenione di questi Negri di Melli, per la esperienza che viddero di costui di non voler parlare, che siano muti. Altri pensano che, avendo forma umana, debbano parlare, ma che per proprio sdegno non volesse parlare, visto far in lui quello che a' suoi passati non era stato fatto. La qual morte dolse a tutti i predetti Negri di Melli, che per quel tratto il suo signor non poteva aver la sua intenzione: al qual tornati, gli raccontaron il fatto per ordine, onde il signore ne ebbe assai dispiacere. E dimandò che statura era la loro: risposono che erano uomini negrissimi e ben formati di corpo, alti un palmo piú di loro, e che hanno il labbro di sotto piú di uno sommesso largo, che vien sopra il petto, grosso e rosso, mostrando dalla parte dentro gettar come sangue; e il labbro di sopra era picciolo come i suoi. Per la qual forma de' labbri mostravano le gengive e i denti, i quali denti dicevan esser maggiori delli suoi; e hanno dai lati duoi denti grandi, e gli occhi grossi e neri, e sono terribili di aspetto; e che la gingiva gettava sangue cosí come il labbro. E per il caso sopradetto dipoi non è stato alcuno de' detti imperatori che si abbia voluto piú di simil cose impacciare, conciosiacosaché, per la presa e morte di quel Negro solo, stettero tre anni che non volsero tornare con oro a torre il sale consueto. E giudicano che li labbri se gli putrefacciano per esser in paesi piú caldi che i suoi, di sorte che, avendo sopportato detti Negri tal infirmità e morte per il spazio di detto tempo, non avendo modo per altra via d'aver sale da medicarsi, alla fine tornorono alla prima consuetudine di torre il sale. E per questo è comune oppenione che non possano vivere senza il sale, e giudicano il male loro per rispetto di quello di Melli, e che il detto imperador non si cura che detti Negri non voglino parlare, pur che abbi la utilità dell'oro.
Questo è quanto io ho inteso di questa faccenda, e poi che tanti lo dicono, noi il possiamo credere, e io sono uno di quelli (perché ho veduto e inteso qualche cosa del mondo) che voglio creder questa e dell'altre esser possibili. E questo oro che capita a Melli per questo modo si parte in tre parti: la prima va con la carovana che tiene il cammino di Melli ad un luogo che si chiama Cochia, ch'è il cammino che si drizza verso la Soria e Cairo; la seconda e terza parte vien con una carovana di Melli a Tombutto, e lí parteno, e una parte ne va a Toet e da quel luogo s'estende verso Tunis di Barberia per tutta la costa disopra, e l'altra parte viene ad Hoden, luogo sopra nominato, e de lí si spande verso Oran e One, luoghi pur di Barberia dentro del stretto di Gibralterra, e a Fessa e a Marocco e Arzila e Azafi e Messa, luoghi della Barberia fuori del stretto. E da questo luogo lo compriamo noi Italiani e cristiani da' Mori, per diverse mercanzie che li diamo. E per tornar al mio primo proposito, questa è la miglior cosa che si trazze dalla sopradetta terra e paese di Azanaghi, overo Berrettini, perché di quella parte d'oro la quale capita ogni anno ad Hoden, come è predetto, ne portano alcuna quantità alle riviere del mare, e quella vendono a' Portoghesi che continuamente stanno nell'isola predetta d'Argin per il traffico della mercanzia, a baratto d'altre cose.


Che moneta spendono gli Azanaghi e de' costumi loro.

In questa terra de' Berrettini non si batte moneta alcuna, né mai la usano, né in alcuno delli altri luoghi avanti si truova moneta; ma tutto il suo fatto è a barattar cosa per cosa e due cose per una, e per simil modo vivono. Vero è che ho inteso che fra terra questi Azanaghi, e anche Arabi, in alcuni suoi luoghi, usano di spendere porcellette bianche, di queste piccole che a Venezia capitano di levante, e danno di queste certi numeri a suo modo, secondo che sono le cose che hanno a comprar. Dechiarando che l'oro che vendono lo danno a peso di mitigal secondo si costuma nelle Barberie, il qual mitigal è di valuta d'uno ducato over circa.
Quegli che abitano in questo diserto non hanno fede né signor alcun naturale, salvo che quelli che sono piú ricchi e hanno piú seguito di gente, come è usanza in piú luoghi, sono signori. Le femmine di questo paese sono berrettine, e usano a portare il forzo di loro alcune gottonine che vengono dalle terre de' Negri, e qualcuna di quelle cappette soprascritte che per nome si chiaman alchezeli, senza portar camicie. E quella donna che ha piú gran tette l'hanno per piú bella delle altre, per modo che ciascheduna femmina, per averle grandi, come sono in età di dicessette in desdotto anni, che le tette siano alquanto grandi, si fa legar una corda a traverso il petto, che li cigne le tette nel mezzo, e stringonle molto forte, e romponsi per modo le tette per mezzo che le se despiccano, e con il molto tirar ogni giorno le fanno crescer e allongarsi tanto che a molte arrivano a l'ombelico: e apprezzano queste che le hanno maggior per una singular cosa. Cavalcano cavalli pure alla moresca, ma non ne hanno molti, che per esser il paese sterile non li ponno mantenere, e anco per lo gran caldo non vivono molto tempo.
Le parti di questo diserto sono molto calde e di poche acque, per il qual caldo e mancamento d'acque il paese è secco e sterile; e non piove in queste parti salvo tre mesi dell'anno: agosto, settembre e ottobre. Ancora ho veduto in questo paese che in alcuni anni gli appare una grandissima quantità di locuste lunghe un dedo, che volano e sono come le cavallette che nascon e saltan per li prati; ma queste sono maggiori e rosse e gialle, e appareno nell'aere in tanta quantità a certi tempi che lo cuoprono, sí che non si vede il sole. E per quanto dura la vista dell'uomo, di dodici in sedeci miglia a torno a torno per tutto si vede coperto di questi tali animali, sí l'aere come la terra, che al vedere par esser una cosa stupenda. E dove le caggiono non rimane sopra la terra cosa alcuna, che tutto non sia destrutto: e questa è una grande pestilenza che reputano fra loro avere. E se ogni anno venissero, non si potria abitare i detti paesi; ma non vengono se non dapoi tre over quattro anni una volta. E al tempo che passai per quel paese le viddi alla marina, ed erano in numero e quantità inestimabile.


Del gran fiume detto rio di Senega, anticamente chiamato Niger, e come fu trovato.

Dapoi che passammo il detto Capo Bianco, a vista d'esso navigammo per nostre giornate al fiume detto rio di Senega, che è il primo fiume di terra di Negri, entrando per quella costa: il qual fiume parte i Negri da' Berretini detti Azanaghi, e parte etiam la terra secca e arida, che è il diserto sopradetto, dalla terra fertile, che è paese de' Negri. E cinque anni avanti che io fussi a questo viaggio, detto fiume fu trovato da tre caravelle del signor infante, le qual entrorono dentro e pacificoronsi con questi Negri, per modo che cominciarono a trattare di mercanzie, e cosí d'anno in anno vi sono stati navilii fino al tempo mio. Questo fiume è grande e largo in bocca piú di un miglio, e ha fondo assai, e fa ancora un'altra bocca un poco piú avanti e una isola in mezzo, e per questo mette capo in mare per due bocche, e sopra cadauna di quelle fa banche e scanni larghi in mare forse un miglio. E in questo luogo l'acqua cresce e decresce ogni sei ore, cioè la marea montante e dismontante: ascende la montante per il fiume piú di miglia sessanta, per la informazione che io ho avuta da' Portogallesi che sono stati con caravelle dentro molte miglia; e chi vuol entrare in detto fiume convien andare con l'ordine dell'acque, per rispetto delle dette banche e scanni che sono alla bocca. E da Capo Bianco fino a questo fiume sono miglia trecentoottanta, e la costa è tutta arena fino appresso la bocca del fiume a circa miglia venti, e chiamasi costa d'Anterote, la qual è pur d'Azanaghi, cioè Berrettini. E maravigliosa cosa mi pare che di là dal fiume tutti sono negrissimi, e grandi e grossi e ben formati di corpo, e tutto il paese è verde e pien d'arbori e fertile; e di qua sono uomini berrettini piccoli, magri, asciutti e di piccola statura, il paese sterile e secco. Questo fiume, secondo che dicono gli uomini savii, è un ramo del fiume Gion che vien dal paradiso terrestre; e questo ramo fu chiamato dagli antichi Niger, che vien bagnando tutta l'Etiopia, e appressandosi al mare Oceano verso ponente, dove sbocca, fa molti altri rami e fiumi oltra questo di Senega. E un altro ramo del detto fiume Gion è il Nilo, qual passa per l'Egitto e mette capo nel mare nostro Mediterraneo. E questa è la oppenione di quelli che hanno cercato il mondo.


Del regno di Senega e confini suoi.

Il paese di questi Negri sopra il fiume di Senega è il primo regno delli Negri della Bassa Etiopia, e li popoli che abitano alle ripe di quello si chiamano Gilofi. E tutta questa costa e paese per adrieto dichiarata è tutta terra bassa per fino a questo fiume, e anche da questo fiume piú avanti è tutta terra bassa fino a Capo Verde, qual è la piú alta terra che sia in tutta questa costa, cioè miglia quattrocento piú oltra il predetto capo. E secondo che io ho potuto intendere, questo regno di Senega confina fra terra dalla parte di levante con il paese detto Tuchusor, e della parte di mezzodí con il regno di Gambra, e di ponente con il mare Oceano, e da tramontana con il fiume antedetto, che parte i Berretini da questi primi Negri.


Come si creino i re di Senega e come si mantengono in stato, e de' costumi loro e delle sue mogli.

Il re di Senega al tempo mio aveva nome Zucholin, era giovene di anni ventidue. E questo reame non si dà per eredità, ma in questo paese vi sono diversi signori, i quali alle fiate, per gelosia di stati loro, si accordano tre o quattro insieme e fanno un re a suo modo, sí veramente che 'l sia di parentado nobile secondo la sua generazione: il qual re dura quanto piace alli detti signori, secondo il portamento che ricevono da lui, e molte volte lo scacciano per forza, e molte volte il re si fa cosí potente che si difende da loro. Basta che 'l stato non è stabile e fermo sí come è quello del soldano dal Cairo, ma sta sempre in sospetto d'esser morto over cacciato. E non è questo re simile alli nostri di cristianità, perché il suo regno è di gente selvaggia e poverissima; e non vi è città alcuna murata, se non villaggi con case di paglia, né sanno far case di muro, e non hanno calcina né pietre da fabbricarle, per non saperle fare. E questo regno è di poco paese, perché per la costa non è piú di miglia dugento, e fra terra può essere circa altretanto di larghezza, secondo la informazione ch'io ebbi.
Questo re non ha entrata certa di gabelle, ma li signori del paese ogni anno per star ben con lui li fan presenti di alcuni cavalli, che sono molto apprezzati per esservi mancamento, e fornimenti di cavalli e qualche bestiame, come vacche, capre, legumi e migli e simil cose. Si mantiene anco questo re con rubarie che fa fare di molti schiavi, sí del paese come nel paese de' vicini: di quelli schiavi se ne serve in molti modi e sopra tutto in coltivar alcune sue possessioni a lui deputate, e anche ne vende molti di loro agli Azanaghi e Arabi mercanti che capitano con cavalli e altre cose, e ne vende anco a' cristiani, dapoi che hanno cominciato a contrattar di mercanzie in quelli paesi.
A questo re è lecito tenere quante mogli che lui vuole, e cosí etiam a tutti li signori e uomini di quel paese, tante a quante possono far le spese. E cosí questo re ne ha sempre da trenta in su; fa però opinione piú di una che d'un'altra, secondo le persone da chi sono discese e la grandezza dei signori di chi le sono figliuole. E tiene questa maniera di vivere con le sue mogli: ha certi villaggi e luoghi suoi, in alcuni di quelli ne tiene otto over dieci, e altretante in altro luoco, e cadauna sta da per sé in casa. E ha tante serve giovani che le servono, e tanti schiavi, quali lavorano certe possessioni e terreni a loro consignati per il signore, accioché con li frutti di quelli si possino mantenere. Hanno etiam certa quantità di bestiami, come vacche e capre per suo uso, le qual sono governate da' detti schiavi: e cosí seminano, raccogliono e vivono. E quando accade che il re va ad alcuni dei detti villaggi, lui non si porta drieto vittuarie né altra cosa, perché, dove el va, dette sue mogli che ivi si truovano sono obligate a far le spese a lui e a tutti quelli che 'l mena. E ogni mattina al levar del sole ciascuna ha apparecchiato tre over quattro imbandisone di diverse vivande, chi di carne e chi di pesce e altri mangiari moreschi, secondo le loro usanze, e li mandano per li suoi schiavi a presentar alla dispensa del detto signore, in modo che in un'ora si truovano in punto quaranta e cinquanta imbandisone. E quando vien l'ora che 'l signor vuol mangiare, lui truova il tutto apparecchiato senza aver pensier alcuno, e piglia per sé quello li piace, il resto fa dar agli altri che sono venuti con lui: ma non dà mai da mangiar a questa sua gente in abondanzia, che sempre non abbino fame. E con questo modo va di luogo in luogo, e dorme quando con una e quando con l'altra delle dette; e cresce in gran numero di figliuoli, perché quando una è gravida la lascia stare e piú non la tocca. E a questa medema guisa vivono tutti gli altri signori di questo paese.


Della fede di questi primi Negri.

La fede di questi primi Negri è macomettana, ma non sono però ben fermi nella fede come li Mori bianchi, e massime il popolo minuto. E li signori tengono la openione de' macomettani, perché hanno appresso di loro alcuni de' predetti Azanaghi overo Arabi, che pur ve ne capita, quali gli danno qualche ammaestramento, dicendoli che 'l saria gran vergogna esser signori e viver senza alcuna legge di Dio, e far come fanno quei suoi popoli e gente minuta, che vivono senza legge. E per questa causa di non aver avuto mai altra conversazione, salvo che i detti Azanaghi over Arabi, sono convertiti alla legge di Macometto; ma, dapoi che hanno avuto familiarità e conversazione con cristiani, credono meno.


Del vestir e costumi di tutti li Negri.

Il vestir di questa gente è che quasi tutti vanno nudi continuamente, salvo che portano un cuoro di capra messo in forma d'una braga, con che si cuoprono le loro vergogne. Ma li signori e quelli che ponno alcuna cosa si vestono camicie di gottonina, perché in quei paesi nascono gottoni; e le sue femmine lo filano e fanno panni larghi un palmo, e non sanno farli piú larghi per non saper far li petteni da tesserli, e cosí cuciono quattro over cinque di quelli teli di gottone insieme, quando vogliono far alcun lavoro largo. La forma delle sue camicie è che sono lunghe fino a mezza coscia, e le maniche larghe e corte fino a mezzo braccio. Ancora usano alcune braghe di quella gottonina che si cingono a traverso, e sono lunghe fino al collo del piede e larghe oltra modo, perché tal d'esse volge in bocca palmi trenta in trentacinque fin in quaranta. E quando le hanno cinte a traverso sono molto faldate per la gran larghezza e lunghezza, e vengono a far un sacco davanti e l'altro di drieto che gli aggiunge fino in terra, e quasi menan coda, ch'è la piú contrafatta cosa da veder del mondo: per il che vanno con le gonne larghe con quella coda, e dimandano a noi se mai abbiamo visto il piú bell'abito né la piú bella foggia di quella, e tengono di certo che la sia la piú bella cosa del mondo. E le sue femmine vanno tutte scoperte dalla cintura in suso, sí maritate come donzelle, e dalla cintura in giuso portano un lenzuoletto di quei panni di gottonina cinto a traverso, che li giunge fino a mezza gamba. E vanno sempre discalzi sí maschi come femmine. In testa non portano cosa alcuna, e de' capelli suoi si fanno alcune trecce pulite e legate a diversi modi, sí gli uomini come le femmine: ma naturalmente non hanno capelli oltra uno sommesso lunghi. E sappiate che gli uomini di quei paesi fanno molti servizii feminili, come filare, lavar drappi e altre cose.
E vi è sempre gran caldo, e quanto piú in là si va fa tanto maggiore; e per comparazion, di gennaro non fa tanto freddo in questo regno, che piú non ne facci nel mese d'aprile in queste nostre parti. Gli uomini e le femmine di questo paese sono netti delle persone sue, perché si lavano quattro over cinque fiate il giorno tutta la persona; ma nel mangiar sono sporchi e senza alcun costume. E nelle cose che non hanno pratica sono semplici e male accorti, ma nelle cose sue che hanno pratica sono come ciascun di noi esperti. Sono di molte parole e mai non compiono di dire, e communemente estremi bugiardi e ingannatori; altramente sono caritativi, perché danno da mangiar e da bere a cadaun forestiero viandante che capita a casa sua, per un pasto over per una notte, senza premio alcuno.


Delle guerre e armi loro.

Questi signori negri guerreggiano spesse volte l'uno con l'altro, e anche molte volte con li suoi vicini; e le sue guerre sono a piè, perché hanno pochissimi cavalli, che non vi possono viver per il gran caldo, come ho detto di sopra. Arme per suo vestire non portano per non averne, e anche per il gran caldo non le potriano portare; solo hanno targhe rotonde e larghe, quali sono fatte di cuoro d'uno animal che si chiama danta, ch'è durissimo da passar. E per offendere portano copia di azagaie, che sono alcuni loro dardi leggieri, e gettangli velocissimi, perché sono gran maestri di tirarli: e hanno questi dardi un palmo di ferro lavorado con barbole minute messe molto sottilmente a diversi modi, e dove entrano, al tirar fuori squarciano le carni con quelle barbole, per modo che sono molto cattive per offendere. Ancora portano alcune gamie moresche a modo di una mezza spada turchesca, cioè torta come arco, e sono fatte di ferro senza niuno azzale, perché dal regno di Gambra de' Negri, che è piú oltra, hanno ferro di che fabricano queste armi, ma non hanno azzale, come ho detto, o veramente, se 'l v'è dove è il ferro, non lo conoscono over non hanno industria di farlo. Portano ancora un'altr'arma inastata, come quasi una ghiavarina a nostro modo; altre arme non hanno. Le guerre sue sono mortalissime per esser disarmati, e li suoi colpi non vanno in fallo, e se ne ammazzano assai come bestie; e sono molto arditi e bestiali, che ad ogni pericolo piú tosto si lasciano ammazzare che potendo vogliono fuggire: non si spaventano per veder il compagno morto, anzi pare che non si curino, come uomini accostumati a quello, e non temeno la morte niente. Non hanno navilii né mai li viddero, salvo dapoi che hanno avuto conoscimento de' Portogallesi. Vero è che coloro che abitano sopra questo fiume, e alcuni di quelli che stanno alle marine, hanno alcuni zoppoli, cioè almadie tutte d'un legno, che portano da tre in quattro uomini al piú nelle maggiori, e con queste vanno alle volte a pescare, e passano il fiume e vanno di loco a loco. E questi tali Negri sono li maggiori notatori che siano al mondo, per la esperienza ch'io viddi far ad alcuni di loro in quelle parti.


Del paese di Budomel e del suo signore.

Passai il predetto fiume di Senega con la mia caravella e navigando pervenni al paese di Budomel, loco distante dal detto fiume circa miglia ottocento per costa, la qual costa, cominciando dal detto fiume fino al loco di Budomel, è tutta terra bassa senza monti. Questo nome Budomel è titolo di signore e non nome proprio del loco, e chiamasi terra di Budomel, come è a dire paese di tal signore over conte.
A questo luoco mi affermai con la mia caravella per aver lingua da questo signore, conciosiaché aveva avuta informazione da certi Portogallesi, i quali con lui avevano avuto a fare, ch'era persona e signor da bene e del qual si poteva fidare, e pagava realmente quello che 'l tolleva. E per aver con mi alcuni cavalli di Spagna, quali erano in buona richiesta nel paese de' Negri, non obstante che molte altre cose avesse con mi, come panni di lana e lavori di seda moreschi e altre merci, determinai di provar con questo signore di far il fatto mio. E cosí mi feci mettere ancora ad un luoco in la costa del suo paese, il qual si chiama la Palma di Budomel, ch'è stazio e non porto; e dapoi giunto fecili a sapere per un mio turcimanno negro come io era venuto, con alcuni cavalli e altre robbe, per servirlo se li era bisogno. E brevemente il predetto signore, intesa la cosa, cavalcò e venne alla marina, con circa cavalli quindici e centocinquanta pedoni, e mandommi a dire che 'l mi piacesse di voler dismontar in terra e andarlo a vedere, che 'l mi faria onore. Per il che, sapendo la sua buona fama, vi andai: e fecemi gran festa, e dapoi molte parole io gli diedi i miei cavalli e tutto quello che 'l volse da me. E mi fidai di lui, qual pregommi ch'io volessi andar fra terra a casa sua, ch'era lontana dalla marina circa miglia vinticinque, che ivi mi pagaria cortesemente; e che aspettassi alcuni dí, perché per quello che avea recevuto da mi, mi prometteva certi schiavi. Io li diedi sette cavalli con li fornimenti e altre cose, che tutti mi costavano di cavedale da circa ducati trecento; onde determinai di andar con lui, ma avanti che si partissi, lui mi donò alla prima vista una garzona di anni dodici in tredici, molto bella per esser molto negra, e disse che me la donava per servizio della mia camera: la qual accettai e la mandai al mio navilio. E certo il mio andar fra terra non fu manco per vedere e intender cose nuove, che per ricever il mio pagamento.


Come il signor Budomel consignò messer Alvise ad un suo nipote nominato Bisboror, e quanto siano valenti notatori e' Negri di quelle marine.

Andato adunque con Budomel fra terra, mi dette cavalli e quello che mi facea di bisogno, e quando fummo appresso il suo ridutto forse a quattro miglia, mi consignò ad un suo nipote che avea nome Bisboror, signor d'una villetta dove eramo giunti, il qual mi tolse in casa e fecemi sempre onore e buona compagnia; e lí stetti circa giorni ventiotto, ed era il mese di novembre: nelli qual giorni fui piú volte a trovar il predetto signor Budomel, e il nipote era sempre meco.
E in questo tempo viddi alcune cose del modo del viver di quel paese, delle quali di sotto se farà menzione. E tanto piú ebbi cagion di vedere, quanto che mi fu necessario di tornar indrieto per terra fino al detto fiume di Senega, perché si messe tanto cattivo tempo in quella costa che fu forza, se volsi imbarcare, di far venir il mio navilio al detto fiume e io andarmene per terra. Avisandovi che fra l'altre cose ch'io viddi in quel luoco fu che, volendo io mandar una lettera a quelli del mio navilio, per darli notizia che venissero a levarmi al detto fiume, che mi ne andava per terra, dimandai fra quelli Negri se v'era alcuno che sapesse ben notare e che li bastasse l'animo di portarmi quella lettera al navilio, che era circa miglia tre in mare. Subito molti dissero de sí, e perché il mare era grosso e vento assai, dico tanto che 'l non mi pareva quasi possibile che uomo alcuno tal cosa potesse far, perché principalmente appresso terra a un tirar d'arco vi sono scanni, cioè banchi di arena; cosí eziandio piú fuora in mare a duoi tratti di balestra vi sono altri banchi, e fra questi banchi v'è tanta correntia d'acque, ora in su ora in giú, ch'è difficillissima cosa ad alcuno uomo notando potersi sostenere, che non sia menato via; e sopra detti banchi rompea tanto il mare, che impossibile parea a poterli passare che si sia. Duoi Negri si offersono di volerli andare, e dimandando ciò che dovea darli, risposono due mavulgis di stagno per uno, che vale un grosson l'una: sí che per questo prezio cadaun di loro toglieva a mettermi la lettera nella caravella, e si misero all'acqua. La difficultà che ebbero a dover passar que' banchi con tanto mare, io non potria contare: e alle volte stavano per buon spazio d'ora che non li vedevo, in modo che giudicai piú volte che fossero annegati. E finalmente uno di loro non poté sostener tante botte di mare quante li rompevano adosso e tornò indrieto; ma l'altro stette forte e combattette su quella banca per spazio d'una gross'ora. Alla fine lo passò e portò la lettera al navilio, e tornò con la risposta, che mi parve cosa maravigliosa. Onde concludo per certo quelli Negri delle marine esser delli migliori notatori del mondo.


Della casa del signor Budomel e delle sue mogli.

Quello ch'io potei veder di quel signor e suoi costumi fu questo. Prima dico che questi che hanno nome di signori non hanno né castelli né città, come per avanti ho toccato; il re di questo regno non ha salvo che villaggi di case di paglia, e Budomel era signor d'una parte di questo regno, che è cosa piccola. Questi tali non sono signori perché siano ricchi di tesoro né di danari, perché non ne hanno, né lí si spende moneta alcuna; ma di cerimonie e di seguito di genti si ponno chiamar signori veramente, perché sempre sono accompagnati da molti, e reveridi e temuti molto piú dai suoi subditi di quello che non sono i nostri signori di qua. E perché intendiate, la casa di questo signore non è una casa di muro over palazzo, ma secondo la forma del suo vivere hanno alcune ville deputate all'abitazion del signore e delle sue mogliere e di tutta la famiglia, perché non stanno mai fermi in un luogo.
In questo villaggio dove io fui, che si chiamava casa sua, ponno esser circa quaranta in cinquanta case di paglia, tutte appresso l'una all'altra in tondo e circondate a torno di sepe e serraglie di arbori grossi, lasciando solo una bocca o due per le quali si entra; e ognuna di queste case ha uno cortivo serrato pur di sepe, e cosí si va di cortivo in cortivo e di casa in casa. In questo luogo Budomel aveva (salvo il vero) nove mogliere, e cosí n'ha per li altri luoghi, piú e meno secondo il parer e piacer suo. E cadauna delle dette mogliere ha cinque e sei garzone negre che la servono, ed è lecito al signore a dormir cosí con le serve come con le mogliere, alle quali non pare esser fatta ingiuria, per esser cosí costume: e a questo modo il signor muta spesso pasto. E sono questi Negri e Negre molto lussuriosi, perché una delle cose principali che con instanzia mi fece domandar Budomel fu che, avendo inteso che i cristiani sapevano far molte cose, mi pregava se per aventura io sapessi darli il modo che 'l potesse contentar molte femmine, che 'l mi daria ogni gran cosa: sí che potete intender quanto appreziano questo vizio. E sono molto gelosi, e non consentono che alcun vadi nelle case dove abitano le sue femine, e de' suoi figliuoli medesimi non si fidano.
Questo Budomel ha sempre dugento Negri in casa per il meno, che continuamente lo seguitano; ben è il vero che l'un va e l'altro viene. E oltra questi mai non manca gente assai, che vien a trovarlo di diversi luoghi. All'entrar della casa, prima che si venga dove gli sta e dorme, vi sono sette cortivi grandi e serrati, che vanno di l'uno in l'altro; e in mezzo di cadauno v'è un arbore grande, perché quelli che aspettano stiano all'ombra. E in questi tai cortivi è compartita la sua famiglia, secondo i gradi delle persone, cioè nel primo all'entrar sta la famiglia minuta, e piú oltra uomini piú degni, e come piú s'appropinqua alla stanzia di Budomel, piú cresce la dignità di coloro che abitano; e cosí di grado in grado fino che si arriva alla porta di Budomel, alla qual pochissimi uomini ardiscono di appropinquarsi, salvo che i cristiani, che li lasciano andar liberamente, anco gli Azanaghi: e cosí a queste due nazioni è data piú libertade che alli suoi natural negri.


Delle cerimonie che usa Budomel in dar udienza, e del modo del suo orare.

Mostrava questo Budomel grande alterezza e gravità, perciò che 'l non si lasciava vedere salvo un'ora da mattina e verso la sera un altro poco, stando questo tempo nel primo suo cortivo appresso la porta della prima abitazione, nella qual, come ho detto, non entrava salvo uomini da conto. Ancora questi tali signori usano grandi cerimonie quando danno udienzia, perché quando veniva davanti a Budomel alcuno per parlarli, per grand'uomo che 'l fosse over suo parente, all'entrar della porta del cortivo si gittavan in ginocchioni con tutte due le gambe, inchinando la testa bassa fino a terra, e con tutte due le mani buttavansi l'arena drieto le spalle e in su la testa, essendo del tutto nudi: perché questo è il modo con il qual salutano il suo signore, né alcun uomo avrebbe ardire venire avanti d'esso a parlarli che non si spogliasse nudo, salvo le mutande di cuoro che portano, e stanno in questo modo un buon spazio, gittandosi quella arena adosso. E dapoi non levandosi mai suso, ma strascinandosi con li ginocchi e le gambe per terra, si vanno appropinquando al signore, e quando gli sono appresso a duoi passi si afferman parlando e dicono il fatto suo, non cessando di gittarsi pur l'arena a dosso, con la testa bassa, in segno di grandissima umiltà. E il signore mostra di non vederlo se non scarsamente, e non resta di parlar con altre persone; e dapoi, quando il suo vassallo ha ben detto, con arrogante aspetto li fa vana risposta di due parole. E tanto mostra in questo atto di alterezza e grandezza, e tanto è reverito, che ancora che Iddio istesso fusse in terra, non credo che piú onore e riverenza li potesse esser fatto di quello che fanno questi Negri al lor signore. E tutto questo mi pare che proceda per la gran tema e paura che hanno quelli popoli de' suoi signori, perché per ogni piccolo mancamento li fa prender la moglie e li figliuoli e li fa vendere, sí che in queste due cose mi par che abbino forma di signore e che mostrino stado, cioè in seguito di genti, e in lassarsi veder poche volte, e in esser molto reveridi dalli suoi subditi.
E per la grande dimestichezza che mi mostrava questo Budomel, mi lasciava entrare nella loro moschea dove fanno orazione. E venendo verso sera, chiamati quelli suoi Azanaghi overo Arabi che 'l tien continuamente in casa, quasi come disamo li nostri preti, che sono quelli che gli ammaestrano nella legge di Macometto, entrava in un cortivo grande con alcuni Negri principali, dove era la moschea, e quivi orava in questo modo: stando in piedi e guardando verso il cielo, faceva dui passi avanti e diceva alcune parole pian piano, poi si buttava lungo disteso in terra e baciavala, e cosí facevan li Azanaghi e tutti li altri; poi di nuovo levatosi in piedi tornava a far gli atti sopradetti, e questo da X in XII volte: e si spendeva in far l'orazione il spazio di mezz'ora. Quando l'aveva compito, mi dimandava ciò che mi pareva, e perché avea grande appiacere udir recitar delle cose della nostra fede, mi diceva spesso ch'io volesse narrargliene alquanto: in modo ch'io li diceva che la sua era falsa, e quelli che li mostravano simil cosa erano ignoranti della verità, ed essendo presenti quelli suoi Arabi reprovavo la legge di Macometto come cattiva e falsa per molte ragioni, e la fede nostra esser vera e santa, in tanto ch'io facevo corruciare quelli suoi maestri della legge.
E questo signore se ne rideva, e diceva che teneva che la nostra fede fosse buona e che 'l non poteva esser altramente che Iddio, che ne aveva donato tante buone e ricche cose e tanto ingegno e sapere, che anche non ne avesse dato buona legge; ma che nientedimanco ancora loro aveano buona legge, e che 'l tenevan che di buona ragione loro Negri meglio si possino salvare che noi cristiani, percioché Iddio era giusto signore, quale a noi in questo mondo avea dato tanti beni di diverse cose e a loro Negri quasi niente a rispetto nostro: per tanto, avendone dato il paradiso di qua, loro il doveano avere di là. E con queste e simil cose mostrava buone ragioni e buon intendimento di uomo, e molto li piacevano i fatti de' cristiani. E son certo che facilmente s'averia potuto convertire alla fede cristiana, se la paura di perdere il stato non li fusse stata, perché suo nepote, in casa di cui alloggiavo, me lo disse assai volte, e lui medesimo avea grandissimo piacere ch'io li contassi della nostra legge, e diceva ch'era buona cosa udir la parola di Dio.


Del modo del vivere e mangiare di Budomel.

Del modo di vivere, cioè del mangiare, el si governa come ho detto di sopra che fa il re di Senega, che tutte le sue mogliere li mandano ogni giorno da mangiare tante imbandigioni per una. Questo stile tengono tutti li signori negri e uomini da conto, che le sue femmine li fanno le spese; e mangiano in terra bestialmente senza alcun costume. E con questi signori negri non mangia alcuno, salvo quelli Mori che li mostrano la legge e uno o duoi Negri suoi principali. Tutte l'altre genti minute mangiano a dieci over dodici insieme, e mettono una coffa di vivande in mezzo e tutti mettono la man dentro; e mangiano molto poco per volta, ma mangiano spesso, cioè quattro o cinque volte il giorno.


Delle cose che nascono nel regno di Senega, e il modo che tengono nel lavorar la terra, e come facciano il suo vino.

In questo regno di Senega, né da lí avanti in alcuna terra del paese de' Negri, nasce formento, né segala, né orzo, né spelta, né vino: e questo perché il paese è tanto caldo e non li piove nove mesi dell'anno, cioè dal mese di ottobre fin tutto zugno. E per questo calor grande non vi può nascere formenti, perché l'hanno provato a seminare di quello che hanno avuto da noi cristiani, perché il formento vuol terra temperata e vuol spesso la pioggia, la qual non è in quelli paesi. Ma la vivanda sua è di miglio di diverse sorti, cioè minuto e grosso, come ceseri, e di fava e fasoli che nascono, che sono piú grossi e piú belli del mondo. Il fasuolo è grosso come una nosella lunga delle nostre domestiche, tutto intavarato, cioè puntizzato di diversi colori, che pare dipinto, ed è bellissimo a vedere. La fava è larga, bassa e rossa, d'un vivo colore; e anche ve ne sono di bianche, e sono molto belle. Costoro seminano il mese di luglio e raccolgono il settembre, perché a questo tempo ghe piove e li fiumi crescono. Lavorano le terre e seminano e raccolgono in tempo di tre mesi, e sono cattivissimi lavoratori e uomini che non si vogliono affaticare in seminare, salvo tanto che possino mangiar tutto l'anno scarsamente, e poco curano d'aver biave da vendere. Il modo del suo lavorare è che quattro over cinque di loro si mettono nel campo, con certi badili piccoli a modo di vanghe, e vanno cadaun d'essi gettando la terra avanti, al contrario di quello che fanno e' nostri, i quali quando zappano tirano la terra a loro con le zappe. E questi la gettano avanti con i badili, e non vanno sotto salvo quattro dita: questo è il suo arare, e per esser la terra virtuosa e grassa produce tutto quello che loro seminano.
Il bere suo sono acque, latte over vino di palme. Questo vino è un liquore che butta un arbore della forma di quello che fa dattoli, ma non è però quel medemo; e di questi arbori n'hanno molti, quali quasi tutto l'anno danno questo liquore, che lor Negri lo chiamano miguol, in questo modo: feriscono l'arbore nel piede in duoi over tre luoghi, e quello getta un'acqua berrettina a guisa di scolo di latte, e mettono sotto le zucche e l'assunano; ma non ne rende gran quantità, che tra il dí e la notte un arbore ne renderà circa due zucche. Ed è bonissimo da bere, e imbriaca come il vino chi non lo tempera con acqua; e il primo dí che si raccoglie è tanto dolce quanto il piú dolce vino del mondo, e dí in dí va perdendo il dolce e diventa garbo, ed è migliore da bere il terzo e quarto dí che 'l primo, perché gli è dolce e punge un poco. Io ne ho bevuto piú giorni nel tempo che stetti in terra in quel paese, e sapevami migliore che 'l nostro. Di questo miguol non ne hanno tanta quantità che ogniuno ne possa avere in abbondanza, ma pur ne hanno ragionevolmente, e massime li principali; ed è commun ad ogniuno l'arbore di questo liquore, perché costoro non li tengono come noi abbiamo li fruttari dell'orto, over come le vigne men proprie, ma tutto quello che hanno è di foresta, e in libertà di cadauno a doverne torre e proficarsene. Hanno frutti di diverse sorti simili alli nostri, e anche che non sono come li nostri proprii, e sono buoni e loro ne mangiano, e tutti sono di foresta, cioè salvatichi e non coltivati de' orti come li nostri. E penso che, se gli tenessino a mano, come facciamo li nostri di qua, lavorati, fariano frutti buoni e perfetti, perché la qualità dell'aere e del paese è buona.
Il paese suo è tutta campagna atta a produrre, dove sono buoni pascoli con infiniti arbori grandi e bellissimi, ma non per noi conosciuti. E vi sono nel paese molti laghi di acque dolci, non molto grandi ma profondissimi, nei quali si truovano molti buoni pesci differenti dalli nostri; e sonvi molti serpenti d'acqua, che si chiamano calcatrici. E in questo paese si usa una sorte di oglio nelle sue vivande, qual non so de che lo facciano, e ha tre virtú, cioè odore di viole zotte, sapore come quasi il nostro olio d'oliva, e ha colore che tinge le vivande a modo di zaffarano, e piú pulito colore che non è quello del zaffarano. Si trova eziandio in questo paese una specie de arbori che fanno fasuoli rossi con l'occhio negro in gran quantità, ma sono piccoli.


Degli animali del detto regno.

Hanno diverse sorte d'animali e massime bisse grandi e piccole: alcune sono venenose, altre no, e delle grandi vi sono di due passa e piú lunghe, ma non hanno ale né piedi, come vien detto aver li serpenti, ma sono grosse di sorte che si trovano bisse aver inghiottita una capra integra senza squarzarla. Dicono che queste grandi si riducono in alcune parti del paese in frotta, in luogo dove regna grandissima quantità di formiche bianche, le quali di sua natura fanno alcune case alle predette bisse con la terra che portano in bocca, e quando sono fatte pareno forni da coser pan a nostro modo, e di queste case fanno come le belle ville a cento e cinquanta per luogo.
E questi Negri sono grandissimi incantatori di tutte le cose e spezialmente di queste bisse; e ho udito dire da uno Genovese, uomo degno di fede, che, avendosi trovato l'anno avanti di me nel paese di questo Budomel e dormendo una notte in casa di questo suo nepote Bisboror, dove io era alloggiato, sentí su la mezza notte a torno della casa molti sibili: onde svegliatosi, vidde che il detto Bisboror si levava e, chiamati duoi de' suoi Negri, voleva montar sopra d'un camello e andarsene. E domandandogli il Genovese dove voleva andare a cosí fatta ora, li rispose in un suo servizio, e che subito daria volta; e stato un gran pezzo ritornò a casa. E di novo dimandandoli il ditto Genovese dove l'era stato, li disse: "Non udisti subbiar già fa un pezzo alcuni subbii intorno la casa?" E rispondendoli di sí il Genovese, costui li disse: "Quelle erano bisse, le quali, se io non fussi andato a far un certo incanto che noi di qua usiamo, col qual le ho fatte tornar tutte indrieto, mi averiano in questa notte morto molti di miei animali". Delle qual cose fattosi maraviglia il Genovese, Bisboror li disse che non si maravigliasse, imperoché suo barba Budomel ne faceva di molto maggiori, perché, quando voleva far del tossico per velenar le sue armi, fatto un gran cerchio nel qual con incanto venivano tutte le bisse circunstanti del paese, quella che gli pareva piú velenosa con le sue mani l'ammazzava, e le altre lassava andare; e presone il suo sangue, temperandolo con una certa semenza d'un certo arbore (della quale io ho visto e honne avuto) e fattone una mistura, con quella avvelenava le sue armi, le quali dove ferivano uscendo un poco di sangue (benché la ferita fosse piccola), in un quarto d'ora moriva la persona ferita. Dissemi il Genovese che 'l detto Bisboror li volse far vedere la prova dell'incanto, ma che lui non si curò piú oltra d'intendere. Sí che concludo tutti li Negri esser grandi incantantori. E puol molto ben esser vero di questi incanti delle bisse, perché ho pur inteso in queste nostre parti de cristiani trovarsi persone che le sanno incantare.


Degli animali che nascono nel regno di Senega, e degli elefanti cose notabili.

In questo regno di Senega non si trovano altri animali domestichi, salvo buoi, vacche, capre; pecore non vi nascono, né vi potrebbeno vivere per il gran caldo, perché la pecora è animale che ama la terra di aere temperato, e piú presto vivono nella terra fredda che nella calda. E però Iddio nostro Signore ha provisto in questo mondo a cadauno secondo i loro bisogni, imperoché a noi, che vivemo al freddo, senza le lane non possiamo vivere, e loro Negri, che nascono nel caldo e che non hanno bisogno di vestir, Iddio non li ha dato pecore, ma li ha dato gottoni. Le vacche e li bovi di quel paese, e anche di tutto il paese de' Negri, sono molto piú piccole delle nostre, che credo eziandio che questo proceda per il caldo; e di ventura si troveria una vacca di pel rosso: tutte sono negre, overo bianche, overo taccate di negro e bianco.
Animali di rapina silvestri, vi sono lioni e lionze e liopardi in grandissima quantità, ed etiam lupi, caprioli e lepri. Ancora vi sono elefanti salvatichi, perché non usano a domesticarli, come fanno nell'altre parti del mondo; e questi elefanti vanno in frotta, come fanno da noi i porci ne' boschi. Della statura de' quali non descrivo altro, perché credo che ognuno debba intendere che gli è un animal di corpo grandissimo e curte gambe: e la sua grandezza si comprende per li denti di avolio che vengono in queste nostre parti, delli qual denti non ne hanno salvo duoi per cadauno, cioè un per lado, come li porci cinghiari, messi pur nella massella di sotto; e non vi è altra differenzia, salvo che le ponte delli denti di porci guardano in suso e questi delli elefanti guardano in zoso verso terra. Dechiarando che ditti elefanti hanno genocchia e desnodansi nell'andare come ogni altro animale: dico questo perché aveva inteso dire, avanti che fosse in queste parti, che gli elefanti non si potevan ingenocchiare e che dormivano in piedi, che è una gran busia, perché si buttano in terra e levansi come ogni altro animale. E li denti suoi grandi mai non li buttano se non per morte. Ed è animale che non offende l'uomo se l'uomo non offende lui, e l'offender dell'elefante verso l'uomo è che, aggiungendo, li dà della sua tromba lunga del muso (che gli ha a modo di naso lunghissimo, e la retira e slunga come ei vuole) una sí gran botta di sotto in suso, che butta l'uomo alle fiate quasi un trar di balestra. E non è uomo sí veloce che lo elefante non lo aggiunga alla campagna, andando solamente lo elefante di veloce passo, per molto corridor che sia l'uomo, perché per la sua grandezza fa un passo grandissimo. E sono molto pericolosi quando hanno figliuoli piú che d'altro tempo, e non fanno piú di tre in quattro per volta; e mangiano foglie di arbori e frutti, quali rompono zoso con li rami grandi con quella sua tromba del muso, con la qual raccogliono la vivanda in bocca, perché la è tutta d'un callo grossissimo. Di altri animali non ne ho avuto informazione, salvo dei sopradetti.


Degli uccelli de detto paese, e come vi sono diverse maniere di pappagalli, e della loro industria nel fare e' suoi nidi.

Uccelli in queste parti vi sono di diverse sorti, e massime pappagalli in gran numero, i quali vanno volando per tutto il paese: e li Negri li vogliono gran male, perché fanno danno ne' suoi campi alli megli e alli legumi. E ve ne sono, come dicono, di molte maniere, ma io non ne viddi salvo di due sorti: l'una è come quelli che vengono d'Alessandria, ma pareno un poco piú piccoli; l'altra sono molto piú grandi, e hanno il collo berrettino con la testa, becco e piedi, e il corpo zallo e verde. Ed ebbine di queste due sorti molti, e spezialmente piccoli di nido, di quali molti me ne moritteno e gli altri portai in Spagna; e la caravella venuta in Spagna con me ne portò da centocinquanta in suso, vendendoli per mezzo ducato l'uno. E questi pappagalli sono molto industriosi in far i suoi nidi, quali fanno di giunchi tondi come è una balla di vento, in questo modo: vanno su le palme, o vero altro arbore che abbia i rami sottili quanto è possibile e deboli, e in capo del ramo legano un giunco che pende giuso duoi palmi, in capo del quale armano il suo nido tessendolo maravigliosamente, per modo che quando è compiuto rimane una balla appiccata a quel giunco, nella quale solamente è una bocca per donde entrano. E questo fanno per le bisce che li mangiano li figliuoli, le quali non ponno andare su quel ramo per esser debole, e non consente il peso, in modo che li detti suoi nidi vengono a rimaner sicuri.
Sono eziandio in questo paese alcuni uccelli grandi, i quali noi chiamiamo galline di faraone, che sogliono venir di levante. Di queste galline ve n'è gran copia, e il simil di alcune oche, le quali non sono come le nostre, ma diverse di penne; e cosí di diversi altri uccelli piccoli e grandi, e d'altra sorte che non sono li nostri.


Del mercato che fanno i Negri e delle cose che ivi contrattano.

Perché mi accadette star in terra molti giorni, determinai andar a vedere un suo mercato over fiera, non molto lontano dal luogo ove io era alloggiato, il qual si faceva su una prateria, e facevasi il lunedí e il venerdí: e vi andai due over tre volte. Quivi veniano uomini e femmine del paese circunstante a quattro a cinque miglia, percioché quelle che stanno piú lungi andavano ad altri mercati, perché anche altrove si costumano farsi. E in questi mercati compresi molto bene questa gente esser poverissima, rispetto alle cose che portavano sul mercato a vendere, le quali erano gottoni, ma non in quantità, e filati pur di gottoni e panni di gottoni, legumi, olio e miglio, conche di legno, stuore di palma, e di tutte l'altre cose che si usano per il suo vivere. E cosí portano gli uomini come le femmine a vendere, e vendono gli uomini di quelle sue arme, e ancora qualche poco d'oro, ma non in quantità; e vendono il tutto cosa per cosa a baratto e non per danari, perché non hanno danari e non costumano moneta di sorte che sia, salvo a baratto, cioè una cosa per un'altra, e due cose per una, tre per due. E questi Negri, sí mascoli come femmine, venivano a vedermi per maraviglia, e parevali una gran cosa a veder cristiani, mai per avanti veduti. E non meno si maravigliavano del mio abito che della mia bianchezza, il qual abito era alla spagnuola, un zuppone di dammaschino negro e un mantellino disopra: guardavano il panno di lana, che loro non l'hanno, e il zuppone, e molto stupivano. E alcuni mi toccavano le mani e le braccia, e con spudo mi fregavano, per vedere se la mia bianchezza era tintura over carne, e vedendo che l'era pur carne stavano con admirazione. A questi mercati io andavo per vedere piú cose nuove, e anche se vi veniva alcuno ch'avesse somma d'oro da vendere: ma di tutto si trovava poco, come ho predetto.


Come si mantengono e vendono li cavalli nel detto regno, e di certe cerimonie e incanti che usano quando li comprano.

Li cavalli in questo paese de' Negri sono molto apprezzati, perché gli hanno con molta difficultà, che vengono menati per terra da queste Barbarie nostre per Arabi e per Azanaghi, e anche perché non vi possono vivere per il gran caldo, e s'ingrassano tanto che 'l forzo di essi muore d'una malattia che non ponno pisciare e crepano. Il mangiar che li danno in quelle parti sono alcune foglie di fasuoleri che rimangono dapoi raccolti i fasuoli nel campo, e quelle tagliano minute e secche come fieno, e le danno a mangiare in luogo di biava; li danno ancor del miglio, col quale s'ingrassano molto. Vendesi un cavallo fornito da nove fino a quattordeci teste de Negri schiavi, secondo la bontà e bellezza dei cavalli. E quando un signore compra alcuno cavallo, fa venire alcuni suoi incantatori di cavalli, i quali fanno far un gran fuoco di certi rami d'erbe a suo modo, faccendo gran fumo; e sopra quello tengono il cavallo per la brena dicendo alcune sue parole, e poi lo fanno ungere tutto di unto sottile, e tengonlo desdotto in venti dí che alcuno non lo vegga, e gli appiccano al collo alcune reste di dornive moresche, che pareno al modo di brevi, piegati in poco spazio di piegadura quadra e coperti di cuoro rosso: e hanno fede che, per portar quelle fantasie al collo, vadino piú sicuri in battaglia.


De' costumi delle femmine del detto paese, e di che cose quegli uomini prendevano grande admirazione, e che instrumenti usino da sonare.

Le femmine di questo paese sono molto gioconde e allegre, e cantano e ballano volentieri, e massime le giovani: ma non ballano salvo la notte a luce di luna; il lor ballare è molto differente dal nostro.
Di molte cose si danno maraviglia questi Negri delle nostre, e massime del ferire della balestra, e molto piú delle bombarde, perché alcuni Negri vennero al navilio e io li feci veder trarre una bombarda, del tono della quale ebbero grandissima paura: e io li dicevo che una bombarda potria ammazzar piú di cento uomini in una botta, e maravigliavansi, dicendo quella esser cosa del diavolo. Ancora si maravigliavano del sonare di una di queste nostre pive della villa, ch'io feci sonare ad un mio marinaro, e vedendola vestita alla divisa e con frappe su la testa, si davano ad intendere che la fosse qualche animal vivo che cosí cantasse di diverse voci, e prendevan molto piacere e maraviglia ad un tratto. E vedendo questa loro simplicità, gli dissi quella essere instrumento, e ghe la diedi nelle mani disenfiata: onde, conosciuto esser artificio fatto a mano, dicevano quella esser cosa celeste e che Iddio l'avea fatta con le sue mani, che cosí dolcemente sonava e di tante diverse voci, e dicevano mai non aver udito la piú dolce cosa.
E anche molta admirazione prendevano dell'artificio del nostro navilio e degli apparecchi di quello, e dell'arbore, vele, sartie e ancore, e pensavano che gli occhi che si fanno a prova alli navilii fussero veramente occhi, che 'l navilio per quelli vedesse dove gli andava per mare. E dicevano che noi eravamo grandi incantatori e quasi comparabili al diavolo, e che gli uomini che vanno per terra avevan fatica a saper andare da luogo a luogo, e noi andavamo per mare, qual avevano inteso che era cosí gran cosa, e che però, stando noi tanti giorni senza veder terra e sapendo dove andavamo, non poteva essere salvo che per potenzia del diavolo. E questo pareva a loro esser cosí perché non intendono l'arte del navigare, del bossolo e della carta.
E piú si maravigliavano di veder ardere una candela di notte sur un candelliere, conciosiacosaché in quel paese non sanno far altra luce salvo quella del fuoco, e vedendo la candela mai piú per loro vista, li parse una bella e maravigliosa cosa. E perché in quel paese si trova miele con la cera sí come el nasce, e loro succhiano il miele fuora con la bocca e gettano via la cera, avendo io comprato un poco di favomelli da uno di loro, li mostrai come si trazzeva il miele dalla cera. E dapoi dimandai se sapevano che cosa fusse quella che restava del miele; risposeno che quella era una cosa da niente. E in sua presenza li feci fare alcune candele e fecile accendere, la qual cosa vedendo rimase molto admirativo, dicendo che tutto il saper delle cose era in noi cristiani.
In questo paese non si usano instrumenti da sonare di alcuna sorte, salvo di due: l'una sono tabacche moresche, che a modo nostro chiamaressemo tamburi grandi; l'altra è a modo di una violetta di queste che noi altri sonamo con l'arco, ma non hanno salvo che due corde e sonano con le dita, ch'è una semplice e grossa cosa e da nessun conto. Altri instrumenti non usano.


Come messer Alvise trovò messer Antoniotto Usodimare, gentiluomo genovese, con due caravelle e andò in lor conserva a passar il Capo Verde.

Come ho predetto, ebbi causa di stare in questi paesi del signore Budomel alcuni giorni, per vedere, comprare e intendere piú cose. Dove essendo spazzato e avendo avuto certa somma di teste di schiavi, determinai di andar piú oltra e passar Capo Verde, e andar a discoprire paesi nuovi e provar mia ventura, conciosiacosaché, avanti il mio partir di Portogallo, io aveva inteso dal signore infante, come quella persona che di tempo in tempo era avisata delle cose di questi paesi di Negri; e fra le altre informazioni che esso avea, era che non molto lontano da questo primo regno di Senega, piú avanti, si trovava un altro regno chiamato Gambra, nel quale raccontavano i Negri che venivano condotti in Spagna trovarsi somma d'oro grande, e che li cristiani che ivi andassino sariano ricchi. Onde io, mosso dal desiderio di trovar questo oro, e anche per veder diverse cose, spazzato da Budomel mi ridussi alla caravella, e faccendomi presto alla vela per partirmi da quella costa, ecco che una mattina apparseno due vele in mare, le quali avendo lor vista di noi e noi di loro, sapendo che non potevano esser salvo che cristiani, venimmo a parlamento; e inteso uno de' detti navilii esser d'Antoniotto Usodimare, gentiluomo genovese, l'altro d'alcuni scudieri del prefato signore infante, quali d'accordo avevan fatto conserva per passar il detto Capo Verde e provar sua ventura e discoprir cose nove, trovandomi ancora io di quel medesimo proposito, mi posi in conserva loro. E di uno volere tutte tre caravelle drizzammo il nostro cammino verso il detto capo, pure alla via d'ostro per la costa, sempre alla vista di terra, onde il giorno seguente con vento prospero avemmo vista del detto capo, il quale è distante dal luogo dov'io mi parti' circa miglia trenta de' nostri italiani.


Capo Verde perché è cosí detto, di tre isolette scoperte, e della costa del detto Capo Verde.

Questo Capo Verde si chiama cosí perché i primi che 'l trovarono, che furono Portogallesi, circa uno anno avanti ch'io fussi a quelle parti, trovorono tutto verde di arbori grandi, che continuamente stanno verdi tutto il tempo dell'anno. E per questa causa li fu messo nome Capo Verde, cosí come Capo Bianco, quello che noi abbiamo parlato per avanti, qual fu trovato tutto arenoso e bianco. Questo Capo Verde è molto bel capo e alto di terreno, e ha sopra la punta due lombade, cioè duoi monticelli, e mettesi molto fuori in mare. E sopra il detto capo e a torno d'esso sono molte abitazioni de villani negri e case di paglia, tutte appresso la marina e a vista di quelli che passano: e sono questi Negri anche del predetto regno di Senega. E sopra il detto capo sono alcune secche, che escono fuori in mar forse un mezzo miglio; e passato il detto capo trovammo tre isolette piccole, non troppo lontane da terra, disabitate e copiose d'arbori tutti verdi e grandi. E avendo bisogno d'acqua, mettemmo ancora ad una d'esse, quale ne parse piú grande e piú fruttifera, per vedere se vi trovavamo qualche fontana: e dismontati non trovammo salvo in un luogo che pareva sorgere un poco d'acqua, il che non ci poté dare alcun sussidio. E in questa isola trovammo molti nidi e ova di diversi uccelli per noi non conosciuti; dove stemmo tutto quel dí pescando con togne e ami grossi, e pigliammo infiniti pesci, e fra gli altri dentali e orate vecchie grandissime, di peso di lire dodici in quindeci l'una. E fu questo del mese di giugno.
Dapoi il giorno seguente partimmo, faccendo vela e seguendo il nostro viaggio, navigando sempre a vista di terra. Notando che oltra il detto Capo Verde si mette un golfo dentro, e la costa è tutta terra bassa, copiosa di bellissimi e grandissimi arbori verdi, che mai non perdono foglia tutto l'anno, cioè che mai non si seccano come le nostre di qua, ma prima nasce una foglia avanti che gettino l'altra; e vansene questi arbori fina su la spiaggia ad un trarre di balestra, che pare che beano sul mare, ch'è una bellissima costa da vedere. E secondo me, che pur ho navigato in molti luoghi in levante e in ponente, mai non viddi la piú bella costa di quel che mi parse questa, la quale è tutta bagnata da molte riviere e fiumi piccoli, non da conto, perché in quelli non potriano entrare navilii grossi.


De' Barbacini e Sereri Negri, e come si reggano, e de' suoi costumi.
Della qualità e guerra di quel paese.

Passato questo piccol colfo, tutta la costa è abitata da due generazioni: l'una è chiamata Barbacini, l'altra Sereri, pur Negri, ma non sono sottoposti al re di Senega. Costoro non hanno re né signore alcuno proprio, ma bene onorano piú uno che un altro, secondo la qualità e condizione degli uomini. Fra loro non vogliono consentire signore alcuno, forse perché non li siano tolte le mogliere e i figliuoli e venduti per schiavi, come fanno i re e i signori di tutti gli altri luoghi de' Negri. Costoro sono grandi idolatri; non hanno legge alcuna e sono crudelissimi uomini, e usano l'arco con le frezze piú che niuna altra arma, e tirano le frezze avvelenate, e dove toccano la carne nuda che vi esca sangue, subito la creatura muore. Sono uomini negrissimi e ben corporati. Il suo paese è molto boscoso e copioso de laghi e d'acque, e per questo si tengono molto securi, perché non vi si può entrare se non per stretti passi, e per questo non temono alcun signore circunvicino. Ed è accaduto molte fiate che alcuni re di Senega per tempi passati gli hanno voluto far guerra per subiugargli, e sempre da quelle due nazioni sono stati malmenati, sí per le saette avenenate che usano, come etiam per il paese che era forte.


Del rio di Barbacini, e come fu ammazzato un turcimanno posto in terra per informarsi del paese.

Scorrendo adunque con vento largo per la detta costa, seguendo il nostro viaggio per ostro, scoprimmo la bocca d'un fiume largo forse un tirar d'arco, il qual era di poco fondo, e a questo fiume mettemmo nome il rio di Barbacini: e cosí è notato su la carta da navigare fatta di questo paese, ed è da Capo Verde fino a questo rio miglia sessanta. Il navigar nostro per questa costa e per avanti sempre è stato di giorno, mettendo ogni sera ancora a sol posto in dieci overo dodici passa d'acqua, lontani da terra quattro o cinque miglia; e a sol levado facevamo vela, tenendo sempre un uomo da alto e duoi uomini a prova della caravella, per veder se il rompeva il mare in alcun luogo, per discoprir alcun scoglio. E navigando pervenimmo alla bocca d'un altro fiume grande, il qual mostrava non esser meno del detto rio de Senega. E vedendo questo bel fiume, parendone il paese bellissimo e copioso di arbori fina su la marina, mettemmo ferro e deliberammo di voler mandare in terra uno delli nostri turcimanni, perché cadauno delli nostri navilii aveva turcimanni negri, menati con noi di Portogallo, qual furon venduti per quelli signori di Senega a' primi Portogallesi che vennero a scoprire il detto paese de' Negri. Questi schiavi erano fatti cristiani e sapevano ben la lingua spagnuola, e li avevamo avuti dalli suoi padroni con patto di darli per suo stipendio e soldo una testa per uno, a cernirla in tutto il nostro monte; e dando cadauno di questi turcimanni quattro schiavi alli padroni suoi, loro gli lascian franchi. E buttata la sorte a chi toccasse mettere il suo turcimanno in terra, toccò al gentiluomo genovese, onde armata la sua barca mandò il turciman fuora, con ordine che la barca non si accostasse a terra, salvo tanto quanto potesse mettere fuori il detto turcimanno, al qual fu commesso che 'l se informasse della condizione del paese e sotto qual signore era, e che intendesse se 'l si trovava oro over altre cose al nostro proposito. Onde, essendo smontato in terra e tiratasi la barca un poco a largo, subito li vennon incontra molti Negri del paese, i quali, avendo veduti i navilii approssimarsi alla marina, con archi, saette e arme stavano imboscati per aggiungere alcuno di noi in terra. E venuti a lui li parlorono per spazio d'un poco, e quello che gli dicessero nol sappiamo, salvo che con furia cominciorono a ferirlo con alcune gomie, che sono spade moresche curte, e brevemente lo ammazzorono, che quelli della barca non lo poteron soccorrere.
Intesa per noi questa novella, rimanemmo stupefatti e comprendemmo che costoro doveano esser crudelissimi uomini, avendo fatto un simil atto in quel Negro ch'era della sua generazione, e che di ragione molto peggio fariano a noi: e per questo facemmo vela seguendo pur il nostro cammino per ostro, navigando a vista della costa, la quale continuamente trovavamo piú bella e piú copiosa d'arbori verdi, e per tutto terra bassa. E finalmente pervenimmo alla bocca d'un fiume, e vedendo noi quella esser grandissima, e non meno di tre fino a quattro miglia nel piú stretto, dove potevamo entrare con li nostri navilii securamente, terminammo quivi riposare, per volere intendere il giorno sequente se questo era il paese di Gambra.


Come procedendo piú oltra viddero tre almadie de Negri, i quali non li volsero parlare, e come siano fatte esse almadie.

Essendo noi ridutti a questo fiume, il quale alla prima entrata non mostra men largo di miglia sei in otto, giudicammo quivi dover essere il paese di Gambra, che per noi tanto era desiderato, e che sopra questo fiume facilmente si troveria qualche buona terra, dove leggiermente potemo pervenire a qualche buona ventura, di somma d'oro o d'altre preziose cose. Fatto il giorno seguente vento bonaccevole, mandammo la caravella piccola avanti ben fornita d'uomini delle nostre barche, con ordine che, per esser navilio piccolo che aveva bisogno di poca acqua, andasse piú avanti che 'l potesse, e trovando banca su la bocca del detto fiume scandagliasse il fondo, e trovando buona acqua grossa per poter entrare i nostri navili, si tirasse indrieto e sorgesse faccendone alcuni segnali. E cosí fu eseguito per quella, perché trovando passa circa quattro d'acqua su la detta bocca, sorgette secondo l'ordine nostro. E dipoi sorta la detta caravella, li parse di mandar la nostra barca armata e anche la sua in compagnia, benché piccola fosse, piú oltra della bocca con questo comandamento, che se per caso i Negri del paese venissero con le loro barche ad assaltarli, che subito si riducessino al navilio senza voler con loro contendere. E questo perché noi eravamo lí ridutti per voler trattare col paese buona pace e concordia con la loro benevolenzia, la qual se conveniva acquistare con ingegno e non per forza. Onde, essendo passate le dette barche piú avanti, tentorono il fondo in piú luoghi col scandaglio, e trovando per tutto non meno di passa sedici d'acqua, andorono piú oltra duoi miglia, e vedendo le rive del detto fiume bellissime e copiose di altissimi arbori verdi, e anco il fiume fare piú volte suso, non li parse di andar piú avanti.
E faccendo volta, eccote uscir della bocca d'un fiumicello che metteva capo in questa grande fiumara tre almadie, che a nostro modo si chiamariano zoppoli, che sono tute d'un pezzo di arbori grandi cavati, e fatte a modo di burchielle che si menano drieto questi nostri burchi. E vedendo le nostre barche le predette almadie, dubitando che quelli non venissero per farli oltraggio, essendo stati avisati per gli altri Negri che in questo paese di Gambra tutti erano arcieri che tiravano frezze avelenate, benché fusseno sufficientissimi per defendersi, nondimeno, per ubidir a quello che gli era stato imposto e per non commetter scandalo, dettero a' remi e quanto piú presto potenno vennero al predetto navilio. Ma non però sí presto che, giunte al detto, le almadie non fossero alle spalle, non men lontane d'un trar d'arco, perché sono velocissime. Ed entrati li nostri nel navilio, li cominciorono amattar e far segno accioché si accostassero; e quelle, fermandosi, mai volseno venir avanti. Nelle quali potevano esser da vinticinque in trenta Negri, i quali, stando cosí un pezzo a guardare cosa che mai né per loro né per suoi antecessori era stata veduta, cioè navilii d'uomini bianchi, senza mai voler parlare, per cosa che li fosse fatta né detta, se ne andorono per li fatti suoi. E cosí passò quella giornata senza farsi altro.


Del paese di Gambra e dell'abito di que' Negri, e come combatterono co' Portoghesi, onde molti di essi Negri furono morti. E come i Portoghesi, intesa la risposta che li fero detti Negri, ritornoron indrieto.

La mattina seguente noi altri duoi navilii, circa l'ora di terza, con vento bonaccevole e con l'ordine d'acqua, femmo vela per andar a trovar la conserva nostra e per entrar nel fiume col nome di Dio, sperando fra terra sopra di questo fiume dover trovar genti piú umane di quelle che vedemmo nelle dette almadie. E cosí essendo giunti alla nostra conserva, ed ella faccendo vela in nostra compagnia, cominciammo ad entrare nel fiume, andando la caravella piccola avanti e poi noi drieto l'una all'altra, passando il banco. Ed essendo entrati circa miglia quattro, eccoti adrieto di noi venir (non so di che luogo uscite) alcune almadie quanto piú potevano, le quali per noi viste, femmo volta sopra di loro. E dubitando delle lor freccie avelenate (delle quali eravamo informati che molto usavano), coprissimo li nostri navilii al meglio che potemmo, e ci armammo ordinando le nostre poste, benché mal in punto eravamo di arme. E in breve spazio giungendo quelle a noi che eramo in bonaccia, mi vennero per prova, ch'era il primo navilio, e partendosi in due parti me misero in mezzo di loro. E contando le dette almadie, trovammo quelle esser quindeci per numero, grande come sariano buone barche, e levado per loro voga alzando li remi in alto, ci stavano a guardare come cosa maravigliosa. E quelle noi esaminando, esistimammo potervi essere circa Negri centotrenta in centocinquanta al piú, li quali ne parseno bellissimi uomini de corpo e molto negri, vestiti tutti di camicie di gottonine bianche; in testa avevano alcuni cappelletti bianchi quasi al modo di todeschi, salvo che da cadaun lato avevano una forma d'una ala bianca con una penna in mezzo del detto cappelletto, quasi volendo significare esser uomini da guerra. E in cadauna delle prove delle dette almadie vi era un Negro in piede, con una targa tonda nel braccio, che ne pareva esser di cuoro.
E cosí, né loro tirando a noi, né noi faccendo contra di loro altramente molesta, avendo vista delli altri duoi nostri navilii che ne venivano drieto, drizzando il suo cammino verso quelli si aviorono, e giunti a loro, senza altro saluto, gittando giuso remi con li suoi archi cominciorono tutti a tirare. I nostri navilii, veduto l'assalto fattoli, scaricorono quattro bombarde al primo tratto, le quali udite per quelli, stupefatti e attoniti pel strepito grande, gettorono gli archi a basso e, risguardando chi in qua chi in là, stavono admirativi, vedute le pietre delle bombarde ferire nell'acqua appresso di loro. Ed essendo stati per buon spazio a risguardarle, non vedendo altro, perdendo la paura dei tuoni, dapoi molti colpi che li furono tirati, presi i suoi archi da nuovo cominciorono a tirare con grande ardire, accostandosi appresso i navilii a tiro di pietra. Li marinari cominciorono con le sue balestre a bressagliargli, e il primo che disserrò la balestra fu un figliuol bastardo di quel gentiluomo genovese, che ferí un Negro nel petto, qual subito cadde morto nell'almadia. Ed essendo veduto per i suoi, presero quel verrettone e molto lo guardavano, quasi maravigliandosi di tal arma: né per questo restarono di tirar alli navilii vigorosamente, e quelli delle caravelle a loro, in modo che in poco spazio di tempo furono guasti gran quantità de' Negri, e de' cristiani per la Dio grazia non fu ferito alcuno. Onde vedendo questi Negri guastarsi e perire, quasi tutte le almadie d'accordo si misero per poppe della caravella piccola, dando a quella gran battaglia, perché erano pochi uomini e mal in punto d'arme. E io, vedendo questo, feci cargar vela sopra il detto navilio piccolo, e giungendo a quello il tirassimo in mezzo di noi altri duoi navilii piú grandi, discargando bombarde e balestre: la qual cosa vedendo, i Negri si slargorono da noi. E noi, incatenando tutte tre le caravelle insieme, sorgemmo un'ancora e con bonaccia tutte tre si tenivamo sopra quella.
Dipoi tentamo di voler aver lingua con questi Negri, e tanto per li nostri torcimanni femmo ammattare e gridare, che una di quelle almadie si approssimò a noi a un tiro d'arco, alla qual femmo dire per che cagione ne offendevano, conciosiaché noi eravamo uomini di pace e trattabeli di mercadanzia, che con gli altri Negri del regno di Senega avevano buona pace e amistà, e cosí con loro volevamo avere, se li piaceva; che eravamo venuti di lontani paesi per voler far alcuni degni presenti al suo re e signore per parte del nostro re di Portogallo, il qual con lui desiderava aver amicizia e buona pace, e che gli pregavamo che ci volessero dire in che paese noi si trovavamo e chi signor reggeva quelle parti, e come quel fiume si chiamava; e che a noi volessino venir pacificamente e amorevolmente a prender delle nostre cose, e che delle sue quanto li piacesse ne desseno, o poco o niente, che di tutto sariamo contenti. La risposta sua fu che pel passato di noi aveano avuto qualche notizia e del nostro praticare con li Negri di Senega, i quali non potevano esser salvo che cattivi uomini in voler nostra amistà, perché loro tenivano per fermo che noi cristiani mangiavamo carne umana, e che non comperiamo gli Negri salvo che per mangiarli; e che per questo non volevano nostra amistà per alcun modo, ma che volevano ammazzar tutti, e dapoi delle cose fariano un presente al suo signore, qual dicevano esser lontano tre giornate; e che quello era il paese di Gambra e quella era fiumara grossa, dicendone il nome, il quale non mi ricordo. E in questo stante il vento rinfrescò, e vedendo noi il suo mal volere facemmo vela sopra di loro, i quali avedutosi del fatto fuggirono alla via di terra, e cosí compimmo con loro la nostra guerra.
Dapoi seguito questo, ne consigliammo fra noi principali di chi era il governo di navilii di andare piú sopra il detto fiume al meno fina miglia cento, se tanto potevamo andar, sperando pur di trovar miglior gente; ma i nostri marinari, che erano desiderosi di ritornare alle loro case, senza piú voler provare di mettersi a pericolo, tutti d'accordo cominciorono a cridare, dicendo che a tal cosa non volevano consentire e che bastava quello che aveano fatto per quel viaggio. Onde, vedendo noi il suo voler unito, convenimmo consentire per manco scandalo, perché sono uomini molto di testa e ostinati. E cosí il giorno seguente partimmo de lí tenendo la volta di Capo Verde, per ritornar col nome di Dio in Spagna.


Quanta alta vedeano la nostra tramontana, e delle sei stelle del polo antartico, e della grandezza del giorno che avean alli 2 luglio, e della qualità del paese e modo del seminare, e come in quelli luoghi nasce il sole senza farsi aurora.

Nelli giorni che noi stemmo sopra la bocca di questo fiume non vedemmo piú che una volta la tramontana, e ne pareva molto bassa sopra il mare; e però la convenivamo vedere con tempo molto chiaro, e ne pareva sopra il mare l'altezza di una lanza. Ancora avemmo vista di sei stelle basse sopra il mare, chiare, lucide e grandi, e tolte quelle a segno per il bossolo, ne stavano dretto per ostro, figurade in questo modo sequente:

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* * * *
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le quali giudicammo esser il carro dell'ostro; ma la stella principale non vedemmo, perché non era ragionevole di poterla discoprire, se non perdevamo la nostra tramontana. E in questo luogo trovammo la notte di ore undeci e mezza, il giorno di dodici e mezza, essendo i primi giorni di luglio, salvo il vero a' duoi del detto mese.
Questo paese è sempre caldo tutto il tempo dell'anno; vero è che fa qualche varietà e quella chiamano inverno, perché, cominciando il mese di luglio fino per tutto ottobre, el piove quasi ogni giorno continuamente su l'ora del mezzodí in questo modo: levansi alcune nugole continuamente di sopra terra tra greco e levante, o da levante e sirocco, con grandissimi tuoni e lampi e fulgori, e cosí piove una grandissima acqua. E a quel tempo i Negri cominciano a seminare nel modo che fanno quelli del regno di Senega, e il viver suo è pur di migli e legumi, carne e latte. E ho inteso che in questo paese fra terra, per la gran calidità dell'aere, l'acqua che piove è calda, e la mattina quando si fa il giorno, el non fa alcuna aurora al levar del sole come fa nelle nostre parti, che dall'aurora al levar del sole è sempre un breve spazio; anzi, come disparono le negrure della notte, subito si vede il sole: non però che per spazio di mezz'ora el rendi chiaritade, perché pare tutto torbido e a modo d'affummato nel primo levare. E la causa di questa vista del sole cosí presta la mattina, contra l'ordine de' paesi nostri, non intendo che possa procedere da altra cagione che per esser i terreni di questi paesi molto bassi, spogliati di montagne; e di questa opinione si trovarono tutti quelli nostri compagni.



LA SECONDA NAVIGAZIONE

Come furono li primi che scoprirono l'isole di Capo Verde,
a due delle quali posero nome Bona Vista e di San Iacobo.

Della condizione di questo paese di Gambra, quanto per quello che potei vedere e intendere in questo mio primo viaggio, poco o niente si può dire specialmente di veduta, perché, come avete inteso, per esser le genti delle marine aspere e salvatiche, non potemmo con loro aver lingua in terra né trattar cosa alcuna. Poi fummo sforzati di tornar in Spagna né passar piú avanti, perché, come di sopra abbiam detto, li nostri marinari non ci volsero seguire. Onde l'anno sequente il predetto gentiluomo genovese e io, d'accordo un'altra volta, armammo due caravelle per voler cercar questa fiumara. E avendo sentito il prenominato signor infante (senza licenzia del quale non potevamo andare) che noi avevamo fatta questa deliberazione, molto li piacque e volse armar una sua caravella che venisse in nostra compagnia. Di che fattone presti d'ogni cosa necessaria, partimmo dal luoco chiamato Lagus, ch'è appresso il Capo San Vicenzo, nel principio del mese di maggio con vento prospero, e tenimmo la volta delle Canarie e in pochi giorni vi giungemmo. E secondandone il tempo, non curammo di toccar le dette isole, ma navigammo tuttavia per ostro al nostro viaggio, e con la seconda dell'acque, che grandemente tiravano giuso al garbin, scorremmo molto.
Ultimamente pervenimmo al Capo Bianco, e avendo vista d'esso si slargammo un poco in mare; e la notte seguente ne assaltò un temporale da garbin con vento forzevole, onde per non tornar indrieto tenimmo la volta di ponente e maestro, salvo il vero, per parare e costeggiare il tempo due notti e tre giorni. Il terzo giorno avemmo vista di terra, e cridando tutti "terra, terra", molto si maravigliammo, perché non sapevamo ch'a quella parte fosse terra alcuna. E mandando duoi uomini d'alto discoprirono due grandi isole, il che essendone notificato, rendemmo grazie al nostro Signore Iddio, che ne conduceva a vedere cose nuove, perché sapevamo bene che di queste tal isole in Spagna non s'aveva alcuna notizia. E giudicando noi quelle poter esser abitade, per intender piú cose e per provar nostra ventura, tenimmo la volta d'una d'esse, e in breve tempo li fummo propinqui. E giungendo ad essa, parendone grande, la scorremmo un pezzo a vista di terra, tanto che pervenimmo ad un luogo dove pareva che fosse buon stazio, e lí mettemmo ancora. E abbonazzato il tempo, buttammo la barca fuora e quella ben armata mandammo in terra, per veder se 'l v'era persona alcuna o vestigio d'abitazione; quali andorono e cercorono molto, e non trovorono strade né signale alcuno, per il quale si potesse comprendere che in essa fossero abitanti. E avuta da loro questa relazione, la mattina seguente per chiarir in tutto l'animo mio mandai dieci uomini ben in punto d'arme e balestre, che dovessino montar la detta isola da una parte, dove l'era montuosa e alta, per veder se trovavano cosa alcuna o se vedevano altre isole: per il che andorono e non trovorono altro se non che l'era disabitata, e v'era grandissima copia di colombi, li quali si lassavano pigliar con la mano, non conoscendo quel che fosse l'uomo; e di quelli molti ne portorono alla caravella, che con bastoni e mazze avevano preso. E nell'altura ebbono vista di tre altre isole grandi, delle quali l'una non se avedemmo che ne rimaneva sotto vento dalla parte di tramontana, e le altre due erano in dromo dell'altra alla via d'ostro, pur al nostro cammino, e tutte a vista l'una dell'altra. Ancora li parse di vedere dall'altra parte di ponente molto in mare a modo dell'altre isole, ma non si decernivano bene per la distanzia: alle quali non mi curai di andare, sí per non perder tempo e seguir il mio viaggio, come perch'io giudicava che fossino disabitate e salvatiche come eran quest'altre. Ma dipoi, alla fama di queste quattro isole ch'io aveva trovato, altri capitando quivi le furono a discoprire, e trovorono quelle esser dieci isole fra grandi e piccole, disabitate, non trovando in esse altro che colombi e uccelli di strane sorti e gran pescason de pesci.
Ma, tornando al mio proposito, ne partimmo di questa isola e, seguendo il nostro cammino, venimmo a vista delle altre due isole. Onde, scorrendo la staria d'una d'esse, che ne pareva copiosa di arbori, discoprimmo la bocca d'un fiume che usciva di questa isola, e giudicando la fosse buon'acqua sorgemmo per fornirsi; e dismontati alcuni dei miei in terra, andorono al primo luoco di questo fiume su per la riva, e trovorono lagune piccole di sale bianchissimo e bello, del quale ne portorono al navilio in gran quantità; e di questo prendemmo quanto ne parse, e cosí trovando l'acqua bonissima ne togliemmo. Dechiarando che qui trovammo gran quantità di biscie scudellare, o sian gaiandre, a nostro modo, delle quali ne prendemmo alcune, la coperta delle quali era maggiore che buone targhe. E quelli marinari le amazzarono e fecero piú vivande, dicendo che altre volte ne avevano mangiato nel colfo d'Argin, dove etiam se ne trovava, ma non cosí grandi. E dico che ancora io per provar piú cose ne mangiai, e mi parseno buone, non meno quasi come d'una carne bianca di vitello, sí buon odore e sapore rendevan; per modo che ne salorono molte, che in parte ne furono buona munizione sul viaggio. Ancora pescammo su la bocca di questo fiume e di dentro, dove trovammo tanta quantità di pesce che gli è incredibile dirlo, delli quali molti d'essi non avevamo mai veduti, ma grandi e di buon gusto. La fiumera era grande, che largamente vi potria entrar dentro un navilio di botte centocinquanta cargo, ed era larga un buon tirar d'arco. Qui stemmo duoi giorni a sollazzo e si fornimmo delli renfrescamenti anteditti, con molti colombi che ammazzamo senza numero, notando che alla prima isola dove che dismontammo mettemmo nome isola di Buona Vista, per esser stata la prima vista di terra in quelle parti; e a questa altra isola, che maggior ne pareva di tutte quattro, mettemmo nome l'isola di San Iacobo, perché il giorno di san Filippo Iacobo, venimmo ad essa a metter ancora.


Di un luoco chiamato le Due Palme, e di una isola a cui fu posto nome Santo Andrea, e perché. Del re Forosangoli e del signor Battimansa.

Fatto quanto è soprascritto, partimmo dalle dette quattro isole tenendo la volta di Capo Verde, onde in pochi giorni, Iddio mediante, venimmo a spelegar a vista di terra ad un luoco che si chiama le Due Palme, ch'è fra Capo Verde e rio di Senega, e avendo buona conoscenza del terreno seguimmo scorrendo il capo. E la mattina seguente quello passammo, e tanto navigammo che pervenimmo un'altra volta al detto fiume di Gambra, dove brevemente entrammo e, senza altro contrasto de' Negri e di sue almadie, navigammo sopra il fiume di giorno sempre col scandaglio in mano. Le almadie de' Negri, che pur alcune trovammo, andavano a lungo le rive del detto fiume, non osando accostarsi a noi. E dentro del detto fiume circa dieci miglia trovammo una isoletta a modo d'un polesine, fatta per il detto fiume, alla quale avendo messo ancora, una dominica mancò di questa vita uno de' nostri marinari, il quale di piú giorni era stato ammalato di febbre. E benché la morte sua a tutti ne aggravasse, nondimeno, convenendo a noi voler quello che a Dio piaceva, in questa isola il sepelimmo, quale avea nome Andrea: e per questo intitolammo detta isola doversi chiamare nell'avvenire l'isola di Santo Andrea, e cosí è stata sempre chiamata.
Partendo da questa isola e navigando sempre su per lo fiume, alcune almadie de' Negri ne seguivano dalla lunga, onde, ammattando noi a quelle e chiamando i nostri turcimanni quelli Negri, e mostrandoli alcuni cendadi e altre cose, dicendo che securamente si accostassino, che li donaressemo di quelle robbe, e che non avessino paura, che eravamo uomini umani e trattabili, detti Negri a poco a poco accostandosi, prendendo da noi alcuna sigurtà, finalmente vennero alla mia caravella. E uno d'essi Negri entrò dentro del navilio, il quale intendeva il parlare del mio turcimanno, e molto si maravigliò del nostro navilio nel modo che navigamo con la vela, perché loro non sanno salvo che vogare con remi e credevano che altramente non si navigasse. E stupivasi di vederne uomini bianchi, e non meno del nostro abito, maraviglioso a loro e molto differente dal suo, principalmente perché la maggior parte di loro vanno nudi, e se alcuno va vestito, è di camicie bianche di gottone. Noi femmo gran carezze al Negro, donandoli molte cosette di poco momento, di che rimase molto contento. Domandandoli io di molte cose, finalmente ne affirmò quello esser il paese di Gambra e che 'l principal loro signore era Forosangoli, il quale diceva stare lontano dal fiume fra terra verso mezzodí e sirocco, secondo ne mostrò, da nuove in diece giornate: il quale Forosangoli era sottoposto a l'imperatore di Melli, che è il grande imperatore de' Negri; ma che nientedimeno erano molti signori menori che abitavano appresso il fiume, cosí da un lato come dall'altro; e se volevamo, che 'l ne menaria ad uno d'essi, il quale si chiama Battimansa, e che 'l tratteria col detto Signore che 'l volesse prender amistà con noi, poi che li pareva ch'eravamo buone persone. Questa sua offerta molto ne piacque, e lo menammo in navilio faccendoli buona compagnia, tanto che, navigando su per il detto fiume, pervenimmo al luoco del nominato Battimansa, che secondo il giudicio nostro era lontano dalla bocca del detto fiume circa miglia LX e piú.


Del presente fatto a Battimansa, delle robbe che tolsero i Portogallesi a baratto,
del modo del vogar de' Negri di quel paese e de' remi loro.

Notando che, andando sopra detta fiumara, andavamo per levante, e in questo luoco dove mettemmo l'ancora, il detto fiume era molto piú stretto che nella bocca, dove al nostro giudicio non era largo oltra un miglio; e se vede in questo fiume molti rami di acqua, che sono fiumi che mettono in esso. Giunti noi a questo luoco, determinammo di mandar uno de' nostri turcimanni con questo Negro alla presenzia di questo signore Battimansa. E cosí mandammoli un presente, che fu una alzimba di seta alla moresca, che a nostro modo è a dire come una camicia, la quale era assai bella e fatta in terra de' Mori; e mandammoli a dire come eravamo venuti per comandamento del nostro signore, re di Portogallo cristiano, per far con lui buona amistade e per intender da lui se gli avea bisogno delle cose de' nostri paesi, che ogni anno il nostro re ghe ne mandaria, con assai altre parole. Il turcimanno andò col detto Negro dove era questo signore, al qual dissono tante cose di noi che subito volse mandar certi suoi Negri alle caravelle, coi quali facemmo non solamente amicizia, ma etiam li vendemmo molte cose a baratto, delle quali avemmo certi schiavi negri e certa quantità d'oro: ma non da conto, rispetto a quello che credevamo di trovare, perché la fama era assai maggiore per informazion de' Negri di Senega; e in effetto lo trovammo esser poco secondo noi, ma secondo loro, che sono poverissime genti, pareva assai. Il qual oro è molto apprezzato appresso queste genti, e secondo me molto piú che da noi, perché lo stimano per cosa molto preziosa: nientedimeno ne facevan buon mercato rispetto alle cose minime e di poco momento, secondo l'opinion nostra, che toglievano da noi all'incontro di esso.
Quivi stemmo circa undeci dí, e in questo tempo venivano alle nostre caravelle molti di questi Negri, abitanti da una parte e dall'altra del detto fiume: e chi veniva per veder cosa molto nuova a loro, e chi veniva per venderne alcune cosette loro over qualche anelletto d'oro. Le cosette che ne portavano erano gottonine e filadi di gottoni e panni di gottoni fatti a lor modo, alcuni bianchi, altri divisati, cioè vergadi, bianchi e azzurri, e altri rossi, azzurri e bianchi, molto ben fatti. Portavano anco molti gatti maimoni e babuini grandi e piccoli di diverse sorti, che in questa parte se trova grandissima quantità, e davanli a baratto per cosa di poca valuta, cioè di dieci marchetti l'uno. Ancora ne portavano zibetto e pelle di gatti che fanno il zibetto a vendere, e davano una onza di zibetto per un'altra cosa all'incontro, che non valeva quaranta o cinquanta marchetti: non che loro lo vendino a peso, ma io il dico per estimazione. E altri ne portavano frutti di diverse sorti, e fra le altre molti dattali piccoli e salvatichi, che non erano molto buoni, ma secondo loro erano buoni da mangiare: e molti de' nostri marinari ne mangiavano e trovavanli di vario sapore dalli nostri, ma io mai ne volsi mangiare per dubio di flusso o d'altro. E a questo modo avevamo ogni dí gente nuova alle caravelle, e di diversi linguaggi, e mai non cessavan di andar su e giuso per quel fiume con quelle sue almadie di luoco a luoco, con femmine e uomini, al modo che fanno di qua le nostre barche in su le fiumare: ma tutto il suo navigare è per forza di remi, e vogano tutti in piedi, tanti da una banda quanti dall'altra, e sempre hanno uno di piú che voga di drieto, ora da un lato ora dall'altro per tener dritta la barca. E non appoggiano il remo ad alcuna forca, ma lo tengono forte con le mani; ed è fatto il remo in questo modo: hanno una mazza come una mezza lanza, lunga un passo e mezzo, che è sette piedi e mezzo, e in capo di questa mazza hanno ferrato over legato a lor modo un tagliere rotondo, e con questa sorte di remi vogano per forza di braccia velocissimamente quelle sue barche per la costa del mare a terra a terra. E hanno molte bocche di fiumicelli, dove si mettono e vanno sicure; ma communemente non si slargano molto dal suo paese, perché non sono sicuri da un paese all'altro che non sian presi e venduti per schiavi. E in capo di giorni undeci terminammo di partirci e di venir alla bocca del detto fiume, perché molti de' nostri si cominciorono ammalar di febbre calda acuta e continua: onde subitamente ci partimmo.


Della fede e del modo del vivere e vestir loro.

Delle cose che si può dire di questo paese, per quello che noi vedemmo e per l'informazione che noi avemmo in quel poco di tempo che stemmo lí, prima della fede sua: quella è communemente idolatra in diversi modi, dando gran fede agl'incanti e ad altre cose che sanno far diaboliche; ma tutti conoscono Iddio, e anche ve ne sono alcuni della setta di Macometto; e questi sono uomini che praticano per diversi paesi e non stanno fermi a casa, perché li paesani non ne sanno cosa alcuna. Nel modo del vivere, tutti quasi si governano secondo li Negri del regno di Senega, e mangiano di quelle medesime vivande, salvo che hanno di piú sorte risi, che di questi non nascono nel regno di quelli primi Negri; ancora mangiano costoro carne di cane, la qual non ho mai udito dire che se ne mangi altrove. Il loro vestire è di gottonine, e dove li Negri di Senega vanno quasi tutti nudi, questi il forzo vanno vestiti per esservi abondanzia e gran quantità di gottoni. Le femmine vestono pur anche ad un medesimo modo, salvo che hanno piacere, quando che sono piccole di età, di farsi alcune opere per le carni, fatte con punture di ago su per il petto, braccia e collo, le quali pareno di queste opere di seda che solevan farsi sopra i fazzoletti; e sono fatte con fuoco, che mai per alcun tempo vanno via.
Questa regione è molto calda, e tanto quanto si va piú avanti verso ostro, tanto piú par che vogli la ragion che i paesi siano caldi, e specialmente in questa fiumara faceva molto maggior caldo che nel mare, per esser occupata da molti arbori e molto grandi, che sono per tutto il paese. Della grandezza de' quali dicono che, faccendo noi acqua ad una fontana appresso la ripa del fiume, v'era un arbore grandissimo e molto grosso, ma l'altezza non era alla proporzion della grossezza, perché giudicammo esser circa venti passa alto, ma la grossezza faccendola misurare trovammo circa dicessette braccia a torno a torno al piè; ed era sbusato e in molti luoghi vano e concavo, e aveva le rame di sopra molto large che spandevano a torno, per modo che 'l facea grande ombra. Anche se ne trovano di maggiori e piú grossi, sí che potete comprender per questi simili arbori la virtú del paese esser buona, e la terra esser fertile, per esser bagnata da molte acque.


Degli elefanti del detto paese e del modo che usano alla caccia di quelli; della lunghezza de' denti e forma de' piedi suoi.

In questo paese si trova gran copia di elefanti, e honne visto io tre vivi salvatichi, perché non sanno domesticarli come in altri paesi. E stando con il navilio surto a mezzo del fiume, avemmo vista di questi tre elefanti, che uscivano del bosco e andavano per la riviera: saltammo alquanti di noi nella barca per andare ad essi, che erano un poco lontani, ma come ne videro venire, ritornorono nel bosco. Dapoi ne viddi un altro piccolo morto, perché a mia complacenzia un signor negro, che avea nome Guumimensa, il quale abitava appresso la bocca di questo fiume, andò a cacciarlo con molti Negri, e duoi giorni lo perseguitorono, in tanto che lo amazzorono. Costoro vanno alla caccia a piede e non portano altre arme per offendere salvo azzagaie, delle quali s'è detto di sopra, e archi, e tutte le sue arme sono avelenate. E sappiate che vanno a trovar questi elefanti alli boschi e dove sono molti arbori, e si mettono i Negri da drieto di quelli e anco montano sopra, e li feriscono con saete overo con le azzagaie avelenate. E vanno scampando e saltando da uno arbore all'altro, in modo che l'elefante, ch'è animal molto grosso, avanti che 'l si possi volgere vien ferito da molti, senza potersi difendere. Ben vi dico che alla larga, dove non fossero arbori, niuno uomo non oseria accostarsi a lui, perché non corre tanto niuno uomo che lo elefante, solo a non si mover del suo passo, non lo aggiungesse. Questo ho udito raccontar a molti Negri; ma non è però l'elefante feroce animale che vada all'uomo, se da lui non è attentato. E questo piccolo elefante viddi io morto in terra, il dente lungo del quale non era oltra tre palmi, e di questi tre un palmo si raccoglieva nella mascella, sí che non poteva avere salvo duoi palmi di dente: e questo era segno che l'era giovanetto, dico rispetto quelli che hanno i denti da dieci in dodici palmi lunghi. E per piccolo che fosse, noi giudicammo che l'avesse carne per cinque in sei tori de' nostri.
Questo elefante mi fu donato per questo signore, cioè che tolesse di esso quella parte ch'io volessi, e il resto fosse dato a quelli cacciatori per mangiare. Onde, intendendo io che la carne di quello se mangiava per i Negri, ne feci tagliare un pezzo, del qual ne mangiai nel navilio a rosto e a lesso, per provar piú cose e per poter dire che avea mangiato della carne d'uno animale che non avea mangiato alcuno della mia terra: la qual carne in effetto non è troppo buona, e mi parse dura e dissavida, cioè di poco gusto. E portai etiam uno de' suoi piedi e parte della tromba al navilio, e anche trassi molti de' suoi peli del corpo, ch'erano negri e lunghi un palmo e mezzo e piú e molto grossi. Le qual cose, insieme con parte di quella carne che fu insalata, appresentai poi in Spagna al prenominato signore don Henrich, che la ricevette per gran presente, per esser le prime cose che l'avea avute di quel paese, discoperto per sua industria.
Non voglio pretermetter di dire che 'l piede dello elefante è tanto a torno a torno quasi come il piede d'un cavallo; ma il piè suo non è di unghia come quello del cavallo, ma tutto d'un callo negro e grossissimo, sul qual callo del piede ha cinque unghie a torno il detto piede, raso a terra, rotonde e di grandezza poco piú d'un grossone. E non era il piè di questo piccolo elefante cosí piccolo, che 'l non fosse largamente piú d'un palmo e mezzo, e lungo sotto la suola per ogni quadro e ad ogni volta, perché come ho detto tutto è tondo. Ancora per lo detto signor negro mi fu donato un altro piede di elefante, il quale misurai piú volte sotto la suola, e lo trovai palmi tre e uno dedo grosso, cosí di largo come di lungo e da ogni parte; qual etiam appresentai al prefato signor infante con un dente dodici palmi lungo, qual con detto piede grande mandò a donare alla signora duchessa di Bergogna per un gran presente.
E ancora in questo fiume di Gambra, e cosí in molti altri fiumi di questo paese, oltra le calcatrici e altri animali diversi, vi si trova un animale chiamato pesce cavallo. Questo animale è di natura quasi del vecchio marino, che ora sta in acqua e ora in terra, e de tutti duoi questi elementi si nutrisce. Ed è di questa forma: il corpo grande come una vacca, e corto di gambe; ha li piedi fessi e la testa ha forma di cavallo, con duoi denti grandi, uno per lado, a modo di porco cinghiale, quali sono molto grandi, e ne ho visto da duoi palmi e piú lunghi alle fiate. Questo animale esce dell'acqua e va su per la riva come bestia quadrupede, la qual non si trova in altre parti dove si naviga per nostri cristiani, per quanto ho potuto intendere, se non per ventura nel Nilo. Ancora vedemmo vespertilioni, cioè nottole a nostro modo, grandi tre palmi e piú, e altri diversi uccelli molto differenti dalli nostri, e massime infiniti pappagalli, e cosí etiam infiniti pesci in questo fiume molto varii dalli nostri e di gusto e di forma, nondimeno buoni da mangiare.


Come furono scoperti alcuni fiumi, e del fiume di Casamansa e del signore similmente detto Casamansa; della distanzia del rio di Gambra al detto fiume.

Come ho detto di sopra, per la inconvalescenzia dei nostri uomini partimmo dal porto di Mansa, cioè del paese del signor Battimansa, e in pochi giorni uscimmo del detto fiume. E uscendo fuori, parendone a tutti aver molte vittuarie, e che saria laudabil cosa, poi ch'eravamo là, dover etiam scorrer piú oltra per questa costa, perché essendo tre navilii eravamo assai buona compagnia, e cosí d'accordo un giorno circa terza con vento prospero facemmo vela. E perché eravamo molto incolfati a questa bocca del rio di Gambra, e la terra della parte verso ostro e garbin se metteva molto fuora al mare, faccendosi al modo d'un capo, noi ce tenimmo alla volta di ponente per metterci fuora al mare: la qual terra mostrava tutta bassa e copiosa d'infiniti, bellissimi e grandissimi arbori verdi. E dapoi che fummo larghi in mare quanto ne parse, discoprimmo quello non esser capo da far menzione, perché oltra la detta ponta si vedeva il terreno della costa tutto di lungo; nientedimeno andammo larghi da questa punta, intorno della qual si vedeva il mare rompere piú di quattro miglia fuora. Per la qual cosa noi continuamente tenivamo duoi uomini a prova e uno su l'arbore ad alto, per discoprire scogli over altre secche, navigando solamente il dí con assai poche vele e con grande risguardo, e di notte mettendo ancora, andando l'una caravella drieto l'altra secondo ne toccava per sorte ogni giorno, perché cadauno di noi aria voluto che 'l compagno fosse andato avanti, ma tutto facevamo per sorte, toccando un giorno a uno e un giorno all'altro.
E cosí navigando per quella costa sempre a vista di terra duoi giorni, il terzo scoprimmo la bocca d'un fiume di assai ragionevol grandezza, e secondo mostrava detta bocca era largo piú di mezzo miglio; e piú avanti andando, verso sera avemmo vista d'un piccol colfo, che quasi mostrava al modo della bocca d'un fiume: di che, per esser tardi, mettemmo ferro. E la mattina seguente, faccendo vela e incolfandosi noi alquanto, discoprimmo la bocca d'un altro gran fiume, parendomi, secondo il giudicio mio, quella esser poco minore dell'antedetta bocca del detto fiume di Gambra; e da una parte e dall'altra del detto fiume si vedeva gran copia di bellissimi arbori alti e verdi, onde se accostammo e qui sorgemmo. E parlando insieme determinammo di armar due delle nostre barche, e con li nostri turcimanni mandar in terra a saper nuova del paese e del nome di questa fiumara, e saper chi era signore di queste parti: e cosí facemmo. Le barche andarono e tornarono, e dissero che questa fiumara si chiamava la fiumara di Casamansa, come è a dir la fiumara d'un signor nominato Casamansa negro, il quale abitava dentro del detto fiume circa miglia trenta; ma che 'l detto signore non si trovava in quel luoco, ma che era andato in guerra contra un altro. Onde, avuta noi questa tal nuova, il giorno sequente si partimmo, notando che dal rio di Gambra fino a quest'altro di Casamansa sono leghe circa venticinque, che sono miglia cento.


Del luoco detto Capo Rosso e perché è cosí chiamato, del rio di Santa Anna e del rio di S. Dominico e d'un altro gran fiume; e della marea d'acqua crescente e discrescente di quel paese.

Ed essendo partiti da questo fiume di Casamansa, seguendo per la costa, pervenimmo ad un capo che al nostro giudizio è lontano dalla bocca del detto fiume circa miglia venti. E questo capo è un poco piú alto che 'l terreno della costa, e mostrava la fronte d'esso esser rossa: e per questo li mettemmo nome Capo Rosso. E dapoi, navigando per la costa, pervenimmo alla bocca d'un fiume assai ragionevole e al nostro giudizio largo un tirar di balestra: questo non curammo di tentare, ma li mettemmo nome il rio di Sant'Anna. E passando detto fiume e navigando pur al nostro cammino, venimmo ad un altro fiume pur in la detta costa, il quale non ne parse minor di quel di Sant'Anna, e a quest'altro mettemmo nome il rio di San Dominico: e dal Capo Rosso antedetto fino a questo fiume ultimo giudicammo per arbitrio esser miglia cinquantacinque in sessanta.
Dapoi etiam navigando per la predetta costa per una giornata, venimmo alla bocca d'un grandissimo fiume, dico sí grande che prima noi tutti giudicammo quello esser colfo; nientedimeno si vedevan gli arbori bellissimi e verdi dall'altra parte del terreno verso ostro. La qual larghezza fu giudicata per tutti al meno esser miglia venti e di là in suso, perché buon spazio mettemmo in traversar detta bocca, cioè da un terreno all'altro. E quando fummo dall'altra parte avemmo vista in mare di alcune isole, onde noi determinammo voler saper in questo luoco qualche nuova di tal paese, e subito mettemmo ancora. E la mattina seguente vennero alli nostri navilii due almadie, che sono di quelle sue barche dette di sopra, le quali in verità erano molto grandi, e quasi che una era lunga come una delle nostre caravelle, ma non sí alta, e in questa venivan piú di trenta Negri; l'altra, ch'era minore, avea da circa sedeci uomini. Noi, vedendoli venire vogando molto velocemente al modo predetto, e dubitandosi, prendemmo l'arme in mano per star a veder quello che volessero fare. Quando ne furono appresso, levorono un fazzuol bianco alto ligato ad un remo, quasi a modo di dimandar segurtà; noi li rispondemmo in quel medesimo modo, e visto loro che avevamo fatto il simile, vennero a lato. E la maggior delle altre almadie si accostò alla mia caravella, e ne guardavan con grandissima maraviglia, vedendone esser uomini bianchi; guardavano anco la forma del nostro navilio, con l'arbore e l'antenna incrosata, perché è cosa che loro non sanno che la sia né l'usano. Onde io, desideroso di intender di questa generazione, li feci parlare alli miei turcimanni, né mai alcun di loro poté intender cosa che dicesseno, né meno quelli dell'altre caravelle: il che veduto ne avemmo grandissimo dispiacere. E finalmente ci partimmo senza poterli intendere, e vedendo ch'eravamo in paese nuovo e che non potevamo esser intesi, concludemmo che 'l passar piú avanti era superfluo, perché giudicavamo dover trovar sempre piú nuovi linguaggi, e che non si poteva far cosa buona: e cosí determinammo di tornar indrieto.
Da un Negro delle due almadie furono comprati per noi alcuni anelletti d'oro a baratto di alcune cosette, non parlando, ma con cenni faccendo mercato.
Noi stemmo sopra la bocca di questo gran fiume, o rio Grande, duoi giorni, e la tramontana quivi se ne mostrava molto bassa. In questo luoco trovammo una grande contrarietà, che non si trova altrove, per quanto ho potuto intender, cioè che, faccendosi in questo luoco marea di acqua montante e zozante come si fa a Venezia e in tutto il ponente, e dove in ogni luoco la cresce sei ore e cala altre sei, quivi la cresce ore quattro e cala otto. Ed è tanto l'impeto della correntia della detta marea, quando la comincia a crescere, che gli è quasi incredibile, perché tre ancore per prova a pena e con fatica ne potevano tenere. E ora fu che la correntia ne fece far vela per forza e non senza pericolo, perché l'aveva molto piú forza che le vele col vento.


Di due isole grandi e altre piccole.

Partimmo dalla bocca di questo gran fiume per ritornarsene in Spagna, e tenimmo la volta del mare verso quelle isole, le quali erano distanti da terra ferma circa miglia trenta. A queste isole giungemmo, le quali sono due grandi e alcune altre piccole. Queste due grandi sono abitate da Negri, e sono isole molto basse, ma copiose di bellissimi arbori, grandi e alti e verdi. Qui anche non avemmo lingua, perché loro non intendevano noi, né noi loro. E di lí partendo venimmo verso le parti nostre de' cristiani, alle quali per nostre giornate navigammo, tanto che Dio per sua misericordia, quando li piacque, ne condusse a buon porto.

La navigazion del capitan Pietro di Sintra portoghese,
scritta per messer Alvise da Ca' da Mosto

Del rio di Besegue e d'un luoco a cui posero nome Capo dei Verga, e della qualità di quella costa.

Questo è quanto ho veduto e inteso nel tempo che andai per quelle parti; ma dapoi di me ne sono stati altri, e principalmente il re di Portogallo vi mandò, dipoi la morte del detto signor infante don Henrich, due caravelle armate, capitano delle quali era un Pietro di Sintra, scudier del detto signore, al quale diede in commissione di scorrer molto avanti per quella costa de' Negri e discoprir paesi nuovi. Col qual capitano andò un giovane Portogallese mio amico, stato con me in quelle parti per scrivano; e al ritorno delle caravelle trovandomi io, Alvise da Ca' da Mosto, in Lagus, arrivò il detto capitano, e il predetto mio amico dismontò in casa mia, il quale mi diede in nota di punto in punto tutto il paese che avevano discoperto, e gli nomi che li avevano messo, e le starie come stavano, tutto per ordine: le quali si contengono, cominciando dal predetto rio Grande, dove noi fummo per avanti, sí come qui sotto annoterò.
Prima mi disse ch'erano stati alle sopradette isole grandi abitate, e che in una d'esse dismontarono in terra e parlorono con loro Negri, ma che non furono intesi; e andorono alle sue abitazioni alquanto fra terra, le quali erano casuccie di paglia poverissime, e in alcune d'esse trovarono statue di idoli de legno: e per quello che poteano da loro comprendere, questi Negri sono idolatri e adorano quelle statue. E non potendo avere né intender altro da costoro, si partirono, seguendo il suo viaggio per la costa piú avanti, tanto che vennero alla bocca d'un gran fiume, largo secondo il suo giudicio circa tre in quattro miglia: e per suo arbitrio mettono esser, dalla bocca del rio Grande fino alla bocca di questo altro fiume, circa miglia quaranta per costa. E disse che questo rio si chiama il rio di Besegue, derivato dal nome d'un signore che abita alla bocca di questo fiume. Dapoi partiti, navigando per la detta costa vennero ad un capo, al quale posono nome Capo di Verga. E tutta la costa dal detto fiume di Besegue fino a questo capo di Verga è montuosa, non però molto alta: e sono per suo arbitrio dal detto fiume fino a questo Capo di Verga miglia centoquaranta; e le montagne sono piene di bellissimi arbori molto grandi e alti, e che verdeggiano molto da lontano, e pare una bellissima cosa a vederli.


D'un luoco detto Capo di Sagres; della fede, costumi, vivere e vestire, e del modo del vogare di quel paese.

Item, passato il detto capo di Verga e navigando per la detta costa per spazio di miglia circa ottanta, discoprirono un altro capo, il quale, secondo il giudizio di cadauno di quelli marinari, dicono esser il piú alto capo che mai vedessino. In mezzo dell'altura di questo capo si fa una punta aguzza a modo di diamante, e tutto questo capo è copioso d'altissimi arbori e verdi. E misero nome a questo capo Sagres, in memoria d'una fortezza che fece far la buona memoria del signor infante don Henrich sopra una delle punte del Capo San Vincenzo, alla quale misero nome Sagres: e per questa causa chiamasi dalli Portogallesi il Capo di Sagres di Guinea.
E dicono i marinari quelli abitanti esser idolatri, per la informazione che ebbono, e che adorano statue di legno in forma d'uomini; e dicono che quando vogliono mangiare o bere sempre offeriscono della vivanda alli suoi idoli. E sono piú presto berrettini in colore che negri, e hanno alcuni segni fatti con ferro affocato per il viso e per il corpo. Vanno sempre nudi, e per braghe portano scorzi di arbori con li quali coprono le loro vergogne; non hanno arme, per non trovarsi ferro nel suo paese. Vivono di risi e di megli e legumi, cioè fave, fasuoli di altra qualità delli nostri, cioè piú grossi; hanno carne di vacca e di capra, ma non in molta quantità. In dromo di questo capo in mare sono due isolette, l'una distante dall'altra miglia sei, e l'altra miglia otto, e sono disabitate per esser piccole, ma hanno copia di bellissimi arbori verdi. Item hanno gli abitanti di questo fiume alcune almadie, cioè zoppoli a nostro modo grandissimi, nelle quali navigano da uomini trenta in quaranta per cadauna, e vogano piú remi in piedi e senza forca, come ho detto di sopra. E hanno questa gente le orecchie tutte forate di busi a torno a torno, nelli quali portano diversi anelletti d'oro, uno drieto all'altro in tira; ed eziandio hanno il naso forato di sotto nel mezzo, nel qual portano un annello d'oro appiccato, nel modo che portano di qua i nostri buffali, e quando vogliono mangiare se lo tirano via: e cosí portano gli uomini come le donne. E dicono come le donne di re e signori, overo de uomini da conto in questo paese, tutte hanno i labbri della natura forati d'alcuni busi sí come nell'orecchie, nelli quali busi portano, per dignità e per significazion di grandezza e stato, annelli d'oro, i quali si tirano e mettono a suo buon piacere.


Del rio di San Vicenzo e rio Verde e Capo Liedo; d'una gran montagna e di tre isole dette le Salvezze.

Passato il detto Capo Sagres, a circa miglia quaranta si trova un altro rio detto San Vicenzo, ed è largo nella bocca circa miglia quattro; e piú oltra circa miglia cinque per la detta costa andando, si trova un altro rio il quale si chiama rio Verde, ed è piú grande questo nella bocca che l'altro detto rio di San Vicenzo: e a questi tal fiumi sono stati messi nomi per li predetti naviganti con le caravelle del re. E tutto questo paese e costa è montuosa, e ha per tutto buon sorgidor e buon fondo. E passato questo rio Verde per miglia circa ventiquattro, si trova un altro capo, che li messero nome il Capo Liedo, overo Allegro a nostro modo, perché gli parve che questo capo col paese verde e bello fosse tutto allegro. E da questo Capo Allegro per avanti per la costa vi è una montagna, la qual dura ben circa miglia cinquanta, ed è altissima, coperta tutta di arbori verdi sempre e altissimi. Alla fine della quale si trovano in mare circa miglia otto isolette tre, e la maggiore può circundare da miglia dieci in dodici: e misero nome a queste isole le Salvezze, e alla detta montagna Serra Liona, e questo per il gran rumor che di continuo si sente per causa de' tuoni che sono sempre in la cima, ch'è circondata da nebbie.


Del fiume Rosso, Capo Rosso e isola Rossa; del rio di Santa Maria della Neve; dell'isola dei Scanni, del Capo di Sant'Anna, e qualità di quella costa.

E passata questa costa della montagna Liona, tutto di là avanti è terra bassa e spiaggia, con molte secche di arena le quali escono fuora in mare. E del capo di detta montagna andando circa miglia trenta piú oltra, si trova un'altra fiumara grossa, che è larga nella bocca da miglia tre, alla qual misero nome il fiume Rosso, e questo perché l'acqua di questo fiume si mostrava esser come rossa, per il fondo ch'era terren rosso. E oltra detto fiume è un capo che 'l terreno è come rosso, e anche a questo capo hanno messo nome il Capo Rosso; e in dromo di questo capo, in mare forse miglia otto, è una isoletta disabitata, la qual chiamano l'isola Rossa del detto Capo Rosso: e in questa isoletta appar la tramontana di altezza d'un uomo sopra il mare, notando che dalla bocca del detto fiume Rosso fino a questa isoletta sono circa miglia dieci.
Essendo passato il detto Capo Rosso, si fa a modo d'un colfo, nella sacca del quale v'è un fiume grande, al qual misero nome il rio di Santa Maria dalla Neve, perché in tal giorno fu trovato; e dall'altra parte del fiume vi è una punta, in dromo della quale un poco in mare è una isoletta. E fassi qui in questo colfo over sacca molte basse di arena, che durano andando per la costa da dieci in dodici miglia, dove rompe il mare, e qui è grandissima correntia d'acqua e gran marea di montante e di zozante. Alla quale isoletta misero nome isoletta di Scanni, per le molte secche antedette. E oltra di questa isola si fa un capo grande, al qual misero nome il Capo di Sant'Anna, perché in simil giorno fu trovato. E dalla predetta isoletta fino a questo capo sono miglia ventiquattro, e tutta questa costa è di spiaggia e di poco fondo.


Del fiume delle Palme e rio dei Fumi, e perché è cosí detto; del Capo di Monte e Capo Cortese, over Misurato, del bosco over arboreto di Santa Maria; e de' costumi di que' Negri.

Oltra il detto Capo di Sant'Anna miglia settanta pur per la costa, si trova un altro fiume, al qual hanno messo nome il fiume delle Palme, per esservi molte palme; e la bocca di questo fiume (benché la mostri assai larga) è tutta occupata da scanni e secche di arena, e la intrada di esso fiume è pericolosa. E dal detto Capo di Santa Anna infino a questo fiume è tutta spiaggia. Item, passando questo fiume per spazio de circa miglia settanta, pur per la spiaggia nella detta costa, si trova un altro fiume piccolo, qual nominorono il rio de' Fumi, e questo perché quando lo trovorono per tutta quella costa non si vedeva altro che fumi in terra, fatti per quelli del paese. E oltra a questo fiume miglia ventiquattro pur per la spiaggia, si trova un capo che si mette molto al mare, e sopra di questo capo pare un monte alto: e a questo capo hanno messo nome il Capo del Monte. Item, oltra questo Capo di Monte per la spiaggia andando avanti circa miglia sessanta, si trova un altro capo piccolo e non alto, il quale anche mostra sopra d'esso aver un monticello: e a questo hanno messo nome il Capo Cortese o Misurado. E in questa parte viddero molti fuochi quella prima notte su per gli arbori e per la spiaggia, fatti dalli Negri quando ebbero la vista di questi navilii, mai piú da loro veduti.
E oltra questo capo a miglia sedici pur per la spiaggia è un bosco grande, con molti arbori verdissimi che beono fina su l'acqua del mare, al qual messono nome il bosco overo arboredo di Santa Maria. E drieto di quello sorgetteno le caravelle, alle qual vennero alcune almadie piccole de' Negri con due over tre uomini per una, tutti nudi, i quali portavano in mano alcune mazze aguzze nella punta, quasi al modo nostro volessero esser dardi; e alcuni di loro aveano certi coltelli piccoli, e infra tutti avevano due targhe di cuoro con tre archi: e vennero alle caravelle. E aveano costoro le orecchie tutte forate a torno a torno, e cosí il naso di sotto, e alcuni di loro aveano al collo alcune reste di denti, che parevano denti di uomo. Alli quali fu parlato per diversi turcimanni negri ch'erano in quelle caravelle, e mai non furono intesi pur una sola parola, né da loro si poté intendere alcuna cosa. Delli qual Negri tre d'essi introrono in una delle caravelle, e di questi tre i Portogallesi ne ritennono uno e gli altri lasciorono andare: e questo per adempiere il comandamento della maestà del re, il qual li commesse che dell'ultima terra dove capitasseno, non volendo loro andar piú avanti, se per aventura da quelle genti non fussero intesi i loro turcimanni, che s'ingegnassero di menar alcuni delli Negri di quel paese o per amore o per forza, per poter intender da lui per via di turcimanni di molti altri Negri che si trovano in Portogallo, overo con spazio di tempo imparando a parlare, desse notizia delli suoi paesi. E per questa causa ritennero questo Negro delli tre, e non terminando di passare piú oltra, quello condussero in Portogallo, dove lo presentarono alla maiestà del re, qual li fece parlar da diversi Negri; e ultimamente da una Negra schiava d'un cittadino di Lisbona, ch'era ancora lei di lontan paesi, fu inteso, non per il suo proprio linguaggio, ma per un altro linguaggio che lui e lei sapevano. E quello che referisce il detto Negro al re per il mezzo di questa femmina non s'intende, salvo che l'avea detto fra l'altre cose trovarsi nel suo paese alicorni vivi. Onde il detto signore, avendolo tenuto alcuni mesi e fattoli mostrar molte cose del suo legno, donandoli alcune robe, con gran carezze lo fece condur di nuovo per una caravella nel suo paese. E da questo ultimo luogo non vi è passato altro navilio avanti fino al mio partire di Spagna, che fu adí primo febraro MCCCCLXIII.

La navigazione di Annone, capitano de' Cartaginesi, nelle parti dell'Africa fuori delle colonne d'Ercole, la quale scritta in lingua punica egli dedicò nel tempio di Saturno,
e dapoi fu tradotta in lingua greca e ora nella toscana.


[circa 520 a.c.]

I Cartaginesi deliberarono che Annon dovesse navigar fuori delle colonne di Ercole ed edificar delle città libifinice. Egli navigò con sessanta navilii penticontori, cioè fusse de cinquanta remi, conducendo seco gran moltitudine di uomini e di donne al numero di trentamila, con vettovaglie e con ogni altro apparecchio.
Giunti alle colonne le passammo, e avendo navigato di fuori per due giornate, edificammo la prima città, nominandola Thymiaterio, intorno della quale era una grandissima pianura. Dipoi volgendoci verso ponente, giugnemmo ad un promontorio dell'Africa detto Soloente, tutto pieno di boschi, ed avendo quivi edificato un tempio a Nettunno, di nuovo navigammo meza giornata verso levante, finché arrivammo ad una palude che giace non molto lontana dal mare, ripiena di lunghe e grosse canne: ed eranvi dentro elefanti, e molta copia d'altri animali, che andavano pascendo. Poi che avemmo trapassata la detta palude quanto saria il navigar d'una giornata, edificammo alcune città nella marina, per proprio nome chiamandole Muro Carico, Gytta, Acra, Melitta e Arambe. Ed essendoci partiti di là, venimmo al gran fiume Lixo, che discende dall'Africa, appresso il quale stavano a pascere i loro animali alcuni uomini pastori detti Lixiti, co' quali dimorammo insino a tanto che si dimesticarono con esso noi. Nella parte al loro di sopra abitavano i Negri, che non vogliono commercio con alcuno: e il lor paese è molto salvatico e pieno di fiere, ed è circondato da monti altissimi, dai quali dicono discendere il fiume Lixo, e intorno a' monti abitarvi uomini di varie forme, che hanno i loro alberghi nelle grotte e nel correr sono piú veloci dei cavalli, secondo che dicevano i Lixiti. Dai quali avendo noi tolti alcuni interpreti, navigammo presso di una costa deserta verso mezzogiorno per due giornate, e di là poi di nuovo volgemmo una giornata verso levante, dove nell'intima parte del colfo trovammo una isola piccola, che di circoito era cinque stadii, la qual facemmo abitare nominandola Cerne. E per lo spazio della navigazione fatta giudicavamo che l'isola fusse a diritto di Cartagine, percioché ne pareva simile la navigazione da Cartagine insino alle colonne e dalle colonne insino a Cerne. Dalla quale partendoci e navigando per un gran fiume chiamato Chrete, arrivammo ad una palude, che aveva tre isole maggiori di Cerne; dalle quali avendo navigato per ispazio d'un giorno, arrivammo nell'ultima parte della palude, di sopra la quale si vedevano montagne altissime che le soprastavano, dove erano uomini salvatichi vestiti di pelli di fiere, i quali tirando delle pietre ci discacciavano, vietandosi dismontare in terra. Dipoi, navigando via di là, venimmo in un altro fiume grande e largo, pieno di cocodrilli e di cavalli marini; di qui volgendoci di nuovo a drieto, ritornammo a Cerne.
Navigammo poi di là per dodici giornate verso mezogiorno, non ci allontanando troppo dalla costa, la qual tutta era abitata dai Negri, che senza punto aspettarci da noi si fuggivano, e parlavano di maniera che neanche i Lixiti che erano con esso noi gl'intendevano. L'ultimo giorno arrivammo ad alcuni monti pieni di grandissimi arbori, i legni dei quali erano odoriferi e di varii colori. Avendo noi adunque navigato due giorni presso di questi monti, ci trovammo in una profondissima voragine di mare, da un lato del quale verso terra vi era una pianura, dove la notte vedemmo fuochi accesi d'ogn'intorno, distante l'uno dall'altro alcuni piú alcuni meno.
Quivi avendo fatto acqua, navigammo presso di terra piú avanti cinque giornate, tanto che giugnemmo in un gran colfo, il quale gl'interpreti ci dissero che si chiamava il corno di Espero. In questo vi era una grande isola, e nell'isola una palude che pareva un mare, e in questa vi era un'altra isola: nella quale essendo noi dismontati, non vedevamo di giorno altro che boschi, ma di notte molti fuochi accesi, e udivamo voci di pifferi e strepiti e suoni di cembali e di timpani, e oltra di ciò infiniti gridi. Di che noi avemmo grandissimo spavento, e i nostri indovini ci comandarono che dovessimo abbandonar l'isola; onde velocissimamente navigando passammo presso di una costa di odori, dalla quale alcuni rivi infocati sboccavano in mare, e nella terra per l'ardente caldezza non si poteva camminare. Per la qual cosa spaventati subitamente facemmo vela, e in alto mare trascorsi a lungo per ispazio di quattro giornate, vedevamo di notte la terra piena di fiamme e nel mezo un fuoco altissimo, maggiore di tutti gli altri, il qual pareva che toccasse le stelle: ma questo poi di giorno si vedeva che era un monte altissimo, chiamato Teonochema, cioè Carro degli Dei.
Ma avendo poi per tre giornate navigato presso dei rivi infocati, giugnemmo in un colfo che si chiama Notuceras, cioè corno di Ostro, nella intima parte del quale vi era una isola simile alla prima, che aveva una palude, e in essa vi era un'altra isola piena di uomini salvatichi, e le femmine erano assai piú, le quali avevano i corpi tutti pelosi e da gl'interpreti nostri erano chiamate gorgone. Noi, avendo perseguitato degli uomini, non ne potemmo prender niuno, percioché tutti fuggiron via in alcuni precipizii e con le pietre facevano difesa; ma delle femmine ne pigliammo tre, le quali, mordendo e graffiando quei che le menavano, non gli volevano seguitare: onde essi avendole ammazzate, le scorticammo e le pelli portammo a Cartagine, percioché, essendoci mancate le vettovaglie, non navigammo piú innanzi.


Discorso sopra la navigazione di Annone cartaginese, fatto per un pilotto portoghese.

Questa navigazione di Annon cartaginese è una delle piú antiche delle quali si abbia notizia, e fu molto celebrata dalli scrittori cosí greci come latini, e Pompeio Mella e Plinio ne fanno menzione nelli lor libri. Né si trova scrittor piú antico che narri cosí particularmente della costa dell'Africa verso ponente, della qual Pomponio scrivendo dice queste parole: "Fu già dubbio se oltra l'Africa si ritrovasse mare, overo se quella parte del mondo si estendesse in infinito infruttuosa e sterile, benché Annone cartaginese, mandato dalla sua republica a scoprire e a considerare tutta la costa dell'Africa, essendo uscito dallo stretto di Gibralterra e avendo navigato grandissima parte di quella, ritornando a Cartagine dica che non vi era mancato mare da navigar, ma vettovaglie da mantener le ciurme".
Similmente Plinio, parlando dell'Africa e del monte Atlante, segue in questo modo: "Il monte Atlante, posto nel mezzo dell'arene, s'inalza fino al cielo, ed è aspro e squalido da quella parte che guarda verso il mare, da lui cognominato Atlantico; ma verso l'Africa è tutto vestito di arbori, ombroso e lieto, e bagnato da molte belle e fresche fontane, nascendovi sempre ogni sorte di frutti senza fatica o coltura degli uomini, e in tanta abbondanza che da ogni tempo gli abitatori ponno saziare li loro delicati appetiti. Fra il giorno niuno degli abitatori si vede, e vi è tanto silenzio che per quella orrenda solitudine, nel cuore di quelli che vi approssimano, nasce un certo religioso timore, oltra che sono spaventati vedendo quello elevato sopra le nuvole e vicino al cielo della luna, e di notte lampeggiare di molte e varie fiamme, e per la lascivia e morbidezza de' satiri e degli egipani risuona di piffari, di fistole e organetti, con cembali e tamburi. Vengono affermate le sopradette cose da celebratissimi auttori, e oltra quello che si legge che Ercole e Perseo fecero sopra quel monte, dicono che a penetrarvi vi è uno spazio grandissimo e incerto. Si truovano ancora nelli memoriali di Annone, capitano de' Cartaginesi nel tempo che la sua republica fioriva, come dal senato suo li fu commesso che con l'armata andasse a scoprire e ben considerare tutta la costa di fuori dell'Africa. E molti greci e latini scrittori, seguendo lui, dissero molte cose fabulose e incredibili, affermando molte città esser state edificate per comandamento e industria del detto Annone, delle quali né memoria né pur alcun vestigio ne rimane".
Ancora il detto Plinio, scrivendo dell'isole Gorgone, dice: "Venne a queste isole Annone, capitano de' Cartaginesi, e scrisse che le femmine hanno i corpi del tutto pilosi, e che gli uomini scamparono per la velocità del correre. E per miracolo e perpetua memoria ch'egli fusse stato nelle dette isole, portò due pelli di gorgone e lasciolle nel tempio di Giunone, le quali durarono insino al tempo della rovina di Cartagine. Oltra di queste sono due altre isole dette Esperide. E tanto sono tutte queste cose incerte, che Stazio Seboso scrisse che dalle isole delle Gorgone, navigando oltra il monte Atlante, sono giornate quaranta fino alle Esperide, e dalle Esperide fino al corno di Espero una giornata. L'isole ancora della Mauritania sono incognite, eccetto alcune poste all'incontro delli popoli Autololi, scoperte da Iuba re di quel paese, nelli quali cominciò a cavar la porpora getulica".
In questa navigazione di Annone ancor che vi siano molte cose che alla prima vista pareno a chi le legge fabulose, nondimeno chi trascorre li libri degli istorici greci comprende ch'egli determinatamente le volse scriver a questo modo. Né è parte del mondo della quale appresso detti scrittori vi siano piú vecchie memorie che di questa costa d'Etiopia, posta sopra il mare Oceano verso ponente appresso il monte Atlante, li Negri abitatori della quale dicono che per la felicità dell'aere e per la loro umanità, pietà e amorevolezza verso i forestieri, furono degni di tanta laude sopra tutte l'altre genti, e che l'origine dei Dei vien detta esser processa da loro. E Omero chiama l'Oceano padre degli Dei, e quando introduce Giove che vogli andar a recrearsi, dice che 'l va a trovare l'Oceano e alli conviti delli boni e religiosi Negri.
Narrano ancora in questa parte de l'Etiopia esser state fatte molte imprese e guerre, e che vi era una nazion di femmine che signoreggiavan, dette gorgone, quali abitavano in una isola, la quale per esser verso ponente si chiamava Espera. E che questa isola era nella palude detta Tritonide, appresso il mare Oceano e vicina ad un monte altissimo di tutta quella costa, detto Atlante; e che Perseo figliuolo di Giove vi andò con esercito e, combattendo con quelle, uccise la loro regina, detta Medusa; e che similmente dapoi Ercole vi fu ad espugnarle, e le rovinò del tutto. E per esser questa cosa tanto famosa e illustre per cosí gran capitani di guerre, Annone, dapoi fabricate le città a sé commesse, la volse scorrere e menar seco quegli uomini Lixiti, i quali sapeva che avean pratica di quella costa, e in molti luoghi seppeno dir li nomi dei colfi, dei monti e di quelle femmine.
Polibio similmente, gravissimo filosofo e istorico, che avea letta questa navigazione e le cose scritte di questa costa, desiderò ancora esso di vederla, percioché, trovandosi maestro di Scipione, lo volse accompagnar alla espugnazion di Cartagine, dove si fece dar alcuni legni con li quali, uscito fuori del stretto di Gibralterra, scorse tutta la detta costa fino all'equinoziale, per quanto si può comprendere dalli detti di Plinio e di Strabone: e ne scrisse particularmente, ma questi suoi libri sono del tutto perduti. Ptolemeo, che fu molto tempo dapoi Pomponio Mella e Plinio, la volse descriver ne' libri della sua "Geografia", mettendovi li gradi, conoscendo in quella molte cose esser verissime. Al qual auttore non è da imputar che, parlando dell'Africa, non iscrivesse che 'l mar la circondi, avendo quel gentiluomo romano di Marco Varrone detto in verso: "Clauditur Oceano, libyco mare, flumine Nilo"; conciosiacosaché, essendo stato affermato per alcuni scrittori greci che un certo Eudoxo, al tempo delli re Ptolemei di Alessandria, aver voluto navigarvi intorno, questa tal navigazione era stata tenuta per favola e cosa vana. E Strabone, scrittor celebratissimo, si affatica con tutto il suo ingegno nel suo libro secondo di confutarla e dimostrar che non abbia potuto essere: il qual fu nel tempo di Augusto e di Tiberio, quando fiorivano le lettere in Italia e in Grecia. E questa fu la cagione che Ptolemeo, che fu 143 anni dopo Cristo, non ebbe ardir di affermar ch'ella si potesse navigar intorno, ma pose luoghi deserti e pieni di arena, tutti abbruciati dal sole.
Nondimeno ai tempi presenti si conosce apertamente quanta poca cognizione aveano gli antichi come stessero le parti del mondo, e vedendosi in questa navigazion di Annone molte parti degne di considerazione, ho giudicato dover esser di sommo piacere agli studiosi se ne scriverò di alcune poche, che altre volte io notai in certi miei memoriali, avendole udite ragionare da un gentil pilotto portoghese di Villa di Condi, il cui nome per convenienti rispetti si tace. Con costui adunque, il quale era venuto in Venezia con una nave carica di zuccari dell'isola di San Tomé, il conte Rimondo della Torre, gentiluomo veronese, che similmente si trovava in Venezia a piacere, ebbe grandissima famigliarità e amicizia, conoscendolo persona perita non solamente dell'arte del mare, ma ancora, per le lettere e per il molto legger di diversi auttori, pieno di molta cognizione, e sopra tutto delle tavole di Ptolemeo, le quali gli avea molto familiari. E tutto il tempo ch'egli stette in Venezia, di continuo lo volse aver in casa sua, percioché si dilettava d'intendere queste nuove navigazioni, quanto altro uomo che sia stato a' tempi nostri. E questo pilotto, avendo fatti molti viaggi all'isola di San Tomé, qual è sotto la linea dell'equinoziale, non avea lassato porto, fiume o monte della costa dell'Africa verso ponente, che non l'avesse voluta vedere e descrivere con tutte l'altezze e lunghezze e numero di leghe: e aveane sopra certe sue carte fatta memoria, di sorte che ne parlava molto particularmente e sensatamente. Ora, avendo il conte Rimondo letto il viaggio sopradetto, questo pilotto ne prendeva sommo piacere, e si stupiva come, essendo già duomila anni stato scoperto tanto avanti questa costa, niun principe poi l'abbia voluta far navigare e riconoscere, se non da cento anni in qua, al tempo del signor infante don Henric di Portogallo. E gli pareva ben gran cosa come questo capitano Annone avesse avuto tanto ardire di passar tanto avanti, il quale (per il conto ch'esso faceva secondo le tavole di Ptolemeo, che descrive il corno del Noto over Ostro) era arrivato quasi un grado appresso l'equinoziale, non avendo né bossolo né carta da navigare, cose trovate lungo tempo dapoi.
Ma si vede che questo capitano fu molto prudente, percioché, desiderando di sodisfar alli comandamenti de' Cartaginesi e poi di scoprir securamente quanto piú li fosse possibile di questa costa, volse navigar con legni piccoli, cioè fuste di cinquanta remi, per poter andare sempre appresso terra, sapendo esservi infiniti fiumi, paludi e luochi bassi, e non volendo allargarsi in mare, poter facilmente adoperar quelle ora con remi ora con le vele. E appresso queste 60 fuste è necessario che gli avesse degli altri legni, per condur le vettovaglie e tanto numero di gente, come in tutte l'armate presenti tutto il giorno è consueto di fare. E navigato ch'ebbe tre giorni e mezzo, li parse edificar le città libifenici, chiamate cosí conciosiaché i Cartaginesi anticamente aveano avuto origine di Fenicia, qual è una provincia alle marine della Soria, dove è Barutti, Saeto e il Suro, dette dagli antichi Berytus, Sidon, Tyros. E ora, volendo che dette città edificate in Libia si cognoscessero esser sue colonie, le chiamarono libifenici.
E diceva il detto pilotto che non ci dovevamo maravigliare se, scorrendo questa costa dell'Africa gran parte verso mezzogiorno, questo capitano dica alcune fiate navigar verso ponente o ver verso levante, conciosiacosach'in questa costa vi siano molti colfi e promontorii, dove è necessario di parlar in questo modo, e l'arte della marinarezza non si sapeva a quelli tempi nella perfezione ch'ella si sa al presente. Ora scrivendo Annone che, partito dalle colonne di Ercole, ch'è lo stretto di Gibralterra, avea navigato lungo la costa duo giorni e quivi edificato Thymiaterio, detto pilotto diceva a suo iudicio questo luogo poter esser dove al presente è la città di Azamor, gradi 32 e mezzo sopra l'equinoziale, intorno la quale è una bellissima e grandissima pianura, la quale scorre fin in Marocco. Dapoi del detto luogo, navigando verso ponente, vanno al promontorio Soloente, che potria esser il Capo di Cantin, il qual corre verso garbin e quarta di ponente gradi 32. Si voltano dapoi verso levante, il che è che, voltandosi il Capo di Cantin, la costa se incolfa grandemente maestro e sirocco e quarta di levante, e in quel colfo trovano quella gran palude, percioché ve ne sono di grandissime, per cagione d'infiniti fiumi; la qual passata, edificarono quelle città per esequir l'ordine del senato cartaginese e liberarsi da quella moltitudine di gente. Le quali città non può pensare che fossero altrove se non dove sono alcuni luoghi del regno di Marocco, come Azzaffi, Goz, Aman, Mogador, Tefethna. Poi passano il Capo di Ger e trovano il gran fiume Lixo, ove dicono gli scrittori greci e latini che Anteo, qual combatté con Ercole, avea il suo palazzo, e ivi erano li giardini delle Esperide. Ma essendo infinita varietà fra detti scrittori ove sia ditto fiume, el prefato pilotto diceva volersi accostar all'opinion di Ptolomeo, che lo mette gradi 29 sopra l'equinoziale, e però pensava quello poter esser il fiume che da la regione per donde il passa è chiamato Sus, e va in mare a Messa, ed è in gradi 29 e mezzo. E qui sopra il mare si vede cominciar il monte Atlante minore, qual scorre per levante da un capo all'altro la Barberia, dividendola con diversi brazzi in molte provincie: e fino qui si pensa che penetrassero i Romani, né piú oltra passassero per esservi grandissime solitudini e deserti. Ove veramente sia l'Atlante maggiore, qual Ptolemeo mette in gradi ventitre, e Plinio dice esser in mezzo delle arene cosí alto, questo non si poter congetturar al presente.
Dapoi par che detto capitano scorresse Capo de Non e Capo del Boiador, e giongesse a Capo Bianco gradi ventiuno, ch'è tutta spiaggia deserta e arenosa, e quivi, voltato a torno detto capo verso levante per mezza giornata, venisse all'isola d'Argin, sopra la quale al presente è fabbricato un castello del serenissimo re di Portogallo: la qual, per esser piccola di circuito e appresso terra, detto pilotto diceva poter esser l'isola nominata da Annone Cerne. Ma com'ella sia per mezzo di Cartagine, non correndo nel paralello di longitudine né essendo in quell'altezza, non se può congetturar altramente, salvo che, non sapendosi allora queste altezze de' gradi, detto capitano volesse dir che tanto cammino era da Cartagine alle colonne, quanto dalle colonne a questa isola Cerne: il che è vero, e chi compasserà sopra le carte troverà esser tanto da Cartagine allo stretto di Gibralterra, quanto dal detto stretto al colfo d'Argin. E ancor che l'isola Cerne sia posta da Ptolemeo in venticinque gradi, e Argin sia in venti, si conosce manifestamente che li gradi di detto auttore sono stati variati da coloro che trascrissero il libro: come nelli gradi delle isole Fortunate, le quali si sa certo esser le Canarie, conciosiacosaché tutti gli scrittori le mettino vicine alla Mauritania, e sono in 27 e 28 gradi, e nondimeno sopra i libri di Ptolomeo sono poste in 17 e 18 gradi.
E discorreva il detto pilotto dell'isole dette al presente di Capo Verde, che sono 17 in 18, che potriano forse esser le Esperide, ancora che un gran gentiluomo e dottissimo istorico delle Indie occidentali, detto il signor Gonzalo Hernandez di Oviedo, si affatichi di provar nelli suoi libri che tutte l'isole trovate in dette Indie siano le Esperide. Ma essendovi tanta varietà e dubietà fra gli scrittori antichi, non si poteva affermare la verità; né si doveva alcuno maravigliare, diceva il detto pilotto, che Annone non facesse menzione di dette isole Fortunate, perché prima lui andando a terra terra con legni piccoli, non avea potuto vedere, poi sapeva il bando e diviedo ch'era in Cartagine di nominarle. Percioché Aristotele scrive che, essendo stata trovata da Cartaginesi una delle dette isole piena e copiosa di acque e de ogni sorte de frutti, infinite persone volevano andarvi ad abitare, onde il senato de' Cartaginesi, dubitando di disabitar la sua città, ordinò che sotto pena della vita niuno vi andasse, e che quelli che vi erano non si partissero, né piú di quelle si potesse parlare.
E per tornare alla isola di Cerne, par che di là entrassero per il fiume grande di Chrete e giugnessero ad una palude dove erano tre isole, e di là venissero fin sopra la costa, dove si vedevano quei monti, e che poi, entrati in uno altro fiume grandissimo, dove erano li cocodrilli e cavalli marini, di nuovo ritornassero in Cerne. Diceva il detto pilotto in questo colfo di Argin esservi infiniti fiumi, alcuni delli quali (come è quel di San Giovanni) per la sua grandezza si dividono in due rami, quali sboccando in mar sempre vanno atterrando: e per questo vi sono di grandissime paludi, drieto le quali si può navigar per molte miglia; e chi va all'insuso per un di detti rami, passate le paludi, trova il fiume principale, e al ritorno a seconda può venir per l'altro ramo al mare. E che questo capitano dovette voler veder quel che vi era fin sopra la costa, e andatovi con queste sue fuste per un di detti rami, dapoi per l'altro ritornò in Argin. E nel sopradetto fiume di San Giovanni fin al presente si vedono cavalli marini e cocodrilli, e dove sbocca vi sono molti bassi, e corre gradi 20 di altezza.
Dice dipoi che arrivarono appresso alcuni monti alti e pieni di alberi, che erano di varii colori e odoriferi. In questo luogo diceva il detto pilotto comprendersi chiaramente che 'l prefato capitano era arrivato a Capo verde, il quale è gradi 14, pieno di bellissimi e altissimi arbori, ed è il piú bello e segnalato capo che sia in tutta questa costa di Etiopia. Partiti poi di qui, par che trovino un fondo di un grandissimo mare: il detto pilotto diceva poter esser in questo modo, che, prolungandosi detto Capo Verde molto in mare, chi lo volta corre per la costa verso il fiume di Santa Maria maestro e sirocco, e quivi li paresse quella voragine di mare, per causa delli legni piccoli con li quali navigavano. Vanno poi verso il rio Grande, ch'è gradi quindeci, il qual pensa che sia un ramo del fiume Niger, e perché mena sempre torbida l'acqua dove sbocca in mare, è cagione che vi siano molte isole appresso la costa. E in quel luogo il capitano Annone trovò quella campagna, sopra la qual si vedevano fuochi da ogni banda elevarsi e maggiori e minori. Questi fuochi diceva detto pilotto vedersi infino al presente da tutti quelli che navigano la costa di Senega e Ghinea e delle Meleghette, conciosiacosaché i Negri che abitano alle marine e colli vicini a quelle sentono grandissimo caldo, e per questo stanno nascosi tutto il giorno nelle case loro, quando il sol è in questi nostri segni settentrionali, e hanno il maggior giorno dodici ore e mezza; e che come si fa notte, con facelle e legni accesi che ardono come torchi, si veggono andar or qua or là faccendo le lor bisogne: e di lontano in mare apparono simil fuochi, e si sentono molti romori e strepiti di corni e d'altro che fanno i detti Negri.
Dapoi passano nel colfo di Espero, dov'era quella grande isola qual potria esser una di quelle che si chiama al presente degli Idoli, e vedevano medesimamente i fuochi e udivano gli strepiti de' cembali; e poi trapassano li fiumi ardenti, fin che giungono a quel monte altissimo chiamato il Carro degli Dei, per toccar con le fiamme il cielo. A questo passo il detto pilotto diceva che non si poteva dir che altra montagna altissima si vegga, navigando drieto detta costa da gradi 8 infino alla linea, se non la nominata Serra Liona, la qual è gradi 8 sopra la detta linea; e ancor che sia lontana dal mare molte miglia, nondimeno per la sua altezza appare e si vede grandemente in mare, avendo circondata sempre la cima da foltissime nebbie, che causan di continuo saette e tuoni, i quali fanno che di notte appareno quei fuochi che par che tocchino il cielo. E discorreva che per sua opinione questa montagna era quella che intende Annone, Plinio e Ptolomeo per il Carro degli Dei, né si guardi alla varietà de' gradi, che 'l Carro degli Dei sia posto da Ptolomeo gradi 5 e questa Serra Liona in gradi 8, che, come di sopra è stato detto, tutti i gradi sono stati variati dal tempo e dalla negligenzia degli scrittori. Ma li gradi che sono stati osservati dalli presenti marinari, per ordine dei suoi re, sono verissimi e giustissimi. Come poi trovassero tutta la costa infocata con fiumi di fuoco che sboccavano in mare, questa parte diceva il pilotto esser stata scritta a suo iudicio determinatamente da Annone, e non per favola, percioché, volendo dimostrar a chi leggeria la sua navigazione esser vero ch'egli fusse giunto appresso la linea dell'equinoziale, la quale gli antichi, e massimamente quelli che erano grandi e istimati nelle lettere, affermavano esser bruciata dal sole e non esservi altro che fuoco, volse scrivere che avea veduto tutta la costa ardere di odori e di profumi con li fiumi di fuoco. Che s'egli avesse detto la verità, che in li luoghi appresso l'equinoziale vi è una temperie di aere grande e ogni cosa verde e amena, saria stato tenuto per bugiardo, e consequentemente che non vi fusse stato.
Al fine pervengono nel colfo che si chiama corna di Ostro, il qual da Ptolemeo è posto grado uno appresso l'equinoziale, e di longitudine 79. Diceva il detto pilotto che questi gradi 79 dimostrano evidentemente, a ciascuno che abbia un poco di pratica de' gradi, che sono del tutto falsi, percioché questa costa, che comincia a Serra Liona, corre maestro e sirocco infino a Capo delle Palme, ed è in gradi 4 sopra l'equinoziale; e dal Capo delle Palme infino all'isola al presente detta di Fernando da Po corre levante e ponente, dov'è il rio de los Camerones in terra ferma: e tutto questo tratto è come un colfo, il qual veramente si può creder che intendesse Ptolemeo esser il corno d'Ostro, perché è vicino alla linea, e corre di longitudine gradi 33. Nella estremità del quale trovorno l'isola che avea la palude, nella qual vi era un'altra isola piena di uomini e femine salvatiche: e questa isola esser quella di detto Fernando, per esser in capo di questo colfo e vicina alla costa, la quale in quel luoco si volge verso mezzodí. E tutta la descrizione di questo capitano era simile a quella per alcuni scrittori greci, quali, parlando dell'isola delle Gorgone, dicono quella esser un'isola in mezzo de una palude; ma in questa isola di Fernando non si vede altro che un laghetto vicino al mare due miglia, molto ameno per infinite fontane d'acqua dolce che vi correno dentro. E conciosiacosaché avea inteso che li poeti dicevan le gorgone esser femine terribili, però scrisse che le erano pelose: che veramente questa tal specie di femine vi fusse al tempo di Annone, e che al presente non si veda, diceva il detto pilotto che non si dovea l'uomo maravigliare, conciosiacosaché la revoluzion del cielo va di continuo alterando le cose di questo mondo, e questi e simili altri monstri sono sottoposti, come tutto il resto, a varie mortalità e mutazioni. E affermava aver parlato con uno pilotto della terra sua di Condi, persona prudente e degna di fede che avea fatto molti viaggi verso Calicut, qual li disse che, passando una fiata appresso la costa dell'Etiopia di là dal Capo di Buona Speranza, andò lui con alcuni marinari a far acqua ad un luoco della detta costa che si chiama Las Corrientes, e vi corre sopra il tropico di Capricorno ed è per mezzo l'isola di San Lorenzo; e come giunsero in terra viddero un corpo morto grande, buttato dalla fortuna sopra la spiaggia, con le mani, piedi e corpo simile in tutto all'uomo, eccetto che era tutto coperto di squamme e li capelli erano come fili durissimi sottili; e che è possibile che, trovandosi questi tal monstri nel mare, altre volte ne siano stati sopra la terra. Ma a detto pilotto pareva piú verisimile di pensare che, avendo Annone inteso nei libri de' poeti (quali appresso gli antichi erano in somma venerazione) esser scritto come Perseo era stato per aere a questa isola, e di quivi reportata la testa di Medusa, essendo egli ambizioso di far creder al mondo che lui vi fusse andato per mare, e dar riputazion a questo suo viaggio di esser penetrato fino dove era stato Perseo, volesse portar due pelli di gorgone e dedicarle nel tempio di Giunone: il che li fu facil cosa da fare, conciosiacosaché in tutta quella costa si truovino infinite di quelle simie grandi, che pareno persone umane, dette babuini, le pelli delle quali poteva far egli credere ad ogniuno che fussero state di femmine.
Queste e simil cose andava discorrendo il detto pilotto sopra questa navigazione di Annone, la qual, per la pratica che avea di quella costa, si sforzava di accordar con le navigazion moderne. Aggiungendo che, se li serenissimi re di Portogallo non avessero del tutto proibito il contrattar sopra questa costa di Etiopia con Negri (percioché non vi lassano andar se non quelli che hanno l'appalto, i quali sono pochi e appresso ignoranti), facilmente col tempo si saria penetrato fra terra in diversi luochi di detta costa, e venuto in cognizione delli monti, fiumi e paesi di quelli che abitano fra terra. Ma lo andarvi è del tutto proibito dai detti re, né vogliono che si sappian né queste né molte altre cose. E sopra tutto è vietato il poter navigar oltra il Capo di Buona Speranza a dritta linea verso il polo antartico, dove è opinione appresso tutti li pilotti portoghesi che vi sia un grandissimo continente di terra ferma, la qual corra levante e ponente sotto il polo antartico. E dicono che altre volte uno eccellente uomo fiorentino, detto Amerigo Vespuccio, con certe navi dei detti re la trovò e scorse per grande spazio, ma che dapoi è stato proibito che alcun vi possa andare.
Queste sono le cose che con la piccolezza del nostro ingegno abbiamo saputo raccoglier dai ragionamenti del detto pilotto, le quali, se non satisfaranno cosí a pieno a chi le leggerà come la grandezza della materia richiede, saranno almeno come uno stimolo ad eccitar qualche sublime ed elevato ingegno a pensarvi piú diligentemente sopra.

Navigazione da Lisbona all'isola di San Tomé, posta sotto la linea dell'equinoziale, scritta per un pilotto portoghese e mandata al magnifico conte Rimondo della Torre, gentiluomo veronese, e tradotta di lingua portoghese in italiana.

[1550]


Le navi che si partono da Lisbona per andar a carigar zuccheri all'isola di San Tomé, con che vento navichino all'isole Canarie, dagli antichi dette Fortunate. Dell'isola delle Palme. Del promontorio detto Capo di Boiador.

Avanti ch'io mi partissi da Venezia, come sa V.S., il signor Ieronimo Fracastor m'impose per sue lettere da Verona che, giunto ch'io fussi in Villa di Conde, dovessi transcrivergli d'alcune mie memorie, ch'io avea detto a V.S. avere appresso di me, tutto il viaggio che noi pilotti facciamo all'isola di San Tomé, quando vi andammo a caricar zuccheri, conciosiacosaché l'andar fino sotto la linea dell'equinoziale, dove è detta isola, li pareva cosa mirabile e degna che ciascuno uomo studioso la intendesse. V. Signoria poi anche al partir mio me ne pregò, per la qual cosa, giunto che fu' qui, mi posi subito a transcriver detto viaggio, comunicatolo anche con alcuni miei amici stati altre fiate in quello. Dapoi, avendolo riletto pensatovi sopra, immediate mi son accorto che queste tal mie scritture non eran degne d'esser lette da un cosí grande ed eccellente uomo in scienzie come è il signor Ieronimo, del che me ne hanno fatto troppo gran testimonianza li libri composti per quello, e V.S. mi donò al partir mio da Venezia; e però era al tutto deliberato di metterle da parte, non le lasciando veder da alcuno. Ma l'avermi di nuovo V.S. replicato di questo tal mio debito, mi ha misso nell'animo un troppo grande stimolo e fattomi conoscere che, non obediendo alli suoi preghi, che mi sono comandamenti, pareria disconoscente di tanti beneficii e cortesie ricevute da quella, che invero sono state infinite. Onde io ho eletto piú tosto d'esser riputato uomo di poco sapere e grosso che ingrato e inobediente, e per questo li mando alcune poche cose che altre volte io notai e da diversi uomini ch'erano stati alquanto fra terra sopra l'Etiopia intesi, le quali, per esser io marinaro e non pratico di scrivere, l'ho descritte senza alcun ordine over ornamento, supplicando ambedue le Signorie V. che, poi che l'aranno lette, le voglian nascondere, accioché questo errore ch'io ho fatto solo per ubbidienza, e non presunzione, non mi rechi ogni giorno infiniti biasimi.
Da Lisbona, città principal del regno di Portogallo, qual dagli antichi fu chiamata Olisippo, gradi 39 sopra l'equinozial verso il nostro polo, sogliono partir le navi che vanno a carigar zuccheri nell'isola di S. Tomé, il piú delle fiate nel mese di febbraro, ancor che in ogni tempo dell'anno se ne partino. Navicano per una quarta di garbin verso mezzodí fino all'isole delle Canarie, chiamate dagli antichi Fortunate, e arrivano all'isola detta dalle Palme, gradi ventiotto e mezzo sopra l'equinoziale, la qual è del regno di Castiglia, lontana leghe 90 da un promontorio dell'Africa detto Capo di Boiador, isola molto abbondante di vini, carne, formaggi e zuccheri: hanno fatto, come giugneno a detta isola, da leghe 250, che son 1000 miglia. Questo parizzo è molto pericoloso, per esservi il mare alto e fortunevole in cadaun tempo dell'anno, e massime nel mese di decembre; e sopra agli altri il vento da maestro, qual vien discoperto al diritto sopra il mare e non tocca terra in alcun loco, fa fortune grandissime.


Dell'isola del Sal, e per che causa è cosí chiamata; dell'isola di Bona Vista e dell'isola di Maio. Della meravigliosa abbondanzia di capre in tutte l'isole di Capo Verde.

Da questa isola delle Palme sogliono prendere un de' duoi cammini, cioè che, se le navi si trovano fornite di pesci salati per il viver loro (della qual vettovaglia fanno gran conto di averne sempre assai), vanno di longo all'isola del Sal, ch'è una dell'isole di Capo Verde, per causa di un promontorio dell'Africa cosí detto al presente. Questa isola è gradi sedeci e mezzo sopra l'equinozial, e si va sempre verso alla quarta di garbin: e arrivativi hanno fatto dall'isola delle Palme a questa del Sal 225 leghe, e con buon vento si fa questo viaggio in 6 over 8 giorni. Questa isola è disabitata per esser sterile, né vi si trovano altri animali se non capre assai salvatiche; e per esser di sito basso, con ogni poco di fortuna l'acqua del mare monta in alcune lagune e luoghi bassi, e come il sole vien al tropico di Cancro, passandovi di sopra perpendiculare, subito tutta si congela e fa ditto sale. Il medesimo intraviene in tutte l'isole di Capo Verde e anco in le Canarie; ma in questa molto piú delle altre, e per questa causa vien chiamata l'isola del Sale. Poi vi è quella di Bona Vista, e non molto lontan della detta vi è l'isola di Maio, nella qual vi è una laguna lunga piú di due leghe e altrotanto larga, tutta piena di sale congelato dal sole, dove si potrian caricar mille navi: qual sale è comune a ogniuno che vi va come l'acqua del mare, e ancor che le sian soggette al regno di Portogallo, pur non si paga cosa alcuna. In tutte queste isole di Capo Verde, che sono in numero 10, le capre partoriscono al tratto 3 e 4 capretti, e ogni quattro mesi sono di parto. Li capretti sono delicatissimi da mangiare per esser grassi e saporiti, bevendo assai volte le capre l'acqua del mare.


Come in quattro ore si forniscono di pesci quelli che navigano verso la costa d'Africa, e qual sia tutta detta costa cominciando dal Capo del Boiador fino a Capo Bianco. De' pesci detti tiburoni, e di confini che dividono la Barberia dal paese di negri.

Ma se le navi che vanno a San Tomé non si trovano aver pesci salati e vogliono fornirsi, dirizzano il camino loro verso la costa dell'Africa, al fiume detto dell'Oro, sopra il quale corre la linea del tropico de Cancro per sirocco e quarta verso mezzodí: e quando sono a vista dell'Africa hanno fatto 110 leghe. Appresso questa costa, se hanno bonazza e il mar di calma, in termine di quattro ore, con reti over con alcune corde sottili e lunghe tutte piene di ami attaccati, quali calano nel mare, pigliano quanto pesce fa lor di bisogno, perché non possono tanto calar in mare ditte corde, che immediate in tutti gli ami si trovano pesci ingozzati e di grandi e di piccoli, come sono pagros, che in Venezia vui chiamate alberi, corvi, oneros, ch'è una sorte di pesci maggiori di pagri e molto grassi, di color scuro. E come gli hanno presi, gli aprono per schiena e gl'insalano, ed è buona vettovaglia per mantenimento delli naviganti. Vi si veggono in questo viaggio infiniti pesci chiamati tiburoni, che sono molto grandi come tonni, hanno in la bocca due ordeni de denti acutissimi, e per esser avidi di cibo sempre, come veggono una nave, l'accompagnano, e ogni spurcizia che si butta fuori di quella la inghiottono: e per questo sono molto facili da esser presi. Ma noi Portoghesi, ancor che siano buoni da mangiare, non li lasciamo pigliar, avendo openione che generino molte malattie a chi gli mangia, ben che tutti li marinari castigliani, nel viaggio che fanno verso la terra ferma dell'Indie occidentali, ne soglion prender e mangiare.
Se per mezzo al detto fiume dell'Oro non hanno calma, passano di lungo la costa verso Capo Bianco per trovar calma, e de lí poi fino in Argin. Una cosa è da sapere, che tutta la costa dell'Africa, cominciando dal Capo del Boiador, che vuol dir Capo della Volta (perché quelli che navigano alle isole delle Canarie di ritorno si accostano al detto capo dell'Africa, e prendendo vento si tornano adrieto, ed è in gradi ventisei e due terzi), tutta questa costa è di terra bassa e arenosa fino a Capo Bianco, che è in gradi venti e mezzo, e continua fino in Argin, dove è un gran porto e un castello del re nostro, nel qual vi tien gente con un suo fattore. Questo Argin è abitato da mori e da negri, e qui son li confini che dividono la Barberia dal paese de' negri.


Dell'isola di San Iacobo e della gran città chiamata Ribera.

Ma tornando al viaggio nostro, dall'isola del Sal si passa all'isola di San Iacobo, pur di Capo Verde, qual è gradi 15 sopra l'equinoziale: e vi fanno di cammino verso mezzodí leghe 30. Questa isola è di sito lunga leghe 17; ha una città sopra il mare con buon porto, nominata la Ribera grande, perché è posta fra duoi monti alti e vi passa per mezzo un fiume grosso di acqua dolce, qual nasce lontan due leghe. E dal principio del detto fiume fino alla città, vi sono da una banda e l'altra infiniti giardini di aranci, cedri, limoni, pomi granadi, fichi d'ogni sorte; e d'alcuni anni in qua vi piantano le palme che fanno li cocchi, cioè noci de India. Vi nascono tutte le sorti d'erbe di orto molto bene, ma la semenza che fanno non è buona da seminare l'anno sequente, e ogni anno bisogna averne di nova nasciuta in Spagna. È questa città verso mezzodí, ed è fabricata con buone case fatte di pietra e calcina, e abitata da infiniti cavalieri portoghesi e castigliani, e vi sono piú di 500 fuochi. Vi abita un corregidor del nostro re, e ogni anno eleggono duo giudici, uno de' quali è sopra le cose delli naviganti e del mare, l'altro rende ragion agli abitanti in detta isola e circunvicine.
Questa isola è molto montuosa, e ha molti luoghi asperi e nudi d'ogni sorte d'alberi, ma le valli sono molto coltivate. Quando il sol entra in Cancro, ch'è del mese di giugno, vi piove quasi di continuo, e gli Portoghesi chiaman la luna de las aguas. Come entra il mese di agosto, cominciano a seminare il grano, che chiaman miglio zaburro, e in le Indie occidentali si chiama maiz: è come cece bianco, ed è commune a tutte l'isole sopradette e a tutta la costa dell'Africa, e con quello si sostentano gli abitanti; lo raccolgono in 40 giorni. Seminano riso assai e gottone, qual vien molto bene, e raccolto lo lavorano in diverse sorti di panni vergati di diversi colori, che poi si spacciano per tutta la costa dell'Africa, cioè terra de' negri, e si dà in baratto di schiavi negri.


Come nella costa dell'Africa che guarda verso ponente sono diversi paesi:
Guinea, costa di Melegete, Benim, Manicongo, e fra terra molti signori e re;
e come i re di que' popoli sono adorati, credendo che siano discesi dal cielo;
e d'alcune lor cerimonie, e del costume nel regno di Benim nella morte del re.

E per dechiarir questo traffico de' negri, è da sapere che in tutta la costa dell'Africa che guarda verso ponente vi sono diverse provincie e paesi, come è la Guinea, costa delle Melegete, regno di Benim, regno di Manicongo, qual è gradi 6 oltra la linea dell'equinozial verso il polo antartico. E fra terra vi sono molti signori e re de' negri, e anco molti popoli che vivono a communità, che sono parte macomettani e parte idolatri, e fra loro fanno di continuo gran guerre. Li re sono adorati dalli popoli, perché credono che sian venuti dal cielo, e gli parlano sempre con gran reverenzia lontani in ginocchioni. E molti di questi re, per gran cerimonia, non si lasciano mai vedere quando mangiano, per non levar via la opinion, che hanno di loro li popoli, che vivono senza prender cibo. Adorano il sole, e tengono che le anime siano immortali e che doppo morte si vadi a stanziar appresso il sole.
E sopra gli altri nel regno di Benim è questo costume antico, osservato fino alli presenti giorni, che come muore il re tutto il popolo si raguna in una gran campagna, in mezzo della quale fanno un pozzo molto profondo, qual nella parte di sotto è largo e si vien stringendo nella sommità. In questo pozzo calano giú il corpo del morto re, e si appresentano tutti gli amici e servitori del re, e quelli che vengono giudicati esser stati piú cari e favoriti (del che non è fra loro piccol contesa, desiderando ogniuno di aver questo onore), volontariamente li lasciano andare a far compagnia. E immediate come sono discesi, pongono un sasso grande sopra la bocca, e il popolo non si parte né di dí né di notte. E il secondo giorno vanno alcuni deputati a discoprir il sasso, e dimandano a quelli de sotto ciò che fanno, e se alcun di loro è ancor andato a servir al re: e loro rispondono de no. Il terzo giorno dapoi fanno la medesima domanda, e alcuna fiata li vien risposto che 'l tale, dicendoli il nome, è stato il primo ad andarvi, e il tale il secondo, percioché è reputato somma laude di esser stato il primo, e da tutto il popolo che sta intorno ne vien parlato con somma admirazione, reputandolo beato e felice. E in fine di quattro o cinque giorni tutti quelli meschini moreno, la qual cosa come quelli di sopra presentono, vedendo che da alcun di loro non li vien risposto, subito lo dicono al re che succede, qual fa far un gran fuoco sopra detto pozzo e vi arrostisce molti animali, li quali dà a mangiare al popolo. E con cotal cerimonia se intende esser re vero, e aver giurato di governarli bene.


I negri di Guinea e Benim, ancor che nel mangiar siano disordinati, vivono longamente. Di certa superstizione d'alcuni negri fra terra. Delle spezie melegete, del pepe della coda, d'alcune teghe d'arbuscello ch'hanno il sapor di gengevo e del sapone fatto con cenere e olio di palma.

Li negri di Guinea e di Benim sono molto disordinati nel mangiare, perché non servano ora deputata, e 40 o 50 volte il dí mangiano; il ber loro è acqua, over vino che distilla dall'arbore della palma. Non hanno capelli se non un poco di ricci in capo, né piú crescono; tutto il resto della persona è senza pelo alcuno. Vivono lungamente, la maggior parte da 100 anni, sempre gagliardi, se non che a certi tempi dell'anno si sentono molto affannati, e quasi come la febbre, e allora si fanno salassar e guariscono, perché il sangue predomina nelle lor complessioni. Sono fra terra alcuni negri di tanta superstizione che adorano la prima cosa che veggono quel giorno.
Nascono in questa costa le spezie dette melegete, molto simili al sorgo de Italia, ma di gusto forte come il pepe. Vi nasce etiam una sorte di pepe fortissimo, e il doppio piú che non è il pepe che nasce in Calicut, qual da noi Portoghesi, perché ha un certo picciolo attaccato, è chiamato pimienta dal rabo, cioè pepe dalla coda. È simile molto alle cubebe di forma, ma nel gusto è di tanta fortezza che un'onza del detto fa l'effetto che faria mezza libbra del pepe commune; e ancor che 'l sia proibito sotto gravissime pene di cavarlo di detta costa, pur ne vien tratto ascosamente, e vendendolo in Inghilterra ne raddoppiano il prezio di quello che farian del pepe comune. E dubitando il nostro re che questa tal sorte di pepe non smacchi e invilisca la gran quantità che vien condotta ogni anno da Calicut, ha devedato che per alcun non se ne possi trazzere. Producono ancora alcuni arbucelli teghe lunge come son quelle de' fasoli, con alcune semenze dentro, le quali non hanno gusto alcuno. Ma la tega masticata ha il sapor di gengevo delicato, e li negri le chiamano unias, e le adoperano insieme con il sopradetto pepe quando mangiano pesce, del qual cibo sono oltra modo avidi. È devedato ancora dal sopradetto re il sapone fatto di cenere e olio di palma, qual fa effetto grande di far bianche le mani e li panni di lino, il doppio piú che non fa il sapon commune.


Perché i padri e le madri di questi negri portino a vendere i proprii figliuoli,
e ciò che tolgono in contracambio; e come questi schiavi si conducono all'isola di San Iacobo,
dove si vendono accompagnati, cioè tanti maschi quante femine. Della costa detta Mina,
e per che causa il re catolico vi ha fabricato un castello.

Tutta questa costa fino al regno di Manicongo è divisa in due parti, le quali si affittano ogni 4 o 5 anni a chi piú offerisce, cioè il poter andar a contrattar a quelle marine e porti. E si chiamano quelli che togliono questo carico arrendadori, come saria appresso voi dir appaltadori, e altri che i lor commessi non si possono accostar e dismontar sopra dette marine, né vender né comprar. Dove vengono infinite carovane de negri, che portano oro e conducono schiavi per vender, parte da chi gli ha presi in guerra, e parte il padre e la madre menano a vendere li proprii figliuoli, alli quali par di far il maggior beneficio del mondo a mandarli con questo mezzo di vendita ad abitar in altri paesi abbondanti di vivere. Vengono condotti tutti nudi come nacquero, sí maschi come femine, non altrimente che se fossero un gregge di pecore; e prendono all'incontro paternostri di vedro di diversi colori, e lavori fatti di rame e lattone, tele gottonine di diversi colori e altre simil cose, quali portano per tutta la Etiopia. E questi arrendadori conducono poi questi schiavi all'isola di San Iacobo, dove di continuo capitano navi con mercadanti di diversi e paesi e province, e massime delle Indie trovate per Spagnuoli, che li comprano, dandoli similmente ancor loro simil merci; e vogliono sempre aver quanti sono li maschi altretante femine, perché chi li compra poi da costoro gli accompagnano, che altrimente faccendo non averiano mai buon servizio. E nel condur per mare gli separano dalle femine, faccendo star li maschi sotto coverta e le femine di sopra, non lassando quando danno da mangiar alli maschi che le possino vedere, perché non attenderiano se non a guardarle.
E a proposito di questi negri, el detto nostro re ha fabbricato un castello sopra detta costa, detto la Mina, gradi 6 sopra l'equinoziale, dove non lascia andar se non li suoi fattori. In questo luoco vi concorre similmente gran numero di negri, con grani d'oro che truovano in li fiumi e fra la rena, e contrattano con li prefati fattori, prendendo da loro diverse cose, e massime paternostri fatti di vedro, e di un'altra sorte di paternostri fatti di una pietra azzurra, non dico lapislazuli, ma di altra minera, li quali il nostro re fa venir del regno di Manicongo, dove nasce detta pietra. E sono fatti detti paternostri a modo di cannellette sottili, e gli chiamano corili, e per tal sorte danno assai oro, per esser grandemente esistimati da tutti li negri, quali li mettono al fuoco per veder che non siano falsificati, perché pur ne vengono condotti fatti di vedro, che sono molto simili e non stanno al cimento del fuoco.


Del fiume detto il rio Grande, anticamente chiamato Nigir;
di una montagna grandissima, detta Serra Liona.

Anticamente già piú di 90 anni, quando fu discoperta questa costa, li mercadanti con loro navilii entravan dentro fra terra della Etiopia su per fiumi grandissimi, dove trovavano infiniti popoli e con loro contrattavano. Ma alli tempi nostri per li nostri re è sta' devedato che alcun possi aver questo commerzio, se non li arrendadori che hanno questo carico, delli quali me ha parso scriverne a vostra Signoria alquanto longamente per sua informazione.
Ma tornando al viaggio nostro di San Tomé, partiti dall'isola di San Iacobo si va per sirocco alla volta del rio Grande, sopra l'Etiopia gradi XI verso il nostro polo, qual rio over fiume si tien certo che sia quello che dalli antichi fu chiamato Nigir, e ch'el sia un ramo del Nilo che corre verso ponente, percioché in detto fiume vi si trovan cocodrilli, cavalli marini, li denti delli quali al presente li negri hanno in gran prezio, per portarne anelli fatti di quelli, i quali dicono preservarli da certa malattia; cresce in li medesimi giorni che cresce il Nilo. E navigando oltra questo rio drieto la costa, veggono una montagna altissima, detta Serra Liona, la cima della quale è sempre occupata e circondata da una nebbia foltissima, che causa tuoni e saette di continuo: e si sente questo rumor causato in la sommità di detta montagna per 40 e 50 miglia in mare; né mai si disparte detta nebbia, ancor che 'l sole sia ardentissimo e vi passi perpendicular disopra. Queste nostre navi si tengono sempre a vista della costa, ma lontane da terra, osservando la declinazion del sole, navigando tanto per sirocco che abbin fatto 80 leghe, che si trovan in gradi 4 sopra la linea dell'equinoziale, dove subito si voltano verso levante alla quarta di sirocco, avendo sempre a man manca la costa dell'Etiopia: e questo fin che giunghino all'isola di San Tomé, sopra la qual vi corre detta linea. E se non veggon terra, tanto vanno drieto detta linea che vi arrivino: e hanno fatto dalli primi sopra detti quattro gradi per levante fino a detta isola leghe 460.


Come al gionger del rio Grande si cominciano a veder quattro lucidissime stelle in forma di croce, le quali chiamano il Crusero; e come nell'isola di San Tomé si ha visto alle volte, dopo piovuto, la luna di notte far l'apparenzia della iris, come fa il sole di giorno.

In questo parizzo che è fra il tropico e la detta linea non hanno mai fortuna, perché ordinariamente fra li tropici non si sente fortuna. In molte parti di questa costa de Etiopia, per 20 miglia appresso terra vi sono da 50 braccia di fondi; poi, allontanandosi piú, vi è mar grande e profondo. Noi pilotti portoghesi abbiamo un libro ordinario, dove notiamo a giorno per giorno il viaggio e cammino che facciamo, e per qual vento, e in quanti gradi di declinazion è il sole. E per andar a detta isola, come ci troviamo alli gradi 4 sopradetti dell'equinoziale, ne servono questi venti, cioè garbino, ostro e ponente. Come giungemo al rio dell'Oro detto di sopra, che è diritto sotto il tropico del Cancro, cominciamo a veder quattro stelle di mirabil grandezza e lucidità poste in forma d'una croce, quali sono gradi 30 lontane dal polo antartico, e le chiamiamo il Crusero. E sotto il detto tropico le vedemo molto basse, e drizziamo uno instrumento detto la balestra ad una delle dette quattro stelle, che è il piede del Crusero, e come la si trova al mezzodí, sapemo esser per mezzo del polo antartico. E come siamo in l'isola di San Tomé, vedemo dette stelle molto alte. Si ha veduto qualche anno, dapoi piovuto, la luna di notte far quella apparenzia della iris, la qual si chiama l'arco, sí come fa il sole il giorno: ma li colori che fa la luna sono come nebbie bianche.
Del crescere e descrescere del mare dico che, partiti dal stretto di Gibralterra drieto la costa dell'Africa fino al tropico di Cancro, non si vede quasi sensibil crescimento di mare; ma passato il tropico, come si giunge al rio Grande, che abbiam detto chiamarsi Nigir, ch'è XI gradi sopra l'equinoziale, si vede un poco di crescer all'insuso del detto fiume, e la marea è simile in quel luoco a quella di Portogallo. Ma come il sole passa di sopra perpendiculare, piove tanto fra terra nella Etiopia che detto fiume s'ingrossa e fassi torbido, al medemo tempo che 'l Nilo cresce; e le acque del detto fiume, rosse e torbide, si cognoscono per quaranta miglia lontano in mare. Nell'isola di San Tomé, la marea non si fa piú grande di quello che si vede in la città di Venezia, di due braccia e manco.


Descrizione dell'isola di S. Tomé, oggidí abitata da molti mercatanti. Dell'isola detta il Principe, dell'isola Anobon, e della città chiamata Povoasan.

L'isola di San Tomé, che già ottanta e piú anni fu discoperta dalli capitani del nostro re, essendo stata incognita alli antichi, è di forma circulare e per il suo diametro è larga miglia sessanta italiane, cioè un grado; ed è posta sotto la linea dell'equinoziale, e il suo orizonte passa per li duoi poli artico e antartico. Ha sempre il giorno equale con la notte, né mai si vede una minima differenzia, ancor che 'l sole sia in Cancro o in Capricorno. La stella del polo artico è invisibile, ma li Guardiani si veggono un poco girare, e le stelle dette il Crusero si veggono molto alte.
Ha questa isola dalla banda di levante una isoletta chiamata il Principe, lontana 120 miglia, qual è abitata e coltivata al presente, e la intrata che si cava de' zuccari è del figliuol maggiore del re nostro: e però si chiama del Principe. Dalla parte verso ponente garbin, ha un'altra isoletta disabitata detta Anobon, qual è tutta sassosa; vi è gran pescheria, e quelli che abitano in San Tomé vi vanno di continuo a pescare. È lontana quaranta leghe in duoi gradi di sotto la linea verso il polo antartico; vi si trovano infiniti cocodrilli e biscie venenose.
Questa isola di San Tomé, quando fu scoperta, era tutta un bosco foltissimo con li arbori diritti e verdi che andavano fino al cielo, di diverse sorti ma sterili, quali avevano le rame non come qui da noi, che parte si slargano per traverso e parte vanno diritte, ma questi le mandano tutte diritte all'insú. Da alcuni anni in qua, avendone disboscata una gran parte, vi hanno fabricato una città principale, qual chiamano Povoasan, dove è un buon porto, e guarda verso greco levante. Le case sono fatte tutte di legname, coperte con tavole. Hanno il suo episcopo, qual al presente è di Villa di Condi, ordinato per il sommo pontefice ad instanzia del nostro re, con il correggidor che ha cura dell'amministrazion della iustizia. E vi ponno esser da 600 in 700 fuoghi: vi abitano molti mercatanti portoghesi, castigliani, francesi, genovesi; e di cadauna nazione che vi voglia venir ad abitar, lo accettano volentieri, e tutti hanno moglie e figliuoli. E sono quelli che nascono in detta isola bianchi come noi, ma alle volte accade che detti mercatanti, morendoli le mogli bianche, ne prendono delle negre: nel che non vi fanno troppo difficultà, essendovi abitatori negri di grande intelletto e ricchi, che allevano le loro figliuole al modo nostro nelli costumi e nel vestire. E quelli che nascono di queste tal negre sono berrettini, e vengono chiamati mulati.


Come gli abitanti di questa isola spacciano li zuccheri, che robe portino le navi che vengono a levarli; della bontà di quella terra; il modo di piantar le canne di zucchero, e come da esse lo traggono. Per che causa la carne di porco in questo luoco sia sana e di facil digestione.

Il principal fondamento degli abitanti è il far zuccheri e quelli vender alle navi che vengono ogni anno a levarlo, le quali portano farine in botte e vini di Spagna, olio, formaggi, corami per scarpe, spade, coppe di vedro, paternostri e alcune sorte de conchiglie, che in Italia chiamano porcellette, piccoline, bianche, e noi chiamiamo buzios, che si adoperano in la Etiopia per moneta. E se non fussero queste tal navi che conducono queste vettovaglie, li mercatanti bianchi moreriano, perché non sono usi a mangiar li cibi che mangiano li negri. E però cadaun abitante compra delli schiavi negri con le sue negre di Guinea, Benin, Manicongo, e quelli accompagnati mettono a lavorar la terra, per piantarvi e far zuccheri. E vi sono uomini ricchi che hanno 150, 200 e fin 300 fra negri e negre, li quali hanno questa obligazione, di lavorar tutta la settimana per il patron, eccetto il sabbato, che lavorano per causa del vivere. E in questi tali giorni si seminano il miglio zaburo, che abbiam detto di sopra, e le radici di igname e molte erbe domestiche, cioè lattughe, cavoli, ravani, biete, pretresemoli: le qual seminate, crescono in pochi giorni e vengono in tutta bontà, ma la semenza che fanno non val niente per seminare.
La terra è di color rossa e gialla, grossa, cioè come creta salda, e per la gran rugiada che ogni notte continuamente cade, non si risolve troppo in polvere, ma è come una cera molle, e per questo produce ciò che vi si pianta. Della bontà di detta terra si vede questa esperienza, che se li negri intermettono qualche poco di tempo di coltivar una pianura, immediate vi nascono arbori e crescono in pochi giorni tanto grandi come qui da noi in molti mesi, ed è forza che li tagliano e poi abbrucino. E in questo luoco dove sian stati tagliati e abbruciati arbori, è buono di piantarvi le canne di zucchero, quali stanno da cinque mesi a maturarsi in questo modo: le canne che sono state piantate il mese di gennaro, le tagliano al principio di giugno; quelle di febraro al principio di luglio sono mature, e cosí in tutti li mesi le piantano e tagliano. Né vi fa male alcuno il passarvi del sole perpendicular nel mese di marzo e settembre, perché a quel tempo vi regnano pioggie continue con aeri nubilosi e foschi, che sono molto a proposito delle dette canne. Fa questa isola da centocinquantamila e piú arrobe di zuccheri, e ogni arroba è libbre 31 delle nostre alla grossa: questo conto si trazze dalla decima che si paga al re nostro, della quale per l'ordinario si cava da XII in quattordicimila arrobe, e infiniti sono quelli che non la pagano integra. Vi sono da 60 ingegni fabbricati, ove corre l'acqua, con la quale macinano la canna e la struccano, e il succo buttano in caldiere grandissime; dapoi bollito, buttano in le forme pani di zucchero di quindeci e venti libbre, e con la cenere lo purgano, che appresso di voi vi adoperano la creda tamisata. In molti luochi dell'isola che non vi è acqua, fanno far questo uficio alli negri con le braccia, e anco con cavalli. La canna struccata buttano a' porci, che infiniti ne tengono, quali, non mangiando altro che le dette canne, se ingrassano oltra misura: ed è la loro carne cosí delicata e sana che la si padisce meglio di quella di gallina, e per questo sempre ne sogliono dare alli ammalati.


Come li zuccheri in questa isola non sono troppo duri né troppo bianchi, e come gli asciugono.

Hanno condotti molti maestri dell'isola di Madera per far li zuccheri piú bianchi e piú duri, e con ogni diligenzia che vi si usi non li possono fare. La causa dicono essere prima la terra grassissima, e tanto morbida che 'l zucchero sente di quella morbidezza, come appresso noi il vino nato in terra grassa sente di quel sapore. La seconda è l'aere ch'è sopra di detta isola, qual non asciuga li zuccheri cavati dalle forme, percioché il sole, sia dove si vole, non è caldo e secco come qui da noi in Villa di Condi, ma sopra detta isola è caldo e umido: e cosí è sempre, eccetto il mese di giugno, luglio e agosto, che li venti che vengono dalla parte della Etiopia sono asciutti e freschi. Ma né anche questi sono bastanti per asciugarlo, e però li lavoratori di zucchero hanno pensato un modo per asciugarlo, qual è questo. Fanno un coperto alto di tavole, come qui da noi una tezza di villa, tutto serrato diligentemente di sopra e dalle bande, senza finestre, con la porta sola; e in quello vi fanno poi un palco alto da terra sei piedi, con travi lontani un dall'altro 4 piedi, e sopra quelli vanno distendendo tavole, nelle quali vi collocano li pani di zucchero. Sotto veramente detto palco vi mettono alcuni pezzi di arbori grossi secchi, quali affocati non fanno fiamma né fummo, ma si vanno consumando a modo di carboni: e in questo modo asciugano li zuccheri come in una stufa, li quali tengono in luochi tutti serrati con tavole, che non vi entra punto l'aere. E come vengono le navi subito gli vendono, perché se li volessero tenir due anni o tre, se liquefariano.


Come a' mercadanti che vengono ad abitar in questa isola è assegnato per il fattor del re,
per via di comperar per buon mercato, tanto terreno quanto possono far coltivare.
E come l'igname radice è fondamento del viver de' mori.

Di questa isola non sono ancora li duoi terzi disboscadi, over ridotti a cultura di zuccheri; ma come vi viene ad abitar alcun mercatante di Spagna, di Portogallo, over di cadauna altra nazione, per il fattor del re li è assignato, per via di compreda per buon mercato, tanto terreno quanto li pare che l'abbi modo di poter far coltivare. Costui subito compra tanti negri con le sue negre e quelli mette a lavorar il terreno, cioè a disboscarlo e dapoi abbruciarlo per piantarvi la canna de' zuccheri. Né il patron dà cosa alcuna a detti negri, ma, come è detto disopra, loro lavorano tutta la settimana per il patron e il sabbato solo per guadagnarsi il viver loro. Né il patron ha fastidio di darli vestimenti overo da mangiare, né di fabricarli coperto, perché loro da se stessi si fanno tutte queste cose; oltra un poco di gottonina over stuora di palme, che abbino da coprirsi le parti vergognose, di tutto il resto vanno nudi, cosí donne come uomini. Mangiano quel seme che abbiam detto disopra che è come cece bianco, e fatto in farina ne fan pane over focaccie cotte sotto le ceneri. La radice dell'igname è gran fondamento del suo vivere; beono acqua over vino di palme, che ne hanno in abbondanza, e latte di qualche pecora e capra.


In che modo facciano le sue case i mori, che abitano dove sono boschi,
per causa di lavorar i zuccheri.

In questa isola, come non trazze vento, vi regnano molti moscioni, che sono molto piú grandi delli nostri e piú fastidiosi, e sopra tutto a quelli che abitano dove sono boschi e foltezza di arbori, come è necessario che sia dove si lavorino zuccheri, per le legne che tutto il giorno adoperano nel cuocerli. E per questa causa li negri fanno le sue case in questo modo: piantano quattro legni in quadro, delli piú alti che possono trovare, e alla sommità di questi fanno un palco con legni legati da una banda e dall'altra, e disopra e dalli ladi lo coprono con certa erba a modo di paglia grossa; e dipoi con una scala di mano lunga molti scalini, che sta quasi diritta, vi montano la notte a dormire, e le negre portano i suoi figliuolini molto facilmente; in questa maniera par che si difendino da' detti moscioni. In la città di Povoasan non danno tanta molestia agli abitanti, per non vi esser boschi vicini. Alcuni anni nascono formiche piccoline negre, in tanta moltitudine che mangiano e rodano tutto ciò che trovano, né si può difendere li zuccheri fatti in pani; ma come piove par che fugghino e si disperdino. Vi fanno anco gran danni li sorzi.


Della radice batata overo igname, e di quante sorti ne siano;
del modo di piantarle e di conoscer quando sono mature.

La radice che appresso gl'Indiani della isola Spagnuola vien chiamata batata, li negri di S. Tomé chiamano igname, e la piantano come cosa principale del suo vivere. Ha il color negro, cioè la scorza di fuori, ma dentro è bianca, ed è di forma grande come una gran rapo con molti branchi; ha il gusto della castagna, ma molto migliore e molto piú tenera. Le mangiano arrostite sotto la cenere e anco lesse: danno gran sustanzia e saziano come pane. Non hanno qualità alcuna, cioè né fredde né calde; sono di facile digestione e per tanto riputate sane. Di queste radici ne sono di diverse spezie, cioè igname cicorero, qual per le navi che vengono a San Tomé a cargar zucchero per conto di vettovaglia se ne porta gran quantità per mare, e dura fresco per molti mesi, e passa un anno che non si guasta; ne sono tre altre sorti di detto igname, cioè di Benim, di Manicongo e il terzo giallo, ma non durano tanto tempo. Quel di Benim è piú delicato al gusto che alcun delli sopradetti. Li negri ne piantano assai, percioché le navi ne levano assai, e il modo del piantar è questo: tagliano queste radici in sonde e sopra cadauna vi lasciano un poco di scorza negra, e quella sonda piantano dove hanno coltivata la terra con le zappe, cioè levatoli via l'erba, e appresso vi piantano un legno lungo, imperoché, come l'igname nasce, si va ravolgendo a torno detti legni a modo de' lupuli. Produce una foglia simile del color e lustrezza a quella del citrone, ma minore e piú sottile. Sta cinque mesi a maturarsi, e quando è da cavare lo cognoscono a questo, che guardano alli legni intorno delli quali sono le foglie dell'igname, che sian tutte secche; e se non fussero li legni per segnale, per la foltezza dell'erba che vi è nasciuta intorno, non lo saperian trovare; ma vedendo i legni cavano intorno, e trovano che una radice ha fatto quattro e cinque figliuoli, cioè radici grandi, e cavate le ripongono in un monte, e distese poi al sole e al vento per alcuni giorni si fanno mature e di sasone.


Cosa maravigliosa d'un monte grandissimo che è quasi nel mezzo di questa isola,
la cui sommità va molto in alto.

In questa isola è un monte grandissimo quasi nel mezzo, qual va con la sua sommità molte miglia in alto, tutto vestito d'alberi altissimi e verdissimi e tutti diritti, e sono tanto spessi e tanto folti, e il cammino ratto, che con estrema difficoltà vi si può montare. In la sommità di questo monte, intorno e dentro di quella foltezza d'arbori, vi si vede di continuo come una nebbia, e sia il sole sopra la linea o vero in li tropici, in cadaun tempo del giorno vi sta quella nebbia, che dí e notte non si parte, non altramente che noi vediamo sopra le cime d'altissimi monti le continue nevi. Questa nebbia si risolve di continuo in acqua sopra le foglie e frondi di detti arbori, in tanta quantità che da cadaun lato del monte discendono rivi d'acqua, alcuni piú grossi, alcuni minori, secondo che l'acqua piglia il corso piú da una banda che dall'altra: e con dette acque li negri adacquano li campi ove sono le canne de' zuccheri. Ancora in tutta l'isola vi sono molte fontane di acqua viva, che adoperano a questo effetto. Pur in la città di Povoasan vi corre per mezzo un fiumicello d'acqua chiarissima, molto largo ma basso, della qual acqua ne danno bere agli ammalati, per esser leggerissima da padire. È ferma opinion degli abitanti che, se non fusse la eccellenza e bontà dell'acqua di questo fiumicello e di molte altre fontane, detta isola non si potria abitare.


Degli arbori e della utilità della palma che fa il frutto cocos.

Gli arbori che nascono in questa isola, la maggior parte sono salvatichi e non fanno frutto alcuno, e tutti generalmente, come si tagliano, si trovano busi nella midolla e vacui: e gli abitanti pensano che questo avenghi per causa della grande umidità ch'è in detta isola. Gli abitanti venuti di Spagna vi hanno voluto portar olivi, persichi, mandorle, e piantati sono venuti belli e grandi, ma sterili e senza frutto: e questo accade a tutti gli arbori che fan frutti che abbino l'osso. Vi hanno condotto dalla costa dell'Etiopia l'albero della palma, che fa il frutto che loro chiamano cocos, e qui in Italia chiamano noci d'India, la mandorla del qual frutto, quando è fresco, è molto delicato da mangiare; e di quell'acqua ch'è nel mezzo della noce ne fanno molte cose, per esser suavissima al gusto. A questo arbore, faccendoli una sfenditura, vi appiccano una zucca, dove stilla un liquor bianco e chiaro, e il primo dí fa vino delicato, poi diventa garbo, e in fine d'alcuni giorni diventa aceto. Vi hanno cominciato a piantar quella erba che diventa in un anno cosí grande che par arbore, e fa quelli raspi a modo di fichi che in Alessandria di Egitto, come ho inteso, chiamano muse; in detta isola la domandano abellana.


La causa che le stagioni di questa isola sono differenti dalle nostre,
e quai tempi siano nocevoli ai negri e quali agli uomini bianchi.

Le stagion di tempi in questa isola sono molto differenti da quelle che abbiam noi, e questo causa il sole, che vi passa due volte l'anno perpendicular sopra, cioè il marzo e il settembre: nelli quali tempi si vede quel che opera il sole di continuo dove va, che è tirar vapori a sé del mare e risolvergli in pioggia, perché in questi tempi che 'l sol v'è perpendiculare, di continuo si vede l'aer fosco e nubiloso e piover grandemente, e come il sol si allontana cosí i giorni diventano piú chiari e sereni. E per questo gli abitanti reputano il marzo e settembre come duoi inverni, per le acque e pioggie e giorni nubilosi. Alcuni mesi veramente chiamano mesi di vento, e questi sono il maggio, giugno, luglio e agosto, che 'l sol si trova in li segni settentrionali: e allora tirano li venti d'ostro, sirocco e garbin, che sono li venti proprii e peculiari di detta isola, perché greco, tramontana e maestro non si sentono, avendo tutta la parte dell'Africa che la copre e non li lascia sentir, e anco il corpo del sole non li lascia penetrar. Ma, come è detto, quando nei detti mesi tirano li detti venti, quali si sentono freschi, alli negri che abitano in detta isola, andando nudi, questo tal fresco è molto contrario alla loro complessione, che sono secchi come legni e senza carne; e ogni poco di fresco gli trapassa, e molti di loro si ammalano e muoiono. Ma alli abitanti che sono bianchi e venuti di Spagna e a' suoi figliuoli, che hanno diversa complessione delli negri, questo è il piú temperato tempo che abbiano in tutto l'anno, e si sentono molto bene.
Hanno poi alcuni mesi che chiamano mesi del caldo, cioè decembre, gennaro e febraro, perché a quel tempo, essendo il sole nel tropico di Capricorno, non lassa tirar li venti peculiari e alle fiate, come non vi è vento, vi fa caldo inestimabile per causa de' vapori che di continuo si veggon levarsi. A questo tempo del caldo, cosí come li negri si sentono gagliardi e allegri e fanno tutte le loro faccende, non avendo tempo piú salubre per loro, cosí all'incontro gli abitanti bianchi si sentono molto travagliati e battuti in tutta la persona, e ancor che non abbino febre, hanno una certa ansietà in tutto il corpo, che non ponno camminare. E molti vanno senza veste con il giupon solo, e con una mazza in mano per sostentarsi; perdono l'appetito del mangiare e non vorrian far altro che bere, e per predominar il sangue in le complession loro, sempre a quel tempo si fanno salassar dal fronte e dalle braccia: e questo trazzer di sangue è peculiar rimedio di tutti gli abitanti in detta isola, cosí bianchi come negri.


Costume nella città di Povoasan al tempo del caldo,
e come in detta isola regna il mal francese, e come lo curano.

Nella città di Povoasan hanno un costume ordinario nel tempo che dura questo aere fosco senza vento, che è di pochi giorni, nel qual sentono il caldo oltra modo grandissimo e umido, che li par esser in una caldaia de acqua bogliente: che si reducono quattro over cinque famiglie vicine a mangiar insieme in alcune camere terrene grandi, con le lor donne e figliuoli, e cadaun porta quel che ha preparato a casa, qual posto sopra una tavola lunga, par che cadaun pigli piú volontieri delli cibi de' vicini che delli preparati in casa sua, tanto si sentono fiacchi e distallentati; e con varii ragionamenti passano quelli pochi giorni affannosi, né possono andar a far faccenda alcuna fuor di casa. Ed è tanto il caldo che li rende la terra, che portano le suole delle scarpe doppie di corame, e appresso un par di zoccoli grossi con suro dentro.
Li bianchi abitanti in Povoasan per l'ordinario tutto l'anno, quasi ogni otto over dieci giorni par che abbino un parosismo di febre, cioè prima freddo e poi caldo, e in due ore il tutto passa, secondo la complession degli uomini: e questo tal accidente accade a quelli che abitano ivi di continuo, quali si salassano tre over quattro volte all'anno. Ma alli forestieri che vi vengono con navi la prima febre che li vien è mortalissima, e li suol durar per vinti giorni: e si salassano senza tener conto di onze, cavandoli dalla vena del braccio quasi un boccal di sangue, e come sono sta' salassati li fanno una soppa di pane in acqua, sale e un poco d'olio. E se 'l passa il settimo giorno, aspettano anco il 14 e poi lo tengono salvo, se 'l non fa qualche gran disordine; e secondo che li va sminuendo la febbre, cosí li vanno accrescendo il mangiar con carne di pollo, e in fine della febbre li danno carne di porco.
In questa isola vi regna molto il mal francese e similmente la rogna, delli quali mali li negri non ne fanno conto; e alcune femine negre, con un poco di lume di rocca e solimato, fanno uno empiastro e lo levano via, e anco con l'acqua di certe radici che danno a bere.


In che tempo dell'anno i negri si sogliano ammalar di febbre, e il rimedio di cavarle.

Nel tempo che ho detto che tira il vento di ostro, che è del mese di giugno, qual è fresco, li negri si sogliono ammalar di febbre; e subito, il giorno che sentono manco febbre, si pongono ventose sopra le tempie e anche sopra la fronte, tagliate con un rasoio, e con questo rimedio guariscono. E alcune volte si salassano sopra le spalle; e la sua dieta è molto tenue, cioè un poco di pane di quel suo miglio con olio di Spagna, e alcune erbe che loro hanno peculiari. In detta isola non si ricorda che vi sia stata pestilenzia, come in le isole di Capo Verde, dove vien detto che una fiata vi fu grandissima, che 'l sangue gli affogava il core. Agli uomini bianchi vengono febbri ardenti e flussi, per il gran bever che fanno senza mangiar in tempo che non tira vento, e pochi sono quelli che, abitando in questa isola, passino 50 anni, e par gran cosa a vedere un uomo bianco con barba bianca; ma li negri arrivano a 110 anni, per esser il clima appropriato alla complession loro. Per cinque fiate che sono stato con le navi in detta isola, cominciando del 1520, affermo aver parlato con un negro detto Giovan Menino, uomo molto vecchio, qual diceva esser stato menato con li primi dalla costa d'Africa in detta isola, quando la fu abitata per ordine del re nostro: e questo negro era ricchissimo, e avea figliuoli e nepoti, e figliuoli di nepoti maridati che avevano figliuoli. Li abitanti in detta isola hanno infiniti pulici, e li negri hanno pidocchi e li bianchi non ne hanno; né si trova in le lettiere dove si dorme che mai vi naschino cimici.


La causa perché in questa isola i formenti non vengano a perfezione, e similmente le viti;
de' frutti che vi nascono, degli uccelli, e diverse sorti de pesci.

Il formento, avendolo provato a seminar molte volte e in diversi tempi dell'anno, par che non possi venir a perfezione, cioè che non fa la spiga piena, ma cresce tutto in l'erba, alto, senza far che in la spiga vi sia gran alcuno. Quelli che stanno su l'isola, avendolo seminato in diversi mesi, mai ha fatto frutto, e avendovi considerato sopra con diligenzia, dicono che per causa della grassezza della terra il frutto va in erba. Il simile intravien alle viti che sono piantate in le case di San Tomé, perché per l'isola non ve le pongono, che saria cosa vana, ma in le corti delli abitanti se ne fanno come alcune pergole. Queste viti fanno li graspi a questo modo, che alcuni grani sono maturi, altri come agresta e altri fiori, e fanno due volte l'anno, cioè zennaro e febbraro, e agosto e settembre. Cosí li fichi fanno due volte l'anno alli detti tempi, e sono delicatissimi. Li melloni vi vengono una volta l'anno, cioè zugno, luglio e agosto, e le zucche vi sono d'ogni tempo. Vi è una infinità di granchi grandi, simili alli marini, che vanno per tutta l'isola, e quelli che nascono sopra li monti sono migliori che quelli del piano; pur tutti si mangiano. Di uccelli, perdici, tordi, stornelli, merli, passari verdi che cantano vi sono infiniti, cosí pappagalli berrettini. Di ogni sorte pesce si piglia, ma sopra tutti ad alcuni tempi le chieppe sono delicatissime nel mese di giugno e luglio. Fra questa isola e la costa d'Africa vi si veggono tanta quantità di balene grandi e piccole che è cosa maravigliosa a dire.
Questo è quanto io ho trovato della detta isola, essendovi stato cinque fiate, come ho detto, con le navi a caricar zuccheri; e se la Signoria vostra non restarà satisfatta di questa mia mal composta e confusa informazione, ne dia colpa a l'esser io uomo di mare e non pratico di scrivere. E a lei mi raccomando e bacio le mani.


Navigazioni portoghesi verso le Indie orientali


Discorso sopra alcune lettere e navigazioni fatte per li capitani dell'armate
delli serenissimi re di Portogallo verso le Indie orientali.

Una delle piú mirabili e gran cose che l'età nostra abbia veduto, è stato il discoprir di tanti e cosí varii paesi di questo globo della terra, che mai per lo adrieto gli antichi nostri avean saputo. E lassando stare da parte quello che li Castigliani hanno trovato verso ponente, li serenissimi re di Portogallo ne han fatto discoprire molte nel mare Oceano, cosí verso il vento di gherbin, che al presente chiamano la terra di Bresil, qual è continente congiunto con le Indie occidentali del regno di Castiglia, come verso levante, e altre parti e isole verso il polo antartico. Delli quali discoprimenti non si trovando alcuna scrittura over memoria, nella qual l'uomo possa leggere il principio per ordine, come le navi di prefati re passassero il Capo di Buona Speranza verso il polo antartico, e quindi voltate verso levante scorressino tutta la costa dell'Etiopia, Arabia, Sino Persico, e finalmente giungessino nelle Indie orientali, ov'è la città di Calicut, dubitando che, con la lunghezza di tempo, la memoria di cosí grande e notabil impresa si potesse perdere, ho pensato esser laudevol cosa il raccogliere e metter insieme (meglio che si è potuto) alcune lettere di viaggi scritti per diversi sopra questa materia, nelle quali, ancor che vi siano alcune scritte per marinari e persone grosse, che per infinite repliche che fanno inducono tedio, nondimeno a quelli che si dilettano di leggerle daranno pur qualche cognizione di detti discoprimenti. E quando a qualche gentil spirito nell'avenire venisse voglia di scriver questa istoria ordinatamente, potria servirsi in qualche parte di queste tal scritture, ancor che siano rozze e inordinate.
E se alli prefati serenissimi re il nostro Signor Iddio avesse inspirato nel cuore che, secondo che li suoi capitani di tempo in tempo scoprivano qualche parte di continente, over isola non piú conosciuta, cosí avessero fatto descriver particularmente ciò che vi trovavano, con le sue altezze e longitudini, per memoria eterna alli posteri del loro glorioso nome, si averia al presente una maravIgliosa istoria, la qual, per le rare e inaudite cose che in quella si raccontarebbono, daria infinito piacere a chi la leggesse. Ma per quello che si sa fin al presente, non si vede che alcun l'abbi scritta. E tutto quello che 'l signor Damian di Goes, gentiluomo portoghese, ha scritto dell'impresa del Diu, è una minima particella rispetto a quello che l'uomo desidereria di leggere di cosí grandi e infiniti paesi, discoperti per diversi capitani in diversi tempi, li quali, per non esserne memoria, restano in eterna oblivione, non altramente che erano per il passato.
E che bisogna dire? Non si vede che fino a' nostri giorni per mancamento di memoria la metà del mondo verso ponente, detta l'Indie occidentali, tanto abitata e piena di genti, era incognita (ancor che Platon dica che gli antichi Egizii ne avean cognizione), se 'l nostro Signor Iesú Cristo non l'avesse fatta scoprire, per esaltare in quella il suo santissimo nome? E non sono passati molti anni che 'l signor Tristan di CugNa, andando vice re per li serenissimi re di Portogallo nell'Indie orientali, come fu per mezzo il Capo di Buona Speranza, in gradi 35 verso l'antartico, dalla fortuna menato verso ponente 440 leghe, scoperse in mezzo il mare una isola molto grande di forma rotonda, che puol circondar da 50 leghe, e molto maggior dell'isola di S. Tomé, con un buonissimo porto verso levante, lontana dalla linea verso l'antartico gradi 36 e mezzo. E corre verso il nostro polo con il Palmar, o Monte Rotondo della Etiopia nel regno di Benim, e levante e ponente con il rio Giordan, over Capo di Arena della terra del Bresil, e per siroco e maestro con il rio di S. Dominico di detta terra, e per greco e garbin con Capo Negro dell'Etiopia. E detta isola ha vicine quattro altre isole minori, che corrono levante e ponente, a filo una con l'altra dalla banda dell'antartico, e oltra di quelle due altre isole piú vicine verso ponente. E si conosce che la è posta in bellissimo sito e che vi dee esser ottimo aere, come in Sibillia e Granata, e nondimeno non si sa se sia abitata né ciò che vi si trovi. Ha ancora detta isola un'altra isola leghe 50 lontana verso sirocco, alla quarta di levante in gradi 38 e mezzo verso l'antartico, la qual similmente scoperse un altro capitano di detti serenissimi re, nominato Gonzalo Alvares, della qual non è notizia alcuna appresso di noi fin ora.
E si potrian numerare infinite altre scoperte per detti capitani, passata la grandissima isola di San Lorenzo verso levante, fra la linea e il tropico di Capricorno, che sono senza nome e incognite, e non per altra causa se non per mancamento di scrittori. Li quali, sí come, affaticandosi col suo ingegno che le cose trovate a' suoi tempi pervenghino alli posteri, meritano somma laude e commendazione, cosí non debbono esser biasimati quelli che per beneficio commune vanno raccogliendo gli altrui scritti di tal memorie, delle quali (come le siano) deono contentarsi li lettori, tenendo per fermo che, se fussero piú ordinate e meglio scritte, piú volentieri e con maggior satisfazione sariano state date fuori e fatte veder al mondo. Ma è da notare che in questo volume non si fa menzione delle navigazioni fatte da Amerigo Vespucci fiorentin all'Indie occidentali per ordine delli re de Castiglia, ma solamente di quelle due che ei fece di commissione del re di Portogallo.

Navigazione di Vasco di Gama, capitano dell'armata del re di Portogallo,
fatta nell'anno 1497 oltra il Capo di Buona Speranza fino in Calicut, scritta per un gentiluomo fiorentino che si trovò al tornare della detta armata in Lisbona.

Capo di Bona Speranza, quando fu scoperto; delle città di Melinde e Calicut.

Li navilii che mandò questo serenissimo re di Portogallo furono tre balonieri nuovi, due di tonelli 90 l'uno e l'altro di 50, e piú una navetta di tonelli 110, carica di vettovaglia: e fra tutti levorono uomini 180, e partironsi di Lisbona alli 9 di luglio MCCCCXCVII, capitano Vasco di Gama. E adí 10 di luglio MCCCCXCIX tornò il balonier di tonelli 50 in questa città di Lisbona. Il capitano Vasco restò a traverso l'isole del Capo Verde con l'altro balonier di tonelli 90, per porre in terra suo fratello Pagolo di Gama, che veniva ammalato a morte; e l'altro balonier di tonelli 90 arsono, perché non aveano genti da poterlo navigare, e la navetta similmente arsono, benché questa non avea a tornare. Morirono nel ritorno uomini 55 di male che veniva loro nella bocca, dapoi discendeva a basso nella gola, e similmente veniva loro gran dolore nelle gambe, nelle ginocchia per a basso.
Hanno discoperto di terra nuova leghe MCCC in circa di là dal discoperto, che si chiama il Capo di Buona Speranza, che fu discoperto fino al tempo del re don Giovanni, e di là dal detto capo andarono ben leghe DC costeggiando la costa tutta, dove erano populazioni de negri. E trovarono un gran fiume e alla bocca un gran villaggio abitato da negri, che sono come sudditi de' Mori, che stanno fra terra e fanno guerra a detti negri; nel qual fiume si trova infinito oro, secondo che mostrarono detti negri, dicendo che se stessero ivi una luna, li darebbono infinito oro. Il capitano non volle fermarsi, ma andò sempre avanti; e quando fu andato 350 leghe trovò una città grande circondata di mura, abitata da Mori bigi come Indiani, con bellissime case di pietra e di calcina fabricate alla moresca. E quivi discesero in terra, e il re moro di quella terra gli vidde volentieri e dette loro un pilotto per traversare il colfo, qual è in capo della costa dell'Etiopia: costui parlava italiano. E questa città si chiama Melinde e sta posta sopra detta costa, ch'è molto grande, tutta abitata da Mori.
Passarono poi il detto colfo dall'altra banda, che furono leghe 700 di traverso, e arrivarono ad una gran città, dove abitano idolatri e una sorte di cristiani: ella è maggiore di Lisbona e chiamasi Calicut. A mezz'il detto colfo è uno stretto, com'è a dire lo stretto di Romania, nel quale stretto è il mar Rosso, e dal lato dritto di quello è la casa della Mecca dov'è l'arca di Macometto, e vi sono tre giornate per terra e non piú, la qual casa dalla Mecha è una città de' Mori: e mia opinione è che questo sia il colfo d'Arabia, del quale scrive Plinio. E per tornare alla detta città di Calicut, abitata dalle dette generazioni d'Indiani bigi, che non sono negri né bianchi, dicono esservi chiese, ma che non vi sono sacerdoti, né fanno officii divini né sacrificio; solamente hanno nella chiesa una pila d'acqua a modo di acqua benedetta, e altre pile hanno di certo liquore a modo di balsamo, e battezzansi ogni tre anni una volta in un fiume quivi appresso la città. Dicono che le case sono di pietra e di calcina fatte alla moresca, e le strade ordinate e diritte come nella Italia.


Come il re di Calicut è molto altamente servito; e come qui si trova ogni sorte di specie, e che danari vi si spendano; e come vi sono drappi di seda d'ogni sorte.

Il re di detta città è servito molto altamente, e tiene stato di re con somma di scudieri, portieri e camerieri, e ha un palazzo bellissimo. Quando il capitano di detti navili arrivò quivi, il re stava fuori della città, ad un castello cinque o sei leghe lontano. E subito come intese la nuova de' cristiani che erano venuti, se ne venne alla città con circa persone 50, e dipoi passati tre giorni mandò a chiamare il capitano, che stava in nave, il qual subito fu in terra con 12 uomini: e ben cinquemila persone l'accompagnarono dalla riva del mare fino al palazzo del re, alla porta del quale stavano 10 portieri con le mazze fornite d'argento. Poi andarono fin alla camera dove stava il re a giacere sopr'un letto basso: il piano della camera intorno al detto letto era tutto coperto di velluto verde, e le mura della camera tutte coperte di damasco di diversi colori; il letto era coperto di coltra bianca molto fina, lavorata tutta di filo d'oro, con un padiglione sopr'il letto molto ricco. E subito il re domandò al capitano quello che egli andava cercando; il capitano gli rispose che 'l costume de' cristiani era, quando un ambasciadore diceva la sua ambasciata ad un principe, ch'ella era secreta e non publica. Allora il re mandò fuori tutta la gente, e il capitano gli disse come era già molto tempo ch'el re di Portogallo avea avuto notizia della sua grandezza, e come era re e signore di molti paesi; e desiderando avere sua amicizia, lo mandava a visitare, come era costume fare tra l'uno re e l'altro. Il re molto benignamente ricevette l'ambasciata, e poi mandò a posar il capitano in casa d'un Moro molto ricco.
In questa città sono infiniti mercanti mori ricchissimi, e tutto il tratto sta nelle lor navi; tengono una bellissima moschea nella piazza. Il detto re è quasi governato del tutto per mano di detti Mori, percioché, o per via di presenti che loro gli fanno, o per industria, tutto il governo sta nelle lor mani, perché li cristiani sono gente grossa senza industria. Tutte le sorti di spezie si trovano nella detta città di Calicut, cioè cannella, pepe, garofani, gengevo, incenso, lacca infinita; di verzino vi sono boschi. Nientedimanco le dette spezie non nascono in questo luogo, anzi nascono parte in certa isola lontana da detta città cerca leghe centosessanta, la quale è appresso alla terra ferma dalla banda di detta città e vi si va in giorni venti per terra, ed è abitata da Mori e non da cristiani; li Mori sono signori. Nondimeno tutte le dette spezie si conducono alla detta città, che qui è la stapola. Nella detta città di Calicut, le monete che piú vi si spendono sono saraffi d'oro fino, moneta del soldano, che pesano due grani o tre manco del ducato, e gli chiamano saraffini; e similmente vi sono alcuni ducati veneziani e genovesi, e moneta d'argento piccola, che similmente debbe essere del soldano. Sonvi assai drappi di seta, velluti d'ogni colore, cetanini vellutati, rasi, damaschini, taffettà, panni lucchesini damaschini a posta, broccati d'oro, ottoni e stagni lavorati: in conclusione hanno di tutte le cose abbondanzia. E mia opinione è che li panni e drappi vi siano condotti dal Cairo.

Del gran numero di navi che vanno in Calicut al traffico delle specie, e come siano fatte, e in che modo stiano quando sono davanti la città; quello che vagliano quivi le spezierie.

I Portoghesi stettero nella detta città di Calicut dalli XIX di maggio fino alli XXV di agosto, e caricarono alcune poche specie: e in questo tempo viddero venirvi un numero infinito di navi de' Mori, dico ben millecinquecento, che vanno a quel traffico delle specie. E la maggior nave non passa botte CC di portata, e sono di molte sorti, grandi e piccole, e non hanno se non un albero, né posson andare se non a poppe: alle volte stanno quattro o sei mesi ad aspettar il tempo, e molte se ne perdono; sono di strana maniera e molto deboli, e non portano arme né artegliaria. E li navili che vanno all'isole delle spezie per portarle alla detta città hanno il fondo molto piano, che vogliono poca acqua; e alcune navi sono fatte senza alcun ferro, ma confitte con legno. Tutte le dette navi, quando sono davanti alla detta città, stanno in secco nel fango, che ve le mettono quando il mare è alto, a causa di star piú sicure dal vento e dal mare, per non vi esser buon porto. Il mare cresce e scema ogni sei ore come di qua, e alle volte si trovano qui entro 500 e 700 navi, che è gran cosa.
La cannella vale in detta città un peso, che sono cantari cinque di qui, ducati X in XII il piú alto prezzo, cioè saraffi, e nell'isole dove si raccoglie non vale sei; e cosí il pepe e' garofani altrotanto; il gengevo la metà manco; la lacca non vale quasi niente, e ve n'è tanta che molti la cargano per savorna delle navi; il simil è il verzino, che ve ne son i boschi: e non voglion in pagamento se non oro o argento e coralli. Mercanzie di qua stimano poco, salvo panno di lino, che credo vi saria buona mercanzia, perché li marinari vendettero alcune camicie molto bene a baratto di specie, posto che vi siano tele molto fine e bianche, le quali debbono venire dal Cairo. Vi è la dogana come di qui, e d'entrata pagano 5 per cento. Gioie hanno portate poche, e non cosa che vaglia, perché in vero non avevano oro né argento per comprarle, posto che dicano che vi sono care. E similmente sono le perle, e mia openion è che sian a buon mercato, ma quelle che i Portogallesi viddero eran in mano di quelli mercanti mori, che volevano vender l'uno quattro, come sogliono sempre fare. Pure hanno portat'alcuni balassi e zaffiri, e certi rubinetti e granate. Dicono ch'il capitano ne porta delle ricche: egli levò li suoi argenti e li vendé per gioie.

Dove vadano per la maggior parte le navi che caricano le specie in Calicut.
Come facciano il lor pane, e dei frutti che vi si trovano.

Le navi che caricano le specie in detta città di Calicut, la maggior parte vanno dipoi con dette specie nel sopradetto colfo che passorono i Portoghesi, ch'è molto grande; e passato quello, entrano in quello stretto con altri navili piú piccoli, cioè nel mar Rosso, e vanno per terra alla casa della Mecca, che sono tre giornate, e dipoi al cammino del Cairo, e passano a piè del monte Sinai e per lo diserto dell'arena, dove dicono che alle volte con molto vento si lieva l'arena in alto e ricopre chi vi si trova; e similmente alcune navi vanno per tutte quelle città del colfo, e altre verso quel fiume dove trovarono le popolazioni de' negri quasi soggetti a' Mori. Trovarono nella detta città di Calicut malvasie di Candia in barili, che a mio giudicio vi debbon esser condotte dal Cairo, come fanno l'altre mercanzie.
Sono circa anni 80, per quello che fu referito, che nella detta città arrivarono certe navi di uomini con capelli lunghi come Allemani, e le barbe avevano tra il naso e la bocca e il resto tutto raso, come fanno in Constantinopoli i cortigiani, che chiamano quelle barbe mostacchi. Erano armati di corazze coperte, celate e baviere e certe arme inastate, e li navili avevano bombarde, ma piú curte di quelle che si usan al presente. Hanno dapoi restato di andarvi, se non ogni due o tre anni una volta, con 20 e 25 navi. Non sanno dire costoro che genti si siano, né che mercanzia vi portino, salvo che tele di lino finissime e ottoni; e caricano le navi di specie, le quali sono di quattro arbori come queste di Spagna. Nientedimanco aspettiamo di saper il tutto per questo pilotto che dette loro il re moro di Melinde, che parla italiano e viene nel baloniere del capitano, e lo portano contra sua volontà.
Nella città di Calicut è grano assai, che vi conducono Mori con le lor navi. Tre quattrini di pane basta ad un uomo un giorno; il pane non fanno con levato, se non tutte focaccie sotto le braci dí per dí. Ed evvi riso in gran quantità, vacche e buoi assai, ma piccoli; fanno latte e butiro, e sonvi melarancie assai, ma tutte dolci, limoni, citroni, cedri, pomi molto buoni, dattili freschi e secchi, e similmente molti altri frutti.

Non mangian cosa che patisca morte, e del vivere d'esso re di Calicut.

Il re di detta città non mangia carne né pesce né alcuna cosa che patisca morte, né anche li suoi cortigiani e gli uomini di condizione, perché gli è stato detto ch'el nostro Sig. Iesú Cristo dice nella sua legge che chi ammazza vien ammazzato: e per questo non vogliono mangiar cosa che muoia. Il popolo mangia pesce e carne, che non si curano niente; non mangiano i buoi, ma gli tengon in buon conto, che siano animali di benedizione, e quando ne passano per la strada gli toccano con la mano e poi se la baciano. Il detto re mangia riso, latte e butiro, pan di grano e molt'altre cose simili, e cosí li suoi cortigiani e alcuni altri uomini di qualità. Fassi egli servire molt'altamente alla mensa come re, e beve vino di palma con una mesciroba d'argento, e non s'accosta la mesciroba alla bocca, salvo che tiene la bocca aperta e lassa cader il vino.
Pesci vi sono della medesima qualità che sono di qua, cioè pescietti, lenguazzi, salmoni e di tutte le sorti che si trovano di qua; e sonvi di molti pescatori che pescano. Similmente vi sono cavalli come di qua, e molto s'apprezzano da quei cristiani e da' mori; i cristiani cavalcano sopra gli elefanti, delli quali ve n'è quantità e sono domestichi. Quand'il re va alla guerra, la maggior parte della gente va a piede e una parte sopra gli elefanti; e quando va da un luogo all'altro, si fa portar in lettica a collo dai piú nobili. Li principali animali di quel paese sono gli elefanti, e con quelli fanno la guerra, ponendo loro adosso certi castelli, dove stanno tre e quattro uomini a combattere, ed evvi uno che gli guida. Sono alcuni re che ne tengono 150, altri 200, altri piú e altri meno, secondo la grandezza della signoria che tengono. Quando fanno avarrar le navi, le fanno con la forza di detti animali, e le fanno correre, che par cosa incredibile e pur è vera.
Tutte quelle genti vanno vestite dalla cintola in giú, la maggior parte di bambagio, che ve n'è quantità, e dalla cintola in su vanno nudi, e li cortigiani e gli uomini di condizione il simile: nientedimeno vestono di drappi di seta, panni boccascini, e altri colori, ciascuno secondo la sua qualità; e similmente le donne, pur quelle degli uomini di condizione, vanno coperte dalla cintola in su di tele molto bianche e sottili, e le popolane vanno discoperte. I Mori vanno vestiti a modo loro, con le sue alzube e palascani
Sono da Lisbona a detta città di Calicut leghe 3800: a ragione di miglia 4 per lega fanno miglia 15 mila e 200, e altritanti al tornare; ora si può stimare in quanto tempo si può far detto viaggio, che almanco saranno 15 o 16 mesi. I marinari di là, cioè i mori, non navigano con la tramontana, ma con certi quadranti di legno. E a man dritta, quando traversano il colfo, dicono i loro pilotti che restano undecimila isole, e chi si mettesse fra loro si perderebbe, perché vi son di molte basse.

Del Prete Ianni, e dove nascono le spezie e gioie.

Nella detta città hanno pure qualche notizia del Prete Ianni, ma non molta, per via delle navi che vanno alla Mecha. Hanno cognoscimento come Giesú Cristo nacque di una vergine senza peccato, e come fu crocifisso e morto da' giudei e sepolto in Ierusalem; similmente del papa, che sta in Roma; altra notizia non hanno della nostra fede. Tengono lettere e scrivono in loro linguaggio. Di mercanzie, vi sono infiniti denti di elefanti e fanvisi ancora di molti gottoni e zuccari e conserve: e a mio giudicio stimo che sia un paese ricchissimo, e che altro cosí ricco non si possa scoprire. Stimasi che 'l vino abbia ad esser buona mercanzia per la detta India, perché quelli cristiani lo beono di buona voglia, e similmente domandavano olio. Nella detta città si mantiene molta giustizia, e chi ruba o ammazza o fa altro maleficio subito è impalato al modo di Turchia; e chi gli vuol fraudare i dretti della terra, perde la mercanzia tutta. Similmente si trova nella detta città zibetto, muschio, ambracan, storace, belzuí.
L'isola dove nascono le spezie si chiama Zeilam, ch'è da detta città di Calicut, come in questa si disse, leghe 160: nella qual isola non nascono se non gli arbori che fanno la cannella in molta perfezione, e molti zaffiri e altre gioie. Il pepe e 'l gengevo nasce intorno alla detta città di Calicut; i garofani vengono di piú lontani paesi; riobarbaro ve n'è assai, e similmente di tutte l'altre spezie minute. Dicono ancora esservi un colfo alla banda di tramontana partendosi di Calicut molte miglia lontano, il qual è abitato da mori, cioè dalla banda di qua, e dalla banda di là, che è al mezzodí, è abitato da cristiani indiani bianchi come noi, sí alla riva del mare come fra terra: la qual è molto fruttifera di grano, biade e frutti e carni e vettovaglie assai, le quali si mandano alla città di Calicut, perché dove è posta la detta città è la maggior parte terra di rena, che non vi nasce grano né biade. Non regnano in quelle parti se non due venti, ponente e levante, cioè il verno ponente e levante la state. Vi sono dipintori bonissimi di figure e d'ogni cosa.

Dove si faccia la cannella buona e fina e dove i garofani del Prete Ianni, come le spezie che vengono da Calicut si discaricano nel porto del mar Rosso, tenuto per il soldano del Cairo.

Avendo scritto fin qui, è venuto quel pilotto che presero per forza, che parea schiavone e infine è giudeo nato in Alessandria o in quelle parti, e passò in India molto giovane, e in Calicut tien moglie e figliuoli. Avea una nave e andava qualche volta in armata; dice cose mirabili di quel paese e delle loro ricchezze, cioè di spezie. La cannella buona e fina si fa nella detta isola di là da Calicut leghe 160, molto appresso alla terra ferma, ed è abitata da Mori; i garofani piú discosto. Dice che sono in quelli paesi assai popoli gentili, cioè idolatri, e che pochi cristiani vi sono, e quelle che dicono esser chiese sono tempii al modo de' gentili, e sonvi certe dipinture d'idoli e non di santi: e questo mi pare piú verosimile che dire che siano cristiani senza fare officii divini né sacerdoti. E non intende che vi siano altri cristiani da farne conto che alcuni detti iacobiti e quelli del Prete Ianni, qual è molto lontano da Calicut di là dal colfo di Arabia, e confina con quel re di Melinde e con gli Etiopi cioè Negri, e bene fra terra, e similmente confina con quelli d'Egitto, cioè col soldano dal Cairo. Questo Prete Ianni tien sacerdoti che fanno sacrificii, osservano gli evangelii e il decreto della chiesa, secondo quello che servano gli altri cristiani: non vi è differenzia molta. Il soldano del Cairo tiene porto di mare nel mar Rosso, e d'Alessandria si va al detto porto di mare sempre per terra del soldano, e sono bene quaranta giornate, nel qual porto si discaricano tutte le spezie che vengono da Calicut.

Di una isola verso il colfo Persico, dove altro non si fa che pescar perle;
del conto che tengono delle vacche e buoi; cose mirabili di un tempio che è in Calicut;
come navigano quelli mari senza bussolo; che sorte di mercanzie siano buone in quei paesi.

Dice appresso di una isola, partendosi da Calicut verso il colfo Persico, appresso alla terra ferma ad una lega, tutta abitata da pescatori che non fanno altro che pescar perle, nella quale non è acqua da bere, ma ogni giorno vanno infinite barche alla terra ferma, ad un gran fiume che vi sbocca, e quivi l'empiono d'acqua a refuso senza botte o barile. Il bestiame dell'isola, come vede tornar le dette barche, subito se ne va tutto alla marina a bere in quelle barche. E in altro luogo non si pescano perle se non nella detta isola, la qual è di qua da Calicut ben leghe 300. È abitata da gentili; gran conto fanno delle vacche e de' buoi e quasi gli adorano, e chi ne mangiasse uno o una lo farebbono morire per giustizia. Della isola Taprobana, della quale Plinio scrisse sí largamente, non sa dir altro, perché ella debbe esser in pelago molto da largo alla terra ferma.
In Calicut è un tempio, che chi v'entra certi dí della settimana, come saria a dir di mercordí davanti mezogiorno, gli vien grandissima paura per le apparenzie diaboliche che si veggono: e cosí afferma questo giudeo pilotto esser vero e certissimo, e che in detto tempio in un certo giorno dell'anno vi si accendono alcune lampade, le quali fanno apparer molte cose difformi dalla natura. E appresso afferma che navigano in quelli mari senza bussolo, ma con certi quadranti di legno, che pare difficil cosa, e massime quando fa nuvolo, che non possono vedere le stelle. Hanno certe ancore molto piccole, e non so come se l'adoprino; li timoni delle navi si tengono legati con corde, e sono piú lunghi che le stelle delle navi tre palmi. Tutte le navi di que' paesi si fanno in Calicut, perché vi sono molti boschi, né in altro luogo vi è legname.
E le principal mercanzie che sono buone per quelli paesi sono coralli, rami lavorati in caldari e piastre, tartaro, occhiali (ve sono certi paesi che un paro di occhiali vale un prezzo grande), telarie grosse, vini, olio, broccati pochi, e cosí boccassini e altri panni, che questo giudeo ha dato gran lume ad ogni cosa. E questo nostro re di Portogallo ha grandissimo animo sopra queste cose, e ha già fatto mettere in ordine quattro navi e due caravelle al gennaio sequente con mercanzie assai e bene armate; e fa conto, quando quel re di Calicut non voglia consentire che li Portogallesi traffichino quivi, che 'l capitano di dette navi pigli delle navi di que' paesi quante può: che a mio giudicio ne piglierà quante vorrà, tanto sono deboli e mal fatte, che non possono andare se non a poppe; delle qual navi vi sono gran quantità, e vanno a quel traffico delle spezie. Questo nostro re ha preso titolo di simili paesi, cioè re di Portogallo e de Lalgarbe, di qua e di là dal mare in Africa, e signore di Ghinea, e conquiste delle navigazioni e commerzii d'Etiopia, Arabia, Persia e India.
Questo è quanto io ho potuto ritrarre d'alcune persone d'intelletto, che sono ritornate con la presente armata. E se io sono stato confuso nello scrivere, V.S. mi perdoni e abbi per iscusato.

Navigazion del capitano Pedro Alvares scritta per un piloto portoghese
e tradotta di lingua portoghesa in la italiana.

Come il re di Portogallo mandò una armata di dodeci navi e navilii, capitano Pietro Alvares,
dieci delle quali andassino in Calicut e le due per altra via al luogo di Cefalla,
ch'è nel medesimo cammino, per contrattar mercanzie;
e come scopersero una terra molto abbondante di arbori e di gente.

Nell'anno MD mandò il serenissimo re di Portogallo don Manuel una sua armata di navi e navilii per le parti d'India, nella quale armata erano dodici navi e navili, capitano generale Pedro Alvares fidalgo; le qual navi e navili partirono bene apparecchiate e in ordine d'ogni cosa necessaria che li fusse per un anno e mezzo. Delle quali dieci navi ordinò che andassero in Calicut, e quelle altre due per altra via ad uno luogo chiamato Ceffalla, per voler contrattare mercanzie, il qual luogo di Ceffalla si trovava esser nel cammino di Calicut; e similmente le altre dieci navi levasseno mercanzie che fusseno per ditto viaggio. E alli VIII del mese di marzo di detto millesimo furono preste e, fu il dí di domenica, andarono longi da questa città duo miglia in un luogo chiamato Rastello, dove è la chiesa di Santa Maria di Bellem, nel qual luogo il re fu lui proprio in persona a consegnar al capitano il stendardo reale per la detta armata. Il lunedí, che fu alli IX di marzo, partí la detta armata con buon tempo pel suo viaggio. Alli XIIII del detto mese passò la detta armata per l'isola di Canaria; alli XXII passò per l'isola di Capo Verde; alli XXIII si partí una nave della detta armata, talmente che di essa mai non si sentí nuova fino a questo dí presente, né si può sapere.
Alli XXIIII di aprile, che fu il mercoredí nella ottava di Pasca, ebbe la detta armata vista di una terra, di che ebbe grandissimo piacere: e arrivorono a quella per vedere che terra era, la qual trovorono molto abbondante d'arbori e di gente che andavano per lo fitto del mare. E gittorono ancora nella bocca d'un fiume piccolo, e dipoi il capitano mandò a gettare uno battello in mare e mandò a vedere che genti erano quelle: e trovorono ch'erano genti di color berretino tra il bianco e 'l nero, e ben disposti, con capelli lunghi; e vanno nudi come nacquono senza vergogna alcuna, e cadauno di loro portava il suo arco con freccie, come uomini che stavano in defensione del detto fiume. La detta armata non aveva alcuno che intendesse la lingua loro, e visto cosí quelli del battello ritornorono dal capitano, e in questo stando si fece notte, nella qual notte si fece gran fortuna. Il dí seguente la mattina si levò la detta armata con un gran temporale, scorrendo la costa per la tramontana (il vento era da sirocco) per veder se trovavamo alcun porto da redursi e sorgere. Finalmente ne trovammo uno, dove gettammo l'ancore, e vedemmo di questi uomini medesimi che andavano nelle loro barchette pescando; e uno di nostri battelli fu dove stavano e ne pigliò duoi, li quali menò al capitano per sapere che gente erano: e come è detto, non s'intendevano per favella, né manco per cenni. E quella notte il capitano gli ritenne con lui; il dí sequente li mandò in terra con una camicia e uno vestito e una berretta rossa, per li quali vestimenti restorono molto contenti, e maravigliosi delle cose che li furono mostrate.


Come gli uomini di quella terra cominciorono a trattar con quelli dell'armata; della qualità di detti uomini e delle lor case; e di certi pesci molto differenti dai nostri.

In quel dí medesimo, ch'era l'ottava di Pasqua, a' XXVI aprile, determinò il capitano maggiore di udir messa e mandò a drizzar una tenda in quella spiaggia, sotto la qual fu drizzato uno altare; e tutte le genti della armata andorono ad udir messa e la predica, dove si trovorono molti di quelli uomini, ballando e cantando co' suoi corni. E subito come fu detta la messa, tutti ritornorono a nave, e quelli uomini della terra intravano in mare fino sotto le braccia, cantando e faccendo piacere e festa. E dipoi, avendo il capitano desinato, tornò in terra la gente della detta armata, pigliando sollazzo e piacere con quelli uomini della terra; e cominciorono a trattare con quelli dell'armata, e davano di quelli archi e freccie per sonagli e fogli di carta e pezzi di panno; e tutto quel dí pigliammo piacere con esso loro, e trovammo in questo luogo un fiume di acqua dolce, e al tardi tornammo a nave. Item l'altro giorno determinò il capitano maggiore di torre acqua e legne, e tutti quelli di detta armata furono in terra, e quelli uomini di quel luoco ne venivano ad aiutare a torre le dette legne e acqua. E alcuni de' nostri andorono alla terra donde questi uomini sono, circa tre miglia discosto dal mare, e barattorono pappagalli, e una radice chiamata igname, che è il pane loro che mangiano, e archi; quelli dell'armata gli davano sonagli e fogli di carta in pagamento di dette cose. Nel qual luogo stemmo cinque over sei giorni.
La qualità di questi uomini: loro sono uomini berrettini e vanno nudi senza vergogna, e li capelli loro sono lunghi, e portano la barba pelata; e le palpebre degli occhi e le sopraciglie sono dipinte con figure di color bianchi, neri e azurri e rossi; portano le labbra della bocca, cioè quelle da basso, forate e vi pongono uno osso grande come chiodo, e altri portano chi una pietra azzurra e chi verde, e subbiano per detti buchi. Le donne similmente vanno senza vergogna, e sono belle di corpo e portano li capelli lunghi. E le loro case sono di legname, coperte di foglie e rami d'arbori, con molte colonne di legno in mezzo delle dette case; e dalle dette colonne al muro mettono una rete di bambagio appiccata, nel qual sta uno uomo, e infra una rete e l'altra fanno un fuoco, di modo che in una sola casa staranno quaranta e cinquanta letti, armati a modo di telari.
In questa terra non vedemmo ferro e manco altro metallo, e le legne tagliano con pietra. Hanno molti uccelli di diverse sorti, e spezialmente pappagalli di molti colori, fra li quali ne sono de grandi come galline, e altri uccelli molto belli; e della penna di detti uccelli fanno cappelli e berrette che portano loro. La terra è molto abbondante di molti arbori e molte acque, e miglio e igname e bambaso. In questi luoghi non vedemmo animale alcuno di quattro piedi. La terra è grande e non sappiamo se l'è isola o terra ferma, anzi crediamo che la sia per la sua grandezza terra ferma, e ha molto buon aere. E questi uomini hanno reti e sono pescatori grandi, e pescano di piú sorte pesci, infra i quali vedemmo un pesce che pigliorono, che poteva esser grande come una botte e piú lungo e tondo, e teneva il capo come porco e gli occhi piccoli, e non aveva denti, e avea l'orecchie lunghe; da basso il corpo avea piú busi e la coda era lunga un braccio; non avea piede alcuno in alcun luogo, avea la pelle come il porco (il cuoio era grosso un dito) e le sue carni erano bianche e grasse come di porco.


Come il capitano mandò lettere al re di Portogallo, dandoli aviso d'aver scoperto
la detta terra, e come per fortuna si perdettero quattro navi.
Di Cefalla, ch'è una mina d'oro congiunta con due isole.

In questi giorni che stemmo qui, determinò il capitano fare a sapere al nostro serenissimo re la trovata di questa terra, e di lasciare in essa duoi uomini banditi e giudicati alla morte, ch'avevamo in detta armata a tale effetto. E subito il detto capitano dispacciò uno navilio che aveva con esso seco vettovaglie, e questo oltra le dodici navi sopradette, il qual navilio portò le lettere al re, nelle quali si conteneva quanto avevamo visto e discoperto. E dispacciato il detto navilio, il capitano andò in terra e mandò a fare una croce molto grande di legno e la mandò a piantare nella spiaggia, e similmente come scrisse lassava duoi uomini banditi in detto loco, li quali cominciorono a piangere, e gli uomini di quella terra gli confortavano e mostravano avere di loro pietà.
L'altro giorno, che fu alli dua di maggio del detto anno, l'armata fece vela pel cammino per andare alla volta del Capo di Buona Speranza, il qual cammino saria di colfo di mare piú di milledugento leghe, che sono quattro miglia per lega. E alli 12 del detto mese, andando al nostro cammino, ne apparse una cometa verso la parte di Etiopia con un razzo molto lungo, la quale apparse di continuo otto o vero dieci notti. Item una domenica, ch'era alli 20 del detto mese di maggio, andando tutta l'armata insieme con buon vento con le vele con mezzo arbore senza bonetta, per rispetto di una pioggia che avemmo il giorno avanti, e cosí andando ne venne vento tanto forte per davanti e tanto subito, che non ce ne avedemmo fino a tanto che le vele furono atraversate agli arbori. In quello istante si perderono quattro navi con tutte le genti, senza poterli dar soccorso alcuno; le altre sette che scamporono stetteno a pericolo di perdersi. E cosí pigliammo il vento a poppa con gli arbori e vele rotte, e a Dio misericordia ce n'andammo cosí tutto quel dí. E il mare sgonfiò di tal modo che pareva che andassemo sopra i cieli, e il vento di subito si cambiò, ancora che era tanta fortuna che non avevamo ardire di dar le vele al vento; e navigando con questa fortuna senza vele, ci perdemmo di vista l'una dall'altra, di modo che le navi del capitano con due altre pigliorono altro cammino, e un'altra nave, chiamata il Re, con due altre pigliorono un altro, e l'altre per altro cammino: e cosí passammo questa fortuna venti giorni, senza dare al vento una vela.
Item alli 16 del mese di zugno avemmo vista di terra di Arabia e sorgemmo, e gionti in terra pigliammo del pesce assai. Questa terra è molto populata e in essa vedemmo di molta gente: e allora levammo ancora e andavamo di lungo per riviera con buon vento e tempo, vedendo detta terra molto fruttifera, con molti gran fiumi e molti animali, di modo che tutto era ben abitato. E venimmo avanti Cefalla, che è una mina d'oro, trovandola gionta con due isole, dove stavano due navi de Mori, che venivano da detta mina con l'oro e andavano a Melinde. E come quelli delle dette due navi ebbero viste le nostre, cominciarono a fuggire e gittoronsi tutti al mare, lanciato prima tutto l'oro al mare che aveano, a causa che noi non glielo togliessemo. E il nostro capitano mandò a farsi venir avanti il capitan moro, essendo già tolte per noi le dette due navi, e gli cominciò a dimandare di che luoco era: e gli rispose che era moro, cugino del re di Melinde, e che le navi erano sue e che veniva da Cefalla con quello oro, e che con lui menava sua moglie, e volendo fuggire in terra s'era annegata, e similmente uno suo figliuolo. Il capitano dell'armata nostra, quando seppe che egli era cugino del re di Melinde (il qual re avemo per nostro grande amico), gli rincrebbe molto, feceli molto onore e mandolli a donar le sue due navi, con tutto l'oro che tolto gli avea. Il capitano moro domandò al capitano nostro se l'aveva con seco alcuno incantatore, che traesse fuori quell'oro che aveano gittato al mare; il capitano nostro li rispose che noi eravamo cristiani e che fra noi non si costuma tal cosa. Allora domandò il capitano nostro delle cose di Cefalla, che ancora non era discoperta se non per fama; el qual Moro gli dette per nova che a Ceffalla era una mina di molto oro e che un re moro la teneva, il qual sta in una isola che si chiama Chilloa, che stava in cammino per donde avevamo d'andare, e che Cefalla restava adrieto. Il capitano si espedí e andammo al nostro cammino.


Della isola Monzambique; e come giunsero a Chilloa, dove trovarono sei delle lor vele che s'erano smarrite; e come il capitano s'abboccò col re di detto luogo; e della città di Mombaza.

Item, alli XX del mese di luglio, arrivammo ad una isola piccola che è del medesimo re di Ceffalla, detta Monzambique, non molto populata, dove stanno mercatanti ricchi; e in questa isola pigliammo aqua e rinfrescamento, e uno pilotto che ne menasse a Chilloa. Questa isola ha molto buon porto e sta appresso terra ferma. Di qui si partimmo per Chilloa a lungo della costa, dove trovammo molte isole populate, che sono di questo proprio re. Giugnemmo a Chilloa alli XXVI del detto mese, nel qual luogo trovammo sei vele delle nostre; l'altra mai non si trovò. Questa è una isola piccola giunta con la terra ferma, e tien una bella città: le case sono alte al modo di Spagna; abitano in quella ricchi mercadanti, e gli vien di molto oro e argento, e ambracan e musco e perle. Quelli della terra vanno coperti di panni di bambaso fini e di seda e tocche molto fine, e sono uomini negri.
E subito che quivi giungemmo, mandò il capitano a domandare un salvocondotto al re, il qual subito glielo mandò. Il capitano, dipoi ch'ebbe il salvocondotto, mandò in terra Alfonso Furtado con sette o vero otto uomini ben vestiti come ambasciatore, e per quello gli mandò a dire che queste navi erano del re di Portogallo e che venivano quivi per contrattar con esso lui, e che aveano di molta mercanzia e di piú sorte di che lui volesse; e piú gli mandò a dire che averia piaccere di abboccarsi con esso lui. Il detto re gli rispose che gli era molto contento e che il dí sequente s'abboccheria con lui, volendo dismontare in terra; Alfonso Furtado gli rispose che 'l capitano avea comandamento dal suo re di non dismontare in terra, e volendo lui, che parleriano in li battelli. E cosí restorono d'accordo per l'altro giorno. E l'altro dí il capitano si messe in ordine con tutta la sua gente, e la nave e battelli con bandiere fuora, e suoi toldi e la artegliaria in ordine. Il re della detta terra mandò ancora lui a mettere in ordine le sue almadie, cioè battelli, con molta festa e suoni al modo loro, e il capitano li suoi trombetti e piffari. E se viddero l'un l'altro, e aggiugnendo l'uno all'altro, le bombarde delle navi furono preste con suoi fuochi e sparorono, per lo qual sparare fu il rumore tanto grande che 'l detto re restò con tutta la sua gente stupefatto e spaurito. Dipoi stettono in ragionamento assai, e presa licenzia l'uno dall'altro, il capitano si ritornò alla nave. E l'altro giorno tornò a mandare Alfonso Furtado in terra per cominciare a contrattare, il quale trovò il re molto fuora del proposito che prima era stato col capitano, scusandosi che non aveva bisogno di nostra mercanzia; e pareva al detto re che noi fossimo corsari. E cosí con questo si ritornò Alfonso Furtado al capitano. Dimorati in quel luoco duoi o tre giorni, mai per diligenzia che usassimo potemmo far nulla: e in quel tempo che noi stemmo lí, non feceno altra cosa che mandar gente da terra ferma all'isola, dubitando che noi non la pigliassemo per forza. E quando il capitano vidde cosí, determinò di partirsi e comandò far vela al cammino di Melinde; e trovammo lungo alla costa molte isole populate de Mori, dove stava un'altra città, che si chiama Mombaza e tien un re moro: e tutta questa costa di Etiopia è populata da Mori. Nella isola e infra terra dicono loro che vi sono cristiani, che gli fanno molta guerra; ma questo noi non lo vedemmo.

Come arrivorono a Melinde, ove furono dal re molto accarezzati. Del presente mandato dal re di Portogallo al re di Melinde, e come s'abboccorono il re e il capitano.

E giugnemmo a Melinde alli 2 di agosto del detto millesimo, nel qual luogo stavano surte tre navi di Cambaia, e queste navi cadauna saria di portata di ducento botte: nel fondo sono ben fatte e di buon legname, cucite con molte corde, che non hanno chiodi, e impegolate d'una mistura dove è molto incenso; non hanno castelli se non da poppa. Queste navi venivano a trattare dalle parti d'India. E come quivi arrivammo, il re ne mandò a visitare con molti castroni e galline, oche, limoni e naranze, le migliori che siano al mondo; e nelle nostre navi avevamo alcuni ammalati della bocca, e con quelle naranze si feceno sani. Subito come avemmo gittate l'ancore innanzi la terra, il capitano comandò dar fuoco a tutte le bombarde e imbanderare le navi, e mandò in terra duoi fattori dal re, un de' quali sapea parlar moro, cioè arabico, a intendere come stava il re e farli sapere a che far venivamo, e che l'altro giorno mandaria la sua imbasciata, con la lettera che 'l re di Portogallo gli mandava. Il re ebbe grande apiacere della nostra venuta, e a preghieri del re quel fattore che sapeva parlare arabico restò in terra.
Il giorno sequente mandò il re alla nave duoi Mori molto onorati, li quali sapevano parlare arabo, a visitare il capitano, e li mandò a dire come avea gran piacere del giunger suo, e mandollo a pregare che di tutto quello che avesse di bisogno mandasse alla sua terra come faria in Portogallo, che lui e tutto il suo regno stava al comando del re di Portogallo. E subito il capitano ordinò di mandar a terra le lettere, con lo presente che 'l re di Portogallo gli mandava. Il presente era questo, cioè una sella ricca, un paro di testiere di smalto per uno cavallo, uno paro di staffe e suoi speroni tutti d'argento smaltati e dorati, e uno pettorale della propria sorte per la detta sella, con li cordoni e fornimenti di chermesino molto ricco, e uno capestro lavorato d'oro filato per detto cavallo, e duoi cossini di broccato e altri duoi cossini di velluto chermesino, uno tappeto fino e uno panno da razzo, e duoi pezzi di panno di scarlatto, e una pezza di raso chermesin e una de taffettà chermesin: il qual presente valea in Portogallo piú di mille ducati. Ebbeno per consiglio che Ariscorea, che andava per fattore maggiore, gli portasse questo presente: il quale fu in terra con la lettera, e andavano con esso lui molti uomini de' principali con trombetti. E similmente il detto re mandò tutti i suoi principali a ricevere il detto fattore. E le case del detto re stavano alla riva del porto, e innanzi che arrivassino alla casa del re, gli vennero incontra di molte donne con vasi pieni di fuoco, e gli mettevano tanti profumi che andavano gli odori per tutta la terra: e cosí entrorono in casa del detto re, dove stava a sedere in una catedra, e molti Mori de' principali con esso lui. Il re ebbe grande apiacere, e li dettono il presente e la lettera, la qual da una parte era scritta in arabico e dall'altra in portogallese.
Il re, come ebbe letto la detta carta, parlò con li detti Mori ed ebbeno piacer grande infra loro, e tutti unitamente dettono un grido in mezzo della sala, rendendo grazie a Dio per aver tanto grande re e signor per amico come il re di Portogallo. E subito fece portare armezzari e panni di seda, e mandogli a dare a quelli che aveano portato il presente, e disse ad Ariscorea che lo pregava che 'l restasse in terra in tanto che le navi non si partivano, perché gli avea molto piacere a favellar con lui. Ariscorea gli rispose che non poteva farlo senza licenzia del capitano maggiore; il re mandò uno suo cognato al capitano con uno anello suo, a pregarlo che lassasse stare Ariscorea, e che mandasse a terra per tutte le cose che gli avesse di bisogno, cosí de acqua come de altro: il capitano fu di ciò contento. Subito il re mandò a dare ad Ariscorea molto onorevole alloggiamento, mandandoli a dare tutte quelle cose che li facevano bisogno, cioè castroni e galline e riso e latte e butiro e dattali e mele e frutti d'ogni sorte, salvo pane che loro non mangiano; e cosí stette il detto Ariscorea tre giorni in terra, parlando ogni ora il re con esso lui delle cose del re nostro signore e delle cose di Portogallo, chiedendoli che molto piacere avrebbe di rivedersi con lo capitano. Ariscorea gli disse che lo capitano non avea commissione di dismontare in terra, ma che si potriano vedere nelli battelli, come fece il re di Chilloa. Il detto re recusava questo, e Ariscorea fece tanto con lui che l'acquietò: e subito si mandò a dire al capitano, il quale si fece presto con suoi battelli, lassando le navi a buon recapito.
Il battello nel qual andava col suo toldo avea la gente armata secretamente sotto le lor veste de grana e panni fini; e il re mandò apparecchiare duoi battelli di terra similmente co' suoi toldi e le sue genti, e cosí mandò a mettere in ordine uno cavallo al modo di Portogallo; e li suoi della terra non sapevano ordinare a che modo, tanto che li nostri l'ebbeno a mettere in ordine. Il qual re descendette per una scala, e al piede della scala stava aspettandolo tutta la gente piú ricca e onorevole, la quale avea uno castrone; e montando il re a cavallo scannorono il detto castrone, e passò il re a cavallo sopra il detto castrone e tutta la gente gridò molto forte con voce molto alta: e questo usano per cerimonia e incantaria. E cosí s'abboccorno insieme e stettero un gran pezzo a parlare. Alla fin el capitano gli disse che si volea partire, e però avea bisogno di uno pilotto che lo conducesse a Calicut; il re gli disse che lo mandaria, e cosí s'espedirono l'uno dall'altro. E come il detto re fu in terra, mandò subito Ariscorea alla nave con molta carne e frutti pel capitano, e similmente li mandò uno pilotto guzerato, di quelle navi di Cambaia che stavano nel porto.
Il capitano lasciò in quel luoco duoi uomini banditi di Portogallo che restassino in Melinde, cioè uno di loro, e l'altro per andare con la nave di Cambaia. L'altro giorno, che fu alli VII d'agosto, si partirono, e cominciamo a traversare il colfo per Calicut.


Della città detta Magadasso; dell'isole Gulfal e Ormus;
e della provincia Cambaia, molto fruttifera e grassa.

Lassamo in questo traverso che attraversiamo tutta la costa di Melinde, e una città de' Mori che si chiama Magadasso, molto ricca e bella, e piú avanti a questa è una isola grandissima con un'altra molto bella e magna città di mura: è l'isola con uno ponte in terra che si chiama Zacotara. E andando piú oltre per la costa è una bocca d'uno stretto della Mecha, che saria di largo una lega e mezza, cioè il detto stretto, e là dentro stava il mare Rosso, e cosí la casa della Mecha e di Santa Caterina di monte Sinai; e de lí levano spezie e gioie al Cairo e in Alessandria per un certo deserto con dromedari, che sono camelli corridori: e di questo mare vi sarian grandissime cose a contare. E passando la bocca del stretto, dall'altra banda sta il mare di Persia, nel quale sono grandissime provincie e molti regni, sottoposti al gran soldano di Babilonia. E nel mezzo di questo mare persiano vi è una isola piccola che si chiama Gulfal, nella quale si pescano molte perle e sonvi di molte bellissime gioie. E nella bocca di detto mare è una grande isola che si chiama Ormus, la quale è de' Mori, e tiene re, il qual è signore di Gulfal; e in Ormus vi sono bellissimi cavalli, li quali si conducono per tutta l'India a vendere e vagliono gran prezzo. E in tutte queste terre è un gran traffico di navi.
E passando questo mare di Persia si trova una provincia che si chiama Cambaia, la qual tiene re, il qual è grande e molto potente e forte. E questa terra è piú fruttifera e piú grassa che sia nel mondo, perché vi si trova molto formento e biava e riso e cera e zuccaro; nascevi ancora incenso, e fansi molti panni di seda e di bambaso, e sonvi molti cavalli ed elefanti. Il re fu idolatro e dipoi si fece moro, per causa di molti Mori che stanno nel suo regno; e infra loro sono anche molti idolatri. E si trovano de' grandi mercadanti, li quali da una parte trattano con gli Arabi, dall'altra con la India, la quale comincia dove loro sono: e cosí vanno per questa costa fino al regno di Calicut, nella qual costa sono di grandi e bellissime provincie e regni de Mori e d'idolatri. E tutto questo che è scritto in questo capitolo fu visto per noi altri.

Della isola chiamata Amiadiva.

Item aggiungemmo a vista d'India alli XXII di agosto, la qual era una terra nel regno di Goga; e come la cognoscemmo, andammo di lungo fino a tanto che giugnemmo ad una isola piccola che si chiama Amiadiva, la quale è di uno Moro, e tiene nel mezzo un lago grande di acqua dolce, ed è dispopolata: e de lí a terra ferma sono due miglia. E fu già populata da gentili, e perché li Mori della Mecca fanno quel camino per andare a Calicut, dove si fermavan per necessità d'acqua e legne, però fu dispopulata. E tanto che lí aggiungemmo, sorgemmo al mare, descendemmo in terra e stemmo pigliando acqua e legne ben quindici giorni, guardando se veniano le navi dalla Mecca, le quali volevamo prendere, se avessimo possuto. E cosí la gente di terra veniva a favellar con noi, e ne diceano di molte cose; il capitano nostro li mandò a fare molto onore. E in questa isola sta uno eremitorio piccolo, nel quale, in questi giorni che lí stavamo, se celebrarono di molte messe per li clerici ch'avevamo per restar con lo fattore in Calicut, e cosí ci confessammo e communicammo tutti. E presa la detta acqua e legne, e visto che le navi de' Mori della Mecca non venivano, ci partimmo per Calicut, il quale è distante settanta leghe da questa isola.

Come giunsero a Calicut, e il capitano smontò in terra per abboccarsi col re.

Aggiungemmo a Calicut alli XIII de settembre di detto anno, e per una lega dalla città salirono una frotta di battelli a riceverne, nella qual veniva il governator della detta città e un mercatante di Guzurat molto ricco, il principale di questa città di Calicut, li quali entrorno nella nave capitana, dicendo come il re avea gran piacere della nostra venuta. E cosí dinanzi alla città gittassemo le nostre ancore, e cosí sorte, cominciassemo a sparar le nostre artigliarie, della qual cosa si maravigliorono grandemente, dicendo che contra noi niuno avea possanza se non Iddio. E stemmo cosí quella notte. Il giorno seguente per la mattina determinò il capitano di mandare in terra gli Indiani che di Portogallo con le nostre navi levassemo, li quali erano cinque, cioè un Moro, che infra noi era fatto cristiano, e quattro gentili pescatori, li quali tutti parlavano molto ben portogallese: li quali il detto capitano mandò alla città molto ben vestiti, per parlare col re e dirgli la causa perché venivamo cosí, e che ci mandasse a dare un salvocondotto per potere descendere in terra. Il Moro parlò col re, perché gli altri, che sono pescatori, non ardivano d'accostarsi al re né lo poteron vedere, perché il re tien questo per costume per suo stato e magnanimità, come piú avanti si dichiarerà.
Il re mandò fuori il detto salvocondotto e che ogniun di noi altri, chi volesse, descendesse in terra; e visto questo, il capitano mandò subito Alfonso Furtado con uno interprete che sapeva parlare arabico, il quale avea da dire al re come queste navi erano del re di Portogallo, il quale li mandava a questa città per trattar pace e traffico di mercanzie con esso loro: e che per fare questo era necessario che 'l capitano descendesse in terra (il quale aveva in commissione dal nostro re di Portogallo che mai non descendesse in terra veruna, se prima non avessi pegno della sua persona), che l'altezza del detto re di Calicut gli mandasse in nave quegli uomini della città che 'l detto Alfonso Furtado aveva in memoria. Il detto re, intesa la detta imbasciata, recusò assai, dicendo che quelli uomini che gli addimandava erano molto vecchi e antichi, li quali non potriano entrar nel mare, ma che gli daria degli altri. Alfonso Furtado gli disse che non avea da prender se non quelli che gli richiedeva, secondo il ricordo avuto dal capitano e dal suo re di Portogallo. Il re si maravigliò assai di questo, e stetteno in differenzia duoi o tre giorni.
Finalmente il re si contentò di mandargli, e subito fu detto al capitano. E il capitano si mise in punto per discendere in terra e star duoi o tre dí, e levò con lui trenta uomini delli piú onorevoli e bene in ordine, co' suoi officiali, come servitori per un principe si conveniva, e levò tutto lo argento ch'avea per tutte le navi; e lasciò per capitano maggiore in suo luogo Sanchio da Tovar, al qual dette carico di fare onore a quegli uomini della terra che dati gli erano in pegno per lo capitano. E il dí sequente il re venne ad una casa che teneva giunta con la marina per ricevere il capitano, e di lí mandò li detti uomini di terra alle navi, li quali erano cinque uomini molto onorevoli e avevano con loro cento uomini di spada e targa, con li quali erano XXV o XXX tamburini; e il capitano uscí della nave con li suoi battelli, il quale già avea mandato in terra tutto quello che gli era necessario.
E dismontando il capitano, giunsero li detti cinque uomini della città, li quali non volevano entrar in nave fino a tanto che 'l capitano non dismontasse in terra: e su questo stetteno in contrasto un gran pezzo. Subito Ariscorea si mise in uno loro zambuco, cioè battello, e fece tanto che loro entrarono nella nave. E come il capitano dismontò in terra, lo vennero a ricevere molti gentiluomini, li quali lo pigliorono in braccio, e tutti quelli che con lui menava, tal che mai non toccorno co' piedi la terra, fino a tanto che furono dove era il re, qual stava in questo modo.

Della gran magnificenzia e pompa del re di Calicut,
e del presente fattoli dal capitano in nome del suo re.

Il re era in una casa alta, dove stava sedendo in una conca con due o tre cussini di seta sotto il braccio, e la coperta della conca era di panno di seta, che pareva come di porpora. E stava nudo dalla cintura in su, e da lí in giú aveva intorno uno panno di seta e di bambaso molto sottile e bianco, rivoltato intorno di lui con molti doppii e lavorato d'oro; e teneva in testa una berretta di broccato, fatta a modo di una celata lunga e molto alta; e aveva le orecchie forate, nelle quali aveva grandi pezzi d'oro con rubini di gran prezzo, e cosí di diamanti, e due perle molto grandi, una rotonda e l'altra come un pero, maggiore che una grande nocciuola. E teneva nelle braccia bracciali d'oro dal comito in su, pieni di ricche gioie e perle di gran valore, e avea alle gambe grandi ricchezze; e in uno dito del piede avea uno anello, in che stava uno rubino e carbone di gran lume e prezzo, e cosí nelli diti delle mani aveva anelli pieni di gioie, con rubini, smeraldi e diamanti, infra li quali ve n'era uno di grandezza d'una fava grande; e aveva due cinte d'oro piene di rubini, cinte sopra il panno, di modo che non han prezzo le richezze che teneva sopra di lui. E avea appresso di sé una catedra grande d'argento, la qual catedra, dove si appoggiava le braccia, era d'oro, e di drieto pieno di gioie e pietre preziose. Avea in casa uno corridor o pergamo con lo quale era venuto dalla sua casa maggiore, dove suol stare di continuo, il qual corridor è portato da uomini; questo corridor era ricco senza numero, e sonavano in quello da quindici o venti trombette d'argento e tre d'oro: era l'una d'esse della grandezza e peso che duoi uomini avean assai che portarla, e le bocche di queste tre erano piene di rubini. E avea anche appresso di lui quattro vasi d'argento e molti bronzini dorati, e assai candellieri di latone grandi e pieni d'olio e di stoppini, li quali erano accesi per la casa, che non era necessario, e li teneva per grandezza. E stava quivi un suo parente con cinque paggi in piede, e cosí duoi suoi fratelli, similmente con grande ricchezza sopra di loro; e stavano medesimamente molti altri gentiluomini onorevoli, li quali stavano piú da largo, quali aveano grandi ricchezze sopra di loro al modo del re.
E quando il capitano entrò, volse andare al re per baciarli la mano, e gli accennarono che si rattenesse, perché non era costume infra di loro che nessuno s'accostasse al re: e cosí stette saldo. Il re lo fece sentare per fargli onore, e cosí il capitano gli cominciò a dire la sua imbasciata, e gli fece legger la lettera del re di Portogallo, ch'era scritta in lingua arabica; e subito il capitano mandò a casa sua per lo presente delle cose che qui a basso diremo. Primamente un bacino d'argento per dar acqua alle mani, fatto di figure di rilievo, tutto dorato, molto grande; un rinfrescatoio d'argento dorato, col suo coperchio, lavorato similmente di figure di rilievo; una tazza grande d'argento lavorata al detto modo, e due mazze d'argento con le sue catene d'argento per li mazzieri, e quattro cussini grandi, cioè duoi di broccato e duoi di velluto cremesino.
Di piú ancora uno baldachino di broccato, con le sue franze d'oro e cremesino; e un tapedo grande, e duoi panni di razzo molto ricchi, uno di figure e l'altro di verdure; e piú uno bronzino d'argento dorato per dar l'acqua alle mani, della medesima opera ch'è il bacino. E come il re ebbe ricevuto questo presente e la lettera e l'imbasciata, mostrossi molto allegro e disse al capitano che andasse a quella casa che gli avea fatto mettere in ordine, e che 'l mandasse per gli uomini che gli avea dato in pegno alle navi, perché erano gentiluomini e non aveano né da mangiare né da bere né da dormire nel mare; e che se el detto capitano voleva pur andar alla nave che andasse, e il dí seguente torneria a rimandargli, e lui verria in terra a far tutto quello che gli fusse necessario.

Come, tornando il capitano alla nave, quelli che stavano in pegno si gittorno al mare,
dui de' quali furono ritenuti; e delli inconvenienti che per tal causa avvennero;
e come finalmente Ariscorea concluse col re l'accordo che voleva.

Il capitano si ritornò alla nave e lasciò in terra Alfonso Furtado con sette o otto uomini con lui, per attendere alla sua casa. Il capitano partendosi dalla spiaggia, subito uno zambucco di quelli di Calicut fu innanzi di lui alle navi, a dire a quelli che stavano in pegno come il capitano se ne ritornava. E costoro si lanciorono al mare, e Ariscorea, fattore principale, subito montò in un battello e prese duoi de' principali e duoi o tre famegli: e cosí gli altri fuggirono notando in terra. E in questo instante il capitano giunse alla nave e mandò a mettere quelli duoi principali da basso di coperta, e dipoi mandò a dire al re che lui arrivando avea trovato questo inconveniente, che uno suo scrivano l'avea fatto, e che lui dipoi avea mandato a ritenere quelli duoi, per rispetto che in terra gli restavano molti uomini delli suoi e cosí molta roba, e che sua serenità gliene mandasse e che lui li mandaria li duoi, li quali trattava molto bene. Con questa imbasciata se n'andorono dal re duoi Indiani di quelli che avevamo presi, e tutta quella notte il capitano stette aspettando la risposta. L'altro giorno il re se ne venne alla spiaggia con piú di dieci o dodicimila uomini, e le nostre genti che stavano in terra furono prese, ad effetto di mandarli con li suoi all'armada, per cambiarli con quelli che il capitano avea ritenuti. E stando cosí, vennero venti o trenta almadie, e li nostri battelli uscirono con li detti uomini che in pegno erano; e le almadie non aveano ardire di accostarsi alli detti battelli, per lo simile li nostri battelli alle loro almadie: e cosí andorono tutto quel giorno senza far cosa alcuna. E come ritornorono a terra con li nostri, cominciorono a far gran discortesia faccendoli paura, dicendo che gli voleano ammazzare. Li nostri stetteno quella notte in gran tribulazione.
Il giorno seguente il re tornò a mandare a dire al capitano che gli mandaria li suoi uomini e la sua roba in le almadie, senza portare arma alcuna, e cosí mandasse li suoi battelli. Il capitano subito li mandò e con loro Sanchio di Tovar, secondo capitano; giunsero dove stavan con le almadie e cominciorono a ricevere tutti gli argenti e tutto l'altro che in terra aveano, in modo che non restava salvo uno almofressa, cioè una balla dove era il letto e suoi fornimenti, e gli uomini quasi tutti. E stando cosí, uno di quelli gentiluomini che stavano in li nostri battelli, che Sanchio di Tovar teniva preso in braccio, si lanzò al mare. E quando li nostri che stavano nelle almadie viddero questo, incominciorono a superbire e sdegnarsi, di modo che gittorono tutti gli uomini dell'almadie al mare, e loro restorono soli nell'almadie. E nelli nostri battelli restò un vecchio gentiluomo, che era in pegno delli nostri, e duoi garzoni delli nostri restorono nelle sue almadie, che non poteron scampare. E l'altro giorno, avendo il capitano pietà di quel vecchio che stava per pegno, ed erano tre giorni che 'l non avea mangiato, lo mandò in terra e li dette tutte l'arme che erano restate in le navi di quelli che si lanzorono al mare, e mandò a dire al re che mandasse quelli duoi garzoni. E il re gli mandò, e dipoi si stette cosí tre o quattro giorni, che niuno non andò in terra, né di terra a noi venne persona.
Il capitano fece consiglio insieme con gli altri, e dicendo el fattore principale, se li mandasse il re di Calicut duoi uomini per segurtade, che lui anderebbe in terra, al capitano e gli altri parse bene quello che avea detto il fattore, peroché non sapeva se vi sarebbe alcun che osasse andare in terra. E subito uno cavaliere chiamato Francesco Chorea disse che lui andarebbe in terra a parlare al re, e cosí fu; e gli disse come Ariscorea fattore ordinava di venire in terra a fermar il trattato con sua serenità, e che li mandasse per pegno duoi mercatanti, cioè uno Guzzerate, mercatante molto ricco. Respose detto Moro guzzerate, qual era presente al re, che lui li mandaria duoi suoi nepoti: del che il re fu molto contento.
E l'altro giorno Francesco Chorea mandò la risposta al capitano, e subito Ariscorea se mise ad ordine, e gli uomini di pegno il re gli mandò alla nave, e Ariscorea se ne venne alla terra e in sua compagnia menò da otto o dieci uomini; e quel dí tardi Ariscorea ritornò alla nave a dormire, e l'altro giorno ritornò a terra per mandare ad effetto quanto ordinato era; gli uomini di pegno tuttavia restorono alla nave. Il re comandò che ne fusse data la miglior casa che fusse d'uno mercatante guzzerate, e a lui dette il carico che insegnasse al fattore il costume e tratto della terra: e cosí Ariscorea cominciò a negociar e far faccende. L'interprete che parlava per noi era arabico, di modo che non si poteva parlare al re senza mettersi Mori di mezzo, li quali sono mala gente ed erano molto contrarii a noi altri, di sorte che ognora usavano inganno, e ne vietavano che non mandassimo niuno alle navi. E quando il capitano vidde cosí, che ogni dí mandava uomini in terra e niuno ritornava con risposta, determinò di partirsi e comandò far vela. E noi, stando cosí presi in terra in una casa assai guardata da molta gente, vedemo come le navi se ne andavano. E il Guzzerato, per rispetto de' suoi nepoti che stavano nella nave, dette modo ad Ariscorea che mandasse uno garzone in una almadia alla nave: il qual garzone fece protesto al capitano, e vedendo il capitano il protesto di Ariscorea, si ritornò in porto.
E cosí cominciò Ariscorea a trattare con lo detto re, e concluse lo accordo fatto a poco a poco come lui voleva. E poi che questo Guzzerate ne stimolava assai per gli uomini suoi dati a pegno in la nave, il re ne consegnò ad uno Turco gran mercadante, il quale facesse i nostri negocii; e ne fece subito uscire di quella casa per un'altra piú appresso alla casa del detto Moro, e subito cominciamo a veder alcune mercanzie, delle quali ne compramo parte: e cosí stemmo duoi mesi e mezzo, avanti che 'l detto trattato si compisse di assettare, il quale compimmo con molta fatica di Ariscorea e di quelli che con lui stavano. E il trattato compiuto, li dette il detto re una casa giunta col mare, che aveva un giardino grande, nella qual casa messe Ariscorea una bandiera con le arme del re. E di questo trattato il detto re ne dette due lettere segnate di sua mano, delle quali era una di rame con lo suo signale scolpito di lattone, il quale avesse da restar nelle case della fattoria, e l'altra d'argento col suo segnale scolpito d'oro, e quello dovevamo levare con noi al nostro re di Portogallo. Le qual lettere fatte, subito Ariscorea ne venne alla nave e consegnò questa lettera d'argento al capitano, e levò in terra gli uomini che stavano per pegno; e de lí avanti cominciamo a fidarsi di loro, in modo che parea che stessimo nella nostra terra.

Come il capitano a preghere del re mandò con una sua caravella a combattere una nave grossa, qual presa consignò ed essa nave e il capitano di quella al re.

E un giorno stando cosí venne una nave lí, la quale andava di un regno per un altro, la qual nave aveva cinque elefanti, infra li quali ve n'aveva uno molto grande e di gran prezzo, perché era pratico in guerra: e la nave che li levava era molto grande e aveva molta gente armata. E come il re intese la venuta di dette navi, mandò a dire al capitano che lo pregava che andasse a pigliar quella nave, la qual levava uno elefante del qual lui avea voluto dare molti danari e non li aveano voluti; e il capitano li mandò a dire che lo farebbe, ma che li voleva ammazzare se non si volessino arrendere. Il re si contentò di questo e mandò uno Moro con esso loro, che fusse a vedere in che modo pigliaria la nave, e per parlare con loro che si dessino; e subito il capitano mandò una caravella di bombarda grossa e bene armata, con sessanta o settanta uomini, la quale fu una notte drieto ad essa nave senza poterla giugnere, e l'altro giorno sequente aggiunse sopra essa, dicendoli che si volesse rendere: e li Mori si messono a ridere, perché erano gente assai e la nave molto grande, e cominciorono a trarre con freccie. Quando il capitano della caravella vidde questo, mandò a sparare l'artiglieria, di modo che, desperata la detta nave, subito s'arrenderono, e cosí la levorono a Calicut con tutta la gente. Il re uscí fuora alla marina a vederli, e cosí fu il capitano della caravella a consignare il capitano della nave e la nave similmente al re, il quale si maravigliò assai come una caravella tanto piccola e con cosí poca gente potesse prendere una nave cosí grande, nella quale erano trecento uomini da battaglia: il qual re recevette la nave e li elefanti con gran piacere e sollazzo, e la caravella se tornò alle nave.

Descrizione della città di Calicut, e di costumi del re e del popolo.

La città è grande e non ha mura intorno, e ne' luochi della città v'è molto di voto, e le case sono larghe l'una dall'altra: sono di pietra e di calcina e infodrate d'intagli, in cima coperte di palme, e le porte loro sono grandi e ben lavorate intorno; e intorno delle case uno muro, dove tengono molti arbori e laghi d'acqua ne' quali si lavano, e pozzi d'acqua della qual bevano. E per la città sono altri laghi grandi di acqua, dove va il popolo minuto a lavarsi, e questo perché ogni dí si lavano due, tre e quattro volte tutto il corpo.
Il re è idolatra, ancora che gli altri abbino creduto che 'l sia cristiano, li quali non hanno inteso tanto de' suoi costumi quanto noi, che assai avemo negociato mercanzie a Calicut: il qual re chiamano Gnaffer, e cosí tutti i suoi gentiluomini e gente che lo servono sono uomini berrettini come Mori, e sono uomini ben disposti, e vanno dalla cintura in su nudi. Portano a torno di loro, in che vanno fasciati, panni di gottoni bianchi e fini e di altro colore; vanno discalzi, senza berretta, salvo li grandi signori, che portano berrette avellutate e di broccato, delle quali alcune sono molto alte. E portano l'orecchie forate, con molte gioie in quelli buchi; nelle brazze portano brazzaletti d'oro. Questi gentiluomini portano spada e targa in mano, e le spade nude, e sono nella punta piú larghe che 'l resto, e le targhe rotonde come rotelle d'Italia, molto leggieri, le quali sono negre e rosse; e sono gran giuocatori di spada e rotella, li maggiori del mondo, e non fanno altro officio, e di questi cosí fatti stanno alla corte senza numero. Maritansi con una moglie overo femina, invitando cinque overo sei, e quelli che sono piú loro amici, che dormino con la sua moglie, in modo che infra loro non è castità né vergogna, e le figliuole come sono di otto anni cominciano a guadagnare all'officio. Queste donne vanno nude cosí come gli uomini e portano sopra di loro grande ricchezza, e hanno li capelli come dipinti a maraviglia, e sono molto calde e pregano gli uomini che gli tolghino la virginità, perché stando vergini non trovano marito.
Queste genti mangiano due volte al giorno: non mangiano pane né beveno vino, né mangiano carne né pesce, se non riso, butiro, latte, zuccaro o frutti; inanzi che mangino si lavano, e dapoi lavati, se alcuni che non si fussero lavati gli toccassino, non mangiariano fino tanto che si tornassino a lavare, per modo che in questo fanno gran cerimonie. Tutto il giorno, cosí uomini come donne, vanno mangiando una foglia che se chiama betola, la quale fa la bocca vermiglia e li denti negri: e quelli che questo non fanno sono uomini di bassa sorte. Quando alcuno muore, perché deveno portare negro, se scurano li denti e non mangiano di questa foglia per certi mesi.

Come i preti detti bramini usano carnalmente con le mogli del re per onorarlo,
e della gran riverenza che 'l popolo porta al suo re.

Il re tien due mogli, e ogniuna di loro è accompagnata da dieci preti che chiaman bramini, e cadauno di loro dorme con esse carnalmente per onorare il re: per questa causa li figliuoli non ereditano lo regno, salvo li nepoti, figliuoli di sorella del re. E abitano in la casa del re piú de mille o millecinquecento donne, per piú magnificenzia del stado, le quali non hanno altro officio salvo di spazzare e di acquare la casa innanzi al detto re, per onde si voglia che vada, e adacquano con acqua mescolata con fecce di vacca. Le case del detto re sono molto grandi, e hanno in le dette case molte fontane d'acqua, nelle quali il re si lava.
E quando il re esce fuora, va in uno corridore molto ricco e lo levano duoi uomini, e cosí vanno con essi molti sonadori de instrumenti e molti gentiluomini con spade e rodelle e molti arcieri, e dinanzi le sue guardie e portieri, e uno baldachin in cima di lui, sí che li fanno piú onore che ad alcun re del mondo, perché nessuno non s'accosta a lui a tre o quattro passi, e quando gli danno alcuna cosa gliela danno con un ramo, perché non l'hanno da toccare. E cosí, quando parlano con lui, parlano con la testa bassa e la man dinanzi alla bocca, e nessun gentiluomo se li mostra davanti senza spada e rotella. Quando fanno riverenzia, si pongono la mano sopra la testa, e niuno officiale né uomo di bassa qualità non osa vedere il re né parlare con lui, e spezialmente li pescatori, che se uno gentiluomo va per una via e duoi pescatori li venissero incontro per la detta via, li detti pescatori o fuggono o riceveriano molte bastonate. Questi gentiluomini, quando more il re, e le loro mogli, bruciano il re con legni di sandalo per onore; la gente di bassa condizione sotterrano in terra, e li cuoprono la testa e le spalle con cenere. Portano la barba lunga.

D'una sorte di mercatanti guzzurati e de' costumi loro.

Sono grandi contatori e scrivani: scrivono in una foglia di palma, con una penna di ferro senza inchiostro. E cosí un'altra sorte di gentiluomini che sono grandi mercatanti, che si chiamano Guzurati, che sono d'una provincia chiamata Cambaia. Questi e li naturali sono idolatri, e adorano il sole e la luna e le vacche: se uno ammazzasse una vacca, lo ammazzariano. E questi Guzurati non mangiano alcuna cosa che riceva morte, né pane, né bevono vino; e se alcuno garzone mangia carne per errore, lo mandano fuora a dimandare per l'amor di Dio per il mondo, ancora che discendessono e fussero figliuoli di grandi signori e di mercatanti. Questi tali credono ad incanti e indovinatori. Sono uomini piú bianchi che li naturali di Calicut, portano li capelli molto lunghi e cosí la barba; vanno vestiti di bambaso fino, portano tocche, e li capelli involti come donne, e portano scarpe. E si maritano con una donna come noi: questi sono molto gelosi, tengono le loro mogli, che sono molto belle e caste. Sono mercadanti di panni e di tocche e gioie.

D'una altra sorte di mercatanti chiamati Zetires e dei lor costumi.

Sonvi altri mercanti che si chiamano Zetires, di un'altra provincia, e sono assai idolatri, e grandi mercanti di gioie e di perle e di oro e d'argento. Sono uomini piú negri, vanno nudi e portano le tocche piccole, e da basso portano cavigliere come di coda di bue e di cavallo. Queste genti sono li maggiori incantatori che siano al mondo, che ogni dí parlano col diavolo invisibilmente; e le mogli di questi sono molto scorrette in lussuria, cosí come le bestie.
In questa città sono Mori de la Mecha e di Turchia e di Babilonia e di Persia e di molte altre provincie. Sono gran mercanti e ricchi uomini, li quali tengono di tutte le mercanzie che vengono a questa città di Calicut, cioè gioie di molte sorti e di tocche molto ricche; hanno muschio, ambracan e belzuí, incenso, legno aloe, riobarbaro, porcellane, garofali, cannella, verzino, sandali, lacca, noci muschiate, macis. Tutto questo vien d'altre parti, dal zerzero e pevere, tamarindi, mirabolani e cassiafistula in fuora, quali nascono nella terra di Calicut, e alcuna cannella salvatica. Questi Mori sono tanto potenti e ricchi, che quasi comandano a tutta la terra di Calicut.

Del re di Narsinga e del gran numero di mogli ch'ei tiene, e come nella sua morte tutte le sue mogli si bruciano vive. Degli elefanti che tien detto re. Quai siano e' tempi della state e del verno loro. Di che mese si partino le navi della Mecca con le speziarie.

Nella montagna di questo regno vi è uno re molto grande e potente, che si chiama di Narsinga, e sono li popoli idolatri. Il re tien dugento o trecento mogli: il giorno che muore l'abbruciano, e tutte le moglie con esso. E cosí tutti gli altri che sono maritati, quando muoiono gli fanno una fossa nella quale l'abbruciano, e allora la sua moglie si veste piú riccamente che può, e tutti li suoi parenti con lei, con molti instrumenti e festa, e la menano alla fossa: ed ella va ballando a torno la fossa come vanno li gambari, la qual sta accesa piena di fuoco, e cosí si lascia cascar dentro; e li parenti stanno apparecchiati e presti con pignate d'oglio e butiro, e tanto tosto ch'ella è cascata dentro, gli lanciano le dette pignate sopra, accioché abbruci piú tosto
In questo regno sono molti cavalli e molti elefanti, con i quali fanno guerra, e gli tengono cosí insegnati e ammaestrati, che non li manca salvo il parlare e tutto intendono come persone umane: e questo abbiamo visto noi altri in Calicut. Gli elefanti che tiene il re, co' quali esso cavalca, sono li piú forzosi e feroci animali del mondo, di modo che duoi di loro tirano una nave in terra. E le navi di questa terra non navigano se non d'ottobre e novembre per fino a tutto marzo: in questi mesi è la loro estate, e gli altri mesi è l'inverno, nel quale non navigano le sue navi, ma tengonle in terra. Nel mese di novembre partono di Calicut le navi della Mecca con le speziarie, e levano al Zeiden, che è porto della Mecca, e di lí le portano al Cairo per terra in Alessandria.
Essendo circa tre mesi che stavamo in terra, e il trattato già affermato, e due delle nostre navi caricate di spezie, mandò il capitano un giorno in terra a dire al re che già eran passati tre mesi che gli stavamo nella sua terra, e non aveano caricato salvo due navi, e li Mori gli ascondano le mercanzie, e le navi della Mecca caricavano nascosamente e cosí si partivano; e che 'l detto capitano gli averia molto obligo in farli dar buono spaccio, perché il tempo della sua partita già s'approssimava. Il re gli rispose che gli faria dare tutte le mercanzie che 'l volesse, e che niuna nave de' Mori non caricaria fin a tanto che le nostre navi non fussino caricate e se alcuna nave de' Mori partisse, che 'l capitano la prendesse per veder se la nave avesse alcuna mercanzia, e la faria dare per lo prezzo che ditti Mori l'avessino comprata.

Come i Portoghesi furono assaliti all'improviso dai Mori e malmenati,
e Ariscorea fattor del re vi fu morto.

Alli XVI di decembre di ditto anno, stando Ariscorea a far conto con duoi fattori scrivani di due nostre navi, le quali già stavano caricate e per partirsi, partí una nave de' Mori con molte mercanzie. Il capitano la prese, e il capitano di quella nave de' Mori e li piú onorevoli di loro discenderono in terra e fecero gran lamenti e rumori, di modo che tutti li Mori si congregorono e furono a parlare al re, dicendogli che noi avevamo ragunato in terra piú ricchezze di quello avevamo portato nel suo regno, e che eravamo uomini ladri e rubbatori del mondo, e che avendo noi preso quella sua nave in sul porto, che faressemo da qui avanti, e che loro s'obbligavano di ammazzarci tutti, e sua altezza rubbasse la casa del fattore. Il re, come uomo avaro, dette luogo che ciò si facesse.
E non sapendo noi altri di questo cosa alcuna, andavano alcuni de' nostri in terra a far li fatti suoi per la città, e d'un tratto vedemmo venire tutto il popolo contra di loro, ammazzandogli e ferendogli. E ciò vedendo, uscimmo noi altri per dar loro soccorso, di modo che in essa spiaggia ammazzassemo sette over otto di loro, e loro de' nostri duoi o tre. Noi eravamo da circa settanta uomini con spada e cappa, e loro erano un numero infinito con lanze, spade, rotelle, archi e freccie: e ne astrinseno tanto che ci fu necessario ricorrere a casa, e nel ricorrervi fummo feriti circa cinque o sei uomini, e cosí serrassimo la porta con molta fatica. Essi ci combattevano la casa per tutte le parti, la quale era circondata d'un muro d'altezza d'un uomo a cavallo. Noi avevamo sette over otto balestre, con le quali ammazzassemo un monte di gente, per modo che si misero insieme piú di tremila uomini di guerra: il che veggendo, levassemo una bandiera in alto, accioché di nave ci mandassino soccorso. Li battelli vennero presso alla spiaggia, e di lí tiravano con le sue bombarde, e non facevan nulla. Allora li Mori cominciorono a romper le mura della casa, in modo che in tempo di mezza ora la messeno tutta per terra, a suono di trombetta e tamburini, con gran voce, e con piacere assai del re, il che potessemo comprendere per causa d'un suo cameriere che quivi vedemmo. E vedendo Ariscorea che non avevamo rimedio alcuno a resistere, perché già due ore ci combattevano tanto aspramente, per modo che noi non ci potevamo piú tenere, determinò che uscissemo fuora alla spiaggia rompendo per mezzo di loro, per vedere se li battelli ne potevano salvare: e cosí facemmo, e giungemmo la piú parte di noi fino a mettersi in acqua, e li battelli non osavano accostarsi per riceverci, e cosí per poco soccorso ammazzorno Ariscorea e con lui cinquanta e piú uomini. E noi scampammo notando in somma di venti persone, tutti molto feriti, infra li quali scampò un figliuolo del detto Ariscorea, che era d'undeci anni; e cosí entrammo nelli battelli quasi annegati. Il capitano di detti battelli era Sanchio di Tovar, perché il capitano maggiore stava ammalato: e cosí ci condussono alla nave.
Quando il capitan maggiore vidde questa destruzione e mal ricapito, mandò a prender dieci navi de' Mori che stavano nel porto e fece amazzare tutta la gente che si trovava in dette navi: e cosí ammazzassemo fino alla somma di cinquecento o seicento uomini, e trovassemo da venti o trenta che s'erano ascosti nel fondo della nave e sotto le mercanzie. E cosí rubbassemo e pigliassemo quello che dentro aveano: l'una avea dentro tre elefanti, li quali ammazzassemo e gli mangiassemo; e le navi discaricate abbrucciassemo tutte X. E l'altro giorno sequente le nostre navi s'accostorono piú a terra e bombardorono la città, di modo che ammazzammo infinita gente e facemmo molto danno; ed essi tiravano da terra con bombarde molto deboli. E stando cosí, passavano due navi al mare e andavano fino a Panderame, che sta di qui cinque leghe. E le navi andarono a dar in terra, dove stavano altre sette navi grandi in secco, e scaricarono di molta gente in detto luogo di Panderame: e cosí le bombardammo e ammazzammo molta gente, e non le potessemo prendere, perché stavano molto in secco. E subito il capitano determinò che andassimo a Cucchino, dove caricammo le navi.

Come andando a Cucchino, regno discosto da Calicut 30 leghe, abbruciorono due navi cariche di Calicut; e come il re di detto luogo ebbe gran piacer del giunger loro alla sua terra.

E partimmo per Cuchino, ch'è da Calicut trenta leghe ed è regno separato, e sono idolatri della medesima lingua di Calicut. E andando cosí al nostro cammino, trovammo due navi di Calicut caricate di riso e andammo drieto di loro, e le genti fuggirono con li battelli in terra, e noi pigliammo le navi: vedendo il capitano che non portavano mercanzie, le mandò abbruciate. E arrivammo a Cucchino alli XXIIII di decembre, e gettammo l'ancora nella bocca d'un fiume. Il capitano mandò in terra un pover'uomo di nazione guzzerate, che per sua voluntade si partí di Calicut per venire a Portogallo, e fu a dire al re quanto a noi altri era accaduto in Calicut, e che il capitano gli mandava a dire che voleva caricare le sue navi nel suo regno, e per pagamento d'esse portava danari e mercanzie. Il re gli rispose che molto si doleva che gli fussi stata fatta tanta ingiuria, e che gli avea grande appiacere che fussimo giunti nella sua terra, perché egli sapeva quanta buona gente eravamo, e tutto quello che noi volessimo faria. Il Guzzerate che fu in terra disse al detto re che, per andar la nostra gente in terra sicura, era bisogno qualche securtade, la quale si faceva uomo per uomo, e che li mandasse per pegno qualche uno de' suoi uomini e subito li nostri delle navi anderiano in terra. Il re mandò subito duoi uomini de' suoi principali con altri mercatanti, e con alcune mostre di mercanzie e prezii, che andassino alle navi e che dicessero al capitano che facesse tutto quello che lui volesse. Il capitano mandò subito il fattore in terra con quattro o cinque uomini, con ordine che comprassino mercanzie, tuttavia ritenendo con lui gli uomini per pegno, trattandoli molto onorevolmente: e ogni dí si cambiavano, perché li gentiluomini di quelle parti non mangiano in mare, e se per ventura mangiasseno non possono piú vedere il re. E cosí stemmo dodici o quindici dí caricando le navi.

Come venne una armata di Calicut per combattere le navi de' Portoghesi, e come giunsero al regno Cananor, il re del qual luoco gli fece molte offerte, e con molta diligenzia li mandò 400 cantari di cannella che mancava per compir il lor carico.

Discosto da Cucchino sta un luogo chiamato Carangollor, nel qual luogo sono cristiani, giudei, mori e caferis; e in questo luogo trovammo una giudea di Sibilia, la qual venne per la via del Cairo e de la Mecca, e qui venneno anche con noi altri duoi cristiani, li quali dicevano che voleano passare a Roma e a Ierusalem. Il capitano ebbe gran piacere di questi duoi uomini. E stando già tutte le navi apparecchiate per caricare, venne una armata di Calicut, nella qual era da ottanta overo ottantacinque vele, infra le quali ve n'erano XXV molto grandi. Il re, come ebbe nuova di questa armata che veniva, mandò a dire al capitano se voleva combattere con loro, che li mandaria navi e gente; il capitano gli rispose che non era necessario. E la detta armata, per esser già di notte, sorgette lontana da noi una lega e mezza. Il capitano, come si fece notte, mandò a dar alte le vele, menando con seco gli uomini che lui teneva in pegno per quelli che restorono in terra, che furono uomini sette; e gli parse che sbaratteria l'armata senza altro soccorso, ma la notte non fece vento per andar sopra l'armata di Calicut.
Il giorno sequente, che fu alli X di zennaro del 1501, andavamo appresso a loro, e loro veniano appresso a noi, di modo che aggiungessemo l'una l'altra. Faccendo il capitano determinazione di combattere con esse, e stando già tanto appresso quant'è il trar d'una bombarda, s'accorse che Sanchio da Tovar, secondo capitano, con la sua nave e un altro navilio erano restati adrieto, di modo ch'el capitano, vedendo non v'esser ordine, determinò insieme con gli altri di levar suo cammino per Portogallo, donde avevamo il vento in poppe. Nondimeno l'armata di Calicut ci seguitò tutto quel giorno, fino ad un'ora di notte, di modo che ci perdessemo di vista. E cosí il capitano deliberò di venirsene a Portogallo, lassando li suoi sette uomini con lo fattore in terra, e levando li duoi di Cucchino con noi, li quali cominciammo accarezzare pregandoli che volessero mangiare, perché già erano tre giorni passati che non aveano mangiato: e cosí mangiorono con gran pena e passione, e noi ce ne venimmo al nostro cammino.
Adí XV zennaro giungemmo ad un regno di qua di Calicut, che si chiama Cananor, ch'è di caferis, della lingua a modo di Calicut; e passando pel detto regno, il re mandò a dire al capitano che avea gran dispiacere che lui non fosse andato al suo regno, e che gli pregava che gettassemo quivi l'ancora, e che se non fossemo caricati, lui ci caricaria. Udendo cosí, il capitano sorgette quivi, e mandò un Guzzerate in terra a dirgli come le navi erano già caricate, e che non avevano di bisogno salvo di 100 baare di cannella, che sono 400 cantari. E subito il re gli mandò alle navi con molta diligenzia la detta cannella, fidandosi molto di noi, e il capitano la mandò a pagare in tanti crociati: e ne fu portata dipoi tanta, che non avea luogo dove metterla. Il re mandò a dire al capitano che, se restava per non aver danari, per questo non la lasciassimo di caricare a nostra volontà, e che al viaggio di ritorno la pagaressimo, perché ben avea inteso come il re di Calicut ne avea rubato, e quanto buona gente e di verità eravamo. Il capitano molto lo ringraziò e mostrò al messaggiero, cioè allo imbasciatore, tre o quattromila crociati che ci avanzavano, e cosí il re gli mandò a dire se voleva piú alcuna cosa: il capitano gli rispose di no, salvo che sua altezza mandasse uno uomo per vedere le cose di Portogallo. Il re subito mandò un gentiluomo che venisse con noi a Portogallo, e gli uomini di Cucchino ch'erano restati con noi in nave scrisseno al suo re come essi veniano per Portogallo, e cosí medesimamente scrisse il capitano al fattore che ivi era restato: e in questo luogo non stessemo piú d'un giorno, e cominciammo a traversare il colfo per Melinde.
Nell'ultimo giorno di zennaro eravamo a mezzo il colfo e trovammo una nave di Cambaia che veniva per Melinde, e facemmola dimandare, parendoci che fusse nave della Mecca, e prendemmola: la quale venia molto ricca, caricata con piú di dugento uomini e donne. E quando il capitano intese che erano di Cambaia, la lasciò andare al suo viaggio, fuor che uno pilotto che gli tolse. E cosí loro si partirno per il lor cammino e noi altri per il nostro.

Come la nave del capitano Sanchio da Tovar, carica di speziarie, dette in secco e s'aperse, di modo che non si salvò nulla, salvo la gente in camicia.

Alli XII di febraro, quasi sul far della notte, tutti li pilotti e cosí gli altri che avean le carte da navigare dicevan che eravamo presso a terra; e Sanchio da Tovar, che era capitano di una nave grande, disse che lui voleva andare avanti con la sua nave, e mandò a mettere tutte le vele, e si pose avanti l'altre. E quando fu l'ora di mezzanotte, dette in secco e cominciò a far fuoco: e quando il capitano lo vidde, mandò a sorgere, e la notte tanto crebbe il vento che non potevamo comportare. E come alquanto mancò il vento, il capitano mandò subito li battelli alla nave per veder se la poteva salvare; se non, che l'abbruciassero e che se ne venissero con la gente: la nave era già aperta, e posta in luogo donde non potevano uscire. Il vento cresceva tanto che l'altre navi stavano a gran pericolo, per modo che fu necessario governarsi a mano, per che non si salvò nulla, salvo la gente in camicia; e la nave era di dugento tonelli e caricata di speziarie.
E di lí ci partimmo cinque navi e passammo per Melinde, dove non potemmo entrare; e cosí ne venimmo a Monzambique, onde tollessemo acqua e legne e ponemmo la nave in secco. E di lí mandò il capitano maggiore Sanchio da Tovar in una caravellina, con un pilotto che pigliammo, nell'isola di Ceffalla, per sapere che cosa era quivi; e noi restammo lí ad acconciar la nave, e di lí ci partissemo quattro e andammo ad una angra, cioè a un porto, dove femmo una gran pescaria de pagri. E di quivi partendoci, ci sopraggiunse una fortuna, che ne fece tornare indrieto assai con l'arbore a secco, e lí perdemmo una nave di vista, sí che restammo in tre.

Come di tutta l'armata che fu per Calicut ritornoron a Portogallo solamente sei navi. E dalla terra chiamata Beseneghe, e della isola Cefalla.

Giungemmo al Capo di Buona Speranza il dí di pasqua fiorita, e di lí ne dette buon tempo, col quale attraversassemo e venissemo alla prima terra giunta col Capo Verde, detta Beseneghe, dove trovammo tre navili che 'l nostro re di Portogallo mandava a discoprire la terra nuova, che noi avevamo trovata quando andavamo a Calicut. E cosí ne dette nuova d'una nave che perdemmo di vista, quando andavamo in là, la quale fu alla bocca dello stretto della Mecca, e stette ad una città donde li tolseno il battello con tutta la gente che avea. E cosí veniva la nave solamente con sei uomini, la maggior parte ammalati, e non beveano se non acqua che coglievano nella nave quando pioveva. E cosí venimmo e giungemmo in questa città di Lisbona nella fine di luglio.
Un dí dipoi venne la nave che perdemmo di vista quando tornavamo, e Sanchio da Tovar con la caravella che fu a Ceffalla, il quale dice che è una piccola isola dentro la bocca d'un fiume, populata da Mori; e vien l'oro portato lí da la montagna dove è la mina, e da gentili, che sono altra gente che non sono Mori, e recano a questa isola lo detto oro per altre mercanzie. E Sanchio di Tovar, quando di là giunse, vi trovò molte navi de Mori, e prese un Moro per suo sicuro d'un cristiano di Arabia che mandò in terra. E cosí stette due o tre giorni, e non venendo il cristiano rescatto suo se ne venne con il Moro per Portogallo, lassando là il cristiano. Di modo che, dell'armata che fu per Calicut, vennero sei navi e tutte l'altre si perdettero.

Di Amerigo Vespucci fiorentino lettera prima, drizzata al magnifico M. Pietro Soderini, gonfaloniere perpetuo della magnifica ed excelsa signoria di Firenze, di due viaggi fatti per il serenissimo re di Portogallo.


Del porto detto Beseneghe; dove un giovene dell'armata sceso in terra fu dalle donne ammazzato a tradimento e arrostito; del luoco detto Capo di Santo Agostino; dell'isole degli Azori.

Stando in Sibilia, riposandomi da molte mie fatiche ch'in duoi viaggi fatti per il serenissimo re don Fernando di Castiglia nell'Indie occidentali avevo passate, e con volontà di ritornare di nuovo alla terra delle perle, quando la fortuna, non contenta de' miei travagli, fece che venne in pensiero a questo serenissimo re don Manuello di Portogallo volersi servire di me; e stando in Sibilia fuori d'ogni pensiero di venire a Portogallo, mi venne un messaggiero con lettere di sua real corona, che mi comandava ch'io venisse qui a Lisbona a parlarli, promettendo farmi molte grazie. Io fui consigliato di non partirmi allora, e però espeditti el messaggiero dicendogli ch'io stava male, e che quando fussi risanato, e che sua altezza si volesse pur servir di me, che farei quanto mi comandasse. Laonde che, visto sua altezza che 'l non mi poteva avere, deliberò di mandare per me Giuliano di Bartolomeo del Giocondo, stante qui in Lisbona, con commissione che in ogni modo mi conducesse. Venne el detto Giuliano a Sibilia, per la venuta e prieghi del quale fui forzato a venire; e fu tenuta a male la mia partita da quanti mi conoscevano, per essermi partito di Castiglia, dove mi era fatto onore e il re mi teneva in bona reputazione: peggio fu che mi parti insalutato ospite. E appresentatomi innanzi a questo re, mostrò aver piacere della mia venuta, e pregommi ch'io andassi in compagnia di tre sue navi, che stavano in ordine per andar a discoprir nuove terre: e perché un priego d'un re è comandamento, ebbi a consentire a quanto mi comandava.
E partimmo di questo porto di Lisbona tre navi di conserva adí X di maggio 1501, e pigliammo nostro pareggio diritti all'isola della Gran Canaria, e passammo senza posare a vista di essa. E di qui fummo costeggiando la costa d'Africa per la parte occidentale, nella qual costa facemmo nostra pescaria, d'una sorte pesci che si chiamano pargos, dove ci tenemmo tre giorni. E di qui fummo nella costa d'Etiopia a un porto che si dice Beseneghe, che sta dentro dalla torrida zona, sopra la quale alza el polo del settentrione 14 gradi e mezo, situato nel primo clima: dove stemmo 11 giorni pigliando acqua e legne. E perché mia intenzione era di navigare verso ostro per el golfo Atlantico, partimmo di questo porto di Etiopia e navigammo per libeccio, pigliando una quarta di mezzodí, tanto che in 67 giorni arrivammo a una terra che stava dal detto porto 700 leghe verso libeccio. E in quelli 67 giorni avemmo el peggior tempo che mai avesse uomo che navigasse el mare, per le molte pioggie, tempeste e fortune che ci dettono, perché fummo in tempo molto contrario, a causa che 'l forzo della nostra navigazione fu di continuo gionta con la linea dell'equinoziale nel mese di giugno, ch'è inverno, e trovammo el dí con la notte essere eguale, e trovammoci avere l'ombra verso mezzodí di continuo. Piacque a Dio mostrarci terra nova, che fu il 17 agosto, dove surgemmo a mezza lega e buttammo fuori li nostri battelli; poi andammo a veder la terra se era abitata da gente e di che sorte, e trovammo essere abitata da genti ch'erano peggiori ch'animali, come V.S. intenderà.
In questo principio non vedemmo gente, ma ben conoscemmo ch'era populata, per molti segnali ch'in quella vedemmo. Pigliammo la possessione di essa per questo serenissimo re, la quale trovammo esser terra molto amena e verde e di buona apparenza: stava oltra della linea equinoziale verso ostro 5 gradi. Poi ci ritornammo alle navi, e perché tenevamo gran necessità d'acqua e di legne, accordammo l'altro giorno di ritornare a terra per proveder delle cose necessarie. E stando in terra, ci vedemmo una gente nella sommità d'un monte, che stavano mirande e non osavano discendere a basso: erano nudi, e del medesimo colore e fazione ch'erono gli altri passati scoperti per me per il re di Castiglia. E stando con loro travagliando perché venissino a parlare con noi, mai non gli potemmo assicurare, non volendosi fidar di noi; e visto la loro ostinazione, e di già essendo tardi, ce ne tornammo alle navi lasciando loro in terra molti sonagli e specchi e altre cose a sua vista: e come fummo larghi al mare, discesono dal monte e vennono per le cose che gli lassammo, faccendosi di esse gran maraviglia. E per questo giorno non ci provedemmo se non d'acqua; l'altra mattina vedemmo dalle navi che la gente di terra facevono molte fumate, e noi, pensando che ne chiamassino, andammo a terra, dove trovammo ch'erano venuti molti populi: e tuttavia stavano larghi da noi e ne accennavano che fossimo con loro drento per la terra, per onde si mossono dua nostri cristiani a domandare al capitano che desse lor licenzia, che si volevano mettere a pericolo di voler andare con loro in terra, per vedere che gente erano e se ne tenevano alcuna ricchezza o spezieria o drogheria. E tanto pregorono che 'l capitano restò contento, e messonsi a ordine con molte cose di riscatto, si partirono da noi con ordine che non stessino piú di cinque giorni a tornare, perché tanto gli aspettaremmo, e pigliorono il lor cammino per la terra, e noi nelle navi aspettandogli. E quasi ogni giorno veniva gente alla spiaggia, ma mai non ne volsero parlare.
E il settimo giorno andammo in terra e trovammo ch'avean menato con loro le sue donne; e come saltammo in terra, gli uomini della terra mandarono molte delle lor donne a parlar con noi, dove, vedendo che non si assicuravono, deliberammo di mandar a loro un uomo de' nostri, che fu un giovine che molto faceva il gagliardo. E noi per assicurarlo entrammo nei battelli, e lui si fu per le donne; e come gionse a esse, gli feciono un gran cerchio intorno: toccandolo e mirandolo si maravigliavono. E stando in questo, vedemmo venire una donna dal monte che portava un gran palo nella mano, e gionta donde stava el nostro cristiano gli venne per adrieto e, alzato el bastone, gli dette cosí gran colpo che lo distese morto in terra: e in un subbito l'altre donne lo presero per i piedi e lo strascinorono verso 'l monte, e gli uomini saltorono verso la spiaggia, e con loro archi e saette a saettarne; e messono la nostra gente in tanta paura, essendo surti con i battelli sopra le secche che stavano in terra, che per le molte freccie ch'essi tiravano nei battelli nessuno ardiva di pigliar l'arme. Pure disparamo loro quattro tiri di bombarda, e non accertorono, salvo che, udito el tuono, tutti fuggirono verso 'l monte, dove erano già le donne, facendo pezzi del cristiano: e a un gran fuoco che avevon fatto lo stavano arrostendo a vista nostra, mostrandoci molti pezzi e mangiandoseli, e gli uomini faccendoci segnali, con loro cenni, come avevan morti gli altri dua cristiani e mangiatoseli. Il che ci pesò molto, vedendo con i nostri occhi la crudeltà che facevano del morto: a tutti noi fu ingiuria intollerabile, e stando di proposito piú di quaranta di noi di saltare in terra, e vendicare tanta cruda morte e atto bestiale e inumano, el capitan maggiore non volle consentire. E si restarono sazii di tanta ingiuria, e noi ci partimmo da loro con mala volontà e con molta vergogna nostra, per cagione del nostro capitano.
Partimmo di questo luogo e cominciammo nostra navigazione fra levante e sirocco, che cosí corre la terra, e facemmo molte scale, e mai trovammo gente che con esso noi volessino conversare. E cosí navigammo tanto che trovammo che la terra faceva la volta per libeccio, e come voltammo un cavo, al quale mettemmo nome el Capo di Sant'Agostino, cominciammo a navigare per libeccio: ed è discosto questo cavo dalla predetta terra che vedemmo, dove ammazzorono i cristiani, 150 leghe verso levante, e sta questo cavo 8 gradi fuori della linea equinoziale vers'ostro. E navigando avemmo un giorno vista di molta gente, che stavano alla spiaggia per vedere la maraviglia delle nostre navi; e cessando di navigare, fummo alla volta loro e sorgemmo in buon luogo, e fummo coi battelli a terra, e trovammo la gente esser di miglior condizione che la passata, e ancor che ci fosse travaglio di domesticargli, tuttavia ce gli facemmo amici e trattammo con loro. In questo luogo stemmo cinque giorni, e qui trovammo cassia fistola molto grossa e verde e secca in cime degli arbori. Accordammo in questo luogo levar un paio di uomini, perché imparassino la lingua, e cosí vennono tre di loro volontà per venire a Portogallo; e partimmo poi di questo porto, sempre navigando per libeccio a vista di terra, di continuo faccendo di molte scale e parlando con infinita gente. E tanto andammo verso l'ostro che già stavamo fuori del tropico di Capricorno, donde el polo antartico s'alzava sopra l'orizonte 32 gradi, e di già avevamo perduto del tutto l'Orsa minore, e la maggiore ci stava tanto bassa che apena si mostrava al fine dell'orizonte, e ci reggevamo per le stelle dell'altro polo dell'antartico, le quali sono molte e molto maggiori e piú lucenti che quelle di questo nostro polo: e della maggior parte di esse trassi le lor figure, e massime di quelle della prima magnitudine, con la dechiarazion di lor circuli che facevan intorno al polo dell'ostro, con la dechiarazion de' lor diametri e semidiametri, come si potrà veder nel sommario delle mie navigazioni. Corremmo di questa nostra costa appresso di 750 leghe: le 150 dal Cavo di Sant'Agostino verso el ponente, e le 600 verso el libeccio. Volendo raccontare le cose ch'in questa costa viddi e quello che passammo, non mi bastarebbono altretanti fogli: e in questa costa non vedemmo cosa di profitto, eccetto infiniti arbori di verzino e di cassia, e altre maraviglie della natura che saria lungo raccontare.
E di già essendo stati nel viaggio ben dieci mesi, e visto ch'in questa terra non trovammo cosa di minera alcuna, accordammo di espedirci di essa e andarci a commettere al mare per altra parte, e fatto nostro consiglio fu deliberato che si seguisse quella navigazione che mi paresse bene, e tutto fu rimesso in me il comandare dell'armata. E allora comandai che tutta la gente e armata si provedessi di acqua e di legne per sei mesi, che tanto giudicorono gli ufficiali delle navi che potevamo navigare con esse. Fatto nostro provedimento di questa terra, cominciammo nostra navigazione per el vento sirocco, e fu il 15 di febraio, quando già el sole s'andava appressando all'equinozio e tornava verso questo nostro emisperio del settentrione. E tanto navigammo per questo vento, che ci trovammo tanto alti che 'l polo antartico ci stava alto fora del nostro orizonte ben 52 gradi, e di già stavamo discosti dal porto di dove partimmo ben 500 leghe per sirocco: e questo fu il 3 d'aprile. E in questo giorno cominciò una fortuna in mare tanto forzosa che ne fece amainare del tutto le nostre vele, e correvamo con arbero secco con molto vento, ch'era libeccio, con grandissimi mari e l'aria molto fortunevole: e tanta era la rabbia del mare che tutta l'armata stava con gran timore. Le notti eron molto grandi, che notte tenemmo il 7 d'aprile che fu di 15 ore, perché il sole stava nel fine di Aries e in questa regione era lo inverno, come ben può considerare V.S..
E andando in questa fortuna, adí 7 d'aprile avemmo vista di nuova terra, della quale corremmo circa di 20 leghe e la trovammo tutta costa brava, e non vedemmo in essa porto alcuno né gente, credo perch'era tanto el freddo che nessuno dell'armata ci poteva remediare né sopportarlo. Di modo che, vistoci in tanto pericolo e in tanta fortuna, ch'a pena potevamo aver vista l'una nave dell'altra, per i gran mari che facevono e per la grande oscurità del tempo, accordammo con el capitano maggiore far segnale all'armata ch'arrivasse, e lasciammo la terra e se ne tornassimo al cammino di Portogallo: e fu molto buon consiglio, che certo è che, se tardavamo quella notte, tutti ci perdevamo. Per il che pigliammo il vento in poppa, e la notte e il giorno sequente crebbe tanto la fortuna che dubitammo perderci, e avemmo di far peregrini e altre cerimonie, com'è usanza di marinari per tali tempi. Corremmo 5 giorni con il vento in poppe con il trinchetto solo, e questo ben basso; e in questi dí navigammo 250 leghe, e tuttavia appressandoci alla linea dell'equinoziale, e in aria e in mari piú temperati: e piacque a Dio scamparci di tanto pericolo. E la nostra navigazione era per el vento infra tramontana e greco, perché nostra intenzione era di andare a riconoscere la costa d'Etiopia, che stavamo discosto da essa 1300 leghe per el golfo del mar Atlantico: e con la grazia di Dio a' 10 di maggio fummo in essa, a una terra vers'ostro che dicesi la Serra Liona, dove stemmo 15 giorni pigliando nostro rinfrescamento. E di qui poi partimmo navigando verso l'isole degli Azori, che sono discoste da questo luogo della Serra circa di 750 leghe, e giongessimo a esse isole nel fine di luglio, dove stemmo altri 15 giorni pigliando alcuna recreazione.
Dapoi partimmo da esse per Lisbona, perché stavamo piú all'occidente 300 leghe, ed entrammo per questo porto di Lisbona il 7 di settembre del 1502 a buon salvamento, Dio rengraziato sia, con solo due navi, perché l'altra ardemmo nella Serra Liona perché non poteva piú navigare. Stessimo in questo viaggio cerca 15 mesi e giorni undeci, e navigammo senza veder la stella tramontana o l'Orsa maggiore e minore, che si dice el Corno, e si reggemmo per le stelle dell'altro polo. Questo è quanto viddi in questo viaggio, fatto per el serenissimo re de Portogallo.


Di Amerigo Vespucci lettera seconda.

Come la nave del capitano maggiore dette in un scoglio e si aperse. Di un porto che scopersero, qual chiamorono la Baia di Tutti i Santi. E come in un altro porto fecero una fortezza.

Restami dire le cose per me viste nel secondo viaggio per questo serenissimo re, e per essere oramai stracco, e anche perché questo viaggio non si forní secondo ch'io levavo el proposito, per una desgrazia che ne accadde nel golfo del mare Atlantico, come nel processo sotto brevità intenderà V.S., m'ingegnerò d'esser breve.
Partimmo di questo porto di Lisbona sei navi di conserva, con proposito di andare a scoprir una città verso l'oriente che si dice Melacca, della quale si ha nuove esser molto ricca, e che è come el magazino di tutte le navi che vengono del mar Gangetico e del mar Indico, come è Calis camera di tutti i navili che passano di levante a ponente. E questa Melacca è piú al levante che Calicut e in molto piú alta parte del mezzodí, perché sappiamo che sta in altezza di tre gradi del nostro polo. Partimmo el giorno 10 di maggio 1503 e fossimo diritti alle isole del Capoverde, dove smontammo e pigliammo ogni sorte di rinfrescamento. E stati 13 giorni, di qui partimmo a nostro viaggio navigando per el vento sirocco; e come el nostro capitan maggior fusse uomo prosontuoso e bizarro, volse andare a riconoscere la Serra Liona, montagna della Etiopia australe, senza tener necessità alcuna, se non per farsi vedere ch'era capitano di sei navi, contro la volontà di tutti noi altri capitani. E cosí navigando, quando fummo appresso la detta terra furon tante le fortune che ci dettono, e con esse il tempo contrario, che, stando a vista di essa ben quattro giorni, mai ci lasciò el mal tempo pigliar terra, di modo che fummo forzati di tornare alla nostra navigazione vera e lassare la detta Serra.
E navigando di qui al suduest, ch'è il vento fra mezzodí e garbino, quando fummo navigati ben 300 leghe per la grandezza di questo mare, stando di già oltra la linea equinoziale vers'ostro 3 gradi, si discoperse una terra, che potevamo esser lontani allora da essa 22 leghe, della quale si maravigliammo: e trovammo ch'era un'isola nel mezzo del mare, ed era molto alta cosa e ben maravigliosa della natura, perché non era piú che due leghe di longo e una di largo, la qual isola mai non fu abitata da genta alcuna. E fu mala isola per tutta l'armata, perché saprà V.S. che, per el mal consiglio e reggimento del nostro capitano maggior, si perse qui la sua nave, perché dette con essa in un scoglio e si aperse, la notte di san Lorenzo, che è adí dieci d'agosto, e se ne andò a fondi, non salvandosi di essa cosa alcuna se non la gente: era nave di 300 tonelli, nella quale andava tutta l'importanza dell'armata. E come l'armata tutta travagliasse in rimediarli, el capitano mi comandò ch'io andassi con la mia nave alla detta isola a cercare un buon surgidore, dove potessino surgere tutte le navi; e perché il mio battello, armato con nove mei marinari, era in servigio e aiuto di alleggerir la nave, non volse che lo levassi e ch'io fussi senz'esso, dicendomi che me lo leverebbono all'isola. Partimmi dell'armata, come mi comandò, per l'isola senza battello e con meno la mitade de' miei marinari, e fui alla detta isola, ch'era distante circa 4 leghe, nella quale trovai un bonissimo porto, dove ben sicuramente potevano surgere tutte le navi: e qui aspettai el mio capitano e l'armata ben 8 giorni, e mai non vennono, di modo che stavamo molto malcontenti, e le genti che m'erano restate nella nave stavano con tanta paura che non gli potevo consolare.
E stando cosí, l'ottavo giorno vedemmo venire una nave per il mare, e di paura che non ci potesse vedere, ci levammo con la nostra nave e andammo a essa, pensando che mi portasse el mio battello e gente; e come ci accostammo, dapoi salutata, ci disse come la capitana era ita in fondo e come la gente s'era salvata, e che il mio battello e gente restava con l'armata, la qual s'era ita per quel mare avanti: che ci fu tanta grave passione qual può pensare V.S., per trovarci 1000 leghe discosto da Lisbona, e in golfo, e con poca gente. Nondimeno, voltato il viso alla fortuna, andammo tuttavia innanzi, e tornati all'isola ci fornimmo di acqua e di legne con el battello della mia conserva. La qual isola trovammo disabitata, e teneva molte acque vive e dolci, infinitissimi arbori, piena di tanti uccelli marini e terrestri ch'erono senza numero; ed eron tanto semplici che si lasciavon pigliar con mano, e tanti ne pigliammo che caricammo un battello di essi; altro animal non vedemmo, salvo topi molto grandi e ramarri con due codi e alcune serpi.
E fatta nostra provisione, ci partimmo per el vento fra mezzodí e libeccio, perché tenevamo un ordine del re, che ne comandava che qualunque delle navi si perdesse, o dell'armata o del suo capitano, drizzasse el suo cammino verso la terra scoperta al viaggio passato. E cosí navigati a detta terra, discoprimmo un porto, che gli mettemmo nome la Baia di Tutti e' Santi; e piacque a Dio di darne tanto buon tempo che in dicessette giorni fummo a pigliar terra in esso, ch'era distante dall'isola ben 300 leghe, dove non trovammo né il nostro capitano né nessun'altra nave dell'armata: nel qual porto aspettammo ben due mesi e quattro giorni. E visto che non veniva ricapito alcuno, deliberammo la conserva e io correr la costa, e navigammo piú innanzi 260 leghe, tanto che giongemmo in un porto dove accordammo far una fortezza, e la facemmo e lasciammo in essa ventiquattro uomini cristiani, che aveva la mia conserva raccolti della nave capitana che s'era perduta. Nel qual porto stemmo cinque mesi in far la fortezza e caricare nostre navi di verzino, perché non potevamo andare piú innanzi, per cagion che non tenevamo genti e ne mancavan molti apparecchi.
Fatto tutto questo, accordammo di tornare a Portogallo, che ei stava per el vento fra greco e tramontana, e lassamo li ventiquattro uomini nella fortezza, con mantenimento per sei mesi e dodeci bombarde e molt'altre arme; e pacificamo tutta la gente di terra, della quale non s'è fatto menzione in questo viaggio, non perché non vedessimo e praticassemo con infinita gente di essa, perché fossimo in terra dentro ben 30 uomini 40 leghe, dove viddi tante cose che per molti rispetti le lascio di dire, riservandole alle mie 4 giornate. Questa terra sta oltra della linea equinoziale alla parte d'ostro 18 gradi, e fuora del mantenimento di Lisbona 57 gradi piú all'occidente, secondo che mostrano li nostri instrumenti. E fatto tutto questo, ci spedimmo da' cristiani e dalla detta terra e cominciammo nostra navigazione al nornodeste, ch'è vento fra tramontana e greco, con proposito di andare a drittura a questa città di Lisbona. E in 77 giorni, dapoi tanti travagli e pericoli, entrammo in questo porto adí 18 di giugno del 1504, Dio lodato, dove fummo molto ben ricevuti e fora d'ogni credere, perché tutta la città ci teneva perduti, perché l'altre navi dell'armata tutte s'erano perdute per la superbia e pazzia del nostro capitano, che cosí paga Dio la superbia.
E al presente mi trovo qui in Lisbona, e non so quello ch'il re vorrà far di me, che molto desidero riposarmi. El presente apportatore, ch'è Benvenuto di Domenico Benvenuti, dirà a V.S. di mio esser e d'alcune cose che si sono lasciate di dire, per qualche rispetto, perché egli le ha viste e sentite. Io sono ito restringendo la lettera quanto ho potuto, e si è lasciato a dire molte cose naturali, volendomi rapportar a lui. V.S. mi escusarà, supplicandola a tenermi nel numero de' suoi servitori; e gli raccomando ser Antonio Vespucci mio fratello e tutta la casa mia; resto pregando Dio che prosperi la vita e onor de V.S. ed esalti e accresca lo stato di cotesta magnifica ed excelsa republica, come la desidera.


Sommario di Amerigo Vespucci fiorentino, di due sue navigazioni, al magnifico M. Pietro Soderini, gonfalonier della magnifica republica di Firenze.

Dell'isole Fortunate, oggidí chiamate le Gran Canarie; di Capo verde, altrimenti detto Beseneghe overo Madangan, e da Tolomeo detto Etiopo promontorio.

Ai giorni passati pienamente diedi aviso alla S.V. del mio ritorno e, se ben mi ricordo, le raccontai di tutte queste parti del mondo nuovo, alle quali io era andato con le caravelle del serenissimo re di Portogallo: e se diligentemente saranno considerate, parrà veramente che facciano un altro mondo, sí che non senza cagione l'abbiamo chiamato mondo nuovo, perché gli antichi tutti non n'ebbero cognizione alcuna, e le cose che sono state nuovamente da noi ritrovate trapassano la loro openione. Pensorono essi oltra la linea equinoziale verso mezzogiorno niente altro esservi che un mare larghissimo e alcune isole arse e sterili: il mare lo chiamarono Atlantico, e se tal volta confessarono che vi fusse punto di terra, contendevano quella esser sterile e non potervisi abitare. La openione de' quali la presente navigazione rifiuta, e apertamente a tutti dimostra esser falsa e lontana da ogni verità, percioché oltra l'equinoziale io ho trovato paesi piú fertili e piú pieni di abitatori che giamai altrove io abbia ritrovato, se ben V.S. anche voglia intender dell'Asia, dell'Africa e dell'Europa, come piú ampiamente qui di sotto seguitando sarà manifesto. Percioché, poste da parte le cose picciole, racontaremo solamente le grandi che siano degne di esser intese, e quelle che noi personalmente avemo vedute, over abbiamo udite per relazione di uomini degni di fede. Di queste parti adunque nuovamente ritrovate, ora ne diremo piú cose diligentemente e senza alcuna bugia.
Con felice augurio adunque, alli XIII di maggio MDI, per comandamento del re ci partimmo da Lisbona con tre caravelle armate, e andammo a cercare il mondo nuovo. E faccendo il viaggio verso ostro, navigammo XX mesi, della qual navigazione narraremo primamente l'ordine, che navigando tenemmo in questa maniera. Andammo alle isole Fortunate, che oggi si chiamano le Gran Canarie: elle sono nel terzo clima, nell'ultima parte del ponente abitato. Dipoi, navigando per l'Oceano, scorremmo la costa d'Africa e del paese dei Negri insino al promontorio che da Tolomeo è chiamato Etiopo: i nostri lo chiamano Capoverde, dai Negri è detto Biseneghe, gli abitatori lo nominano Madangan; il qual paese è drento la zona calda per quattordici gradi verso tramontana, abitato dai Negri. Quivi rinfrescati e riposati, e fornitici di ogni sorte di vettovaglia, facemmo vela drizzando il nostro viaggio verso il polo antartico; nondimeno tenevamo alquanto verso ponente, percioché era vento di levante, né mai vedemmo terra se non dopo che avessimo navigato tre mesi di continuo e tre giorni.
Nella qual navigazione in quanti travagli e pericoli della vita ci ritrovassimo, quanti affanni e quante perturbazioni e fortune patissimo e quante volte ci venisse a noia di esser vivi, lo lascierò giudicare a quei che hanno l'esperienza di molte cose, e principalmente a coloro che conoscono chiaramente quanto sia difficile il cercar le cose incerte e l'andar in luoghi dove uomo piú non sia stato: ma quei che di ciò non hanno esperienza, non vorrei che di questo fussero giudici. E per ridur le molte parole in una, sappia V.S. che noi navigammo sessantasette giorni, nei quali avemmo aspra e crudel fortuna, percioché nei quarantaquattro giorni, facendo il cielo grandissimo romore e strepito, non avemmo mai altro che baleni, tuoni, saette e pioggie grandissime, e una oscura nebbia aveva coperto il cielo, di maniera che di dí e di notte non vedevamo altramente che quando la luna non luce e la notte è di oscurissime tenebre offuscata: e perciò il timor della morte ci sopravenne, di modo che già ci pareva quasi aver perduta la vita.
Dopo queste cose sí gravi e sí crudeli, finalmente piacendo a Iddio per la sua clemenzia di aver compassione della nostra vita, subito ci apparve la terra, la qual veduta, gli animi e le forze, che erano già cadute e diventate deboli, subitamente si rilevorono e si riebbero, sí come suole avenire a coloro che hanno trapassate grandissime aversità, e massimamente a quei che sono campati dalla rabbia della cattiva fortuna. Noi adunque alli VII di agosto del MDI sorgemmo nel lito di quel paese e, rendendo a Iddio massimo quelle maggior grazie che potevamo, facemmo secondo il costume cristiano solennemente celebrar la messa. La terra ritrovata ci parve non isola ma terra ferma, percioché si estendeva larghissimamente e non si vedeva termine alcuno, ed era molto fertile e molto piena di diversi abitatori; e quivi tutte le sorte degli animali sono salvatiche, i quali nelle nostre parti sono del tutto incogniti. Ritrovammo quivi anche alcune altre cose, delle quali studiosamente non ne abbiamo voluto far menzione, accioché l'opera non divenga grande oltra misura. Questo solamente giudico che non si debbia lasciare adrieto, che aiutati dalla benignità di Dio a tempo e secondo il bisogno vedemmo terra, percioché non potevamo piú astenerci, mancandoci tutte le vettovaglie, cioè legne, acqua, biscotto, carne salata, cacio, vino, olio, e quel che è piú il vigor dell'animo. Da Iddio adunque riconoscemo che abbiamo la vita, a cui dovemo render grazie, onore e gloria.

Come Amerigo Vespucci, avendo smarrita la via, mediante l'astrologia la ritrovò. E come scopersero un paese di terra ferma, che cominciando dalla linea dell'equinoziale 8 gradi verso il polo antartico, navigando presso detta costa trapassarono il tropico iemale verso il detto polo gradi 17 e mezo.

Fummo adunque tra noi di concorde parere di navigar presso di questa costa e di non lasciarla mai di vista. Navigammo adunque tanto che giugnemmo a un certo capo, e di questa terra, il quale è volto verso mezogiorno: questo capo, dal luogo dove prima vedemmo terra, è lontano forse trecento leghe. In questo viaggio spesse fiate smontammo in terra e tenemmo pratica con gli abitatori, sí come di sotto piú largamente sarà manifesto. Ho pretermesso che Capoverde da questa terra ritrovata è lontano quasi 700 leghe, benché io mi aveva creduto averne navigate piú di 800: e ciò avenne per la crudel tempesta, per le spesse fortune e per la ignoranzia del nocchiero, le quai tutte cose allungano il viaggio. Ed eravamo venuti in luogo che, se io non avessi avuto notizia della cosmografia, per negligenzia del nocchiero già avevamo finito il corso della nostra vita, percioché non ci era pilotto alcuno che sapesse insino a 50 leghe dove noi fussimo. E andavamo errando e vagabondi senza saper dove ci andassimo, se io non avessi a punto proveduto alla salute mia e de' compagni con l'astrolabio e col quadrante, instrumenti astrologici: e per questa cagione mi acquistai non picciola gloria, di modo che d'allora innanzi appresso di loro fui tenuto in quel luogo che i dotti sono avuti appresso gli uomini da bene, percioché insegnai loro la carta da navigare, e feci che confessassero che i nocchieri ordinarii, ignoranti della cosmografia, a mia comparazione non avessero saputo niente.
Il capo di questa terra ferma ritrovata, che volge verso mezogiorno, ci mise in maggior desiderio di cercarla e considerarla diligentemente, sí che di comune consentimento fu deliberato di cercar questo paese, e intender i costumi e gli ordini di quella gente. Navigammo adunque presso della costa quasi 600 leghe, molte fiate smontando in terra e spesse volte venendo a parlamento con gli abitatori, i quali ne ricevevano con onore e amorevolmente; e mossi dalla lor bontà e innocentissima natura, alle volte appresso di loro non senza onore dimorammo quindici e venti giorni, percioché essi sono molto cortesi in albergare i forestieri, come di sotto piú chiaramente sarà manifesto. Questa terra ferma comincia di là dalla linea equinoziale otto gradi verso il polo antartico, e tanto navigammo presso di detta costa che trapassammo il tropico iemale, verso il polo antartico per 17 gradi e mezzo, dove avemmo l'orizonte levato cinquanta gradi. Le cose che quivi io viddi non sono note agli uomini del nostro tempo, cioè la gente, i costumi, l'umanità, la fertilità del terreno, la bontà dell'aere e 'l cielo salutifero, i corpi celesti e massimamente le stelle fisse della ottava sfera, delle quali nella nostra non v'è menzione, né insin ora sono state conosciute, né anche dai piú dotti degli antichi: e io di esse ne dirò poi diligentemente.


Della natura e costumi della gente di questo paese, e della gran lussuria di quelle donne.

Questo paese è piú abitato di niuno che per alcun tempo io abbia veduto, e le genti sono molto dimestiche e mansuete, non offendono alcuno, vanno del tutto nude come la natura le ha partorite: nude nascono e nude poi moiono. Hanno i corpi molto ben formati, e di modo fatti a proporzione che possono meritamente esser detti proporzionati; il colore inchina alla rossezza, e ciò aviene perché, essendo nudi, facilmente sono riarsi dal caldo del sole; hanno i capelli negri, ma lunghi e distesi. Nel camminare e ne' giuochi sono quanto altri che siano sommamente destri. Hanno la faccia di bello e gentile aspetto, ma la fanno divenir brutta con un modo incredibile, percioché la portano tutta forata, cioè le gote, le mascelle, il naso, le labbra e gli orecchi, né di un solo e picciol foro, ma di molti e grandi, che tal volta ho veduto alcuno aver nella faccia sette fori, ciascuno de' quali era capace di un susino damasceno. Cavatane via la carne, riempiono i fori di certe pietruzze cilistre, marmoree o cristalline, o di bellissimo alabastro o di avorio o di ossi bianchissimi, secondo la loro usanza fatte e lavorate assai acconciamente. La qual cosa è tanto inusitata, noiosa e brutta, che nella prima vista pare un mostro, cioè che uomo alcuno porti la faccia riempiuta di pietre, forata di molti fori. E se è cosa degna di credere che si trovi chi abbia sette pietre nella faccia, ciascuna delle quali trapassi la grandezza di mezo palmo, niuno è veramente che non ne prenda maraviglia, se pur attentamente considera seco medesimo queste cose tanto mostruose: e nondimeno sono vere, percioché alle volte ho osservato le dette sette pietre esser di peso quasi di sedici oncie. Agli orecchi portano ornamenti piú preziosi, cioè anella appiccate e perle pendenti, all'usanza degli Egizii e degl'Indiani. Questo costume l'osservano gli uomini soli; le donne portano solamente ornamenti agli orecchi.
Hanno anche le femine un'altra usanza crudele e lontana da ogni umano vivere. Esse (percioché sono sopra modo lussuriose), per sodisfare al lor disonesto piacere, usano questa crudeltà, che danno a bere agli uomini il sugo d'una certa erba, il qual bevuto subito si gonfia loro il membro e cresce grandemente; e se questo non giova, accostano al membro certi animali venenosi che lo mordano insin che si gonfia, onde aviene che appresso di loro molti perdono i testicoli e diventano eunuchi. Non hanno lana né lino, e perciò del tutto mancano di panni; né anche usano vesti bambagine, percioché, andando tutti nudi, non hanno bisogno di vestimenti.

Come appresso questo popolo indifferentemente ogni cosa è commune, e vivono senza legge alcuna, si cibano di carne umana, e della lunga età loro.

Appresso di loro non vi ha patrimonio alcuno, ma ogni cosa è comune; non hanno re né imperio, ciascuno è re a se stesso. Pigliano tante mogliere quante lor piace; usano il coito indifferentemente, senza aver riguardo alcuno di parentado: il figliuolo usa con la madre e 'l fratello con la sorella; e ciò fanno publicamente come gli animali brutti, percioché in ogni luogo, con ciascuna donna, ancora che a sorte in lei s'incontrino, e' vengono a congiugnimenti venerei. Similmente rompono i matrimonii secondo che lor piace, percioché sono senza leggi e privi di ragione. Non hanno né tempii né religione, né meno adorano idoli. Che piú? Hanno una scelerata libertà di vivere, la quale piú tosto si conviene agli epicuri che agli stoici. Non fanno mercanzia alcuna, non conoscono moneta; nondimeno sono in discordia tra loro e combattono crudelmente, ma senza ordine alcuno. I vecchi ne' parlamenti muovono i giovani e gli tirano nella loro openione ovunque lor piace, e gl'infiammano alla guerra, nella quale uccidono gli nimici: e se gli vincono e rompono, gli mangiano e reputano che sia cibo gratissimo. Si cibano di carne umana, di maniera che il padre mangia il figliuolo e all'incontro il figliuolo il padre, secondo che a caso e per sorte aviene. Io viddi un certo uomo sceleratissimo, che si vantava e si teneva a non piccola gloria di aver mangiato piú di trecento uomini. Viddi anche una certa città, nella quale io dimorai forse ventisette giorni, dove le carni umane, avendole salate, erano appiccate alli travi, sí come noi alli travi di cucina appicchiamo le carni di cinghiale secche al sole o al fumo, e massimamente salsiccie e altre simil cose: anzi si maravigliavano grandemente che noi non mangiassimo della carne de' nimici, le quali dicono muovere appetito ed esser di maraviglioso sapore, e le lodano come cibi soavi e delicati. Non hanno arme alcuna se non archi e saette, co' quali ferendosi combattono crudelissimamente, come quei che nudi si affrontano, e si feriscono non altramente che animali bruti. Noi ci sforzammo assai volte di volergli tirar nella nostra openione, e gli ammonivamo spesso che pur finalmente si volessero rimuover da cosí vituperosi costumi, come da cosa abominevole: i quali molte fiate ci promisero di rimanersi da simil crudeltà.
Le femine, come ho predetto, benché vadano nude e vagabonde e siano lussuriosissime, nondimeno non sono brutte: hanno i corpi molto ben formati, né sono arsi dal sole, come alcuni per aventura si potriano dar a credere. E ancora che siano fortemente grasse, per questo non sono disparute né disformate e, quel che è degno di maraviglia, io non ne viddi alcuna, benché ella avesse partorito, la quale avesse le mammelle distese e pendenti: che, avegna che abbiano partorito, nondimeno nella sembianza del corpo non sono dissimili dalle vergini, né hanno la pelle del ventre vizza e raggrinzita, e le parti che onestamente non si possono nominare non sono punto dissimili da quelle delle vergini. E mentre potevano aver copia de cristiani, è cosa maravigliosa da dire quanto disonestamente porgessero i lor corpi, e invero che sono lussuriose oltra il creder di ogniuno. Vivono centocinquanta anni, per quanto si poté intendere, e rare volte s'infermano: e se per sorte cadono in qualche infermità, subitamente si medicono con sugo di erbe.
Queste sono le cose che ho ritrovate appresso di loro che è da farne qualche stima, cioè l'aere temperato, la bontà del cielo, il terreno fertile e la età lunga: e ciò forse aviene per il vento di levante che quivi di continuo spira, il quale appresso di loro è come appresso di noi borea. Hanno gran piacere della pescagione e per lo piú vivono di quella, in questo aiutandogli la natura, percioché quivi il mare è abbondante di ogni sorte di pesci. Della caccia poco si dilettano, il che aviene per la gran moltitudine degli animali salvatichi, per paura de' quali essi non praticano nelle selve. Si vede quivi ogni sorte di leoni, di orsi e d'altri animali; gli arbori quivi crescono in tanta altezza che apena si può credere. Si astengono adunque di andar nelle selve, percioché che, essendo nudi e disarmati, non potrebbono sicuramente affrontarsi con le bestie.

Della temperanza dell'aere e fertilità del paese.

Il paese è molto temperato, fertile e sommamente dilettevole; e benché abbia molte colline, è nondimeno irrigato da infiniti fonti e fiumi, e ha i boschi tanto serrati che non vi si può passare, per l'impedimento degli spessi arbori: in questi vanno errando animali ferocissimi e di varie sorti. Gli arbori e i frutti senza opera di lavoratori crescono di propria natura, e hanno ottimi frutti in grandissima abbondanza, né alle persone sono nocevoli, e sono anche molto dissimili dai nostri. Similmente la terra produce infinite erbe e radici, delle quali ne fan pane e altre vivande; dei semi ve ne sono di molte sorti, ma non sono punto simili a' nostri.
Il paese non produce metallo alcuno salvo che oro, del quale ve n'è grandissima copia, benché noi in questo primo viaggio non n'abbiamo portato niente: ma di questa cosa noi ne avemmo certezza da tutti i paesani, i quali affermavano questa parte abbondar di oro, e spesse fiate dicevano che appresso di loro è di poca stima e quasi di niun pregio. Hanno molte perle e pietre preziose, come avemo ricordato disopra. Le quai tutte cose quando io volessi raccontar partitamente, per la gran moltitudine di esse e per la lor diversa natura, questa istoria diventerebbe troppo grande opera, percioché Plinio, uomo perfettamente dotto, il quale compose istorie di tante cose, non giunse alla millesima parte di queste, e se di ciascuna di loro gli avesse trattato, averia in quanto alla grandezza fatto opera molto maggiore, ma nel vero perfettissima.
E sopra tutto porgono maraviglia non piccola le molte sorti di pappagalli, di varii e diversi colori. Gli arbori tutti rendono odore tanto soave che non si puote imaginare, e per tutto mandano fuori gomme e liquori e sughi: e se noi conoscessimo la lor virtú, penso che niuna cosa ci fusse per mancare, non pur in quanto a piaceri, ma in quanto al mantenerci sani e al ricuperar la perduta sanità. E se nel mondo è alcun paradiso terrestre, senza dubbio dee esser non molto lontano da questi luoghi. Siché, come io ho detto, il paese è volto al mezogiorno, col cielo talmente temperato che di verno non han freddo, né di state sono molestati dal caldo.

Come il cielo qui è quasi sempre sereno e adorno di alcune stelle a noi incognite, e come il polo antartico non ha l'Orsa maggiore e minore.

Quivi il cielo e l'aere è rare volte adombrato dalle nuvole, quasi sempre i giorni sono sereni. Tal volta cade la rugiada, ma leggiermente: quasi non vi è vapore alcuno, e la rugiada non cade piú che per ispazio di tre o quattro ore, e a guisa di nebbia si dilegua. Il cielo è vaghissimamente adorno di alcune stelle che non sono da noi conosciute, delle quali io assegnatamente ne ho tenuto memoria, e annoveraine forse 20 di tanta chiarezza di quanta sono appresso di noi le stelle di Venere e di Giove. Considerai anche il loro circoito e i varii movimenti, e misurai la lor circonferenza e diametro assai facilmente, avendo io notizia della geometria: e perciò io tengo per certo che siano di maggior grandezza che gli uomini si pensino. E fra le altre viddi tre Canopi: i due erano molto chiari, il terzo era fosco e dissimile dagli altri.

Il polo antartico non ha l'Orsa maggiore né minore, sí come si può vedere nel nostro polo artico, né lo toccano alcune stelle che risplendano; ma quelle che lo circondano sono quattro, che hanno forma di quadrangolo.

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E mentre queste nascono, si vede dalla parte sinistra un Canopo risplendente di notabile grandezza, il quale, essendo venuto nel mezo del cielo, rappresenta la sotto scritta figura:

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A queste succedono tre altre lucenti stelle, delle quali quella che è posta nel mezo ha di misura dodici gradi e mezo di circonferenza; e nel mezo di loro si vede un altro Canopo risplendente. Dopo questo segueno sei altre lucenti stelle, le quali di splendore avanzano tutte le altre che sono nella ottava sfera, delle quali quella che è nel mezo nella superficie della detta sfera ha di misura di circonferenza gradi trentadue. Dopo queste seguita un gran Canopo, ma fosco. Le quai tutte si veggono nella Via lattea, e giunte alla linea meridiana mostrano la sotto scritta figura:

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Come Amerigo Vespucci nell'altro emispero vidde molte cose repugnanti
all'opinioni de' filosofi; e come vidde l'iride di notte;
e come si vede la luna nova nel medesimo giorno che si congiunge col sole.

Quivi adunque io viddi molte altre stelle, i varii movimenti delle quali diligentemente osservando, ne composi assegnatamente un libro, nel quale ho raccontato quasi tutte quelle cose notabili che in questa mia navigazione ho potuto conoscere: e cotal libro ancora è appresso questo serenissimo re, e spero che tosto ritornerà nelle mie mani. In quello emispero adunque considerai con diligenzia alcune cose, le quali contradicono alla openione de' filosofi, percioché sono contrarie e del tutto repugnanti. E fra le altre viddi l'iride, cioè l'arco celeste, bianco quasi nella mezanotte, percioché secondo il parer di alcuni prende i colori dai quattro elementi, cioè dal fuoco il rosso, dalla terra il verde, dall'aere il bianco e dall'acqua il celeste. Ma Aristotele nel libro intitolato Meteora è di openione molto diversa, percioché egli dice l'arco celeste esser un ripercotimento di razzo nel vapore della nuvola postagli all'incontro, sí come lo splendore splendente nell'acqua riluce nel parete: ritornando in se stesso, con la sua interposizione tempera il caldo del sole, e col risolversi in pioggia rende fertile la terra, e con la sua vaghezza fa bello il cielo. Dimostra che l'aere abbonda di umidità, onde quaranta anni innanzi la fine del mondo non apparirà, il che sarà indizio della siccità degli elementi. Annoncia pace fra Dio e gli uomini. Sempre è all'opposito del sole: non si vede mai nel mezogiorno, percioché il sole non è mai nel settentrione; nondimeno Plinio dice che dopo l'equinozio dell'autunno appare da ogni ora. E questo ho cavato dal commento di Landino sopra 'l quarto libro dell'Eneide, accioché niuno sia privato delle sue fatiche e a ciascuno sia reso il proprio onore. Io vidi il predetto arco due o tre volte; né io solo posi mente a questo, ma anche molti marinari sono a favore di questa mia openione. Similmente vedemmo la luna nuova nel medesimo giorno che si congiugne col sole. Quivi anche si veggono ogni notte vapori e fiamme ardenti trascorrer per il cielo.
Poco di sopra io chiamai questo paese col nome di emispero: il quale, se non volemo parlar impropriamente, non si può dire che sia emispero, se è posto in comparazione del nostro; nondimeno, percioché pare che alquanto rappresenti cotal forma, impropriamente parlando ci è paruto chiamarlo emispero.

Come Amerigo navigò la quarta parte del circolo del mondo.

Adunque, sí come ho predetto, da Lisbona, donde ci partimmo, la quale è lontana dall'equinoziale verso tramontana quasi per quaranta gradi, navigammo insino a quel paese che è di là dall'equinoziale cinquanta gradi: i quali sommati faranno il numero di novanta, il qual numero è la quarta parte del grandissimo circolo, secondo la vera ragione del numero insegnataci dagli antichi. A tutti è adunque manifesto noi aver misurato la quarta parte del mondo, percioché noi che abitiamo Lisbona, di qua dall'equinoziale quasi per quaranta gradi verso tramontana, siamo distanti da quei che abitano di là dalla linea equinoziale nella lunghezza meridionale angularmente novanta gradi, cioè per linea traversa. E accioché la cosa piú apertamente sia intesa, la linea perpendicolare la qual, mentre noi stiamo dritti in piedi, si parte del punto del cielo e arriva al nostro zenit, viene a batter per fianco quei che sono di là dall'equinoziale a cinquanta gradi: onde aviene che noi siamo nella linea diritta, ed essi a comparazion nostra sono nella traversa; e cotal sito fa la figura d'un triangolo che abbia angoli diritti, delle quai linee noi tenemo la diritta, come piú chiaramente dimostra la sequente figura.



E della cosmografia istimo d'averne detto a bastanza.

Queste sono le cose che in quest'ultima navigazione ho riputate degne da sapere. Né senza cagione ho chiamato quest'opera "giornata terza", percioché prima io avea composti due altri libri di questa navigazione, la quale di comandamento del re di Castiglia feci verso ponente, e in quei assegnatamente scrissi di molte cose non indegne da sapere, e spezialmente di quelle che s'appartengono alla gloria del nostro Salvatore, il quale con maraviglioso artificio fabricò questa machina del mondo. E invero chi potrebbe giamai secondo i meriti lodare Iddio a sufficienza? Le cui mirabil cose ho raccontate nella predetta opera, raccogliendo brievemente quel che s'appartiene al sito e ornamento del mondo, accioché, quando mi sarà piú ozio conceduto, io possa scrivere piú diligentemente qualche opera della cosmografia, afin che la futura età abbia ricordanza anche di me, e da cotal opera piú ampiamente impari di giorno in giorno maggiormente onorare Iddio massimo, e finalmente sappia quelle cose delle quali i nostri vecchi e antichi padri non ebbero cognizione alcuna. Onde io con tutti gli umili prieghi supplico il nostro Salvatore, il cui proprio è di aver compassione ai mortali, che mi doni tanto di vita che io dia compimento a quello che ho deliberato di fare. Le altre due giornate penso di differirle in altro tempo, massimamente che, quando sarò ritornato sano e salvo nella patria, con l'aiuto e consiglio de' piú dotti ed esortazione degli amici, piú diligentemente ne scriverò opera maggiore.
V.S. mi perdonerà se io non le ho mandati i memoriali fatti di giorno in giorno di questa ultima navigazione, sí come io le aveva promesso: n'è stato cagione il serenissimo re, che ancora tiene appresso di sua maiestà i miei libretti. Ma, poi che ho indugiato insino al presente giorno a far quest'opera, per aventura vi aggiugnerò la quarta giornata. Ho in animo di nuovo andare a cercar quella parte del mondo che riguarda mezogiorno, e per mandare ad effetto cotal pensiero già sono apparecchiate e armate due caravelle, e fornite abbondantissimamente di vettovaglie. Mentre adunque io anderò in levante faccendo il viaggio per mezzogiorno, navigherò per ostro, e giunto che sarò là, io farò molte cose a laude e gloria di Dio, a utilità della patria, a perpetua memoria del mio nome, e principalmente a onore e alleviamento della mia vecchiezza, la quale è già quasi venuta. Siché in questa cosa niente altro ci manca se non il commiato del re, e ottenuto che l'averò a gran giornate navigaremo, il che piaccia a Iddio che ci succeda felicemente.

Navigazione verso le indie orientali scritta per Tomé Lopez, scrivano de una nave portoghesa, tradotta in lingua toscana, la qual fu mandata alla magnifica republica di Firenze, al tempo del magnifico M. Pietro Soderini, gonfaloniere perpetuo del popolo fiorentino.

Di un porto detto Fungaz; come furono assaltati da una grande fortuna; e d'una isola chiamata Capo Primero.

Partimmo dalla città di Lisbona cinque navi adí primo d'aprile 1502, in venerdí a ora di vespro. Adí 4 ditto passammo alla vista di Porto Santo; il medesimo dí avemmo vista della diserta che sta a lato al Fongaz, ch'è uno porto dell'isola della Madera. E passammo a vista dell'isola del Ferro e di Palma, che sono isole delle Canarie: e fu adí 8; e adí 15 passammo per la piaggia dell'isole di Capo Verde, in modo che da quelli di terra fummo veduti. Adí 18 di maggio vedemmo una isola per ancora non discoperta, terra alta e bella al nostro parere, piena di bosco e molto grande, poco meno che l'isola della Madera, in luogo di molto buona aria, non fredda né calda, per esser lungi dalla linea equinoziale. E giace maestro e scilocco con l'isola de' Pappagalli Rossi, e dall'una all'altra sono 300 leghe, e giace dall'isola di Buona Vista 775 leghe: e chi la volesse cercar mettasi dall'isola di Buona Vista 30 leghe fra ponente e levante, e dipoi vada a mezzodí, e dimandila, e troveralla. E giace col Capo di Buona Speranza levante e ponente, e piglia vista di maestro e scilocco, e cosí andrà largo da detto capo 30 leghe: e da detta isola al Capo di Buona Speranza sono leghe 850 di traversa. E non fummo a detta isola perché il tempo fu contrario, ancor che travagliassimo assai per afferrarla.
E da qui innanzi, quanto piú ci appressavamo alla linea equinoziale, tanto maggior caldo avevamo, e tanto gran caldo che non ci potevamo aiutare, cosí di dí come di notte. E quando noi fummo sotto la detta linea, resta il Capo di Palma, che è in la costa di Guinea, greco e levante e ponente e libeccio: e dall'isole di Capo Verde alla detta linea sono 300 leghe. E quanto piú ci discostavamo da detta linea, trovavamo l'aria piú temperata e fredda. E innanzi che ci avicinassimo alla detta linea 200 leghe, poco piú o meno, perdemmo di vista la tramontana. E innanzi che giugnessimo al detto Capo di Buona Speranza a 400 leghe, faceva molto gran freddo; e quanto piú ci appressavamo a quel maggior freddo, manco ci potevamo riparare, se non a gran forza di vestimenti e ben mangiare e bere per riscaldarci. E il primo dí di giugno, che 'l vento cominciò un poco a svegliarsi, appressandoci al Capo di Buona Speranza, cominciorono a migliorare li giorni, in modo che adí 8 di giugno sperimentammo coll'oriuolo della nave e trovammo essere il dí (cioè da sole a sole) ore otto e meza, e la notte ore quindici e meza. E la ragione perché in cosí poco tempo diminuí tanto, fu perché in questi dí la nave andò molto cammino.
Una terza feria, martedí adí 7 di giugno, nel quarto di notte, saltò con esso noi tanta tormenta di vento ponente che fece partir le navi l'una dall'altra, in modo che la mattina seguente non ci trovammo insieme se non la Iulia e noi, e dell'altre non sapevamo a che cammino si fussino diritte. E nell'ultimo quarto della notte, un poco avanti dí, non portavamo alcuna bonetta, solamente un pappafico molto piccolo. Al terzo mischio il vento fu tanto che ci ruppe l'antenna pel mezzo, e alla Iulia ruppe l'albero, e a tutti ci mise gran paura, che quel dí e la notte corremmo ad albero secco, e si calò la piccola vela del trinchetto. Era stupenda cosa a vedere li gran mari, cioè l'onde che venivano; e questo dí si feciono molti boti, e gittoronsi le sorti chi dovesse andare a visitar la divota chiesa di Nostra Donna Santa Maria di Guadalupo. E quelli della nave Iulia, che non manco paura ebbeno, anzi molto piú, perché nella loro nave entravano molti colpi di mare, feciono loro ancora molti boti. E ancora che nella nostra nave entrassino molti colpi di mare, non ci mettemmo in tanto pericolo come loro, perché la nostra nave era miglior mariniera che niuna dell'altre. E adí 9 ditto, in mercoledí, si fe' bonaccia, in modo che tutti ponemmo li vestimenti al sole ad asciugare, non ostante che poco caldo rendeva e scarsamente ci riscaldava, perché, oltra all'esser molli da molti colpi di mare, molto piú molli eramo per la pioggia. E adí XI ditto, che fu in venerdí, il mare tornò al suo empito, e poco in questo dí parlò l'una nave con l'altra, e accordami di tenere nostro cammino al levante. E alli 12 e 13 dí, che noi facemmo 450 leghe dal Capo di Buona Speranza al corso di levante e ponente, trovammo che il mare mostrava molti segni di terra, cioè limo e battele e lupi marini, e molte maniere di uccelli bianchi e grandi, e altre maniere di uccelli piccoli come stornelli, ma erano bianchi nel petto. E giudicammo tutti che queste cose fussero d'alcuna isola per ancora non trovata da' cristiani, la quale fusse quivi presso, perché di terra ferma non potevano esser, perché era molto di lungi di quivi. E tanto che noi fummo dall'altra banda della linea equinoziale, trovammo che 'l sole e la luna andavano contrarii al corso che fanno in Ispagna, cioè che in queste parti e da quivi innanzi si leva il sole a greco e ponsi a ponente e quarta di libeccio.
Adí 16 di giugno cominciò il mare a gonfiare molto grandemente, il perché tutti all'ultimo quarto andammo alla poppa a ancottare la nave: e mentre ch'avevamo il vento largo, molti colpi di mare venivano in nave, a causa delle gran correnti che quivi sono. E adí 7 di luglio, innanzi ch'el vento cominciasse a migliorare, cominciammo a far nostro cammino di verso tramontana e dipoi a maestrale, fin adí 10 ditto, ch'avemmo vista di terra, ed eravamo larghi da essa 10 o 12 leghe. E perché era tardi fermammo in quella notte fin che la luna andò sotto, che se ripose a ore XI di notte a quel modo, ch'erano a nostro modo 5 ore; e come fu riposta, voltammo la prua al mare e stemmo cosí a corda, fino che fu dí e andammo a riconoscere la ditta terra. E in questo dí non potemmo sapere dove stavamo, e l'altro dí tornammo a riconoscere terra, e ci fu detto ch'era Capo Primiero; il qual mette una punta in mare molto acuta, e come vi allargate fuori al mare, si vede fra detti duoi capi X in XII isolette, e vedonsi ancora certi argini di arena e di bosco raso. E tirammo a greco 50 leghe, e di là andammo a greco e tramontana leghe..., ed eravamo al pari delle lagune ch'erano lungi da noi 25 leghe. E uscimmo di qui a greco e quarta di tramontana, ed eravamo circa di 15 leghe in mare dal cavo delle correnti, e di quivi andammo a tramontana circa di 65 leghe. E perché ci era mancata la carne, ci voltammo a un poco di pesce secco ch'avevamo, che medesimamente ci mancò adí 12 di luglio, e cosí alquanti ceci; e mancati ci demmo al formaggio, e mancato ci demmo a un poco di porco, che ci durò poco tempo. E cosí ci andavamo appressando all'India.

Dell'isola Ceffala, di un fiume detto Bon Segnali, e dell'isola chiamata Monzambique.

E adí 15 di luglio ci trovammo sopra la bocca della riviera di Ceffalla, e perché 'l vento era in calma, stemmo quivi surti in XI braccia da un venerdí doppo disinare insino alla domenica al tardi, e furonci fatte molte dimande per quelli della terra acciò ch'entrassimo dentro, il che non facemmo: e facevano di terra molte fumiere, per le quali a noi parevano segni che ci chiamassino. Per il che perdemmo di fare molto profitto, che non obstante che l'ammirante vi trovasse poco oro, lo causava, perché 8 o 9 dí innanzi erano partiti di quivi 2 o 3 zambuchi con molto oro; e piú ci dissono che quelli della detta mina non usavano di mostrare il loro oro, perché temevano che li cristiani facessero loro alcun male. E già all'ultimo ci offerivano qualcosa piú, e cominciamo a portare dell'oro, per la qual cosa si giudica che le fumerie che facevano erano per segno di chiamarci e, come è detto, perdemmo di far molto profitto. E qui acconciammo il nostro albero, ch'era rotto e senza gabbia. Di quivi vedemmo una secca che entrava in mare due o tre leghe, cioè parecchie secche, e pareva che fra esse fusse un fiume: e quivi correva il mare molto forte, e portava gran numero di foglie e altri segni di fiume. E dalla banda di ponente faceva uno piccolo cavo a modo di una collina, come tavola, e in oltre ci pareva che vi fosse una piccola terra, come isola; e uscimo di là a greco, e la seconda feria a notte vedemmo che 'l mare portava molti segni di terra, cioè canne come quelle di Portogallo, e legnami di bosco e foglie assai, e gran corrente di mare.
E la terza feria, adí 18 luglio, trovammo in un gomito che per tutto era bassa l'acqua, e scandagliammovi e trovammovi grandi banchi: e dura il detto basso d'acqua 7 o 8 leghe. E uscimmo del detto gomito a levante e andammo un dí e una notte, e secondo il cammino e li segnali che dipoi trovammo, ci chiarimmo che quivi era il fiume di Buon Segnali. E correndo questa costa vedemmo alberi grandi, che parevano di mare alberi di nave, e dalla banda di ponente pareva come il capo di Spichel: molti di detti banchi, cioè secche, erano di terra e altri di rena. Una di dette isole, cioè quella che sta piú verso greco, fa una mostra che pare un cappello; e di quivi innanzi 7 leghe discosto, andando verso Monzambiche, trovammo una isola di rena secca. E come uscimmo di ditto gomito, ricominciammo a fare nostro cammino a greco e quarta di tramontana, e fummo a vista dell'Isole Primere: e adí 21 di luglio eravamo appresso a esse 5 o 6 leghe, dove facemmo pescherie di pargos e alcapettori rossi, e d'altri pesci dipinti di diverse sorti e disformi a quelli di Portogallo. Venti leghe innanzi che giugniamo a Monzambiche trovammo una secca molto lunga, che va a lungo della costa e va due leghe in mare, e dura otto leghe e piú: e corre questa secca greco e libeccio, cosí come corre la costa, e truovasi innanzi che si giunga a Monzambiche sette o otto leghe.

Dove fusse la mina dove il re Salomone levava tanto oro, e dove si raccolga la mirra finta.

Venerdí adí 22 del detto mese di luglio arrivammo dinanzi al porto dí Monzambiche, ed entrammo per mezzo di due piccole isole, che vi sono per duoi o tre tiri di balestro lungi dall'isola dov'è la terra. E come giugnemmo, di presente vennono a noi certi Mori di riputazione e portoronci una lettera segnata dall'ammirante, che comandava a qualsivogli nave di Portogallo che venissino a quel porto che non facessino male o danno alcuno a quelli dell'isola, perché aveva capitolato e fatto pace e amistà co' detti Mori; che ci faceva a sapere che quivi aveva spalmate 5 navi, e che quivi non tardassimo e che andassimo dietro a lui alla via di Quilloa, e non lo trovando lí andassimo Amiadiva, e di quivi fino a tanto che lo trovassimo, e che andassimo di dí e non di notte: e per detta lettera si mostrava ch'erano XI dí che partí di quivi. E nel fin di detta lettera era scritto di mano di Stefano da Gama, capitano della nave chiamata Fior del mare, e contava come lui colle altre due navi partirono di quivi adí 18 detto, che si mostrava che quattro dí innanzi s'eran partiti de lí. E noi stemmo in detto luogo fino adí 26 detto, e per noi medesimi ci fornimmo d'acqua e di legne quanto ne volemmo. E' Mori di detta terra venivano sicuramente alle nostre navi e con loro facevamo alcun partito d'oro e di perle, e andavamo sicuri per le terre, e da loro ci fu fatto grande onore.
Stando noi alla detta isola, ne fu detto che vennono alla capitana certi Mori onorati abitanti in detta isola, a far motto all'ammirante, a' quali per allora si domandò assai de la casa della mina di Ceffalla. E quelli, in presenzia d'assai genti che quivi erano, risposono che ora donde veniva l'oro avevano per certo che v'era gran guerra, e che per tal causa non veniva punto d'oro alla mina, e che quando vi fosse pace, si può trarre di detta mina due miliona di mitigali d'oro: e ciascuno mitigalo vale un ducato e un terzo. E che gli anni passati, quando era pace nel paese, le navi della Mecca e di Zidem e di molte altre parti levavano di detta mina detti duo milioni, e che loro hanno libri e scritture anche, che la mina donde il re Salomone di tre in tre anni levava tanto oro era questa medesima, e che la regina Saba, che portò al detto re sí gran presente, era naturale delle parti d'India. Similmente li detti Mori detteno all'ammirante una palla di mirra fina, e oltre di ciò gli dissono che, avendo pace dentro fra terra, che ogni anno potrebbono avere in detta mina dugento cantara di detta mirra.

Di Quilloa e Mombazza.

E adí 26 del detto mese partimmo, e menavamo con noi uno pilotto nero, il quale ci disse che ci costerebbe dieci crociati per mettere tutte dua le navi in Quilloa. E drizzammo nostro cammino a tramontana, perché quella costa corre mezzodí e tramontana, e di notte ci allargavamo in mare una quarta, e il dí tornavamo a riconoscer terra. E come fummo camminati quarantacinque leghe, vedemmo una terra ch'aveva tredici o quattordici poggetti alti, e tre o quattro de' piú alti appuntati; e vedemmo a lungo di detta costa molte isolette, e andammo sopra la terra di Quilloa, e non vi volemmo entrare perché non v'era l'ammirante. E innanzi che giungessimo a detta terra, vedemmo certe montagne alte e credemmo che fusse Quilloa, e facemmo dimora, e l'altro dí andammo al nostro viaggio: e quando conoscemmo che non era Quilloa, andammo costeggiando e vedemmo una torre bianca, e dissonci che quella si chiama Quilloa vecchia, e che quivi è una picciola terra, e pare che sia in una isola. E fra Quilloa nuova e la vecchia è uno fiume, che ci dette assai fatica, e vedemmo gran palmari e altri alberi; ed entrammo tanto dentro a uno gomito che ci trovammo ad una isola piccola, e di quivi uscimmo e andammo al levante e a quarta di greco, per essere già molto tardi. E a lato a Quilloa sono secche volte a greco, e durano tre o quattro leghe a lungo della costa.
E di quivi pigliammo nostro cammino alla volta di Mombazza per greco e quarta di tramontana, e perché non sapevamo a punto il cammino, per andar piú sicuri pigliammo il cammino infra greco e tramontana, e mezzodí e libeccio. E fra Quilloa e Melinde vedemmo duoi borghi di case, uno in sul mare e l'altro un poco piú fra terra; e a lungo della costa sono grandi montagne, alcune terre rase che parevano seminate, e non vedemmo Mombazza perché passammo molto larghi. Innanzi che giugnessimo a Melinde, vedemmo tre monti grandi insieme, di lungi da Melinde tredici o quattordici leghe; e corresi per quella costa per greco e libeccio. E innanzi che giugnessimo a Melinde cinque o sei leghe, vedemmo una picciola isoletta e certa barreda vermiglia; e poco piú avanti sono certe secche, che pare che rompino circa di tre leghe a lungo, e sono volte a maestro. Quando si va verso Melinde, si vede uno monte che pare uno castello. Nostra intenzione era di entrare in Mombazza, che vi sono disdotto leghe innanzi che si giunga a Melinde: e passammo di notte, e la mattina, quando riconoscemmo terra, trovammo ch'eravamo passati e non volemmo tornar adrieto.

Di Melinde e della residenzia del re di detto luoco. Degli elefanti, e non esser vero che siano senza giunture. E come il re di Quilloa si fece tributario del re di Portogallo.

E adí 2 d'agosto, in martedí, surgemmo al tardi davanti Melinde e salutammo con alcuni colpi di bombarda. E di presente vennono a noi tredici o quattordici Mori, infra quali era uno parente del re e uno trombetta de' suoi, sonando con gran piacere; e con loro venne uno Luigi di Moura, creato del re nostro signore, il quale fu lassato quivi da Pietro Alvarez Cabral, il quale parlava già molto bene quel linguaggio. E tutti per parte del re di Melinde ci salutarono, dicendoci ch'era molto lieto della venuta nostra; e noi li ricevemmo graziosamente e convitamoli a bere, con molte schiacciatine e conserve e frutti di Portogallo, e assai vino e buono a chi ne volea bere. E oltre a questo mandammo alla reina una cesta piena di schiacciatine biscottate e molte nocciuole e noci, con uva passa e mandorlata: e tutto venne bene a proposito, perché stava di dí in dí per partorire; e lei ci mandò molte galline e pesce e altro rinfrescamento per la nave. E il detto re comandò che quella notte tutti arrecassino galline e vettovaglie a vendere alla nostra nave, e a noi mandò a dire che andassimo in terra sicuramente, perché lui e il suo paese stava al servizio del re di Portogallo.
E la mattina descendemmo in terra e andammo al palazzo del re, ch'è sopra il mare, e baciamoli la mano: il quale non ci fece molta accoglienza, e stavasi a sedere in una sedia di quattro piè alta un palmo e mezzo, fodrata di uno cuoio nero con pelo lucido che pareva velluto, e de lí vedeva il mare, ed era involto in uno panno dipinto. E in altre sedie stavano a sedere 18 o 20 Mori, ed eranvi alquante sedie vote, e alcuni di loro erano scalzi. E aveva il re allato uno paio di pantofole, e uno grande sciugatoio di seta fatto alla moresca intorno al capo, e la bocca piena di atambor e non cessava di masticare. E in un subito ci cominciò a parlare e domandare del re e reina nostri signori, e se la reina era gravida, e lui medesimo ci disse ch'era maninconoso perché l'ammirante non andava pel suo porto, e che li pareva sconfidanza, secondo ci disse quel cristiano. E in casa sua vedemmo duoi elefanti giovani, uno di sei mesi, ed era di grandezza come un gran bue e avea carne per duoi buoi, e l'altro era molto maggiore: ed erano neri e molto carnuti, e non avevano maggiori li denti che uno palmo. E sono grandi, di qualità che duoi d'essi portano una nave, per grande che la sia, e portanla sopra la vasa: e legano uno lionfante da una parte e l'altro dall'altra e piú non si danno pensiero, perché la portano tanto diritta e bene quanto si può. E chi dice che gli elefanti non hanno giunture non dice bene, perché si lanciano e gettansi in terra e saltano molto leggiermente; e hanno ciascuno una tromba tanto grande come 3 braccia, colla quale pigliano le vivande di terra, perché con la bocca non possono aggiugnere nulla, quando è in terra, e adoperano la tromba e mettonsi le vivande in bocca. E li Mori, per farci piú onore, li davano con una bacchetta nelle ginocchia, e di presente s'abbassavano e facevano riverenza con le ginocchia in terra.
E al partirci il re fece dare un bue a ciascuna nave, e quelli della nave li mandorono uno presente di bacini e saliere di stagno, e uno poco di zafferano. Noi andavamo per la terra tanto liberamente come in Portogallo, e fecionci tanto onore e reverenza, ed erano tante le galline e pesci e melarancie e limoni e molti rinfrescamenti che loro ci venderon, ch'era gran maraviglia. E pigliata acqua quanto volemmo, il detto re fe' scriver lettere all'ammirante, e io Tomé Lopez, scrivano della nave di Ruy Mendez de Brito, fui chiamato a casa del detto re e quivi scrissi la lettera: e el detto Luigi di Moura mi diceva per parte del re quello voleva scrivessi. E anche ci dissono come gli aveva scritto un'altra lettera all'ammirante, ch'era ancora sotto a una montagna discosto da Melinde sei o sette leghe, per causa del tempo; che coloro che portavano dette lettere non avevano altro rimedio ad andarvi se non mettersi in mare fino alla cintura, per causa delle male bestie che di notte vi si trovano, che gli arebbono ammazzati; e tornati con risposta e con uno scritto dell'ammirante, che comandava ad ogni nave portoghese che per quivi passava che non vi soprastesse. E piú ci dettono altre lettere che Giovan da Nuova li mandava da Quilloa, il quale se ne tornava in Portogallo, e contava come il re di Calicut armò contra di lui una gran flotta, e come la ruppe e fracassò: la qual lettera io Tomé Lopez copiai; e dipoi ci dette la detta lettera per mostrarla all'ammirante.
Questi medesimi ci contavano come il re di Quilloa era già fatto tributario del re nostro signore di 450 o 500 pesi d'oro per anno, il qual re si scusava e non voleva venire a parlare all'ammirante perch'era ammalato, e con questo modo andava dilatando, e non voleva dare né pigliare accordo co' cristiani, come fe' altre volte con Pietro Alvares Cabral. Per la qual cosa l'ammirante comandò che tutte le navi s'appressassino alla città il piú che potessino: e il porto è tale che le navi s'appressoron tanto che 'l pareva che volessero porre la prua nel muro. E questo fatto, essendo tutte le artegliarie a ordine, l'ammirante s'armò con 350 uomini e andorono con li schifi per andare a terra. E veduto questo i Mori ebbono gran timore, e li corrieri andavano e venivano, in modo che 'l detto re fu forzato a uscire della città e venirsi a mettere nelle mani dell'ammirante nel suo schifo con lui, piú morto che vivo, perché credevano che l'ammirante li facesse tagliare la testa. Ed egli lo ricevette con onore e graziosamente, e fecelo sedere sopra uno strato de alcatifas, cioè di tapedi, ch'eran alla poppa dello schifo; il che fatto, egli domandò all'ammirante quello che 'l voleva da lui. Risposeli che veniva, in quel modo che 'l poteva vedere, per far pace con chi la volesse e guerra con chi la volesse, e che lui eleggesse quello li piacesse di duoi l'uno, e che non avesse paura né sospetto di eleggere quel piú li piaceva, per esser cosí in suo potere, perché lo farebbe porre in terra salvo e sicuro, per averli data la fede e salvocondotto, perché li cristiani non costumavano romper la fede data. Rispose il re che voleva pace; allora l'ammirante li disse ch'egli aveva ad essere vasallo del re di Portogallo, e darli uno tributo di 20 perle. E lui rispose che le perle erano dubbiose, e che non era certo di poterle dare di quella grandezza, perché lui le domandava di peso di uno mitigallo l'una, e piú che si potrebbe sempre dire che di finezza mancassino; e che li daria ogni anno in oro quello che fusse onesto, in modo che l'una parte e l'altra parve si contentasse, che daria ogni anno 1500 pesi d'oro, che vale ciascuno uno giusto d'oro. E andossene con questo, e lassò in potere dell'ammirante certi Mori, uomini di conto, per sicurtà di detto tributo; e il dí medesimo mandò mille mitigalli d'oro, e arrecoronlo alla riviera con gran festa e molti suoni e alleggrezza, e la spiaggia era piena di donne che cantavano e spesso gridavano "Portogallo, Portogallo". Dipoi mandò gli altri 500 con gran festa, mostrando ch'erano molto lieti e contenti della nostra pace. E questo fatto, l'ammirante donò a quelli Mori che recorono l'oro e agli altri sonatori assai panno scarlatto molto fino, e al re mandò molto velluto cremisi e panno scarlatto finissimo, e una lettera di ditto tributo, e una bandiera di seta ricamata d'oro con l'arma del re di Portogallo, e comandò che tutta la piú fiorita gente della armata entrassino negli schifi accompagnare la detta bandiera, con molte trombe e naccare e tamburi e colpi di bombarde. E al scendere degli schifi a terra, il re la recevette con gran piacere e mandolla a porre in sul piú alto della città, e le sue di sotto a quella, con molta festa. E fatto questo, il re mandò all'ammirante molti castroni e galline, e l'ammirante li mandò a dire che, s'egli avea alcuno nimico, che gliel facesse a sapere, che lo vendicheria: del che ebbe assai piacere, e gli mandò grandi ringraziamenti; e con questo si partirono da detto re, con gran piacere dell'uno e dell'altro. Questo medesimo ci raccontò come quelli di Mombazza, che confina con il detto, stavano con timore de' cristiani, e che non dubitava che sarebbono molto lieti di dare tributo al nostro re: e oltra scrisse sopra questo largamente all'ammirante.

Di Amiadiva e di tre isole chiamate l'isole di Ghedive.

Mercoledí adí 3 d'agosto partimmo di Melinde e dirizzamoci alla volta di Calicut, e facemmo nostro cammino a greco e levante. E adí 4 entrammo un'altra volta sotto la linea equinoziale, dove non sentivamo tanto caldo come trovammo nella costa di Ginea, quando fummo di sotto della linea. E andammo senza l'altra nave Iulia, perché non ci volle aspettare, e camminammo 375 leghe a greco e levante, e da quivi innanzi andammo a greco e quarta di levante: e in detto modo passammo 300 leghe, e di qui tornammo a greco e levante e andammo 65 leghe. E uno venerdí mattina, adí 19 d'agosto, vedemmo terra dalla banda di Calicut, e cosí passammo il golfo in dí quindeci e mezzo: e le terre che noi vedemmo fu discosto da Amiadiva circa 40 leghe. E di quivi venimmo costeggiando alla via d'Amiadiva, e andando cosí costeggiando trovammo 3 isole, che si chiaman l'isole di Ghedive, che sono a dirittura di mezzodí e tramontana, e lungi da terra ferma 15 leghe; e innanzi ne trovammo 9 o 10, cioè 3 dalla banda di greco e l'altre piú di sotto a libeccio. E innanzi che giugnessimo a dette isole di Ghedive circa 10 o 12 leghe, trovammo grandi montagne e aspre, e una di quelle viene sopra il mare e al piè d'essa fa una collina: e quando si viene per mezzodí, fa una collina nella quale sta uno cappello che pare una gabbia di nave, ch'è un buon segnale. E da tre o quattro leghe innanzi che si giunga alla detta isola sono tre o quattro altre isolette a tramontana di là, e dalla banda di mezzodí ha tre isole a lato alla medesima isola d'Amiadiva, e una picciola isola che di mare pare poco boscosa e nel mezzo ha uno monticello; e di là da quella, in terra ferma, è un'alta e gran montagna. Avanti che avessimo vista di terra, trovammo per mare molte serpi, e per quello conoscemmo ch'eravamo presso a terra, perché non vanno mai discosto da terra piú che trenta o quaranta leghe.
Adí 21 d'agosto, in domenica mattina a buon'ora, arrivammo alla detta isola, in modo che innanzi nona ci viddono e trassono alcun colpo di bombarda; e come l'ammirante, ch'era nella detta isola, udendo messa, con la maggior parte della gente udirono, lasciorono stare ogni altra cosa e con gran fretta feciono apparecchiare tre navi e due caravelle, e vennono a noi credendo che fussero navi della Mecca, e messonsi fra noi e la terra, a causa che non potessimo rifuggire a terra: e come noi le vedemmo, n'avemmo gran piacere, e ponemmo bandiere e tende e stendardi. E come viddono questo, conobbono ch'eravamo di Portogallo e voltorono adrieto per tornarsi a detta isola. Una delle caravelle venne a noi e domandoronci della nave Iulia, e rispondemmo che ella si partí di Melinde avanti a noi e che mai ci trovammo insieme; dapoi in capo di 15 dí arrivò. Ed ebbono gran piacere della venuta nostra, e posono stendardi e le tende e le bandiere, e vennono alla nostra nave per saper nuova di Portogallo, e altri per sapere se avevamo lettere di Portogallo. Avevano molti ammalati, alli quali facemmo parte delle galline che recammo da Melinde, e melarancie e altre cose da mangiare, e molto si maravigliarono che noi eravamo tutti sani e ben disposti. Loro avevano fatto alcune tende in terra, dove tenevano gli ammalati: il male loro era che le gengive crescevano loro sopra li denti, in modo che molti ne morivano; e altri erano ammalati d'uno enfiato che veniva loro fra le coscie e 'l corpo, e questa non era tanto pericolosa come il male della bocca. Da terra veniva certa gente alla nostra nave, nera e senza vesta dalla cintola in su, e di quivi a basso aveano avolto intorno uno panno di lino o di gottone; e portavanci a vendere pesce fresco e cotto e citriuoli e rami di cannella salvatica, che ci davano per pochi danari, e molte altre cose, e certi fichi lunghi e grandi come citriuoli non molto grandi, e delli miglior frutti di gusto che possa essere al mondo: e ancora che se ne mangiasse una cesta piena, non fanno male alcuno e non impacciano lo stomaco.
Essi ci contorono che quando loro attraversarono quel golfo, che andorono fuor di quivi circa cento leghe, cioè fuor di cammino di verso le case dalla Mecca, e che viddono uno zambuco de' Mori, il quale fu preso dalla caravella con tutta la gente: quali erano d'una gran città de' Mori, ch'era quivi presso dentro a una riviera, che si chiama Calinul. E che l'ammirante in abito disconosciuto entrò in una caravella, e menò seco i ditti Mori e il zambuco con tutti i suoi, e andorono davanti la detta città, della quale uscirono trenta uomini a cavallo; e quelli che andorono con l'ammirante dissono che secondo la sua grandezza ve ne erano molti piú. E come giunsono quivi, mandorono i detti Mori in pace, i quali come furono giunti alla città, tornorono subito con un presente di galline e frutti, dicendo da parte del re di detta città che dicessero che gente erano e che andavano cercando per mare. L'ammirante li disse che erano cristiani e che venivano con mercanzie per negociar in India, e che venivano cosí ad ordine per far pace con chi la volesse, come guerra con chi la volesse. Dissonli da parte del detto re che con tutta la flotta che era di fuori davanti il suo porto l'assicurava, e che venderia loro molti diamanti e lacca, e se per aventura volessero caricar di grano, caricarebbe tutta la flotta in 10 o 15 dí, e che se avevano panno alcuno di scarlatto, che lo compreriano: e l'ammirante si partí da loro dicendo che direbbe tutto al capitano. E alla partita l'ammirante comandò che sopra coloro tirassino uno colpo di bombarda grossa con la palla per mettere loro paura, e con opinione di tornarvi ed entrar dentro con tutte le navi; ma come giunse alla flotta, cominciò tirare un poco di buon vento, di modo che consigliorono d'andare a loro viaggio.

Come furon ritenuti quei che venivano con un zambuco per andar a Cananor a caricare; dipoi, restituitili tutte le sue robe, furono consignati pregioni ad uno ambasciator del re di Cananor, il quale gli aveva recato molte gioie per renderli il dono.

Adí 26 d'agosto comandò l'ammirante che tutti partissero di detta isola Amiadiva, e davanti a noi partirono per Cananor le due caravelle e due navi, e alli 28 del detto mese partimmo de lí tutta la flotta con vento calma, e camminavamo di dí e di notte no. E cosí andammo costeggiando, tanto che giugnemmo ad uno gomito dov'era uno borgo, che si chiama monte Eli ed è terra del re di Cananor; e come fummo giunti, mandò l'ammirante alcuna delle navi in mare a cercar le navi della Mecca, e l'una andava e l'altra tornava. Dipoi ch'andorono 5 o 6 dí in questo modo, finché la nave Smeralda ebbe acconcio l'albero, il quale se gli era rotto nel golfo, e lavorando in su la riviera appresso al mare, un paio d'elefanti arrecorono dal monte detto albero senza alcun travaglio delle genti: e non è gran cosa che duoi elefanti portino un tal albero, perché, secondo che ci accertorono, portarebbeno una nave, per grande che si fusse, fino porla in su la vasa e tanto diritta che è maraviglia; ed è certo che non è animale alcuno che faccia qualsivoglia cosa che li sia insegnata come lo elefante. E andando cosí le nostre navi, quella di Fernando Lorenzo trovò una nave, che diceva parerli cosí grande come quella della Reina, e dettele la caccia e trassele 6 o 7 colpi di bombarda grossa, e per non aver piú palle da trarre con detta bombarda non si arrendé, e come fu notte si perdé e non si rividde piú.
E noi ch'eravamo nella nave di Ruy Mendez di Brito, gentiluomo di casa del re nostro signore, andando per mare alla cerca di qualche nave della Mecca, vedemmo uno zambuco che ci pareva surto; e perché 'l vento era calma e veniva la notte, ci accordammo mandarvi lo schifo ben armato con dodici uomini, fra' quali era Giovanni Buonagrazia fiorentino, capitano di detta nave. E come i Mori viddono non potere scampare, vennono tre di loro nella loro almadia a noi con un presente di fichi e noci d'India; e come giunsero li ricevemmo nel battello, e lasciorono per poppe la detta almadia. E come fummo presso al detto zambuco, tirammo duoi colpi di bombarda con la pallotta di sopra a ditto zambuco per far lor paura: e come viddono questo, tutti si gittorono in mare, e li nostri li ripescorono e con loro si misono nel detto zambuco. Ed erano ventiquattro uomini grandi di corpo, e andavano da una isola a Cananor per caricare (secondo ci dissono), e portavano filo di stoppa di noci e igname, cioè una radice come rapa. E come gli mandammo all'orlo della nave, e legato per poppe el zambuco, i Mori ch'erano in detto zambuco messi a buona guardia.
Fatto questo pigliammo la nostra via, dove l'ammirante con tutta la flotta, e lui ci comandò che gli tenessimo cosí fin che direbbe quello che di loro si arebbe a fare: e cosí li tenemmo fino adí 12 del detto mese, e poi ci comandò che noi li consegnassimo ad uno ambasciadore del re di Cananor, il quale gli aveva recato molte gioie. E per rendergli il dono, dette loro detti prigioni, e domandò loro se avevamo tolto loro cosa alcuna, che gliela farebbe restituire; e loro dissono che non avevamo lor tolto se non vettovaglie, della qualcosa non si curavano, e piú quattro panni, e quelli pregavano fussino loro restituiti. Il che dispiacque molto all'ammirante, e comandò subito che fussino loro restituiti, e consegnò tutto al detto imbasciadore, con molto piacere; e misonsi a cammino alla volta di Cananor, come quelli che pareva loro esser scampati di cattività, sonando tamburi che nel detto zambuco avevano.

Del gran contrasto che ebbe una nave di Portoghesi con una di Calicut.

Adí 29 di settembre, andando alcuna delle nostre navi cercando per mare delle navi della Mecca, San Gabriello si scontrò con una gran nave di Calicut, che tornava dalla Mecca a Calicut e levava 240 uomini, senza le donne e fanciulli e fanciulle che ve n'erano assai, ch'erano andati di Calicut in pellegrinaggio alla Mecca e tornavano. E datoli la caccia, come trassero alcuni colpi di bombarda, subito si dierono, non ostante che gli avessino arme e artegliarie, e non vollono combattere, parendo loro che con l'assai roba che avevano in detta nave ricomperarebbono la lor vita, perché v'erano dieci o dodici Mori mercanti de' piú ricchi di Calicut. E fra gli altri ve n'era uno che si chiamava Ioar Afanquy, e dicevano che era fattore nella detta città del soldano della Mecca: e quella nave con 3 o 4 altre navi erano sue, e per sé faceva gran faccende di mercanzie. Il quale, sendo insieme con l'ammirante, la prima parola che li disse si fu che li lasciasse la nave cosí come stava e che lui li darebbe per l'albero, ch'era rotto, cento crociati e caricarebbe tutta la flotta, ch'erano 18 navi e due caravelle, di speziarie: ed eranvi di dette navi 5 o 6 navi grosse. E vedendo lui che l'ammirante non voleva intendere el partito che lui gli aveva offerto, li tornò a offerire nuovo partito, e che darebbe per sé e per una sua moglie che quivi era e per uno suo nipote quattro delle maggior navi della flotta cariche di speziarie, e che voleva stare preso nella nave dell'ammirante e che 'l suo nipote andasse a terra: e se infra 15 o 20 dí non sodisfacesse a quanto prometteva, che in quel caso facesse di lui quello li piaceva; e piú si obligava di far restituire al re nostro signore tutta la roba che gli fu tolta a Calicut, e di far far pace e amistà con Calicut. L'ammirante non volle fare nessuno di questi partiti, e disse al detto Ioar che dicesse a' Mori ch'erano in detta nave che ciascuno li desse di presente tutta la roba ch'avevano in detta nave. Rispose: "Quando io comandavo questa nave, facevano quello che io comandava; ora che tu la comandi, dillo loro tu". Per le qual cause i detti Mori dettono all'ammirante quello che ciascuno volle dare, senza stringerli con tormento nessuno; né cercò come si doveva, perché dipoi furono trovati vestiti di detto Ioar per piú che tremila cruciati: pensate le gioie e altre cose sottili che vi restorono, i coppi d'olio e burro e mele e altre vettovaglie.
E questo fatto, l'ammirante comandò a 5 o 6 battelli che menassino detta nave tanto che si discostassino un poco dalla flotta, e poi vi mettessino fuoco e ardessenla con tutta la gente che v'era su. E disarmata la nave e lassata senza temone e sarte, certi bombardieri misono fuoco in coverta e tornoronsi a' battelli; e i Mori lo spensono e misono arme in coverta, che ve n'eran assai restate per non le aver cerche, e molte pietre che v'erano per saorna, e tutte pietre di mano, e questo fatto deliberorno morire combattendo piú presto che giamai piú darsi. Come quelli di battelli viddono il fuoco spento, tornorono per raccenderlo e credettero poterli maneggiare come prima; ma furono salutati da infinite pietre, e cosí dalle donne come dagli uomini, per modo che i nostri per cortesia non vollono entrar dentro, e piú tosto s'allargarano e cominciorono a trar loro bombarde: e perché erano piccole non facevano mal nissuno. E in questo le donne si ponevano a bordo della nave, e molte di loro mostravano gran groppi d'oro e d'argento e gioie, e gridavano con gran forza e chiamavano l'ammirante, movendo il capo e accennandolo che li darebbono tutto se voleva loro salvare la vita, secondo si giudicava per cenni che facevano: e tutto vedeva l'ammirante per una balestriera. Alcune donne pigliavano i loro piccoli figliuoli e alzavangli con le mani, faccendo segno, secondo il nostro giudicio, che si avesse pietà di quelli innocenti; e gli uomini facevano segno con la testa che si volevano riscattare con gran cosa, mostrando di ciò gran disio. E non è dubbio che con quello si sarebbe potuto riscattare quanti cristiani avevano prigioni nel regno di Fez, e ancora restava gran ricchezza al re nostro signore. E vedendo loro la determinazione dell'ammirante, che non li voleva far grazia di camparli, fecero gran ripari nella nave con matarassi e altre robe e stuoie e graticci, e disposonsi di vendere le loro vite piú care che potevano, come in fatto cosí fecero, perché quanti potevano giugnere tanti ne ferivano e ammazzavano.

Della grandissima difesa che fece questa nave di Calicut mossa a disperazione, e come finalmente fu arsa, avendo prima i Mori che v'erano dentro gettato in mare il gran tesoro ch'avevano d'oro, d'argento e di gioie. E come la nave San Paulo diede la caccia a quattro navi de' Mori.

Essendo loro a questi termini, noi ch'eravamo nella nave di Ruy ditto, e avevamo il zambuco ligato per poppe che avevamo preso in mare, vedevamo tutto: e questo fu un lunedí, adí 3 d'ottobre 1502, che in tutti i dí di mia vita mi ricorderò; quando quelli ch'erano in detti battelli cominciorono a far segni e chiamarci e far segno con una bandiera. Per la qual cosa andammo, e innanzi che noi ci afferrassimo con la detta nave, ripartimmo quella poca gente e qualcuno ne lasciammo nel detto zambuco che con noi avevamo; e molti di noi non presono arme, parendoci avere a combattere con gente disarmata. E con questa leggierezza ci andammo a serrare con la nave, cioè col castello davanti nel suo scollato, ch'era tanto alto come lei, e come giugnemmo traemmo una bombarda grossa, la qual fece una gran buca appresso al posatoio dell'albero. E loro, come uomini deliberati a morire, di presente afferrorno stretta la nostra nave con la loro in duoi luochi: e questa cosa fu tanto subita e furiosa che non avemmo tempo per tirare dalla nostra gabbia solo una pietra, e avevamo poche lancie e pochi dardi, e con questi pochi facemmo loro molta guerra; e non avevamo altro a fare che far andar quelli 24 Mori che pigliammo in sul zambuco sotto coverta. E quelli della nave, che molto desideravano d'averci alle mani, facevano quanto potevano che le navi si drizzassino l'una con l'altra, per esser molto piú alta la loro che la nostra: e s'elle si drizzavano, non avevamo modo alcuno di vita, perché la prima ricevuta che ci feciono fu con tre o quattro sassi di mano; e tanta stretta ci davano che nessuno bombardieri non si poteva accostare a nessuna bombarda, né potevamo loro fare né facevamo altra cosa, salvo con una balestra che abbatteva alcuno di loro, e alcun che voleva entrar dentro con esso noi a lanciare era fatto tornar indrieto, e il simile facevano loro a noi con le lor lancie, e con le nostre tirate a loro della nostra gabbia. Erano con esso noi ben quaranta uomini di quelli ch'erano co' battelli, e nessuno di noi non si mostrava, che subito non avesse intorno venti o trenta pietre e alcuna freccia mescolata con esse.
Durò la battaglia fino al tardi, e il dí in quelle bande era maggiore che in tutto l'anno. Messonsi con tanto empito contro di noi ch'era maraviglia a vedere, e benché noi ne ferissimo e ammazzassimo assai, pareva che non mancassino e non sentissino le ferite. Trovamoci nel nostro castello davanti quattordici o quindici uomini, e lí fu la forza della battaglia, perché stavamo insieme afferrati pel castello, e loro come dannati e arrabbiati ci si misono contro, tanto rigidamente che tutti ci ferirono. Per la qual cosa tutti li nostri si partirono dal castello, veduto come ci serravano, perché, ancora che ponessimo loro le lancie al petto, senza paura alcuna ci venivano contro per appressarsi a noi, tanta era la loro rabbia. In modo che non restammo nel detto castello davanti se non Giovanni Buonagrazia, capitano di detta nave, armato con una corazza scoperta, la qual era tutta ammaccata e guasta da' colpi delle pietre, e io: e fur tanti e tali che li ruppono le coreggine di detta corazza, e stando in questo modo in sul castello li cascò il pettorale; ed eravi già entrato dentro alcun Moro. In questo, detto Giovanni Buonagrazia disse: "O Tomé Lopez, scrivano di detta nave, che facciamo noi qui, poi che tutti se ne sono andati?" E partimmoci l'uno e l'altro ferito, e come fummo fuori di detto castello, v'entrorono i Mori e misono gran gridi, come se già avessino vinto; gli altri ch'erano nella loro nave presono di questo grande animo, e con rigoglio combattevano molto fieramente.
Quelli ch'eran venuti per aiutarci, visto come il castello davanti ci era stato tolto e che molti altri Mori andavano per la coverta e altri disotto al cassero, perderono l'animo, in modo che si gittorono in mare, e li battelli ch'eran quivi li ripigliavano. E restammo in detta nave pochissima gente, e tutti o la maggior parte feriti; ne ferivamo ancor alcuni di loro, e subito si ritiravano alla lor nave e venivanne degli altri, di modo che non mancavano; alcuni ch'erano forte feriti, quando si credevano tornare alla lor nave, cadevano in mare e morivano. E com'è detto, per forza entrorono con esso noi disott'al cassero, e quivi ci ammazzorono uno uomo e ferironne duoi o tre. E male ci potevamo difendere dalle pietre; pure la vela ci difendeva alquanto.
Essendo noi in questa stretta, la nave Gioia si mise alla vela e venne alla volta nostra, faccendo vista di volersi afferrare con l'altra; per la qual cosa si ritornoron tutti alla lor nave e disferroronsi da noi, e taglioronci al primo ostacolo alquante sartie, stimando loro che la detta nave Gioia si volesse afferrar con la loro: il che non fe', con tutto che la fusse maggiore che la nostra, perché li viddono molto infiammati; e quivi restorono tre di loro morti a lanciate. Certo, se questo non fusse stato, loro ci trattavano male, perché erano assai e noi pochi e la maggior parte feriti, e tanto male armati che si può dire senza armi. E la nave Gioia sorse ancora lei appresso a quella e trassele duoi colpi di bombarda, e altre cose non li poterono fare.
L'ammirante entrò nella nave Leonarda, e con 6 o 7 navi delle principali della flotta si mise in mare dietro a quella, cosí come el mare la levava, e andolle dietro quattro dí e quattro notte, senza che giamai nessuna d'esse la potessono afferrare: e l'una andava dietro e l'altre innanzi, e passandole appresso li traevano con le bombarde. E se non era uno Moro de' loro che si gittò in mare e venne allato alla capitana a dirle che, se li dessino la vita, che gli andrebbe a nuoto a largare un cavo alla femmina del timone di detta nave, perché potessino abbruciarla, e da qui innanzi non li anderebbono piú drieto. E quel Moro andò a legare il detto cavo, e l'ammirante li dette la vita e donollo a Iuam da Vero; e avea con seco 50 e tanti saraffi d'oro, e raccontava il gran tesoro che restò in detta nave, il qual gettorono tutto in mare; e diceva che avevano ancora in nave molta vettovaglia, e che tutto aveano nelle ghiare di mele e di olio, nelle quali aveano nascosto molto oro e argento e gioie, e che, come viddeno che non volevamo perdonar loro la vita, tutte le ghiare dov'era tesoro gittorono in mare. E vedemmo alcuna volta nel combattere alcuno, ferito di qualche freccia, trarla fuori e con mano ritrarla a noi, e tornare a combattere, che non pareva sentisseno ferite. E cosí, doppo tanti combattimenti, l'ammirante fece abbruciare la detta nave con gli uomini che sopra si trovorono, molto crudelmente e senza pietà alcuna.
Doppo questo, la nave San Paulo trovò quattro gran navi e dette loro la caccia, e loro si fuggiron verso terra: e tre d'esse entrarono in un fiume, e l'altra a chi davano la caccia si gittò tanto a terra che la incagliò in secco; e gionti si afferroron con essa, la qual era tanto a terra ch'altro rimedio non avevano. Li nostri, per non andar in terra, fecero dar fondo a una ancora in mare, e perché già la nave de' Mori andava a traverso, e per non li tenir la detta ancora, essendo il mar grosso e il vento forzoso, si disferrorono da essa per non andare a traverso con lei. Come i Mori si viddero sul principio afferrati, si gittorono in mare, de' quali se ne salvò qualche uno con la barca di detta nave, e assai di loro morirono in mare; e la nave si disfaceva a poco a poco per forza dell'onde del mare. E li nostri stettono quivi un pezzo ancorati, e non avevano alcuno rimedio per recuperare certi uomini, che saltorono nella nave de' Mori quando se abbordorono con loro, se non mettere il battello fuori e andar per loro: a cagion del grande empito del mare non poterono cercar altre cose, né pigliare di detta nave se non alcune targhe e spade delle loro. In terra era molta gente, che raccoglieva quello che 'l mare gittava fuora.

Come il re di Cananor e l'ammirante s'abboccorono insieme; come quelli dell'ammirante presono uno zambuco de Mori ch'andava a Calicut; e delle lettere che scrisse il detto re all'ammirante.

Adí 18 d'ottobre 1502 giugnemmo davanti Cananor, e di presente vennono certi uomini da conto da parte del re a visitare e salutare l'ammirante, e dissongli che 'l re si voleva abboccar con lui. Rispose loro che gli piaceva, e determinorono il dí quando avessi a essere; e l'altro dí il re fece fare un ponte di legname sopr'il mare, molto grande e largo quanto quel di Lisbona, e fecelo fare molto gentile. Adí 19 detto l'ammirante si mise a ordine in una carovella, coperta la poppa di velluto cremesin e verde per metà, e con essa la piú fiorita gente che fusse nella flotta, e ne' battelli delle navi assai bandiere, trombette, naccare e tamburi, e con molte danze e piaceri assai, e bombarde e lancie e balestre e altre arme; e lui in uno ricco apparato in terra e guanciale, e in dosso una roba di seta e due gran collari d'oro e molto ricchi, cioè uno al collo e l'altro ad armacollo. E cosí s'andò ad abboccare col re sopra il detto ponte di legno, il quale avea due entrate, una da banda di terra e l'altra da banda di mare, l'una e l'altra coperta di panni dipinti. Il re giunse alla prima entrata con circa 400 uomini, e tutti con spade e targhe rosse molto belle, e altri con archi e freccie, e altri con partigiane. E il re e la sua gente non avevano altro vestito che uno panno dipinto avvolto intorno e che li copriva da' fianchi a basso, e da quivi in su non erano vestiti; e in capo avevano una berretta dipinta, a uso di nespole. Tutta la gente restò discosto dal ponte un poco, perché cosí fu ordinato, per securtà.
Il re entrò la prima posada, ch'era come una piccola casetta, e riposossi un poco, perché era gran caldo. E l'ammirante non giugneva ancora al ponte, e come giunse, il re si mosse e andò verso lui con quelli ch'erano con lui, ch'erano circa 30 uomini: perché cosí fu ordinato, e che nessuno potesse menar seco piú che 30 uomini, e che s'abboccassero in detto modo, perché l'ammirante li disse ch'aveva comandamento dal suo signore che non descendesse in terra. E però si fece fare il ponte dove stava il re, e l'ammirante stava nella carovella. Andavano innanzi il re due uomini con bastoni grandi, e in essi dipinto era un capo di bue, e con questi facevano vento al re: e non sapemmo se era per magnificenza o perché era gran caldo. Aveva due altri uomini con altri 2 bastoni, e in ciascun d'essi era uno sparviero bianco, e con questi andavano ballando, come in Portogallo ballano le fanciulle. E com'il re e l'ammirante giunsono al palco, ch'era in mare, over sopra esso, che quasi giunson in uno medesimo tempo, dieronsi la mano in modo d'amicizia, e dipoi che si favellorono un poco per uno interprete, l'ammirante donò al re certi vasi d'argento dorati con sua mano, molto ricchi, per parte del nostro re, cioè bacini grandi e mescirobbe e saliere e altre cose; e funne l'ammirante biasimato da alcuno a darli di sua mano, perché pareva stimasse piú quegli argenti che non facevano l'oro. Il re medesimamente dette all'ammirante, ma non di sua mano, molte pietre preziose di gran valuta, e cosí agli altri capitani e gentiluomini che erano con lui, ma non di sé gran prezzo come a lui, mostrando ch'erano cose di non molta stima a loro, non obstante che fussero cose ricchissime. Di poi l'ammirante lo richiese di porre prezio alle speziarie e similmente alle loro mercanzie. Il re rispose che non era quivi tempo per far simile accordo, e alsí che lui per allora non aveva speziarie, perché non gli erano ancora venute, e che l'altra mattina gli mandarebbe quelli Mori, de' quali sono le speziarie, che erano nella terra, e che comandarebbe loro che non si discordassino con lui, e che loro verrebbono a quello che fusse onesto.
E l'altro dí venuti detti Mori, addomandorono delle speziarie molto maggior prezzo che l'altre volte, e doppo molto parlare non si poté mai con loro fare alcun partito che buon fusse o onesto; ma piú presto mostravano di non voler nostre mercanzie, e con questo si scusavano, per non dar delle loro per lo giusto prezzo, come quelli che sarebbono stati piú gioiosi che noi non avessimo in banda alcuna trovato da caricare. Visto e conosciuto questo, l'ammirante con molta furia li mandò via, e mandò a dire al re che li pareva che non si curasse della nostra pace, poi che non voleva che si trattassi l'uno con l'altro, conciosiacosaché per trattare accordo li mandava Mori, che, come sapeva, avevano odio antico con li cristiani ed erano molto nostri nimici; e che, poi che con Mori aveva a fare, che ancora con lui voleva avere a fare, e che certi fardi di spezie ch'erano già nella nave capitana senza prezzo, che glieli prometteva rimandare l'altro dí a buon'ora a terra con tante trombe e colpi di bombarda, come gli ricevette. Ed essendo in questo modo infuriato, venne da terra Pay Rodoriches, fattore del signore don Alvaro, ch'era in detta città, che vi restò l'altro viaggio, e l'ammirante li disse che non tornassi piú a terra, perch'egli aveva rotto col re. Risposeli: "Non piaccia a Dio che io dia tanto mal conto di me al mio signore don Alvaro", ma che dove s'aventureriano i beni del suo signore, che similmente lui si voleva avventurare; e con questo se ne tornò a terra. E in su questa furia, l'ammirante rimandò a dire al re che si voleva partire dal suo porto e cercare carico per le sue navi, e che non assicurava i Mori di sua terra, e che li mandassi a dire se quelli cristiani portoghesi ch'erano in sua terra eran sicuri; se non, che subito gliene rimandasse, altrimenti li giurava e prometteva che, se alcuno male o disonore fusse loro fatto, che suoi Ciafferi lo pagherebbono (Ciafferi si chiamano i naturali del paese).
E partimmo del porto di detta città di Cananor uno sabbato, adí 22 ottobre, con vento calma, e di notte stavamo surti e di dí andavamo. E andando cosí a nostro cammino verso Calicut, vedemmo uno zambuco, al quale per comandamento dell'ammirante andò una caravella, e datali la caccia, gli prese la terra, acciò non si buttasse a terra come cominciava; presonlo con circa venti Mori e Ciafferi. Portava a Calicut filo di noci, che loro chiamano cabaye e cocos.
E andando noi costeggiando alla via di Calicut, vedemmo tre gran navi, tanto presso a terra che parevano in secco, alle quali andorono otto battelli stipati e le due carovelle: e l'ammirante entrò in una d'esse, cominciorono a trar loro colpi di bombarde, e tanto gli strinsono che si cominciorono a gittar in mare e fuggire a terra. E come uno signore di quel paese, di chi erano quelle navi, vidde questo, cominciò a correre e con 7 o 8 uomini si mise in una almadia e andossene all'ammirante, e dissegli ch'era vasallo del re di Cananor, e che tutta quella terra quivi intorno era soggetta al detto re, e che aveva pace e amistà con Portoghesi; e che se non si fusse fidato alla detta pace, che non arebbe trovato quivi le sue navi, e che per quello non volle noleggiare le dette navi al re di Calicut per armar contra cristiani, quando armò contra Giovan da Nova, e che per quello aveva guerra col detto re, e che era mal trattato da lui; e che oltra questo era parente e grande amico del re di Cocchin, e che, se bisogno fusse, che lasciarebbe nelle sue mani quegli uomini che gli aveva menati seco per sua sicurtà, fino a tanto lo certificasse di tutto quello che diceva: e cosí si fece. E per accertamento, quella notte venne a trovar la flotta uno criato del sopradetto Pay Rodoriches, che restava in Cananor, con lettere del re e del detto Pay all'ammirante, con la risposta della imbasciata che l'ammirante alla sua partita li mandò, la qual li diceva che, in caso che lui ammazzasse i suoi Ciafferi o pigliasse (cosí come li mandò a dire), che per quello non era per romper la pace che aveva fatto col re di Portogallo, la quale teneva per ferma e forte, e che non era per far contro a quella; e che volendo pur lui ammazzare e pigliar la sua gente, che lo poteva fare, perché non voleva comandar loro che si guardassino da lui, ma che tutto farebbe a sapere al re di Portogallo, e che se lui l'aveva per bene che lui li facesse guerra, senza pregiudicar alla pace fatta, che non l'arebbe per male; e che al riguardo de' cristiani ch'erano ne' suoi paesi, posto che lui li facesse tutta la guerra che volesse o potesse, che per quello non sarebbe lor fatto né danno né vergogna nel suo paese. E il simile diceva Pay Roderiches nelle sue lettere. L'ammirante ebbe gran dispiacere, parendoli che per consiglio del detto Pay li scriveva in quel modo.
L'altro dí, il signore delle dette navi mandò di terra all'ammirante uno presente di galline e fichi e quattro o cinque sacchi di riso e uno castrone. L'ammirante ricevette detto presente e fecegliene pagare quello che valeva; e rimandolli a terra gli uomini che gli aveva lasciati in nave, dicendogli che per amore del re di Cocchin, di chi diceva esser parente, gli lasciava, e cosí la nave, la qual per suo amore sicurava.

Come costeggiando verso Calicut, vista una gran nave, presero consiglio di non arderla, per esser chiamato l'ammirante del re di Calicut per capitolar la pace.

Mercoledí adí 25 d'ottobre ci partimmo e andammo al nostro viaggio inverso Calicut, e andando cosí costeggiando, vedemmo molto appresso a terra una gran nave, e l'ammirante montò su una caravella, poi che la flotta fu tutta surta a largo, e andò là presso per vederla. E come fu ritornato, fece alzar una bandiera, per la qual cosa tutti i capitani andorono a lui, dove si praticò la cosa. E avuto consiglio, tutti furon d'accordo che non era bene arderla, per esser l'ammirante chiamato dal re di Calicut, qual li scrisse quando era in Cananor ch'egli andasse dinanzi al suo porto, e che capitolerebbe la pace e tratto delle mercanzie. E piú se intese come la detta nave era di Iuneos, che son genti che negociano maravigliosamente in India, e in lor mani hanno gran cose di speziarie e reconle a vendere in India. Per la qual cosa praticarono che non le impaurissino piú, e ch'era bene che l'ammirante li mandasse a chiamare a terra con sicurtà, per accordar con loro pace e tratto di mercanzie: e cosí si fece, e loro non si volsono fidare a detta sicurtà.

La causa che mosse il re di Calicut a scriver all'ammirante che venisse avanti il suo porto.

E perché abbiamo lassato indietro di scrivere come, essendo l'ammirante in Cananor, ebbe lettere da Cocchin da Consalvo Gil, che ve lo lassò Giovanni da Nova, e per quelle contava come il re di Calicut scrisse molto caldamente al re di Cocchin, nel tempo che la nostra flotta era in Amiadiva, faccendoli a sapere per certo che nelle parti d'India eran passate XX navi grosse del re di Portogallo, e che venivano per male e danno di tutto il paese d'India, perché tutte le navi che riscontrassino non potriano scampare davanti a loro, e di tal cosa a tutta India ne risulteria gran danno: e che molto maggior sarebbe, ogni volta che si cominciassi ad insignorire in terra di cosa alcuna. E che, tutto ben considerato, non avevano altro che un solo rimedio e perfetto, e che non si seguendo questo, erano tutti persi e soggetti: il quale era non dar loro spezie in tutta l'India per prezzo niuno, perché, ben considerato, il fine di detta gente, venendo sí di lungi, non era se non per aver spezie; e perché in su questa speranza venivano, quando sapessino certo che per alcun prezzo non s'avessi a vendere loro speziarie, giamai non tornerebbono in India. E che, se non s'accordassino tutti a non darne loro in modo alcuno, altro rimedio non era a disviarli del paese d'India, perché ben vedevano che tutti loro non erano possenti per obviare che piú i Portoghesi non venissino in India. E ch'avea già richiesto a' Mori che stanno in suo paese che armassimo contro a essi cristiani, e quelli avevano risposto: "Come abbiamo ad armare contro a una sí grande armata?", perché, come ei sapeva, l'anno passato armorono contro a quattro picciole navi che aveva Giovanni da Nova, e mai poterono lor far male veruno; e che ora non erano per armare, e in fine lo pregavano strettamente che tenessi modo che detti cristiani si tornassino in Portogallo senza alcune speziarie, e che lui terrebbe modo che gli altri re e signori, in mano di chi sono le spezie, facessero nel medesimo modo. La risposta che li fece il re di Cocchin fu ch'egli avea fatto pace e capitolato benissimo co' Portoghesi, e che non era per fare altra cosa, perché sapeva che li cristiani erano uomini veritieri, e che altrimenti non era per fare, e che aveva buona speranza dar loro buon ricapito per caricarli. E tutte due le dette lettere, cioè quella che li mandò il re di Calicut e la risposta che li fece, le mostrò al detto Consalvo Gil.
E questa fu la causa che 'l re di Calicut scrisse all'ammirante a Cananor che andassi dinanzi al suo porto, e che non voleva co' cristiani se non pace e amistà, e voleva restaurarlo de' beni del re di Portogallo che restorono in Calicut, quali lui donò al signore della nave che Pietro Alvarez Cabral abbruciò; e che parte d'esse robe fussin pagate in un pagamento quale il re voleva si facesse, e che ora si pigliassino giudici, che vedessino la perdita fatta da ciascuna parte, e che chi fusse debitor pagasse; e che toccante alla morta gente, che questo non si può pagare né restituire, ancor che, quando tutto s'arà ben visto, che li cristiani sono molto ben vendicati con la morte di tanta gente quanto loro hanno morta, tanto della nave della Mecca come degli altri d'altre navi che gli hanno arse: e sopra questa intenzione l'ammirante si partí per la volta di Calicut.

Come l'ammirante andò a Calicut e il re mandò uno ambasciatore a salutarlo, pregandolo gli rispondesse se era contento capitolar la pace al modo gli avea scritto; e la risposta fattali per l'ammirante. Come preseno quattro almadie de pescatori e uno zambuco,
il che fu causa della indignazione del re.

Adí 26 d'ottobre l'ammirante fece impiccare all'antenna due Mori, di quelli che furon presi nel zambuco che si prese presso a Pandarane, perché da ragazzi giovani che furon presi nella nave della Mecca furon conosciuti, e dissono che detti Mori erano di Calicut, e che un di loro alloggiava in casa del padre d'uno di detti giovani, e nel tempo che stava con suo padre ammazzò nella battaglia di Calicut duoi cristiani, e l'altro tagliò il braccio a uno cristiano in detta battaglia: e per detta cagione morirono, col bando il quale diceva che morivano per giustizia. E similmente l'altro dí fece ammazzare un altro Moro a lanciate, perché detti giovani l'incolporon, dicendo che colui rubò certe robe alla detta battaglia. Questi giovani erano naturali di Calicut, e tornavano dalla Mecca di romeria. L'ammirante fece compartire in tutte le navi della flotta tutti quelli Mori che furono presi in detto zambuco; e fatto questo, incontanente se n'andò alla nave Elena, e comandò che si mandasse pel capitano.
E noi facemmo vela al cammino di Calicut, in sabbato adí 29 d'ottobre, e giugnemmo davanti la detta città di Calicut, la qual di mare non potevamo vedere, se non una picciola parte d'essa, perché è posta in una valle piana ed è tutta coperta da palmari molto alti. E come ci appressammo, venne alla capitana uno imbasciadore del re a visitare l'ammirante e salutarlo da parte del re, dicendoli che fusse il ben venuto, e ch'el detto re era parato osservarli quanto gli avea scritto a Cananor, e che lo pregava gli rispondesse s'era contento di capitolare la detta pace nel modo gli avea scritto. L'ammirante gli mandò a dire che la prima cosa ch'egli aveva a fare era di cacciar fuor del suo paese tutti e' Mori della Mecca, cosí mercanti come stanziali, e che in altra maniera non voleva far pace né accordo alcuno con lui, perché insino dal cominciamento del mondo e' Mori furono nimici de' cristiani e li cristiani de' Mori, sempre sono stati in guerra l'uno con l'altro, e per tal cose nessuno accordo che facessino non saria fermo; e che, affine che tale accordo avessi ad esser stabile, da quel dí innanzi non aveva a consentire il re che niuna nave della Mecca venisse né trafficasse ne' suoi porti. Il re mandò di nuovo a dire all'ammirante che in sua terra erano quattro o cinquemila case de Mori, ricchi e gran mercanti che annobilivano la sua terra, li quali da' suoi antichi erano stati ben visti e mantenuti in lor paese, e che sempre gli avevano trovati leali. E che cosí lui come li suoi antichi avean ricevuti molti servigi, e alsí imprestito de danari per sua necessità di guerra, con molti altri servigi che lungo saria a raccontare: e che per questo parrebbe a tutto il mondo cosa brutta e mal fatta, e che lui mai lo doverebbe fare né l'ammirante tentarla, per non esser cosa onesta; ma che quello che fusse onesto farebbe, mostrando per la sua imbasciata gran desiderio d'aver pace con esso noi.
E mentre che si praticava tal cosa tra il re e l'ammirante, alcuni pescatori della città usciron fuori con le lor almadie e reti, confidandosi che si concludessi la pace. Quando furono un poco discosti dalla flotta, l'ammirante comandò che alcuni battelli de' nostri andassino ad assalire i pescatori; e andorono e presonne quattro, con gli uomini che v'erano e con le reti. E alsí mandò che detti battelli andassino presso alla città, per uno fiume che dicono viene per una banda della città, e pigliassino uno zambuco, ch'era lí presso alla città: nel quale non presono se non un poco di noci de India e un poco di mele del suo, in sporte legato perch'era molto duro, e altro piú liquido in brocche d'uno cuoio rigido, e filo di noci, e un truogolo d'acqua che portavano in nave, il quale dicevano che portarebbe 6 o 7 pippe d'acqua, cioè botte. E non si faceva dubbio alcuno questo avere ad esser la causa della mala indignazione nella quale, dopo queste cose, si vidde esser incorso il re, perché per questo li parve che li cristiani avessero piú piacere di rubbare e andare assaltando per mare, che di far pace e amistà e trafficare con loro. E per questa cagione si riscaldò tanto che li mandò a dire che, se voleva pace e amistà con lui, voleva che la fusse senza condizione alcuna, e che, se voleva che li rendessi tutti i beni del re di Portogallo ch'erano restati in detta città, voleva che li pagasse tutta la perdita e il danno che cristiani avevano fatto nel suo paese, e che medesimamente li rendesse tutto quello che fu tolto alla nave della Mecca, che era de' suoi naturali; e che 'l suo porto di Calicut fu sempre franco e che per questo non aveva a torre a' Mori della Mecca la venuta in esso a trafficare, né a mandar via alcuno Moro. E che, se si contentava in detto modo, che la farebbe in detta maniera, e che non li darebbe fidanza alcuna, ma che della sua verità s'aveva a fidare; se non, che subito si partisse dal suo porto e non vi stessi piú, perché non li dava licenzia che vi stesse, né piú si posassi in alcuno porto di tutta l'India.

Della superba risposta che mandò a fare l'ammirante al re di Calicut,
e come le navi de' Portoghesi s'appressorono alla città.

La risposta dell'ammirante fu con molta furia, dicendo che era uomo criato dal re don Mannuello suo signore, ch'era uno potentissimo re, e che per essere suo criato era miglior di lui, cioè del re di Calicut; e che de un palmaro farebbe uno re simile a lui, e che tanto non li dava licenzia che quel dí non mangiassi tambor, quanto che subito se n'andassi di suo porto e che piú non vi stessi. Che cosí farebbe, cioè s'accostarebbe alla città, e che li dava tempo fino a mezzodí sequente a risponderli di quanto li mandava a dire; e li prometteva che molto sollecitamente lui manderebbe alcuna di quelle navi cariche di spezie al re di Portogallo suo signore, e l'altre lascierebbe in queste parti per farli guerra; e che 'l suo re era tanto grande e possente signore, che li mandrebbe tante navi e genti quanto fusse necessario per darli battaglia per terra e per mare e distruggerlo del tutto.
Questa medesima domenica, al tardi, l'ammirante comandò a tutte le navi che s'appressassero alla città: prima fe' scandagliare, per sapere fino dove le navi potevano andare, e porre e' segni; e questo fatto, le navi si misono a vela col trinchetto e andorono a surgere presso alla città, colla prua volta alla detta città con un cavo in mare e l'altro in terra, e questo perché l'artegliaria grossa potesse giocare dal cassaro e perché la sua di terra non ci facesse tanto danno. La capitania, la Smeralda, la Lionarda e Fior del mare restorono un poco piú larghe, perché erano navi grosse. Quella sera era molta gente in su la spiaggia con lanterne, e tutta quella notte non restorono di travagliare in far cave nell'arena e ordinare le loro stanze e piantare le loro artegliarie; e come fu dí, vedemmo ch'era piú gente quella ch'andava per la riviera che non ci pareva di notte. Quella mattina comandò l'ammirante che le navi s'appressassero alla città al piú che poteano, e che stessino preste e apparecchiate, e che, come vedessino che nella Loytoa vecchia fusse una bandiera diritta in su la gabbia, impiccassimo e' Mori che a ciascuna furono consegnati, di quelli del zambuco che di sopra si disse, che pigliammo a traverso di Pandirane, e cosí molti Ciafferi, che quivi pigliammo nelle almadie, impiccassimo a' capi dell'antenne, e che le agghindasseno ben alte accioché fussino meglio veduti, benché eravamo molto presso alla città. E fatto questo apparecchio, per uno scrivano mandò a dire a tutte le navi che, dipoi un'ora passato mezzodí, vedendo che non veniva conclusione dalla città, impiccassino e' Mori all'antenna delle navi: e furonne impiccati 34.
Era in su la piaggia gran numero di gente, e molta ne usciva della città a vedere gl'impiccati: stando come insensati a guardare, dalla nave dell'ammirante trassono un colpo di bombarda grossa, e altresí da una carovella, e dettono in mezzo delle genti e gittorono per terra alcun di loro. E vedendo questo l'altre navi trassono anche loro, e in poco d'ora la piaggia restò netta di gente; e se alcuno restava adietro per non esser ben leggiere a fuggire, de' quali molti di loro si gittavano nella rena, dipoi li vedevamo levare e fuggire, e alcuni vedevamo voltolarsi per la piaggia come serpi. Noi li dileggiavamo con gran gridi, quando li vedevamo fuggire, e furono tanto cortesi che immediate nettorono la piaggia; e alcun di loro, che restaron nascosi nelle cave ch'avevano fatte e dove avevan piantate l'arteglierie, di quando in quando traevano alcuno colpo alle nostre navi e poche volte c'investivano. Accadeva qualche volta che alcuna delle nostre bombarde traeva qualche palla appresso a quelle stanze dove s'erano messi: subito ne uscivano e correndo fuggivano alla città, e venivanne degli altri, e spesso si scambiavano; e venivano e andavano quasi carpone, e l'artegliaria loro era di dua o tre pezzi, trista, e traevano male e ponevano assai a caricare. La nostra arteglieria non restò di trarre infino al tardi alla città. Benché noi dessimo nelle case, non le gittavamo in terra, o poche, perché non erano di pietra o calcina; ma dove davano facevano gran buca, e qualcuna, che dava alto per quelli palmari, facevano un fracasso per essi che pareva che si tagliassino con le scure. Vedevasi alle volte uscire il popolo che era dentro alla città dove davano le pallotte, e fuggir via.
La sera al tardi l'ammirante mandò a dire alle navi che spiccassino gl'impiccati e tagliassino loro il capo, le mani e piedi, e i corpi gittassero in mare e tutti i detti membri mandassino alla sua nave; e lui li fece tutti mettere in una almadia di quelle che furon prese, e fece fare uno scritto in lingua indiana a uno che si chiamava Frangola, indiano, e diceva in questo modo: "Io son venuto in questo porto con buona mercanzia per vendere e comprare e pagar vostre derrate, e queste sono le derrate di questa terra. Ora vi mando questo presente come a re, e se ora volete nostra amistà, ci avete da capo a pagare quello che pigliaste in questo porto sopra la vostra sicurtà, e piú pagherete la polvere e le pallotte che costà ci avete fatto spendere: e se questo farete, subito saremo amici".

Come le navi de' Portoghesi cominciarono a trarre alla città.

Questa lettera fu legata in cima d'una asta di dardo e diritta in su la prova di detta almadia, in modo che da lungi si vedessi; e legò la detta almadia a uno battello, che la menò, e la fece lasciare nell'onde del mare appresso alla città. E come s'allargorono, il mare la pose in terra, e il primo Moro o Ciaffero che quivi giunse prese subito la lettera, e altri che venneno poi la volevano pigliare e lui non la volle dare. E l'ammirante comandò che non si traesse piú, perché avessino luogo a uscire della città a vedere. Come in fatto viddono che non traevano, benché fussi molto tardi, usciva molta gente della città a vedere, e come giugnevano alla detta almadia torcevano il viso, mostrando ch'era una gran faccenda, e stavano come smarriti, perché non erano molto sicuri; e tale era quivi che veniva correndo, e come vedeva quelle teste subito se n'andava correndo, e altri pigliavano di quelle teste e molto discosto da sé le portavano via. Noi eravamo molto appresso loro e vedevamo bene il tutto. E quella notte vegghiammo tutti, pel gran romore che si faceva in terra, e per li canti che facevano sopra li corpi di quelli impiccati, che 'l mare aveva gittati fuori; e tutta quella notte non restorono, con candele e lanterne, andar rassettando le loro stanze, con paura che noi non andassimo a metter fuoco nella città.
E come fu dí, l'altra mattina, ch'eravamo adí 2 novembre, per comandamento dell'ammirante tutte le navi cominciorono a trarre alla città con l'artegliaria grossa: e non voleva si traesse di notte, salvo se loro non avessino tratto a noi. E li piú colpi di questo secondo dí che si trassono furono alti alle case de' signori e gran maestri, che stavano molto dentro alla città, però che le case ch'erano presso al mare erano già tutte guaste, e non vi era in esse se non gente di poco conto, e le piú erano spopolate. Vedemmo molte volte levarsi della città gran popolo, di dove davano le nostre ballotte. Cominciorono a trarre le nostre navi all'alba questo secondo dí, e durorono fino a mezzodí, dove trassono piú di 400 colpi di bombarde grosse: erano 16 navi con le due carovelle, e alcuna traeva con dieci bombarde, e molte d'esse passarono 35 e 40 colpi. Questo dí non trassono a noi se non pochi colpi, o per non aver polvere, o perché vedevano non ci far alcun male; e da qui innanzi le navi s'allargorono e tiroronsi appresso l'altre quattro, ch'erano restate a largo. E questo fatto, l'ammirante fece dipartire per tutte le navi esse noci e mele che trovorono nel zambuco, e come fu voto lo fece menar presso alla città e mettervi dentro fuoco, qual fu bene acceso; e stando tutte le navi surte e tutti a cena, vedemmo venire dalla città dieci o dodeci almadie, che venivano o per menarlo via o per tagliar uno cavo con che era legato, a fine che la corrente lo menasse a terra. I nostri si misono ne' battelli e andorono a loro, e se non fussino stati tanto furiosi e avessinli lasciati appressare un poco piú, ne arebbono presi parecchi; ma come viddono e' battelli andare alla volta loro, subito presono l'altra volta inverso la città. I nostri uscirono tanto furiosi che in poco tempo furon presso a loro, tanto che dalle navi pareva si volessino afferrare; e di poco in poco li traevano con le bombarde, e loro con le freccie: però loro non avevano tanto spazio che potessino cantare una canzona d'accordo sonando la palma. I nostri gli seguiron fino a tanto che li fecero dare in terra, e non avevano altro che fare che saltare a terra fuori delle almadie e fuggire alla città, e molti non avevano tempo per portarne l'arco e le freccie. I nostri non si vollono tanto assecurare e andar a terra a pigliar quello che restava nell'almadia, perché oltre a questo eran già nella piaggia molte genti, alle quali stettono traendo uno gran pezzo, di modo che quando si tornorono alle navi era già notte oscura.

Come i Portoghesi fecero vela alla volta di Cocchin, e quello che raccontasse Consalvo Gil, venuto alla capitana grande, dell'armata che andava a Calicut, persa in mare per fortuna. E come il figliuol del re di Cocchin andò a salutar l'ammirante e ringraziarlo della buona opera fatta al signor parente del re salvandoli tre navi, offerendosi darli il carico.

Mercoledí mattina adí 3 di novembre facemmo vela alla volta di Cocchin, e sopra la detta città restorono sei navi e una carovella, sotto la capitanaria di Vicenzo Sodre, per impedirle il mare, tanto della vettovaglia come dell'altre cose. Il lunedí adí 7 detto, arrivammo davanti il detto porto di Cocchin, e di subito venne alla capitana Consalvo Gil, ch'era restato in detta città l'altro viaggio, e contò all'ammirante e molti altri come eran venute lettere di Calicut da certi mercanti mori ad altri mercanti di Cocchin, li quali contavano come in detto luogo avevamo fatto gran danno e morte di gente, e che in detta città morivano di fame, perché a causa di quelle navi non v'andava vettovaglia di fuori, né potevano andar al mare a pescar. E alsí contavano come s'era persa in mare per fortuna una grande armata de navi ch'andavano a Calicut cariche di vivere e mercanzie, e dicevano che erano piú di 200 vele e che tutte erano noleggiate per il re di Calicut per armare contro a noi, e che v'era venuto una gran nave di detto re carica di spezie, ch'era in compagnia dell'altre, e tenne al mare con la fortuna e corse fino a detta città di Cocchin, e quivi volle afferrare e non poté, e andò a traverso alla costa: salvoronsi gli uomini e le robe, e tutto prese il re, senza render nulla al re di Calicut.
E questo dí venne a parlar all'ammirante uno figliuolo del re di Cocchin, a salutarlo e ringraziarlo della buona opera che avea fatto al signore ch'era parente del re de Cocchin, delle tre navi che in viaggio voleva bruciare e le salvò; e che il detto re per lettere d'altri sapeva già il tutto, e ora per lo figliuolo li mandava a rendere e dar grazie, dicendo che assai stimava quell'onore e piacere che ad altri per suo rispetto aveva fatto; e molto si mandava il detto re ad offerire, dicendoli che darebbe il miglior ordine che si potesse per darli carico. E con questa offerta e buona nuova tutti ci rallegrammo, e cominciammo a calefattare e reparare le navi, e fare i luoghi per le mercanzie, e accordar quello che noi avevamo bisogno. E subito, il giovedí adí 10 detto, mandò a pregare l'ammirante che cominciasse a pigliar carico in quel dí, perché il giovedí hanno per il miglior della settimana, e non cominciano mai cosa di grande importanza se non in giovedí. E l'ammirante li mandò a dire ch'era contento, e detto dí cominciorono e arrecorono alla nave di Ruy di Ficairedo 40 e tanti cantari di pepe; e perché non era fatto prezzo restorono e non ne vollono dar piú, e stettono cosí 3 o 4 dí che non ne dettono: e per questo l'ammirante fece assapere al re che desiderava abboccarsi con lui.

Come il re di Cocchin s'abboccò con l'ammirante, e de' presenti che si fecero l'un l'altro. E come il re di Cananor per uno ambasciator mandò a dire al detto ammirante che li mandasse qualche navi, che gliene caricarebbe per il prezzo che in Cocchin gli dessino le specie.

Adí 14 novembre l'ammirante si fece portare in una carovella nel modo ch'avete inteso che fece a Cananor, e andò a terra col battello e colla piú onorevol gente che fusse nella armata. E innanzi che si vedessino insieme, v'andò gran tempo in ambasciate ch'andavano e che venivano dall'uno all'altro; ed essendo già in punto per abboccarsi, cominciò forte a piovere, per il che il re mandò a dire all'ammirante che la visita si rimettesse per l'altra mattina, visto ch'el tempo quel dí li disturbava: e cosí si tornò ciascuno alla sua stanza. E dipoi l'altro dí si viddono, e non menò il re seco tanta gente come prima, non ostante che quella venne benissimo in ordine secondo l'usanza loro, e non con tante cerimonie come il re di Cananor: solamente quattro o cinque uomini, armati colle spade e le targhe e lancie e archi e freccie. L'ammirante dette al re certi pezzi di vaselli di sua mano d'argento dorati, che parevano massicci d'oro, lavorati, cioè bacini grandi da lavar le mani e mescirobe e saliere e altri ricchi pezzi, e una seggiola di stato reale, guarnita d'argento con molti lavori, che 'l re nostro li mandava. Medesimamente il re dette all'ammirante assai gioie, grandi e molto ricche, e alsí ne dette ai gentiluomini e capitani che andorono con lui, ma non di cosí gran valuta.
E il dí dinanzi che s'abboccorono, vennon di Calicut 3 delle nostri navi, che menavano all'ammirante uno ambasciatore di Cananor che, per comandamento del detto re, venne con un zambuco a Calicut a richiedere che lo menassino all'ammirante. Pel qual il detto re li mandava a dire ch'egli mandasse a Cananor qualche nave portoghese e che gliene caricarebbe per il prezzo che in Cocchin li dessino le spezie, e che lui medesimo piglierebbe delle nostre mercanzie per li prezzi che in Cocchin varranno, e che volendo l'ammirante alcuna securtà, che 'l medesimo imbasciadore restarebbe lui proprio alla nave per istatico. E a tal causa l'ammirante vi mandò due navi, e menorono con loro il detto imbasciadore.

Come quelli di Calicut armorono secretamente in un fiume 20 zambuchi, e li nostri, seguitando certe almadie de pescatori, furono all'improviso fieramente assaltati, e un bombardier, tirando ad una almadia, mandò sottosopra il zambuco capitano. E come per il re di Cocchin furono impaladi tre Mori, per aver venduto una vacca.

Quelli che vennono nelle dette navi ci contorono che, stando loro davanti Calicut, quelli di Calicut ordinorono un dí d'armare segretamente, in un fiume ch'è da una banda di Calicut, XX gran zambuchi di remo, in modo che, quando furono bene armati, fecero uscire di detto fiume ed entrare al mare certe almadie a pescare, mostrando non aver paura delle nostre navi, e non molto discosto d'esse, a fine ch'avessero causa d'andarli ad assalire, come fecero in fatto co' battelli. E visto questo, i pescatori cominciorono a fuggire bellamente, e non forte come arebbono possuto, a fine che li nostri li seguissero, come in fatto fecero quanto potettono. E loro li andavano guidando inverso el detto fiume, dove la detta armata secretamente stava infra certi palmari; e quando furon presso al detto fiume, uscí fuori la detta armata, e brevemente raggiunsono i nostri e per ogni banda gli andarono tastando, e molto fieramente con le freccie gli oppressavano e in modo sollecitavano che li nostri non si sapevano consigliare. Piacque a Dio che un bombardiere de' nostri, traendo a una almadia delle lor, errò e passò di sopra e dette a una altra ch'era piú là, e mandolla sottosopra, e gli altri zambuchi corsono tutti là a pigliar le genti, perché quel zambuco era capitano. E in questo li nostri ebbon tempo a ritirarsi alle navi, con molta gente ferita dalle freccie: e se a questo modo non avveniva, senza rimedio restavano presi e fatto di loro nuova giustizia.
Adí 18 di novembre vennono tre uomini del paese alla nave Iulia nel porto di Cocchin, e venderonli una vacca per 7 ventini: la qual cosa saputa, il detto re di Cocchin mandò a pregare l'ammirante che li mandasse presi in sua mano quelli tre e gli altri che vendessino qualsivoglia cosa di vacche, per la qual causa l'ammirante fece poner in ciascuna nave uno scritto, che comandava e proibiva, sotto pena di certe battiture, come dire scoreggiate, che nessuno non comprasse da persone cosa alcuna di vacche, e che chi si volesse che portasse a vendere dette cose, di presente lo pigliassero e menassino alla capitana. E l'altro dí tornorono alla Iulia quelli tre Mori over Ciafferi che avevano venduto la prima vacca, e portavanne una altra; furono menati all'ammirante e lui li mandò colla detta vacca alla città, presi, al detto re. E come giunsono, senza altro processo furono di subito tutti vivi impalati, in questo modo, che messono a ciascuno uno palo per le reni e passava pel petto, e col viso in su, e ficcoronli in terra; ed erano alti una lancia, e con le braccia e gambe aperte e legate a quattro pali, e non potevano correre giú pel palo, perché in esso palo era uno legno a traverso che non li lasciava correre. E fecero di loro giustizia in detto modo perché vendevano le dette vacche, perché lo dio nel quale lor credono ha imagine d'un bue o d'un vitello, e chiamanlo Tambarane.

Come la terra di Mangallor e molte altre mandarono di volontà al re di Portogallo l'ubbidienza. Della isola detta Zeilam. Del modo di pigliar gli elefanti e domesticarli, e quivi cose mirabili degli elefanti e dei cavalli marini.

E adí 19 detto vennono alla capitana alcuni uomini cristiani, d'aspetto molto onorevoli, da Mangallor e di molti altri luochi di là dentro fra terra, e portorono all'ammirante uno presente di galline e frutti, e piú li recorono una verga vermiglia appuntata e coperta in ogni testa con una ponta d'argento, e in una delle teste erano tre campanelle d'argento, e a ciascuna uno sonaglio d'argento; e piú con essa una lettera della signoria di tutte quelle terre, cioè di quel paese, che fa trentamilia uomini di iuridizione. E dicevano che s'erano molto contenti e lieti della venuta nostra alle parti d'India, e che la detta signoria di quel paese mandava al re di Portogallo l'ubidienza, e lo ricevevano per loro re e li mandavano quella verga di giustizia; e quelli, in nome di detta signoria, davano all'ammirante fede e omaggio da quel dí innanzi non far né far fare nessuna giustizia di nessun malfattore se non in nome del detto re di Portogallo, mandando a dire che, se mandasse a far fare una fortezza in lor paese dove loro gli direbbono, che la signoreggerebbe tutta l'India.
Quelli medesimi contorono come avevano sei vescovi e come ciascun di loro diceva messa, e contorono molte altre cose, e come facevano grandi pellegrinaggi sopra la sepoltura del ben avventurato santo Tomé, ch'è sepolto appresso alla lor terra, qual fa quivi molti miracoli. E li dimandorono delle nostre chiese e vescovi e prelati e di tutte le cose delle nostre parti, dicendo che non potevano credere che i cristiani potessino andare in tanto lungo paese. L'ammirante fece loro bonissima raccoglienza, e donò loro panno di grana e di seta e altre cose: e cosí restorono per sudditi del re nostro signore.
E alsí ci contorono quelli di Cocchin come di lí a Zeilam sono 150 leghe, e che è una isola ricca e molto grande di 300 leghe, e sonvi gran montagne, e nascevi cannella in grandissima quantità, piú che in nessuno altro luogo, e la migliore che si trovi, e molte pietre preziose e gran quantità di perle. E vi sono in detta isola, rispetto alle grandi montagne, assai elefanti salvatichi molto grandi, e domesticangli in questo modo, cioè fanno nella detta montagna gran chiuse di steccati forti, e con una porta saracinesca infra due alberi, e mettonvi dentro una elefanta femina domestica quando è in amore. E perché sono animali piú che nessuno altro lussuriosi, come senton la detta femina, per loro medesimi vanno a cercare la detta porta ed entrano dentro con la detta femina; e come quelli che vogliono entrare son dentro, uno uomo che sta in su quelli alberi taglia una corda over canapo che tiene la saracinesca, e lasciala cadere. E quivi li lasciano stare senza mangiare o bere 6 o 7 dí, fino che cominciano a cascarsi di fame, e quando sono cosí deboli, entrano là 20 o 30 uomini con grandi bastoni e danno loro molte bastonate, e come qualcuno si stracca a darli, v'entrano degli altri, fino che per forza di bastone li fanno gittare in terra come morti; allora vi cavalcano sopra, e non fanno altro che salire e scendere sopra essi, e fra tanto li danno da mangiare a poco a poco: e cosí li vanno dimesticando in modo che, dipoi che sono dimestichi, non è animal nissuno che abbia tal istinto e conoscimento, e impari qualsivogli cosa che l'uomo voglia insegnarli. E certamente, davanti che noi vedessimo quello che uno elefante faceva in Cocchin, non aremmo potuto credere quello che essi raccontavano, cioè che duoi elefanti senza altra gente varano una nave di 400 o 500 tonellate in terra, o di stigliero la portano in mare. E con essi non hanno altro travaglio se non metterla in su le vasa, e tanto diritta che è cosa di maraviglia, perché vanno con essa molto egualmente, uno davanti, l'altro da dietro, e non la lasciano pendere né da una né da altra banda; ed entrano con essa in mare e tanto a dentro che per se stessa sta sopra l'acqua, però che, non ostante che le acque non siano grandi, la portano tanto dentro all'acqua quanto è lor mostro e comandato.
In Cocchin era uno piccolo elefante, e come un Negro che andava con esso li diceva qualsivoglia cosa, di presente lo intendeva; e davanti noi li disse che andassi zoppo d'un piè dinanzi, e cosí faceva; il simile faceva quando li diceva che zoppicasse dall'altro, e il simile di gittarsi in terra: lo faceva con molti inchini a chi lui diceva. E poi li comandava che si levasse e alzasse uno di piedi dinanzi, e questo fatto, quel Negro poneva il suo piè in su quello ch'egli alzava, e a poco a poco l'andava alzando fino che 'l Negro li montava sopra a cavallo. Dipoi li gittò a lato uno canapo che era ligato a uno battello della nave Santo Antonio, e mostrolli fino dove voleva che la rimorchiasse: prese quel canapo di terra e colla tromba del naso se lo volse intorno al muso, e preselo co' denti e cominciò a tirare a sé, cosí come stava entrovi 15 o 20 uomini, e tirollo fuor del mare strascinandolo per l'arena, fino dove li comandò quel Negro. E dipoi tutti quelli uomini ch'erano nel battello voto non lo potevano tirare cosí voto in mare, e a lui non li pareva far nulla, e rinculando adietro lo ritornò. Dipoi li comandò el detto Negro che con la tromba pigliasse acqua e gittassela fra la gente, e cosí fece, in modo che tal instinto non può aver nessuno altro animale.
Alsí ci dissono quelli della nave di Loys Ferrandez che, innanzi che la passasse il Capo di Buona Speranza all'andare in India, per fortuna si perdé dalla flotta e dipoi andò sola (e perché tardò assai, tutti la giudicammo persa), a causa della gran fortuna che durò fino tanto che passò detto capo, appresso a una terra abitata da gente negra, che non sono vestiti salvo la natura, che la coprono con una guaina di legno nella qual fanno quante dipinture e gale che possono, e tutto il resto del corpo è ignudo. E poco piú oltre di questa gente trovorno una gran foce, maggior che quella di Lisbona, e che entrorno dentro in essa circa dieci leghe, credendo che quivi fusse la mina di Ceffalla, e trovoronvi un gran popolazzo di gente negra, ed eravi gran quantità di vacche grandi come quelle di Portogallo, ma piú grasse: e davanne quattro per uno paiuolo di rame, e per duoi ventini l'una, e per una manica di camicia vecchia tre galline, perché d'una manica facevano tre pezzi, e per ogni pezzo davano una gallina. E che vi stettono uno mese e fornironsi quivi di quanta carne vollono, e che ogni dí vedevano uscire del mare grandi schiere di cavalli marini rossi e neri, che andavano a pascere erbe in quelli prati lí intorno: e ch'erano di propria fazione di cavallo, salvo non sí grandi, e che erano come quelli di Galizia. E che un dí viddono duoi d'essi ch'andavano pascendo per un prato, e duoi marinari corsono ad essi dalla banda del mare a fine non si fuggissono nell'acque, e per molto ch'e' corressino molto piú corsono e' cavalli, di modo che se n'andorono in acqua; e che, quando furono allargati col battello per tornare alla nave, i detti cavalli gli andarono a frontare molto iratamente colle bocche aperte, e mordevano il battello in tal modo che, dove aggiungevano co' denti, levavan pezzi dell'asse del battello, e tutto l'aveano morsicato. E non ostante che li dessino con le lancie, non li potevano far male, perché aveano la scorza molto dura, e che sempre credettono che lo mettessino sottosopra. E che ancora viddono in quel mare assai balene e molto grandi.

Come l'ammirante s'accordò finalmente con Mori per il carico delle spezie, e come il re di Calicut mandò un suo bramino e un suo figliuolo all'ammirante per far con lui la pace e bona amistà.

E dipoi che l'ammirante e il re di Cocchin si furono visitati, l'ammirante, volendo accordare con lui il prezzo delle spezie e delle mercanzie nostre, li fece intendere che li mercanti che avevano in mano le spezie erano Mori, li quali desideravano piú presto mandarcene scarichi che darci carico, e ogni dí avean con esso noi mossa da loro qualche differenzia: e quando domandavano piú per le spezie, e quando dicevano che non volevan pigliare nessuna delle nostre mercanzie, e con queste cose che di nuovo ogni dí domandavano, subito restavano di darci carico alle navi. E a questa causa facevano andare ogni dí l'ammirante a terra, e come accordavano con lui una cosa, ricominciavano a dar carico e subito cessavano, di modo che finalmente l'ammirante accordò con loro che li pagheria il pepe in questo modo, cioè tre quarti in danari e il quarto in rami, a 12 ducati d'oro il cantaro, e che per un peso d'allume raffinato ci dessino 2 pesi di verzino, e che a questo medesimo ci darebbono cannelle e incenso, e altre mercanzie che non tengono in tanta stima come il pepe, e garofali e benzuí, a baratto di nostre mercanzie, posto che con esse non dessimo contanti.
Dopo questo, adí 3 di gennaio 1503, venne in Cocchin alla nave capitana uno bramin e uno suo figliuolo e altri dua uomini onorati di conto, con lettere del re di Calicut all'ammirante, per le quali diceva che se n'andasse davanti il suo porto per far con lui pace e buona amistà e tratto di mercanzie, che non voleva se non il bene di tutti noi altri; e che assolutamente li voleva restituire tutto quanto teneva del re di Portogallo, cioè la metà in danari, l'altra metà in spezie, per il prezzo del paese; e che per sua sicurtà li daria qualsivogli persona che lui volesse in ostaggio, e che questi tali starebbono nelle sue navi fino che lui avesse tutto sodisfatto.
Questo bramin è come vescovo e religioso, e uomo di gran rendita, che non hanno altro officio o carico se non fare orazione pel popolo e dar elemosina. E questi tali religiosi vanno per tutti quelli paesi molto sicuramente, che nessuno giamai li farebbe male: ancor che avessino guerra l'un con l'altro, nissuno non oseria toccarli, né in cosa che vada in lor compagnia, perché di presente si terrebbe per maladetto e scomunicato, e non potrebbe essere assoluto in modo alcuno; e sono uomini in chi tutti quelli paesi hanno gran fidanza.
Questo bramin, quando venne di Calicut, arrecò seco pietrerie ricche, che diceva che valevano in India tremila crociati, e disse all'ammirante che voleva andar con lui in Portogallo e voleva portare quelle gioie, e che li domandava che li lasciasse caricar nelle sue navi qualche spezie. E l'ammirante li dette licenzia per 20 baarri di cannella, e lui subitamente la comprò in Cocchin, e fecela mettere nella nave capitana colle dette gioie che lui quivi avea. E visto tutto questo, l'ammirante s'imbarcò in la nave Fior del mare e menò seco detti imbasciadori, e faceva loro grande onore. E menò seco una delle carovelle, e partissi davanti Cocchin adí 5 di gennaio, innanzi dí, avvertendo e dicendo a detti statichi che, se il re di Calicut non gli osservava quanto per loro gli aveva mandato a dire, che subito li farebbe impiccare. E andando cosí per mare, trovorono uno zambuco che portava un poco di pentole a Calicut, e la detta carovella lo prese senza gente, perché tutta si fuggí a terra. E giunto l'ammirante a Calicut, subito mandò la carovella a Cananor a chiamar un suo zio.

Come Luigi Coutino, maggior capitano ch'era rimasto a Cocchin, cessando i Mori di dar carico alle navi per esser andato l'ammirante a Calicut, giunse per Dio grazia a Cananor, dove trovò la flotta dell'ammirante messa in ponto come per combattere. E come quelli di Calicut vennero di notte con zambuchi ad assaltar l'armata.

Ora torniamo all'armata che restò in Cocchin, e per capitano maggiore d'essa restò Luigi Coutino; e alli mercanti mori di detta città, e cosí a tutta l'altra gente, dolse assai che l'ammirante andasse per far pace a Calicut, dubitando che noi non ne andassemo a caricare là, a causa del profitto che facevano con esso noi. E per tal andata cessorono di dar carico alle navi, per la qual causa detto Luigi, adí 10 detto, andò a terra per vedere se poteva accordare co' Mori che tornassino a dar carico. E i Mori non vollono attendere a nessuno accordo, per il che detto Luigi venne alla nostra nave, circa due ore di notte, con lettere all'ammirante, e comandocci che quella notte noi partissimo per Calicut con le dette lettere. E di presente cominciammo ad ordinare la nave, e quando fornimmo di stiparla, perché ella non andava come doveva, stemmo, davanti facessimo vela, fin circa due ore avanti giorno, che prima non potemmo partire. E per esser il vento tristo, non potemmo arrivare a Calicut se non adí 13 di gennaio al tardi, e passammo presso alla città poco piú di mezza lega. E perché non vedemmo la nave dove passò l'ammirante, passammo via a lungo alla volta di Cananor, dove giudicavamo che l'ammirante fusse con suo zio, stimando che la pace fosse fatta, e che fusse andato a spasso e per vedere detto suo zio a Cananor. E rispetto al vento, che non fu buono, non potemmo afferrar a Cananor e tornammocene a Calicut, e surgemmo presso alla città, come ignoranti ch'eravamo, che non sapevamo quello ch'avevano fatto all'ammirante. E andavamo con grandissima fidanza che la pace fusse fatta, perché, posto che alcuna delle lor navi fusse venuta a noi, non la fuggivamo né facevamo preparazione alcuna di combattere: e ben lodato sia il Signore, che ci fece una grandissima grazia, che appresso alla detta città non calmò il vento.
E adí 17 del detto giugnemmo a Cananor, e quivi trovammo l'ammirante e tutta la flotta con l'antenne alte alla croce, e palvesate e messi e porti, e le gabbie fornite di pietre, e tutto messo a buon riscatto, come chi aspetta d'avere a combattere con mille vele, che dicevano che si facevano preste a Calicut per venirgli a frontare. E come ci viddono e conobbonci, ebbono gran piacere, perché pareva loro impossibile potessimo scampare, e per l'allegrezza della venuta nostra posono stendardi e bandiere; e come dicemmo loro che non vedemmo armata né alcuno romore di loro a Calicut, e che non vedemmo altra armata se non in Pandarane 10 o 12 nave grosse, di questo si confortorono grandemente. E qui ci contorono che, dipoi giunto l'ammirante a Calicut col suo bramin, che li fece alquante parole perché le dicesse al re, e furono in questo modo: che duoi inimici spesso si tornano grandi amici, e che cosí farebbono i cristiani con lui, e che da quivi innanzi negoziarebbono e profitterebbonsi l'uno con l'altro come fratelli, e che li cristiani farebbono al suo paese di molto profitto.
E accordò col detto bramin che andasse alla città, a far noto al re come lui era venuto quivi, e che l'aspettarebbe fino al tardi, e soprastando troppo che trarrebbe una bombarda, e non venendo subito, che l'altro dí se ne andarebbe. E fatto questo il detto bramino andò a pigliare licenzia dal figliuolo, e Hobeigon e Coron ancor, e alsí cogli altri; e dipoi col battello della nave l'ammirante lo mandò a porre in terra, dove era già molta gente alla piaggia aspettandolo: e andoronsene con lui. L'ammirante l'aspettò, dipoi trasse una bombarda, che già era molto tardi; e venne un altro uomo, da conto in apparenza e d'onore, e da parte del re disse all'ammirante che non pigliasse admirazione né sospetto, però che lui era parato a sodisfare quanto gli aveva mandato a dire, e l'altro dí sodisfarebbe tanto de danari quanto di mercanzie, e che al riguardo del danaro l'aveva tutto ad ordine, e che mandasse a terra un gentiluomo a riceverlo. E come l'ammirante intese di gentiluomo, li rispose con furia e dissegli che dicesse al re che non li mandarebbe il piú picciolo ragazzo che fusse nella sua nave a terra, perché lui non doveva nulla al re di Calicut, ma che il re doveva a lui: e per questo, qualsivogli cosa che egli avesse a dare, gli n'aveva a mandare fino nella nave, e che in altro modo non ne sperava fare. E detto ambasciador li disse che non si partisse de lí fino a tutto l'altro dí, perché lui sapeva la volontà del re e di tutti, e che era molto buona per sodisfarlo in tutto, non ostante che a lui dicesse che per tutto il dí satisfaria, che sapeva che prima lo farebbe. E sopra questa conclusione si partí dall'ammirante e andossene a terra con questo accordo, che l'altra mattina tornarebbe con la risposta del re.
E quella notte, al quarto ultimo di verso 'l dí, quelli che facevano la guardia in nave viddono venire uno zambuco, e credevano fussino pescatori che andassino a pescare: e come vennono appressandosi, viddono che erano duoi zambuchi legati insieme e che venivano diritto alla nave. Andorno subito a chiamare l'ammirante, che dormiva in la sua camera, e dissonli come quelli zambuchi venivano alla nave: l'ammirante subito si levò e vestissi, giudicando che il re mandasse quanto li aveva promesso. E stando cosí viddono venire da terra 70 o 80 zambuchi di remo, e similmente credevano fussino pescatori. Come li duoi primi s'appressorono alla nave, cominciorno a trar bombarde con palle di ferro rasente l'acqua, e dove che essi davano facevano buco; e come gli altri giunsono, alsí traevano alla nave, e come alcun di nostri si mostrava a bordo della nave, o donde potessi essere da coloro veduto, subito erano feriti dalle lor freccie, che traevano senza numero. Quelli di nave non potevano far loro altra cosa se non con alcune pietre della gabbia, perché li zambuchi erano tanto accosto alle navi che con l'artegliaria non ci potevamo aiutare. E il zambuco che l'ammirante prese a cammino colle pentole era legato per poppe alla nave, e l'impierono di legne e messonvi fuoco, per ardere con esso la nave. E visto questo, quelli della nave tagliorono il canapo con che era legato alla nave, e la corrente che è in quel luogo lo discostò dalla nave.
E in questo erano moltiplicate le almadie e zambuchi che venivano di terra, e tutte traevano, come giugnevano alla nave, perché tutte avevano bombarde e archi e freccie. E fu tanto grande lo assalto, che non avevamo altro rimedio se non tagliare i cavi e lasciar perdere l'ancore e mettersi alla vela, perché al continuo crescevano ed erano piú. E innanzi che facessino questo era già passato uno gran pezzo del dí, per cagione ch'egli avevano gittato al mare una ancora segreta con quattro o cinque braccia di catena di ferro, per sospetto che di notte a nuoto celatamente non venisse alcun della città a tagliare sottilmente i cavi dell'ancore, che ci restassi surta con detta catena. Per la qual cosa soprastettono, tagliandola con le scure, il che fu causa di tardar tanto; e ancora che già andassino, non avevano per quello paura della nave, ma tuttavia la seguivano e non l'abbandonavano. E stando in questa stretta, che era tale che nessuno nella nave non avea preso arme, per esser stati assaliti in un subito e per badare in tanta furia a levarsi, in questo tempo giunse da Cananor Vicenzo Sodrie suo zio, e avea con seco le due carovelle. E visto questo misono e' remi, perché era calma, e messonsi alla volta loro: del che impauriti gli inimici se ritirorono alla città, alcuni senza braccio, alcuni senza gambe e alcuni morti dalle bombarde.

Come l'ammirante fece impiccar gli statichi che aveva in nave e, fattili metter in una almadia, comandò che la lasciassino presso alla città, con uno scritto fatto in loro lettera e linguaggio.

E fatto questo, l'ammirante fece impiccar all'antenna delle carovelle gli statichi che gli aveva in nave, e comandò che cosí impiccati andassino colle carovelle a lungo della città e piú presso si poteva. E cosí fecero due o tre volte, andando in qua e in là, per la qual cosa usciva della città molta gente per vedere: e quando vedevano stare cosí stretta la gente, traevano loro con le bombarde e davano loro gran grido. E dipoi fece metter i corpi di quegli impiccati in una almadia, che una delle carovelle menava, e comandò che la lassassino presso alla città nel corso dell'acqua, con uno scritto fatto in loro lettera e linguaggio, che diceva cosí: "Uomo vile, mandastimi a chiamare e io venni al vostro chiamare. Voi facesti quanto potesti, e se piú avessi potuto, piú areste fatto. Sarà tal il castigo come voi meritate: quando io tornerò per qui io vi pagherò il vostro diritto senza danari".

Come l'armata di Calicut fuggí verso Calicut.

Adí 10 di febraio 1503, venerdí mattina, partimmo davanti il porto di Cocchin tutta la flotta insieme, perché tutte l'altre navi erano già quivi. Il sabbato l'ammirante e 'l suo zio s'aviorono innanzi per forza di mettere piú vele, e restò con l'armata e per capitano don Luigi Coutino, il qual subito con uno schifo andò dicendo a tutti che lo seguisseno: e questo fece l'ammirante per far animo a quelli di Calicut che uscissino ad affrontare quelle due navi, vedendo che tutta l'altra armata se n'andava insieme, a fine che si arrischiassino ad uscire, perché davanti che partissimo da Cocchin seppe l'ammirante che il re di Calicut faceva una altra grande armata.
E adí 12 detto a buon'ora eravamo presso a 4 o 5 leghe a Calicut, e vedemmo venire a noi di verso la città una grande armata di navi grosse, che erano ben trentadue, le quali venivano da Pandarane: e visto che venivano verso noi, cominciammo a mettere in punto e a parecchiarci. Portavano le lor vele imbroccade, e il vento piú largo a loro che a noi, perché noi andavamo alla bulina: e di ben lungi cominciammo a sentir sonare e' loro naccaroni. E oltre le trentadue navi, venivan contraci dalla città molti zambuchi e almadie a remo, e tutti portavano bombarde, colle quali ci traevano: ma non tardò molto che 'l saluto da noi fu renduto, e molto fieramente; tuttavolta non cessavano di venirci drieto, lassando una nave da banda di mare e l'altra da banda da terra. E perché seguivan molto due navi de Mori mercanti di Cocchin, che venivano in nostra compagnia e passavano a Cheul, che andavano a caricar di riso e altre vettovaglie, e andavano men cammino che noi, e per ciò le dette almadie molto le seguitavano e traevanli: per la qual cosa l'ammirante mandò a dire alle navi che non le lassassino, ma che le mettessino in mezzo, e cosí facemmo. E trovandosi una delle nostre navi un poco piú larga da loro, cominciò a trarre in modo tale che per loro cortesia non se le volloro appressar piú; e perché calmò il vento avanti che si appressassino loro, fu causa che non facemmo qualche bella e onorevole cosa. E per accostarci loro cominciorono tutte le nostre navi a farse rimorchiare co' battelli, e perché le dette due navi non andavano tanto come noi, messono ciascuna a' remi per banda, e rimorchiavano con le loro barche. E come ci accostammo loro a un tratto di bombarda, eravamo già dirimpetto a Calicut e circa una lega discosto; ma come fummo loro presso, cominciorono a sbaragliarsi e dar volta inverso la città, e la prima che cominciò a fuggire ci fu detto che fu la lor capitana, e le due carovelle la seguirono a' remi, perché 'l vento era calma, e alcun soffio di vento che veniva la levava e andavano un poco, perché erano leggieri e alcatramate e insevate tutte di nuovo, e noi eravamo tutti carichi e mal netti, e a tal causa non li potevamo raggiugnere. Nondimeno fuggivano alla città e noi al continuo li seguivamo, e le carovelle davano caccia alla detta nave e trassonle molti colpi di bombarda, e giamai si volleno arrendere. Le carovelle non le osavano afferrare perché erano molto grandi e aveva 400 o 500 uomini, e le carovelle aspettavano che giugnesse alcuna delle nostre navi per afferrarsi con esse; e però non potemmo afferrar piú che una delle dette navi, che l'afferrò la Smeralda, e un'altra che li venne dall'altra banda a cadere in bocca: delle quali due navi subito tutta la gente si gittò in mare fuggendo alla città, ch'era molto presso, quanto è da dove s'ancorano le navi nostre, quando stanno a Lisbona, insino a Lisbona.
I nostri andorno seguendo quelli che erano in mare e a colpi di lancie gli andavano infilzando, e di modo che solamente uno ne scampò delle nostre mani che non fusse morto. E in una di dette navi trovorono uno ragazzino nascosto, e l'ammirante lo mandava subito a far impiccare; dipoi rivocò la sentenzia, e non morí. E lui contò come i Mori per forza e comandamento del re bisognò che armassino, se non che arebbe fatto tagliare lo collo a loro e alle donne loro; e che nella detta armata eran venuti 7000 uomini deliberati di morire, e che tutta l'artegliaria ch'era in Calicut era in detta armata, perché ogni dí il re diceva loro che per lor causa era in guerra co' cristiani, e che la maggior parte di loro fece entrare in mare a colpi di bastonate, e che parve a detti Mori che alcuni colpi di bombarda che trassono in terra, innanzi che noi ci appressassimo loro, fussero stati un segno che faceva loro la città che tornassino adrieto. Non trovorono in detta nave se non parecchie noci e riso e acqua che avevano per lor mangiare, e sette o otto bombarde molto corte e cattive, e assai archi e freccie, e alcune targhe e spade. E andando spogliando la detta nave, trovorono da basso duoi Mori che s'erano nascosti, a' quali non detton tempo che facessino l'orazione. E a queste cose eravamo già noi e loro surti davanti la città di Calicut, perché era la volontà che noi avamo sí grande di afferrarci con loro, che li seguimmo fina ben presso a terra, ma loro furono molto presti a dar in terra: e se l'ammirante voleva, li potevamo benissimo arder tutti quivi o la maggior parte. E il miglior rimedio che gli avessino fu che la notte trasse gran furia di vento di mare, che buttò tutti i morti a terra, ed ebbon tempo a poterli contare.

Come, giunti i Portoghesi a Cananor, alcuni mercatanti gli contorono come furono prese due navi e avanti gli occhi di quelli di Calicut furono abbruciate, con uomini circa 700, di quali non ne scamporono salvo che sedeci, e fracassata una nave dove erano da 500 uomini tutti malmenati; e dove si stette il re per veder la battaglia.

E adí 15 di febraio, in mercoledí a mezzodí, giugnemmo davanti Cananor, dove per allora ci contorono delle nuove di Calicut, perché dall'una all'altra non è piú di desdotto leghe. E dissonci delle dette due navi che noi pigliammo, e dipoi tutto quanto in esse trovammo, e davanti agli occhi loro le abbruciammo, perché la riviera era piena di gente, che in dette due nave vennono settecento uomini, e non ne scamporono di tutti salvo 16 che si fuggirono nella barca; e che in ciascuna di dette navi non era manco di 300 o 400 uomini, e in alcune 500, e che in una delle loro navi piú grandi, alle quali le carovelle detton caccia, erano 500 uomini, li quali dalle bombarde la metà furon morti e molti feriti e storpiati, chi di braccia e chi di gambe; e che la nave era tutta rotta e fracassata e faceva di molta acqua, e che piú sopra l'acqua non si poteva sostenere, e che assai li valse non esser mareggiata, però che, se il mare fusse stato maggiore, sarebbe ita in fondo, tanto era rotta dalle bombarde.
Quelli medesimi ci contorono come il re se n'andò in cima d'una guglia d'una casa molto alta sopra la riviera, non ostante che da le nostre bombarde fussino tutte le case fracassate e guaste, e come di quivi il re stava a vedere la battaglia. E come dipoi uscirono della città due navi e vennono a passar molto presso a noi, solamente per veder se alcuna delle nostre si partiva dall'armata per dar lor caccia, per aver causa di fuggire adagio e non quanto potessino, e cosí fuggendo passare sopra certe secche che sono quivi presso alla città di Calicut, a fine che le nostre similmente passassino sopra dette secche, perché le loro andavano leggieri e le nostre cariche, e fussinvi restate in secco, per pigliarle dipoi a lor piacere. E perché il re assai desiderava aver nelle mani qualcuno di noi per farne a suo piacere giustizia, perché aveva promesso e fatto voto che li primi cristiani ch'egli avesse nelle mani li voleva far vivi arrostire.
Questo e molte altre cose ci contorono alcuni mercanti naturali di Calicut, che se ne erano dipoi fuggiti e venuti ad abitare a Cananor, a causa delle guerre ch'aveano con esso noi, e aveanvi menate le loro mogli e figliuoli e tutti i lor beni, perché in Calicut si morivano di fame, e tutte le vettovaglie vi valevano due tanti piú che 'l solito. E che molti altri mercanti principali di Calicut si fuggivano per molte altre parti, vedendo la distruzione di Calicut, perché per mare non veniva piú nulla, e quello raccoglieva il paese era sí poco che non si potevano sostentare per una parte de l'anno. E come il re di Cananor fece far banchi e dar danari e soldar gente, e comandò che tutte le sue navi si mettessino ad ordine per mandarle ad aiutarci. E questo ci contorno i cristiani che stanno in Cananor, e che tutti mostrorono esser allegri generalmente della nostra vettoria.


Come, partendosi da Cananor per la volta di Portogallo, attraversorono il golfo del mare e trovorono molte terre non per avanti scoperte.

E adí 22 di febraio partimmo di Cananor per la volta di Portogallo, e non per il cammino vecchio, donde l'altre navi solevano venire, ma l'ammirante volle che attraversassimo il golfo del mare dritto alla volta di Monzambique, non ostante che ancora non fusse discoperto. E restorono quivi le tre navi e le due carovelle che per il re nostro signore erano state ordinate per andar in armata per quei mari de India, per obviar che non passassero alcune spezie alla Mecca; e avevamo andare a Coilom a cercare una nave di Calicut, che ne fu detto ch'era là a caricare di spezie per la Mecca. Tenemmo el nostro cammino a ponente e libeccio, e adí 24 detto vedemmo alcune isole nel pelago del mare, di lungi da Cananor 50 leghe, e non sapevamo se erano popolate o no, perché passammo da esse di longi. Adí 15 di marzo vedemmo un'altra isola, ch'è a maestro e scilocco con Magadazo, e giudicammo essere di là da Magadazo: e chi la volesse cercare, vada da Magadazo a scilocco; ed è terra alta, e non sapemmo se era popolata. E adí 16 detto trovammo alcune secche; alsí medesimamente trovammo molte altre isole, che non sapemmo se erano popolate o no. E piú trovammo un'altra isola presso a Monzambique, a 15 o 20 leghe, e dopo questa trovammo due altre isole molto grandi, e belle di paese e piene di alberi, e poco minore ciascuna che l'isola di Madera: e dalle dette isole a questa vi sono trenta leghe, e sono queste due isole discosto l'una dall'altra 7 o 8 leghe, e guardasi l'una con l'altra maestro e scilocco, e pigliando una quarta di ponente e levante. Dissonci in Monzambique che in dette isole si fa assai carne e assai giengiovo e cannamelle, e di molte buone acque, ed è grasso paese. E andammo in calma XI dí assai presso ad esse, e l'ammirante non volle che alcuno v'andasse; e ben conoscemmo ch'era paese lavorato e ben dotato, e vedemmo del fummo in molti luoghi.

Come arrivorono a Monzambique e, non essendo acqua dolce in detta isola, l'ammirante fece cavar in una parte e vi trovò acqua dolce, con molta allegrezza degli abitatori. Dipoi partiti de lí, di nuovo vi ritornorono, e per che cagione.

Adí 12 d'aprile arrivammo davanti all'isola di Monzambique, dove alcuna delle nostre navi si dette carena, perché venivano assai mangiate e guaste dal tarlo del mare: e le genti l'aiutavano pendere e mettevano assai fuscegli ne' buchi, perché altro rimedio non potevan fare, e furonvi tali che misono quattro o cinquemila fuscegli ne' buchi. E noi medesimi pigliammo quanta acqua e legne volemmo: perché nella detta isola non era acqua dolce, e gli abitatori andavano per essa dall'altra banda della terra ferma, l'ammirante fece cavare in una parte e trovò acqua dolce, di che assai si rallegrorono gli abitatori.
Adí 18 detto, per comandamento dell'ammirante partimmo di detta isola per Portogallo, per portar nuove al re nostro, come quivi restava la flotta, San Gabriello e la nave di Ruy, che andorono ad una isola quivi presso a pigliar legne. E l'altro dí, adí 19 detto, partimmo di detta isola con tristo vento. Venerdí adí 28 del detto mese partí di detto porto l'ammirante con 7 navi, e con la capitana che fa otto, andorono alla sopradetta isola per legne ch'avevano tagliate. E l'altra mattina, adí 29, a buon'ora partirono alla volta di Portogallo, e lasciò a detta isola in porto cinque navi, che non volle che andassino in sua compagnia, non ostanti che innanzi a lui fussino preste. E lassonne carico a Pietro Alfonso da Chiar, che lo lasciò per capitano d'esse, con ordine che partisse uno o duoi dí dipoi lui: e cosí fu fatto, che la domenica adí 30 partiron di quivi le dette 5 navi, con piú largo vento che non ebbono loro, e andammo alla sopradetta isola per legne. E lunedí mattina, adí 1 di maggio, facemmo vela alla volta di Portogallo, e in questo modo, di subito dopo disinare, vedemmo tornar l'ammirante a detto porto con tutta la flotta, a causa che le navi Fior del mare e la Lionarda facevano di molta acqua, e piú non si potevano tenere sopra essa; e comandò che tutti noi tornassimo con lui a Monzambique. Adí 4 di maggio per comandamento dell'ammirante partirono di detto porto la nave di Fernando Lorenzo e di Luigi Ferrando, per portar nuove al re, come l'ammirante tornò al detto porto con tutta la flotta per ricorreggere dette navi.

Come furono assaliti da una terribilissima fortuna, per la qual non avevano altro rimedio che raccomandarsi a Dio, e come li venne a manco la vettovaglia.

Adí 20 del detto, partimmo un'altra volta da Monzambique, e adí 25 detto andammo a riconoscer terra, e trovammo esser discosta circa a 30 o 35 leghe. E andammo cosí per afferrar Monzambique, una volta al mare e una volta alla terra, fino alli 31 del detto mese, che l'ammirante e la flotta tornò a rientrare in detto porto per correggere la Lionarda, ch'era aperta. E noi, che eravamo nella nave di Ruy Mendez de Brito, entrammo in detto porto di Monzambique adí primo di giugno, perché facemmo in uno gomito di mare correggere la nave, che non poteva navigare, rispetto a uno gran colpo che nel pelago del mare ci dette una notte la Lionarda: e fu una domenica notte dopo detta la Salve, adí 28 di maggio, dove non era modo di potersi salvare, salvo, come piacque a Dio, per via di miracolo e non per via naturale. E questo è noto e certo a tutti noi ch'el vedemmo, perch'el mare era tanto alto, furioso, che per regola naturale non potevamo scampare. Noi fornivamo apunto di dar volta, e la detta nave portava le sue vele quasi imbroccate; e ancora che siam peccatori, non piacque al nostro Signore che ci mettessi in fondo di mare. E come ci toccò, ci levò un pezzo del castello di prua, e attraversoronsi le nostre con le sue sartie, di modo che le navi erano afferrate insieme e, nel frustarsi l'una con l'altra, per la forza che menava il mare, si rompeva di ciascuna nave assai legname delle opere morte, ch'era cosa assai paurosissima e gran dolore di cuore a udire e vedere, perché il mare era molto terribile e grande. E come si sferrorno le sartie davanti, venne a lungo con esso noi, e ruppe il ceppo de una ancora, e levocci la curnacina dal babordo, e detteci uno grandissimo colpo presso dove si posa l'antenna, che, se non fussi stato una curva che v'era, ci tagliava fino al fondo. E ruppesi una cintura e la detta curva, e per quivi aperse la nave, e ruppeci la tavola delle sartie, e tagliocci la maggior parte della catena da detta banda, e ruppeci la vela, fracassò la mezzana d'alto a basso, e tutte l'opere morte da poppa, e assai sartie da detta banda da babordo. E in questa fatica non aveva la gente altro rimedio, né si poteva fare, se non raccomandarsi a Dio; cosí quelli dell'altra nave: dalla misericordia di Dio aiutati fummo.
E come furono l'una nave dall'altra allargate, tagliocci alcune sartie, cosí come quell'altre che loro ruppono: e quella poca gente che restò nella nostra nave cominciò tutta valentemente a travagliarsi, e quanto piú potevamo, alcuni alla banda, e altri con bigonci, altri con caldaie, a gittar l'acqua di sopra coverta. Tredeci di nostri uomini passarono all'altra nave, perché era maggiore, stimando che la nostra se n'andasse in fondo. Alcuni de' nostri cercorono co' lumi tutta la nave e, come trovammo la nave stagnata di sotto, ripigliammo buon cuore. E perché 'l mare era molto alto, e andavamo male ad ordine e non potevamo ammurare da quella banda donde andava l'ammirante con l'altre navi, per essere la nave aperta da quella banda, e quando la nave pendeva da quella banda facevamo assai acqua, e a tal causa facevamo assai fuoco all'altre navi, a fine che non se ne andassino senza noi. E la prima che ci rispose fu la capitana, che ci si appressò e domandò quello che noi avevamo; e quando dicemmo che la Lionarda ci avea colpito fortemente, addomandò se volevamo che si abbordassi con esso noi. Rispondemmoli che no, che fino all'altra mattina ci sopportoremmo; e Fior del mare disse se volevamo che mettessi sopra 'l mare il lor battello per ripigliarci in esso, però che l'uno e l'altro non poteva credere che ci potessimo sostenere sopra mare, andando il mare tanto alto e furioso. E visto da tutti noi il miracolo, facemmo tutti voto e promettemmo che, quando giugneressimo a Lisbona, avanti, che scendessimo a terra andremo tutti in romeria a Nostra Donna da Vita, e a suo onore vi faremmo dire una messa solenne, e vi porremmo una dipintura del miracolo di tutte due le navi, che tutti noi romei desineremo in detto luogo, a riverenza del detto miracolo.
E adí 10 di giugno cominciammo in detta nostra nave a dare alla gente il pane a peso, cioè a ciascuno dodeci uncie di biscotto, e uno pezzo innanzi avevamo cominciato a dare una mezzetta di vino per dí. E perché poi ci parve a tutti essere scarsi di pane, cominciammo adí 28 detto a dare alla gente dieci uncie di biscotto per dí, senza nessuna altra cosa salvo che detto pane e vino, e piú mezza scodella di riso cotto, cioè fra duoi una scodella: il qual riso durò tanto quanto stemmo a Monzambique, e 4 dí piú. E dipoi tornammo a un poco di miglio, che avevamo in detta isola, che tutto poteva essere 2 stara, e dicevano che costava uno ducato lo staro, il quale ci durò 8 dí. E dipoi tornammo a fare del mazzamuro, della polvere del biscotto, ch'era amaro come fiele, e la terza parte era garofani de topi; e dipoi, senza mettervi olio o mele, era cotto con una acqua che non aveva bisogno di altre spezie, perché putiva come un cane morto: e per fame si mangiava. L'ammirante, adí 15 di zugno, venne alla nostra nave e volle vedere la panatteria, e dette giuramento a certi uomini che vennono con lui che li dicessino quanto pane poteva essere in detta panatteria: e per detto giuramento dissono che pareva loro che vi fusse dalli 25 a 30 cantari di pane, e che non le passavano; e là dove eravamo fino a Portogallo sono piú di 2300 leghe. Veduto l'ammirante come noi e la Letoa nova e la Iulia avevamo poco pane e vino, e non punto d'olio, salvo uno poco per la caldaia, né punto di mele, né carne né pesce né legumi, ci comandò che tutti noi 3 ci partissimo per Portogallo, perché già lui era ad ordine per partire fra due o tre dí.

Come, partitisi da Monzambique per la volta di Portogallo,
scontrorono alcune navi de Portoghesi che andavano in India, e delle nuove che dettero loro.
E come viddero una isola non ancora scoperta.

E visto che l'ammirante ci comandò che noi partissimo per Portogallo, di che avemmo grandissimo piacere, ci partimmo dinanzi al detto porto di Monzambique uno venere da mattina a buon'ora, adí 16 di zugno, con tristo vento, volti ora al mare e ora alla terra. Lunedí adí 3 di luglio, andando noi costeggiando e giudicando essere al capo della Guglia, cominciò una gran tormenta di vento ponente, ed era sí grande ch'era cosa maravigliosa a vedere: in modo che raccogliemmo tutte le vele e restammo con un pappafico basso a mezzo albero, e perché era molto piccolo, stemmo cosí con esso fino a due ore innanzi dí, con la prua al mare. E fu sí forte che, quando volemmo raccor la vela per correre a secco, al suono ed empito del mare, non si poteva averla; pure, doppo uno travaglio, si raccolse con gran travaglio e fatica. Piacque al nostro Signore che la nave arrivò senza vela alcuna, però che se non arrivava correvamo in gran pericolo, secondo la gran furia ed empito che menava il mare. E con queste fortune corremmo cosí a secco fino al mercoledí al tardi, e questo medesimo dí al tardi la Iulia messe una bandiera e messe uno borsatto al trinchetto davanti, e cominciò a venire verso noi, e noi verso loro. E quando fummo sí presso che per cenni ci potevamo intendere, perché 'l suono del mare era sí grande che, per appresso che noi stessimo, non potevamo udire, tamen intendemmo che dicevan "terra, terra", cioè che noi andassimo con loro a cercar terra, ancor che l'avessimo discosto: e questo domandavano perché se n'andavano in fondo. E per tal causa mettemmo un borsetto al trinchetto da prua e cominciammo a girare verso terra; e l'altro dí poi si fece bonaccia, e quelli della detta nave presono di molta acqua che gli allagava, e non fu bisogno che noi andassimo a terra.
E adí 10 di luglio, in lunedí, ritrovammo la Letoa nova, che da noi s'era persa parecchi di avanti, e contocci come trovò due navi di Portogallo che andavano in India. E dipoi, adí 12 detto, trovammo due altre navi di Portogallo che andavano in India, e andava per capitano maggiore Alfonso dal Burquegue. E avemmo l'uno e l'altro assai piacere, e traevano alcuno colpo di bombarda; e il capitano maggiore non volle fare mettere fuora lo schifo, e pregò la Iulia ch'aggirassi e andassi un poco alla volta sua per darli nuova d'India: e cosí fece. Noi andammo ad un'altra nave, e come dicemmo al capitano che mettessi fuori il battello, perché noi non avevamo schifo, subito lo fece mettere in acqua e vennono alla nostra nave; e noi andammo alla sua, e avvisammo di quanto era bisogno in India, e loro ci dissono come in Portogallo avevamo uno principe, figliuolo del molto alto e potente re don Manuello nostro signore, e molte altre nuova e dettonci due sacca di pane.
E adí 18 di luglio passammo presso al grande lione tanto temuto da tutti e' mareanti (come in fatto è), cioè il Capo di Buona Speranza. E certo egli è degno d'essere tanto temuto, perché andando all'India, come è passato detto capo, siete navigati, e andando verso Portogallo, similmente come è passato detto capo, possete dire di esser navigati. E adí 30 detto vedemmo una isola non discoperta ancora e andammo ad essa, e a banda di maestro, donde afferrammo detta isola, non trovammo pescarie alcune, e non vi vedemmo alberi di nessuna sorte: era tutta verde, e giudicammo che vi fusse dell'acqua. L'altre navi messono fuori gli schifi, e loro ci dissono quello che trovorono in essa, perché la nostra anora arò. E noi ci mettemmo alla vela, e quel dí e la maggior parte dell'altro l'aspettammo, e visto che non facevano segno di venire, vedemmo che dette due navi restorono surte alla detta isola. La qual isola si guarda col Capo di Buona Speranza maestro e scilocco, e piglia una quarta di levante e ponente, e da esse a detto capo sono 600 leghe di traversa; e guardasi col Capo delle Palme tramontana e mezzodí, e piglia una quarta di maestro e scilocco, e dall'una all'altra sono 360 leghe di traversa; e guardasi con l'isole dell'Ascensione maestro e scilocco, e sono 200 leghe di traversa dall'una all'altra; e coll'isola di Maio si guarda maestro e scilocco, e piglia una quarta di tramontana e mezzodí, e sono 680 leghe dall'una all'altra di traversa.

Viaggio fatto nell'India per Giovanni da Empoli, fattore su la nave del serenissimo re di Portogallo, per conto de' Marchionni di Lisbona.

Della terra chiamata della Vera Croce, overo del Bresil, ove si fa buona somma di cassia e di verzino. Dell'abito, arme e fede di quelle genti. Del porto detto Acqua di S. Biagio, dove per un sonaglio mezzano si aveva una vacca; e del vestir degli uomini e donne di quel luoco.I

La partita nostra fu di Lisbona adí 6 d'aprile 1503, nell'armata del capitano maggiore il S. Alfonso d'Alburquegue, di quattro navi, una di portata di botte 600, chiamata per nome S. Iacobo, una di botte 700, chiamata S. Spirito, una di botte 300, chiamata S. Cristoforo, una di botte 200, chiamata Catarina Dies: le quali partitoci di conserva cominciammo a fare nostra diritta navigazione al Capoverde. E come avemmo vista del detto capo, lo capitano maggiore prese consiglio con li suoi pilotti che cammino si avesse a pigliare, che fusse buona navigazione per guadagnare il Capo di Buona Speranza, perché ordinariamente il diritto cammino era di lungo lungo la costa di Ghinea, della Etiopia; la quale per essere costa e terra molta suddita alle correnti e a molti scogli e basso mare, e oltra a questo coperta della linea equinoziale, dove per la forza d'essa il vento non può vigorare, per fuggir detta costa deliberammo andare alla volta del mare, al piè di leghe 750 in 800. Il perché navigando nella detta volta, al piè di 28 giorni, una sera avemmo vista d'una terra, la quale già per altri era suta trovata in prosonzione, non già per cosa ferma, e chiamasi isola di Assenzione: intorno alla quale stemmo tutta la notte, con molto tempo fortunevole e in qualche condizione di perderci, perché il vento era traversia d'essa. Detta isola era di nullo valore, per quanto potemmo comprendere; e da essa partiti, navigando pure in detta volta, ci trovammo tanto avanti per mezo la terra della Vera Croce, over del Bresil cosí nominata, altre volte discoperta per Amerigo Vespucci, nella qual si fa buona somma di cassia e di verzino: altro di momento non abbiam compreso. Le genti d'essa sono di bona forma e vanno ignudi, cosí uomini come donne, senza coprire niente; sforacchiansi cosí in pelle insino alla cintura, e s'addornano di penne verdi di pappagalli, e le loro labbra sono piene d'ossa di pesce. Le loro arme sono come dardi, le punti coperte di dette ossa di pesce. Fede nessuna non hanno, salvo epicurea; mangiano per commune uso carni umane, le quali seccano al fummo, come noi la carne di porco.
Partiti di detto luogo per nostra navigazione e per voltar il Capo di Buona Speranza, come fummo a dirittura dell'isola di San Tomé perdemmo la vista di questo nostro polo artico, e subito ci accostammo al polo antartico. E avanti che potessimo guadagnare detto capo, corremmo orribile fortuna per piú volte ad arbor secco senza palmo di vela, ora a ponente, ora a levante, perché in detto luogo non corrono altri venti che li due detti. E con la grazia di Dio guadagnammo il detto Capo di Buona Speranza, nella vista d'esso, alli 6 di luglio. E di quivi partiti al lungo di detta costa, entrammo in un porto propinquo a detto capo, chiamato l'Acqua di San Biagio, perché fu discoperto detto porto in detto dí: e in esso porto v'è uno piccolo eremitorio fatto in sua memoria. In detto luogo v'è acqua abbondantissima dolce, che si cava per fosse fatte a mano. In detta terra non v'è cosa di sustanza nessuna, salvo v'è molto bestiame domestico da mangiare: costa ciascuna vacca uno sonaglio di questi mezzani, delli quali ne riscattamo per due sonagli, che per oro o argento non ce l'arebbono mostre; e ciascuno d'essi buoi e vacche ci davano per uno sonaglio non molto grosso, e questo è quello che amano sopra ogni altra cosa. Gli uomini sono senza capelli, col capo tignoso e brutto, con gli occhi cispi; e il corpo fino alla cintura è vestito di pelli pelose, e portano le loro nature in un cuoio piloso, a modo di guaina, sempre diritta. Le donne portano detto abito di pelli, e a esso appiccano una coda pilosa di simil bestia, le quali pendono dinanzi e di drieto, per coprir le lor vergogne; hanno le poppe loro molto lunghe, cosa molto deforme. Gli uomini portano certi dardi con una punta di ferro, che se ne trova qualcuno. Legge nessuna non tengono; mangiano carne cruda, per quanto abbiam veduto; parlano in gola e con cenni e fischi, e giamai gli abbiam veduti esplicar parola espedita, perché avevamo fra noi uomini che sapevano varie lingue, e giamai potettono pigliar construtto di loro lingua: e in conclusione sono uomini bestiali. Questo è quanto abbiamo potuto comprendere di detta terra.

Di una terra chiamata Patti. De' segni che nel mare dinotano la vicinità della terra. Del monte detto Deli. Come, pervenuti a Cocchin, intesero esser destrutto e cacciato il re de' Mori, e restituito nel regno per il capitano Francesco di Alburguegue. D'un castello fatto sul rio di Ripellin. Della terra Colom, non avanti scoperta, dove trovorono cristiani detti nazzarei, quivi rimasti fin al tempo di S. Tomaso.

Partimmo di detto porto e, navigando a lungo di detta costa, corremmo qualche fortuna, e con gran difficultà potevamo guadagnare la detta costa. Pure andammo tanto avanti come la terra di Ceffala, ove è la mina dell'oro, e dove il re ha fatto uno castello bene artigliato e dove ha uomini a bastanza. E di quivi partimmo per andare a Melinde, dove per obligazione e comandamento del re di Portogallo ci bisognava andare per aspettare il capitano maggiore, il quale s'era da noi perduto per la fortuna grande passata. E volendo noi seguire e mettere ad effetto tal mandato, era il vento opposito, di sorte che, istando barlavenziando per pigliare detta terra, e pigliar uno pilotto d'essa che ci menasse nell'Indie, per rispetto del pericoloso golfo, giamai ci fu rimedio, e l'acque ci trasportorono tanto abbasso che fummo a tenere una terra chiamata Patti, la quale è circondata da molti bassi. E fondando il nostro pilotto, quando trovava 30 braccia, quando 10 o meno, di modo che noi altri, per non potere altro fare, surgemmo in quattro braccia, con assai paura di nostra perdizione, perché se fussi soffiato vento contrario forzoso eravamo del tutto persi.
E cosí stando, non possendo compire il reggimento del re, perché il tempo passava dell'attraversare il golfo (e se l'uomo non si trova il settembre nell'Indie non si può passare, che sei mesi venta levante e sei ponente), deliberammo lasciare il reggimento del re e il pilotto. E partimmoci cominciando ad entrar nel detto golfo, la qual traversita è di 800 leghe o piú: e navigando ben quindeci giorni per detto golfo, trovammo le navi di nostra conserva, ecetta la nave Caterina ditta di sopra, la quale era sommersa con la fortuna. E insieme facemmo gran festa, raccontando ciascuno la fortuna occorsa, e seguendo nostra navigazione per detto golfo paurosamente, perché in detto golfo sono ventiquattro migliaia di isole, e se si errasse el dritto canale, se daria in terra in dette isole. E se in detto golfo ventassino tutte le sorti de venti, come in questi nostri mari soffiano, nessuna nave si salvarebbe; ma perché el tempo che noi passiamo detto golfo sempre il vento è prospero e uno solo, perché come dico non ventano altri venti che ponente e levante. E quando noi siamo quasi all'uscir del canale, i segnali che noi abbiamo, come a tutti è notorio, sono questi: prima troviamo acque bianche, come cosa presso di terra (tuttavolta non resta che non sia discosta la terra a noi notoria leghe 150 o piú); e dipoi troviamo l'acqua del mare piena di serpi, le quali, in tanta abbondanza quanta dir si può, sono sottili e lunghe a regione, e vanno col capo fuor dell'acqua; il terzo segno e ultimo sono granchi rossi, non molto grossi. Quando questi segni troviamo, sappiamo che siamo presso a terra a 70 leghe.
E di quindi al nostro cammino trovammo il monte Deli, prima terra d'India, chiamata principio di Melibari cosí chiamato. E di qui fummo a Cananor, e pigliammo rinfrescamento per recreazione di tante fatiche e fortune sopportate: e fu adí XI di settembre, e quivi comperammo quelle mercanzie che trovammo. Partimoci a lungo della costa e andammo a Cocchin, faccendo il camino per Calicut e quelle altre terre circonstanti; e giunti a Cocchin, trovammo esser arrivate le navi del capitano Francesco de Alburguegue, le quali partirono di Lisbona tre navi insieme 8 dí dipoi noi. E ivi trovatole facemmo gran festa, e da loro avemmo lingua come avevano trovato detto regno di Cocchin destrutto, cacciato il re da' Mori e gente di Calicut: per la qual cosa detto capitano aveva co' suoi battelli e gente guerreggiato, di modo ch'aveva vinto il campo de' nemici, con qualche occisione dell'una parte e dell'altra, e aveva rimesso il re di Cocchin in suo stato. Ora, raunatosi li due capitani, deliberorono di far guerra e di andar a' danni del re di Calicut: e cosí per molte volte lo facemmo. E facemmo in detto luogo di Cocchin uno castello in su la punta del rio di Ripellim, molto forte di legname, con fosse e fossi grandi circondato, e con molte genti e artegliarie, che ciascuna nave diede per provedimento di detto castello. E fatto questo cominciammo a domandare la carica delle spezie, e trovammo nella terra esservi dodicimila cantara di pepe, il quale avea comperato l'altro capitano, ch'era giunto prima di noi. E doppo molte differenze che ebbe il nostro capitano con l'altro sopra la division d'essi, perché noi volevamo la metà, rimissonsi ne' fattori del re che quivi stavano, e fu giudicato che le spezie fussino di quelli che prima giunsono. E cosí, trovandoci fuor di speranza, ed essendo malcontenti per aver tanto affaticati i nostri corpi ed esser venuti sí di lontano per aver a tornare senza spezie, deliberammo piú tosto non tornare in Portogallo e cercar nostra ventura piú avanti, in altro luogo che a quel tempo non era notorio.
E partitoci dalla terra di Cocchin, andammo a lungo la terra ben 250 miglia, dove trovammo una terra chiamata Colom, nella quale non era suto giamai persona a discoprirla: e quivi surgemmo a lungo della spiaggia e costa brava, ben 6 miglia da terra. Sorti cosí in su la sera, a mezzanotte cominciò a ventare grandissimo vento opposito e traversia di detta terra, e durò 5 dí, con tanta e sí gran fortuna e sí gran mare, e ripugnavaci tanto a terra che perdemmo quattro armizzi e ancore, e rimanemmo sopra una e con poca speranza di salute: onde la gente, quasi la maggior parte, si erano spogliati (se necessario fusse) per gettarsi in mare per salvarsi. Pure Dio non volse tanta crudeltà, e cessò il vento e il mare.
E cessata tal fortuna, il capitano mi mandò a terra ad intendere quello che in essa fusse, e armato il battello, e colle sue trombe e cerimonie, mi messono in terra, dove trovammo essere ben 400 uomini della terra, aspettandoci per vederci, sí li battelli come noi altri, parendo lor mirabil cosa la gente nostra. E giunti a loro, facemmo lor dire come eravamo cristiani dal nostro turcimanno, e come tal cosa intesono ne presono gran piacere, dicendo loro essere alsí cristiani, li quali erano rimasti sin dal tempo di san Tommaso. E chiamansi per nome cristiani, sí donne come uomini, come noi: e d'essa sorte sono numero tremila, poco piú o meno. E subito ci menorono a vedere una chiesa fatta al modo nostro mediocre, con santi e croce, intitolata Santa Maria: e al circuito d'essa abitano e' detti cristiani, chiamati nazzareni. E qui in detta chiesa ci appresentorno per istanza, dipoi fummo al re, chiamato Nambiadora, el quale con assai letizia e amore ci ricevette; e domandatoli se lui aveva el modo a darci spezie per la carica di tre navi, rispose che in 20 dí s'obligava caricarcele in fondo d'ogni sorte spezie. E tornatoci a nave con tal risposta al capitano, facemmo gran festa; e cominciato a conciar le navi, cominciammo a caricare, e caricamo tanto quanto il nostro appetito desiderava, e tanto in fondo che dicemmo non piú.

Come il re di Colom venne per abboccarsi col capitano generale, e della magnifica preparazione fatta per l'uno e l'altro.

E ora faccendo conto di partirci, il capitano e il re di Colom, desiderosi di vedersi insieme, deputarono il dí. Il capitano, il giorno che si dovevano vedere, misse in ordine sei battelli, tutti ben forniti d'arteglierie e bandiere e palvesi e stendardi; e il battello del capitano era coperto di velluto, e dentro la poppe dove si siede, con molti adornamenti di lambelli e barberie alla moresca, e lui vestito di broccato, con cioppa alla veniziana e con molte gioie e catene d'oro, molto superbamente, come si richiedeva al capitano che rappresenta il re di Portogallo; e noi altri eravamo addorni ciascuno secondo sue forze. E giunti presso a terra, dove è un porto e natural surgitoio delle navi d'India, e surgemmo l'ancore di battelli, e fecesi allargare al mare insino a tanto che il re venisse a litto.
E in spazio d'un'ora il re venne con innumerabil genti, e questi tutti per ordine di squadre, di spada e targa al modo nostro, e rotella in numero grande. Dipoi gli arcieri, dipoi li palestriti unti con loro olii, come conviene al giuoco di palestre, nel qual molto si esercitano; dipoi gli uomini cittadini cambiatori, cioè banchieri, orefici e altri artigiani, e' quali chiamano zetim, e dipoi e' naieri, i quali al modo nostro sono signori di riputazione. Dipoi e' prossimani al re, cioè bramini, e' quali bramini, quattro d'essi principali portavano la persona del re in certi andari superbi, come barelle, con quattro manichi di pezzi di denti d'elefanti commessi e acconci bene: e il re a sedere a modo loro, co' piè da basso del sesso a uso di sarto, bene adorno con panni di seta lavorati e cottonina, e con molti belli anelli di buona stima, e una berretta de velluto cremesin piena di gioie, bene adorna, lunga circa duoi terzi di braccio, a quattro quartucci con pendoni che cascano, e i capelli di basso di detta berretta. E drieto a lui aveva molti elefanti e cavalli, ancora che i cavalli non siano naturali del paese come gli elefanti, ma vengono di verso la Persia; e doppo questo assai suoni, come cornamuse, cieramelle, naccaroni e trombette.
E subito che fu tanto avanti come li battelli del capitano, fermossi con sua gente, e come fu giunto, il capitano per farli onore mandò a sparare tutta l'artegliaria e a sonare tutte le trombette, e dipoi si fece tirare a terra nei battelli, per scendere e baciar la mano al re. E come il re vidde il capitano che voleva scendere, usò tale arte che, volgendosi intorno senza altrimenti parlare, tutta la gente sua si slargò bene assai da lui, e mostrò che voleva fidarsi di noi piutosto che noi avessimo a fidarci di lui. Il capitano mettendosi su le spalle de' suoi marinari per farsi mettere in terra per non si bagnare, il re se n'andò verso lui per riceverlo e si misse nell'acqua sino presso al ginocchio: e quivi stettono alla marina presso al battello faccendo gran festa, e innanzi partissino l'uno dall'altro fecero loro capitoli e accordo in questo modo.


Dell'accordo fatto tra il re di Colom e il capitano generale, sí delle mercanzie come d'altre cose. Delle pescherie di Canangie. De' modi e costumi di Malibari e de' gentili dell'India.

Il re s'obbligò dare ciascuno anno a' Portoghesi tutte le speziarie che nella terra si facessino, e cosí noi ci obbligammo a pigliarle, e vi si misse prezzo fermo, tanto alle loro spezierie quanto alle nostre mercanzie. E dipoi chiedemmo che chi là rimanesse per il re di Portogallo avesse ad aver cura nella giustizia de' cristiani, quando occorresse, ed etiam nelli cristiani delle terre che noi vi trovammo, i quali prima eran tenuti come i giudei fra noi e mal trattati. E al re tutto piacque compiacersi, ancora che li parve cosa molto grande tirarli di sua iuridizione; tuttavolta ci volle contentare. E cosí fatto l'accordo, messono tutto in scritto in lettere d'argento, e si partí il capitano, faccendo gran cerimonie l'una parte e l'altra.
Dipoi, e' cristiani della terra essendo desiderosi di vedere i nostri sacerdoti, il capitano fece scendere a terra il frate nostro con due preti, tutti parati con loro ecclesiastici paramenti, e innanzi ad esso gente assai che l'accompagnavano, de' nostri e de' cristiani delle terre. E con molti suoni entrati in chiesa, si cominciò a celebrar la messa, e con gran solennità, e trombe e campane portatevi, e la chiesa paramentata e piena d'uomini e donne cristiane: non bisogna dire se la divozione e festa era grande. E come fu finita la messa, cominciò il frate a predicare, e il turcimanno (ch'era uomo sofficientissimo), se il frate diceva bene in sua lingua, lui diceva bene e meglio, di modo che la cosa continuava ogni dí in piú favore e buon zelo, e in 8 dí che stemmo dipoi avemmo carico, assai gente si battezzò de' gentili della terra. E senza dubbio credo che con l'aiuto di Dio, non solamente il serenissimo re di Portogallo grande onore e ricchezza acquisterà, ma etiam ardisco dire che, in ispazio di 50 anni, saranno convertite assai gente, che Dio ne presti di sua infinita grazia.
Partitoci di detta terra alli 15 di gennaio, andammo alla volta di Cocchin, per vedere come avesse proceduto l'altra armata. Trovammola partita, ed era dinanzi a Calicut, e stavano per fare accordo col re: dove noi trovammo le navi, che non avevano potuto aver spezie per tutte le navi, perché chi gli aveva promesso li dodicimila cantari non volle poi osservare, ed erano malcontenti. Noi demmo loro dugento sacchi di pepe, ch'eran soperchi alle nostre navi. Cosí ci partimmo e andammo a Cananor, dove pigliammo acqua e riso e pesci per il nostro viaggio. E ci partimmo alli 27 di gennaio, e pigliammo uno pilotto moro per la traversa del golfo della Mecca.
Partitoci, parendoci già aver navigato detto golfo, fummo assoquadro di 3 isole allegate e quivi stemmo in condizione di perderci. E usciti di tal pericolo, n'andammo a Monzambique, e di quivi partitoci, navigando a lungo della costa, innanzi guadagnassimo il Capo di Buona Speranza, corremmo assai fortuna: e per non mi distender troppo, guadagnammo detto capo il primo dí di maggio 1504. E di lí pigliando nostra diritta, e avendo poi tagliato di molto mare, parendoci esser presso all'isole di Capoverde, ci trovammo piú adietro, e fu traverso delle pescherie di Canangie in Ghinea: e quivi ci prese una calma dove stemmo 54 giorni, e credo non andassimo oltra a sei leghe in tutti quei dí, di sorte ch'eravamo disperati. Acqua avevamo poca, solamente tre pipe, né vino, né nessuno altro apparecchio di nave, essendo le vele e altro tutto consumato, di modo che la gente si cominciò ammalare: e in trentacinque dí di nostra nave gittammo in mare 76 persone, e solo restammo in nave 9 e non piú; e nell'altre navi il simile avemmo, che ne morirono ben 130 persone, di sorte ch'eravamo del tutto desperati. Le navi se n'andavano al fondo, a causa del gusame che l'avea consumate. Quivi non era redenzione nessuna salvo l'aiuto divino, il qual bisognava venisse e celeratamente, che quivi non era altro rimedio per piú de uno dí, che io per me non so né scrivere né esplicare. Volse la nostra buona sorte che l'altro dí avemmo vista d'una nave, e facemmo cenno che la venisse a noi, per sapere donde venisse: trovammo ch'era nave di Portogallo che andava in Ghinea a comprar schiavi. Il capitano di essa ci dette acqua e altro sussidio, di modo che lo facemmo tornar indietro con esso noi, e ci menò insino all'isola di S. Iacobo di Capoverde: e quivi surgemmo e pigliammo acqua e carne e schiavi, perché aiutassino condur la nave in Portogallo.
E cosí partiti, faccendo il cammino all'isola degli Astori, non potemmo averla e andammo di lungo a Lisbona. E come avemmo vista delle rocche di Sintra, 5 leghe da Lisbona, mandammo avanti la nave che avevamo fatta tornar indietro, a fare a sapere al re che noi eravamo quivi, che ci mandasse ordine dove avessemo a surgere. La nave andò dentro e noi fuori, e 'l vento contrario; e la gente negra ch'avevamo tolta, come sentitero il freddo, s'erano morti. E di nuovo stando per entrare nel porto, con vento contrario, ce n'andavamo in fondo: e stemmo a tal partito che, se soprastavamo piú mezzo dí, ci saremmo sommersi davanti a l'uscio. Pure entrammo dentro, adí 15 di settembre 1504, dove ci fu fatto bellissimo raccoglimento: e ben son certo che, per molte allegrezze avessino, che la nostra fu molto maggiore.
Scordami dirvi i modi e costumi di Melibari e gentili dell'India, li quali per mancamento di buona memoria avevo dimenticato. Li detti gentili sono idolatri, né mangiano carne né pesce né uova, né cosa che tenga sangue; solo mangiano risi ed erba. Sono uomini netti e puliti, e quelli che son ricchi abitano in case di mattoni e calcina, ben lavorate. Tengono le vacche per loro dio, sí che ve n'è assai abbondanza per tutta la terra. Questo è quanto abbiamo compreso e di tanto vi fo fede, che Dio cresca la vita de V.S. per lungo tempo.

Itinerario di Lodovico Barthema

Discorso sopra lo itinerario di Lodovico Barthema.


Questo Itinerario di Lodovico Barthema bolognese, nel qual tanto particularmente si narrano le cose dell'India e isole delle speciarie, che da niun degli antichi si trovan scritte cosí minutamente, è stato molti anni letto con infiniti errori e incorrezioni; e ancor nell'avvenir cosí si leggeria, se 'l nostro Signor Iddio non ne avesse fatto venir alle mani un libro de un Cristoforo di Arco, clerico di Sibillia, il quale, avendo avuto un esemplar latino di detto viaggio, tratto dal proprio originale dirizzato al reverendissimo cardinal Carvaial di Santa Croce, lo tradusse in lingua spagnuola con gran diligenzia. Dal qual abbiamo avuta commodità di corregger ora la presente opera in molti luochi, la qual fu dal proprio auttor scritta nella lingua nostra vulgare e indirizzata alla illustrissima madonna Agnesina, una delle singulari ed eccellenti donne che a quelli tempi in Italia fusse, che fu figliuola dell'illustrissimo signor Federico duca de Urbino, e sorella dell'excellentissimo signor Guidobaldo, e moglie dell'illustrissimo signor Fabricio Colonna, e madre dell'excellentissimo signor Ascanio Colonna e della signora Vettoria marchesa dal Guasto. E il prefato Lodovico divise questo Itinerario in sei libri, nel primo delli quali narra dell'andar suo in Egitto, Soria e Arabia Deserta; nel secondo tratta dell'Arabia Felice; nel terzo della Persia; nel quarto e quinto scorre tutta l'India e l'isole Molucche, dove nascon le spezie; nell'ultimo si contien il ritorno suo in Portogallo, passando appresso le marine dell'Etiopia, Capo di Buona Speranza, con alcune isole del mar Oceano occidentali.

Alla illustriss. ed eccellentiss. Signora la Signora contessa di Albi e duchessa di Tagliacozzo, Madama Agnesina Feltria Colonna, Lodovico di Barthema bolognese.

Molti uomini sono già stati, li quali si sono dati alla investigazione delle cose terrene, e per diversi studii e mezzi e fidelissime relazioni si sono sforzati pervenire al lor desiderio. Altri poi di piú perspicace ingegno, non li bastando la terra, cominciorono con sollecite osservazioni e vigilie (come Caldei e Fenici) a discorrere le altissime regioni del cielo: di che meritamente ciascun di loro cognosco aver conseguita dignissima laude appresso degli altri, e di se medesimi pienissima sodisfazione. Donde io, avendo grandissimo desiderio di simili effetti, lasciando stare i cieli, come peso convenevole alle spalle di Atlante e di Ercole, mi disposi a voler investigare qualche particella di questo nostro terreno globo; né avendo animo (cognoscendomi di tenuissimo ingegno) per studio over conghietture pervenir a tal desiderato fine, deliberai con la propia persona e con gli occhi medesimi cercar di cognoscer li siti delli luochi, le qualità delle persone, le diversità degli animali, la varietà degli arbori fruttiferi e odoriferi dell'Egitto, della Soria e dell'Arabia Deserta e Felice, della Persia, dell'India, dell'Etiopia, massime ricordandomi esser piú da stimare un testimonio di vista che dieci d'udita.
Avendo adunque col divino aiuto in parte sodisfatto all'animo mio, e ricercate varie provincie e strane nazioni, mi pareva niente aver fatto se delle cose da me viste e provate, meco tenendole ascose, non ne facessi partecipi gli altri uomini studiosi. Onde mi sono ingegnato, secondo le piccole forze, di scriver questo mio viaggio piú diligentemente che ho potuto, giudicando far cosa grata alli lettori, che, dove io con grandissimi pericoli e intolerabili fatiche mi sono dilettato vedendo nuovi abiti e costumi, loro senza disconcio o pericolo leggendo ne piglino quel medesimo frutto e piacere.
Ripensando poi a chi meglio potessi indrizzare queste mie fatiche, mi occorse Vostra illustriss. ed eccellentiss. Signoria, quasi unica osservatrice delle cose notabili e amatrice di ogni virtú. Né mi par vano il mio giudicio, per l'infusa sapienzia dal splendor e lume dello illustrissimo ed eccellentissimo Signor duca d'Urbino suo genitore, quasi a noi un sole d'arme e di scienzia. Non parlo dello eccellentiss. S. suo fratello, che in studii greci e latini (giovene anche) fa di sé tal esperienzia, che oggidí è quasi un Demostene e Cicerone nominato. Onde, essendo in V. illustrissima S. derivata ogni virtú da cosí ampii e chiari fiumi, non può altro che dilettarsi delle opere grandi e maravigliose e averne gran sete. Quantunque, a quel che in essa si conosce, piú volentieri dove con l'ale della mente vola con li corporei piedi anderia, ricordandosi esser questa una delle laudi data al sapientissimo e facondo Ulisse, di aver veduti li costumi di molti uomini e di molti paesi. Ma perché V. illustriss. S. nelle cose del suo illustriss. Signor e consorte, è occupata, qual come nuova Artemisia ama e osserva, allevandogli due gentil piante che sono come un Apolline e Diana, e circa l'inclita famiglia, qual con mirabil regola addorna di costumi, dirò esser assai se l'animo suo si pascerà, tra altre opere ottime, di questa, benché inculta, ma forse fruttuosa lezione. Né farà come molte altre, che porgono l'orecchie a canzonette e vane parole, le ore sprezzando, contrarie all'angelica mente di V. illustrissima Signoria, che non lassa passare punto di tempo senza qualche buon frutto. La benignità della quale facilmente potrà supplire dove mancherà la inordinata continuazione di essa, pigliando solamente la verità delle cose. E se queste mie fatiche le saranno grate e le approbarà, assai gran laude e sodisfazione mi parrà aver ricevuta del mio lungo peregrinare, anzi piú presto paventoso esilio, dove infinite volte ho tolerata fame e sete, freddo e caldo, guerra, prigione e infiniti altri pericolosi incommodi, animandomi piú forte a questo altro viaggio, quale in breve spero di fare: che, avendo cercate parti delle terre e isole orientali, meridionali e occidentali, son disposto, piacendo al Signor Dio, cercar ancora le settentrionali. E cosí, poi che ad altro studio non mi vedo esser idoneo, spenderò nel resto di questo laudabile esercizio il rimanente de' miei fuggitivi giorni.


Di Alexandria.

Il desiderio il quale molti altri ha spronato a vedere la diversità delle monarchie mondane, similmente alla medesima impresa mi incitò. E perché tutti gli altri paesi dalli nostri antichi assai sono stati dilucidati, per questo nel mio animo desiderai vedere paesi dalli nostri meno frequentati. Onde, partendomi da Venezia con l'aiuto del nostro Signor Iddio, navigai tanto per le nostre giornate ch'arrivai in Alessandria, città d'Egitto, le qualità della qual essendo notissime si pretermetteno; ma desideroso di cose nuove, entrato nel fiume Nilo me ne gionsi al Cairo.


Del Cairo.

Pervenuto nel Cairo, stupefatto prima della fama della sua grandezza, fui resoluto non esser tanto quanto si predica, ma la grandezza sua è come il circuito di Roma; vero è ch'è piú abitato assai che non è Roma, e fa molte piú genti. L'errore di molti è questo, che di fuori del Cairo sono certe ville, le quali credono alcuni che siano del circuito di esso Cairo: la qual cosa non può essere, perché sono lontane dua o tre miglia e sono proprii villaggi. Non sarò prolisso a narrare della lor fede e costumi, perché si sa publicamente esser da Mori e Mammalucchi abitato, de' quali è signore il gran soldano, il quale è servito da' Mammalucchi, signori de' Mori.


Di Barutti, Tripoli e Alepo.

Circa le ricchezze e la bellezza del detto Cairo, e della superbia de' Mammalucchi, perché sono cose a tutti e' nostri manifeste, metterò fine; ma de qui partendomi, a seconda del Nilo me ne ritornai in Alessandria, donde faccendo vela per mare arrivai in Barutti, città e porto della Soria: e possono esser da 500 miglia. Nel qual Barutti stetti molti giorni, ed è terra molto abitata da' Mori, e d'ogni cosa molto abbondante. Il mare batte nelle mura: non è circondata tutta intorno di mura, ma solamente dalla banda verso ponente, cioè verso il mare. Ivi non viddi cosa alcuna degna di memoria, salvo una anticaglia, dove dicono che era posta la figliuola del re quando il dragone la dovea divorare, e dove san Giorgio, ammazzato detto dragone, la restituí al padre: la quale è tutta in ruina.
E partitomi de lí, andai alla volta di Tripoli di Soria, che sono due giornate verso levante; il qual Tripoli è sottoposto al gran soldano, e tutti sono maumettani, e la detta città è abbondante d'ogni cosa. E de lí poi pervenni in Alepo, che sono otto giornate dentro in terra ferma, il qual Alepo è una bellissima città ed è sottoposta al gran soldano del Cairo, ed è scala della Turchia e della Soria, e sono tutti maumettani. È terra di grandissimo traffico di mercanzia, e massime di Persiani e Azzamini che arrivano fin lí; e ivi si piglia il cammino per andare in Turchia e in Soria, cioè di quelli che vengono di Azzamia.


Di Aman e di Menin.

Dapoi me ne andai alla volta di Damasco, che sono giornate dieci piccole. Alla metà del cammino v'è una città chiamata Aman, nella quale nasce grandissima quantità di bombagio e frutti assai buoni. E appresso a Damasco sedeci miglia trovai un'altra terra chiamata Menin, la qual è posta in cima d'un monte ed è abitata da cristiani alla greca, e sono sottoposti al signor di Damasco: nella qual terra sono due bellissime chiese, le quali dicono aver fatte far santa Elena madre di Constantino. Ivi nascono bonissimi frutti, e massime buone uve lunge e senza ciolo, e sonovi bellissimi giardini e fontane.
Partitomi de lí, arrivai alla nobilissima città di Damasco.


Di Damasco.

Veramente non potria dire la bellezza e bontà di questa nobilissima città, nella qual dimorai alcuni mesi per imparar la lingua moresca. È abitata tutta da Mori e Mammalucchi, e anco da molti cristiani grechi. E qui mi occorre recitar il governo del signore, il qual è sottoposto al gran soldano del Cairo. Nella detta città è uno bellissimo e forte castello, il qual dicono aver fondato un Mammalucco fiorentino a spesa sua, essendo signor di quella: e fin oggidí in ogni cantone di detto castello è scolpita l'arma di Fiorenza in marmo. E ha le fosse intorno grandissime, con quattro fortissimi torrioni e con ponti levatori e buona artegliaria, e di continuo vi stanno 50 Mammalucchi provisionati col castellano, li quali stanno ad instanzia del gran soldano. E quel Fiorentino era mammalucco del gran soldan, e nel tempo suo fu (com'è fama) attossicato il soldano e, non trovandosi chi lo liberasse di detto tossico, Dio volse che 'l detto Fiorentino lo liberò: e per questo li dette la detta città di Damasco, e cosí fec'il castello. Poi morse in Damasco, e il popolo l'ha in tanta venerazione quanto si fusse stat'un santo, con grandi luminarie. E d'allora in qua sempr'il castello sta a posta del soldano, e quando si fa un soldan nuovo, uno delli suoi signori, li quali si chiaman ammiragli, dice: "Signore, io son stato gran tempo tuo schiavo; donami Damasco e io ti darò 100 o 200 mila seraffi d'oro". Il soldan li fa la grazia. Ma è da sapere che, s'in termine poi di duoi anni il detto signor non li manda detti migliaria di seraffi, egli cerca di farlo morire, per forza d'arme o in qualche altro modo, e faccendoli il detto presente rimane in signoria.
Il detto signore ha sempre dieci over dodeci signori e baroni della città con lui, e quando il gran soldano vuol dugento o trecentomila seraffi da lui, over dalli signori overo mercanti di detta città (perché loro non usano iustizia, ma solo robbamenti e assassinamenti come chi piú può, perché i Mori stanno sotto alli Mammalucchi come l'agnello sotto il lupo), manda due lettere al castellano del detto castello, delle quali l'una in semplice tenore contiene ch'ei debbia congregare nel castello quelli signori over mercanti che a lui piace, e poi congregati si legge la seconda lettera, il tenor della quale subito si esequisse, o in bene o in male: e in questo modo il detto gran soldano cerca di trovar danari. E qualche fiata il signor di Damasco si fa tanto forte che ei non vorrà andare in castello, e ancora molti baroni e mercadanti, sentendosi invidiati, montano a cavallo e tirano alla volta della Turchia, per fuggir questa tirannia.
E di questo non vi diremo altro, se non che la guardia del detto castello è questa, che in ciascuno delli quattro torrioni gli uomini che stanno a guardare la notte non gridano niente, ma ciascuno ha un tamburo fatto a modo di una mezza botta, e li dà una gran botta con un bastone, e uno con l'altro si rispondono con detti tamburi: e tardando a rispondere il termine d'un paternostro, sono posti in prigione per uno anno.


Del detto Damasco.

Poi che detto abbiamo delli costumi del signor di Damasco, al presente mi occorre referire alcune cose della città, la quale è molto populata e molto ricca. Non si potria stimar la ricchezza e la gentilezza de' lavori che ivi si fanno; qui avete grandissima abbondanza di grano e di carne, ed è la piú abbondante terra de frutti che mai si vedesse, e massime d'uva d'ogni tempo fresca. Dirò delli frutti buoni che vi sono e de' tristi: melegranate e melecotogne buone, mandorle e olive grosse buonissime, rose bianche e rosse le piú belle che mai si vedessero, belli pomi e peri e persichi, ma tristissimi al gusto: e la cagione di questo è che Damasco è molto abbondante di acque. Va una fiumara per mezzo della città, e una gran parte delle case ha fontane bellissime di mosaico; e le stanzie di fuori sono brutte, ma dentro sono bellissime, con molti lavori di marmo e di porfido. E vi sono molte moschee: fra l'altre ve n'è una principale, ch'è della grandezza di San Pietro di Roma, ma è scoperta in mezzo e intorno è coperta in volto, e lí tengon il corpo di san Zacaria profeta, com'è fama, e fannoli grandissimo onore; e nella detta moschea sono quattro porte principali di metallo, e dentro vi sono molte fontane. Vedesi ancora dov'era la canonica che fu già de' cristiani, nella quale sono molti lavori antichi di mosaico. Ancora si vede dove dicono Cristo aver detto a san Paolo: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?", qual luoco è fuori d'una porta di detta città circa un miglio, e ivi si sepelliscono tutti li cristiani che morono in detta città. È ancora nelle mura di detta città quella finestra, dove (come dicono) san Paolo stav'in prigione: li Mori piú volte l'hanno murata, e la mattina si trova rotta e smurata, come l'angelo la ruppe quando tirò san Paolo fuor di detta finestra. Ancor viddi quella casa dove Cain (come si dice) ammazzò Abel suo fratello, la qual è fuori dell'altra banda della città un miglio, in una costa pendente sopr'un vallone.
Or torniamo alla libertà che i detti Mammalucchi hanno in detta città di Damasco.


De' Mammalucchi in Damasco e della sua libertà.

Li Mammalucchi sono cristiani renegati e comprati dal detto signore, li quali mai non perdono tempo, ma sempre o in arme o in lettere si esercitano, finché siano ammaestrati. E ogni Mammalucco, grande o piccolo che sia, ha di soldo sei seraffi al mese, e le spese per lui e per il cavallo e un famiglio, e tanto piú hanno quanto piú fanno alcune esperienze nella guerra. Li detti Mammalucchi, quando vanno per la città, sono sempre accompagnati da duoi o tre al manco, perché gli saria gran vergogna s'andassero soli. Scontrandosi per caso in due o tre donne, hanno questa libertà, e se non l'hanno se la pigliano: vanno ad aspettar queste donne in certi luochi, come seriano ostarie grandi, e come esse donne passano davanti alla porta, ciascuno Mammalucco piglia la sua per la mano e tirala dentro e fa quello che li piace. E se la donna fa resistenza di darsi a conoscere (perché tutte portano il viso coperto, in modo che loro conoscono noi e noi non conosciamo loro), il Mammalucco le dice che la vorria conoscere. Ed essa gli risponde: "Fratello, non ti basta che di me fai quello che vuoi, senza volermi conoscere?" e tanto lo prega che la lascia. E alcuna volta credono pigliare la figliuola del signore e pigliano le loro proprie mogli: e questo è intravenuto al tempo mio.
Queste donne vanno molto ben vestite di seta, e di sopra portano certi panni bianchi di bombagio, sottili e lustri come seta, e portano tutte li borzacchini bianchi e scarpe rosse overo pavonazze, e molte gioie intorno alla testa e all'orecchie e alle mani. Le qual donne si maritano a beneplacito loro, cioè, quando non vogliono piú stare col marito, se ne vanno al cadí della fede loro e lí si fanno separar dal marito, e lui piglia altra moglie. E benché alcuni dicano che li Mori tengono cinque o sei mogli, io per me non ho mai veduto se non che ne tengono due over tre al piú.
Questi Mori la maggior parte mangiano nelle strade, cioè dove si vendono le robe, e fansi cocere il mangiare, e vi mangiano molta carne di cavallo, camelli e buffali e castrati e capretti assai. E quivi è abbondanzia di buoni caci freschi, e quando volete comprar il latte, vanno ogni dí per la terra quaranta e cinquanta capre, le quali hanno l'orecchie lunghe piú d'un palmo: il padrone di esse ve le mena suso nella camera vostra, se ben la casa avesse tre solari, e lí in presenzia vostra ve ne mugne quanto volete in un bel vaso stagnato, e avete molti capi di latte. Qui ancora si vende gran quantità di tartuffale, e alcuna volta ne viene venticinque o trenta camelli carghi, e de lí in tre o quattro giorni sono vendute: e vengono dalle montagne dell'Armenia e di Turchia. Li detti Mori vanno vestiti con certe veste lunghe e larghe di seta over di panno, senza cingerle; la piú parte portano calzoni di bombagio e scarpe bianche. Li quali, quando scontrano un Mammalucco, benché fusse Moro e principal mercante, bisogna che 'l faccia onore e largo al Mammalucco, e non lo faccendo lo bastonano. Vi sono molti fontichi de cristiani, che tengono panni e seta e rasi, velluti e rami e di tutte mercanzie che bisogna; ma sono mal trattati.


Come da Damasco si va alla Mecca, dove si descrivono
li costumi di Arabi che stanno alla campagna.

Avendo dechiarate forse piú diffusamente le cose di Damasco che non si dovea, l'opportunità mi sollecita di raccontar il mio viaggio. Nel 1503, adí 8 d'aprile, mettendosi in ordine la carovana per andar alla Mecca, ed essendo io volontaroso di veder varie cose e non sapendo in che modo, pigliai grande amicizia col capitano de' detti Mammalucchi della carovana, il qual era cristiano renegato, per modo ch'egli mi vestí da Mammalucco e dettemi un buon cavallo, e messemi in compagnia d'altri Mammalucchi: e questo fu per forza di danari e de altre cose ch'io gli donai. E cosí ci mettemmo in cammino, e andammo tre giornate ad un luoco che si chiama il Mezeribe; e ivi ci fermammo tre giorni, per fornir li mercanti e comprar camelli e quanto a loro era necessario.
In questo Mezeribe è signore uno che si chiama Zambei, ed è signor della campagna, cioè degli Arabi: il qual Zambei ha tre fratelli e quattro figliuoli maschi, e ha quarantamila cavalli, e per la corte sua ha diecimila cavalle femine, e qui tiene quarantamila camelli, che dura due giornat'il pascolar suo. E detto signor Zambei, quando vuole, tiene in guerra il soldano del Cairo e il signor di Damasco e di Ierusalem. E quando è il tempo delle raccolte, alcuna volta credono ch'ei sia lontano cento miglia, ed egli si trova la mattina a far una correria alle are della detta città, e trova il grano e l'orzo bello insaccato e portaselo via. Alcuna volta corre un dí e una notte con le dette cavalle che mai si fermano, e quando son giunti gli danno a bere latte di camella, perché gli è molto refrescativo. Veramente mi pare non che corrano, ma che volino come falconi, perché io mi sono trovato con loro. Ed è da sapere che vanno la maggior parte a cavallo senza sella, e tutt'in camicia, salvo alcuni uomini principali; e l'armatura sua è una lancia di canna d'India lunga 10 over 12 braccia, con un poco di ferro in cima e con una banderola di seda; e quando vanno a far qualche correria, vanno stretti come stornelli. E li detti Arabi sono uomini molto piccoli e di color leonato scuro, e hanno la voce feminile e li capelli lunghi, stesi e neri. Sono veramente questi Arabi una grandissima quantità, e combattono continuamente fra loro. Questi abitano alla montagna e vengono, quando è il tempo che la carovana passa per andar alla Mecca, ad aspettarla alli passi per robarla; e menano con seco le mogli, i figliuoli e tutte le lor massarizie, e le case ancora sopra li cammelli, le qual case sono come una trabacca da uomo d'arme, e sono di lana nera e trista.
Alli XI d'aprile si partí ditta carovana da Mezaribe, che furon trentacinquemila camelli, e vi poteva esser circa 40 mila persone; e noi eravamo sessanta Mammalucchi in guardia di detta carovana, il terzo de' quali andava innanzi con la bandiera, l'altro terzo in mezzo e l'altro da drieto. Il viaggio nostro facemmo in questo modo. Da Damasco alla Mecca sono 40 giorni e 40 notte di cammino. Noi partimmo la mattina da Mezaribe, e camminammo per fino a ventidue ore: in quel punto si fanno certi segnali dal capitano di mano in mano, che, dove si trovano, là si fermano tutti di compagnia, e nel scaricare e mangiar loro e li cammelli stanno per fino a ventiquattro ore; e poi fanno segnali, e subito cargano detti cammelli. Ed è da sapere che alli cammelli non gli danno da mangiare se non cinque pani di farina d'orzo crudi, e grossi quanto un pomo granato l'uno. E poi montano a cavallo, e camminano tutta la notte e tutto il dí seguente fino alle ventidue ore, e poi alle ventiquattro ore fanno il simile come prima. E ogni 8 giorni trovano acqua, cioè cavando la terra over sabbione, e ancora si trovano certi pozzi e cisterne; e in capo delli otto giorni si fermano un giorno over duoi per far reposar li detti cammelli, quali portano peso ciascuno quanto duoi muli: e alli poveri animali non danno da bere se non ogni tre giorni una volta.


Del valor e forza che hanno i Mammalucchi.

Essendo noi fermati alle dette acque, sempre avemmo da combattere con grandissima quantità d'Arabi, né mai ammazzarono alcun di noi salvo che un uomo e una donna, perché tanta è la viltà degli animi loro che noi sessanta Mammalucchi eravamo sofficienti a defenderci da 40 o 50 mila Arabi: perché della gente pagana non è la migliore con l'arme in mano che i Mammalucchi. Certa cosa è ch'io viddi di belle esperienzie de' Mammalucchi in questo viaggio: infra gli altri viddi un Mammalucco pigliar il suo schiavo e mettergli una melangola sopra la testa, e farlo stare 12 o 15 passi lontano da lui, e alla seconda volta levargli la detta melangola a tirar con l'arco. Ancora viddi un altro Mammalucco levarsi la sella e mettersela sopra la testa, e poi tornarla nel suo luoco primo senza cascare e sempre correndo. Li fornimenti delle loro selle sono a usanza nostra.


Della città di Sodoma e Gomorra.

Camminato ch'avemmo dodici giornate, trovammo la valle di Sodoma e Gomorra: veramente la Scrittura Santa non mente, perché si vede come furono rovinate per miracolo di Dio. E io dico come sono tre città ch'erano in cima tre monti, dove si vede ancora che in quel terreno par che sia sangue a modo di cera rossa, mescolata con la terra per tre o quattro braccia di profondità. Certamente io credo, per quello che ho veduto, ch'erano genti viziose, perché intorno è tutto paese deserto e la terra non produce cosa alcuna, né anche acqua; e queste genti vivevano di manna, e non riconoscendo il beneficio loro furono puniti da Dio: e per miracolo si veggono ancora al presente li segnali di tutte le dette città rovinate.
Passammo poi quella valle ch'era ben venti miglia, dove ci morirono trentatre persone per la sete, e molti furono sepolti nel sabbione, quali non erano ancora ben finiti di morire. Dipoi trovammo un monticello, appresso il quale era una fossa di acqua, di che fummo assai contenti. Noi ci fermammo sopra il detto monte; l'altro giorno dipoi, la mattina a buon'ora, vennero ventiquattromila Arabi, i quali dissero che pagassimo la sua acqua. Rispondemmo che non la volevamo pagare, perché quella acqua era data da Dio; ed essi cominciorono a combattere con noi, dicendo che avevamo tolto la sua acqua. Ci facemmo forti nel detto monte, e facemmo le mura de' nostri camelli: e li mercadanti stavano in mezzo de' detti camelli e noi continuamente stavamo a scaramuzzare, di modo che ci tennero assediati duoi giorni e due notti, e venimmo a tanto che noi e loro non avevamo piú acqua da bere. Loro ci avevano circondato il monte intorno intorno di gente, con dire che ci volevano rompere la carovana; e per non aver piú a combattere, fece consiglio il nostro capitano con li mercanti mori, e li donammo mille e ducento ducati d'oro. Essi pigliarono i danari, e dissero poi che diecimila ducati non pagariano la sua acqua: e noi conoscevamo che volevano altro che danari. Il nostro capitano, che era prudente, fece far un bando per la carovana, che tutti quegli uomini ch'erano buoni a pigliar arme non andassero a cavallo sopra li cammelli, ma che tutti pigliassero l'arme loro. La mattina seguente mettemmo tutta la carovana innanzi, e noi Mammalucchi rimanemmo drieto: e in tutti eravamo trecento persone. E cominciammo a buon'ora a combattere: furono ammazzati de' nostri un uomo e una donna con gli archi, e non ci fecero altro male, e noi ammazzammo di loro milleseicento persone. Né è da maravigliare che noi ne ammazzammo tanti: la causa fu che loro erano tutti nudi e a cavallo senza sella, di modo ch'ebbero carestia di ritornare alla via loro.


Di una montagna abitata da giudei, e della città di Medina Thalnabi.

In termine d'otto giorni con gran piacere trovammo una montagna, la qual mostra di circuito 10 over 12 miglia. In questa abitano quattro o cinquemila giudei, li quali vanno nudi e sono piccoli di grandezza di cinque palmi l'uno over sei, e hanno la voce feminile, e sono piú negri che d'altro colore, e non vivono d'altro che di carne di castrati. Sono circuncisi e confessano esser giudei, e se possono aver un Moro nelle mani, lo scorticano vivo. A' piedi di detta montagna trovammo un ridutto di acqua, la quale è acqua che piove alli tempi: noi cargammo di detta acqua sedicimila cammelli, di che li giudei furono malcontenti; e andavano per quel monte come caprioli, e per niente volevano descendere al piano, perché sono nimici mortali de' Mori. A' piedi di detta acqua stanno sei over otto piè di albori di spine bianche molto belli, ne' quali trovammo due tortore, il che ci parve come un miracolo, perché avevamo camminato quindici giorni e notti che mai non trovammo animal né uccello alcuno.
Il dí dapoi camminammo, e in due giornate arrivammo ad una città chiamata Medina Thalnabi, cioè città del profeta, appresso alla qual 4 miglia trovammo un pozzo, dove si fermò la carovana per un giorno: e a questo pozzo ogniuno si lavò e mutossi di panni netti per entrare nella città, la quale fa cerca trecento fuochi, e ha le mura intorno fatte di terra; le case dentro sono di muro e di pietre. Il paese intorno alla città ha avuto la maladizione da Dio perché la terra è sterile, salvo che fuora della terra duoi tratti di pietra vi sono forse cinquanta o sessanta piedi di datteri in un giardino, appresso del quale è un certo condutto d'acqua, che discende di un monte piccolo al basso ben ventiquattro piedi, della qual acqua se ne governa la carovana quando arriva lí.
Ora mi saria da riprendere alcuni che dicono che 'l corpo di Maumetto sta in aere nella Mecca: dico che non è la verità, che ho visto la sua sepoltura in questa città di Medina Thalnabi, nella quale noi stemmo tre giorni. Nel primo che entrammo nella città, la volemmo veder tutta; poi, volendo entrar nella porta della moschea, ci dissero che bisognava che ciascun di noi fusse accompagnato da una persona, o piccola o grande, de loro medemi Mori, la qual ci pigliava per la mano e ci menava dove fu sepolto Maumetto.


Della moschea dove fu sepulto Maumetto e suoi compagni.

La moschea dove è sepulto Maumetto è fatta in questo modo: la è quadra, e lunga 100 passa e larga 80; ha due porte per intrarvi, una dalla parte davanti, l'altra da drieto; ha una nave dentro via che corre da tre bande, tutta coperta in volto, posta sopra 40 colonne di pietra cotta imbiancate, dove sono attaccate forse tremila lampade. A l'intrar della moschea da una banda vi è una torre di 5 passa per quadro, tutta in volto, ed è coperta intorno d'un panno de seda ricco, il piede della qual è fatto di metallo; e intorno vi è una ferrata di bronzo, dove stanno le persone a veder detta torre. Intrando poi in la moschea, a man manca vi è una porticella la qual vi mena alla detta torre, dove gionto vi è un'altra porta piccola: e da un lato di quella vi stanno cerca 20 libri e da l'altro circa altri 25, tutti ligati riccamente, li quali sono di Macometto e de' suoi compagni, e in quelli si contiene la vita di esso Maumetto e i comandamenti della sua setta. Dentro la detta porta è una sepoltura, cioè fossa sotto terra, dove fu messo Maumetto; vi sono anche duoi suoi generi, cioè Haly e Othman, qual Haly fu figliuolo de un suo fratello e tolse per moglie Fatma, figliuola di Maumetto. Vi sono appresso duoi suoi soceri, cioè Bubecher e Homer: questo Bubecher fu quello che noi diciamo che venne a Roma per farsi cardinale, ma non li successe. E questi quattro furono capitani di Maumetto, e ciascun di questi ha li suoi libri ivi posti delle cose che fecero, e delli comandamenti e regole che dettero alli Mori del vivere. E per questo rispetto quella canaglia si tagliano a pezzi tra loro, perché chi vuol far a comandamento di uno e chi d'un altro: e cosí non si sanno risolvere e si ammazzan come bestie sopra queste eresie, le quali tutte son false.


Del ragionamento che ebbe il capitano della carovana con il sacerdote di detta moschea.

Per dechiarazione della setta di Maumetto, è da sapere che sopra la detta torre sta una cupola, nella quale si può andare intorno disopra, cioè di fuora: intendete che malizia usorono a tutta la carovana. La prima sera che venimmo al sepolcro di Maumetto, il nostro capitano fece chiamare il superiore sacerdote di detta moschea, e dissegli che li mostrasse il corpo del Nabi (questo Nabi vuol dire il profeta Maumetto), che gli daria tremila seraffi d'oro; e ch'egli non avea né padre né madre né fratelli né sorelle né mogli né figliuoli, né manco era venuto per comprar speziarie né gioie, ma ch'era venuto per salvar l'anima sua e per veder il corpo del profeta. E il sacerdote li rispose con grandissimo impeto e furia e superbia, dicendo: "Come quest'occhi tuoi, i quali hanno commesso tanto male al mondo, voglion veder colui per il quale Dio ha creato il cielo e la terra?" Allora il nostro capitano disse: "Signore, tu dici il vero, ma fammi una grazia, lasciami veder il corpo del profeta, e subito che l'arò visto, per amor suo mi voglio cavar gli occhi". E il sacerdote li rispose: "O signore, io ti voglio dire la verità. È vero che 'l nostro profeta volse morir qui per dar buono esempio a noi, perché ben poteva morir alla Mecca se 'l voleva, ma volse usare la povertà per ammaestramento nostro; e subito ch'ei fu morto, fu portato in cielo dagli angeli, e dice ch'el sta al paro di Dio". Il nostro capitano gli disse: "E Iesú Cristo figliuolo di Maria dove sta?" Rispose il sacerdote: "Alli piedi di Maumetto". Il capitano gli disse: "Basta, basta, non voglio saper piú". Poi se ne venne fuori e disse a noi altri: "Guardate dove io voleva gittare tremila seraffi".
La sera dapoi, circa a 3 ore di notte, vennero infra la carovana dieci o dodici di quei vecchi della setta, perché la carovana era alloggiata appresso alla porta a due tratti di pietra, e questi cominciorono a cridare uno di qua e l'altro di là: "Dio fu, Dio sarà, e Maumetto messaggier di Dio resusciterà. O profeta, o Dio perdonami". Il nostro capitano, sentendo questo rumore, e noi, subitamente corremmo con l'arme in mano, credendo che fussero gli Arabi che volessero robar la carovana. E dicendo a quelli: "Che cosa è questa? Che cridate?", perché facevano sto rumore, come saria intra di noi cristiani quando un santo fa alcun miracolo, que' vecchi risposero: "Non vedete voi lo splendore che esce fuora della sepoltura del profeta?" Disse il capitano: "Non veggo niente", e dimandò a tutti gli altri se avevano veduto cosa alcuna: fugli risposto di no. Rispose un di que' vecchi: "Sete voi schiavi, cioè Mammalucchi?" Disse il capitano: "Sí che siam schiavi". Rispose il vecchio: "O signori, voi non potete vedere queste cose celesti, e perché voi non siate ancora ben confirmati nella fede nostra". Rispose il capitano: "O stolti, io voleva dare tremila ducati. Per Dio, mai piú non ve li do, cani figliuoli de cani". Sappiate che questi splendori erano certi fuochi artificiati, che loro aveano fatto maliziosamente in cima di detta torre, per dar ad intendere a noi altri che fussero splendori e che uscissero della sepoltura di Maumetto: per la qual cosa il nostro capitano comandò che per niun modo alcun di noi non entrasse nella detta moschea, e vi affermo e dico per certo che non v'è né arca di ferro né di azzale, né calamita, né montagna nissuna appresso a quattro miglia.
Noi stemmo lí tre giorni per riposar li cammelli. Il popolo della detta città si governa della vettovaglia che viene dall'Arabia Felice e dal Cairo e dalla Etiopia per mare, perché de lí al mar Rosso sono quattro giornate di cammino.


Del viaggio per andar da Medina alla Mecca, e del mar della rena.

Già noi delle cose e vanità di Maumetto sazii, ci disponemmo di passar piú oltra, e col nostro pilotto, il qual reggeva il nostro cammino con il bossolo e carta da navigar, secondo che sogliono far gli esperti pratichi con li suoi bussoli e carte nel corso del mar. E cominciammo a camminare per ostro, cioè mezzogiorno, e trovammo un pozzo bellissimo nel quale era gran quantità di acqua, il qual pozzo dicono li Mori che lo fece santo Marco evangelista per miracol di Dio, per necessità di acqua ch'è in que' paesi: il qual pozzo rimase secco alla partita nostra.
Non vorrei mandar in oblivione il trovar del mar dell'arena, qual lassammo davanti che trovammo la montagna de' giudei, pel qual camminammo cinque giorni e cinque notti. Or intenderete in che modo sta questo. Questa è una campagna grandissima piana, la quale è piena d'arena bianca minuta come farina, dove, se per mala ventura venisse il vento da mezzogiorno, come viene da tramontana, tutti sariamo morti; e con tutto che noi avevamo il vento a nostro modo, l'uno con l'altro non se vedevamo di lungi 10 passi. E gli uomini che vanno a cavallo sopra li cammelli sono serrati in certe casse di legno, e per certi busetti piccoli ricevon l'aere, e ivi dormono e mangiano; e li pilotti vanno innanzi con bussolo, sí come andassero per terribil mare. E qui morirono gran gente per la sete, e gran parte ne morí perché, quando cavammo l'acqua, beverono tanto che creporono. E qui si fa la mumia. E quando tira il vento di tramontana, questa arena si coaduna ad un lato d'un gran monte, il qual è un brazzo del monte Sinai: al qual come arrivammo, trovammo una colonna fatta con gentil arte e a forza di mano, la qual chiamano porta; a man manca sopra il detto monte è una grotta molto lunga, nella quale è una porta di ferro. Dicono alcuni che Maumetto se retirava ivi a far orazione, e a questa porta si sente un grandissimo rumore come di acqua che caschi. Indi passammo la detta montagna con grandissimo pericolo, a tale che non pensavamo mai di arrivare in questo luoco.
Poi che ci partimmo dal pozzo detto di sopra, camminammo per dieci giornate, e due volte combattemmo con cinquantamila Arabi, tanto che giungemmo alla Mecca. E lí era grandissima guerra fra l'un fratello e l'altro, perché sono quattro che combattevano di continuo per esser signori della Mecca.


Della Mecca, e perché li Mori vanno alla Mecca.

Oramai diremo della nobilissima città detta Mecca, che cosa è e come sta e chi la governa. La città è bellissima e molto bene abitata, e fa cerca seimila fuochi; le case sono bonissime come le nostre, e vi sono case che vagliono 3 e 4 mila ducati l'una: la qual città non ha mura intorno. Appresso a un quarto di miglio alla città trovammo una montagna, nella quale era una strada tagliata per forza di mano, che dura fino al smontar nel piano: le mura di detta città sono le montagne che l'ha d'intorno da ogni canto, e vi son se non 4 entrate. Il governatore di questa città è soldano, cioè uno delli 4 fratelli, ed è della stirpe di Maumetto e sottoposto al gran soldano del Cairo, e li suoi tre fratelli combattono di continuo con lui.
Alli 18 di maggio entrammo nella detta città della Mecca dalla parte verso tramontana, e poi descendemmo giuso nel piano. Dalla parte verso mezzogiorno sono due montagne che quasi si toccano, dov'è il passo ben stretto per andare al porto della Mecca; dall'altra banda dove leva il sole è un'altra bocca di montagna a modo di una vallata, per la qual si va al monte dove fanno il sacrificio alli due patriarchi Abraham e Isaac. Il qual monte è lontano da detta città cerca 8 o 10 miglia, ed è alto duoi e tre tiri di pietra di mano, ed è d'un certo sasso non di marmo, ma d'un altro colore; e in cima è una moschea a usanza loro, la qual ha tre porte. A' piedi del detto monte sono due bellissime conserve d'acqua: una è della carovana del Cairo e l'altra della carovana di Damasco; la qual acqua si raccoglie parte per la pioggia, e parte viene di molto lontano.
Or torniamo alla città; quando sarà tempo diremo del sacrificio che fanno a' piedi del detto monte. Allora che noi entrammo in detta città, trovammo la carovana del Cairo, la qual era venuta 8 giorni prima di noi, perché non vengono per la via che venimmo noi: e in detta carovana erano sessantaquattromila cammelli e cento Mammalucchi. E la prima cosa che avete da saper di questa città è quello che ognun dice, che l'ha avuta la maladizione da Dio, perch'el paese non produce né erbe né arbori né frutti né cosa alcuna, e hanno grandissima carestia d'acqua, in modo che, se uno volesse bere a sua volontà, non li basteria quattro quattrini d'acqua al giorno. Io dirò in che modo vivono: una gran parte del viver suo gli viene dal Cairo, cioè dal mar Rosso, e vi è un porto chiamato il Ziden, che è lontano dalla detta città 40 miglia; gli viene ancora una grandissima quantità di vettovaglia dell'Arabia Felice, e anco gran parte ne gli viene dall'Etiopia. Noi trovammo grandissima quantità di pellegrini, de' quali alcuni venivan dall'Etiopia, chi dall'India maggiore, chi dalla minore e chi dalla Persia e dalla Soria: veramente non viddi mai in una terra tanto popolo, per 20 giorni ch'io stetti lí. Delle qual genti parte ne erano venute per mercanzie, parte per guadagnar l'indulgenzie e compir i suoi voti, nel che voi intenderete quel che fanno.


Delle mercanzie che vengono alla città della Mecca

Primo diremo della mercanzia, che vien da piú parti: dall'India maggiore, la qual è posta di qua e di là dal fiume Ganges, vengono assai gioie e perle e d'ogni sorte di speziarie; e ancora vengono dall'India minore, da una città chiamata Banghalla, grandissima quantità di panni di bambagio e di seta; e anche dall'Etiopia certa sorte di speziarie; per modo che in questa città si fanno grandissimi traffichi di mercanzia, cioè di gioie, spezie d'ogni sorte in quantità, bombagio in gran copia, sete e cose odorifere in grandissima abbondanzia.


Della perdonanza della Mecca.

Or torniamo alla perdonanza de' detti pellegrini. In mezzo della città è un bellissimo tempio a comparazion del Coliseo di Roma, non di quelle pietre grandi, ma di pietre cotte: ed è tondo a quel modo, e ha novanta over cento porte intorno, ed è in volto. All'entrar del detto tempio si descende per dieci over dodici scalini per tutte le parti, e di qua e di là di detta entrata stanno uomini che vendono gioie e non altra cosa; e quando l'uomo è disceso detti scalini, trova il detto tempio intorno coperto e ogni cosa messo a oro, cioè le mura. E sotto alle dette volte stanno quattro o cinquemila persone, le quali vendono tutte cose odorifere, e la maggior parte sono polvere per conservar li corpi umani quando si sotterrano, perché de lí vanno per tutte le terre de' pagani: veramente non si potria dir la suavità e gli odori che si sentono in quel tempio, che par essere in una speziaria piena di muschio e benzuí e d'altri odori suavissimi.
Alli 23 di maggio cominciò il perdono in detto tempio, il qual è in questo modo: che nel mezzo del detto tempio vi è un discoperto, in mezzo di quello una torre la cui grandezza è di 5 over 6 passi per ogni verso, la qual torre tiene un panno di seta intorno di altezza di 4 brazza, ed evvi una porta tutta d'argento di altezza d'un uomo, per la qual s'entra in detta torre. E da ciascuna parte dentro della porta stanno alcuni vasi, quali dicono esser pieni di balsamo, che si mostrano solamente il giorno della Pentecoste: e dicono gli abitanti quel balsamo esser parte del tesoro del soldano della Mecca. Ad ogni quadro di detta torre sono certe reti di ferro rotonde, con li busi molto minuti per entrarvi dentro il lume. Alli 23 di maggio tutto il popolo comincia, la mattina innanzi giorno, andar sette volte intorno alla detta torre, sempre toccando e baciando ogni cantone. Lontano dalla detta torre cerca 10 o 12 passi è un'altra torre, a modo di una cappella delle nostre, con 3 o 4 porte. In mezzo di questa torre è un bellissimo pozzo, il quale è cupo 70 braccia e tiene acqua salmastra: al detto pozzo stanno 6 overo 8 uomini deputati a trar acqua per il popolo, el qual, quando è andato sette volte intorno alla prima torre, vanno a questo pozzo e s'accostano all'orlo di quello con la schena, dicendo queste parole: "E tutto questo sia per onor di Dio, el piatoso Dio mi perdoni i miei peccati". Le qual compite, quelli che tirano l'acqua gettano a ciascuna persona 3 secchi d'acqua dalla cima del capo per fino alli piedi, e tutti si bagnano, se ben la vesta fusse di seta: e pensono quelli matti in questo modo di restar limpidi e netti, e che li loro peccati rimanghino tutti in quel pozzo con quel lavare; e dicono che la prima torre dove vanno intorno sette volte è la prima casa che edificasse Abraham, e cosí bagnati tutti se ne vanno per la valle al detto monte, e lí stanno duoi giorni e una notte. E quando sono tutti a' piedi del detto monte, ivi fanno questo sacrificio.


Del modo de' sacrificii della Mecca.

Perché la novità delle cose suole il piú delle volte dilettare ogni animo generoso e alle cose grandi incitarlo, però, per sodisfare a molti del medesimo animo, soggiugnerò brievemente il modo che si osserva ne' loro sacrificii, il quale è questo, che ogni uomo ammazza al manco duoi o 3, e chi 4 e chi 6 castrati, per modo ch'io credo ben che 'l primo giorno si ammazzarono piú di 30 mila castrati, scannandoli verso dove leva il sole. E ciascun li dava per amor di Dio a' poveri, perché v'erano forse 30 e 40 mila poveri, li quali facevano una fossa in terra, poi li mettevano dentro sterco di cammello e cosí facevano un poco di fuoco, e rostivan alquanto quella carne e poi la mangiavano. E veramente credo che quelli tanti poveri uomini venivano piú tosto per la fame che per il perdono o indulgenzia; e che sia il vero, noi avevamo gran quantità di cocomeri, che venivano dall'Arabia Felice, e li mangiavamo levandoli via prima la scorza, la qual gittavamo fuori del nostro padiglione, come si suol fare: e li detti poveri stavano a 40 e 50 dinanzi al detto padiglione, e facevano gran questione tra loro per raccogliere le dette scorze da terra, ancor che fussino piene di sabbione. Per questo pareva a noi che venissero piú tosto per mangiare che per lavarsi de' loro peccati.
Il secondo giorno un cadí della fede, qual è al modo d'un predicador nostro, montò in cima del detto monte e fece un sermone a tutto il popolo, il qual sermone durò cerca un'ora. E la somma del suo parlare era questo, che pregava il popolo che buttando molte lacrime piangesse e' suoi peccati, e ferendosi nel petto facesse penitenzia. E alzando molto la voce diceva: "O Abraham, benvoluto da Dio e amato da Dio"; poi diceva: "O Isaac, eletto da Dio, amico di Dio, prega Dio per il popolo del Nabi". E cosí si sentivano di grandissimi pianti. E finito ch'ebbe il sermone, venne nova che venivan gli Arabi, per il che tutti quelli delle carovane, come fuori di sé, corsero in la Mecca con grandissima furia, perché appresso a 6 miglia già erano giunti piú di ventimila Arabi, i quali volevano robare le carovane: e noi arrivammo a salvamento alla Mecca. Ma quando fummo alla metà del cammino, cioè fra la Mecca e il monte dove si fa il sacrificio, trovammo un certo muro o parete vecchio, piccolo, alto quattro braccia, a' piedi del quale v'era grandissima quantità di pietre piccoline, le qual sono tirate da tutto il popolo per questo rispetto che intenderete.
Dicono che, quando Dio comandò ad Abraham che andasse a far il sacrificio del suo figliuolo, andò prima egli e disse al figliuolo che, obediendo alli comandamenti de Dio, lo dovesse seguire. Il figliuolo gli rispose: "Io son molto contento di far il comandamento di Dio". E quando il fanciullo Isaac arrivò al sopradetto muro piccolo, dicono che 'l diavolo gli apparve in forma d'un suo amico e gli disse: "Dove vai tu, amico mio Isaac?" Ed egli rispose: "Vo al padre mio, che m'aspetta al tal luoco". E gli disse il diavolo: "Non andar, figliuolo mio, che tuo padre ti vuol sacrificare a Dio e ti vuol far morire". E Isaac gli rispose: "Lascial fare: se cosí è la volontà di Dio, cosí si faccia". Il diavolo allora disparve, e poco piú avanti gli apparve in forma d'un altro suo caro amico, e gli disse le sopra dette parole. Dicono che Isaac gli rispose con furia, e pigliò una pietra e tirolla nel viso del diavolo: e per questo rispetto, quando arriva il popolo al detto luoco, ognuno tira una pietra al detto muro e poi se ne vanno alla città.
Noi trovammo per le strade di detta città ben quindeci o ventimila colombi, i quali dicono che sono della schiatta di quella colomba che parlava a Maumet in forma di Spirito Santo, i quali colombi volano per tutta la terra a suo piacere, cioè nelle botteghe dove si vende il grano, miglio, riso e altri legumi: e li padroni di detta roba non hanno libertà d'ammazzarli né di pigliarli, e se alcuno battesse di quelli colombi, si temeria che la terra rovinasse; e sappiate che li danno grandissima spesa in mezzo del tempio.


Delli unicorni che si trovano appresso il tempio della Mecca, animali rarissimi.

Dall'altra banda del detto tempio è una corte murata, nella qual vedemmo duoi unicorni: e li si mostrano per cosa maravigliosa, come nel vero è cosa da prenderne admirazione. E sono fatti in questo modo: il maggiore è fatto come un poledro di trenta mesi, e ha un corno nella fronte di lunghezza cerca tre braccia; l'altro unicorno era minore, come saria un poledro d'un anno, e ha un corno lungo circa quattro palmi. Il color del detto animale è come un cavallo sasinato scuro, e ha la testa come un cervo e il collo non molto lungo, con alcune crine rare e corte che pendono da una banda, e ha le gambe sottili e lunghe come il capriolo, e il suo piede è un poco fesso davanti e l'unghia è caprina, e ha molti peli di drieto delle gambe, li qual son tanti che fa parer questo animal molto feroce: ma la sua ferocità è coperta da una mansuetudine che in sé dimostra. Questi duoi animali furono presentati al soldano della Mecca come cosa de molto prezio e rara e che si trova in pochi luochi, e furono mandati da uno re di Etiopia, il qual li fece questo presente per far amicizia con lui.

Come l'auttore fu cognosciuto in la Mecca, e come venne con la carovana dell'India.

Mi occorre qui mostrare quel che possa l'umano ingegno ne' casi occorrenti, quanto la necessità lo constringe: e ben fu a me necessario di mostrarlo per fuggir dalla carovana della Mecca. Essendo io a comprare alcune cose per il mio capitano, fui conosciuto da un Moro, il qual mi guardò nel viso e dissemi: "Donde sei tu?" Io li risposi: "Son moro". Egli disse ch'io non diceva il vero. Io gli dissi: "Per la testa di Maumet, io vi giuro che son moro". E risposemi: "Vieni a casa mia", e io andai con lui. Quando fui in casa sua, egli mi parlò in lingua italiana e dissemi donde era, e ch'ei mi conosceva ch'io non era moro, ancor che glielo dicesse, e mi disse ch'egli era stato in Genova e in Venezia, e cognosceva molto la maniera di quelle genti, e davami li segni molto veri delle dette terre. Quando io intesi questo, io gli dissi ch'era romano e che mi era fatto mammalucco al Cairo: il che intendendo, egli fu molto contento e fecemi grandissimo onore. E perché la intenzione mia era di passar piú avanti, gli cominciai a dire se questa era la città della Mecca, qual era tanto nominata per il mondo, e gli domandai dov'erano le gioie e le spezie, e dove erano tante sorti di mercanzie quante si dice che qui arrivano, sol perché lui mi avesse a dire per che causa non venivano come erano usate, e per non domandargli che ne fusse cagione il re di Portogallo, perché egli è signore del mar Oceano e del sino Persico e dell'Arabico. Ei mi cominciò a dire di passo in passo la cagione perché non venivano le dette robbe come erano usate di venire, non si accorgendo della mia malizia, e quando mi disse che n'era cagione il re di Portogallo, io mostrai di averne grandissimo dolore e diceva molto male del detto re, solo perché egli non pensasse ch'io fussi contento che li cristiani facessero tal viaggio. Quando costui vidde ch'io mi dimostrava nimico de' cristiani, fece maggior onore assai che non faceva per avanti, e dissemi ogni cosa di punto in punto. E quando fui molto ben informato, gli dissi: "O amico mio, ti priego che tu mi dia il modo o via ch'io possa fuggire da questa carovana, perché la intenzion mia seria di andare a trovar quelli re che sono nimici de' cristiani, perché ti aviso che, quando loro sapessero l'ingegno ch'io ho, mi mandariano a trovare fino alla Mecca". E lui, stupefatto di queste parole, mi disse: "Per la fede del nostro profeta, che sapete voi fare?" Io li risposi ch'io era il miglior maestro di far bombarde grosse che fusse al mondo. Udendo egli questo, disse: "Maumetto sempre sia laudato, che ha mandato tal uomo al servigio de' Mori di Dio". Per modo ch'ei mi ascose nella casa sua con la sua donna, e mi pregò ch'io ottenesse dal nostro capitano della carovana che lo lasciasse trar fuora della Mecca quindeci cammelli carichi di spezie: e questo fece egli per non pagar trenta seraffi al soldano per la gabella. Io li risposi che s'ei mi salvava in casa sua, ch'io li faria levare cento cammelli, se tanti ne avesse, perché li Mammalucchi hanno la libertà: e quando ei sentí questo, fu molto contento. Dapoi mi ammaestrò del modo ch'io aveva a tenere, e de indrizzarmi ad uno re che sta nella parte dell'India maggiore, che si chiama re di Decan, del qual diremo quando sarà il tempo. Un giorno avanti che la carovana si partisse, mi fece ascondere in casa sua in loco secreto.
La mattina sequente andavano per la città grandissima quantità d'instrumenti sonando all'usanza loro, e i trombetti andavano faccendo il bando per tutta la città che tutti li Mammalucchi, sotto pena della vita, dovessero montar a cavallo e pigliar il suo viaggio verso la Soria. Donde gran perturbazione astringeva il cor mio, quando sentia mandar tal bando, e di continuo mi raccomandava alla moglie del detto mercante, piangendo e raccomandandomi a Dio, che mi campasse da tanta furia. Un martedí mattina si partí la detta carovana, e il mercante mi lasciò nella sua casa con la sua donna, ed egli se n'andò con la carovana; e disse alla donna ch'el venerdí sequente mi dovesse far accompagnare con la carovana dell'India che andava al Ziden, cioè al porto della Mecca, che vi sono miglia quaranta. La compagnia che mi fece la detta donna non si potria dire, e massime una sua nipote molto bella di quindeci anni, le quali mi promettevano, volendo io restare, di farmi ricco: e io, per il pericolo presente, posposi ogni sua promessa. Il venerdí sequente mi parti' con la carovana al mezzogiorno, con non piccolo dispiacere e lamentazioni delle prefate donne, e a mezzanotte arrivammo ad una certa villetta di Arabi, e lí stemmo sino a mezzogiorno del dí sequente. Il sabbato si partimmo, e camminammo fino alla mezzanotte, e intrammo nella città del Ziden.


Del Ziden, porto della Mecca, e del mar Rosso.

Questa città non ha mura intorno né fossa, ma ha bellissime case all'usanza della Italia. Diremo di lei brevemente. Detta città è di grandissimo traffico, perché qui arriva una gran parte di tutte le nazioni del mondo, eccetto cristiani e giudei, che non vi ponno venir sotto pena della vita. Quand'io fui giunto nella detta città, subito me ne andai nella moschea, cioè al tempio, dove erano ben 25 mila poveri, che stavano aspettando qualche patron di nave che li levasse al suo paese. E io fra quelli mi mescolai, ascondendomi in uno cantone del detto tempio, e lí mi fermai per 14 giorni: tutto il dí stava gittato in terra coperto con li miei vestimenti, e di continuo mi lamentava, come s'io avessi avuto grandissima passion di stomaco o di corpo. Li mercadanti udendomi dicevan: "Chi è quello che si lamenta?" Dicevano li poveri che mi stavano a canto: "Egli è un povero Moro che si muore". La sera al scuro usciva fuori della moschea e andava a comprar da mangiare: se io aveva appetito, lassolo giudicare a voi, perché non mangiava se non una volta al giorno, e ben male.
Questa città si governa per il signore del Cairo, e vi è signore uno fratello del soldano della Mecca, li quali sono sottoposti al gran soldano del Cairo. Qui non accade a dir molto, perché sono Mori. La terra non produce cosa alcuna, e ha grandissima carestia d'acqua dolce; il mare batte nelle mura delle case. Quivi si trovano tutte le cose necessarie per il viver umano, ma vengono condotte dal Cairo, dall'Arabia Felice e d'altri luoghi. Quivi è continuamente grandissima quantità di gente ammalata, per causa del mal aere che è in detta città, la qual puol aver da 500 case.
In capo di quattordici giorni mi accordai con un padrone d'una nave che andava alla volta della Persia, perché nel detto porto erano circa cento navi tra grandi e piccole. De lí a tre giorni facemmo vela e cominciammo a navigare per il mar Rosso.


Per che causa il mar Rosso non sia navigabile.

Si può comprendere (perché egli è cosí in effetto) che 'l detto mar non è rosso, anzi quell'acqua è come quella dell'altro mare. Noi navigammo il giorno fina al tramontar del sole, perché non si può navigare in questo mare di notte, e ogni giorno si posano a questo modo, fino a tanto che giungono ad una isola chiamata Chamaran, e dalla detta isola in là si va sicuramente. La ragione che non si può navigare al tempo di notte è questa, perché vi sono molte isole e molti scogli e secche, ed è bisogno che sempre vada un uomo in cima dell'albero della nave per veder il cammino, il che la notte non si può fare: e però non si naviga se non di giorno.

LIBRO SECONDO DELL'ARABIA FELICE

Della città di Gezan e della fertilità sua.

Poi che discorso abbiamo li luochi, le città e costumi de' popoli dell'Arabia Deserta, quanto fu a noi concesso di vedere, parmi esser conveniente che con brevità e piú felicemente entriamo nell'Arabia Felice. In termine di sei giorni arrivammo ad una città chiamata Gezan, la quale ha un bellissimo porto, e lí trovammo quarantacinque navilii di piú paesi. Questa città è posta alli lidi del mare, ed è sottoposta ad uno signor moro, ed è terra molto fruttifera e buona ad usanza de' cristiani. Quivi sono buonissime uve e persichi, fichi, cocomeri, cetri, limoni e aranci, zucche grande, melenzane, agli, cepolle, in modo che è un paradiso. Gli abitatori di questa città vanno la maggior parte nudi, e vivono pure alla moresca. Quivi è abbondanzia di carne, grano, orzo e miglio bianco, il qual chiamano dora, e di quello si fa molto buon pane. Qui stemmo tre giorni, per fin che pigliammo la vettovaglia.


Di alcune genti chiamate Baduini.

Partendoci dalla detta città di Gezan, andammo cinque giorni sempre in vista di terra, la qual restava a man manca. E vedendo alcuna terra a canto alla marina, smontammo in terra 14 persone di noi, per dimandare alcuna cosa da mangiare con li nostri danari. La risposta che ci fecero fu che cominciorono a tirar pietre con le frombole contra di noi, e questi erano certe generazioni che si chiamano Baduini, i quali erano piú di cento persone, e noi eravamo solo 14. E combattemmo con loro poco manco d'un'ora, per modo che ne rimasero di loro ventiquattro morti; gli altri si misero tutti in fuga, perché erano nudi e non aveano altre arme che queste frombole, e noi pigliammo tutto quel che potemmo, cioè galline, vitelli, buoi e altre cose da mangiare. De lí a due ore cominciò a multiplicare la turba di detta terra ferma, tanto che erano piú di seicento, e a noi fu forza di ritirarsi al navilio nostro.


Della isola chiamata Chamaran e della bocca del mar Rosso.

In quel giorno medesimo pigliammo il nostro cammino verso una isola chiamata Chamaran, la qual mostra di circuito dieci o dodici miglia, dov'è una terra che mostra circa dugento fuochi ed è abitata da Mori. Nella detta isola si trova acqua dolce e carne, e fassi il piú bel sale che mai viddi; ha un porto verso la terra ferma circa otto miglia. Questa isola è sottoposta al soldano dell'Arabia Felice. E lí stemmo duoi giorni, poi pigliammo il nostro cammino verso la bocca del mar Rosso, e vi sono due giornate, dove si può navigare sicuramente notte e giorno, perché dall'isola infino al Zidem non si può navigar di notte per le gran secche e scogli. E quando noi arrivammo alla detta bocca, parea veramente che noi fussimo in una casa serrata, perché quella bocca è larga cerca due o tre miglia. A man dritta di detta bocca è terra alta cerca 20 passi, ed è disabitata e sterile, per quanto si può veder di lontano; e a man manca di detta bocca è una montagna altissima, ed è sasso. Al mezzo di detta bocca v'è una certa isoletta disabitata che si chiama Bebel Mendel, e chi vuol andare a Zeila piglia il cammino a man diritta, e chi vuole andar in Aden lo piglia a man manca: e cosí facemmo noi per andar in Aden, e sempre andammo in vista di terra, e dal detto Bebel Mendel arrivammo alla città di Aden in poco manco di due giorni e mezzo.


Del sito della città di Aden e d'alcuni costumi verso li mercanti; e come l'auttor fu messo in prigione e menato al soldano di Rhada, città dell'Arabia Felice; e dell'esercito che 'l prefato soldan fece, e armature loro, per andar contro un altro soldano.

Aden è una città la piú forte che mai abbia visto in terra piana, e ha le mura da due bande, e dall'altre bande sono le montagne grandissime, sopra le quali sono cinque castelli; e la terra è nel piano di questi monti, e fa circa cinque o seimila fuochi. A due ore di notte qui si fa il mercato, per rispetto dell'estremo caldo che fa il giorno nella città. Appresso la quale ad un tirar di pietra è una montagna, sopra la quale è uno castello; e a piè di questa montagna, che vi batte il mare, surgono li navilii. Questa città è la principal e bellissima e la meglio fabbricata de tutte le città dell'Arabia Felice. Qui fanno capo tutti li navilii che vengono dall'India maggiore e dalla minore, e dalla Etiopia e dalla Persia, per li gran traffichi che vi sono. Tutti li navilii che hanno ad andare alla Mecca vengono a pigliar porto qui, e cosí presto che arriva una nave in porto, vengono gli officiali del soldano della dogana di detta città, e vogliono saper donde vengono e che portano, e quanto tempo è che si partirono dalle lor terre, e quante persone vanno per ciascuna nave. E poi che hanno inteso ogni cosa, per l'ordine del regno, levano alle dette navi gli arbori e le vele, li timoni e l'ancore, e ogni cosa portano dentro della città: e questo fanno accioché dette persone non si possino partire senza pagar la gabella al soldano.
Il secondo giorno ch'io arrivai alla detta città, fui preso e messo in ferri, e questo fu per cagione d'un ghiotto mio compagno, il qual mi disse: "Can cristiano, figliuolo di cane". Certi Mori intesero questo parlare, e per questo rispetto fussimo menati in palazzo dal vice soldano, e subito fecero consiglio se subito ne doveano far morire, perché il soldano non era nella città,. Dicevano che noi eravamo spie de' cristiani, e perché il soldano di questa terra non fece mai morire alcuno, costoro ebbero rispetto, donde ne tennero ben sessantacinque giorni con diciotto libbre di ferro alli piedi. Il terzo giorno che noi fummo presi, corsero al palazzo ben quaranta o sessanta persone de Mori, li quali erano di due o di tre navilii quali avevano presi li Portoghesi; e questi tali erano scampati per nodare, e dicevano che noi eravamo di quelli di Portogallo e venuti lí per spie. Per questo corsero al palazzo con grandissima furia, con l'arme in mano per ammazzarne: e Dio ne fece grazia che quello che ne aveva in guardia serrò la porta dalla banda di dentro. A questo rumore sí levò la terra in arme, e chi voleva che morissemo e chi no: alla fine il vice soldano ottenne che noi campassimo.
In termine di 65 giorni il soldano mandò per noi, e fummo portati tutti duoi sopra un camello, pure co' detti ferri ai piedi, e stemmo giorni otto pel cammino. Poi fummo presentati al soldano in una città la qual si chiama Rhada, e quando noi giugnemmo alla detta città, il soldano faceva la mostra con trentamila uomini, perché voleva andar a combattere con un altro soldano d'una città chiamata Sana, lontana da Rhada tre giornate; ed è questa città parte in costa de un monte e parte descende in piano, ed è bellissima e antica, populata e ricca. Appresentati che fummo innanzi al soldano, egli mi dimandò di che parte io era e quel che andava faccendo. Li risposi ch'io era romano e che era fatto mammalucco al Cairo, e ch'io era stato a Medina, dove el Nabi, cioè il gran profeta, è sepulto, e poi alla Mecca; e poi era venuto a veder sua signoria, perché per tutta la Soria e in la Mecca si diceva ch'egli era un santo, e se gli era santo (com'io credeva), che ben dovea sapere ch'io non era spia de' cristiani, e ch'io era buon Moro e suo schiavo. Disse allora il soldano: "Di': "La ilache ill'allach Muchemmedun resul'allach'", cioè: "non è Dio se non Iddio; Macometto è messaggiere de Dio", che sono le parole che chi le dice se intende esser fatto moro. E io non le potei mai dire, o che fusse la volontà di Dio, o veramente per la gran paura ch'io aveva. Veduto il soldano ch'io non poteva dire dette parole, subito comandò ch'io fussi posto in prigione nel palazzo suo, con grandissima custodia di uomini di 18 castelli, quali venivan quattro per castello, e stavano quattro giorni, poi si mutavano quattro altri di detti castelli; e cosí seguitando mi guardorono tre mesi, che non viddi aere, con un pane di miglio la mattina e uno la sera: e sei di que' pani non mi ariano bastati un giorno, e alcuna volta, se io avessi avuto acqua a bastanza, saria stato assai contento.
Il soldano se n'andò in campo de lí a duoi giorni alla detta città di Sana con lo esercito sopradetto, nel quale v'erano quattromila cavalieri figliuoli de cristiani, negri come Mori, ed erano di quelli del Prete Ianni, li quali sono comprati da piccolini di otto o nove anni, e fannoli esercitare nell'arme: e questi erano la guardia sua, e valevano piú questi che non faceva tutto il resto delli ottantamila. Gli altri erano tutti nudi, con un mezzo lenzuolo in cambio d'un mantello adosso. E quando entrano nella battaglia, usano certe rotelle, le quali sono due pelli di vacca overo di bue incollate insieme, e in mezzo di dette rotelle sono quattro bacchette che le tengono diritte: le dette rotelle sono dipinte, in modo che chi le vede giudica esser le piú belle e le migliori che far si possino; la grandezza loro è come un fondo di botta, e lo manico è una tavoletta con due chiodi. Ancora portano un dardo in mano e una spada curta e larga, con una vesta indosso di tela rossa overo d'altro colore, piena di bambagio, che li defende dal caldo e da' nimici: questo usano quando vanno a combattere. Portano tutti generalmente una frombola per tirar pietre involta intorno alla testa, e sotto la detta frombola portano un legnetto lungo un palmo, col qual si nettano i denti; e generalmente, da quaranta o cinquanta anni in giú, portano due corna fatte dei loro proprii capelli, che paiono capretti. Il detto soldano ancora mena nel suo esercito cinquemila camelli, carichi di padiglioni tutti di bambagio, che avevan similmente le corde di bambagio.


Della regina moglie del soldano, che fieramente s'innamorò dell'auttore; e come il prefato finse di esser pazzo, e de molte cose che gl'intervenne.

Nel detto palazzo vi era una delle tre mogli del soldano, la qual chiamavan regina, e stava con dodici over tredeci damigelle bellissime, il color delle quali era piú tosto negro che altramente. Detta regina ne fece un buon servigio, che ne allargò la prigione e dette licenzia che potessemo andar fuori con le guardie e ferri alli piedi. Essendo io e il mio compagno e un Moro tutti tre prigioni cosí in libertà, facemmo deliberazione che uno di noi si facesse matto, per poter sovenir meglio l'uno all'altro: all'ultimo toccò a me di esser pazzo. Avendo adunque pigliato tal impresa, era necessario ch'io facessi quelle cose che si richieggono a' pazzi. Veramente, li primi tre giorni ch'io finsi il pazzo, mai non mi trovai tanto stracco né tanto affaticato come allora, perché di continuo avea cinquanta o sessanta mammoli drieto, che mi traevano de' sassi e mi lapidavano, e io lapidava loro, li qual mi gridavan drieto: "Pazzo, pazzo", e io di continuo aveva la camicia piena di sassi, e faceva come fanno i pazzi.
La regina di continuo stava alla finestra con le sue damigelle, e dalla mattina alla sera stava per vedermi e parlar meco; ed essendo da piú uomini sbeffeggiato, acciò che piú vera paresse la mia pazzia, cavatami la camicia andava cosí nudo avanti alla regina, la quale avea grandissimo piacere quando mi vedeva e non voleva ch'io mi partissi da lei, e davami di buoni e perfetti cibi da mangiare, in modo ch'io trionfava. Ancora mi diceva, come vedeva che li fanciulli mi correvan drieto: "Dagli a quelle bestie, che se tu gli ammazzi sarà suo danno". Andava per la corte del soldano uno castrato, che la coda sua pesava quaranta libbre; io il prese e dimandavagli s'egli era moro o cristiano over giudeo, e replicandoli queste parole e altre, gli diceva poi: "Fatte moro e di': "la illache ill'allach Muchemmedun resul'allach'". Ed egli stando come animale paziente, che non sapeva parlare, pigliai un bastone e gli ruppi tutte quattro le gambe, e la regina stava a ridere; e dapoi mi dettono tre giorni a mangiare di quella carne, della quale non so se mai mangiassi la migliore. De lí a tre giorni gli ammazzai un asino il quale portava l'acqua al palazzo, in quel medesimo modo ch'io feci del castrato, perché non se voleva far moro; il simile ancora faccendo con un giudeo, lo assettai in modo che per morto il lasciai.
Ma un giorno, volendo fare come soleva, trovai uno di quelli che mi guardavano ch'era molto piú pazzo di me, e dicevami: "Can cristiano, figliuolo di can". Io li tirai di molti sassi, ed ei si cominciò a voltare verso di me con tutti li mammoli, e dettemi d'un sasso nel petto, che mi fece un mal servigio. E per non poterlo seguitare per li ferri ch'aveva alli piedi, pigliai la via della prigione; ma prima ch'io vi giugnessi, ei mi dette un'altra sassata ne fianchi, la qual molto piú mi dolse che la prima. E s'io avessi voluto, ben poteva schifarle tutte dua, ma per voler dar colore alla mia pazzia le volsi ricevere. E cosí entrai nella prigione subito, e con grandissime pietre mi murai dentro, dove gli stetti duoi giorni e due notte senza mangiare e senza bere, in modo che la regina e gli altri dubitavano ch'io non morissi, e fecero romper la porta. E quelli cani mi portavano certi pezzi di marmo, dicendo: "Mangia, che questo è zuccaro"; e alcuni altri mi davano certi granelli d'uva pieni di terra, e dicevano ch'era sale: e io mangiava il marmo e l'uva e ogni cosa insieme.
Quel giorno medesimo alcuni mercanti fecero venir duoi uomini, i quali erano tenuti fra loro come sariano fra noi duoi eremiti e stavano in certe montagne, alli quali fui mostrato, e li mercanti dimandavano se loro pareva ch'io fussi santo o matto. Uno di loro diceva: "A me pare che 'l sia santo", e l'altro diceva che gli pareva ch'io fussi pazzo. E stando cosí in questa disputa piú d'un'ora, io per levarmegli davanti alzai la camicia e pisciai adosso a tutti duoi. Allora cominciorono a fuggire cridando: "Egli è matto, egli è matto e non è santo". La regina stava alla sua finestra con le sue damigelle, e vedendo questo tutte cominciorono a ridere, dicendo: "Per il gran Dio, per la testa di Maumet, costui è il miglior uomo del mondo". La mattina sequente me ne venni nella corte e trovai colui che mi dette le due sassate a dormire, e piglialo per le corna che gli avea fatto di suoi capelli, e gli messi li ginocchi sopra la bocca dello stomaco, e dettigli tanti pugni sul mostaccio che tutto pioveva sangue, in modo che lo lasciai per morto. La regina pur stava alla finestra, dicendo: "Ammazza, ammazza quella bestia", qual subito si partitte, né mai piú lo viddi.
Trovando il governatore di questa città per molti indicii che li miei compagni con perfidia volevano fuggire, e che aveano fatto un buso nella prigione e s'aveano cavati li ferri, e io non, e perché sapeva la regina pigliarsi gran piacere di me, non mi volse far dispiacere se prima non parlava con lei: la quale, inteso ch'ebbe ogni cosa, mi giudicò infra sé esser savio e mandò per me, e fecemi mettere in una stanzia a basso pur nel palazzo, la qual stanzia non avea porta da uscir fuori da basso, e tuttavia con li ferri ai piedi.


Delli ragionamenti che egli ebbe con la regina, e con quanto ingegno e astuzia si fece far libero e poi lassar andar in la città di Aden.

La notte sequente la regina mi venne a trovare con cinque o sei damigelle e cominciò a disaminarmi, e io pian piano li cominciai a dar ad intendere ch'io non era pazzo. Ed ella, prudente, conoscette chiaramente che io era savio, e cosí cominciò a carezzarmi con mandarmi un buon letto alla loro usanza e molto ben da mangiare. Il dí seguente mi fece far un bagno pur all'usanza loro con molti profumi, continuando queste carezze per dodici giorni; cominciò poi a descendere a visitarmi ogni sera a tre o quattro ore di notte, e sempre mi portava di buone cose da mangiare, ed entrando dove io era mi chiamava: "Lodovico, vien qua, hai tu fame?" E io le rispondeva: "Sí, per la fame ch'ha da venire", e mi levava in piedi e andava a lei in camicia. E lei diceva: "Non cosí, levati la camicia". Io le respondeva: "O signora, io non son pazzo adesso", ed essa replicava: "Per Dio, so ben che tu non fusti mai pazzo, anzi sei il piú avisato uomo che mai vedessi". E io per contentarla mi levava la camicia e ponevomela davanti per onestà, e cosí mi teniva due ore davanti a lei standomi a contemplare, come s'io fussi stato una ninfa, e faceva una lamentazione inverso Dio in questo modo: "O Dio, tu hai creato costui bianco come il sole, il mio marito tu l'hai creato negro, il mio figliuolo ancora negro e io negra. Dio volesse che questo uomo fusse mio marito, Dio volesse ch'io facesse un figliuolo com'è questo". E dicendo tal parole piangeva continuamente e sospirava, maneggiando di continuo tutta la mia persona, e promettendomi che, subito che fusse venuto il soldano, mi faria cavar li ferri.
L'altra notte seguente la detta regina venne con due damigelle, e portommi molto ben da mangiare, e disse: "Vien qua, Lodovico, vuoi tu ch'io venga a star con te un pezzo?" Io le rispose che non, che ben bastava ch'io era in ferri, senza che mi facesse tagliare la testa. Ella disse allora: "Non aver paura, io ti fo la sigurtà sopra la mia testa. Se tu non vuoi che venga io, verrà Gazella over Tegia over Carcerana". Questo diceva ella solo perché in scambio d'una di queste voleva venir essa e star con meco; e io non volsi mai consentire, perché io considerava molto bene quel che di questo ne poteva seguire. E vedendola tanto fuora di sentimento, e che la dimostrava publicamente la passion che l'avea di me, pensava che, poi ch'ella avesse avuto il suo contento, m'arebbe dato oro, argento, cavalli e schiavi e ciò che avessi voluto, e poi m'averia dato dieci schiavi negri, li quali sariano stati in mia guardia, che mai non arei potuto fuggir del paese, perché tutta l'Arabia Felice era avisata di me, cioè alli passi; e s'io fussi fuggito una volta, non mi mancava la morte o veramente li ferri in vita mia. E per questo rispetto mai non volsi consentire a lei, e ancora perché non voleva perder l'anima e il corpo; tutta la notte io piangeva, raccomandandomi a Dio.
De lí a tre giorni venne il soldano, e la regina subito mi mandò a dire che, s'io voleva star con lei, essa mi faria ricco. Io le risposi che una volta mi facesse levar li ferri, e satisfacesse alla promessa ch'ella avea fatta a Dio e a Maumetto; dipoi faria ciò che piacesse a sua signoria. Subito ella mi fece andar avanti il soldano, qual mi dimandò dove io voleva andare, poi ch'avesse cavato li ferri. Io li risposi: "O signore, io non ho né padre né madre né moglie né figliuoli né fratelli né sorelle: non ho se non Dio e il profeta e tu, signore. Piaccia a te di darmi da mangiare, che io voglio esser tuo schiavo in vita mia"; e di continuo lagrimava. E la regina sempre era presente, e disse al soldano: "Tu darai ancora conto a Dio di questo pover'uomo, il qual senza cagione tanto tempo hai tenuto in ferri. Guardati dalla ira di Dio". Disse il soldano: "Orsú, va' dove tu vuoi, io ti dono la libertà", e subito mi fece cavar li ferri. E io mi inginocchiai e gli baciai li piedi, e alla regina baciai la mano, la qual mi prese pur ancora per la mano, dicendo: "Vien meco, poveretto, perché so che mori di fame". E come fui nella sua camera, mi baciò strettamente piú di cento volte, e poi mi dette molto ben da mangiare; e io non aveva alcuna volontà di mangiare: la cagion era ch'io viddi la regina parlar al soldano in secreto, e pensava ch'ella m'avesse dimandato al soldano per suo schiavo. Per questo io gli dissi: "Mai non mangierò, se non mi promettete di darmi la libertà". Ed ella rispose: "Taci, matto, tu non sai quello che ti ha ordinato Dio, cioè, se tu sarai uomo da bene, sarai signore". Già io sapeva la signoria ch'ella mi voleva dare, ma io gli risposi che mi lassasse un poco ingrassare e ritornar il sangue, che, per le paure grandi ch'io aveva avuto, altro pensieri che di amore aveva nel petto. Ella rispose: "Per Dio, tu hai ragione, ma io ti farò dare ogni giorno ova fresche, galline, piccioni, pepe, cannella, garofani e noci moscate". Allora mi rallegrai alquanto delle buone parole e promesse ch'ella mi ordinò, e per ristorarmi meglio stetti ben quindeci o venti giorni nel palazzo suo.
Un giorno ella mi chiamò e dissemi s'io voleva andar a caccia con lei; io le risposi de sí e andai seco. Alla tornata poi finsi di cascar ammalato per stracchezza, e stetti in questa fizione otto giorni, ed ella di continuo mi mandava a visitare per suoi secreti messi. E io un giorno le feci dire che avevo fatto voto a Dio e a Maumeto di andar a visitare un santo uomo che era in la città di Aden, il qual dicevan che facea miracoli per la santa vita che 'l teneva, e io lo confirmava esser vero per far il fatto mio; ed ella mi mandò a dire ch'era molto contenta, e fecemi dar un camello e 25 serafi d'oro, del che io ne fui molto allegro. E il giorno sequente montai sopra il camello e me ne andai in Aden in spazio di otto giorni, dove subito trovai quel santo uomo, il quale era adorato per rispetto che di continuo viveva in povertà e castità, e faceva vita di eremita. E veramente assai ve ne sono in quel paese, che fanno pur questa santa vita, ma sono ingannati per non aver la fede e il battesimo. Fatto ch'io ebbi la mia orazione, il secondo giorno finsi d'esser liberato per la virtú di quel santo, e feci scriver alla regina come io era, per virtú di Dio e di quel santo uomo, risanato; e poi che Dio mi avea fatto tanta grazia, io voleva andar a veder tutto il suo reame: e questo io facea perché in questo luogo era l'armata, la qual non si potea partire fino ad un mese. E io secretamente parlai ad un capitano d'una nave, e dissigli ch'io voleva andare in India, e se lui mi voleva levare li faria un bel presente. Ei mi rispose che, prima che gli andasse in India, voleva toccare in la Persia, e io di questo mi contentai e cosí restammo.


Di Lagi, città dell'Arabia Felice, e di Aiaz e del mercato in Aiaz, e di Dante castello.

Il giorno seguente montai a cavallo e, cavalcato cerca quindeci miglia, trovai una città chiamata Lagi, la qual era in terra piana senza alcun monte appresso e molto ben populata. Qui nasce grandissima quantità di dattali, e ancora v'è carne assai e grano a usanza nostra; qui non è uva, e hanno gran carestia di legne. Questa città non è civile, e gli abitatori d'essa sono Arabi, li quali non sono molto ricchi.
De lí mi parti' e andai ad un'altra città distante dalla predetta una giornata, e chiamasi Aiaz, la quale è posta fra duoi colli di una montagna, in mezzo li quali vi è una bellissima valle con una bella fontana; nella qual valle si fa il mercato, dove vengono gli uomini e donne dell'uno e l'altro monte, e pochi sono quelli giorni del mercato che non vi si faccia questione. La causa è questa, che quelli che abitano il monte verso tramontana vogliono che coloro che abitano il monte verso mezzogiorno credano insieme con loro in Maumeto con tutti li suoi compagni, e loro non vogliono credere se non in Maumeto e Aly, e dicono che gli altri suoi compagni sono falsi, e per questo s'ammazzano come cani. Torniamo al mercato, al qual vengono molte sorti di spezie minute e molti odori, e gran quantità di panni di bombagio e di seta, e frutti eccellentissimi, come sono persichi, pomi granati e pomi cotogni, fichi, noci e uva buona. È da sapere che in ciascuno di questi monti è una fortissima rocca.
Viste queste cose, di qui mi parti' e andai ad un'altra città distante da questa due giornate, chiamata Dante, la qual è fortissima e situata in cima d'una grandissima montagna, ed è abitata pur da Arabi, i quali sono poveri per esser il paese molto sterile.


Di Almacharana, città dell'Arabia Felice, e della sua abbondanzia.

Per seguir i nostri già nell'animo conceputi desiderii cerca la novità delle cose, di là ci partimmo pigliando il viaggio ad un'altra città, due giornate lontana, la qual si chiama Almachara ed è in cima d'una montagna che dura di salita sette miglia, alla qual non possono andare se non due persone per volta, per esser la strada molto stretta. E la città è piana, in cima del monte, ed è bellissima e buona, e qui si raccoglie da mangiare a sofficienzia per gli abitatori della città: e per questo mi pare la piú forte città del mondo. Ivi non è bisogno di acqua né di cosa altra alcuna da vivere, e sopra tutto v'è una cisterna che daria acqua a centomila persone. Il soldano tien tutto il suo tesoro in questa città, qual è tanto che non lo portarian cento camelli, perché qui è la sua origine e di qui discese; e vi tiene continuamente una delle sue mogli. E veramente questo è un frutifero luoco, e vi vengono tutte le cose che si possino desiderare, e tiene il piú bello aere che terra del mondo. Quivi le genti sono piú bianche che d'altro colore.


Di Reame, città dell'Arabia Felice, e dell'aere e costumi del suo popolo.

Poi ch'ebbi discorso la prefata città, da essa partendomi andai ad un'altra terra, lontana da quella una giornata, la qual si chiama Reame ed è abitata la maggior parte da gente negra, e sono grandissimi mercatanti, ed è paese fertilissimo fuor che di legne. Questa città fa cerca duoimila fuochi. Da un lato di questa città è un monte, sopra il quale è un fortissimo castello. E quivi è una sorte de castrati, de' quali ho veduto che la coda sola pesa quarantaquattro libbre, e non hanno corna, e per la loro grassezza non possono camminare. Vi è ancora certa uva bianca che dentro non ha granelli, della quale mai non gustai la migliore, e trovai tutte le sorti de frutti, come dissi disopra. Evvi cosí perfettissimo e singularissimo aere in questo paese, che parlai con molte persone le quali passavano cento e venticinque anni, e ancora erano molto prosperose. L'abito di costoro è che gli uomini da conto portano una camicia, gli altri di bassa condizione portano mezzo un lenzuolo ad armacollo all'apostolica; pur la maggior parte vanno nudi. Per tutta questa Arabia Felice gli uomini portano le corna fatte delli loro capelli medesimi, e le donne portano le calze a braga ad usanza de' marinari.


Di Sana, città dell'Arabia Felice, e della fortezza e crudeltà del figliuolo del re.

Dapoi mi parti' e andai ad una città chiamata Sana, la quale è lontana tre giornate dalla detta città di Reame, ed è posta in cima d'una grandissima montagna, ed è fortissima: alla quale stette il soldano con ottantamila uomini otto mesi per prenderla, né mai la poté pigliare se non a patti. Le mura di questa città sono di altezza dieci braccia e di larghezza braccia 20, di modo che otto cavalli vi vanno al paro sopra. In detto paese nascono molti frutti come nel paese nostro, e vi sono molte fontane. In questa Sana sta un soldano il quale ha dodeci figliuoli, de' quali ve n'è uno che si chiama Maumet, il quale come rabbioso morde la gente e ammazzala, e poi mangia tanta della lor carne che si sazia; ed è di statura di quattro braccia e ben proporzionato, ed è di colore olivastro. In questa città si trova qualche sorte di spezie minute, le quali nascono lí d'intorno. E la detta città può fare cerca quattromila fuochi, e le case sono bellissime all'usanza nostra, ed è tanto grande che in quella vi sono molte vigne e prati e giardini a nostra usanza.


Di Taesa e di Zibit e Damar, città grandissime dell'Arabia Felice.

Poi ch'ebbi veduta Sana, mi posi in cammino e andai ad un'altra città chiamata Taesa, la qual è distante da Sana tre giornate ed è posta pur in montagna. Questa città è bellissima e abbondante d'ogni gentilezza, e sopra tutto di grandissima quantità d'acqua rosa, la qual qui si stilla. È fama che questa città sia antichissima, e vi è un tempio come Santa Maria Rotonda di Roma e molti altri palazzi antichissimi. Qui sono grandissimi mercanti. Vestono queste genti come le sopradette; il lor colore è olivastro.
Partendomi di lí andai ad un'altra città chiamata Zibit, distante da questa tre giornate, la qual è molto grande e bonissima, ed è appresso al mar Rosso mezza giornata e per tal rispetto è terra di grandissimo traffico, ed è dotata di grandissima quantità di zuccaro; ha frutti buonissimi. Ed è situata infra due montagne e non ha mura intorno; e quivi si fanno grandissimi mercati di spezie e odori d'ogni sorte, le quali si portano de lí ad altri paesi. L'abito e il colore degli abitanti in questa città è come li sopradetti.
Partitomi dal detto luoco, andai ad un'altra città una giornata lontana, la qual si chiama Damar, abitata pur da Mori, li quali sono grandissimi mercatanti. È la detta città molto fertile; il viver e costumi suoi sono come li sopradetti.


Del soldano di tutte le sopradette città, e perché si chiama per nome Sechamir.

Tutte queste città sopradette sono sottoposte al soldan delli Amanni, cioè al soldano dell'Arabia Felice, chiamato Sechamir, perché sech viene a dir "santo", amir "signor". La ragione perché lo chiamano santo è questa, ch'egli non fece mai morir persona alcuna, salvo se non fosse in guerra. Sappiate che nel tempo mio teneva quindeci o ventimila uomini in ferri, e a tutti dava duoi quattrini per uomo al giorno per le spese loro, e cosí li lassava morir in prigione quando meritavano la morte. E similmente teneva in la sua corte e a' suoi servizii sedecimila schiavi fra uomini e femine, alli quali tutti dava il viver: e sono tutti negri.


Delli gatti maimoni e d'alcuni animali come lioni, agli uomini inimicissimi.

Di qui partendomi e andando verso la sopradetta città di Aden, avendo camminato poi per cinque giorni, alla metà del cammino trovai una terribile montagna, nella qual vedemmo piú di diecimila fra simie e gatti maimoni, che andavan qua e là senza paura; fra li quali vi erano alcuni lioni molto terribili, i quali offendono molto gli uomini, quando possono: e per causa loro non si può passare per quella strada, se non sono almeno cento persone alla volta. Noi passammo con grandissimo pericolo e con non poca caccia di detti animali; pur ne amazzammo assai d'essi con gli archi e con le frombole e con li cani, per modo che noi passammo a salvamento. Arrivato ch'io fui in Aden, subito mi misi in la moschea fingendo d'esser ammalato, e ivi stavo tutto 'l giorno; la notte poi andavo a trovar il padrone della nave, per modo ch'ei mi mise nella nave secretamente.


Come andorono per fortuna nel porto di Zeila, città della Etiopia.

Avendo noi deliberato di veder altri paesi, com'era il nostro disegno, ci ponemmo in mare; ma la instabil fortuna, ch'esercitar suole il mutabile arbitrio suo nell'acque similmente instabili, ne disviò alquanto dal proposito nostro, perché de lí a sei giorni pigliammo il cammino verso la Persia, e navigato ch'avemmo sette giorni, venne una fortuna grandissima che ci fece correr fino in Etiopia, insieme con tutte le navi di conserva, che eran cariche di rubbia per tinger panni, perché ogni anno se ne carica fin 25 navi in Aden, la qual rubbia nasce nell'Arabia Felice. Con grandissima fatica intrammo in un porto d'una città chiamata Zeila, e lí stemmo cinque giorni, per vederla e per aspettar il tempo a nostro proposito.


Di Zeila, città d'Etiopia, e dell'abbondanzia e animali di essa città.

La città di Zeila è di grandissimo traffico, massime d'oro e di denti d'elefanti; quivi anco si vende grandissima quantità di schiavi, i quali sono di quelli del Prete Ianni, che li Morí pigliano in guerra, e di qui si portano nella Persia, nell'Arabia Felice e alla Mecca e al Cairo e in India. In questa città si vive molto bene e fassi gran iustizia. Qui nasce molto grano e molta carne, olio in molta quantità, fatto non di olive ma di zerzilino, e di mele e cera in assai gran copia. Quivi si trova una sorte di castrati i quali hanno la coda che pesa venticinque o ventisei libbre, e hanno il collo e la testa tutta negra, il resto poi tutto bianco; vi sono ancora certi altri castrati tutti bianchi, che hanno la coda lunga un braccio e ritorta a modo di vite, e hanno la collarina come un toro, che quasi tocca terra. E in questo luoco trovai certa sorte di vacche che avevano le corna come un cervo, e sono salvatiche, le quali furono donate al soldano della detta città. Viddi poi altre vacche le quali avevano solo un corno nella fronte, di lunghezza d'un palmo e mezzo, e il detto corno guarda piú verso la schiena della vacca che non guarda innanzi: il color di queste è rosso, e quelle di sopra sono negre. In questa città è un buon vivere, e qui stanno molti mercadanti. La terra ha triste mura e tristo porto, nondimeno è posta in terra piana e ferma. Il re di Zeila è moro e ha molta gente da piedi e a cavallo, e sono genti bellicose. L'abito suo è in camicia; il color loro sono olivastri. Questi tali vanno mal armati, e tutti sono maumettani.


Di Barbara, isola di Etiopia, e della sua gente.

Venuto che fu il tempo buono, facemmo vela e arrivammo ad una isola chiamata Barbara, il signore della quale con tutti gli abitanti suoi sono Mori. Questa isola è piccola, ma buona e molto ben abitata, e fa molte carni d'ogni sorte. Le persone sono la maggior parte negre, e le ricchezze loro sono quasi piú di carne che d'altre cose. Qui stemmo un giorno, e poi facemmo vela e andammo alla volta della Persia.

LIBRO DELLA PERSIA

Di Diuoban del Rumi, e di Goa e Giulfar, e di Meschet, porto della Persia.

Navigando noi cerca dodici giorni, arrivammo ad una città chiamata Diuoban del Rumi, cioè porto santo delli Turchi, la qual città è poco distante da terra ferma: quando il mar cresce è isola, e quando cala si passa a piedi. Questa città è sottoposta al soldano di Cambaia, e sta per capitano in esso Diuoban uno che si chiama Menacheaz. Qui stemmo duoi giorni. È città di grandissimo traffico, e in essa stanno di continuo quattrocento mercadanti turchi. E questa città è murata intorno, e dentro vi sono molte artegliarie; hanno certi navilii chiamati talac, che sono poco minori di fuste.
De lí si partimmo e arrivammo ad una città chiamata Goa, distante dalla predetta tre giornate, la qual Goa è terra di gran tratto e di gran mercanzie, ed è grassa e ricca; sono pur gli abitanti tutti maumettani. Partimmi e andai ad un'altra terra chiamata Giulfar, la qual è ottima e abbondante, e lí è buon porto di mare. Dal qual porto alzando le vele, con li proprii venti arrivammo ad un altro porto, chiamato Meschet.


De Ormus, città e isola di Persia, e come in quella si pescano perle grandissime.

Seguitando noi il nostro viaggio, partimmo da Meschet e andammo alla nobile città di Ormus, la quale è bellissima ed è isola e principale, cioè per terra di mare e per mercanzie, ed è distante da terra ferma dieci o dodici miglia. Nella detta isola non si trova né acqua né vettovaglia a sufficienza, ma tutto gli viene da terra ferma. Appresso di quest'isola tre giornate si pescano le piú grosse perle che si ritrovano al mondo, e pescansi in questo modo: sono certi pescatori, con alcune barche piccole, li quali gittano un sasso grande con una corda grossa, una da poppa e un'altra da prova, acciò la detta barca stia ferma, e un'altra corda gettano al fondo pur con un sasso in mezzo della barca; e uno delli pescatori si pone un paro di bisazze al collo e ligasi una pietra grossa alli piedi, e va quindeci passa sotto acqua e sta sotto quanto può, per trovar le ostreghe dove stanno le perle, le quali ritrovate pone nelle bisazze, e poi lassa il sasso qual teneva ne' piedi e vien suso per una delle dette corde. Si trovano alcuna volta trecento navilii di piú paesi venuti per questo effetto. Il soldano di questa città è maumettano.


Del soldano di Ormus, e della crudeltà del figliuolo contra il soldano suo padre, sua madre e fratelli, quali ammazzò e poi fu morto egli.

In quel tempo ch'io andai in questo paese, intravenne questo che intenderete. Il soldano di Ormus aveva undeci figliuoli maschi: il minor di tutti era tenuto semplice, cioè mezzo pazzo; il maggior di questi era un diavolo scatenato. E il detto soldano avea allevati duoi schiavi figliuoli de cristiani, cioè di quelli del Prete Ianni, li quali aveva comprati da piccolini, e amavali proprio come figliuoli suoi, ed erano valentissimi a cavallo e signori di castella. Il figliuolo maggiore del soldano una notte cavò gli occhi al padre e alla madre e a tutti i fratelli, salvo al mezzo pazzo; dipoi li portò tutti in camera del padre e della madre, e pose fuoco in mezzo, e abbruciò la camera e i corpi con ciò che v'era. La mattina per tempo si seppe il caso e la terra si levò a rumore, ed egli si fortificò nel palazzo e fecesi soldano. Il minor fratello, il qual era tenuto pazzo, non si mostrò però tanto pazzo quanto era tenuto, imperoché sentendo il caso se ne fuggitte ad una moschea de Mori, dicendo: "O Dio, il mio fratello è un diavolo, ha ammazzato il mio padre, la madre e tutti i miei fratelli, e poi che gli ha ammazzati, gli ha tutti abbruciati".
In termine di quindici giorni si pacificò la città, e questo che avea commessa tanta scelerità mandò per uno di quelli duoi schiavi sopradetti e dissegli: "Io son soldano". Rispose il schiavo, qual si chiamava Maumet: "Sí, per Dio, che tu sei soldano". Allora il soldano lo prese per la mano e fecelli gran festa, e dissegli: "Va' e ammazza il tuo compagno, ch'io ti darò molti castelli". Rispose Maumet: "O signore, io ho mangiato il pane col mio compagno trenta anni e praticato con lui: a me non basta l'animo di far tal scelerità". Disse allora il soldano: "Orsú, lassa stare". De lí a quattro giorni il detto soldano mandò per l'altro schiavo, il quale si chiamava Caim, e dissegli quelle medesime parole che avea detto al suo compagno, cioè che andasse ad ammazzar Maumet. Disse Caim alla prima: "Sí, al nome sia di Dio, signore". E allora si armò secretamente e andò subito a trovar Maumet suo compagno. Come Maumet lo vidde, lo mirò fisso nel viso e dissegli: "O traditore, tu non lo puoi negar, ch'io ti conosco nel viso: aspetta, ch'io voglio prima ammazzar te che tu ammazzi me". Caim, che si vidde esser scoperto e conosciuto, trasse fuori il pugnale e gittollo a' piedi di Maumet, e inginocchiatosegli avanti diceva: "O signor mio, perdonami, ancor ch'io meriti la morte: se ti pare, piglia questa arma e ammazzami, perché io veniva per ammazzarti". Rispose Maumet: "Ben si può dire che sei traditore, essendo stato meco e praticato e mangiato il pane trenta anni, e volermi poi alla fine tanto vilmente ammazzare. Poverino, non vedi che costui è un diavolo? Levati suso, ch'io ti perdono. Questo me ha stimulato (accioché tu intendi) ben tre giorni, acciò ch'io t'ammazzassi, e io non lo volsi mai consentire. Orsú, lascia fare a Dio, va' pure e fa' come ti dirò: vattene al soldano e digli che tu m'hai morto". Rispose Caim: "Io son contento", e incontinente andò al soldano. Come il soldano lo vidde, disse: "Ben ammazzasti l'amico". Rispose Caim: "Sí, per Dio, signore". Disse il soldano: "Vien qua", ed egli s'accostò al soldano, il qual lo prese nel petto e ammazzollo a colpi di pugnalate.
De lí a tre giorni Maumetto si armò secretamente e andò alla camera del soldano, il quale come lo vidde si turbò e disse: "O can figliuolo di can, ancora vivi". Rispose Maumet: "Al dispetto tuo son vivo, e voglio ammazzar te, che sei peggio che un cane o diavolo". E a questo modo con l'arme in mano l'un l'altro combatterono insieme; all'ultimo Maumet ammazzò il soldano e poi si fortificò nel palazzo. E perché era molto benvoluto dalla città, il popolo corse tutto al palazzo, dicendo: "Viva viva Maumet soldano"; e stette soldano circa venti giorni. Passati venti giorni, mandò per tutti li signori e mercadanti della città e disse loro in questo modo, che quello ch'egli avea fatto era stato per forza, e ben sapeva egli che di ragione non era sua la signoria; e pregò tutto il popolo che volessero esser contenti che 'l facesse re quel figliuolo ch'era tenuto pazzo: e cosí fu fatto re. Vero è che costui governava ogni cosa; tutta la città diceva: "Veramente costui deve esser amico di Dio", per la qual cosa fu fatto governatore della città e del soldano, per esser il soldano della condizione sopradetta.
È da sapere che sono communemente quattrocento mercatanti forestieri, li quali fanno mercanzie di sete, perle, gioie e spezie. Il commun vivere di questa città è piú in mangiar riso che pane, perché in quel luoco non nasce grano.


Della città di Eri nel paese del Corasam, qual si pensa che sia la Partia, e della sua ricchezza e copia di molte cose, e massimamente del reubarbaro.

Inteso il miserando caso, e visti i costumi della città e isola di Ormus, de lí partendomi passai nella Persia, e camminando per dodeci giornate trovai una città chiamata Eri, e il paese si chiama Corasam, come saria a dire la Romagna. In questa città di Eri abita il re di Corasam, dov'è gran fertilità e abbondanzia di robe e massime di seta, di modo che si troverà a comprar in un dí tre o quattromila camelli carichi di seta. La terra è abbondantissima di vettovaglia, e anco vi si trova grandissimo mercato di reubarbaro: io l'ho veduto comprare a sei libbre al ducato a usanza nostra, cioè onze dodeci per libbra. Questa città fa cerca sei o settemila fuochi; gli abitanti d'essa sono tutti maumettani. De qui mi parti' e camminai venti giornate per terra ferma, trovando pur ville e castelli molto bene abitati.


Di Eufra fiumara, qual credesi esser l'Eufrate, e della città di Siras; e come si conosce il muschio; e come l'auttor si accompagnò con un Moro.

E cosí, seguendo el mio cammino, arrivai ad una grande fiumara, la quale da quelle genti è chiamata Eufra; ma per quanto posso considerare credo che sia Eufrate, e per la grandezza e larghezza della sua bocca. Camminando poi piú oltra a man manca tre giornate, pur drieto alla fiumara, trovai una città chiamata Siras: e ha questa città il signore da per sé, il qual è persiano e maumettano. In questa città si trova gran quantità di gioie, cioè turchine e balassi infiniti: vero è che qui non nascono, ma vengono da una città chiamata Balasam. E in detta città si trova grandissima copia di azzurro oltramarino e tuzia e muschio assai. È da sapere che 'l muschio nelle parti nostre raro si trova che non sia contrafatto; la ragion è ch'io ho veduto far la esperienza in questo modo, pigliare una mattina a digiuno una vescica di muschio e romperla, e tre o quattro uomini alla fila odorarlo, e subito fargli uscire il sangue dal naso: e questo procede perché è vero muschio e non falsificato. Dimandai quanto durava la bontà di quello: mi risposero alcuni mercadanti che, se non era falsificato, durava 10 anni. A questo considerai io che quello che viene alle nostre parti è falsificato per mano di questi Persiani, li quali sono li piú astuti uomini d'ingegno e di falsificar una cosa che generazione che si trovi al mondo. E il simile dico di essi che sono li miglior compagni e li piú liberali di tutti gli uomini del mondo: e questo perché l'ho provato con uno mercatante persiano, qual trovai in questa città di Siras (nondimeno egli era della città di Eri sopra detta, in Corasam), il qual mercatante li duoi anni avanti mi conobbe alla Mecca, e dissemi: "Lodovico, che vai faccendo qui? Non sei quello che era già passato alla Mecca?" Io dissi di sí, e il desiderio grande che avea di veder il mondo. Ei mi rispose: "Laudato sia Dio, che averò pur un compagno che verrà meco, che ho il medesimo volere". Noi stemmo 15 giorni in detta città di Siras, e questo mercatante, qual si chiamava Cazazionor, disse: "Non ti partirai da me, che cercheremo una buona parte del mondo". E cosí insieme ci mettemmo in cammino per andar alla volta di Sammarcante.


Di Sammarcante (come si dice), città grandissima come è il Cairo,
nella provincia detta dagli antichi Battriana.

Sammarcante (dicono li mercatanti) è una città grossa com'è il Cairo, e il re della detta è maumettano, e fa sessantamila uomini da cavallo, e sono tutte genti bianche e bellicose. Noi non andammo piú avanti, e la cagione fu perché 'l Sofi andava per questo paese mettendo a fuoco e fiamma ogni cosa, e massime quelli che credono in Bubecher e Othman e Homar, che sono compagni di Maumet, tutti li mandava a fil di spada; ma quelli che credono in Maumeto e Haly li lassava andare e gli assecurava. Allora il compagno mi disse: "Vien qui, Lodovico, accioché tu sia certo ch'io ti voglio bene, e che tu conoschi con effetto che son per farti buona compagnia, io ti voglio dare una mia nipote per moglie, la qual si chiama Sanis, cioè Sole": e veramente avea il nome conveniente a lei, perché era bellissima. E dissemi: "Sappi che io non vo per il mondo perché abbia bisogno di roba, anzi vo per mio piacere e per vedere e saper piú cose"; e con questo ci mettemmo a cammino alla volta di Eri. Giunti che fummo alla casa di costui, subito mi mostrò la detta sua nipote, della quale finsi di esser molto contento, ancora che l'animo mio fusse ad altre cose intento. In termine di Otto giorni tornammo alla città di Ormus, e lí montammo in nave, e venimmo alla volta d'India e arrivammo ad un porto che si chiama Cheul.

LIBRO PRIMO DELL'INDIA

Di Cambaia, città d'India abbondantissima d'ogni cosa.

Perché la promission nostra nel principio, se ben mi ricordo, è stata passare ogni cosa con brevità, acciò non sia tedioso il parlar mio, però continuaremo brevemente le cose che parseno a me degne di cognizione e dilettevoli, massimamente dell'India. Appresso il detto porto è una grandissima fiumara chiamata Indo, qual scorre presso ad una città nominata Cambaia. Questa città è posta verso il mezzogiorno dal detto Indo ed è 3 miglia in terra ferma, e alla città non si può andare con navilii grandi né mezzani, salvo quando l'acque sono vive e grosse: allora v'è una fiumara che va alla città, crescendo l'acque ben 3 o 4 miglia. E sappiate che le acque crescono al contrario delle nostre, perché a noi crescono l'acque quando la luna è piena, e ivi crescono quando la luna è scema. Questa città di Cambaia è murata a usanza nostra, e veramente è ottima città, abbondante di grano e di frutti buonissimi. In questo paese si trova 8 o 10 sorti di spezie minute, cioè turbitti, galanga, spico nardo, assa fetida e lacca, con altre spezie che non mi ricordo il nome. Si fa ancor quivi grandissima quantità di bombagio, per modo che se carica ogni anno 40 e 50 navi di panni di bombagio e di seta, li quali panni sono portati in diversi paesi. Trovasi ancora in questo regno di Cambaia, appresso a sei giornate, la montagna dove si cavano le corniole e la montagna delli calcedonii, e appresso Cambaia nove giornate si trova un'altra montagna, dove si trovano li diamanti


Della condizion del soldano di Cambaia, città nobilissima.

Ora diremo delle condizioni del soldano di questa città di Cambaia, il qual si chiama il soldano Machamut. Sono cerca quaranta anni ch'egli prese questo regno ad uno re di Guzerati, i quali sono certa generazione che non mangiano cosa che abbia sangue, né ammazzano cosa alcuna vivente. E questi tali non sono né mori né gentili: credo che se avessero il battesmo tutti sariano salvi, alle opere che fanno, perché ad altri non fanno quello che non vorriano che fusse fatto a loro. L'abito di questi è che alcuni vanno in camicia e alcuni nudi, salvo che portano un panno cerca le parti vergognose, senza alcuna cosa in piede né in gambe; in testa portano una tovaglia rossa, e sono di colore leonati. E per questa bontà loro il prefato soldano li tolse il reame.
Ora intenderete del viver di questo soldano Machamut. Egli primamente è maumettano, insieme con tutto il popol suo, e tiene di continuo ventimila uomini da cavallo; e la mattina quando si leva, vengono al palazzo suo 50 elefanti, sopra ciascun de' quali viene un uomo a cavallo, e li detti elefanti fanno reverenzia al soldano e non hanno altro da fare. E similmente, quando è levato da letto e quando mangia, suonano 50 over 60 sorti d'instrumenti, cioè trombette, tamburi di piú sorte, e ciufoli, e piffari, con molte altre sorti ch'io taccio per brevità; e ancor li detti elefanti, quando il soldano mangia, fanno reverenzia: quando sarà tempo vi dirò l'ingegno e sentimento che hanno detti animali. Il detto soldano ha li mostacchi sotto 'l naso tanti lunghi che se gli annoda sopra la testa, come faria una donna le sue treccie, e ha la barba bianca per fino alla centura, e per quello che ne fu detto, ogni giorno mangia tossico. Non crediate però che se n'empia il corpo, ma ne mangia una certa quantità, per modo che, quando vuol far morire un gran maestro, lo fa venire innanzi a sé spogliato nudo, e poi mangia certi frutti che si chiamano chofole, li quali sono come una noce moscata, e mangia ancora certe foglie d'erbe le quali sono come foglie di melangole, che alcuni chiamano tambor, e appresso mangia certa calcina di scorze di ostreghe insieme con le presenti cose; e quando ha ben masticato e ha la bocca piena, sbuffa adosso a quella persona che vuol far morire, per modo che in spazio di mezza ora casca morta in terra. Questo soldano tiene ancor tre o quattromila donne, e ogni notte che dorme con una la mattina si trova morta. E ogni volta che lui si leva la camicia, mai piú è toccata da persona alcuna, e cosí li vestimenti suoi, e ogni giorno vuol vestimenti nuovi. Il mio compagno dimandò per che cosa questo soldano mangiava cosí tossico; risposero certi mercanti piú vecchi che 'l padre l'avea fatto nutrire da piccolino di tossico.
Lasciamo il soldano e torniamo al viaggio nostro, cioè agli uomini di detta città, li quali la maggior parte vanno in camicia, e sono molto bellicosi e grandissimi mercanti. Non si potria dir la bontà del paese: qui vengono e vanno cerca 300 navi di piú paesi. Questa città e un'altra che li è vicina (qual dirò quando sarà il tempo) fornisce tutta la Persia, la Tarteria, la Turchia, la Soria, la Barberia, cioè l'Africa, e l'Arabia Felice, l'Etiopia, l'India e l'altra moltitudine di isole abitate di panni di seta e di bombagio, sí che questo soldano vive con grandissima ricchezza, e combatte con un re il qual si chiama re di Ioghe, il quale confina a questa città quindeci giornate.


Del vivere e costumi del re di Ioghe.

Questo re di Ioghe è uomo di gran signoria e fa cerca 30 mila persone, ed è gentile, e tutto il popolo suo, e dalli re gentili col suo popolo è tenuto santo, per la lor vita, qual intenderete. Il re ha per costume di andar ogni tre o 4 anni una volta in peregrinaggio, cioè a spese d'altri, con tre o 4 mila delli suoi, e con la moglie e figliuoli; e mena quattro o cinque corsieri e gatti di zibetto e gatti maimoni, pappagalli, liompardi, falconi, e cosí va per tutta l'India. L'abito suo è una pelle di capra, cioè una davanti e una di drieto, col pelo di fuora, ed è di color lionato scuro, perché qui comincia esser la gente piú oscura che bianca. Tutti portano grandissima quantità di gioie e perle e altre pietre preziose all'orecchie, e vanno pur vestiti all'apostolica e parte portano camicie. E il re e alcuni piú nobili vanno con la faccia, le braccia e il corpo tutto infarinato di sandolo macinato con molti odori preziosissimi. Alcuni di questi si pigliano per devozione di non seder mai in cosa alta, e alcuni altri hanno per devozione di non seder in terra, alcuni di non star mai distesi in terra, altri di non parlar mai: e questi tali sempre vanno con tre o 4 compagni che li servono. Tutti generalmente portano uno cornetto al collo, e quando vanno in una città tutti di compagnia suonano li detti cornetti: questo fanno quando vogliono che gli sia data la elemosina.
E quando il re non cammina, ma si sta nell'alloggiamento, loro vanno almeno trecento o quattrocento alla volta per provedere delle cose necessarie, e stanno tre giorni in una città ad usanza di Cingani. Alcuni di costoro portano un bastone con un cerchio di ferro da piede, alcuni altri portano certi taglieri di ferro, li quali tagliano a torno a torno come rasori, e tirano questi con una frombola, quando vogliono offendere alcuna persona. E cosí, quando questi arrivano in alcuna città d'India, ogni uomo li fa ogni piacere, perché, se ben ammazzassero il primo gentiluomo della terra, non portano pena alcuna perché dicono che sono santi. Il paese di costoro non è troppo fertile, anzi hanno carestia di vivere, e sono piú le montagne che piano. Le loro abitazioni sono molto triste e non hanno terre murate. Per mano di questi tali vengono nelle parti nostre molte gioie, perché costoro vanno per la lor libertà in fino dove nascono, e de lí le portano in altri paesi senza alcuna spesa. Sí che, per avere il paese forte e sterile, tengono in guerra quasi al continuo il soldano Machamut.


Della città di Cevul e de' costumi, abito e armi del suo popolo.

Partendomi dalla detta città di Cambaia, camminai tanto ch'io giunsi ad un'altra città nominata Cevul, distante dalla sopradetta dodeci giornate: e infra l'una e l'altra di queste città, il paese si chiama Guzarati. E il re di questa Cevul è gentile, e le genti sono di color leonato oscuro; l'abito suo è che alcuni portano una camicia e alcuni vanno nudi, con un panno intorno alle parti inoneste, senza niente in piedi né in capo, salvo alcuni mercadanti mori. La gente è bellicosa: le arme sono spade, rotelle, archi e arme inastate di canne e di legno, e hanno artiglieria. Questa terra è molto ben murata ed è lontana dalla marina due miglia, e ha una bellissima fiumara, per la quale vanno e vengono grandissima quantità di navilii forestieri, perché il paese è abbondantissimo d'ogni cosa, eccetto di uva, noci e castagne. Quivi si raccoglie grandissima quantità di grano, di orzo e di legumi d'ogni sorte, e quivi si fa grandissima copia di panni di bambagio. La fede loro non vi dico, perché credono come il re di Calicut, del quale quando sarà tempo vi dechiarirò. In questa città sono assaissimi mercadanti mori. Qui comincia l'aere ad esser piú tosto caldo che freddo. Qui si usa grandissima giustizia; questo re non ha molta gente da combattere. Hanno questi abitanti cavalli, buoi, vacche in assai copia.


Di Dabuli, città d'India.

Visto Cevul e' suoi costumi, di là partendomi andai ad un'altra città lontana de lí due giornate, la quale è chiamata Dabuli, la qual città è posta sopra una ripa d'una grandissima fiumara. Questa città è murata a usanza nostra ed è assai buona; il paese è come della sopradetta. Quivi sono mercadanti mori in grandissima copia. Il re di questa terra Dabuli è gentile, e fa cerca trentamilia uomini combattenti, pure ad usanza di Cevul prefata; e questo re è grandissimo osservatore della giustizia. La terra, il vivere, l'abito e i costumi sono come nell'antedetta città di Cevul.


Di Goga, isola d'India, e del suo re.

Partitomi dalla detta città di Dabuli, andai ad un'isola distante da terra ferma cerca un miglio, e chiamasi Goga, la qual rende al re Decan ogni anno diecimila ducati d'oro, li quali loro chiamano pardai: e sono questi pardai piú stretti che non sono li sarafi del Cairo, ma piú grossi, e hanno per stampa duoi diavoli, cioè da una banda, e dall'altra banda hanno certe lettere. In questa isola è una fortezza murata a usanza nostra appresso al mare, nella quale sta alcune volte un capitano chiamato Sabain, il quale tiene 400 Mammalucchi ed egli ancora è Mammalucco. E quando il detto capitano può aver alcun uomo bianco, li fa grandissimo partito e gli dà almeno 15 overo 20 pardai al mese, e innanzi che lo metta nella lista de' suoi uomini da bene, si fa portar duoi zupponi di corame molto grosso, uno per lui e l'altro per quello che vuole il soldo, e ciascuno si mette il suo indosso e fanno alle braccia: e se lo trova forte, lo fa scriver nella lista degli uomini da bene, se non, lo pone ad alcuno esercizio vile e mecanico, e non di combattere. Costui con questi 300 Mammalucchi fa grandissima guerra al re di Narsinga, del qual diremo al tempo suo.
De lí partitomi, camminato per sette giornate in terra ferma, arrivai alla città che si chiama Decan.


Di Decan, città bellissima, e di molte e varie sue ricchezze e gioie.

Nella detta città di Decan signoreggia un re maumettano: il capitano sopradetto sta al soldo di questo re, insieme con li detti Mammalucchi. Questa città è bellissima e molto forte e abbondante di ogni cosa. Il re di quella, fra li Mammalucchi e altri del regno suo, fa ben venticinquemila persone fra a cavallo e a piede. In questa città è un bel palazzo, e ordinato di tal modo che, avanti che s'arrivi alla camera del re, vi sono 24 camere. Questa città è murata a usanza de' cristiani e le case sono bellissime. Il re di detta città vive con gran superbia e pompa: una gran parte de' suoi servitori portano nelle punte delle scarpe rubini e diamanti e altre gioie; pensate quante ne portano nelle dita delle mani e nell'orecchie. Nel regno suo è una montagna donde si cavano li diamanti, quattro miglia lontana da detta città: ed è murata intorno intorno e vi si fa grandissima guardia. Questo reame è abbondantissimo d'ogni cosa, come le sopradette città. Sono tutti maumettani. L'abito suo sono vesti di seta overo camicie bellissime, e in piede portano scarpe over borzacchin, con calzoni ad usanza de' marinari; le donne portano tutto coperto il viso ad usanza di Damasco.


Della diligenzia del detto re cerca la milizia.

Il sopradetto re di Decan sta sempre in guerra col re di Narsinga, e tutto il suo paese è maumettano. La maggior parte de' suoi soldati sono forestieri e uomini bianchi, e li nativi del regno sono di color leonato. Questo re è potentissimo e molto ricco e molto liberale, e tiene ancora molti navilii per mare, ed è grandissimo nimico de' cristiani.
Di qui partendoci, andammo ad un'altra città chiamata Bathecala.


Di Bathecala, città d'India, e della fertilità sua in molte cose, massime in riso e zuccaro; e di Amiadiva.

Bathecala è una città d'India nobilissima e distante da Decan cinque giornate; il re di detta città è gentile ed è sottoposto al re di Narsinga. Questa città è murata e bellissima, e distante dal mare cerca un miglio; non ha porto di mare, salvo che si va per una fiumara piccola, la qual passa appresso le mura della città. Quivi stanno molti mercatanti mori, per esser terra di grandissimo tratto. Qui è gran quantità di riso e gran copia di zuccaro, massime di zuccaro candido ad usanza nostra; quivi ancora si comincia a trovar noci e fichi, ad usanza di Calicut. Queste generazioni sono idolatre pur al modo di Calicut, salvo li Mori, che vivono alla maumettana. Qui non si usano cavalli né muli né asini, ma vi sono vacche, buffali e capre. In questo paese non nasce grano né orzo né legumi, ma altri frutti bonissimi ad usanza d'India.
Di qui partitomi, andai ad un'isola chiamata Amiadiva, nella quale abitano certe sorti di genti che sono mori e gentili. Questa isola è distante da terra ferma mezzo miglio e ha circa venti miglia di circuito, e in essa non è troppo buono aere, né è molto fertile. Infra l'isola e terra ferma è un bonissimo porto, e in detta isola si trova bonissima acqua.


Di Centacola, di Onor e Mangolor, terre bonissime d'India.

Camminando per una giornata dalla detta isola, trovai una terra chiamata Centacola, la quale ha un signor molto ricco. Qui si trovano molte carni in gran quantità, riso assai e frutti buoni ad usanza d'India. In questa città sono molti mercatanti mori; il signor d'essa è gentile. Le genti sono di color leonato; vanno nudi e scalzi, senza niente in testa. Questo signore è suddito al re di Bathecala.
De lí andammo in due giornate ad un'altra terra detta Onor, il re della quale è gentile ed è suddito al re di Narsinga. Questo re è buon compagno, e tien sette overo otto navilii, che vanno di continuo in corso a danno di chi manco può, ed è grandissimo amico del re di Portogallo. L'abito di queste genti è che vanno tutte nude, salvo che portano un panno intorno alle parti inoneste. Qui si trova riso assai ad usanza d'India, e vi si trovano alcune sorti d'animali, cioè porci salvatichi, cervi, lupi, lioni e gran quantità di uccelli differenti dalli nostri, molti pavoni e pappagalli; sonovi ancora molte vacche, le quali sono rosse, e hanno gran copia di castrati. Rose, fiori e frutti qui si trovano tutto l'anno: l'aere di questo luoco è in tutta perfezione, e vivono quelle genti piú di noi.
Appresso la detta terra di Onor è un'altra terra chiamata Mangolor, nella quale si cargano cinquanta overo sessanta navi di riso. Gli abitatori di essa sono gentili e mori; il viver, i costumi e l'abito è come di sopra dicemmo. De qui partitici, andammo ad un'altra città chiamata Canonor.


Di Canonor, città grandissima in India.

Canonor è una bella e grande città, nella quale il re di Portogallo tien un fortissimo castello. Il re di questa città è assai amico del re di Portogallo, ancora che egli sia gentile. Questo Canonor è il porto dove si scaricano li cavalli che vengono dalla Persia, ed è da sapere che ogni cavallo paga venticinque ducati per gabella, e poi vanno in terra ferma alla volta di Narsinga. In questa città stanno molti mercatanti mori. E quivi non nasce grano né uva né frutto alcuno ad usanza nostra, salvo cetrioli e zucche; qui non si mangia pane, cioè per li nativi della terra, ma mangiano riso, pesce, carne e noci del paese. Quando sarà tempo, diremo della lor fede e costumi, perché vivono ad usanza di Calicut. Qui cominciano a trovarsi le speziarie, cioè pepe, zenzero, cardamomo e mirabolani e alcuna poca di cassia. Questa terra non è murata intorno; le case son triste. E qui ancora si trovano molti frutti differenti dalli nostri, e sono assai migliori, e al suo luoco dirò della loro similitudine.
Il paese è forte da combattere, perché tutto è pieno di cave fatte per forza. Il re di questa terra fa cinquantamila Naeri, cioè gentiluomini, li quali per combattere usano spade, rotelle, lance, archi e artigliaria. E' piú vanno nudi e scalzi, con un panno intorno, senza niente in testa, salvo che quando vanno alla battaglia portano un cappelletto intorno alla testa, di color rosso, ligato con una fascia che li dà due volte intorno, e portano tutti la legatura ad un modo. Qui non si adoperano cavalli né muli né camelli né asini; adoperasi qualche elefante, ma non per combattere. E in altro luoco si dirà de una fortezza che 'l re di Canonor fece contra i Portogallesi. Questa terra è di gran tratto, e ogni anno sogliono venire dugento navilii di diversi paesi.
Passati alquanti giorni, pigliammo il cammino verso il reame di Narsinga, e camminammo quindeci giornate per terra ferma alla volta di levante, e arrivammo ad una città chiamata Bisinagar.


Di Bisinagar, città fertilissima del reame di Narsinga in India.

La detta città di Bisinagar è del re di Narsinga, ed è grandissima e con forti muraglie, situata in una costa di monte e di circuito di sette miglia intorno, e ha tre cerchi di mura. È terra di gran mercanzia e molto fertile, dotata di tutte le gentilezze possibili ad essere. Ha il piú bel sito e il piú bello aere che mai si vedesse, con certi luochi da cacciagioni molto belli, e similmente da uccellare, di modo che pare un altro paradiso. Il re di detta città è gentile con tutto il suo reame, cioè idolatri, ed è potentissimo e tiene continuamente quarantamila uomini da cavallo. Ed è da sapere che uno cavallo vale almanco trecento, quattrocento e cinquecento pardai, e alcuni sono comprati ottocento pardai, perché li cavalli non nascono lí, e manco vi si trovano cavalle femine, perché quelli re che tengono li porti del mare non le lassano menare. Tiene ancora il prefato re quattrocento elefanti, quali gli adopera quando vuol far guerra, e molti camelli, dromedarii, che corrono molto velocemente in ogni bisogno del re.


Della natura degli elefanti.

E a questo proposito mi par luoco molto opportuno di narrar qualche cosa della natura degli elefanti, per la promessa ch'io ho fatta di sopra: e cosí io dico che 'l detto animal è di tanto ingegno, discrezion e memoria, che vi manca poco ad esser animal razionale, e ha la maggior forza che animal che sia sopra la terra. Gl'Indiani, quando voglion andar alla guerra, mettono al detto animal una bardella, al modo che portano li muli del reame di Napoli, stretta di sotto con due catene di ferro: sopra la detta bardella porta per ogni banda una cassa grande di legno molto forte, e per ogni cassa vanno tre uomini. E infra le casse e il collo dell'elefante mettono un tavolone grosso mezzo palmo, e infra le casse e sopra il tavolone va un uomo a cavallo, il qual parla allo elefante, perché gli ha piú sentimento e maggior memoria che animale che sia nel mondo, e intende tutto ciò che se li dice: e questo si cognosce vedendo il piacer che 'l si prende di esser laudato. Sí che sono in tutto sette persone che vanno sopra detto elefante, e vanno armati con camicie di maglia e con archi e lance, spade e rotelle, e similmente armano l'elefante di maglia, massime la testa e la tromba, e alla tromba legano una spada lunga due braccia, grossa e larga quanto è la mano d'un uomo. E cosí combattono, e quello che li va sopra il collo li comanda: "Va' innanzi", o: "Torna indrieto", "Da' a questo", "Da' a quello", "Non li dar piú", e questo intende come se fusse una persona umana. Ma se pur alcuna volta si mettano in rotta, non gli possono ritenere, e di questo n'è causa il fuoco, perché queste generazioni di genti sono grandissimi maestri di far fuochi artificiati, e questi animali temono molto il fuoco e per questo rispetto, come lo vedono, si mettono molto in fuga. Ma in ogni modo gli è il piú discreto e piú intelligente animal che sia nel mondo, e anco il piú possente.
Io ho visto tre elefanti mettere una nave di mare in terra, in questo modo ch'io vi dirò. Essendo io in Canonor, alcuni mercatanti mori varorono una nave in terra in questo modo, ad usanza de' cristiani. Varano la nave con la prova innanzi, e qui mettono il costato della nave innanzi, e sotto la detta nave mettono tre legni grandi: e dalla banda del mare viddi tre elefanti inginocchiarsi in terra e con la testa spinger la nave in secco. E perché molti dicono che l'elefante non ha giunture nelle gambe, e che per questo non possono inginocchiarsi, dico per certo che le hanno come cadaun altro animal, ma nella ultima parte della gamba. Vi dico piú che la elefanta femina è molto piú feroce e assai piú superba che non il maschio, e alcune delle femine sono lunatiche.
Li detti elefanti sono grossi per tre buffali, e hanno il pelo buffalino e gli occhi porcini e la tromba lunga fino in terra: e con quella si mette il mangiare in bocca e similmente il bere, perché la bocca sua l'ha sotto la gola, e quasi come un porco overo sturione. E questa tromba è busa dentro, e con quella li ho piú volte visto pigliare un quattrino di terra, e anco tirare una rama d'un arbore, la qual noi, che eravamo ventiquattro uomini, con una corda non la potevamo tirare a terra, e l'elefante la tirò a tre tirate. Li duoi denti che si veggono sono nella mascella di sopra; l'orecchie sono duoi palmi per ogni verso e in alcuni piú, in alcuni manco. Le gambe sue sono quasi grandi di sotto come di sopra; li piedi sono rotondi, come un grandissimo tagliero da tagliar carne, e intorno al piede tiene cinque onghie e ciascuna è grande come una scorza di ostrega. La coda è lunga come quella d'un buffalo, cioè cerca tre palmi, e ha pochi peli e rari. La femina è piú piccola che 'l maschio. L'altezza dell'elefante è diversa, perché n'ho visto assai 13 e 14 palmi alti, e ne ho cavalcati alcuni di detta altezza, e dicono che se ne trovano di quindeci palmi e piú d'altezza. Lo andar suo è molto lento, e chi non l'ha accostumato non li può stare a cavallo, perché fa voltare lo stomaco come se andasse per mare; gli elefanti piccoli vanno portanti come una mula ed è una gentilezza a cavalcarli. E quando si vuol cavalcar, esso elefante abbassa una gamba di drieto e per quella gamba si monta suso: pur bisogna che vi aiutiate o facciate aiutar al montare. Ed è da sapere che 'l detto elefante non porta né briglia né cavezza, né cosa alcuna legata nella testa. Quando vuol congiungersi con la femina e generare, va in luoco secreto, cioè nell'acqua in certi paludi, mostrando la quasi vergogna di esser veduto: e si congiungono come fanno gli uomini e le donne, ancora che molti dicono che si congiungano al contrario uno con l'altro. E in alcuni paesi ho visto che 'l piú bel presente che si possi far ad un re è la verga d'un elefante, la quale il re mangia come cosa preziosa e di gran conto, perché in alcuni paesi un elefante vale cinquecento ducati e in altri val mille e duemila ducati. Sí per conclusione dico che ho visto alcuno elefante che ha piú ingegno e piú discrezione e sentimento che non han molte sorte di genti che ho ritrovato.


Del re di Narsinga, e delli costumi delli popoli a lui soggetti, e della moneta che 'l fa battere.

Questo re di Narsinga è il piú gran re che mai abbia sentito nominare, sí di tesoro come per molti regni a lui soggetti. Questa città è in bellezza e sito molto simile a Milano, ma quello è in piano e questa nella costa de un monte: quivi è il seggio del re e li reami suoi stanno intorno, come saria il reame di Napoli e come la città di Venezia, di modo ch'egli ha il mare da due bande. Dicono li suoi Bramini, cioè sacerdoti, ch'egli ha ogni giorno dodecimila pardai di entrata; ha sempre molta gente a ordine, perché combatte di continuo con diversi re mori e gentili. La fede sua è idolatra, e adorano il diavolo come fanno quelli di Calicut: quando sarà tempo, diremo in che modo l'adorano; loro vivono come gentili. L'abito suo è questo: gli uomini da conto portano una camicia curta, e in su la testa una tocca alla moresca di molti colori, e in piede non portano cosa alcuna; il popolo minuto vanno tutti nudi, salvo che intorno le parti inoneste portano un panno. Il re porta una berretta di brocato d'oro lunga duo palmi, e quando va in guerra porta una vesta imbottita di bombagio, e sopra questa porta un'altra vesta piena di piastre d'oro, e intorno è piena di gioie di piú sorte. Il suo cavallo vale piú che alcuna città delle nostre, per rispetto degli adornamenti ch'ei porta di gioie e altre pietre preziose. Quando cavalca a piacere over alla caccia, vanno sempre con lui tre over quattro re e molti signori, e 5 over 6 mila cavalli, per il che si può considerare costui esser potentissimo signore. La sua moneta sono pardai d'oro, come ho detto, di valuta circa di un ducato d'oro, e batte ancora moneta d'argento, chiamata fanon, qual val mezzo marcello d'argento in circa; ha moneta di rame detta cas, e sedeci di queste valeno per un fanon, che venirà un cas ad esser circa un quattrino d'Italia.
In questo reame si può andare securamente per tutto, ma bisogna guardarsi d'alcuni lioni che sono pel cammino. Del viver suo non vi dico al presente, perché lo dechiarirò quando saremo in Calicut, per esser un medesimo vivere. Questo re è grandissimo amico de' cristiani, massime del re di Portogallo, perché d'altri cristiani non ha molta cognizione. Le terre sue fanno grandissimo onore a' Portoghesi, quando vi arrivano.
Visto che avemmo per alcuni giorni questa città tanto nobile, tornammo alla volta di Canonor, e poi che vi fummo arrivati, de lí a tre giorni pigliammo il cammino per terra e andammo ad una altra città chiamata Tromapatan.


Di Tromapatan, città d'India, e di Pandarane e Capogatto.

Tromapatan è distante da Canonor dodici miglia, ed è signor di questa uno gentile. La terra non è molto ricca, ed è appresso al mare un miglio e ha una fiumara non molto grande: qui sono molti navilii di mercatanti mori. Le genti della terra vivono miseramente, e la maggior ricchezza che sia qui sono noci di India, e di queste mangiano con un poco di riso. Hanno abbondanzia assai di legname per far navi. In questa terra sono cerca quindecimila Mori, e sono sottoposti al soldano overo al signore gentile. Non vi dico il suo vivere al presente, perché in Calicut vi sarà descritto, per esser tutta una medesima fede. In questa città non sono troppo buone case, perché una casa val mezzo ducato, come vi dirò piú avanti.
Qui stemmo duoi giorni, e poi partimmo e andammo ad una terra chiamata Pandarane, distante da questa una giornata, la qual è sottoposta al re di Calicut, ed è terra assai trista e non ha porto. A riscontro di detta città tre leghe in circa v'è una isoletta disabitata. Il viver e costumi di questa città sono ad usanza di Calicut, ed è città non piana, ma terra alta. Di qui ci partimmo e andammo ad un altro luoco chiamato Capogatto, il quale pur è sottoposto al re di Calicut. Questa terra ha un bellissimo palazzo fatto all'antica, e ha una fiumara piccola verso mezzodí, ed è appresso a Calicut quattro leghe. Qui non è cosa da dire, perché vanno pure alli costumi e stili di Calicut.
Di qui ci partimmo e andammo alla nobilissima città di Calicut. Io non vi ho scritto del vivere, costumi, fede, iustizia, abito e paese di Cevul e Dabul, di Bathicala, né del re di Onor, né di Mangalor, né di Canonor, e manco del re di Cocchin, del re di Caicolom, né di quello di Colan, e manco ho detto del re di Narsinga. Ora vi voglio dire qui in Calicut, perch'egli è il piú degno re di tutti questi sopra detti, e chiamasi Samoryn, che vien a dire in lingua gentile "Dio in terra".

LIBRO SECONDO DELL'INDIA

Essendo noi arrivati a Calicut, che è il principal capo dell'India, cioè il luoco nel qual è posto la maggior dignità dell'India, n'ha parso por fine al primo libro e dar principio al sequente, sí per porgere ad ogni benigno lettore cose di maggior dignità e consolazione, come acciò che egli con la sua umanità ne dia favor e aiuto nel cammino di questo nostro viaggio, e il suo piacere accreschi le forze del nostro ingegno: pur sottomettendo ogni cosa che si dirà di ciò al giudicio di quegli uomini i quali forse hanno veduto piú paesi di me.


Di Calicut, città grandissima d'India.

Calicut è in terra ferma e il mar batte nelle mura delle case. Qui non è porto, ma appresso un miglio dalla terra verso mezzogiorno v'è una fiumara, la quale è stretta al sboccare in mare e non ha piú che cinque o sei palmi d'acqua: e questo per causa che la si divide in molti rami, quali si destendono per quelle pianure e adacquano molti campi e orti; volta poi la detta fiumara verso la città di Calicut e passa per mezzo di quello. Questa città non ha mura intorno, ma dura l'abitazione stretta cerca un miglio e poi sono le case larghe, cioè separate l'una dall'altra: e questo per paura del fuoco overo per non saper edificarle; e durano cerca sei miglia e sono molto triste, e le mura sono alte quanto un uomo a cavallo, e sono la maggior parte coperte di foglie e senza solaro. La causa è questa, che cavando la terra quattro o cinque palmi si trova l'acqua, la qual non lassa far li fondamenti che possino sostener muri grossi, e per questa cagione non si ponno far grandi le abitazioni. Pur una casa d'un mercatante vale 15 o 20 ducati; le case del popol minuto vagliono mezzo ducato l'una, un ducato e duoi ducati al piú.


Del re di Calicut e della religione.

Il re di Calicut è gentile e adora il diavolo nel modo che intenderete. Loro confessano che un Dio ha creato il cielo e la terra e tutto il mondo, ed è la prima causa in tutte le cose; e dicono che s'ei volesse giudicare voi e me e il terzo e 'l quarto, che non averia piacer alcuno d'esser signore, ma ch'egli ha mandato questo spirito suo, cioè il diavolo, in questo mondo a far giustizia, e a chi fa bene ei li fa bene, e a chi fa male ei li fa male: essi lo chiamano il Deumo e Dio lo chiamano Tamerani. E questo Deumo il re di Calicut lo tiene nella sua cappella in questo modo: la sua cappella è larga duoi passi per ogni quadro e alta 4 passi, con una porta di legno tutta intagliata di diavoli di rilievo; in mezzo di questa cappella v'è un diavolo fatto di metallo, qual siede in una sedia pur di metallo. Il detto diavolo tiene una corona fatta a modo del regno papale con tre corone, e tiene ancora quattro corna e quattro denti, con una grandissima bocca aperta, con naso brutto e occhi terribilissimi e che guardan crudelmente, e le mani sono incurvate a modo d'uno uncino, li piedi a modo d'un gallo: per modo che a vederlo è una cosa molto spaventosa. Intorno alla detta cappella le sue pitture sono tutte diavoli, e per ogni quadro di essa v'è uno satanas posto a sedere in una sedia, la qual è posta in una fiamma di fuoco, nel quale sta gran quantità di anime lunghe mezzo dito e uno dito della mano: il detto satanas con la man dritta tiene una anima in bocca mangiandola, e con l'altra mano ne piglia una altra dalla banda di sotto.
Ogni mattina li Bramini, cioè sacerdoti, vanno a lavare il detto idolo tutto quanto con acqua odorifera, e poi lo profumano e, come l'hanno profumato, l'adorano. E alcuna volta fra la settimana li fanno sacrificio in questo modo: hanno una certa tavoletta fatta e ornata in modo di uno altare, alta da terra tre palmi, larga quattro e lunga cinque, la qual tavola è molto bene ornata di rose, fiori e altre gentilezze odorifere, sopra la quale mettono sangue di gallo e carboni accesi in un vaso d'argento, con molti profumi di sopra; hanno poi un turibulo col quale incensano intorno al detto altare, e una campanella d'argento la qual sonano molto spesso. Tengono in mano un cortello d'argento, col quale hanno ammazzato il gallo, e quello intingono nel sangue, e lo mettono alcuna volta sopra il fuoco, e alcuna volta lo pigliano, e fanno alcuni atti come colui che vuol giocare di schirmia: e finalmente abbruciano tutto quel sangue, stando continuamente candele di cera accese. Il sacerdote che vuol fare il sacrificio mette alle braccia, alle mani e a' piedi alcuni manigli d'argento, li quali fanno grandissimo romore, come sonagli, e porta al collo uno pentacolo (quello che si sia non so). E quando ha fornito di fare il sacrificio, piglia tutte due le mani piene di grano e si parte dall'altar e va all'indrieto, sempre guardando all'altare, infino che arrivi appresso a uno certo arbore: e quando è giunto all'arbore, ei getta quel grano per sopra la testa, alto tanto quanto può sopra dell'arbore, poi ritorna e lieva ogni cosa dell'altare.


Come è il mangiare del re di Calicut e le cerimonie che usano.

Il re di Calicut quando vuol mangiare usa questi costumi, che 'l cibo che deve mangiare il re lo pigliano quattro Bramini delli principali e lo portano al diavolo, ma prima l'adorano in questo modo: alzano le mani gionte sopra la testa sua, e poi tirano le mani a sé con la man serrata e levano in su il dito grosso della mano, e poi li presentano quel mangiare qual si ha a dare al re e cosí stanno tanto quanto può mangiare una persona. E poi li detti Bramini portano quel cibo al re, e questo fanno solamente per far onore a quell'idolo, acciò che paia ch'el re non voglia mangiare se prima non è stato presentato al Deumo. Questo mangiare si pone in un bacino di legno, nel quale sta una grandissima foglia di arbore, e sopra questa foglia v'è posto il detto mangiare, che è riso e altre cose. Il re mangia in terra senza alcuna altra cosa e, quando mangia, li Bramini stanno in piedi tre o quattro passi lontani dal re con gran reverenzia, e stanno abbassati con le mani innanzi alla bocca e piegati in la schiena; e mentre che il re parla, nessun debbe parlare, e stanno con gran reverenzia ad ascoltare le sue parole. Fornito ch'ha il re di mangiare, li detti Bramini pigliano quel cibo che avanza al re e lo portano in un cortile e lo posano in terra, ed essi Bramini battono tre volte le mani insieme: e a questo sbattere viene una grandissima quantità di cornacchie negre a questo cibo e se lo mangiano. Queste cornacchie sono usate a questo, e sono libere e vanno dove vogliono e non gli è fatto male alcuno.


Delli Bramini, cioè sacerdoti di Calicut.

È cosa conveniente ancora e dilettevole intender chi sono questi Bramini: è da sapere che sono li principali della fede, come appresso de noi sono li sacerdoti. E quando il re piglia moglie, cerca il piú degno e piú onorato che sia di detti Bramini e fallo dormire la prima notte con la moglie sua, accioché la svergini: non crediate che 'l Bramino vada volentieri a far tal opera, anzi bisogna che 'l re paghi 400 over 500 ducati. E questo usa il re solo in Calicut, e non altra persona.
Ora diremo di quante sorti di genti sono in Calicut.


Delli gentili di Calicut e di quante sorti siano.

La prima sorte de gentili che sono in Calicut si chiaman Bramini, che sono come sacerdoti e di maggior estimazione che cadaun altro. La seconda Naeri, li quali sono come appresso di noi li gentiluomini: e questi sono obligati a portar la spada e la rotella, o archi o lance, quando vanno per la strada, e non portando l'arme non sariano piú gentiluomini. La terza sorte de gentili si chiamano Tiva, che sono artigiani. La quarta si chiamano Mechor, e questi sono pescatori. La quinta si chiamano Poliar, li quali raccolgono il pepe, il vino e le noci. La sesta si chiamano Hitava: questi seminano e raccolgono il riso. Queste due ultime sorti di genti, cioè Poliar e Hitava, non si ponno accostar alli Naeri né alli Bramini a cinquanta passi, salvo se non fussero chiamati dalli detti. E sempre vanno per luochi occulti e per paduli, e quando vanno per li detti luochi sempre vanno gridando ad alta voce: e questo fanno per non scontrarsi con li Naeri overo con li Bramini, perché, non gridando, e andando alcuni de' Naeri a veder li suoi frutti e scontrandosi con le dette generazioni, i prefati Naeri li possono ammazzare senza pena alcuna, e per questo rispetto sempre gridano. Sí che avete inteso le sei sorti de gentili.


Dell'abito del re e della regina e degli altri di Calicut, e del loro mangiare.

L'abito del re e della regina e di tutti gli altri nativi del paese è che vanno nudi e scalzi, e portano un panno di bombagio overo di seta intorno alle parti inoneste, senza altro in testa, salvo alcuni mercatanti mori, li quali portano una camisola curta fino alla centura: ma tutti li gentili vanno senza camicia, e similmente le donne vanno nude e scalze come gli uomini, e portano le treccie lunghe. Il mangiar del re e delli gentiluomini, non mangiano carne senza licenzia delli Bramini; ma l'altre sorti di genti mangiano d'ogni carne, eccetto carne di vacca, e quelli che si chiamano Hitava e Poliar mangiano sorici e pesce secco al sole.


De quelli che succedeno dopo la morte del re e delle cerimonie che si fanno.

Morto il re e avendo figliuoli maschi, overo nepoti da canto del fratello, non rimangono re li figliuoli né il fratello né li nepoti, ma resta erede, cioè re, il figliuolo di una sua sorella; e non vi essendo figliuoli di detta sorella, resta re il piú congiunto al re: e questo perché li Bramini hanno la virginità della regina. E similmente, quando cavalca il re fuori della terra, li detti Bramini (se ben fusse di venti anni il Bramino) restano in casa a guardia della regina, e il re ha di somma grazia che detti Bramini usino con la regina quante volte li piace: per questo rispetto dicono che la sorella e lui è certo che sono nati tutti d'un corpo medemo, ed è piú sicuro delli figliuoli di quella che delli figliuoli suoi, e per questa causa la eredità per li ordini del regno viene alli figliuoli della sorella.
Similmente, dapoi la morte del re, tutti quelli del regno si radono la barba e la testa, salvo pure alcune parti della testa e similmente della barba, secondo la volontà delle persone; e ancora li pescatori non possono pigliar pesce per otto giorni. E quando muore un parente stretto del re, similmente si osservano questi modi, e il re si piglia per devozione di non dormire per un anno con donna, overamente di non mangiar betole, le quali sono come foglie di aranzi, le quali usano loro di continuo a mangiare: e queste sono tanto a loro come a noi le confezioni, e le mangiano piú per lussuriare che per alcuna altra cosa. E quando mangiano le dette foglie, mangiano con esse un certo frutto che si chiama coffolo, e l'arbore del detto coffolo si chiama areca, ed è fatto a modo d'un piede di dattalo e fa li frutti a quel modo; e similmente mangiano con le dette foglie certa calcina di scorze d'ostreghe, le quali loro chiamano cionama.


Come li gentili alcuna volta scambiano le loro mogli.

Li gentiluomini e mercatanti gentili hanno fra loro tal consuetudine, che, se alcuna volta sono duoi mercanti che siano molto amici e che si amino, e ciascun di loro abbia moglie, l'un mercante dice all'altro in questo modo: "Or non siamo stati noi lungo tempo amici?" L'altro risponde: "Veramente sí, che io son stato tanto tempo tuo amico, e con tanto amor che piú non potria esser". Dice il primo: "Di' tu la verità, che sei veramente mio amico?" Risponde l'altro: "Sí, per certo". Dice il primo: "Per Dio?" L'altro risponde: "Per Dio". Dice il primo: "Cambiamo adunque la tua donna, che io ti darò la mia". Risponde l'altro: "Di' tu da senno?" Dice il primo: "Sí, per Dio". Risponde quell'altro e dice: "Vieni a casa mia". E poi ch'è arrivato a casa chiama la sua donna e le dice: "Donna, vien qua: va' con questo, che egli è tuo marito". Risponde la donna: "Perché? Di' tu il vero, per Dio?" Risponde il marito: "Dico il vero". Dice la donna: "Piacemi, io vado". E cosí se ne va col suo compagno alla casa sua. Lo amico suo dice poi alla sua moglie che vada con quell'altro, e a questo modo cambiano le mogli, e li figliuoli rimangono a ciascuno li suoi. Fra le altre sorti di gentili una donna tiene cinque, sei e sette mariti, otto ancora, e un dorme con lei una notte, l'altro l'altra notte; e quando la donna fa figliuoli, ella dice qual è figliuol di questo e qual di quello, e cosí loro stanno al detto della donna.


Del vivere e della giustizia de' gentili.

I detti gentili mangiano in terra in un bacino di metallo e per cucchiaro usano una foglia d'arbore, e mangiano di continuo riso e pesce e spezie e frutti. Le due sorti di villani mangiano con la mano nella pignatta, e quando pigliano il riso della pignatta, fanno di quel riso una pallotta e poi se la mettono in bocca.
Cerca la giustizia che si usa fra costoro, è che, se uno amazza un altro a tradimento, il re fa pigliare un palo lungo quattro passi, ben apuntato, e appresso la cima due palmi fa mettere duoi bastoni in croce nel detto palo, e poi fa mettere il detto legno in mezzo della schiena del malfattore, e passali il corpo, e vien a giacere sopra quella croce e in tal modo si muore: e questo martirio lo chiamano uncalver. E se alcuno dà delle ferite over bastonate a un altro, il re lo fa pagar danari e cosí lo assolve. E quando alcuno deve avere danari da un altro mercatante, apparendo alcuna scrittura delli scrittori del re, il quale ne tiene ben cento, tengono questo stile. Poniamo caso che uno mi abbia a dare venticinque ducati, e molte volte mi prometta di darli e non li dia: non volendo io piú aspettare né farli termine alcuno, vado al principe delli Bramini, che son ben cento, qual, dapoi che si averà molto ben informato ch'è la verità che colui mi è debitore, mi dà una frasca verde in mano, e io vado pian piano drieto al debitore e con la detta frasca vedo di farli un cerchio in terra circondandolo; e se lo posso giugnere nel circolo, li dico tre volte queste parole: "Io ti comando, per la testa del maggior delli Bramini e del re, che non ti parti di qui se non mi paghi e mi contenti di quanto debbo avere". Ed egli mi contenta, over morirà prima da fame in quel luoco, ancor che niuno lo guardi; e s'egli si partisse del detto circolo e non mi pagasse, il re lo faria morire.


Dello adorare delli gentili e del suo mangiare.

La mattina a buon'ora questi gentili si vanno a lavare ad uno tanco, il qual tanco è come una fossa d'acqua morta, e come sono lavati non possono toccare persona alcuna fin che non hanno fatto l'orazione all'idolo, e questo è in casa sua. E fannola in questo modo: stanno col corpo stesi in terra, e stanno molto secreti, e fanno certe arti diaboliche con gli occhi stravolti e con la bocca, movendola con certi atti spaventosi e brutti, e dura questo per un quarto d'ora. E poi vien l'ora del mangiare, e non possono mangiare se 'l cucinato non è fatto per mano d'un gentiluomo, perché le donne non cucinano se non per loro. E per questo usano li gentiluomini di aver cura del mangiare, e le donne non attendono ad altro, né hanno altro pensiero, che di lavarsi e profumarsi per piacere agli uomini. E ogni volta ch'el marito vuol usar con la donna, ella subito si lava e profuma molto delicatamente; nondimeno vanno sempre odorifere e tutte piene di gioie, cioè alle mani, all'orecchie, alli piedi e alle braccia, che è cosa bella a vedere.


Del combattere di quelli di Calicut, e di diversi altri loro costumi, e di quante città e paesi vi si trovano mercanti in detta città.

Per ordinario ogni giorno si scrima con spade, rotelle e lance, e per questo hanno molti boni maestri scrimitori. E quando vanno in guerra, il re di Calicut tiene continuamente centomila persone a piedi, perché qui non si usano cavalli, ma vi sono alcuni elefanti deputati per la persona del re, alcuni altri per suoi gentiluomini. E tutte le genti portano una binda di seta legata in testa, di colore vermiglio, e portano spade, rotelle, lance e archi. Il stendardo over bandiera del re è non so che cosa rotonda fatta di foglie di arbore, tessute una con l'altra a modo di un fondo di botte: e lo portano in cima di una canna, e con quello vanno faccendo ombra alla testa del re. E quando sono in battaglia, e uno esercito è lontano dall'altro duoi tiri di balestra, il re dice alli Bramini: "Andate nel campo de' nimici, e dite al re che venga con cento delli suoi Naeri, e io anderò con cento delli miei". E cosí vengono l'uno e l'altro alla metà del cammino e cominciano a combattere in questo modo: se ben combattessero tre giorni, mai si dariano di ponta, ma sempre danno duoi mandritti alla testa e uno alle gambe. Quando sono morti quattro o sei d'una delle parti, li Bramini entrano nel mezzo e fanno ritornare l'una e l'altra parte al campo suo. E subito vanno agli eserciti d'ambe le parti e dicono: "Ne volete piú?" Risponde il re: "No", e cosí fa la parte adversa. E a questo modo combattono a cento per cento, e questo è il loro combattere.
Il re alcuna volta cavalca gli elefanti e alcuna volta lo portano li Naeri, e quando lo portano sempre vanno correndo, e sempre vanno avanti del detto re molti instrumenti sonando. E alli detti Naeri li dà per ciascuno di soldo quattro carlini al mese, e a tempo di guerra li dà mezzo ducato, e di questo soldo vivono. Queste genti hanno li denti negri, per rispetto di quelle foglie di betole che vi dissi che mangiano. Morti che sono li Naeri, gli fanno abbruciare in un luogo cavato con grandissima solennità, e alcuni salvano quella cenere; ma del popol minuto dapoi la morte, alcuni li sepelliscono dentro della porta della sua casa, e altri davanti alla casa sua, alcuni altri nelli loro piú belli giardini. Le monete della detta città sono battute qui com'io vi dissi in Narsinga.
Nel tempo ch'io mi ritrovai in Calicut, vi stavano grandissima quantità di mercatanti di diversi reami e nazioni. Essendo pur desideroso di saper donde erano tante diverse persone, fummi detto che quivi erano infiniti mercatanti mori e di Malacca, di Banghalla e di Tarnassari, di Pego, di Giormandel, di Zeilam, e gran quantità dell'isola di Sumatra, di Colon e di Caicolon, assaissimi di Bathacala, di Dabuli, di Cevul, di Cambaia, di Guzerati, di Ormus e della Mecca; ve n'erano ancora della Persia e dell'Arabia Felice, parte della Soria e della Turchia, e alquanti dell'Etiopia e di Narsinga: di tutti questi reami v'erano mercatanti al tempo mio in Calicut. La gente natural di questa terra non navigano molto per il mondo, ma li Mori sono quelli che trattano le mercanzie, perché in Calicut sono ben quindecimila Mori, li quali sono per la maggior parte nativi della terra e fanno mercanzia.


Delle navi di Calicut e a che tempo navicano, e della diversità delle stagion dell'anno, e quante sorti di navilii hanno.

Parmi assai conveniente e a proposito il dichiararvi come navigano queste genti per la costa di Calicut, e in che tempo, e come facciano li suoi navilii. Costoro adunque fanno primamente li suoi navilii di quattrocento overo cinquecento botte l'uno, i quali non hanno coperta. E quando fanno li detti navilii, infra una tavola e l'altra non mettono stoppa in modo alcuno, ma congiungono tanto bene quelle tavole che tengono l'acqua benissimo; e poi mettono la pegola di fuori e vi mettono grandissima quantità di chiodi di ferro. Non crediate però che loro abbiano carestia di stoppa, anzi ve n'è portata in abbondanza d'altri paesi, ma non la costumano per navilii. Hanno costoro ancora buon legname come noi e in maggior abbondanza. Le vele di queste sue navi sono di bombagio, e portano al piede di dette vele un'altra antenna, e quella spingono fuori quando sono alla vela per pigliar piú vento, sí che loro portano due antenne e noi ne portiamo una sola. Le sue ancore sono di marmo, cioè un pezzo di marmo lungo otto palmi e duoi per ogni verso, e il detto marmo porta due corde grosse attaccate, e queste sono le sue ancore.
Il tempo della navigazione è questo: dalla Persia in fino al capo di Cumeri, ch'è lontano da Calicut otto giornate per mare alla volta di mezzogiorno, si può navigar per mesi otto dell'anno, cioè da settembre infino per tutto aprile; e poi, dal primo dí di maggio per fino a mezzo agosto, bisogna guardarsi da questa costa, perché fa grandissima fortuna e gran controversia di mare. Ed è da sapere che in questo paese le stagion de' tempi sono contrarie alle nostre, perché quando qui da noi per causa della gran forza del sole tutte le piante si seccano, allora in detto paese le sono verdi e fresche per la grande acqua che vi piove, perché maggio, giugno, luglio e agosto, notte e giorno sempre piove: non che piova continuamente, ma ogni notte e ogni giorno piove, e poco sole si vede in questo tempo. Gli altri sei mesi mai non piove. Alla fine d'aprile si partono dalla costa di Calicut e passano il capo di Cumeri, ed entrano in un'altra navigazione, la quale è secura per questi quattro mesi, e vanno con navilii piccoli per spezie minute.
Il nome delli suoi navilii: alcuni si chiamano zambuchi, e questi sono piani di sotto; alcuni altri che sono fatti al modo nostro, cioè di sotto, e si chiamano ciampane; alcuni altri navilii piccoli si chiamano parao, e sono legni di 10 passa l'uno. Tutti sono d'un pezzo e vanno con remi da canna, e l'arboro è ancor di canna. V'è un'altra sorte di barchette piccole chiamate almadie, e sono pur tutte d'un pezzo. Ancora v'è un'altra sorte di navilii, i quali vanno a vela e remi e sono fatti tutti d'un pezzo, di lunghezza di dodici e tredici passa l'uno, hanno la bocca stretta (non vi possono andar 2 uomini a paro, ma convien andar uno innanzi all'altro) e sono aguzzi da tutte due le bande: i quali navilii si chiamano caturi, e vanno a vela e remi piú che galea o fusta o brigantino.
Questi tali che adoperano simil navilii sono corsari di mare, e questi caturi si fanno ad una isola qui appresso, detta Porcai.


Del palazzo del re di Calicut e del tesoro grande che 'l tiene.

Il palazzo del re è circa un miglio di circuito. Le mura sono molto basse, come dissi di sopra, con tramezzi alle camere bellissimi di legname, intagliati di diavoli di rilievi. Il piano della casa è tutto imbrattato con sterco di vacche per onorificenzia, e ogni parte di questo palazzo val piú di ducati 20. Già vi dissi la cagione che non si possono fondare le muraglie, per rispetto dell'acqua che cavando si trova subito. Non si potria stimare le gioie e perle che porta il re, benché nel tempo mio stava malcontento per rispetto ch'era in guerra col re di Portogallo, e ancora perch'egli avea il mal franzoso, e avealo nella gola. Nondimeno portava tante gioie nell'orecchie e nelle mani, nelle braccia, ne' piedi e nelle gambe, che era cosa mirabile a vedere. Il tesoro suo sono due magazzeni di verghe d'oro e moneta stampata d'oro, le quali dicevano molti Bramini, che sono quelli che hanno la cura del governo e sanno tutti li secreti del re, che non lo portariano cento muli carichi; e dicono che questo tesoro è stato lasciato da 10 o 12 re passati, e hannolo lasciato per li bisogni e fortezza della republica e del suo regno. Dicesi ancora questo re di Calicut aver una cassetta, lunga tre palmi e alta un palmo e mezzo, piena di gioie di piú sorti che valeano prezii inestimabili.


Del pepe, giengevo, mirabolani, che nascono in Calicut.

Nel territorio di Calicut si trovano molti arbori di pepe, e dentro della città ne sono ancora, ma non in molta quantità. Il piede di questi arbori è a modo d'una vite sottile, cioè piantata una pianta appresso qualche altro arbore, perché da se stesso non potria star dritto, sí come la vite. Questo arbore è molto simile e fa come l'edera, che si abbraccia e va tanto in alto quanto è il legno o arbore dove si possi abbrancare. La detta pianta fa gran quantità di rami, li quali sono di duoi o di tre palmi lunghi; le foglie di questi rami sono come quelle di aranci, ma sono piú asciutte, e dal riverso sono piene di vene minute. E per ciascuno di questi rami sono cinque, sei e sette raspi lunghi un poco piú d'un dito di uomo, e sono come è l'uva passa piccola, ma piú assettati, e sono verdi com'è l'agresta. E del mese d'ottobre lo raccolgono cosí verde, e raccogliesi ancora del mese di novembre, e poi lo mettono al sole sopra certe stuore e lo lasciano al sole per tre o quattro giorni, e diventa cosí negro come si vedde quivi da noi, senza farli altra cosa. E dovete sapere che costoro non potano mai e manco zappano questo arboro che produce il pepe.
In questo luoco ancora nasce il zenzero, il quale è una radice, e di queste tal radici alcune se ne trovano di quattro e di otto e dodeci onze l'una: quando la cavano, il piede di detta radice è cerca tre o quattro palmi lungo, ed è fatta in modo d'alcune cannuzze. E quando raccolgono detto zenzero, in quel medesimo luogo pigliano uno occhio della detta radice, che è a modo di un occhio di canna, e piantanlo in quel buco dove hanno cavata quella radice e con quella medesima terra lo cuoprano: in capo dell'anno tornano a raccoglierlo e piantanlo pure al modo predetto. Questa radice nasce in terra rossa e in monte e in piano, come nascono li mirabolani, delli quali qui se ne trova di tutte le sorti: il piede suo è a modo d'un pero mezzano e cargano a modo del pepe.


Di molti frutti che nascono in Calicut e fra gli altri della ciccara, che in la India occidental chiamano pigne, e del melapolanda, che è quello che in Alessandria chiamano muse.

Una sorte di frutti trovai in Calicut che si chiama ciccara: il piede suo è a modo de una pianta grande spinosa, e il frutto è lungo duoi palmi over duoi e mezzo e grosso come la coscia dell'uomo. Questo frutto nasce nel tronco che è in mezzo della pianta, cioè sotto alle frasche e spine, e parte se ne fa a mezzo il piede. Il color del detto frutto è verde, ed è fatto come la pigna, ma il lavoro è piú minuto; e quando comincia a maturare, la scorza vien negra e gialla e non dura troppo dapoi raccolta, che vien fracida. Questo frutto si raccoglie del mese di decembre e rende un odore suavissimo, e quando si mangia par che si mangino buoni melloni moscatelli pieni di succo, e ancora che assomigli ad un persico cotogno ben maturo: e tanta è la dilettazione e suavità nel gusto che par che si mangi d'un favo di mele, e si sente ancora il sapore d'uno arancio molto dolce. Per dentro del detto frutto vi sono alcune spoglie over telette come il pomo granato, e a mio giudicio questo è il miglior frutto che io mangiassi mai e il piú eccellente.
È quivi un altro frutto che si chiama amba; il piede suo si chiama manga. Questo arboro è come un pero, e cargasi di frutti come il pero. È fatta questa amba al modo di una noce delle nostre: quando è il mese di agosto è a quella forma, e quando è matura è gialla e lustra. Questa ha un osso dentro come una mandola secca, ed è questo frutto molto migliore che 'l pruno damasceno; e di questo, quando egli è verde, se ne fa conserva come facciamo noi delle olive, ma sono assai piú perfetti.
Qui si trova un altro frutto a modo d'un mellone, e ha le fette pur a quel modo: e quando si taglia, si trovano dentro tre over quattro grani che paiono uva overo visciole, cosí agri. L'arboro di questo è di altezza d'un arboro di pomo cotogno, e fa la foglia in quel modo. Ed è questo frutto chiamato corcopal, il quale è ottimo da mangiare e perfetto per medicina. Trovai ancora quivi un altro frutto, il quale è proprio come il nespolo, ma è bianco come un pomo: non mi ricordo come si chiami il nome. Un'altra sorte ancora di frutti vi viddi, il qual era come una zucca di colore e lungo duoi palmi, e la piú saporosa da mangiar, perché ha tre dita di polpa, ed è assai migliore che la zucca o il cedro per confettare, ed è una cosa molto singulare: e questo si chiama comolanga e nasce in terra a modo di melloni.
Nasce in questo paese ancora un altro frutto molto singulare, il quale si chiama melapolanda. Questa pianta è alta quanto un uomo o poco piú, e fa quattro over cinque foglie, le quali sono rami e foglie: ciascuna di queste copre un uomo dall'acqua e dal sole. Nel mezzo di questo getta un certo ramo che fa li fiori a modo d'un piede di fave, e poi fa alcuni frutti che sono lunghi mezzo palmo e un palmo, e sono grossi com'è un'asta d'una zannetta. E quando si vuol raccogliere il detto frutto, non aspettano ch'el sia maturo, perché si matura in casa: e uno ramo di questi frutti ne farà dugento vel cerca, e tutti si toccano l'uno con l'altro. Di questi frutti se ne trova di tre sorti, e la prima sorte si chiamano ciancapalon: questi sono una cosa molto cordiale a mangiare; il color suo è un poco giallo e la scorza è molto sottile. La seconda sorte si chiama cadelapolon, e sono molto migliori degli altri; la terza sorte sono tristi. Queste due sorti sopradette sono buone a similitudine delli nostri fichi, ma sono piú perfetti. La pianta di questi frutti produce una volta e poi si secca. La detta pianta tiene sempre intorno al piede cinquanta o sessanta figliuoli, e li padroni pigliano di mano in mano di detti figliuoli e trapiantano, e in capo dell'anno produce il suo frutto. E quando tagliano li detti rami che siano troppo verdi, mettono un poco di calcina sopra li detti frutti per farli maturar presto. E di tali frutti se ne trovano d'ogni tempo dell'anno in grandissima abbondanzia, e se ne dà venti al quattrino. Similmente qui si trovano tutti li giorni dell'anno rose e fiori singularissimi, cioè bianche, rosse e gialle.


Del piú fruttifero arboro che sia al mondo, qual è quello che fa le noci d'India,
che si chiamano cocos.

Un altro arboro vi voglio descrivere, il migliore che sia in tutto il mondo, il quale si chiama tenga ed è fatto a modo di un piede di dattalo. E di questo arboro se ne cavano molte utilità, cioè corde per navigare in mare, panni sottili, quali poi che sono tinti paiono di seta, noci per mangiare, vino, acqua, olio e zuccaro. E delle foglie che cascano, cioè quando casca alcun ramo, se ne coprono le case, e queste tengono l'acqua per mezzo l'anno. Se io non vi dechiarassi in che modo fa tante cose, voi non lo credereste e manco potreste intenderlo. E detto arbore fa le predette noci come saria un ramo di dattali, e ciascun arbore fa cento o dugento di queste noci, sopra le quali vi è una scorza, della quale se ne cava una certa cosa come bombagio o vero lino: e questo si dà acconciare alli maestri, e del fiore di questo lino ne fanno panni sottili come di seta, e di quel grosso lo filano e fanno corde piccole, e di piccole ne fanno grosse, e queste si adoperano per mare. Dell'altra scorza della detta noce se ne fa carbone perfetto. Dapoi la seconda scorza v'è la noce per mangiare: la grossezza del detto frutto è come il dito piccolo della mano, ed è miglior che la mandola. In mezzo della detta noce, come comincia a nascere, cosí si comincia a creare l'acqua dentro; e quando la noce ha la sua perfezione, allora è piena d'acqua, per modo che vi è tal noce che averà duoi bicchieri d'acqua, la quale è perfettissima e suavissima da bere, e quanto alcuna cosa che l'uomo si possi immaginare. Della detta noce se ne fa oglio perfettissimo. E cosí avete da questa sette utilità.
Quando l'arbore è grande, alcuni rami non lasciano che produchin noci, ma gli tagliano alla mità, dandoli una certa sfenditura con un coltello, e poi li mettono sotto una zucca o vaso, dove distilla un certo liquore: e raccogliono fra il dí e la notte mezo boccale, il qual beono, e alcuni lo pongono al fuoco e ne fanno di una, di due e tre cotte, in modo che pare una acquavita, la quale solo ad odorarla, non che a beverla, fa alterar il cervello dell'uomo. E di queste sorti è quel vino che si bee in questi paesi. Di un altro ramo di detto arbore cavano similmente questo sugo e lo fanno venire in zuccaro col fuoco, ma non è molto buono. Il detto arbore sempre ha frutti o verdi o secchi, e produce frutti in cinque anni; e di questi arbori se ne trovan infiniti in 200 miglia di paese e tutti hanno patroni. Per la eccellenzia e bontà di questo arbore, quando li re fanno guerra l'un con l'altro, e che sia cosí crudele che si ammazzino li figliuoli l'uno all'altro, pur alla fine fanno la pace; ma tagliando l'un re all'altro di questi arbori, non gli saria mai in eterno data la pace. E detto arbore vive 30 o 40 anni e molto piú, e nasce in luogo arenoso, e piantasi quella noce, la quale come comincia a germugliare overo a nascere, è necessario che gli uomini ogni sera la vadino a scoprire, acciò che la rugiada della notte li dia sopra, e la mattina a buon'ora poi la tornino a coprire, perché il sole non la trovi cosí scoperta: e a questo modo la cresce e si fa grande arbore. Nel detto paese di Calicut si trova gran quantità di zerzelino, del quale ne fanno oglio perfettissimo.


Del modo che servano nel seminar del riso.

Gli uomini di Calicut, quando vogliono seminar il riso, servano questa usanza: la prima cosa arano la terra con li buoi a modo nostro, e allora che seminano il riso, nel campo, di continuo tengono tutti gli instrumenti della città sonando e faccendo allegrezza, e similmente tengono dieci o ver dodici uomini vestiti da diavoli, e questi con li sonatori fanno gran festa, acciò che 'l diavolo produca assai frutto di quel riso.


Delli medici che visitano gli infermi in Calicut.

Essendo alcuno mercatante (cioè gentile) ammalato, e stia in estremo, vanno alcuni uomini a questo deputati, con gli instrumenti sopradetti e vestiti come diavoli, a visitarlo: e questi si chiamano medici, e vanno a due o tre ore di notte. E li detti portano il fuoco in bocca, e in ciascuna delle mani e de' piedi portano due stampelle di legno che sono alte un passo: e cosí vanno cridando e sonando gli instrumenti, che veramente, se la persona non avesse male, vedendo queste bestie cosí brutte cascaria in terra stramortita. E questi sono li medici che vanno a vedere e visitare l'infermo. E pur quando si sentono lo stomaco ripieno infino alla bocca, pestano tre radici di zenzero e fanno una tazza di sugo e lo bevono, e in tre giorni non hanno piú male alcuno. Sí che vivono proprio come le bestie.


Delli banchieri e cambiatori.

Li cambiatori e li banchieri di Calicut hanno alcuni pesi, cioè bilance, le quali sono tanto piccole che la scatola dove stanno e li pesi insieme non pesano mezza oncia, e sono tanto giusti che tirano un capello di capo. E quando vogliono toccare alcun pezzo d'oro, essi tengono li caratti d'oro come noi e hanno il parangone come noi e toccano pure alla usanza nostra. Quando il parangone è pieno d'oro, tengono una palla di certa composizione la quale è a modo di cera, e con questa palla, quando vogliono vedere se l'oro è buono o tristo, improntano il parangone, e levano via l'oro di detto parangone, e poi guardano in essa palla la bontà dell'oro e dicono: questo è buono e questo è tristo. E quando poi quella palla è piena d'oro, vanno a fonderla e cavano tutto quell'oro che hanno toccato nel parangone. Li detti cambiatori sono sottilissimi nell'arte sua.
Li mercatanti hanno questa usanza quando vogliono vendere o comprare le loro mercanzie, cioè in grosso, che sempre si vendono per mano del sensale. E quando il compratore e il venditore vogliano accordarsi, stanno tutti in un circulo, e il sensale piglia una tovaglia e con una mano la tiene publicamente, e con l'altra mano piglia la mano del venditore, cioè le due dita accanto il dito grosso, e poi copre con la detta tovaglia la man sua e quella del venditore; e toccandosi queste dita l'uno e l'altro, numerano da uno ducato infino a centomila secretamente, senza parlare: "Io voglio tanto e tanto", e in toccare solo le giunture delle dita s'intendono del prezzo, e dicono no o sí, e il sensale risponde no o sí. E quando il sensale ha inteso la volontà del venditore, va al compratore col detto panno e piglia la mano in quel modo che è detto di sopra, e li dice con quel toccare: "Lui ne vuol tanto"; il compratore con il toccar le dita del sensale li dice: "Io voglio darli tanto": e cosí in questo modo fanno il prezzo. Se la mercanzia di che si tratta fra loro fusse spezie, parlano a bahar, il qual bahar pesa libbre 640 alla sottile di Venezia; e una farazola pesa libbre 32 sottile di Venezia, e 20 farazole fanno un bahar.


Come li Poliar e Hitava nutriscono li loro figliuoli.

Le donne di queste due sorti di genti, cioè Poliari e Hitava, lattano i loro figliuoli cerca tre mesi, e poi li danno a mangiare latte di vacca overo di capra. Poi che li hanno empiuto il corpo per forza, senza lavarli il viso né la persona, lo gettano nell'arena, nella quale sta dalla mattina alla sera tutto involto dentro. E perché sono piú negri che d'altro colore, non si conosce se gli è un buffalotto over orsetto, sí che pare una cosa contrafatta, e pare che 'l diavolo li nutrisca. La sera poi la madre li dà il suo cibo. Questi, nutriti e allevati in questo modo, sono li piú destri volteggiatori e corritori che siano al mondo.


Degli animali e uccelli che si trovano in Calicut.

Non mi par di trapassare il dechiararvi le molte sorti d'animali e di uccelli che si ritrovano in Calicut, e massime come sono lioni, porci salvatichi, caprioli, lupi, vacche, buffali, capre ed elefanti (quali però non nascono qui, ma vengono da altri luochi), gran quantità di pavoni salvatichi, pappagalli in grandissima copia, verdi e alcuni pezzati di rosso: e di questi pappagalli ve ne sono tanti che gli è necessario guardare il riso, che detti uccelli non lo mangino; e l'uno di questi pappagalli val duoi quattrini, e cantano benissimo. Viddi ancor qui un'altra sorte di uccelli, li quali si chiamano saru, e cantano meglio che non fanno li pappagalli, ma sono piú piccoli. Qui sono molte altre sorti di uccelli differenti dalli nostri, e nel vero, per un ora la mattina e una la sera, non è tal piacere al mondo quanto è a sentire il canto di questi uccelli, talmente che pare stare in paradiso; e anche per esservi tanta moltitudine di arbori che sono sempre verdi, il che procede per esservi l'aere temperato, di modo che qui non si conosce gran freddo né troppo caldo.
In questo paese nasce gran quantità di gatti maimoni, e vagliono quattro casse l'uno, le qual casse vagliono un quattrin l'una; e danno grandissimo danno a quelli poveri uomini, li quali fanno il vino di quel arbore detto di sopra, che è a modo di dattalo, di qual si cava quel liquor a modo di vino, perché montano in cima di quella noce e bevono quel liquor, e poi riversano la pignatta, spargendo quel che non possono bere.


Delli serpenti che si trovano in Calicut.

Trovasi in questo paese di Calicut una sorte di serpenti, li quali sono cosí grandi e cosí grossi come un gran porco, e hanno la testa molto maggiore e piú brutta che non ha il porco, e hanno quattro piedi, e sono lunghi quattro braccia, e nascono in certi paludi. Dicono questi del paese che non hanno tossico, ma che sono maligni animali e fanno dispiacere alle persone per forza di denti. Qui si trovano tre altre sorti di serpenti, li quali toccando un poco la persona, cioè faccendo sangue, subito casca morto in terra: il che è intravenuto piú volte al tempo mio a molte persone, che furono tocche da questi animali. Delli quali se ne trovano di tre ragioni: la prima sono come aspidi sordi, l'altra son scorzoni, la terza sono maggiori tre volte che il scorzone. E di queste tre sorti ve n'è grandissima quantità, e la causa è questa, perché quando il re di Calicut sa dove sia la stanzia ferma di alcuni di questi brutti animali, per certa vana superstizion, li fa fare una casetta piccola con un solaretto di sopra, per rispetto che l'acqua crescente non gli annieghi. E se alcuna persona ammazzasse uno di questi animali, subito il re lo faria morire come se gli avesse morto un uomo; similmente, se alcuno ammazzasse una vacca, ancora lo faria morire. Dicono costoro che questi serpi sono spiriti di Dio, e che, se non fussero suoi spiriti, non gli averia data tal virtú che, mordendo un poco la persona, subito cascasse morta. E per questo rispetto v'è tanta copia di questi animali, che vanno per tutta la città e conoscono li gentili, li quali non si guardano da essi, e quelli non li fanno mal alcuno. Pur al tempo mio uno di questi serpi entrò una notte in una casa e mordette nove persone, e la mattina tutti furono ritrovati morti e infiati. Quando i detti gentili vanno in qualche viaggio, scontrando alcuni di questi animali, tengono aver buono augurio e che le cose li debbano succeder bene.


De' lumi del re di Calicut, e delle cerimonie che fanno alli morti.

Nella casa del re di Calicut sono molte stanzie e camere, dove ardono infiniti lumi, ma nella sala principal dove sta il re, subito che viene la sera, hanno dieci over dodici vasi fatti a modo d'una fontana, li quali sono di metallo gettato e alti quanto una persona. Ciascuno di questi vasi ha tre luoghi per tener l'olio, alti da terra duoi palmi: e prima un vaso nel quale sta l'olio con stoppini di bambagio accesi intorno intorno, e sopra questo v'è un altro vaso piú stretto pur con li detti lumi, e in cima del vaso secondo ve n'è un altro piú piccolo pur con olio e lumi accesi. Il piè di questo vaso è fatto in triangolo e in ciascuna delle faccie, da piede, stanno tre diavoli di rilievo, e sono molto spaventosi a vederli: questi sono li scudieri che tengono li lumi innanzi al re.

Usa ancora questo re un altro costume, che quando muore uno che sia suo parente, finito che è l'anno del corruccio, manda ad invitare tutti li principali Bramini che sono nel suo regno, e alcuni ancora ne invita di altri paesi, e venuti che sono, fanno per tre giorni grandissimi conviti. Il mangiar loro è risi fatti in piú modi, carne di porco salvatico e di cervo assai, perché sono gran cacciatori. In capo di tre giorni il detto re dà a ciascuno delli Bramini principali tre, quattro e cinque pardai, e poi ogniuno torna a casa sua, e tutti quelli del regno del re si radono la barba per allegrezza.


Come alli 25 di decembre viene gran numero di gente appresso a Calicut a pigliare il perdono.

Appresso a Calicut v'è un tempio in mezzo d'un tanco, cioè in mezzo d'una fossa d'acqua morta, il qual tempio è fatto all'antica con due mani di colonne, come è San Giovanni fonte di Roma, nel qual tempio è uno altare di pietra dove si fa il sacrificio, e infra ciascuna delle colonne del circuito da basso sono alcune navicelle di pietra, le quali sono lunghe duo passi e sono piene d'un certo olio che si chiama enna. Intorno alla ripa del detto tanco v'è grandissima quantità di arbori tutti d'una sorte, né si potriano contar i lumi che a detti arbori sono accesi; sono similmente intorno al detto tempio lumi di olio in grandissima copia. E quando viene il dí di 25 del mese di decembre, tutto il popolo intorno a quindeci giornate, cioè li Naeri e Bramini e altri, vengono a far questo sacrificio per aver questa indulgenzia, e prima che facciano il sacrificio tutti si lavano nel tanco. E poi li Bramini principali del re montano a cavallo delle barchette di pietra sopradette, dove è l'olio, e tutto questo popolo viene alli detti Bramini, li quali a ciascuno ungono la testa di quell'olio; e poi fanno il sacrificio sul detto altare. In capo d'una banda di questo altare sta un grandissimo satanasso con una spaventevol faccia, il qual tutti buttati in terra vanno ad adorare, e poi ciascuno ritorna a casa sua. E in questo tempo la terra è libera e franca per tre giorni: li banditi e malfattori possono venir al perdon molto sicuramente, cioè che non si può far vendetta l'un con l'altro. In verità io non viddi mai in una volta tanta gente congiunta insieme, salvo quando io fui alla Mecca.
Parmi assai a sufficienza avervi dichiarato li costumi e il vivere, la religione e i sacrificii di Calicut; onde, partendomi di qui, descriverrovvi il resto del viaggio mio passo passo, insieme con tutte le occorrenzie in esso accadutemi.

LIBRO TERZO DELL'INDIA

Della città di Caicolon e Colon e di Chail.

Vedendo il mio compagno, chiamato Cazazionor, non poter vender la sua mercanzia per esser disfatto Calicut dal re di Portogallo, perché non v'erano e manco vi venivano li mercatanti che soleano venire (e la cagion che non venivano fu perché 'l re consentitte alli Mori che ammazzassero quarantasei Portoghesi, li quali io viddi morti: e per questa causa il re di Portogallo vi fa di continuo guerra, e ne ha ammazzato e ammazza ogni giorno gran quantità, di sorte che è disfatta grandemente la città, e molti che vi abitavan si sono partiti e andati a star altrove), e però ancor noi ci partimmo, pigliando il nostro cammino per una fiumara, la qual è la piú bella che mai vedessi, e arrivammo ad una città chiamata Caicolon, distante da Calicut cinquanta leghe. Il re di questa città è gentile e non è molto ricco; il vivere, l'abito e i costumi suoi sono ad usanza di Calicut. Qui arrivano molti mercatanti, per rispetto che in questo paese nasce pepe d'assai perfezione. In questa città trovammo alcuni cristiani di quelli di san Tommaso, che sono mercatanti e credono in Cristo come noi, e dicono che ogni tre anni viene uno sacerdote a battezzarli fino di Babilonia. Questi cristiani digiunano e fanno la quaresima e la Pasqua come noi, e hanno tutte quelle solennità e feste de' santi che avemo noi, ma dicono la messa come i Greci, e nominano e accettano quattro nomi di santi sopra tutti gli altri: san Giovanni, san Iacopo, san Mattia e san Tommaso. È la detta città alla medesima maniera di Calicut, quanto all'aere temperato, sito della region e costumi delle genti.
In termine di tre giorni noi partimmo di qui, e andammo ad un'altra città chiamata Colon, distante dalla sopradetta venti miglia. Il re di questa città è gentile e molto possente, e tiene ventimila uomini a cavallo e molti arcieri, e di continuo sta in guerra con altri re. Questa terra ha un bel porto appresso alla marina; in essa non nasce grano, ma vi nascono ben tutti li frutti al modo di Calicut e pepe in assai copia. Il colore di questa gente, l'abito, il vivere e costumi pur come in Calicut. In quel tempo il re di questa città era fatto amico del re di Portogallo, e vedendo che 'l stava con altri re in guerra, non ci parve tempo di dimorar qui, onde pigliammo il cammin nostro per mare e andammo ad una città chiamata Chail, pur del re. All'incontro di Colon, vedemmo uomini pescar le perle in mare, come già vi dichiarai che facevano in Ormus.


Di Cholmendel, città dell'India.

Passando piú avanti, arrivammo ad una città chiamata Cholmendel, la qual è terra di marina ed è distante da Colon sette giornate per mare, e piú e manco secondo il vento. Questa città è grandissima e non è murata intorno, ed è sottoposta al re di Narsinga; è posta a riscontro dell'isola di Zeilan, passato il capo di Cumeri. In questa terra si raccoglie gran quantità di riso, ed è scala di grandissimi paesi, e quivi sono molti mercatanti mori, i quali vanno e vengono per mercanzie. Qui non nascono spezie di sorte alcuna, ma frutti assai ad usanza di Calicut. Ritrovai in questa terra alcuni cristiani, che mi dissero che 'l corpo di san Tommaso era dodeci miglia lontano di lí ed era in guardia di loro cristiani, quali non potevano piú vivere in quel paese dapoi la venuta del re di Portogallo, perché il detto re ha morti molti Mori di quel paese, il qual tutto trema per paura di Portoghesi: e però li detti poveri cristiani non ponno piú viver qui, ma sono scacciati e ammazzati secretamente, acciò non pervenga ad orecchie del re di Narsinga, il qual è grandissimo amico de' cristiani e massime di Portoghesi. Ancora mi dissero d'uno grandissimo miracolo che i loro maggiori gli avean detto, come già cinquanta anni li Mori ebbero quistione con li cristiani e di una parte e l'altra ne furono feriti, ma un cristiano fra gli altri fu molto ferito in un braccio, ed egli andò alla sepultura di san Tommaso, e con quel braccio ferito toccò la sepoltura del detto santo e subito fu liberato. E che da quel tempo in qua il re di Narsinga sempre ha voluto bene alli cristiani.
Il mio compagno spacciò quivi alcune delle sue mercanzie, e perché si stava in guerra col re di Tarnassari, non stemmo se non alcuni pochi giorni qui, e poi pigliammo un navilio con alcuni altri mercatanti, la qual sorte di navilii si chiamano chiampane, che sono piane di sotto e dimandano poca acqua e portano roba assai. E passammo un golfo di dodeci over quindeci leghe, dove avemmo grandissimo pericolo, perché vi sono basse e scogli assai; pur arrivammo ad una isola chiamata Zeilan, la qual volta intorno cerca mille miglia, per relazion degli abitatori di essa.


Di Zeilan, dove nascono le gioie.

In questa isola di Zeilan sono quattro re, tutti gentili. Non vi scrivo le cose della detta isola tutte perché, essendo questi re in grandissima guerra tra loro, non potemmo star lí molto, e manco vedere o intendere le cose di quella. Pur, dimorativi alcuni pochi giorni, vedemmo quello che intenderete, e prima grandissima quantità di elefanti, quali nascono lí. E intendemmo che si truovan rubini duoi miglia appresso alla marina, dov'è una montagna grandissima e molto lunga, al piè della quale si truovano detti rubini. E quando uno mercante vuol trovar di queste gioie, bisogna parlar prima al re e comprar un braccio di detta terra per ogni verso, il qual braccio si chiama un molan, e compralo per cinque ducati. E quando poi cava detta terra, vi sta un uomo di continuo ad instanzia del re, e ritrovandosi alcune gioie che passino dieci caratti, il re le vuol per sé e tutto il resto glielo lascia franco. Quivi ancora appresso al detto monte, dov'è una grandissima fiumara, nasce molta quantità di granate, zafiri, iacinti e topacii. Nascono in questa isola li miglior frutti che mai abbia visto, e massime certi carciofoli migliori che li nostri, aranzi dolci, li migliori che siano al mondo, e altri frutti assai ad usanza di Calicut, ma molto piú perfetti.


Dell'arboro della cannella, e del monte dove Adam stette a far penitenzia, e delli re di Zeilan e delli costumi e usanze loro.

L'arboro della cannella è proprio come il lauro, massime la foglia, e fa alcuni grani come il lauro, ma sono piú piccoli e piú bianchi. La detta cannella, over cinnamomo, è scorza di detto arboro, in questo modo: ogni tre anni tagliano li rami del detto arboro, poi levano la scorza di que' rami, ma il piede non lo tagliano per niente. Di questi arbori ve ne sono in grandissima quantità, e quando raccolgono la cannella, non ha allora quella perfezione che ha di lí ad un mese.
Un Moro mercante ci disse che in cima di quella grandissima montagna è una caverna, alla quale una volta l'anno andavano tutti gli uomini di quel paese a far orazione, per rispetto che dicono che 'l nostro primo padre Adam stette ivi dentro a piagnere e far penitenzia dapoi che 'l peccò, e che Iddio li perdonò: e che ancora si veggono le pedate de' suoi piedi, e che sono cerca duoi palmi lunghe.
In questo paese non nasce riso, ma li viene di terra ferma; li re di questa isola sono tributarii del re di Narsinga, per rispetto del riso che li viene di terra ferma. Quivi è buonissimo aere, e le genti sono di color lionato scuro, e non vi è troppo caldo né troppo freddo. L'abito suo è all'apostolica, portano certi panni di bombagio overo di seta e vanno pur scalzi. È posta questa isola lontana dalla linea equinoziale per sette in otto gradi, e gli abitanti suoi non sono molto bellicosi. Qui non si usa artiglierie, ma hanno alcune lance e spade, le qual lance sono di canna, e con quelle combattono fra loro: ma non se ne ammazzano troppo di essi, perché sono vili. Qui sono rose e fiori di ogni sorte tutto il tempo dell'anno, e le genti scampano piú longamente di noi.
Essendo una sera nella nostra nave, venne uno uomo da parte del re al mio compagno e disse che li portasse li suoi coralli e zaffarano, che dell'uno e l'altro ne avea gran quantità. Udendo queste parole, uno mercatante di detta isola, il quale era moro, gli disse secretamente: "Non andate dal re, perché vi pagherà al modo suo le robbe vostre". E questo disse con malizia, a fine che 'l mio compagno si partisse, perch'egli avea la detta mercanzia. Pur fu risposto al messo del re che 'l giorno seguente andaria a sua signoria, e la mattina prese un navilio e per forza di remi passammo in terra ferma.


Di Paleachate, terra dell'India.

Arrivammo ad una terra la qual si chiama Paleachate in tempo di tre giorni, la qual è sottoposta al re di Narsinga. Questa terra è di grandissimo traffico di mercanzie, e massime di gioie, perché qui vengono da Zeilan e da Pegu; vi stanno ancora molti gran mercatanti mori d'ogni sorte di speziarie. Noi alloggiammo in casa d'un dei detti mercatanti, e li dicemmo donde venivamo, e che noi avevamo molti coralli da vendere e zaffarano e molto velluto figurato e molti coltelli: il detto mercatante, intendendo noi avere tal mercanzie, ne prese gran piacere. Questa terra è abbondantissima d'ogni cosa a usanza d'India, ma non vi nasce grano; di riso che raccogliono ne hanno grande abbondanzia. La legge, il viver, l'abito e i costumi sono ad usanza di Calicut, e sono genti bellicose, ancora che non abbiano artigliaria alcuna. E perché questa terra era in gran guerra col re di Tarnassari, a noi non parve di dimorar molto tempo, ma stati che fummo certi pochi giorni, pigliammo poi il nostro cammino verso la città di Tarnassari, ch'è distante cento miglia di lí, alla qual arrivammo in quattordici giorni.


Di Tarnassari, città d'India.

La città di Tarnassari è posta presso al mare, ed è terra piana e ben murata, e ha un buon porto, cioè una fiumara, dalla banda verso tramontana. Il re di questa città è gentile ed è potentissimo signore, e di continuo combatte col re di Narsinga e col re di Banghalla. E ha costui cento elefanti armati, i quali sono maggiori che mai vedessi, e tiene di continuo centomila uomini, parte a piedi e parte a cavallo, per combattere. L'armatura sua sono spade piccole e alcune sorti di rotelle, delle quali alcune son fatte di scorze di testuggini e alcune ad usanza di Calicut; hanno gran quantità di archi e lance di canna, e alcune ancora di legno, e quando vanno in guerra portano addosso una vesta piena di bombagio, molto forte imbottita. Le case di questa città sono ben murate; il sito suo è bonissimo ad usanza de' cristiani, e vi nasce ancora di buon grano e bombagio. Quivi ancora si fa seta in grandissima quantità; verzino vi si truova assai e frutti in gran copia, e alcuni a modo di pomi e peri nostri, e aranci, limoni, cedri e zucche abbondantemente. Qui si veggono giardini bellissimi, con molte gentilezze dentro.


Degli animali domestichi e salvatichi di Tarnassari.

In questo paese di Tarnassari sono buoi, vacche, pecore e capre in gran quantità, porci salvatichi, cervi, caprioli, lupi, gatti che fanno il zibetto, lioni, pavoni in gran moltitudine, falconi, astori, pappagalli bianchi e di un'altra sorte, che sono di sette colori bellissimi. Qui sono lepori, starne non al modo nostro. V'è ancora qui un'altra sorte di uccelli pur di rapina, assai piú grandi che non è una aquila, del becco de' quali, cioè della parte di sopra, se ne fanno manichi di spada e di coltelli: il qual becco è giallo e rosso, cosa molto bella da vedere; il color del detto uccello è negro e rosso, e ha alcuna penna bianca. Qui nascono le maggior galline e galli che mai abbia visto, in modo che una di quelle è maggior che tre delle nostre.
In questa terra in pochi giorni avessemo gran piacere di alcune cose che vedemmo, e massime che ogni giorno, nella strada dove stanno li mercatanti mori, si fanno combattere alcuni galli, e li patroni di quelli galli giuocano cento ducati a chi meglio combatterà. E vedemmo combattere a duoi cinque ore di continuo, in modo che alla fine tutti duoi rimason morti. Qui ancora si truova una sorte di capre molto maggior delle nostre, e sono assai piú belle, le quali fanno sempre quattro capretti ad un parto. Si vendono qui dieci e dodeci castrati grandi buoni per uno ducato; vi si truova ancora un altra sorte di castrati, li quali hanno le corna a modo di un daino: questi sono maggiori delli nostri e combattono terribilmente. Qui sono buffali molto piú deformi delli nostri, ed evvi gran quantità di pesci buoni ad usanza nostra; viddi pur qui un osso di pesce il qual passava piú di dieci cantara
Quanto al vivere di questa città, li gentili mangiano d'ogni carne, eccetto bovina, e mangiano in terra senza tovaglia in alcuni vasi di legno bellissimi; il ber loro è acqua, inzuccarata chi può. Il dormir loro è alto da terra, in buoni letti di bombagio e coperte di seta o di bombagio. L'abito di costoro è questo: vanno all'apostolica, con un panno imbottito di bombagio overo di seta; alcuni mercatanti portano bellissime camicie di seta overo di bombagio. Generalmente non portano niente in capo, eccetto li Bramini, li quali portano una berretta di seta o vero ciambellotto, la quale è lunga duoi palmi. Nella detta berretta portano una cosa fatta a modo d'una ghianda, la quale è lavorata tutta intorno d'oro; portano ancora due stringhe di seta larghe piú di duoi dita, le quali gli pendono sopra il collo, e portano l'orecchie piene di gioie, e in dita non ve ne portano alcuna. Il colore di detta generazione è mezzo bianco, perché qui è l'aere un poco piú freddo che non è in Calicut, e la stagione è ad usanza nostra, e similmente le raccolte.


Come il re fa svirginare la sua moglie, e cosí tutti gli altri gentili della città.

Il re di detta città non fa sverginar la sua moglie alli Bramini come fa il re di Calicut, anzi la fa svirginare ad uomini bianchi, o siano cristiani o mori, pur che non siano gentili. I quali gentili ancor loro, innanzi che menino la sposa a casa sua, trovano un uomo bianco, sia di che lingua si voglia, e lo menano a casa loro pur a questo effetto, per far svirginare la moglie. E questo intravenne a noi quando arrivammo alla detta città. Per buona ventura scontrammo tre o 4 mercatanti, li quali cominciorono a parlare col mio compagno in questo modo: "Amico, sete voi forestiero?" Egli rispose: "Sí". Dissero li mercatanti: "Quanti giorni sono che sete in questa terra?" Gli rispondemmo: "Sono quattro giorni che noi siamo venuti". E cosí uno di quelli mercatanti disse: "Venite a casa mia, che noi siamo grandi amici di forestieri"; e noi udendo questo andammo con lui. Giunti che fummo a casa sua, egli ci dette da far collazione e poi ci disse: "Amici miei, da qui a venti giorni voglio menar la donna mia, e uno di voi dormirà con lei la prima notte e me la svirginerà". Intendendo noi tal cosa, rimanemmo tutti vergognosi; disse allora il nostro turcimanno: "Non abbiate vergogna, che questa è l'usanza della terra". Udendo questo, il mio compagno disse: "Non ci faccino altro male, che di questo noi ci contentaremo". Pur pensavamo d'esser dileggiati. Il mercatante ci cognobbe che stavamo cosí sospesi, e disse: "O amici, non abbiate maninconia, che in questa terra si usa cosí". Cognoscendo al fine noi che cosí era costume di questa terra, sí come ci affermava uno il quale era in nostra compagnia, e ne diceva che non avessimo paura, il mio compagno disse al mercatante che era contento di durar questa fatica. Qual gli disse: "Io voglio che stiate in casa mia e che voi e li compagni e robbe vostre alloggiate qui meco, infino a tanto che menerò la donna". Finalmente, dopo il recusar nostro, per le tante carezze che ci faceva costui fummo astretti, 5 che eravamo, insieme con tutte le cose nostre, alloggiare in casa sua. Di lí a quindici giorni, questo mercatante menò la sposa e il compagno mio la prima notte dormitte con essa, la qual era una fanciulla bellissima di 15 anni, e servitte il mercatante di quanto gli avea richiesto. Ma dapoi la prima notte era pericolo della vita, e alla donna e a lui, se vi fusse tornato piú: ben è vero che le donne nel suo intrinseco ariano voluto che la prima notte fusse durata un mese. Li mercatanti, poi che tal servigio ebbero ricevuto da noi, volentieri ci averian tenuto quattro e cinque mesi a spese loro, sí perché la robba val pochi danari, sí ancora perché sono liberalissimi e molto piacevoli uomini; pur spesso eravamo richiesti a simil servigi.


Come si servano li corpi morti in questa città.

Li Bramini tutti e li re dopo la morte sua si bruciano, e in quel tempo fanno un solenne sacrificio al diavolo, e poi servano quella cenere in certi vasi di terra sottili e invetriati, li quali vasi hanno la bocca stretta come una scodella piccola: e questo vaso con la cenere del corpo bruciato sotterrano poi nelle loro case. E quando fanno il detto sacrificio, lo fanno sotto alcuni arbori al modo di Calicut, e bruciando il corpo morto, accendono un fuoco delle piú odoriferi cose che trovar si possono, com'è legno d'aloe, belzuí, sandalo, verzino, storace, ambra, incenso e alcuna bella grampa di coralli, le qual cose mettono sopra il corpo: il quale mentre che si brucia, tutti li sonatori della città quivi suonano con diversi instrumenti, e similmente vi sono quindeci o venti uomini vestiti a modo di diavoli, che fanno festa grandissima. E qui presente sta sempre la sua moglie, e non altra femina alcuna, faccendo grandissimi pianti e battendosi il petto. E questo si fa ad una o vero due ore di notte.


Come si brucia la donna viva dopo la morte del suo marito; e della prova che fa un giovene per dar ad intender che ama la sua innamorata.

In questa città di Tarnassari, poi che sono passati li quindeci giorni dapoi la morte del marito, la moglie sua fa un convito a tutti li suoi parenti e a tutti quelli del marito, e poi va con tutto il parentado dove fu bruciato il marito, pur a quella ora di notte. La detta donna si mette addosso tutte le sue gioie e altri lavori d'oro, tanto quanto val la robba sua. Dipoi li parenti suoi fanno far un pozzo alto quanto è alta la persona, e intorno al pozzo mettono quattro o cinque canne, intorno alle quali mettono un panno di seta, e nel detto pozzo fanno un fuoco delle sopradette cose che furono fatte al marito. E poi la detta donna, fornito ch'è il convito, mangia assai bietole, e ne mangia tante che la fanno uscire del sentimento. E vi sono di continuo li sonatori della città, che suonano con tutti gl'instrumenti, e sonvi ancora li sopradetti uomini vestiti da diavoli, li quali portano il fuoco in bocca, come già vi dissi in Calicut. E similmente fanno il sacrificio al Deumo, e poi la detta donna va molte volte in su e in giú ballando con le altre donne per quel luogo, e molte fiate si va a raccomandare alli detti uomini vestiti da diavoli, e gli dice che prieghino il Deumo che la voglia accettare per sua: e qui alla presenzia v'è gran quantità di donne, le quali sono sue parenti. Non crediate però che costei stia di mala voglia, anzi pare a lei che allora allora sia portata in cielo, e a qual modo volontarosamente se ne va correndo con furia, e dà delle mani nel panno predetto, e gettasi in mezzo di quel fuoco. E subito li parenti piú congiunti le danno addosso con bastoni e con alcune palle di pegola, e questo fanno solo a fine che piú presto muoia. E non faccendo questo, la detta donna saria tenuta fra loro come a noi una publica meretrice, e li parenti suoi la fariano morire. E in questo luogo, quando si fa tal cosa, sempre vi sta il re presente, imperoché chi fa tal morte sono li piú gentili della terra, e non la fanno cosí tutti in generale.

Un altro costume poco manco orrendo del predetto ho veduto in questa città di Tarnassari. Sarà un giovane che parlerà con una donna di amore, e le vorrà dar ad intendere che con tutto il cuore le vuol bene e che non è cosa al mondo che per lei non facesse: e stando in questo ragionamento, piglierà una pezza ben bagnata nell'olio, e appicciali dentro il fuoco e se la pone sopra il braccio a carne nuda, e mentre che quella brucia, egli sta a parlare quietamente con quella donna e senza una minima perturbazione, non si curando che s'abbruci il braccio, per dimostrar a colei che gli vuol bene e che per lei è apparecchiato a fare ogni gran cosa.


Della giustizia che si osserva in Tarnassari e di molti altri costumi.

Chi ammazza altri in questo paese, lui è morto alla usanza di Calicut. Del dar poi e dell'avere, bisogna che appara per scrittura overo per testimonio, e lo scriver loro è in carta come la nostra, e non in foglio d'arboro come in Calicut: poi vanno al governatore della città, il qual fa ragion sommaria. Ma pur, quando muore alcun mercatante forestiero che non abbia moglie o figliuoli, non può lasciar la robba sua a chi li piace, perché 'l re vuol esser lui erede. E in questa terra, cioè li nativi di lí, cominciando dal re, dapoi la morte sua il figliuolo riman erede. E quando muore alcun mercatante moro, si fa grandissima spesa in cose odorifere per conservare quel corpo, qual mettono in una cassa di legno e poi la sotterrano, ponendo la testa verso la Mecca, che viene ad esser verso ponente. E avendo il morto figliuoli, rimangono eredi.


Delli navilii che usano in Tarnassari.

Hanno queste genti in uso loro grandissimi navilii di piú sorti, delli quali una parte sono fatti piani di sotto, perché quelli di tal sorte vanno in alcuni luoghi dove è poca acqua; un'altra sorte sono fatti con la pruova dinanzi e di drieto, e portano duoi timoni e duoi arbori, e sono senza coperta. V'è ancora un'altra sorte di navi grandi, le quali si chiamano giunchi, e queste sono di mille botte l'una, sopra le quali portano alcuni navilii piccoli, per poter andar ad una città chiamata Malacca, e vi vanno con que' navilii piccoli per le spezie minute, come intenderete quando sarà tempo.


Della città Banghalla, e quanto è distante da Tarnassari, e delle mercanzie che in quella si trovano.

Torniamo al mio compagno, ch'egli e io avevamo desiderio di veder piú avanti. Dapoi alquanti giorni che fummo stati in questa città, stracchi già di simil servizio che disopra avete inteso, e vendute alcune parti delle nostre mercanzie, pigliammo il cammino verso la città di Banghalla, la quale è distante da Tarnassari settecento miglia, alla quale noi arrivammo in undeci giornate per mare. Questa città è una delle migliori che ancora abbia visto e ha un grandissimo reame. Il soldano di questo luogo è moro e fa dugentomila uomini da combattere a piedi e a cavallo, e sono tutti maumettani, e combatte di continuo col re di Narsinga. Questo reame è il piú abbondante di grano, di carni d'ogni sorte, di gran quantità di zuccari, similmente di zenzero e di molta copia di bombagio, piú che terra del mondo, e qui sono i piú ricchi mercatanti che mai abbia trovato. Si carica in questa terra ogni anno cinquanta navilii di panni di bombagio e di seta, li quali panni sono questi, cioè bairami, namone, lizari, ciantari, doazar e sinabaffi: questi tali panni vanno per tutta la Turchia, per la Soria e per la Persia, per l'Arabia Felice e per tutta l'India. Sono ancora quivi grandissimi mercatanti di gioie, le quali vengono d'altri paesi.


Di alcuni mercatanti cristiani in Banghalla.

Trovammo ancora qui alcuni mercatanti cristiani, che dicevano esser d'una città chiamata Sarnau, li quali avevano portato a vender panni di seta, legno d'aloe, verzino e muschio, li quali dicevano che nel paese suo erano molti signori pur cristiani, ma sono sottoposti al gran cane del Cataio. L'abito di questi cristiani era veste di ciambellotto, fatte con falde, e le maniche erano imbottite di bombagio, e in testa portavano una berretta lunga un palmo e mezzo, fatta di panno rosso. E questi tali sono bianchi come noi e confessano esser cristiani, e credono nella Trinità e similmente nelli dodeci apostoli, negli evangelisti, e ancora hanno il battesimo con acqua; ma loro scrivono al contrario di noi, cioè al modo di Armenia. E dicevano guardare la natività e passione di Cristo, e facevano la nostra quaresima e molte altre vigilie infra l'anno. Questi cristiani non portano scarpe, ma portano alcuni calzoni di seta fatti ad usanza di marinari, li quali calzoni sono tutti pieni di gioie, e nelle mani portano molte gioie. Costoro mangiano in tavola ad usanza nostra, e mangiano d'ogni sorte di carne. Dicevano ancora questi che alli confini de' Rumi, cioè del gran Turco, vi sono grandissimi re cristiani
Dopo il molto ragionare con questi, alla fine il mio compagno mostrò loro la mercanzia sua, fra la quale v'erano certe belle grampe e grandi di coralli. Visto ch'ebbero quelle grampe, ne dissero che se volevamo andare ad una città, dove loro ne menariano, che li bastava l'animo farne avere diecimila ducati per quelle, overo tanti rubini che in Turchia valeriano centomila ducati. Rispose il mio compagno ch'era molto contento, pur che si partissero presto de lí. Dissero li cristiani: "Di qui a duoi giorni si parte una nave, la quale va alla volta di Pegu, e noi abbiamo ad andare con essa. Se voi volete venire, vi condurremo volentieri". Udendo noi questo, ci mettemmo in ordine e montammo in nave con li detti cristiani e con alcuni altri mercatanti persiani. E perché avemmo notizia in questa città che quelli cristiani erano fidelissimi, prendemmo grandissima amicizia con loro; ma innanzi la partita nostra di Banghalla, vendemmo tutto il resto della mercanzia salvo li coralli e il zaffarano e due pezze di rosato di Fiorenza.
Lasciamo questa città, la qual credo che sia la migliore del mondo, cioè per vivere. Nella qual città la sorte delli panni che avete inteso di sopra non li filano le donne, ma li filano e tesseno gli uomini. Noi si partimmo di qui con li detti cristiani e andammo alla volta della detta città, che si chiama Pegu, distante da Banghalla cerca mille miglia; infra il qual viaggio passammo un colfo verso mezzogiorno, e cosí arrivammo alla città di Pegu.


Di Pegu, città d'India.

La città di Pegu è in terra ferma e appresso il mare. A man manca di questa, cioè verso levante, è una bellissima fiumara, per la quale vanno e vengono molti navilii. Il re di detta città è gentile. La fede, i costumi, il vivere e l'abito sono ad usanza di Tarnassari, ma del colore sono alquanto piú bianchi, e qui ancora l'aere è alquanto piú freddo; le stagioni loro sono al modo nostro. Questa città è murata e ha buone case e palazzi fatti di pietra con calcina. Il re è potentissimo d'uomini da piede e da cavallo, e tiene con lui piú di mille cristiani del paese che disopra è stata fatta menzione; dà a ciascuno per soldo 6 pardai d'oro al mese e le spese. In questo paese è grande abbondanzia di grano, di carne d'ogni sorte, di frutti a usanza di Calicut. Non hanno costoro troppi elefanti, ma di tutti gli altri animali sono abbondanti; hanno ancora di tutte le sorti di uccelli che si truovano in Calicut, ma qui sono li piú belli e li miglior pappagalli che mai abbia visto. Si truovano qui in gran quantità legnami lunghi, e li piú grossi credo che sia possibile a trovare; similmente non so se al mondo si trovino le piú grosse canne di quelle che qui si trovano, delle quali ne viddi alcuna che veramente era grossa quanto uno barile. Sono in questo paese grandissima copia di gatti di zibetto, delli quali se ne danno 3 o 4 al ducato. Le mercanzie di costoro sono solamente gioie, cioè rubini, li quali vengono da un'altra città verso levante chiamata Capellan, distante da questa 30 giornate: non però ch'io l'abbia vista, ma per relazion di mercatanti. Sappiate che in detta città vale piú un diamante e perle grosse che non vagliono qui da noi, e similmente un smeraldo.
Quando arrivammo a questa terra, il re era 15 giornate lontano di lí a combattere con un altro, il qual si chiama re di Ava. Vedendo noi questo, deliberammo andar a trovar il re dove era, per darli quelli coralli, e cosí partimmo di qui con un navilio tutto d'un pezzo e lungo piú di quindeci overo sedeci passi; li remi di questo navilio erano tutti di canna. Il modo veramente come siano fatti è questo: dove il remo piglia l'acqua è sfesso, e vi mettono una tavola cucita di corde, per modo ch'el detto navilio andava piú forte che non va un brigantino; l'arboro suo era una canna grossa come un barile dove si mettono le alice. Noi arrivammo in tre giornate ad uno villaggio, dove trovammo certi mercatanti li quali non avevano potuto entrare nella detta città di Ava, per rispetto della guerra. Intendendo noi questo, insieme con loro tornammo a Pegu. De lí a cinque giorni tornò il re alla detta città, il quale aveva avuto vettoria del suo nimico. Il secondo giorno dapoi ritornato il re, li nostri compagni cristiani ne menorono a parlare con lui.


L'abito del re di Pegu, e della liberalità sua che gli usò in comprar alcuni coralli.

Non crediate che 'l re di Pegu stia in tanta riputazione come sta il re di Calicut, anzi è tanto umano e domestico che un fanciullo li potria parlare. Porta piú pietre preziose e massimamente rubini adosso che non vale una città grandissima, conciosiacosaché ve ne siano in tutte le dita de' piedi, e nelle gambe porta alcuni manigli d'oro grossi, tutti pieni di bellissimi rubini e perle. Similmente le braccia e le dita delle mani tutte sono piene, le orecchie pendono mezzo palmo per il contrapeso di tanti gioie che vi sono attaccate, per modo che, vedendo la persona del re al lume di notte, luce che pare un sole.
Li detti cristiani parlorono con lui e li dissero della mercanzia nostra; il re li rispose che tornassimo a lui passato il dí seguente, perché avea da far sacrificio al diavolo per la vettoria conseguita. Passato il detto tempo, subito che ebbe mangiato, il re mandò per li detti cristiani e per il compagno mio, che li portasse la sua mercanzia. Questo re, veduta tanta bellezza di coralli, rimase stupefatto e fu molto contento, perché veramente, infra gli altri coralli, ve n'erano due branche che mai non andorono in India le simili. Dimandò il re che gente eravamo; risposero li cristiani: "Signore, questi sono Persiani". Disse il re al turcimanno: "Dimandagli se vogliono vendere questa roba". Il mio compagno rispose che la roba era al comando di sua signoria. Allora il re cominciò a dire che era stato duoi anni in guerra col re di Ava e che per questo rispetto non si trovava danari, ma che, se volevamo barattar in tanti rubini, che 'l ne contentaria molto bene. Li facemmo dire per quei cristiani che non volevamo altra cosa da lui salvo l'amicizia sua, e che pigliasse la roba e facesse quanto li piaceva. Li cristiani gli riferirono quanto li aveva imposto il compagno, con dire al re che pigliasse li coralli senza danari e senza gioie. Intendendo egli questa liberalità, rispose: "Io so ben che li Persiani sono liberalissimi, ma non viddi mai un tanto liberale quanto è costui". E giurò per Dio e per il diavolo che 'l voleva vedere chi saria piú liberale, o egli o il Persiano, e comandò subito ad un suo schiavo che portasse una certa cassetta, la qual era lunga e larga duoi palmi, lavorata d'oro intorno intorno, ed era piena di rubini dentro e fuori. E aperta che l'ebbe, vi stavano sei tramezzate stanzie, tutte piene di diversi rubini grandi e piccoli, finissimi, e posela innanzi a noi, dicendo che pigliassemo quelli che volevamo. Rispose il mio compagno: "O signor benigno, tu mi usi tanta gentilezza che, per la fede ch'io porto a Macometto, io ti fo un presente di tutta questa roba; e sappi, signore, ch'io non vo per il mondo per acquistar roba, ma solo per veder varie genti e varii costumi". Rispose il re: "Io non ti posso vincere di liberalità, ma piglia questo ch'io ti do". E cosí pigliò un buon pugno di rubini per ciascuna di quelle stanzie della cassetta e gliene donò: questi rubini potevano esser cerca dugento; e dandogliene gli disse: "Piglia questi, per la liberalità che mi hai usato". E similmente donò alli detti cristiani duoi rubini per ciascuno, li quali furono stimati mille ducati; e quelli del mio compagno furono stimati cerca centomila ducati, onde a questo si può considerare costui essere il piú liberale re che sia nel mondo. E ha ogni anno cerca un milion d'oro di rendita, e questo perché nel suo paese si trova molta lacca, molto sandolo, assai verzino, bombagio e seta in gran quantità: e tutte le sue entrate dona a' soldati. Le genti in questo paese sono molto lussuriose.
Passati alquanti giorni, li detti cristiani pigliorono licenzia per loro e per noi. Il re comandò che ci fusse data una stanzia fornita di ciò che bisognava, insino a tanto che noi volevamo star lí: e cosí fu fatto. Noi stemmo in detta stanzia cinque giorni. In questo tempo venne nuova ch'el re Ava veniva con grande esercito per far guerra con lui, il quale, intendendo questo, volse andar a trovarlo alla metà del cammino con molta gente a cavallo e a piedi. Il dí dipoi vedemmo abbruciare due donne vive volontariamente, in quel modo ch'io vi dichiarai in Tarnassari.


Della città Malacha e di Gaza fiumara, che alcuni pensano sia Ganges, e della inumanità di quegli uomini.

L'altro giorno montammo su una nave e andammo ad una città chiamata Malacha, qual è posta alla volta di sirocco levante: e vi arrivammo in otto giorni. Appresso alla detta città trovammo una grandissima fiumara, della quale mai non vedemmo la maggiore, e chiamasi Gaza, e mostra esser larga piú di quindeci miglia. E a riscontro alla detta fiumara è una grandissima isola chiamata Sumatra: dicono gli abitatori di questa isola ch'ella volta intorno quattromila e cinquecento miglia; quando sarà tempo vi dirò della sua condizione.
Arrivati che fummo a Malacha, subito fummo appresentati al soldano, il qual è moro, e similmente tutto il suo regno. La detta città è in terra ferma e paga tributo al re delle Cine, il qual fece edificar questa terra già cerca settanta anni, per esser ivi buon porto, il qual è il principale che sia nel mare Oceano: e veramente credo che qui arrivano piú navilii che in terra del mondo, e massime perché qui vengono tutte le sorti di spezie e altre mercanzie assaissime. Questo paese non è molto fertile: pur vi nasce grano, carne, poche legne, uccelli al modo di Calicut. Qui si trova gran quantità di sandolo e di stagno; vi sono ancora elefanti assai, cavalli, pecore, vacche e buffali, leopardi e pavoni in molta copia, frutti pochi ad usanza di Zeilam. Non bisogna far traffico qui di cosa alcuna, salvo che di speziarie e panni di seta. Queste genti sono di colore olivastro e portano i capelli longhi; l'abito suo è al modo del Cairo. Hanno costoro il viso largo, l'occhio tondo, il naso ammaccato. Qui non si può andar per la terra come è notte, perché si ammazzano a modo di cani, e tutti li mercatanti che arrivano qui vanno a dormire nelli loro navilii. Gli abitatori di questa città sono di nazione e origine di quelli della Giava. Il re tiene un governatore per far ragione a' forestieri, ma quelli della terra si fan ragione a posta loro, e sono la peggior generazione e dei piú pessimi costumi che sia credo al mondo; e sono tanto superbi e crudeli che, se alcuna volta il re gli vuol punire, essi dicono che disabiteranno la terra, perché sono uomini di mare e facilmente passariano sopra qualche isola. L'aere quivi è assai temperato.
Li cristiani ch'erano in nostra compagnia ci fecero intendere che qui non era troppo da stare, per esser cosí mala gente: per tanto pigliammo un giunco e andammo alla volta di Sumatra, ad una città chiamata Pedir, la qual è distante da terra ferma ottanta leghe in cerca.


Di Sumatra isola, la qual anticamente si chiamava Taprobana, e di Pedir, porto e città in Sumatra.

In questa terra dicono che v'è il miglior porto di tutta l'isola, qual già vi dissi che volge intorno 4 mila e cinquecento miglia. Al parer mio (come ancor molti dicono) credo che sia la isola Taprobana, nella quale sono tre re di corona, li quali sono gentili: e la fede loro, il viver, l'abito e i costumi sono propriamente come in Tarnassari, e cosí si bruciano le donne vive. Gli abitanti in questa isola sono di colore quasi bianchi, e hanno il viso largo, gli occhi tondi e verdi, i capelli lunghi, il naso largo ammaccato, e piccoli di statura. Qui si fa grandissima giustizia al modo di Calicut. Le sue monete sono oro, argento e stagno, tutte stampate: e la moneta d'oro ha da una faccia un diavolo e dall'altra v'è a modo d'un carro tirato da elefanti, e similmente le monete d'argento e di stagno. Di quelle d'argento ne vanno dieci al ducato e di quelle di stagno ne vanno venticinque. Qui nasce grandissima quantità di elefanti, li quali sono li maggiori che mai vedessi. Queste genti non sono bellicose, ma attendono alle sue mercanzie, e sono molto amici de' forestieri.


D'un'altra sorte di pepe e di seta e di belzuí, li quali nascono nella detta città di Pedir.

In questo paese di Pedir nasce grandissima quantità di pepe, qual è lungo, che chiamano molaga. La sorte del detto pepe è piú grosso di questo che vien qui da noi, ed è piú bianco assai, e di dentro è vano, ed è tanto mordente come questo nostro e pesa molto poco: e vendesi qui a misura, come da noi si vende la biava. Ed è da sapere che in questo porto se ne carga ogni anno 18 over venti navi, le quali tutte vanno alla volta del Cataio, dove si vende molto bene, perché dicono che là cominciano a far grandissimi freddi. L'arboro che produce questo pepe lungo ha le viti piú grosse, e la foglia piú larga e piú pastosa, che non ha quello che nasce in Calicut. Si fa in questa terra assaissima seta, e fassene ancor fuori per li vermi ne' boschi sopra gli arbori, senza esser nutriti dalle persone: vero è che questa seta non è molto buona. Trovasi ancora qui gran quantità di belzuí, il quale è gomma d'arbori: dicono alcuni (perché io non l'ho visto) che nasce molto distante dalla marina, in terra ferma.


Di tre sorti di legno d'aloe.

Perché la verità delle cose è quella che piú diletta e invita l'uomo sí a leggere come ancora ad intendere, però mi ha parso soggiunger questo, di che io per esperienza ne ho certezza: per tanto sappiate che né belzuí né legno d'aloe che sia eccellente non vien troppo nelle parti de' cristiani, conciosiacosaché sono tre sorti di legno d'aloe. La prima sorte, che è la piú perfetta, si chiama calampat, il quale non nasce in questa isola, ma viene da una chiamata Sarnau, la quale (sí come dicevano li cristiani nostri compagni) è appresso la città loro: e ivi nasce questa prima sorte. La seconda sorte si chiama loban, il qual viene da una fiumara; il nome della terza si chiama bochor. Ci dissero ancora li detti cristiani la cagione perché non viene da noi il detto calampat, la qual è questa, che nel gran Cataio e nel reame delle Cine e Macini e Sarnau e Giava vi è molto piú abbondanzia d'oro che appresso noi, e similmente vi sono piú gran signori che non sono nelle bande nostre di qua, quali si dilettano molto piú che noi di queste due sorti di profumi, di modo che, doppo la morte loro, spendono grandissima quantità d'oro in essi profumi: e per questa tal causa non vengono nelle nostre parti queste sorti cosí perfette. E vale in Sarnau dieci ducati la libbra, perché se ne trova poco di questo.


Della esperienza di detti legni aloe e belzuí.

Li prefati cristiani ci fecero vedere la esperienza di ambedue le sorti di profumi: l'uno di essi avea un poco dell'una e l'altra sorte. Il calampat era cerca due once, e fecelo tenere in mano al mio compagno tanto quanto si diria quattro volte il Miserere, tenendolo stretto in mano; dipoi li fece aprir la mano: veramente non senti' mai simil odore quanto era quello, il qual passava tutti i nostri profumi. Poi prese tanto belzuí quanto saria una noce, e poi di quello che nasce in Sarnau circa mezza libbra, e fecelo mettere in due camere in vasi con fuoco dentro: in verità vi dico che quel poco fece piú odore e maggior suavità e dolcezza che non fariano due libbre d'altra sorte. Non si potria dir la bontà di quelle due sorti di odori e de profumi. Sí che avete inteso la ragione perché le dette cose non vengono alle parti nostre. Nasce ancora qui grandissima quantità di lacca per far color rosso, e l'arboro di questa è fatto come li nostri arbori che producono le noci.


Delli lavori che si fanno in Sumatra, e delli costumi degli abitatori, e della sorte de' navilii loro.

In questa terra viddi li piú belli lavori che mai abbia visto, cioè alcune casse lavorate d'oro, le quali davano per duoi ducati l'una, che in verità da noi saria stimata cento ducati. Quivi ancora viddi in una strada cerca cinquecento cambiatori di monete, e questo perché vengono grandissima quantità di mercatanti in questa città, dove si fanno assaissimi traffichi. Il dormir di queste genti sono buoni letti di bombagio, le coperte di seta e lenzuoli di bombagio. Hanno in questa isola abbondanzia grandissima di legnami, e qui fanno gran navi, le quali chiamano giunchi, e portano tre arbori, e hanno la prova davanti e di drieto, con duoi timoni davanti e duoi di drieto. E quando navigano per alcuno arcipelago, perché qui è gran pelago a modo d'un canale, andando a vela alcuna volta li viene il vento davanti: subito amainano la vela e prestamente, senza voltare, fanno vela all'altro arboro e tornano adrieto. E sappiate che sono li piú presti uomini che mai abbia veduto, e ancora sono grandissimi notatori e maestri eccellentissimi di far fuochi artificiati.


Come cuoprono le case in Sumatra; e di duoi navilii che comprorono per andar all'isole delle spezierie, e de varii ragionamenti che ebbero insieme.

Le abitazioni del detto luogo sono case murate di pietra, e non sono molto alte, e gran parte d'esse sono coperte di scorze di tartaruche di mare, cioè bisce scodellaie, perché qui se ne ritruova gran quantità: e nel tempo mio viddi pesarne una che pesava cento e tre libbre. Ancora viddi duoi denti di elefanti, li quali pesavano trecento e venticinque libbre; e viddi pur in questa isola serpenti maggiori assai che non sono quelli di Calicut.
Torniamo alli nostri compagni cristiani, li quali erano desiderosi di tornare alla sua patria, perché ne dimandorono che intenzione era la nostra, se noi volevamo restar qui o andar piú avanti overo ritornar indrieto. Li rispose il mio compagno: "Dapoi ch'io son condotto dove nascono le speziarie, vorrei vederne alcune sorti avanti ch'io ritornasse indrieto". Loro li dissero: "Qui non nascono altre spezie, salvo quelle che avete veduto". Ed egli dimandò: "Dove nascono le noci moscate e li garofani?" Li risposero che le noci moscate e macis nascono ad una isola distante de qui per trecento miglia. Li dimandammo allora se si poteva andare a quella isola sicuramente, cioè securi da ladri o corsari; li cristiani risposero che securi da ladri potevamo andare, ma dalla fortuna da mare no, e dissero che con queste navi grandi non si poteva andare alla detta isola. "Che rimedio adunque vi saria, - disse il mio compagno, - per andare a questa isola?" Ci risposero che bisognava comprare una ciampana, cioè un navilio piccolo, delli quali se ne trovano qui assai. Il mio compagno li pregò che ne facessero venir dua, che li compraria. Subito li cristiani ne trovorono duoi forniti di genti che li avevano a guidare, con tutte le cose necessarie e opportune a far tal viaggio, e fecero mercato di detti navilii con gli uomini e cose bisognose in quattrocento pardai, li quali allora furono pagati dal compagno mio. Il quale poi cominciò a dire alli cristiani: "O amici miei carissimi, benché io non sia di vostra generazione, nondimeno tutti siamo figliuoli di Adam ed Eva: volete voi abbandonar me e questo altro mio compagno, il quale è nasciuto nella vostra fede?" "Come nella nostra fede? - dissero li cristiani: - Questo vostro compagno non è persiano?" Rispose egli: "Adesso sí ch'è persiano, perché fu comprato alla città di Ierusalem". Sentendo li cristiani nominare Ierusalem, subito levorono le mani al cielo e poi baciorono tre volte la terra, e dimandorono di che tempo era quando fui venduto in Ierusalem. Li risposi che io avea cerca quindici anni. "Adunque, - dissero costoro, - egli si debbe ricordare del suo paese". "Sí ben, - disse il mio compagno, - ch'ei si ricorda, anzi non ho avuto altro piacere, già sono molti mesi, se non d'intendere delle cose di quel suo paese, ed egli m'ha insegnato come si chiama dalli cristiani tutti li membri della persona, e il nome delle cose da mangiare". Udendo questo, li cristiani dissero: "La volontà nostra era di ritornare alla patria, la qual è tremila miglia lontana di qui; ma per amor vostro e di questo vostro compagno volemo venire dove voi anderete, e volendo restare il vostro compagno con noi, lo farem ricco, e se vorrà servare la legge persiana, sarà in sua libertà". Rispose il mio compagno: "Io son molto contento della compagnia vostra, ma non v'è ordine che costui resti con voi, perché io gli ho dato una mia nipote per moglie, per l'amor ch'io li porto: sí che, se volete venir in nostra compagnia, voglio prima che pigliate questo presente ch'io vi do, altrimenti non restaria mai contento". Li buoni cristiani risposero ch'ei facesse quello che a lui piaceva, che di tutto si contentavano, e cosí lui li donò mezza curia, cioè mezza oncia di rubini, delli quali ve ne erano dieci di valore di cinquecento pardai. De lí a due giorni furono apparecchiate le dette chiampane, e ponemmovi dentro di molte robe da mangiare, massime delli migliori frutti che mai abbia gustato, e cosí pigliammo il nostro cammino per levante verso l'isola chiamata Bandan.


Dell'isola di Bandan, dove nascono le noci moscate e macis.

Infra il detto cammino trovammo cerca venti isole, parte abitate e parte no, e in spazio di quindici giorni arrivammo alla detta isola, la qual è molto brutta e trista; è di circuito cerca cento miglia ed è terra molto bassa e piana. Qui non v'è né re né governatore, ma vi sono alcuni villani quasi come bestie, senza alcun ingegno. Le case di questa isola sono di legname, molto triste e basse. L'abito di costoro è che vanno in camicia, scalzi, senza alcuna cosa in testa; portano li capelli lunghi, il viso loro è largo e tondo, il suo colore è bianco e sono piccoli di statura. La sua fede è gentile, ma sono di quella sorte che sono li piú tristi di Calicut, chiamati Poliar e Hitava; sono molto debili d'ingegno e di forza, non hanno alcuna virtú, ma vivono come bestie. Qui non nasce altre cose che noci moscate: il piede della noce moscata è fatto a modo di uno arboro persico e fa la foglia in quel modo, ma sono piú strette, e avanti che la noce abbia la sua perfezione, li macis stanno intorno come una rosa aperta, e quando la noce è matura il macis l'abbraccia. E cosí la colgono del mese di settembre, perché in questa isola va la stagione come a noi; e ciascun uomo raccoglie piú che può, perché tutte sono comuni, e a detti arbori non si dura fatica alcuna, ma lasciano fare alla natura. Queste noci si vendono a misura, la qual pesa ventisei libbre, per prezzo di mezzo carlino: la moneta corre qui ad usanza di Calicut. Qui non bisogna far ragione, perché la gente è tanto grossa che, volendo, non saperiano far male.
E in termine di duoi giorni disse il mio compagno alli cristiani: "Li garofani dove nascono?" Risposero che nascevano lontano da qui sei giornate, in una isola chiamata Maluch, e che le genti di quella sono piú bestiali e piú vili e dappoche che non sono queste di Bandan. Alla fine deliberammo di andar a quell'isola, fussero le genti come si volessero, e cosí facemmo vela e in dodici giorni arrivammo alla detta isola.


Dell'isola di Maluch, dove nascono li garofani.

Smontammo in questa isola di Maluch, la qual è molto piú piccola di Bandan, ma la gente è peggiore, e vivono pur a quel modo, e sono piú bianchi, e l'aere è un poco piú freddo. Qui nascono li garofani e in molte altre isole circonvicine, ma sono piccole e disabitate. L'arboro delli garofani è proprio come l'arboro del busso, cioè cosí folto, e la sua foglia è quasi come quella della cannella, ma un poco piú tonda, ed è di quel colore come già vi dissi in Zeilan, la qual è quasi come la foglia del lauro. Quando sono maturi, li detti uomini sbattono li garofani con le canne, e mettono sotto al detto arbore alcune stuore per raccoglierli. La terra dove sono questi arbori è come arena, cioè di quel medesimo colore, non però che sia arena. Il paese è volto verso mezzodí, e di qui non si vede la stella tramontana.
Veduto che avemmo questa isola e questa gente, dimandammo alli cristiani se altro v'era da vedere. Ci risposero: "Vediamo un poco in che modo vendono questi garofani". Trovammo che si vendevano il doppio piú che le noci moscate, pure a misura, perché quelle persone non intendono pesi.


Della isola Bornei.

Volontarosi eravamo di mutar paese, pur tuttavia per imparar cose nove. Allora dissero li cristiani: "O caro compagno, dapoi che Dio ci ha condotti fin qui a salvamento, se vi piace andiamo a vedere la piú grande isola del mondo e la piú ricca, e vedrete cosa che mai non avete vista. Ma bisogna che andiamo prima ad un'altra isola che si chiama Bornei, dov'è mestieri pigliar una nave grande, perché il mare è piú grosso". Rispose egli: "Io son molto contento di far quel che volete". E cosí pigliammo il cammino verso la detta isola, alla qual sempre si va al mezzogiorno. Andando in questo cammino, continuamente li detti cristiani, notte e giorno, non aveano altro piacere se non di parlar con meco delle cose de' cristiani e della fede nostra. Quando io li dissi del volto santo che sta in Santo Pietro, e delle teste di santo Pietro e di santo Paulo e di molti altri santi, mi dissero secretamente che s'io voleva andar con essi, ch'io saria grandissimo signore, per aver visto queste cose. Io dubitava che, poi che me avessero condotto là, non arei potuto mai piú tornar alla patria mia, e per questo restai di andarvi.
Arrivati che fummo all'isola di Bornei, la qual è distante da Maluch cerca dugento miglia, trovammo ch'è alquanto maggiore che la sopradetta e molto piú bassa. Le genti di questa sono gentili e sono uomini da bene; il color suo è piú bianco che d'altra sorte, l'abito loro è una camicia di bombagio e alcuni vanno vestiti di ciambellotto; alcuni portano berrette rosse. In questa isola si fa grandissima iustizia. E ogni anno si carica assaissima quantità di canfora, la qual dicono che nasce ivi e che è gomma di arbori: se cosí è io non l'ho vista, però non l'affermo. Quivi il mio compagno noleggiò una navetta per cento ducati.


In che modo li marinari si governano, navigando verso l'isola Giava.

Fornita che fu la noleggiata nave di vettovaglia, pigliammo il nostro cammino verso la bella isola chiamata Giava, alla quale arrivammo in cinque giorni, navigando pure verso mezzogiorno. Il padrone di detta nave portava la bussola con la calamita ad usanza nostra, e aveva una carta, la qual era tutta rigata per lungo e per traverso. Dimandò il mio compagno alli cristiani: "Poi che noi abbiamo perso la tramontana, come si governa costui? Evvi altra stella tramontana che questa, con la qual noi navighiamo?" Li cristiani ricercorono il padron della nave questa medesima cosa, ed egli ci mostrò quattro o cinque stelle bellissime, infra le quali ve n'era una qual disse ch'era all'incontro della nostra tramontana, e ch'egli navigando seguiva quella, perché la calamita era acconcia e tirava alla tramontana nostra. Ci disse ancora che dall'altra banda di detta isola verso mezzogiorno vi sono alcune genti, le quali navigano con le dette quattro o cinque stelle che sono per mezza la nostra tramontana; e piú ci disse che di là dalla detta isola si naviga tanto che trovano che il giorno non dura piú che quattro ore, e che ivi era maggior freddo che in luogo del mondo. Udendo questo, noi restammo molto contenti e satisfatti.


Della isola Giava, della fede, del vivere e costumi suoi e delle cose che ivi nascono.

Seguendo adunque il camin nostro, in cinque giorni arrivammo a questa isola Giava, nella quale sono molti reami, li re delli quali sono gentili. La fede loro è questa: alcuni adorano gl'idoli come fanno in Calicut, e alcuni sono che adorano il sole, altri la luna; molti adorano il bue, gran parte la prima cosa che scontrano la mattina, e altri adorano il diavolo al modo che già vi dissi. Questa isola produce grandissima quantità di seta, parte al modo nostro e parte nei boschi, sopra gli arbori salvatichi. Qui si truovano li migliori e piú fini smeraldi del mondo, e oro e rame in gran quantità, grano assaissimo al modo nostro e frutti bonissimi ad usanza di Calicut. Si truovano in questo paese carni di tutte le sorti ad usanza nostra. Credo che questi abitanti siano i piú fedeli uomini del mondo; sono bianchi e di altezza come noi, ma hanno il viso assai piú largo di noi, gli occhi grandi e verdi, il naso molto ammaccato e li capelli lunghi. Qui sono uccelli in grandissima moltitudine e tutti differenti dalli nostri, eccetto li pavoni, tortore e cornacchie negre, le quali tre sorti sono come le nostre. Fra queste genti si fa grandissima giustizia. E vanno vestiti all'apostolica, di panni di seta, ciambellotto e di bombagio. E non usano troppe armature, perché non combattono, salvo quelli che vanno per mare, i quali portano alcuni archi e la maggior parte freccie di canna. Accostumano ancora alcune cerbottane, con le quali tirano freccie attossicate: e le tirano con la bocca, e ogni poco che faccino di sangue, muore la persona. Qui non si usa artiglieria di sorte alcuna, e manco le sanno fare. Questi mangiano pane di grano; alcuni altri ancora mangiano carne di castrati o di cervo o vero di porco salvatico, e altri mangiano pesci e frutti.


Come in questa isola li vecchi si vendono da' figliuoli overo da' parenti, e poi se li mangiano.

Vi sono uomini in questa isola che mangiano carne umana. Hanno questo costume, che essendo il padre vecchio, di modo che non possi far piú esercizio alcuno, li figliuoli over li parenti lo mettono in piazza a vendere, e quelli che lo comprano l'ammazzano e poi se lo mangiano cotto. E se alcun giovane venisse in grande infirmità, che paresse alli suoi che 'l fusse per morire di quella, il padre overo fratello dell'infermo l'amazzano, e non aspettano che 'l muora: e poi che l'hanno morto, lo vendono ad altre persone per mangiare. Stupefatti noi di simil cose, ci fu detto da alcuni mercatanti del paese: "O poveri Persiani, perché tanto bella carne lasciate mangiar alli vermi"? Inteso questo, subito il mio compagno disse: "Presto, presto, andiamo alla nostra nave, che costoro piú non mi giungeranno in terra".


Dove nel mese di giugno nel mezzogiorno in l'isola della Giava
il sole faceva ombra; e come si partirono.

Dissero li cristiani al mio compagno: "O amico mio, portate questa novella di tanta crudeltà alla patria vostra, e portateli ancora questa altra che vi mostraremo". E dissero: "Guardate qui, adesso che è mezzogiorno, voltate il viso dove tramonta il sole". E alzando noi gli occhi, vedemmo il sole che ne faceva ombra a man sinistra piú d'un palmo, e a questo comprendemmo che eravamo molto distanti dalla patria nostra, per il che restammo molto maravigliati. E secondo che diceva il mio compagno, credo che questo fu il mese di giugno, perché io aveva perduto li nostri mesi e alcuna volta il nome del giorno. È da sapere che qui è poca differenzia dal nostro freddo al loro.
Avendo noi visto li costumi di questa isola, ne parve non esser molto da dimorare in essa, perché ne bisognava star tutta la notte a far la guardia, per paura di alcun tristo che non ci venisse a pigliare per mangiarne. Onde, chiamati li cristiani, li dicemmo che al piú presto potessero ritornassimo verso la patria nostra. Ma pur, avanti che si partissimo, il mio compagno comprò duoi smeraldi per mille pardai, e comprò duoi fanciulli per dugento pardai, li quali non aveano natura né testicoli, perché in questa isola vi sono mercatanti di tal sorte, che non fanno altra mercanzia se non di comprar fanciulli piccoli, alli quali fanno tagliare in puerizia ogni cosa, e rimangono come donne.


Come l'auttore si partí dalla Giava e venne per mare a Malacha, dove prese combiato dalli suoi compagni cristiani, e dapoi, avendo toccato in diversi luoghi, giunse finalmente in Calicut.

Essendo noi in tutto dimorati quattordici giorni in detta isola di Giava, perché, parte per paura della crudeltà nel mangiar gli uomini, parte ancora per li gran freddi, non ardivamo andar piú avanti, e ancor perché a questi nostri compagni non era luogo alcun avanti piú cognito, deliberammo tornar indrieto. Onde noleggiammo una nave grossa, cioè un giunco, e pigliammo il nostro cammino dalla banda di fuori dell'isole verso levante, perché da quella banda non è arcipelago, e navigasi piú sicuramente. Navigammo quindici giornate e arrivammo alla città di Malacha, e qui stemmo tre giorni, dove rimasero li nostri compagni cristiani, li pianti e lamenti de' quali non si potrian con brieve parlar raccontare, di sorte che, s'io non avessi avuto moglie e figliuoli, sarei andato con loro. E similmente dicevano loro, se avessero saputo di tornar a salvamento, che sariano venuti con noi. E credo ancor che 'l mio compagno li confortassi che non venissero, acciò non avessero causa di dar notizia a' cristiani di tanti signori che sono nel paese loro, che pur son cristiani e hanno infinite ricchezze. Sí che loro restorno, dicendo che volevano tornare in Sarnau, e noi andammo con la nostra nave alla volta di Coromandel.
Diceva il padrone della nave che intorno alla isola di Giava e intorno all'isola Sumatra erano piú di ottomila isole. Qui in Melacha il mio compagno comprò cinquemila pardai di spezie minute e panni di seta e cose odorifere. Navigammo quindici giornate e arrivammo alla detta città di Coromandel, e qui fu scaricato il giunco noleggiato in Giava. Stemmo dapoi cerca venti giorni in questa terra, e al fine pigliammo una ciampana e andammo alla volta di Colon, dove trovai dodici cristiani portoghesi. Per la qual cosa io ebbi grandissima volontà di fuggire, ma restai, perché erano pochi e temeva delli Mori, conciosiacosaché vi erano alcuni mercatanti con noi, che sapevano ch'io era stato alla Mecca e dove è il corpo di Macometto, e avea paura che loro non dubitassero ch'io scoprissi le loro ipocrisie: per questo restai di fuggire. Di lí a 12 giorni pigliammo il nostro cammino verso Calicut, cioè per la fiumara, e arrivammo lí in spazio di dieci giorni.


Come l'auttor trovò in Calicut duoi Milanesi che facevan artegliarie al re, e come gli persuase che fuggissero, e come egli finse di esser santo.

Dapoi il lungo discorso di tanti e cosí varii paesi come di sopra abbiamo narrato, ad ogni benigno lettor è facil cosa cognoscere quanto già mi cominciava a pesare l'esser passato tanto avanti, in cosí largo cammino e navigazione, sí per li diversi e inequali temperamenti dell'aere, come per le molte differenzie e varietà di costumi, e sopratutto di quelli cosí crudeli e inumani uomini, veramente non dissimili dalle bestie. E per tanto, essendo con il mio compagno fastidito, deliberammo ritornarcene verso li nostri natii paesi. E conciosiacosaché nel ritorno m'intravenissero molte cose degne di memoria, non sarà fuor di proposito se quelle brievemente dirò: e penso, anzi tengo per certo, che non sarà infructuosa la narrazione di molti miei travagli, sí in raffrenar l'insaziabil appetito di molte persone, che senza pensarvi molto sopra si lasciano trasportar dal desiderio di veder diverse parti del mondo, come che, trovandosi sopraggiunti in un punto da qualche inopinato caso o pericolo, dove è bisogno che l'ingegno lavori, si saperranno con prudenzia governare e riuscirne a salvamento.
Essendo adunque arrivati in Calicut di ritorno, secondo che poco avanti avevamo scritto, trovammo duoi cristiani, li quali erano milanesi: uno si chiamava Giovanmaria, l'altro Pietroantonio, ed erano venuti di Portogallo con la nave de' Portoghesi, per comprar gioie ad instanzia del re, e quando furno giunti in Cocchin, se ne fuggirno in Calicut. Vedendo questi duoi cristiani, veramente mai non ebbi la maggior allegrezza. Essi e io andavamo nudi ad usanza del paese. Io li dimandai s'erano cristiani; rispose Giovanmaria: "Sí, semo ben noi", e poi Pietroantonio dimandò a me s'io era cristiano. Gli risposi di sí, laudato sia Dio: allora mi prese per la mano e menommi in casa sua, dove giunti cominciammo ad abbracciarci l'un l'altro e baciarci e piagnere. Veramente io non poteva parlar cristiano, e mi parea aver la lingua grossa e impedita, perché io era stato quattro anni che non avea parlato con cristiani. Quella notte stetti con loro, né mai alcun di noi poté mangiare e manco dormire, solamente per la tanta grande allegrezza che avevamo: pensate che noi aressemo voluto che quella notte avesse durato un anno, per ragionare insieme di diverse cose. Fra le quali io gli dimandai se essi erano amici del re di Calicut; mi risposero che erano delli primi uomini ch'egli avesse e ogni giorno parlavano con lui. Gli dimandai ancora che intenzione era la loro; mi dissero che volentieri sariano tornati alla patria, ma non sapevano per qual via. Io risposi loro: "Tornate per la via che sete venuti". Essi dissero che non era possibile, perché erano fuggitivi dalli Portoghesi, e che 'l re di Calicut gli avea fatti far gran quantità di artiglierie contra sua volontà, e per questo rispetto non voleano tornare per quella via, e dissero che presto si aspettava l'armata del re di Portogallo. Io li risposi che, se Dio mi facea tanta grazia ch'io potessi fuggir in Canonor, quando fusse venuta l'armata, ch'io farei tanto che 'l capitano del re li perdonaria; e dissigli che ad essi non era possibile fuggire per altra via, perché si sapea per molti reami che essi facevano artiglierie, e molti re aveano volontà di averli nelle mani per la virtú loro: e però non era possibile fuggire per altro modo. E mi dissero che ne aveano fatto cerca quattrocento in cinquecento bocche fra grandi e piccole, in modo che conclusero che aveano grandissima paura de' Portoghesi: e invero era ragion d'averla, perché, non ostante che essi facevano le artiglierie, le insegnavano ancor fare alli gentili; e piú mi dissero che aveano insegnato a tirar le spingarde a venticinque criati del re. E nel tempo ch'io stetti qui, essi dettero il disegno e la forma ad uno gentile per far una bombarda, la qual pesò cento e cinquanta cantara, ed era di metallo. Vi era ancora un giudeo che avea fatto una galea molto bella, e avea fatto quattro bombarde di ferro: il detto giudeo, andando a lavarsi ad una fossa di acqua, si affogò.
Torniamo alli detti Milanesi. Dio sa quello li dissi, esortandoli che non volessero far tal cosa contra li cristiani: Pietroantonio di continuo piangeva, e Giovanmaria diceva che tanto gli era a morire in Calicut quanto in Roma, e che Dio avea ordinato quello dovea essere. La mattina seguente tornai a trovare il mio compagno, il qual fece gran lamentazione, perché dubitava ch'io fussi stato morto. Io gli dissi ch'era stato a dormire in una moschea de' Mori, a ringraziar Dio e Maumetto del beneficio ricevuto, ch'eravamo tornati a salvamento: e di questo lui ne fu molto sodisfatto. E per poter io saper li fatti della terra, gli dissi ch'io voleva star a dormire nella moschea e ch'io non voleva robba, ma che sempre voleva esser povero. E per voler io fuggire da loro, pensai di non li poter ingannare salvo che con la ipocrisia, perché i Mori son la piú grossa gente del mondo: per modo ch'ei fu contento. E questo faceva io per poter spesso parlar alli cristiani, perché essi sapevano ogni cosa di giorno in giorno della corte del re. Io cominciai ad usare la ipocrisia: finsi di esser Moro santo, né mai volsi mangiar carne, salvo che in casa di Giovanmaria, che ogni notte mangiavamo duoi para di galline, e mai piú non volsi praticare con mercatanti, e manco uomo alcuno mi vidde mai ridere. E tutto il giorno stavo nella moschea, salvo quando el mio compagno mandava per me ch'io andassi a mangiare, e gridavami perché io non voleva mangiar carne: io li rispondeva che 'l troppo mangiare conduce l'uomo a molti peccati. E a questo modo cominciai ad esser Moro santo, e beato era quello che mi poteva baciar la mano, e alcuno le ginocchia.


Come finse di esser medico e guaritte un Moro.

Accadendo che uno mercatante moro si ammalò di gravissima infirmità e, non potendo per alcun modo usar il beneficio del corpo, mandò dal mio compagno, il qual era molto suo amico, per intendere s'egli overo alcun altro di casa sua gli sapesse dar qualche rimedio, gli rispose che l'anderia a visitare e mi meneria seco. E cosí egli e io insieme andammo a casa dell'ammalato, e dimandandoli del suo male, disse: "Io mi sento molto male al stomaco e al corpo". Io gli dimandai se aveva avuto qualche freddo, per il qual fusse causato questo male; rispose che non poteva esser freddo, perché non seppe mai che cosa si fusse. Allora il mio compagno si voltò a me e dissemi: "O Lodovico, sapresti tu qualche rimedio per questo mio amico?" Io risposi che mio padre era medico alla patria mia, e che quello ch'io sapeva lo sapea per pratica, ch'egli mi avea insegnato. Disse il mio compagno: "Orsú, vediamo se con qualche rimedio si può liberare questo mercatante, che è tanto mio amico". Allora gli presi la mano e, toccandoli il polso, trovai ch'avea grandissima febbre, e lo dimandai se li doleva la testa; rispose: "Sí, che la mi duol forte". Poi li dimandai se andava del corpo; mi disse ch'erano tre giorni che non era ito. Io subito pensai: "Questo uomo ha carico lo stomaco per troppo mangiare, e per aiutarlo ha bisogno d'alcun serviziale"; e dicendolo al mio compagno, ei mi rispose: "Fate quello vi piace, pur che 'l sia sano". Allora io detti ordine al serviziale in questo modo: pigliai zuccaro, ova e sale, e per la decozione pigliai certe erbe, le quali fecero piú mal che bene; le dette erbe erano come foglie di noci. E con queste tal cose in un dí e una notte li feci cinque serviziali, e niuno giovava, per rispetto delle erbe che erano contrarie, a tale che volentieri arei voluto non essermi impacciato di far tal esercizio.
Alla fine, vedendo che ei non poteva andar del corpo per difetto dell'erbe triste, pigliai un buon fascio di porcellane e feci cerca mezzo boccale di sugo, e vi misi altrotanto olio e molto sale e zuccaro: poi colai ogni cosa molto bene. E qui feci un altro errore, che mi scordai di scaldarlo, ma ve lo messi cosí freddo. Fatto che fu il serviziale, gli attaccai una corda alli piedi e lo tirammo suso, alto tanto ch'egli toccava terra con le mani e con la testa, e lo tenemmo cosí alto per spazio di mezzo quarto d'ora. Diceva il mio compagno: "O Lodovico, costumasi cosí alla patria vostra?" Io risposi: "Quando l'infermo sta in estremo". Diss'egli che era buona ragione, che stando cosí spiccaria meglio la materia. Il povero ammalato gridava e diceva: "Non piú, non piú, ch'io son morto". E cosí, stando noi a confortarlo, o che fusse Dio o la natura, cominciò a far del corpo suo come una fontana. E subito lo calammo giuso, ed egli andò del corpo veramente mezzo barile di robba, e rimase tutto contento. Il dí seguente non avea né febbre né doglia di testa né di stomaco, e dipoi andò molte volte del corpo. L'altra mattina disse che li dolevano un poco i fianchi; io feci pigliar butiro di vacca, o vero di buffalo, e fecilo ugnere e infasciare con stoppa di canapo. Poi li dissi che, s'ei voleva risanarsi, bisognava ch'ei mangiasse due volte al giorno, e innanzi mangiare volevo che camminasse un miglio a piedi. Egli mi rispose: "Se non volete ch'io mangi piú di due volte il dí, presto presto io sarò morto", perché loro mangiano otto e dieci volte al giorno. Pareva a lui questo ordine molto aspro, pur finalmente egli si risanò benissimo, e questo dette gran credito alla mia ipocrisia: dicevano poi ch'io era amico di Dio. Questo mercatante mi volse dare dieci ducati, e io non volsi cosa alcuna, anzi detti tre ducati ch'io aveva alli poveri: e questo feci publicamente, perché essi conoscessero ch'io non voleva robba né danari.
Doppo questo, beato quello che mi poteva menare a casa sua a mangiare, beato era chi mi baciava le mani e li piedi. E quando alcuno mi baciava le mani, io stava saldo in continenzia, per darli ad intendere ch'ei faceva cosa la qual io meritava per esser santo. Ma sopra tutto il mio compagno era quello che mi dava credito, perché ancora egli mi credeva e diceva ch'io non mangiava carne, e che 'l mi aveva veduto alla Mecca e al corpo di Maumetto, e ch'io era andato sempre in sua compagnia e conosceva li costumi miei, e che veramente io era santo e, conoscendomi di buona e santa vita, ei mi avea dato una sua nipote per moglie: sí che per questo ogni uomo mi voleva bene. E io ogni notte andava secretamente a parlare alli Milanesi, li quali mi dissero una volta ch'erano venute dodici navi di Portoghesi in Canonor. Allora dissi: "Questo è il tempo ch'io scampo di mano de' cani", e pensammo insieme otto giorni in che modo io potea fuggire. Essi mi consigliorono ch'io fuggissi per terra, e a me non bastava l'animo, per paura di non esser morto dalli Mori, per esser io bianco e loro negri.


Della nuova di XII navi de Portoghesi, quali vennero in Calicut.

Un giorno, stando a mangiare col mio compagno, vennero duoi mercatanti persiani di Canonor, quali subito li chiamò a mangiare con lui. Risposero loro: "Noi non abbiamo voglia di mangiare, e portiamo una mala novella". Li dimandò: "Che parole son queste che voi dite?" Dissero costoro: "Sono venute dodici navi di Portoghesi, le quali abbiamo vedute con gli occhi nostri". Dimandò il mio compagno: "Che genti sono?" Risposero li Persiani: "Sono cristiani, e tutti sono armati d'arme bianche, e hanno cominciato a fare un fortissimo castello in Canonor". Voltossi a me il mio compagno e dimandommi: "O Lodovico, che genti sono questi Portoghesi?" Io gli risposi: "Non mi parlar di tal generazione, che tutti sono ladri e corsari di mare: io li vorrei veder tutti convertiti alla fede nostra maumettana". Udendo egli questo rimase di mala voglia, e io molto contento nel cuor mio.


Del modo come li Mori chiamano il popolo alla moschea per far orazione;
e come l'auttore venne in Canonor.

Il giorno seguente, intesa la nuova, tutti li Mori andorono alla moschea a far orazione. Ma prima alcuni a questo deputati salirono su la torre della loro moschea, come fra essi è usanza di andarvi tre o quattro volte il giorno, e con alta voce cominciorono in scambio di campane a chiamar gli altri alla medesima orazione, tenendo di continuo un dito nell'orecchia e dicendo: "Dio è grande, Dio è grande, venite alla moschea, venite alla moschea a laudar Dio, venite a laudar Dio. Dio è grande, Dio è grande. Dio fu, Dio sarà, Maumet messaggiero di Dio resusciterà". E menorono ancora me con loro, dicendomi che io volessi pregar Dio per li Mori, e cosí publicamente mi posi a far la orazione, la qual è cosí fra loro comune com'è a noi il Pater nostro e l'Ave Maria. Stanno li Mori tutti alla fila, ma sono molte file, e hanno un sacerdote come da noi un prete, li quali, dipoi che sono molto ben lavati, cominciano a far la orazione secondo l'usanza loro: e cosí feci ancora io, in presenzia di tutto il popolo, e poi tornai a casa col mio compagno.
Il giorno seguente finsi d'esser molto ammalato, e stetti circa otto giorni che mai non volsi mangiar con lui, ma ogni notte andava a mangiar con li Milanesi. Egli molto si maravigliava e dimandavami perché non volevo mangiare; io gli rispondeva ch'io mi sentiva molto male e che mi pareva aver la testa molto grossa e carica, e dicevali che mi pareva che procedesse da quell'aere, che non fusse buono per me. Costui, per l'amor singulare che mi portava, aria fatto ogni cosa per compiacermi, onde, intendendo che l'aere di Calicut mi facea male, dissemi: "Andatevene a stare in Canonor per fino a tanto che torniamo nella Persia, e io vi indrizzarò ad uno amico mio, il qual vi darà tutto quello che vi bisogna". Io li risposi che volentieri anderia in Canonor, ma che dubitavo di quelli cristiani. Disse lui: "Non dubitate né abbiate paura alcuna di loro, perché voi starete di continuo nella città". Alla fine, avendo io veduto tutta l'armata che si faceva in Calicut, e tutta l'artiglieria e l'esercito che si preparava contra cristiani, mi misi in viaggio per darli aviso e per salvarmi dalle man de' cani.


Con quanto pericolo l'auttor si partí di Calicut, e come giunse in Canonor.

Un giorno avanti ch'io mi partissi, ordinai tutto quello che avea da fare con li duoi Milanesi, e poi il mio compagno mi mise in compagnia di quelli duoi Persiani che portorono la nuova di Portoghesi, e pigliammo una barchetta piccola. Ora intenderete in quanto pericolo mi posi, perché qui stavano ventiquattro mercatanti persiani, soriani e turchi, li quali tutti mi conoscevano e mi portavano grandissimo amore, e sapevano che cosa era lo ingegno del cristiano. Dubitavomi, se li domandava licenzia, che loro pensariano che io volessi fuggire alli Portoghesi, e se mi partivo senza parlarli, e per avventura io fussi scoperto, che loro mi ariano detto: "Perché non parlavi a noi?" E stavo in questo pensiero. Pur deliberai di partirmi senza parlar ad alcuno, salvo al mio compagno.
Lo giovedí da mattina, adí 3 di decembre, mi parti' con li duoi Persiani per mare; e quando fummo un tiro di balestra in mare, vennero quattro Naeri alla riva del mare, i quali chiamorono il padron del navilio, e subito tornammo in terra. Li Naeri dissero al padrone: "Perché levate questo uomo senza licenzia del re?" Li Persiani risposero: "Costui è uomo santo, e andiamo a Canonor". "Sapemo ben, - dissero li Naeri, - che è Moro santo, ma ei sa la lingua de' Portoghesi e dirà tutto quello che facciamo qui", perché si faceva grandissima armata. E comandorono al padron del navilio che per niente non mi levasse, e cosí fece. Restammo nella spiaggia del mare, e li Naeri tornorono alla casa del re. Disse uno delli Persiani: "Andiamo a casa nostra", cioè in Calicut. Io risposi: "Non andate, perché perderete queste cinque sinabafi (che sono pezze di tela che portavano), però che non avete pagato il dretto al re". Disse l'altro Persiano: "O signore, che faremo?" Io risposi: "Andiamo per questa spiaggia, per fino a tanto che noi trovaremo un parao", cioè una barchetta piccola. E cosí furono contenti, e pigliammo il cammino per 12 miglia, sempre per terra, caricati delle dette robbe: pensate che cuore era il mio a vedermi in tanto pericolo. All'ultimo trovammo un parao, il qual ci portò fino a Canonor.
Il sabbato a sera giugnemmo a Canonor e subito portammo una lettera, la qual m'avea fatta il mio compagno, ad un mercatante suo amico, il tenor della quale diceva che mi facesse tanto quanto alla sua persona, per fino a tanto ch'egli venisse qui, e dicevali come io era santo, e il parentado che era fra lui e me. Il mercatante, subito ch'ebbe letta la lettera, se la pose sopra il capo e disse ch'io staria sicuro sopra la sua testa; e subito fece far molto ben da cena, con molte galline e piccioni. Quando li Persiani viddero venir galline, dissero: "Oimè, che fate voi? Costui non mangia carne", e subito vennero altre robbe. Fornito che avemmo da mangiare, li detti Persiani dissero a me: "Andiamo un poco alla marina a piacere", e cosí andammo dove stavano le navi di Portoghesi. Pensate, o lettori, quanta fu l'allegrezza ch'io ebbi nel cuore: andando un poco piú avanti, viddi alla porta d'una certa casa bassa tre botteghe vote, per le quali pensai che lí dovea esser la fattoria de' cristiani. Allora, alquanto rallegrato, ebbi volontà di fuggire dentro alla detta porta, ma considerai che, facendo tal cosa nella loro presenzia, la terra tutta si metteria a rumore; e io, non potendo sicuramente fuggire, notai il luoco dove si faceva il castello de' cristiani e deliberai di aspettar il giorno seguente.


Come l'auttore si fuggí di Canonor alla fortezza de' Portoghesi, e come li duoi Milanesi furono morti in Calicut.

La domenica mattina mi levai a buon'ora e dissi ch'io voleva andar un poco a sollazzo. Risposero li compagni: "Andate dove vi piace", e cosí pigliai il cammino secondo la fantasia mia, e andai dove si faceva il castello de' cristiani. E quando fui un pezzo lontano dalli compagni, passeggiando sopra la spiaggia del mare, mi scontrai in duoi cristiani portoghesi e dissi loro: "Signori, dove è la fortezza de' Portoghesi?" E dissero quelli duo cristiani: "Sei tu per ventura cristiano?" Io risposi: "Sí signor, laudato sia Dio", e lor dissero: "Donde venite voi?" Risposi io: "Vengo di Calicut". Allora disse l'un all'altro de' duoi compagni: "Andate voi alla fattoria, ch'io voglio menar quest'uomo a don Lorenzo", cioè al figliuol del vice re. E cosí mi menò al detto castello, il qual è distante dalla terra mezzo miglio, e quando arrivammo al detto castello, il signor don Lorenzo stava mangiando. Subito m'inginocchiai alli piedi di sua signoria e dissigli: "Signore, mi raccomando a V.S. che mi salvi, perché son cristiano". Stando in questo modo, sentimmo la terra levarsi a rumore perché io era fuggito, e subito furono chiamati li bombardieri che caricassero tutte le artegliarie, dubitando che quelli della terra non venissero al castello a combattere. Allora, vedendo il capitano che quelli della terra non facevano altro movimento, mi prese per la mano e menommi in una sala, pur interrogandomi delle cose di Calicut, e mi tenne tre giorni a parlar con lui; e io, desideroso della vittoria de' cristiani, gli diedi tutto l'aviso dell'armata che si faceva in Calicut. Forniti questi parlamenti, mi mandò con una galea dal vice re suo padre in Cochin, della qual era capitano un cavaliere chiamato Ioan Serrano.
Il vice re, giunto ch'io fui, ebbe grandissimo piacere e fecemi grande onore, perché li detti aviso di quanto si faceva in Calicut, e ancora li dissi che se sua signoria voleva perdonare a Giovanmaria e Pietroantonio, li quali facevano artegliaria in Calicut, e darmi sicurtà per loro, ch'io li faria tornare, e non fariano contra cristiani quel danno che fanno, benché contra la volontà loro, e che loro aveano paura di tornare senza salvocondotto. Il vice re n'ebbe grandissimo piacere e fu molto contento, e fecemi il salvocondotto; e il capitano della galea con la qual io venni promise per il vice re, e in termine di tre giorni mi rimandò con la detta galea a Canonor, e dettemi una lettera la qual andava al figliuolo, che mi desse tanti danari quanti mi bisognava per pagar le spie da mandar in Calicut.
Arrivati che fummo in Canonor, trovai un gentile il qual mi dette la moglie e li figliuoli in pegno, ed esso lo mandai con mie lettere in Calicut a Giovanmaria e Pietroantonio, per le quali io gli avisava come il vice re avea lor perdonato e che venissero sicuramente. Sappiate che li mandai cinque volte la spia innanzi e indrieto, e sempre scrivea che si guardassero e non si fidassero delle femmine né del loro schiavo, perché ciascun di essi avea una femmina, e Giovanmaria avea un figliuolo e uno schiavo: loro sempre rispondevano che volentieri verriano. Finalmente nell'ultima lettera mi dissero cosí: "Ludovico mio, noi avemo dato tutte le robe nostre a questa spia; venite voi la tal notte con una galea, over bregantino, dove stanno li pescatori e dove non v'è mai guardia, perché piacendo a Dio verremo noi duoi e tutta la brigata". Sappiate ch'io scriveva che venissero loro soli e che lassassero le femmine, il figliuolo, la roba e il schiavo, ma che portassero solo le gioie e li danari, imperoché avevano un diamante che pesava 32 caratti, il qual dicevano che valeva quindecimila ducati, e una perla che pesava 24 caratti, e duemila rubini li quali pesavano un caratto e un caratto e mezzo l'uno, e aveano 64 anelli con gioie legate e 1400 pardai. E volendo, oltre le sopradette cose, salvare anche sette spingarde e tre gatti maimoni e duoi gatti da zibetto e la rota da conciar gioie, per questa miseria loro furon causa della lor morte, perché 'l schiavo suo, qual era di Calicut, avedendosi che volevano fuggire, se n'andò subito al re e dissegli ogni cosa. Il re non gli credeva; nientedimeno mandò 5 Naeri a casa a star in sua compagnia. Vedendo il schiavo che 'l re non li voleva far morire, se n'andò al cadí della fede de' Mori e dissegli quelle medesime parole che avea detto al re, e piú gli disse che tutto quello che si faceva in Calicut loro avisavano li cristiani.
Il cadí moro fece un consiglio con tutti li mercatanti mori, fra li quali adunarono cento ducati, li quali portarono al re di Giogha, il qual si trovava allora in Calicut con tremila Gioghi. Al quale ditti Mori dissero: "Signore, tu sai, gli altri anni, quando tu vieni qui, noi ti facciamo molto bene e piú onore che non facciamo adesso. La causa è questa: che sono qui duo cristiani nimici della fede nostra e vostra, li quali avisano li Portoghesi di tutto quello che si fa in questa terra. Per questo ti pregamo che tu gli ammazzi: e piglia questi cento ducati". Subito il re di Giogha mandò ducento uomini ad ammazzar li detti duoi Milanesi: e quando andarono alla sua casa, cominciarono a dieci a dieci a sonar cornetti e domandar elemosina. E quando li Milanesi viddero multiplicare tanta gente, dissero: "Questi vogliono altro che lemosina", e cominciorono a combattere, per modo che essi duoi ne ammazzarono sei di coloro e ne ferirono piú di quaranta. All'ultimo questi Gioghi li tirarono una sorte di lor armi, che è un circolo di ferro grosso due dita, che ha il taglio di fora via come un rasoro, e dettero a Giovanmaria nella testa e a Pietroantonio nella coscia, per modo che tutti duoi cascarono in terra, e poi li corsero addosso, e li tagliorno le canne della gola con le mani e beverono il lor sangue.
La femmina di Giovanmaria se ne fuggí col figliuolo in Canonor, e io comprai il figliuolo per 8 ducati d'oro, il qual feci battezzare il dí di san Lorenzo, e posigli nome Lorenzo, perché lo battezzai quel dí proprio. E in termine d'un anno, in quel dí medesimo, moritte di malfranzoso: e sappiate che di questa infirmità io ne ho visto ammalati, di là da Calicut, piú di tremila migliaia, e chiamasi pua, e dicono che sono circa XVII anni ch'ella cominciò, ed è assai piú cattiva in quelli paesi che nelli nostri.


Dell'armata di Calicut che venne contra quella de' Portoghesi
e della crudel battaglia che fecero insieme.

A' XII dí di marzo MDVI venne questa nova delli cristiani morti; in questo giorno medesimo si partí la grandissima armata di Pannani, di Calicut, di Capogat e da Pandarane e da Tromapatan. Tutta questa armata erano ducento e nove vele, delle quali ottantaquattro erano navi grosse e lo resto navilii da remi, cioè parao: nella quale erano infiniti Mori armati, e portavano certe veste rosse di tele imbottite di bombagio, con certe berrette grandi in testa imbottite, e similmente alle braccia braccialetti e guanti tutti imbottiti, e archi assaissimi e lanze, spade, rotelle e artegliaria grossa e minuta ad usanza nostra.
Quando noi vedemmo questa armata, che fu adí XVI del mese sopradetto, veramente, a veder tanti navilii insieme, parea che si vedesse un grandissimo bosco, per li arbori grandi delle navi. Noi cristiani veramente sempre speravamo che Dio ci avesse da aiutare a confondere la fede pagana. E il valentissimo cavaliere capitano dell'armata, figliuolo di don Francesco de Almeida, vice re dell'India, era qui con undeci navi, fra le quali erano due galee e uno bergantino; e come vidde tanta moltitudine de navi, avendo avanti gli occhi le valorose imprese de' suoi antecessori, non volendo punto degenerare da quelli, chiamati a sé tutti li cavalieri e uomini di dette navi, gli cominciò ad esortar e pregar che volessero, per l'amor di Dio e della fede cristiana, esponersi volentieri a patir la morte, dicendo in questo modo: "O signori, o fratelli, oggi è quel giorno che tutti ci dobbiamo ricordar della passione di Cristo, e quanta pena portò per redimer noi peccatori. Oggi è quel giorno che ne saranno scancellati tutti li nostri peccati e che Dio ne riceverà nella sua santa gloria. Per questo vi prego che vogliate andar vigorosamente contra questi cani, perché spero che Dio ne darà vittoria e non vorrà che la fede sua manchi". Immediate un santo padre spirituale, che stava sopra la poppe della nave del detto capitano, alzò con grandissima devozione un crucifisso con le sue mani, che tutte le genti lo potevano vedere, e fece un bel sermone, esortandone a far quel ch'eravamo obligati per la fede cristiana. Poi fece l'assoluzione di pena e di colpa, e disse: "Orsú, figliuoli mei, andiamo a combattere tutti volentieri, che Dio sarà con noi". E seppe tanto ben dire, e con parole tanto pietose ed efficaci, che tutti piangevamo e pregavamo Dio che ci facesse morire in quella battaglia.
In questo mezzo veniva la grandissima armata de' Mori alla volta nostra per passare, e il nostro capitano si partí con due navi e andossene alla volta loro, e passò fra due navi, le quali erano le maggiori che fossero nell'armata de' Mori: e quando passò per mezzo le dette navi, ci salutarono l'una e l'altra parte con grandissimi tiri d'artegliaria. E questo fece il nostro capitano per conoscer la forza di queste due navi e che modo teneano, perché queste aveano grandissime bandiere ed erano capitane di tutta l'armata. Per quel giorno non fu fatta altra cosa. La mattina seguente a buon'ora li Mori cominciarono tutti a far vela e venir verso la città di Canonor, e mandorono a dire al nostro capitano che gli lassasse passare e andar al viaggio loro, che essi non voleano combattere con cristiani. Il capitano gli mandò a dire che li Mori di Calicut non lassarono tornare li cristiani che stavano in Calicut sopra la sua fede, ma a tradimento ne ammazzarono quarantaotto, e li robarono piú di quattromila ducati infra robba e danari. E poi li disse: "Passate, se potete passare. Ma prima cognoscerete la forza e cuore ch'è nelli cristiani". Li Mori risposero: "Già che la cosa è cosí, Maumetto nostro ci defenderà da voi cristiani". E cosí tutti cominciorono a far vela e con grandissima furia a voler passare, sempre navigando appresso terra otto o dieci miglia. E il nostro capitano gli volse lasciar venire a riscontro la città di Canonor, perché 'l re di Canonor stava a vedere, per mostrarli quanto era l'animo de' cristiani.
In questo mezzo il capitan comandò che tutti mangiassero, e poi che ebbero mangiato, il vento cominciò un poco a rinfrescare. Il capitano disse: "Orsú, fratelli, adesso è il tempo che tutti siamo buoni cavalieri", e cominciò andar alla volta di queste due grandissime navi. Non vi potrei dire la sorte degl'infiniti instrumenti che sonavano ad usanza loro, che pareva che 'l mondo venisse a fine. Il capitano valentemente s'incatenò con una delle navi de' Mori, cioè con la piú grossa, e li Mori tre volte gittorono via la nostra catena: alla quarta volta rimasero attaccati, e subito li cristiani saltorono nella detta nave, dov'erano seicento Mori. Qui a spada per spada si venne alle mani, e fu fatta crudelissima battaglia con grandissima effusione di sangue, per modo che di questa nave non scampò alcuno, ma tutti rimasero morti. Poi il nostro capitano andò a trovar l'altra nave grande de' Mori, la quale stava già incatenata con un'altra delle nostre navi, e qui ancora si combatté terribilmente, e vi morirono cinquecento Mori. Quando queste due navi grosse furon prese, tutto il resto dell'armata de' Mori si mise alla disperata e circondò le nostre undici vele, per modo che era tal nave delle nostre ch'avea intorno quindici e venti di quelle de' Mori a combattere. Qui fu un bel veder menar le mani ad uno valentissimo capitano chiamato Giovan Serrano, il qual fece con una galea tanta crudeltà de' Mori che non si potria dire: e fu volta ch'egli avea intorno alla sua galea cinquanta navilii da remi e da vela, tutti con artigliaria, e per grazia di Dio si prevalse e non furono morti de' cristiani se non pochi, cioè VIII o X, ma feriti infiniti. E durò tutto quel giorno il combattere, fino all'oscura notte.
Il bregantin dove io era si allungò un poco dalle navi, e subito fu messo in mezzo da quattro navilii de' Mori, e si combattette molto aspramente: e fu ora che stavano sopra il bregantino quindici Mori, per modo che li cristiani s'erano retirati tutti alla poppa. E quando il valente capitano chiamato Simon Martin vidde esser tanti Mori sopra il bregantino, saltò infra que' cani e disse: "O Iesú Cristo, dacci vittoria, aiuta la tua fede", e con la spada in mano tagliò la testa a sei o ver sette; tutti gli altri Mori si gittorno nel mare e fuggirono chi qua chi là. Quando i Mori viddero che 'l bregantino avea avuto vittoria, mandorono quattro altri navilii a soccorrer li suoi. Il capitano del bregantino, vedendo venire li detti navilii, subitamente prese un barile dove era stata la polvere e vi messe nella bocca un pezzo di vela, che parea che fosse una pietra di bombarda, poi mise un pugno di polvere sopra il barile e, stando col fuoco in mano, mostrava di voler scaricare una bombarda. Li Mori, vedendo questo, credettero che 'l detto barile fosse una bombarda e subito voltorono indrieto: e il detto capitano si ritirò dove stavano li cristiani, col suo bregantino vittorioso. Il nostro capitano poi si mise fra tutti quei cani, de' quali furono prese sette navi cariche parte di spezie e parte d'altre mercanzie, e nove o ver dieci ne furono gittate a fondo per forza d'artegliaria, infra le quali ve n'era una carica d'elefanti. Quando li Mori viddero tutto il mare pieno di sangue e tanti di loro morti, e ch'erano prese le due navi capitane dell'armata e altri navilii, subito si misero in rotta a fuggire chi qua chi là, notando verso terra, e chi in porto e chi a traverso la spiaggia. Alla fine, vedendo il nostro capitano tutti li navilii nostri salvi, disse: "Lodato sia Iesú Cristo, seguitiamo la vittoria contra questi cani", e cosí tutti insieme si misero a seguitarli. Veramente, chi gli avesse allora veduti fuggire, gli parebbe che avessero drieto un'armata di cento navi. E questo combattere cominciò da l'ora del mangiare e durò per fino alla sera, e poi tutta la notte furono seguitati, sí che tutta questa armata fu sbarrattata con la morte di pochi di nostri, ma infiniti ne furon feriti.
L'altro giorno li nostri navilii che restarono qui seguitorono un'altra nave grossa, che viddero andar alla volta del mare; all'ultimo furon sí valenti che la investiron, in modo che tutti li Mori si gittorono a notare, e noi continuamente li seguitammo col schiffo, e con le balestre e lanze ammazzando e ferendo di loro in fino in terra. Ma alquanti si salvarono per forza di notare, e questi erano da ducento persone, le quali notarono piú di 5 miglia, quando sotto e quando sopra l'acque: e alcuna volta credevamo che fussero morti, e quelli sorgevano lontano un tiro di balestra da noi, e giunti ch'eravamo appresso di loro per amazzarli, credendo che fussero stracchi, di nuovo si metteano sotto l'acqua, per modo che parea che fosse un miracolo grandissimo che costoro tanto durassero a notare. Pur al fine la maggior parte morirono e la nave se ne andò al fondo per li colpi delle artegliarie.
La mattina seguente il nostro capitano mandò le galee e il bregantino con alcuni altri navilii a canto la costa, a vedere li corpi che se potevano contare: trovorono, fra quelli ch'erano in spiaggia morti e per il mare e quelli delle navi prese, 3600 corpi morti; molti piú ancora ne furono morti quando si misero in fuga, li quali si gittarono in mare. Il re di Canonor, veduta tutta questa battaglia, disse: "Questi cristiani sono molto animosi e valenti uomini", e cominciò a volerne molto bene e averne cari. E veramente, per dir la verità, io mi sono trovato in qualche guerra alli miei giorni e ho veduto combattere terribilmente, ma non viddi mai li piú animosi di questi Portoghesi. Il giorno seguente tornammo al nostro vice re, il qual era a Cochin, dove si vidde la grande allegrezza del re di Cocchin, il quale era vero amico del re di Portogallo, vedendoci tornar vittoriosi.


Come l'auttore fu rimandato per il vice re in Canonor e creato fattore.

Lasciamo l'armata del re di Calicut e torniamo al fatto mio. Passati tre mesi, il vice re per sua grazia mi dette un certo officio, quale era la fattoria delli mercatanti: e in questo officio stetti circa un anno e mezzo. De lí ad alcuni mesi il detto signore mi mandò sopra una nave a Canonor, perché molti mercatanti di Calicut andavano in Canonor e pigliavano il salvocondutto da' cristiani, con darli ad intendere che erano da Canonor e che volevano passar con mercanzie delle navi di Canonor, il che non era il vero: però il vice re mi mandò per conoscer questi mercatanti e intender queste fraudi. Avenne in questo tempo che 'l re di Canonor moritte, e l'altro che fu fatto fu molto nimico nostro, perché 'l re di Calicut lo fece per forza di danari e prestogli ventitre bocche di fuoco.


Della guerra che cominciò in Canonor, dove era la fortezza de' Portoghesi,
e come alla fin fecero pace.

Nel MDVII, cominciò la grandissima guerra alli XXVII d'aprile e durò per fino a' XXVII di agosto. Ora intenderete che cosa è la nostra fede cristiana e che uomini sono li Portoghesi. Andando un giorno li cristiani per pigliar acqua, li Mori gli assaltarono, per molto odio che ci portavano; li nostri si ritirarono nella fortezza, la qual già stava in buoni termini, e per quel giorno non fecion male alcuno. Il nostro capitano, qual si chiamava Lorenzo de Britte, mandò a far intendere questa novità al vice re, ch'era in Cochin: e subito vi venne il signor don Lorenzo, con una caravella fornita di tutto quel ch'era bisogno, e dopo quattro giorni il detto don Lorenzo si tornò in Cochin e noi restammo a combattere con questi cani, e non eravamo piú che dugento uomini. Il mangiar nostro era sol riso, zuccaro e noci, e non avevamo acqua per bere dentro nel castello, ma ci era forza due volte la settimana andar a pigliar acqua ad un certo pozzo, il qual era lontano dal castello un tiro di balestra: e ogni volta che andavamo per acqua sempre ci bisognava pigliarla per forza d'arme, e sempre si scaramuzzava con loro. La manco gente che venisse erano ventiquattromila, e alcuna volta furono trenta, quaranta e cinquantamila persone, li quali aveano archi, lanze, spade e rotelle, con piú di cento e quaranta bocche d'artegliaria infra grosse e minute, e aveano le medesime armature indosso, come vi ho detto nell'armata di Calicut. Il combattere loro era in questo modo: venivano due o tremila alla volta, e portavano tante sorti di suoni di diversi instrumenti e tanti fuochi artificiati, e poi con tanta furia correvano, che veramente averiano fatto paura a diecimila persone. Ma li valentissimi cristiani andavano a trovarli di là dal pozzo, e mai non s'accostarono alla fortezza a duo tiri di pietra, e ne bisognava ben guardarci davanti e da drieto, perché alcuna volta venivano di questi Mori per mare con LX parao per pigliarci in mezzo. Nondimeno ogni giorno di battaglia ne ammazzavamo dieci e quindeci e venti di loro, e non piú, perché, come vedevano alcuno delli suoi morto, subito si mettevano in fuga; pur una volta fra l'altre una bombarda, chiamata la serpe, in un tiro ne ammazzò XVII, ed essi mai per la grazia di Dio non ammazzorono alcuno di noi: dicevano che noi tenevamo il diavolo che ci defendeva.
Questa guerra durò dalli 27 di aprile fin alli 27 d'agosto, perché allora venne l'armata di Portogallo, della quale era capitano il valentissimo cavaliere il signor Tristan da Cugna. Come egli giunse per mezzo Canonor, noi facemmo segno che stavamo in guerra, e subito il prudente fece armar tutti li battelli delle navi ed entrarvi dentro trecento cavalieri armati d'arme bianche, in modo che, se non fosse stato il nostro capitano che ci ritenne, subito smontati in terra noi volevamo andar a bruciar la città di Canonor. Pensate, o benigni lettori, che allegrezza fu la nostra quando vedemmo tal soccorso, perché in vero eravamo tanto stracchi che non potevamo piú durare, e appresso la maggior parte feriti. Quando li Mori viddero la nostra armata cosí in ordine, subito mandorono un imbasciatore, il qual si chiamava Mamal Maricar, ch'era il piú ricco della terra: e venne a dimandarne pace, per la qual cosa fu mandato al vice re, ch'era in Cochin, ad intendere quel che si aveva da fare. Il vice re ordinò che si facesse la pace, e questo fece egli solamente per poter caricare le navi e mandarle in Portogallo.
Passati quattro giorni, vennero duo mercanti di Canonor, li quali erano amici miei prima che fosse fatto guerra, e parlarono meco in questo modo che intenderete: "O fattore, mostrane un uomo il qual è piú grande d'ogniun di voi un braccio, il quale ogni giorno ha ammazzato X, XV e XX di noi, e li Naeri erano alcuna volta quattrocento e cinquecento a tirare a lui, né mai una fiata lo poterono toccare". Io gli risposi: "Quell'uomo non è qui, ma è andato a Cochin". Poi pensai che quello era altro che cristiano e dissigli: "Amico mio, vien qua, quel cavaliere che hai visto non è portoghese, ma è il Dio de' Portoghesi e di tutto il mondo". Egli rispose: "Per Dio, che tu di' la verità, perché tutti li Naeri dicevano che quello non era portoghese, ma che gli era lo Dio loro, e che era meglio lo Dio de' cristiani ch'il suo, e loro non lo conoscevano: sí che a tutti parve che fosse miracolo di Dio". Guardate che genti sono costoro e che ingegno è il loro, ch'alcuna volta stavano dieci e dodici uomini a veder sonare la nostra campana e la guardavano com'una cosa miracolosa, e poi che la campana non sonava piú, dicevano in questo modo: "Questi toccano quella campana ed essa parla; come non la toccano, essa non parla piú. Questo Dio di Portogallo è molto buono". E ancora stavano alcuni di questi Mori alla nostra messa, e quando era mostrato il corpo di Cristo, io gli diceva: "Quello è il Dio di Portogallo e di gentili e di tutto il mondo"; e loro dicevano: "Voi dite la verità, ma noi non lo conosciamo", onde si può comprendere che lor pecchino semplicemente. Si trovano però alcuni di questi che sono grandissimi incantatori: noi gli abbiamo visti constringer serpenti, li quali quando toccano alcuno subito casca morto in terra. Dicovi ancora che sono li maggiori e li piú destri atteggiatori che credo siano in tutto il mondo.


Degli assalti che fecero li Portoghesi contra Pannani.

Finalmente approssimandosi il tempo di ritornare alla patria, imperoché il capitano dell'armata cominciava a caricare le navi per ritornarsene alla volta di Portogallo, e per esser io stato sette anni fuori di casa mia, e per l'amore e benivolenza verso la patria, e ancora per portarle notizia di gran parte del mondo, fui constretto a dimandar licenzia al signor vice re, il qual per sua grazia me la dette, e disse che prima voleva ch'io andassi con lui dove intenderete. E cosí lui e tutta la compagnia ci mettemmo in ordine d'arme bianche, per modo che poca gente rimase in Cochin, e a' ventiquattro di novembre dell'anno sopradetto facemmo l'assalto dentro dal porto di Pannani: in questo giorno noi sorgemmo davanti la città di Pannani. La mattina seguente, due ore avanti giorno, il vice re si fece venir tutti li battelli delle navi con tutta la gente dell'armata, e dissegli come quella terra era quella che faceva guerra a noi piú che terra alcuna dell'India, e per questo pregava tutti che volessero andare di buona voglia per espugnar questo luoco, il qual veramente è il piú forte che sia in quella costa. Dapoi ch'ebbe parlato il vice re, il padre spirituale fece un sermone, che ogni uomo piangeva e molti dicevano per amor di Dio voler morir in quel luoco.
Un poco avanti giorno cominciammo la mortalissima guerra contra questi cani, li quali erano ottomila, e noi eravamo cerca seicento: che le due galee poco si adoperarono, perché non si potevano cosí accostar alla terra come li battelli. Il primo cavalier che saltasse in terra fu il valente signor don Lorenzo, figliuolo del vice re; il secondo battello fu quello del vice re, nel qual io mi ritrovai. E nel primo assalto fu fatta una crudel battaglia, perché qui la bocca della fiumara era molto stretta, e nella riva della terra stava gran quantità di bombarde, delle quali noi ne pigliammo quaranta bocche. In questo assalto furono presi sessantaquattro Mori, li quali aveano giurato o di voler morir in quel loco o vero esser vittoriosi, perché ciascun di loro era padron di nave e aveano molte mercanzie, che vedevan esser perse se noi eravamo vittoriosi. E cosí nel primo assalto scaricorono molte bombarde sopra di noi, ma Dio ci aiutò, che qui non morirono alcuni de' nostri, ma di loro ne morirono cerca cento e sessanta. Il signor don Lorenzo ne ammazzò sei in mia presenza, ed egli ebbe due ferite, e molti altri ne furono feriti. Per un poco di spazio fu aspra la battaglia, ma poi che le nostre galee furono in terra, quelli cani cominciorono a tirarsi indrieto. E perché l'acqua cominciava a calare, noi non volemmo seguitargli piú avanti, e quelli cani cominciorono a crescere: e per questo appicciammo il foco nelle lor navi, delle quali se ne abbruciorono tredeci, e la maggior parte nuove e grandi. Dapoi il vice re fece tirar tutta la gente nella punta, dove si stava sicuramente, e qui fece alquanti cavalieri, fra li quali per sua grazia fece ancor me, e il valentissimo capitano il signor Tristan da Cugna fu mio patrigno. Fatto questo, il vice re cominciò a far imbarcar genti, pur continuamente faccendo brusciar molte case del detto luoco, per modo che con la grazia di Dio, senza morte d'alcuno di noi, pigliammo il cammino verso Canonor, e subito il capitano nostro fece fornir le navi di vettovaglia, per ritornarsene verso la patria tanto da noi desiderata.


LIBRO DELLA ETIOPIA

Nessuna cosa è piú necessaria a quelli che, per utilità commune e per fare immortal il suo nome, scrivono istorie o ver narrano li siti delle regioni e paesi del mondo, che di tener avanti gli occhi e aver sempre fisse nella memoria le cose che nelli libri superiori hanno (per non esservi l'occasione) pretermesso di dire, acciò che, dimenticandosi di alcuna di esse, non diano causa a' curiosi lettori di accusarli di negligenzia e di oblivione. E perché nel principio di questo libro, dove si trattò dell'Etiopia, non mi par che fosse a bastanza detto di quella, però nel fine di questa mia faticosa peregrinazione, essendo il luogo opportuno, si narrerà di molti luoghi e isole che nel ritorno mio si viddono, non pretermettendo li pericoli e le fortune ch'io passai.


Di varie isole nel mar Oceano meridional della Etiopia.

Alli 6 di decembre pigliammo il nostro cammino verso l'Etiopia, e passammo il colfo, che sono circa tremila miglia di passaggio, e arrivammo all'isola di Monzambich, la qual è del re di Portogallo. E innanzi che arrivassimo alla detta isola, vedemmo molte terre le quali sono sottoposte al serenissimo re di Portogallo, nelle qual città il re tiene buone fortezze, e massime in Melinde, ch'è reame, e Mombaza, la qual il vice re la messe a fuoco e fiamma; in Chiloa vi tiene una fortezza e una se ne faceva in Monzambich; in Ceffalla v'è un'altra fortezza. Io non vi scrivo quel che fece il valente capitano il signor Tristan da Cugna, ch'al venire che fece in India prese Goa e Pate città, e Brava isola fortissima, e Zacotara bonissima, nella quale tien il prefato re buone fortezze: la guerra che fu fatta non vi scrivo, perché non mi vi ritrovai. Taccio ancora molte belle isole che trovammo pel cammino, fra le quali v'è l'isola del Cumere, con sei altre isole d'intorno, dove nasce molto zenzero e molto zuccaro, e molti frutti singulari, e carne d'ogni sorte in abbondanza. Ancora vi dico d'un'altra bella isola chiamata Penda, la qual è amica del re di Portogallo ed è fertilissima d'ogni cosa.


Di Monzambich isola, e degli abitatori nella terra ferma sopra la Etiopia.

Torniamo a Monzambich, dove il re di Portogallo (come ancora in Ceffalla isola) cava grandissima quantità d'oro e d'avolio, il qual vien portato da terra ferma. Noi stemmo in questa isola cerca 15 giorni, e la trovammo esser piccola. Gli abitatori della quale sono negri e poveri, e hanno qui poco da mangiare, ma il tutto li vien da terra ferma, la qual è molto prossima; nondimeno qui è bonissimo porto.
Alcuna volta noi andavamo a piacere per la terra ferma, per vedere il paese, dove trovammo alcune generazioni di genti tutte negre e tutte nude, salvo che gli uomini portano il membro nascoso in una scorza di legno, e le donne portano una foglia davanti e una di drieto. E questi tali hanno li capelli ricci e corti, le labbra della bocca grosse due dita, il viso grande, li denti grandi e bianchi come la neve. Sono costoro molto timidi, massime quando veggono gli uomini armati: vedendo noi queste bestie esser pochi e vili, ci mettemmo insieme circa cinque o sei compagni, molto ben armati con schioppi, e pigliammo una guida nella detta isola che ci menò per il paese, e andammo una buona giornata in terra ferma. Per questo cammino trovammo molti elefanti in frotta, e colui che ci guidava, per rispetto di questi elefanti, ci fece portar certi legni secchi accesi di fuoco, li quali sempre faceano fiamma: e quando gli elefanti vedevano il fuoco fuggivano, salvo una volta che trovammo tre elefante femine le quali aveano li figliuoli drieto, che ci dettero la caccia per fino ad un monte, dove ci salvammo. E camminammo per il detto monte ben dieci miglia, poi discendemmo giuso dall'altra banda e trovammo alquante caverne, dove si riducevano li detti Negri, li quali parlano in un modo che a gran fatica ve lo saperò dar ad intendere: pur sforzarommi di dirvelo meglio che potrò con esempio. Quando li mulattieri vanno drieto alli muli in Sicilia e vogliono cacciarli innanzi, posta la lingua sotto il palato fanno un certo verso stranio e un certo strepito, col qual fanno camminar li muli: cosí è il parlare di queste genti e con atti assai in tanto se intendono.
La nostra guida ne dimandò se volevamo comperar qualche vacche e buoi, che ne faria aver buon mercato; noi respondemmo che non avevamo danari, dubitando che non s'intendesse con quelle bestie e farne robare. Disse costui: "Non vi bisogna danari in questa cosa, che loro hanno piú oro e argento che voi, perché qui appresso lo vanno a trovar dove nasce". Dimandammo noi la guida: "Che vorriano adunque essi?" Disse: "Loro amano alcuna forficetta piccola e un poco di panno per ligarselo intorno; hanno molto caro ancora qualche sonaglio piccolo per li suoi figliuoli e qualche rasoio". Rispondemmo: "Noi gli daremo parte di queste cose, pur che ci vogliano condurre le vacche alla montagna". La guida disse: "Io farò che ve le condurranno per fino in cima della montagna, e non piú oltra, però ch'elli non passano mai piú avanti. Ditemi pur ciò che gli volete dare". Un nostro compagno bombardiero disse: "Io li darò un buon rasoio e un sonaglio piccolo"; e io, per aver carne, mi cavai la camicia e dissi che li daria quella.
Allora la guida, vedendo quello che volevamo dare, disse: "Chi condurrà poi tanto bestiame alla marina?" Rispondemmogli tanto ci dessero quanto ne condurremmo, e la guida pigliò le cose sopradette e dettele a cinque o sei di quegli uomini, e dimandolli trenta vacche per esse. Costoro, che son come animali, fecero segnale che volevano dar quindeci vacche; noi dicemmo che le pigliasse, ch'erano assai, pur che non ci gabbassero. Subito li Negri ci condussero fino in cima della montagna quindeci vacche; ma, quando fummo un pezzo dilungati da loro, quelli che eran restati nelle caverne cominciarono a far rumore, e noi, dubitando che non fossen per venirne drieto, lassammo le vacche e tutti ci mettemmo in arme. Li duoi Negri che conducevano le vacche ci mostravano che non avessimo paura con certi suo' segni, e la nostra guida disse che doveano far questione, perché ciascuno aria voluto quel sonaglio. Noi ripigliammo le vacche e andammo per fin in cima del monte, e li due Negri poi tornorono al suo cammino. Al dismontar nostro per venire alla marina, passammo per un boschetto di cubebe cerca cinque miglia, e scontrammo parte di quegli elefanti che trovammo all'andare, li quali ci misero tanta paura che fu forza lasciar parte delle vacche, le quali fuggirono alla volta delli Negri; e noi tornammo alla nostra isola.
E quando fu fornita la nostra armata di quanto gli era bisogno, pigliammo il cammino verso il capo di Buona Speranza, e passammo infra l'isola di S. Lorenzo, la qual è distante da terra ferma LXXX leghe: e presto credo che ne sarà signore il re di Portogallo, perché ne hanno già pigliate due terre e messe a fuoco e fiamma. Per quello ch'io ho visto dell'India e dell'Etiopia, a me par che 'l re di Portogallo (piacendo a Dio e avendo vittoria come ha avuto per il passato) sarà il piú ricco re che sia al mondo. E veramente egli merita ogni bene, perché nell'India, e massime in Cochin, ogni giorno di festa si battezzano X e XII gentili e mori alla fede cristiana, la qual ogni giorno per causa di detto re si va aumentando: e per questo è credibile che Dio gli abbia dato vittoria, e per l'avenire continuamente lo prospererà.


Del capo di Buona Speranza.

Torniamo al nostro cammino. Passammo il capo di Buona Speranza, e cerca dugento miglia lontani dal detto capo si levò una gran fortuna di vento, e questo perché v'è a man manca l'isola di San Lorenzo e molt'altre isole, dalle quali suol nascer grandissima furia di venti: e questa fortuna durò per sei giorni, pure con la grazia di Dio la scampammo. Passato che avemmo poi dugento leghe, ancora avemmo grandissima fortuna per altri sei giorni, dove si perdette tutta l'armata un dall'altro, e chi andò in qua e chi in là. Cessata la fortuna, pigliammo il nostro cammino e per fino in Portogallo non ci vedemmo piú.
Io andava nella nave di Bartolomeo Marchioni, Fiorentino abitante in Lisbona, la qual nave si addimandava San Vicenzo e portava settemila cantara di spezie d'ogni sorte. E passammo appresso d'un'altra isola chiamata Santa Elena, dove vedemmo duoi pesci che ciascun di loro era grande come una gran casa, li quali, ogni volta che veniano sopra l'acqua con la bocca aperta, parea che discoprisseno il viso e che alzassino le sopraciglie della fronte, a modo di uomo armato quando alza la visiera, e quella poi abbassavano quando volevan camminare sotto acqua, la qual fronte era larga quasi tre passa. Dall'empito de' quali ne l'andare sotto acqua fummo tutti spaventati, in modo che scaricammo tutta l'artiglieria per farli dipartire di quel luogo. Poi trovammo un'altra isola chiamata l'Ascensione, nella quale trovammo certi uccelli grossi come anitre, li quali si posano sopra la nave, ed erano tanto semplici e puri che si lasciavano pigliare con le mani; ma quando erano presi, parevano molto bravi e feroci, e prima che fussero presi guardavano noi come una cosa miracolosa: e questo era per non aver mai piú visto uomini, perché in questa isola non v'è altro che pesce e acqua e questi uccelli.
Passata la detta isola, navigando alquanti giorni, cominciammo a vedere la stella tramontana. E nondimeno molti dicono che, non vedendosi la tramontana, non si può navigare se non col polo antartico: lassateli dire, noi navigammo sempre con la tramontana, e ben che non si veda la detta stella, nientedimeno la calamita fa sempre l'officio suo e tira al polo artico. Dapoi alcuni giorni arrivammo in un bel paese, cioè all'isole degli Astori, le quali sono del serenissimo re di Portogallo; e prima vedemmo l'isola del Pico e quella di San Giorgio, l'isola dei Fiori, quella del Corvo, la Graziosa, l'isola del Faial, e poi arrivammo all'isola Terziera, nella qual stemmo duoi giorni: queste isole sono molto abbondanti.
Poi partimmo de qui e andammo alla volta di Portogallo, e in sette giorni arrivammo alla nobile città di Lisbona, la quale è una delle nobili e buone ch'io abbia visto. Lo piacere e l'alleggrezza ch'io ebbi, giunto ch'io fui in terra ferma, lo lasso pensar a voi, o miei lettori benigni. E perché il re non era in Lisbona, subitamente mi posi in cammino e andai a trovarlo in un suo luoco, chiamato Almada, a riscontro della quale è Lisbona. Dove arrivato, fui a basciar la mano a sua Maestà, la qual mi fece molto carezze e tennemi alquanti giorni alla sua corte, per saper le cose dell'India. Passati alquanti giorni, mostrai a sua Maestà la carta di cavalleria, la qual me avea fatta il vice re in India, pregandola (se le piaceva) de volermela confirmare e signar di sua mano, mettendovi il suo sigillo. Visto ch'ebbe detta carta, disse che era contento, e cosí mi fece fare un privilegio in carta membrana, signato di sua mano col suo sigillo e registrato. E pigliata che ebbi licenzia da sua Maestà, me ne venni alla volta della città di Roma.


La navigazione di Iambolo mercatante, dai libri di Diodoro Siculo, tradotta di lingua greca nella Toscana.

Ora brevemente abbiamo da narrare della isola ritrovata nell'Oceano verso mezzogiorno, e di quelle cose che in essa dicono esser fuori d'ogni credenza, e anco per qual cagione ella fosse ritrovata.
Un Iambolo greco, il quale dalla prima fanciullezza fu nutrito e ammaestrato nelle buone lettere, dopo la morte del padre, che fu mercatante, si diede anch'egli ad attendere alla mercanzia. E passando in quelle parti di Arabia dove nascono le spezierie, co' suoi compagni insieme fu preso da' ladroni, e primamente con uno de' suoi conservi fu posto a guardar bestie, dipoi con esso lui fu un'altra volta preso da' Negri e menato di là in quella parte dell'Etiopia ch'è vicina al mare. Costoro, essendo forestieri, furon presi per farne espiazione, cioè per purgar i peccati di quel paese. Era un costume appresso i detti Negri che abitavano in quei luoghi, lasciato loro dagli antichi tempi per voce dell'oracolo degli dei e osservato già per venti progenie, cioè per seicento anni, conciosiaché una progenie si compiva in trenta anni, che dovessero far questa espiazione con due uomini forestieri. Tenevano apparecchiata una barchetta di conveniente grandezza, atta a sopportar la fortuna del mare, e che potesse esser governata da due uomini, e vi mettevano dentro tanta vettovaglia quanta fosse bastante a due uomini per sei mesi, e conducendogli sopra commettevan loro che, secondo il comandamento dell'oracolo, drizzassero la barchetta verso mezzogiorno, percioché anderiano ad una isola felice e ad uomini benigni e piacevoli, dove viveriano beatamente. E nel modo medesimo, se essi giugnessero salvi nella isola, la lor patria staria seicento anni felice e pacifica; ma se, spaventati dalla lunghezza del mare, si volgessero indrieto, come empi e cagione della ruina di tutta la sua gente sariano puniti con grandissimi supplicii. E dicono che li Negri stanno ai lidi del mare faccendo gran feste e sontuosi sacrificii, e coronando quelli che mandan via, accioché si faccia la solita espiazione e che i due uomini abbiano prospera navigazione.
Iambolo adunque e il suo compagno, dopo il quarto mese, travagliati da molte fortune, furono trasportati all'isola sopra nominata, la cui forma era ritonda, di cinquemila stadii di circuito, cioè 625 miglia. Dove essendosi avicinati, alcuni degli abitanti andando loro incontro tiravano la barchetta a terra, altri correvano maravigliandosi della venuta de' forestieri, e benignamente e con amorevolezza gli riceverono, faccendo loro partecipi di quelle cose che si ritrovavano avere. Gli abitatori di questa isola sono molto differenti, nelle proprietà del corpo e nel modo del vivere, da quelli che abitano nei nostri paesi, che, ben che siano simili nella figura, nondimeno nella grandezza avanzano i nostri quattro cubiti. Le loro ossa si piegano alquanto e poi ritornano, a similitudine dei luoghi nervosi; hanno i corpi molli oltra misura, ma piú gagliardi e forti dei nostri, percioché, prendendo essi con le mani cosa alcuna, nessuno gliela potrà cavar fuor delle dita. Non hanno peli salvo che nel capo, nei sopracigli, nelle palpebre e nel mento: le altre parti del corpo sono tanto polite che non vi appar pur un minimo pelo. Sono belli e graziosi, e di corpo molto ben formati. Hanno i fori degli orecchi molto piú larghi che i nostri, sí come sono anco da noi dissimili nella lingua, percioché la loro ha non so che di particolar concedutole dalla natura, e dal loro ingegno poi aiutato, avendola divisa fino ad un certo termine, talmente ch'ella è doppia fin alla radice. Usano parlar tanto vario che non solamente imitano ogni umana favella, ma contrafanno la varietà del cantar degli uccelli e universalmente ogni diversità di suono; e quel che par cosa piú maravigliosa è che ad un tratto parlano insieme con due uomini perfettamente, e rispondendo e ragionando a proposito d'ogni particolar circonstanzia, percioché con una parte della lingua parlano ad uno e con l'altra all'altro.
E dicesi ivi esser lo aere temperato come appresso quelli che abitano sotto l'equinoziale, e non sono travagliati né dal caldo né dal freddo. E tutte le stagioni dell'anno sono per la temperie sempre nel suo vigore, e, sí come scrive Omero,

Quivi si vede il pero sopra il pero
farsi maturo, e 'l pomo sopra il pomo;
qui l'uva acerba e in fior a tutte l'ore
dolce diviene, e 'l fico sopra il fico.

Oltra di ciò dicono che sempre il giorno è pari alla notte. Intorno al mezzodí niuna cosa fa ombra, percioché il sole batte perpendicolarmente sopra la testa. Vivono a parentele e communanze, le quali però insieme non trapassano il numero di quattrocento. Abitano nei prati, producendo la terra da se stessa, senza esser coltivata, gran copia di frutti per il vivere, percioché, per la virtú natural dell'isola e per il temperamento dell'aere, nascono i frutti da se stessi in maggior quantità di quello che a loro faccia di bisogno. Nascono appresso di loro molte canne, che producono frutti in gran copia simili a ceci bianchi: raccolti che gli hanno, vi spargono sopra acqua calda, infin che crescano alla grandezza delle uova di colombi, quali poscia, schizzati e impastati con arte e cotti, mangiano per pane, per esser eccellenti di dolcezza. Nell'isola sono anche fonti molto grandi, dai quali in parte escono acque calde, che usano per bagni e per levar la stanchezza del corpo, e in parte sono fredde e sommamente dolci, di molto giovamento alla sanità.
Attendono allo studio di ogni dottrina e massimamente all'astrologia. Usano lettere che in virtú di significare sono ventiotto, ma in caratteri sono sette, ciascuna delle quali in quattro modi si trasformano; non scrivono le righe a traverso come noi, ma d'alto a basso per linea diritta. Sono di lunghissima età, percioché vivono fin 150 anni, e per lo piú senza veruna infirmità: se alcun si storpia o li viene alcun altro mancamento nel corpo, per certa legge severa lo constringono a morire. È costume appresso di loro di viver insino a una certa età, la qual compiuta che è, volontariamente moreno in diversi modi. Si trova appresso di loro una erba di tal virtú, che chiunque sopra quella si mette a giacere, da soavissimo sonno addormentato, non accorgendosi muore. Le donne non si maritano, ma a tutti sono communi, e i figliuoli che nascono come communi sono allevati e da tutti equalmente amati. I bambini sono spesse fiate cambiati dalle donne che gli allattano, accioché le madri non riconoschino i propri figliuoli, onde aviene che, non essendo appresso di loro ambizione alcuna né particolar affezione, vivono unitamente senza discordia.
Sono oltra di ciò nella detta isola certi animali di forma piccoli, ma di natura di corpo e per la virtú del sangue maravigliosi. Sono di forma ritonda, simil alla testuggine, e sopra la schiena segnati con due linee gialle in croce, e nel fine di ciascuna hanno un occhio e una bocca, di sorte che vedono con quattro occhi e con altretante bocche mangiano. Nondimeno il cibo va in una gola sola, e per quella poi passa in un ventre solo, dove ogni cosa vi concorre; similmente gli altri interiori sono semplici e non multiplicati. Hanno molti piedi intorno della circonferenzia, coi quali possono andar a che parte vogliono. Il sangue di questi animali affermano esser di maravigliosa virtú, perché ogni corpo tagliato (pur ch'egli abbi vita) bagnato in tal sangue subitamente si ricongiunge, e similmente una mano (per modo di parlar) troncata si riattacca insieme, fin che la ferita è fresca, e medesimamente le altre parti del corpo, pur che non siano di membri principali che tengono vita.
Ciascuna communanza nutrisce un grandissimo uccello d'una estratta e particolar natura, col qual fanno prova di che disposizion di animo siano per esser i lor figliuoli piccolini, percioché pongono i bambini sopra gli uccelli, e se, volando in aere, i bambini stanno fermi senza spaventarsi gli allevano, ma se si inturbano per paura come stupidi e attoniti gli gettono via, come quelli che non siano per viver lungo tempo e non siano atti ad alcuna virtú dell'animo. In ciascuna communanza il piú vecchio come re comanda agli altri, al quale tutti rendono ubbidienza: e avendo finiti cento e cinquanta anni, egli stesso secondo la legge si priva di vita, e dopo lui il piú vecchio piglia il principato.
Il mare che circonda l'isola, per la correntia grande, fa grandissimo crescer e discrescer, e al gusto è come dolce. Le stelle della nostra tramontana e molte altre che qui da noi si veggono, ivi non appareno. Sonvi altre sette isole vicine, della medesima grandezza e distanti una dall'altra equalmente, e le genti di quelle usano li medesimi costumi e le medesime leggi. E ancor che abbiano grandissima abbondanza di tutto ciò che fa di bisogno al vivere, e che la terra da se medesima lo produchi, nondimeno modestamente usano di queste delizie, amando i cibi simplici e cercando di nutrirsi quanto lor sia a bastanza. Mangiano carni e altre cose lesse e arroste; delli sapori che dalli cuochi con tanta arte sono stati trovati, e con tanta varietà preparati, del tutto ne sono ignoranti. Adorano li dei, e colui che contiene il tutto, e il sole e l'altre stelle. Pigliano pesci e uccelli d'infinite e diverse sorti; vi nascono anche spontaneamente infiniti arbori fruttiferi, e olivi e viti, dalle quali ne cavano gran copia d'olio e di vino. L'isola produce grandissimi serpenti, ma non fanno dispiacer agli uomini, ed essendo le loro carni di maravigliosa dolcezza, sono usate per cibo. Si fanno le veste d'una molle e lucente lana, cavandola di mezzo d'alcune canne, la qual mettendola insieme e tingendo con ostriche marine, fanno vestimenti di color di porpora eccellenti. Vi sono varii animali, ed essendo fuori d'ogni openione, non è facilmente creduto.
Servano un fermo ordine di vivere, contentandosi ogni giorno d'un cibo solo, percioché un giorno è determinato a mangiar pesce, l'altro uccelli e alcune fiate animali terrestri; tal volta usano olive e altro cibo solo simplice. Si danno a far diversi esercizii per vicenda: alcuni servono l'un l'altro, alcuni pescano, alcuni esercitano l'arti e altri sono occupati intorno ad altre cose per commodità della vita; alcuni altri (eccetto i vecchi), compartendo le fatiche fra loro secondo che tocca la lor volta, attendono a servire. Nei sacri giorni della festa cantano inni in laude degli dei, massimamente del sole, a cui hanno se stessi e le isole dedicati. Sepeliscono i morti nel lito, faccendo la fossa nell'arena dove è calato il mare, acciò nel crescer il luogo sia ricoperto. Dicono che le canne, delle quali colgono il frutto sopra detto, crescono e diminuiscono secondo la luna. L'acqua dei fonti è dolce e sana, e mantiene la sua calidità se non vi è mescolata o acqua fredda o vino.
Iambolo e il suo compagno, essendo già sette anni stati nell'isola, finalmente dicono che furono cacciati via per forza, come uomini malvagi e di cattivi costumi. Apparecchiata adunque una barchetta e messovi dentro delle vettovaglie, furono costretti a partirsi, e in quattro mesi arrivorono in India, a certi luoghi arenosi e paludosi. Il compagno di Iambolo, in una fortuna che ebbero, si morí ed egli, capitato a una certa villa, fu dagli abitatori condotto al re nella città di Palimbrotta, lontana dal mare il cammino di molte giornate. Il qual re, portando grande affezione a' Greci e faccendo molta stima della lor dottrina, diede assai doni a Iambolo, e poi sicuramente il fece prima accompagnare in Persia, poscia a salvamento mandarlo in Grecia. Dipoi Iambolo di queste cose lasciò memoria, e scrisse di molte altre dell'India, che per lo adrieto dagli altri non erano state sapute.

Discorso sopra la navigazione di Iambolo, mercante antichissimo.

Diodoro Siculo nacque nell'isola de Sicilia, nella città di Agira, ch'al presente si chiama San Filippo di Agirone in Val Demona, e scrisse in lingua greca grande e mirabile istoria, percioch'egli abbreviò tutti gli scrittori antichi, sí greci come latini e barbari, e cominciando dal principio del mondo, secondo l'opinion de' gentili, pervenne infino alla età di Augusto, nel qual tempo visse. Divise detta istoria in XL libri, delli quali (per ventura grande) ne sono rimasi infino a' tempi nostri quindeci integri. E conciosiacosaché nel fine del secondo scriva la navigazion di un Iambolo, Greco antichissimo, il qual fu trasportato ad una isola posta sotto la linea dell'equinoziale nel mar Indico, esistimandola degna d'esser letta, mi è parso di trascriverla doppo tant'altre navigazioni, e insieme raccontar quanto sopra quella udi' altre volte parlarne da un gentiluomo portoghese, il qual aveva fatto gran fatiche nelle buone lettere e si dilettava grandemente di cosmografia, e per essere stato molti anni in la India orientale e massimamente in la città di Malacha, la quale è sopra l'Aurea Chersoneso a riscontro dell'isola di Sumatra, parlava molto particolarmente delli paesi che sono fra li tropici.
Costui adunque diceva aver fermissima openione che la navigazion di Iambolo sia stata vera, e che arrivasse all'isola sotto l'equinoziale, e che dapoi ritornato in Grecia ne facesse memoria. Ma che gli parve di finger una republica quanto meglio ordinata che si seppe imaginare di quel paese, dove non era cognizion che mai alcun vi fosse stato, né pensava che per l'advenire vi dovesse andare, e perché fu infiniti anni avanti che Platone scrivesse la sua "Republica", però, secondo il costume degli istorici del suo tempo, vi pose tante favole di uomini e animali, conciosiacosaché li detti non credevan che li loro scritti dovessero aver credito o riputazione, se non eran in qualche parte simili alli poeti, che mescolavan sempre la verità con molte meraviglie. E per tanto, essendo veramente il paese fra li tropici, come il detto gentiluomo affermava, e temperato di aere, e tutto abitato e pieno di genti, e che per la temperie in tutto il tempo dell'anno vi son frutti maturi e immaturi sopra gli arbori, non era da dubitar punto che Iambolo non vi fosse stato.
Aggiungeva ancora detto gentiluomo a proposito delle sopradette cose che, avendo letto la poesia d'Omero (che per la sua antichità fu da sapientissimi uomini riputata la prima filosofia, e da quella presero tutti i loro principii), esso trovava che detto poeta aveva avuto grande cognizione del sito della terra, e massimamente da quella parte ch'è posta fra li tropici; e che aveva molte volte pensato, sopra la descrizion del giardino maraviglioso di Alcinoo, re dell'isola di Corfú, nel qual dice che non vi mancavan sopra gli arbori né per freddo né per caldo i frutti tutto 'l tempo dell'anno, e che vi spirava un'aura dolce di zefiro che di continuo gli faceva nascer, fiorir e maturar, e che il pero sopra il pero, il pomo sopra il pomo, l'uva sopra l'uva e il fico sopra il fico si maturavano, che questo giardino cosí fatto per suo giudicio si doveva intender con piú abstruso e profondo sentimento di quello che fin ora era stato inteso. E ancor che l'officio di poeti sia di far le cose che descrivono maravigliose e grandi, nondimeno il piú delle fiate si conosce che esprimono la verità sotto queste tal forme di parole: e per tanto egli teneva per certo che per questa descrizione il poeta designasse, nella sua idea, la temperie dell'aere e fertilità della terra che si trova fra li tropici e sotto la linea, confrontandosi le sue parole tanto a punto con le stagioni che di continuo egli ha veduto nelli detti paesi.
Ma ritornando all'isola di Iambolo, si vede in questa scrittura cosí antica la particolar descrizione di quel miglio grosso, simile ai ceci bianchi, col qual al presente tutta l'Etiopia, tutte l'isole e terra ferma dell'India occidentale si sostentano, e lo chiamano maiz, e i Portoghesi miglio zaburro, e in Italia ai tempi nostri è stato veduto la prima volta. E volendo dimostrar sopra che parte dell'Etiopia fosse lasciato andar la barca col detto Iambolo, si fece portar una carta da navigare fatta per loro Portoghesi, molto bella e particolare, e diceva che, ancor che fosse cosa molto difficile da dire, per non esservi nominata né città né luogo alcuno, nondimeno si poteva andar discorrendo per congietture. E conciosiacosaché Iambolo fusse preso la prima volta con li compagni in l'Arabia Felice e fatto pastore, e dapoi la seconda volta dalli Negri fu condotto di là in quella parte dell'Etiopia ch'è vicina al mare, era necessario di dire che costui, dapoi preso la seconda volta, fosse fatto passar lo stretto del mar Rosso e condotto sopra quella parte dell'Etiopia detta anticamente Trogloditica, la qual a' tempi nostri è abitata da molti popoli passati dell'Arabia, ed è molto civile per esservi molte città e luoghi di signori arabi, macomettani e del Prete Ianni cristiano. E quivi dimostrava sopra la carta dove passò Iambolo il mar Rosso, cioè alla bocca, esservi in mezzo un'isola larga da terra tre miglia da una banda, tre dall'altra, detta Bebelmandel, che appresso agli antichi si chiama Diodori Insula, in gradi XII di altezza, com'è graduato similmente detto stretto. Di qui poi bisogna congietturare che fosse condotto o alla città di Zeila, alla quale per la commodità del porto a tutta l'Etiopia concorrendo, come insino al presente vi concorreno, tutte le navi che vengono dall'Indie con spezie, è opinione d'alcuni che dagli antichi fosse chiamata Aromata Emporium (ma li gradi dell'altezza non si confanno); overamente, per conformarsi con le parole di Diodoro, ch'ei fosse condotto piú lungo cammino fra terra e penetrasse fin nel regno di Magadaxo, ch'è sopra la marina dell'Etiopia verso mezzodí in gradi 2 di altezza, che facilmente è quel luogo che Ptolomeo chiama Opone, pur gradi 2; e che quivi li Negri, avendo aspettato il vento di ponente, che per sei mesi continui ogni anno suol soffiare, a quel tempo lasciassero andar la barca con Iambolo.
Circa veramente l'isola dove il detto dopo quattro mesi arrivasse, discorreva il detto gentiluomo in questo modo, che essendo scritto ch'ella era di circuito cinquemila stadii, e posta sotto l'equinoziale, perché vi erano i giorni sempre equali e perché l'Orsa del nostro polo non si vedeva, bisognava dire ch'ella fosse l'isola di Sumatra. Conciosiacosaché dimostrava sopra detta carta che, partendosi dalli lidi sopradetti dell'Etiopia e scorrendo al diritto per levante sotto la linea, non si trova alcuna altra isola che quella di Sumatra che sia grande, la qual veramente è la Taprobane, discoperta a' giorni nostri; ben vi sono in questo pareggio isole infinite, ma piccole e deserte. E s'alcun dubitasse come si può congietturare che questa isola Taprobane cosí grande fosse quella che Iambolo diceva esser di grandezza di cinquemila stadii, detto gentiluomo rispondeva che Strabon, auttor antico, parlando della Taprobane diceva che Onesicrito, capitano di Alessandro Magno, la descrive di grandezza di cinquemila stadii, senza dire né la lunghezza né la larghezza; e ch'ella era lontana dalli popoli Prasii sopra il Ganges la navigazion di vinti giornate, e che le navi malamente vi navigavano, sí per causa delle triste vele come perché non avevano il fondo di taglio; e che fra detta isola e l'India vi sono altre isole, ma che questa piú d'alcun'altra era esposta verso mezzodí. E similmente dice Plinio dipoi della detta Taprobane, per l'auttorità di Eratostene, che era longa seimila stadi e larga cinquemila; e continuando racconta che al tempo di Claudio imperatore era stata scoperta esser molto maggiore e quasi riputata un altro mondo, e ch'un re di detta isola mandò ambasciatori al detto imperatore, e che quelli che vi navigano non si governano per stelle, perché non vi si vede il nostro polo. Di modo che si conosce chiaramente che la Taprobane, per le parole di Strabone e di Plinio, veniva reputata dagli antichi non piú grande di cinquemila stadii nel detto mar Indico e sotto l'equinoziale, cioè avanti che fosse scoperta la sua grandezza; e le particularità e condizioni medesime confermano le navigazioni di loro Portoghesi alli tempi presenti, cioè l'isola Sumatra in detto mar Indico esser grandissima, e che la linea vi passa sopra il mezzo. E per questo si comprendeva certo che l'isola di Iambolo anticamente era la Taprobane, la qual al presente è detta Sumatra, della qual diceva il prefato gentiluomo che non erano state scoperte se non quelle parti delle marine che cominciano gradi cinque sopra la linea, verso il vento di maestro, e scorrono per scirocco altri gradi cinque di sotto la linea verso il polo antartico, che sono da seicento miglia, cioè cinquemila stadii in circa.
Iambolo veramente, ancor che si sforzasse di navigar verso mezzodí, nondimeno fu trasportato verso levante per questa cola di vento ordinario di ponente, e parte anche dalla fortuna, e arrivò alle parti di detta isola che guardano verso ponente e che sono sotto detta linea. E che sia il vero, dice che non si vedeva l'Orsa del nostro polo, perché l'orizonte del luogo dove lui giunse passava per li dui poli del mondo. Diceva ancora il prefato gentiluomo che Zeilam, isola grande ch'è all'incontro del capo di Cumeri, promontorio meridional della costa di Calicut, non poteva esser quella che trovò Iambolo, perch'ella è in gradi sette sopra l'equinozial, dove si può veder l'Orsa del nostro polo. Le sette isole ancora che dicono esser vicine alla detta dove arrivò Iambolo, della medesima grandezza e di pari distanzia l'una dall'altra, sono grande argomento ch'ella sia l'isola di Sumatra, percioché vi è vicina prima l'isola della Giava maggiore, della qual non è sta' discoperta la metà per esser grandissima, quella poi chiamata la Minore, l'isola di Borneo, di Timor e molte altre dette le Maluche, ch'è cosa maravigliosa a pensare che già tante migliara di anni se ne avesse cognizione, e che poi sian andate in oblivione e di nuovo a' tempi nostri state scoperte. Si conferma ancora che Iambolo arrivasse in Sumatra perché nel ritorno si narra che, doppo quattro mesi, fu gittato alli lidi dell'India, conciosiacosaché, partendosi dall'isola di Sumatra e navigando per tramontana, si vien diritto nel sino Gangetico, che ora è detto di Bengala, dove sbocca nel mar Meridionale il fiume Ganges, ed è gradi XXI sopra l'equinozial.
E quindi poi fu condotto fra terra per molte giornate alla città di Palimbotra, in gradi XXVII, del sito della qual, per esser molto famosa e nominata, non sarà fuor di proposito se diremo di quelle cose che si trovano scritte appresso gli antichi scrittori greci, conciosiacosaché sono simili a quelle che si narrano nelli libri del nobel M. Marco Polo, dove parla delle città orientali del regno del Cataio. La città di Palimbotra, ultima in oriente, dicono esser posta sopra il fiume Ganges, il qual in quella parte è di larghezza di miglia XII e profondo XX passa, ed è distesa lungo la ripa di quello per lunghezza di X miglia e due di larghezza, tutta cinta di legname sbusato, per il qual si può sicuramente tirar saette; ha dall'altra parte una fossa, ch'è per fortezza e per ricever tutte le immondizie della città. Il re di questa città è obbligato, oltra il suo nome proprio, chiamarsi Palimbotro; i popoli che abitano quel paese si chiamano Prasii. In questa regione nascono tigri il doppio maggiori che non sono i leoni, e scimie maggiori di gran cani, che sono tutte bianche, eccetto la faccia ch'è negra. Vi si cavano ancora alcune pietre di color dell'incenso, che son piú dolci di fichi e del mele. Vi si trovano serpenti di due braccia con le ali a modo di nottole, i quali volano di notte, e dove lasciano andar alcuna gocciola d'orina, ammazzano quel sopra di chi ella cade. Sonvi similmente scorpioni molto grandi con ale, e vi nascon molti arbori di ebano. I loro cani sono di tanta ferocità che, preso alcuno animal co' denti, non lo lasciano se non si getta lor dell'acqua nelle nari del naso, e son tanto gagliardi che tengono coi denti un lione e un toro, se s'attaccan al mostaccio, e quello non lasciano insino a tanto ch'ei muoia. Nasce ivi un fiume nella parte montana, detto Silia, e cosa alcuna (per leggiera ch'ella sia) non può star sopra la sua acqua, e per questo non si può navigare.
Questo è quanto col debil nostro ingegno abbiamo potuto ritrarre e dai libri degli auttori antichi e dalle parole del gentiluomo portoghese sopra il viaggio di questo Iambolo mercatante.

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